Chiaroscuro milanese

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Moreno Castelli, storie di periferia, noir

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MORENO CASTELLI

CHIAROSCURO MILANESE

Storie di periferia

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CHIAROSCURO MILANESE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-516-8 Copertina: foto di mauro corinti © ontheshadeside.com

Prima edizione Aprile 2013 Stampato da

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.

Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale

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“Invincibili sono quelli che non si lasciano abbattere, scoraggiare, ricacciare indietro da nessuna sconfitta e dopo ogni batosta sono pronti a risorgere e a battersi di nuovo. Chisciotte che si tira su dai colpi e dalla polvere, pronto alla prossima avventura, è invincibile” Erri De Luca

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Inquietudini

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Ormai per me e per gli altri sono soltanto l’uomo che trema. È difficile da credere, ma di tutta quella moltitudine che ero non è rimasto che un incessante balbettio. Intendiamoci, non è che il mio stato mi affligga più di tanto. Quando in passato pensavo a questo momento, il timore più grande che avevo era proprio di ritrovarmi vinto e svuotato dalla malattia, pericolo che per fortuna ho allontanato da tempo. C’è però una cosa che ancora non ho imparato ad accettare, e questa cosa è scoprire la pena negli occhi di chi mi è vicino, mentre dalle loro intelligenze - tutte molto valide - mi aspetterei un comportamento meno irrazionale. Forse risulterò impietoso nei miei giudizi, ma adesso che ho lasciato indietro il peggio, non riesco a vedere nulla di triste in quello che mi sta succedendo. Certo, sarebbe diverso se avessi ancora dei conti in sospeso con la vita e con gli uomini - condizione peraltro normalissima negli individui con parecchi anni alle spalle - ma di fatto così non è. Io appartengo a quella minoranza di privilegiati che i propri debiti li ha sistemati uno a uno - non sempre nella maniera migliore, beninteso - ma in ogni caso li ha sistemati. È per questa ragione che al posto di starmene in un letto a curarmi, alle cinque di mattina sto salendo su di un treno diretto a nord, con uno zaino sulle spalle e gli scarponi ai piedi. Anche un’operazione semplice come questa, ormai, mi richiede un notevole sforzo e molta concentrazione, tant’è che prima di sistemare il bagaglio sono costretto a sedermi per riprendere le energie. Mi manca il fiato, così abbasso un poco il finestrino e do un’occhiata fuori; il cielo è ancora buio, senza luna, e la temperatura fresca rende piacevole la mattinata, ma l’odore di pioggia presente nell’aria non promette nulla di buono. Piano piano il respiro torna a farsi regolare, perciò mi risiedo e provo ad aprire la cartina che tengo sulle ginocchia. Niente da fare, trovare un

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punto o una linea su questa superficie in movimento diventa un’impresa impossibile; non mi resta che riporre la cartina e sprofondarmi nel sedile. Mi metto a fissare le mani inquiete, che inevitabilmente mi riportano indietro a un tempo lontano, a una mattina simile a questa, quando per la prima volta guardai le stesse mani che sto guardando ora, e per la prima volta provai paura.

*** Venivo da una notte così insonne da non tentare neanche l’illusione di addormentarmi. Quando girava in quella maniera, con le mura di casa ad amplificare i pensieri, la sola alternativa possibile per me - da sempre - era il vagabondaggio. Uscendo dal portone con la bici, per un istante pensai di essere solo al mondo, e infatti il cigolio della catena era l’unica nota a risuonare sulle pareti dei palazzi. Percorsi le vie della città senza una meta, fino a quando mi ritrovai all’inizio di via Cesare Correnti, in fondo alla quale intravvedevo la stazione di Porta Genova; anche se ancora buio, potevo già annusare l’alba, così tirai un lungo respiro e mi misi a pedalare in quella direzione viaggiando in mezzo ai binari del tram. La città aveva allentato la sua attività frenetica e finalmente si concedeva agli ultimi gregari come me, una razza di fondisti incrollabili che non si arrendono mai al sonno. Cominciai a spingere, e a spingere, con il manubrio e la sella che mi trasmettevano le sconnessioni del porfido. Mi sentivo come nell’ultimo tratto della Parigi-Roubaix e intorno a me potevo vedere due ali di folla impazzite che si sgolavano per incitarmi. A ogni pedalata percepivo i muscoli delle gambe contrarsi, dettando il tempo al mio respiro come severi maestri d’orchestra. Percorsi velocissimo il lungo viale sfrecciando davanti alla stazione e, quando intravidi il ponticello del naviglio, mollai i pedali lasciando proseguire la bici sullo slancio, per poi rallentare e fermarmi sul culmine. Salii sul marciapiede e mi appoggiai al parapetto chiudendo gli occhi. Le vene delle tempie quasi mi scoppiavano, mentre col respiro riuscivo a malapena a rifornire i polmoni di ossigeno. Mi ci vollero cinque minuti buoni per ritornare a galla, ma una volta

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recuperato lo sforzo, notai che i primi raggi del sole si riflettevano sulla superficie dell’acqua scura, mentre il mio cuore tornava a battere regolarmente, dandomi una bella sensazione di pace. Non durò molto. Come sempre, dopo tanto girovagare, iniziai a sentirmi esausto e solo. Guardai l’orologio. A quell’ora del mattino non potevo contare su molti reduci disposti a condividere un caffè e la prima sigaretta della giornata. Passai in rassegna alcune possibilità, poi presi la direzione del Club Le Folies. Spinsi la bicicletta godendomi il sonno della città e il silenzio irreale delle strade. Arrivato in prossimità del night, però, alcune grida provenienti dal retro del locale mi strapparono ai miei pensieri. Quando mi affacciai sul vicolo, davanti a me si presentò una scena drammatica: due giovani stavano minacciando un donnone che li sovrastava di almeno venti centimetri; uno dei ragazzi avanzava con il braccio proteso impugnando un coltello, mentre la donna, che portava un vestito rosso attillato e delle calze a rete, se ne stava con le spalle al muro, e a sua volta sbraitava fendendo l’aria con la borsetta, nel tentativo di tenere lontani gli aggressori. Lasciai cadere la bici e mi guardai attorno. Accanto a me vidi un cestino dell’immondizia e ne tirai fuori una bottiglia di birra vuota. Le mani mi tremavano moltissimo. Quello con il coltello allungò un fendente che però andò a vuoto e la donna gridò ancora più forte. Un ribollio muto mi salì dallo stomaco e prima ancora di accorgermene colpii con la bottiglia il finestrino di un’auto parcheggiata. La sirena dell’antifurto si mise a suonare, mentre tutte le luci della macchina iniziarono a lampeggiare. I tre si girarono di scatto verso di me, che nel frattempo mi ero messo a correre nella loro direzione tenendo la bottiglia rotta in una mano e aggiungendo le mie urla allo strepitio dell’allarme. Gli aggressori, colti di sorpresa, scapparono a gambe levate. Per un istante anche il donnone fece il gesto di fuggire, ma quando mi riconobbe si lasciò cadere a terra. Mi assicurai che i due non facessero dietrofront, poi mi girai verso di lei: «Ue’ Lola, stai bene? Sei ferita?» La Lola adesso piangeva a dirotto.

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«Mi hanno chiamata mostro, Selmo, mi hanno detto che sono un gorilla...» La voce era incrinata dai singhiozzi, mentre il trucco pesante si mescolava alle lacrime e al sangue che colava dal naso. «Non pensare a quello che ti hanno detto. L’importante è che non ti hanno fatto male. Ma cos’è che volevano?» «Volevano rapinarmi i soldi della serata ma io ho reagito menando calci a destra e a sinistra. Se non avessero avuto un coltello gliela avrei fatta vedere io! Mi sono presa anche un pugno sul naso. Ti prego, dimmi che non è rotto, sennò come faccio a fare lo spettacolo domani sera?» Le esaminai velocemente il volto, reso massiccio dagli zigomi sporgenti. «Stai tranquilla, il naso è a posto. Se ce la fai ti do una mano a rimetterti in piedi.» La presi sottobraccio e l’aiutai con fatica a rialzarsi. Conciata in quella maniera, sembrava un lottatore alla fine di un incontro. Iniziò lentamente a risistemarsi. Quello che doveva essere il seno sinistro le era finito all’altezza dell’ombelico, così infilò una mano nella scollatura e lo rimise al suo posto. Mi guardò per un attimo poi accennò un sorriso malizioso. «Non è che volevi sistemarlo tu?» «Vedo che cominci a stare meglio» le risposi con uno sguardo di finto rimprovero, poi aggiunsi: «Andiamo in un bar a berci un cafferino.» La Lola sembrava pensierosa: «Selmo, tu pensi che sono un mostro?» Io esitai un attimo. «Penso che sei una grande artista e il tuo spettacolo è uno dei più belli della città.» Mi guardò intensamente passandosi una mano sulla testa per ricomporre la parrucca fuori posto che lasciava intravvedere la pelata, quindi ci avviammo un po’ barcollanti verso l’uscita del vicolo e attraversammo il grande viale della circonvallazione, per poi infilarci in un bar sull’altro lato della strada. Quando entrammo, il barista, che stava asciugando dei bicchieri, alzò lo sguardo verso di noi e ci squadrò da capo a piedi interrompendo il suo lavoro. «Potremmo usare il bagno per favore?» gli chiesi.

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L’uomo non rispose subito, ci fissò ancora per un istante poi riabbassò lo sguardo. «La toilette è fuori servizio.» Feci per aprire la bocca ma la Lola mi lanciò uno sguardo rassegnato scuotendo la testa. Avrei voluto coprire di insulti quel barista, ma come sempre mi succedeva in quei momenti, me ne rimasi lì con le parole appese alle labbra, incapace di reagire. Ci girammo lentamente verso l’uscita, senza dire niente. Una volta fuori, la Lola fece segno a un taxi di fermarsi. Strinsi i pugni, temendo che avrebbe tirato dritto, ma per fortuna accostò. «Non offenderti, Selmo, ma preferirei andare a casa da sola. Il caffè lo prenderemo la prossima volta.» I suoi occhi sembravano quelli di un soldato che aveva visto troppe battaglie. «Ok, Lola. Ma sei sicura che vada tutto bene?» «Non va bene, ma va bene lo stesso.» Mi abbracciò forte, poi si infilò nella vettura. La guardai andarsene fino a quando la macchina non sparì svoltando al semaforo. Me ne rimasi con le braccia lungo i fianchi ancora un po’, dopodiché mi ricordai della bicicletta. Entrando nel vicolo vidi che l’allarme aveva smesso di suonare, mentre i vetri rotti per terra erano l’unica cosa rimasta di tutta quella faccenda. Cercai una matita e un pezzo di carta nelle tasche e provai a scrivere i miei dati, ma non ci riuscii. Le mani mi tremavano molto più del solito. Le fissai con odio, poi presi carta e matita e li scaraventai lontano cominciando a scalciare tutto ciò che mi passava a tiro. Dopo alcuni secondi mi piegai sulle ginocchia respirando affannosamente. Quando riacquistai il controllo mi avvicinai all’auto e con un dito incerto scrissi lentamente il mio numero di telefono sul parabrezza sporco, poi ripresi la bici e mi avviai verso l’unico posto possibile.

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Il Baraonda

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Il treno finalmente inizia a muoversi e solo ora sento di potermi rilassare un po’. Nonostante i tanti anni spesi a vagabondare in lungo e in largo, questo essere trasportati da qualche parte, lasciando ad altri la responsabilità dell’attenzione, mi dà ancora un piacere speciale. Ho sempre pensato che essere un viaggiatore non sia qualcosa di misurabile con distanze e latitudini; piuttosto una qualità dell’anima, una particolare capacità di perdersi in impressioni di campagne e paesi in movimento, galleggiando su nuvole di pensieri, lontani dalla routine e dalle preoccupazioni di ogni giorno. Il finestrino si lascia indietro lentamente le case del centro, mentre il treno acquista velocità con l’approssimarsi della periferia. Riconosco da lontano il quartiere della Bovisa, e la mia mente va subito alla sagoma del Cimitero Maggiore poco lontano, così riprendo il filo dei pensieri che la partenza aveva interrotto.

*** Dopo aver pedalato stancamente tutta la città, svoltai nel Viale Certosa, in fondo al quale potevo distinguere la grande croce che sovrasta l’ingresso del camposanto. Con le ultime energie puntai dritto in quella direzione, salvo poi piegare a destra una volta raggiunto il piazzale del cimitero. Entrai con la bici nel parchetto e mi avvicinai lentamente al vecchio fabbricato seminascosto dalle piante. Man mano che mi approssimavo all’edificio, una sottile diffidenza si aggiunse al cattivo umore che mi trascinavo dietro per quello che era successo alla Lola. Mi guardai intorno furtivamente. Tutto sembrava tranquillo, così oltrepassai il cancello chiudendolo con attenzione e feci per dirigermi verso l’entrata. All’improvviso, una massa indistinta di almeno ottanta chili mi piombò alle spalle, e con una testata sul sedere mi mandò quasi

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a sbattere contro l’inferriata. «Stakanov!» gridai «Porcaccia di una miseria, un giorno o l’altro finirà che mi ammazzi, a meno che non lo faccia io per primo!» Stakanov se ne stava piantato davanti a me con la lingua a penzoloni. Era un bastardone indefinibile. Nel suo DNA erano presenti almeno la metà di tutte le razze d’Europa. Il pelo si presentava scuro e inestricabile, simile a un’enorme parrucca rasta. Il nome Stakanov era, più che un eufemismo, una vera presa per il culo. Quel bastardo, pensai, si muoveva solo per dare a modo suo il servizio speciale di benvenuto ai frequentatori del Baraonda, e per di più ci godeva un mondo. Lo capivi dal modo in cui ti guardava dopo averti incornato e magari spedito a gambe all’aria. Gli diedi una bella stropicciata al muso, e lui se ne tornò tutto contento a sdraiarsi sulla sua branda, placido e indolente come un masso. Mi avviai fischiettando verso l’entrata e, una volta dentro, spinsi gli occhiali sul naso strizzando un poco gli occhi. Ancora prima di mettere a fuoco la scena, arrivò puntuale il saluto del Califfo: «Ue’ Selmo, di turno anche stanotte? Occhio a non lavorare troppo che ti vedo un po’ sciupato...» «Fai pure il pirla... ma non hai ancora capito che quelli come me lavorano di fino?» gli risposi secco. «Tanto è inutile che sprechi il mio fiato. Portami il solito al tavolino, che noi intellettuali non abbiamo tempo da perdere.» Così dicendo mi lasciai cadere nella poltrona zebrata dalla quale potevo osservare tutto il locale. Il Baraonda non era mai cambiato. Piazzato proprio a fianco del Cimitero Maggiore, era stato occupato dieci anni prima dai Pirati della 8, con un blitz da autentici guerriglieri. In realtà, l’unico motivo per cui l’occupazione era riuscita e nessuno li aveva più disturbati, era che l’edificio si trovava in condizioni fatiscenti e non era in alcun modo utilizzabile dal Comune, anche se tutti erano convinti che la vera ragione fosse un’altra. Prima di diventare un rudere, infatti, la struttura costituiva un complesso legato al cimitero, formato dal deposito delle bare e dei marmi, dalla taglieria, ma soprattutto dal forno crematorio. Con un pedigree del genere, la scelta del nome venne votata all’unanimità nel momento dell’occupazione, quando i ragazzi si trovarono di fronte a ciò che rimaneva dell’attività precedente.

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Sull’edificio si raccontavano le storie più improbabili, legate soprattutto a misteriosi sibili notturni e all’apparizione di strani bagliori che ricordavano i riverberi del fuoco. Per me quel posto era una seconda casa. A essere onesti, non è che i ragazzi l’avessero trasformato in una reggia; si limitarono a sgomberare i locali, riverniciarono con colori improbabili le pareti e arredarono il tutto con i divanetti e le poltrone più kitch che riuscirono a trovare nei mercatini e nelle discariche. Il capolavoro lo fecero con le decorazioni, i tavoli e il bancone del bar, grazie a una soffiata dello zio dell’Arciompo. Quest’ultimo lavorava al porto di Genova come specialista nel depistaggio di cani antidroga. Chanel, così veniva chiamato lo zio, segnalò al nipote che nel molo più marginale del porto era ormeggiata da mesi una vecchia nave da crociera, completamente incustodita e in attesa di essere smembrata. I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte. Chiesero in prestito lo scalcinato furgone del vecchio Scheggia - rottamaio del Gallaratese nonché principale arredatore del Baraonda - e partirono alla volta di Genova in cinque: il già nominato Arciompo, la Cicuz, il Banana, lo Zio Fester e l’Ardito. L’informazione si rivelò giusta, la nave se ne stava attraccata nell’angolo più remoto del porto, lontano dalle luci e senza nessuna vigilanza. La notte si presentava scura, con nuvole pesanti a coprire la luna; in giro non si vedeva un’anima. I ragazzi parcheggiarono il furgone in un punto nascosto da alcuni container e indossarono le uniformi per la missione. Il Banana fu il primo a prendersi del pirla da tutti quando estrasse il suo giubbotto portafortuna, bianco come la neve e con la scritta fluorescente «ELVIS» stampata dietro. Il Banana derivava il suo soprannome dal ciuffo a incudine che erano diventati i suoi capelli, a forza di dosi elefantiache di gel. Si definiva come uno degli ultimi vecchi rocker ed era convinto che lo spirito di Elvis Presley aleggiasse sui puri come lui. Di sicuro, quella notte, se l’anima del re del rock avesse fatto capolino da quelle parti non avrebbe fatto fatica a individuare il suo discepolo. Al contrario del Banana, la compagnia portò grande rispetto all’Ardito,

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quando quest’ultimo indossò la tuta mimetica di una non ben precisata guerra anticoloniale, completata da stivaloni in lattice nero e dall’immancabile basco d’assalto, che si rivelò in seguito la coppola del vecchio parroco della Mac Mahon, al quale lo aveva sottratto quando ancora faceva il chierichetto. Gli altri tre si arrangiarono con dei costumi neri elasticizzati, avanzati dall’ultima rappresentazione esistenzialista di autofinanziamento, svoltasi al Baraonda. I cinque avevano studiato il piano nei più piccoli particolari; ciascuno avrebbe fatto la sua parte nel minor tempo possibile. Uno dopo l’altro si caricarono sulle spalle l’attrezzatura necessaria a ripulire la nave. Si introdussero all’interno con facilità, facendo saltare a martellate i cardini ormai marci della porta d’ingresso. La velocità e il silenzio erano fondamentali. E infatti, quando furono dentro non volò una mosca. Una volta accese le torce, gli specialisti presero a spostare gli sguardi perplessi dagli attrezzi che tenevano in mano all’arredamento nautico che li circondava. Come al solito fu l’Ardito a rompere l’empasse: «Vada come vada, prima che canti il gallo questa nave sarà vuota!» A quelle parole, gli altri quattro presero coraggio e annuirono convinti, mettendosi al lavoro di buona lena. Alla fine della spedizione, l’unica cosa che li salvò dallo svegliare tutte le capitanerie di porto della riviera fu un violento temporale che scoppiò di lì a poco, e che coprì le martellate, gli insulti e le bestemmie che uscirono dal ventre dell’imbarcazione. Il risultato dell’impresa, però, ripagò abbondantemente le fatiche. Il bar venne smontato e rimontato tale e quale nel Baraonda, mentre le porte con gli oblò, essendo fuori misura per i muri, furono utilizzate come tavoli. In tutti gli angoli del Baraonda appesero lanterne, cordame e strumenti nautici vari, il che dava un tocco esotico all’insieme. Terminati i lavori, il centro sociale sembrava il frutto di un incubo di Andy Warhol durante una navigazione tempestosa nel Pacifico. Per completare l’opera, i Pirati della 8 non vollero dimenticare la storia del Baraonda, perciò decisero di riutilizzare due vecchie casse da morto, dimenticate lì dalla vecchia gestione, impiegandole come espositori per le birre e i liquori. Fu così che nacque il Centro Sociale Autogestito Baraonda, l’approdo

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ufficiale dei naufraghi del circondario. Da quel posto erano partite le battaglie politiche più furenti che il quartiere avesse visto negli ultimi anni. Tra i suoi frequentatori non c’erano grandi intellettuali, ma tutti quelli che presero ad andarci avevano un’idea chiara delle cose che non andavano e che li facevano incazzare. In quartieri come il Gallaratese e Quarto Oggiaro, senza contare gli altri della periferia, per mandare giù certe cose, o eri un gran bastardo o eri un menefreghista cosmico, e c’è da dire che nella zona 8 non mancavano né gli uni né gli altri. Per queste ragioni, le rivendicazioni dei Pirati del Baraonda finirono spesso per andare a braccetto con le proteste dei più deboli. Una delle meglio riuscite andò in scena quella volta in cui anche i pensionati e le mamme con prole presero parte al presidio organizzato per salvare il boschetto secolare situato nel bel mezzo del cimitero. Il bosco rappresentava un luogo di ritrovo e un rifugio dalla calura nei pomeriggi estivi, e non solo per chi si recava al cimitero a far visita ai propri defunti. La direzione del Maggiore aveva deciso di abbattere gli alberi per costruirvi l’Area Vip del cimitero, vale a dire una serie di nuove cappelle per le famiglie altolocate della città. Ai ragazzi questa storia proprio non andava giù; quello spazio era una delle pochissime aree verdi della zona - ed è tutto dire - in più avrebbero dovuto rinunciarvi perché qualche gradasso riccone voleva vivere in un isolamento dorato anche dopo la propria morte... e che cazzo! In quell’occasione, lo Zio Fester - con la sua rifulgente pelata - finì sulle pagine di tutti i giornali locali per la decisione di incatenarsi alla quercia più vecchia, sostenuto da una discreta scorta di whisky, in modo da resistere alle rigide notti di luglio. In tanti lo sostennero nella sua protesta, ammirandolo per la grande passione ambientalista e l’amore che dimostrava per quegli alberi. In effetti lo Zio Fester era molto affezionato a quelle piante, in particolare a quelle che egli stesso aveva seminato proprio all’interno del boschetto, nel punto più nascosto, al riparo da occhi indiscreti, e che di lì a pochi giorni sarebbero fiorite per la felicità sua e di tutti i frequentatori del Baraonda.

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Per entrare nel centro sociale non occorreva nessuna tessera di partito o requisito specifico, infatti, l’atmosfera di estrema libertà che vi si respirava aveva attratto al Baraonda un mix di umanità tanto affascinante quanto improbabile. Alcuni di loro andavano lì perché era l’unico posto in cui farsi un bicchiere o una canna in santa pace, senza sbirri in giro a rompere le scatole. Altri ragazzi lo frequentavano perché non ne potevano più dei genitori sempre troppo ubriachi, troppo fatti, oppure troppo incazzati con la vita, tanto da sentirsi in dovere di sfogarsi sui figli. Ma al Baraonda non entravano solo i giovani. In definitiva quello era il porto franco per tutte le persone della zona che si sentivano fuori posto. Quei cani sciolti forse non erano delle cime, ma di sicuro sapevano una cosa, e cioè che non volevano finire ogni santa giornata in uno squallido bar, con le slot machines e i televisori a trasmettere sempre la stessa merda. Tutto questo rendeva il Baraonda un posto unico e a me calzava come un vecchio maglione che, anche se consumato dagli anni, è sempre un piacere indossare ai primi freddi. Per questi motivi, nonostante la spossatezza, quella mattina mi trascinai fino al locale, sicuro che lì nessuno avrebbe mai negato a chiunque la toilette o una risposta gentile. Fine anteprima.Continua...