Che sei nei cieli ( 18 febbraio 2013) - santippolito.org · Quando il cielo viene posto in...

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1 Che sei nei cieli ( 18 febbraio 2013) Questa invocazione contiene un paradosso innegabile. Simone Weil, ebrea, vi percepiva una certa ironia. In quanto "Padre", egli è Vicinanza. Con le parole "che sei nei cieli" Egli ci sovrasta in una sublimità inavvicinabile. Dal punto di vista ebraico, "padre nostro" senza l'aggiunta "nei cieli" rimanderebbe semplicemente ad Abramo. Un'antica preghiera ebraica, che risale almeno a R. Akiba (+ 135), invoca Dio come " nostro Padre, nostro Re" (avinu malkenu). In Giovanni si trova l'espressione "Padre santo" (17,11). Il Te Deum romano formula lo stesso paradosso con queste parole: Pater immensae majestatis. In Gesù, l'invocazione di Dio come Padre implica una reciprocità unica ed esclusiva. " Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11.27). Grazie allo Spirito, anche noi possiamo partecipare a questa reciprocità. Ciò che Gesù dice qui si compie in ciascuno di noi nella misura del nostro abbandono allo Spirito. Questa reciprocità non è mai perfetta, non è mai conseguita e raggiunta una volta per tutte. Chi, guidato dallo Spirito di Dio, entra nello spazio libero dell' abbandono e dello scambio con Dio improntati all' amore ( 'tutto ciò che è mio è tuo’ ), non conosce più pausa. L’aggiunta di Matteo: «quello nei cieli» (ho en toîs ouranoîs), vuole allontanare il rischio di un’eccessiva familiarità. "Cielo" al plurale designa la residenza propria della divinità. Quando il cielo viene posto in relazione alla terra viene usato il singolare: «Sulla terra come in cielo». Questa aggiunta contribuisce pure a collocare il Padre dei cristiani al di là di ogni chiuso nazionalismo. Israele e il giudaismo si erano costantemente preoccupati di mantenere Yahvé all'interno dei confini del regno o delle mura di Gerusalemme, o, almeno di riservarlo a sé soli. Un chiaro universalismo si trova solo raramente e negli scritti della reazione, come nel breve libro di Giona. Il “cielo” nel linguaggio biblico (che non conosce astratti) è met afora di Dio stesso in quanto trascende, sovrasta la terra, dunque l’uomo soprattutto. Questo s’identifica invece con la terra, perché tratto da essa. Adamo viene da adamah, che è il termine con cui nella Bibbia si indica appunto la terra. Un po’ come i “monti” sono metafora di Dio, proprio perché svettano sulla terra (cf. Sal 115: «i cieli sono i cieli del Signore…»). Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli ”. Quale il significato di questa espressione? La “porta della fede” (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi.... Esso inizia con il Battesimo (cfr Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre… (Benedetto XVI)

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Che sei nei cieli ( 18 febbraio 2013) Questa invocazione contiene un paradosso innegabile. Simone Weil, ebrea, vi percepiva una

certa ironia. In quanto "Padre", egli è Vicinanza. Con le parole "che sei nei cieli" Egli ci sovrasta in una sublimità inavvicinabile. Dal punto di vista ebraico, "padre nostro" senza l'aggiunta "nei cieli" rimanderebbe semplicemente ad Abramo.

Un'antica preghiera ebraica, che risale almeno a R. Akiba (+ 135), invoca Dio come "nostro Padre, nostro Re" (avinu malkenu). In Giovanni si trova l'espressione "Padre santo" (17,11). Il Te Deum romano formula lo stesso paradosso con queste parole: Pater immensae majestatis. In Gesù, l'invocazione di Dio come Padre implica una reciprocità unica ed esclusiva. "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11.27).

Grazie allo Spirito, anche noi possiamo partecipare a questa reciprocità. Ciò che Gesù dice qui si compie in ciascuno di noi nella misura del nostro abbandono allo Spirito. Questa reciprocità non è mai perfetta, non è mai conseguita e raggiunta una volta per tutte. Chi, guidato dallo Spirito di Dio, entra nello spazio libero dell' abbandono e dello scambio con Dio improntati all' amore ('tutto ciò che è mio è tuo’), non conosce più pausa.

L’aggiunta di Matteo: «quello nei cieli» (ho en toîs ouranoîs), vuole allontanare il rischio di un’eccessiva familiarità. "Cielo" al plurale designa la residenza propria della divinità. Quando il cielo viene posto in relazione alla terra viene usato il singolare: «Sulla terra come in cielo». Questa aggiunta contribuisce pure a collocare il Padre dei cristiani al di là di ogni chiuso nazionalismo. Israele e il giudaismo si erano costantemente preoccupati di mantenere Yahvé all'interno dei confini del regno o delle mura di Gerusalemme, o, almeno di riservarlo a sé soli. Un chiaro universalismo si trova solo raramente e negli scritti della reazione, come nel breve libro di Giona.

Il “cielo” nel linguaggio biblico (che non conosce astratti) è metafora di Dio stesso in quanto trascende, sovrasta la terra, dunque l’uomo soprattutto. Questo s’identifica invece con la terra, perché tratto da essa. Adamo viene da adamah, che è il termine con cui nella Bibbia si indica appunto la terra. Un po’ come i “monti” sono metafora di Dio, proprio perché svettano sulla terra (cf. Sal 115: «i cieli sono i cieli del Signore…»).

Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

Quale il significato di questa espressione?

La “porta della fede” (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi.... Esso inizia con il Battesimo (cfr Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre… (Benedetto XVI)

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Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inaccessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, l’infinito. Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida, costituito da acque trattenute da un immenso velo costellato di stelle. Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve (cf Gb 37,9; 38,22). Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne (“Io tengo salde le sue colonne”).

Al di sopra di tutto il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12).

Dio comunicava con la terra tramite gli angeli; essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12); in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane essi si serviranno di ali.

Confessare la trascendenza di Dio, la “differenza” dei suoi pensieri e delle sue vie rispetto alle nostre (cf. Is 55,9) significa proclamare che egli è Santo. Santità tuttavia non significa lontananza, estraneità alle vicende umane e assenza. Anche se l’uomo e il credente sperimenta il suo “silenzio”, proprio perché è e resta “Padre” egli è sempre vicino agli uomini (cf. Dt 4,7). Lo confessava già il pio israelita.

Questa espressione indica la trascendenza del Padre, la sua invisibilità, la sua libertà, in una parola «l'alterità». Dio rimane Altro, inaccessibile all'uomo e tutte le più raffinate indagini teologiche non riusciranno a sondarlo. Tuttavia trascendenza e alterità non sono sinonimo di distanza. Dio è Altro, è invisibile, è inaccessibile ma non lontano. Tant'è vero che - questo è un secondo aspetto - quando noi preghiamo con queste parole, lo riconosciamo esistente prima della nostra invo-cazione. Non esiste perché lo invochiamo, ma possiamo invocarlo perché egli è prima della nostra invocazione ed è oltre la nostra volontà di piegarlo ai nostri schemi e ai nostri progetti.

I miei pensieri non sono i vostri pensieri,

le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore.

Quanto il cielo sovrasta la terra,

tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,

i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55, 8-9).

Tuttavia Dio non è estraneo, né lontano, né opposto. Il profeta Isaia chiama il Signore «Qadosh Israel», Santo d'Israele, che, dal punto di vista della teologia veterotestamentaria, è una contraddizione. Qadosh, Santo, non esprime anzitutto santità morale, ma trascendenza, la separatezza (diversa da "separazione"), la non riconducibilità alla povertà del nostro orizzonte umano. Questa irriducibilità di Dio alla nozione di "medesimo" indica che Egli non esiste in funzione delle no-stre proiezioni mentali, secondo la logica necessitante dei nostri bisogni, rispetto ai quali rimane sempre Altro e libero. E tuttavia non è senza relazione con noi, scegliendo di coniugarsi con il cammino stanco, incoerente, insolente ed infedele di un popolo: Qadosh d'Israele, appunto. Non è lo schifiltoso celibe dei cieli, separato perché estraneo; è il Dio che accompagna il suo popolo e tuttavia rimane Qadosh.

Quale altro popolo ha la divinità così vicina a sé come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? (Dt 4, 7)

Lo stesso cortocircuito è racchiuso nelle parole con cui Gesù apre il nostro dialogo con Dio: «Padre nostro che sei nei cieli». Insieme «Padre» e «nei cieli». «Nei cieli» indica la potenza e la signoria di Dio, «Padre» indica il senso e la direzione verso la quale egli orienta la sua potenza e la sua signoria: l'amorevole cura dei suoi figli. Egli è onnipotente "per" i suoi

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figli, non "contro". «Padre che sei nei cieli» - «Qadosh Israel»: alterità si coniuga con familiarità. Siamo famiglia di Dio, coinvolti in legami forti, potenti e indiscussi.

Dio è alterità che ci ama non perché abbia bisogno di noi, nemmeno perché cerchi qualcuno da invadere. È l'alterità di chi si è ritirato perché esistesse il mondo, come dicono i rabbini. Non ha voluto riempire di sé tutto.

Il concetto del “vuoto a forma di Dio” ribadisce che ogni persona ha un vuoto nella sua vita spirituale che può essere colmato solo da Dio. Il “vuoto a forma di Dio” è il desiderio innato del cuore umano per qualcosa al di fuori di se stesso, per qualcosa di trascendente e “altro”. Ecclesiaste 3, 11 afferma che Dio ha messo “l’eternità nei loro cuori”. Dio ha creato l’umanità per i Suoi scopi eterni e solo Dio può colmare il nostro desiderio di eternità . Tutte le religioni si basano sul desiderio innato di “connettere” con Dio. Questo desiderio può essere soddisfatto solo da Dio stesso e quindi è paragonabile ad un “vuoto a forma di Dio”.

Il problema è che l’uomo ignora questo vuoto oppure tenta di riempirlo con altre cose. Geremia 17, 9 descrive la condizione dei nostri cuori: “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?”. Romani 1,18-22 descrive l’umanità che ignora le cose che si possono sapere di Dio - incluso presumibilmente anche il “vuoto a forma di Dio” - e che adora invece cose che non sono Dio.

Tristemente, molte persone passano la vita a cercare cose che non sono Dio per riempire il loro desiderio di significato: gli affari, la famiglia, lo sport, etc. Ma nel cercare queste cose che non sono eterne, essi rimangono insoddisfatti e si domandano perché la vita rimane vuota. Non c’è dubbio che molte persone cercano cose che non sono Dio per ottenere una misura di “felicità” per un tempo. Ma quando consideriamo Salomone, che aveva tutte le ricchezze, il successo, la stima ed il potere del mondo, ossia tutte le cose che gli uomini desiderano in questa vita, vediamo che nessuna di queste soddisfaceva il suo desiderio dell’eternità. Egli concluse che tutto è “vanità”, ossia che la ricerca di queste cose era vana perché non portavano soddisfazione. Alla fine egli conclude: “Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo” (Ecclesiaste 12,13).

Un perno quadrato non può entrare in un buco rotondo e così il “vuoto a forma di Dio” in ognuno di noi non può essere riempito se non da Dio. Solo attraverso un rapporto personale con Dio per la fede in Gesù Cristo è possibile riempire il “vuoto a forma di Dio” e trovare soddisfazione per il desiderio dell’eternità.

Infatti nella nuova alleanza questo “dato” della Rivelazione si fa esperienza, si fa storia. Infatti, nella pienezza del tempo, i cieli si sono aperti, Dio si è fatto uomo, ha piantato tra gli uomini, sulla terra, la sua dimora (cf. Gv 1,44) e questa terra deserta, arida e senz’acqua è divenuta il campo di Dio.

Tutto ciò è frutto della “condiscendenza” divina, è la prova suprema di un Dio “umile” (humus = terra) disceso dal “cielo”, uomo tra gli uomini, perché questi potessero aver accesso al cielo, dunque partecipi della vita di Dio.

Guardiamo tre gesti con cui accompagniamo la nostra preghiera per cogliere quello che stiamo dicendo.

Anzitutto vediamo che i cristiani pregano il Pater stando in piedi.

I musulmani invece pregano stesi a terra rivelando la loro sottomissione a Dio. Pregando così essi sottolineano la sua assoluta trascendenza e lontananza.

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Noi preghiamo il Padre nostro stando in piedi. E’ la posizione di Colui che è risorto, è il nostro identificarci con Cristo. Nel battesimo siamo infatti passati da morte a vita. Gesù ci ha fatto dono del suo stesso Spirito. Cristo risorto così vive in noi (cf Gal 2,20).

Non ci sentiamo poi schiacciati dalla trascendenza di Dio, siamo costituiti nella libertà e nella figliolanza nei suoi confronti.

Preghiamo volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo. Luogo della trascendenza di Dio. Vogliamo vedere le cose con gli occhi di Cristo sempre rivolti al Padre: infatti è in Lui che sta la verità di noi stessi, della realtà che ci circonda e della storia che attraversiamo.

Così diciamo che egli è Padre che è nei cieli, vicino ma nello stesso tempo avvolto nel suo mistero.

Scrive sant’Ambrogio: “O uomo tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono… Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre… che ti ha redento per mezzo del Figlio e di: Padre nostro!… Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perché ha generato lui solo, noi invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio” (De Sacram. 5,19).

Si prega con le braccia allargate.

Ed è questo il gesto spontaneo con cui il bambino corre incontro al papà o alla mamma.

E’ pure il gesto indicante una disponibilità incondizionata, come quella di Gesù sulla croce: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà” (Ebr 10,5-7)

E’ gesto di invocazione e di intercessione non solo per noi ma per il mondo intero.

Non chiediamo con questo gesto che la volontà del Padre si pieghi alla nostra: al contrario è segno di apertura, disponibilità alla sua volontà; è la consegna di noi stessi.

Quindi preghiamo Dio, nostro Padre in cielo. Naturalmente sappiamo che Dio è onnipresente, è intorno a noi e dentro di noi. Eppure gli uomini di ogni tempo e religione hanno sempre levato gli occhi al cielo pregando Dio. Hanno sempre avuto la sensazione che per sperimentare Dio fosse necessario staccarsi dalla terra e liberarsi delle cose terrene. Il cielo attrae il nostro sguardo verso l'alto.

La parola tedesca per cielo, «Himmel», deriva da «Hemd», camicia, e significa ciò che offre un riparo, copre e protegge. Dio in cielo è il Dio che ci protegge nel nostro cammino, avvolgendoci con la sua amorevole presenza. E la parola cielo ci dice che non possiamo abbassare Dio al livello del pensiero umano. Dio è sceso fino a noi in Gesù. Ha sanato la frattura tra cielo e terra. Talvolta però corriamo il rischio, con i nostri schemi mentali, di concepire un Dio troppo terreno. Il Padre nostro ci invita a levare lo sguardo. Il cielo, la casa del Padre è la vera patria verso la quale siamo in cammino e alla quale apparteniamo. L’espressione “che sei nei cieli” non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.

Nella Lettera ai Colossesi Paolo, guardando Cristo risorto, ci ammonisce; «Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2).

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Ma vale anche ciò che dice il poeta e mistico tedesco Angelo Silesio: «Fermati, dove corri? Il cielo è dentro te! Se cerchi Dio altrove, lo perdi sempre più». Il cielo non è solo sopra e fuori di noi, ma in noi. Se Dio vive nel nostro cuore, il nostro cuore è il cielo. Per i monaci medievali la loro cella era il cielo: «Cella est coelum». La cella è il cielo in cui si rivolgono a Dio in confidenza e in cui si sanno circondati dall'amore divino.

Dio è sempre entrambe le cose: il creatore del mondo intero e l'amico che abita nel nostro cuore. Dio è fuori di noi e in noi. Ma neppure il Dio dentro di noi è a nostra disposizione. Non lo possiamo possedere. Tuttavia, là dove Dio dimora in noi è il cielo. Là siamo protetti. Là la nostra vita angusta si apre e il nostro cuore si allarga.

Il cielo è già in noi. Tuttavia di frequente abbiamo perso il contatto con esso. La preghiera vuole rimetterci in contatto con il cielo che è in noi. Risveglia in noi il desiderio del cielo. È quello che intende sant'Agostino quando scrive: «Rettamente quindi s'interpreta che "Padre nostro che sei nei cieli" significa nel cuore dei virtuosi come nel suo tempio santo. Nello stesso tempo chi prega vuole che anche in sé abbia dimora colui che invoca».

Dicendo «Padre nostro che sei nei cieli» accresciamo il nostro desiderio del cielo dentro di noi. Ed entrando in contatto con questo desiderio intuiamo anche il cielo che è in noi: lo spazio interiore del silenzio in cui il Padre celeste vive in noi per donarci anche adesso l’esperienza del cielo che ci attende al termine del nostro pellegrinaggio.

Gesù ci dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ”(Gv 14,23).

L’espressione “che sei nei cieli” sta ad indicare dunque la totale trascendenza di Dio, ma non la sua lontananza! Evitando anche la banalizzazione e la proiezione di false immagini di Dio.

Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre essa vuole anzitutto eliminare ogni possibile confusione tra i “padri terreni” e il “Padre” da cui proviene ogni paternità.

Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre”, può generare in noi un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile. Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio; la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.

Il peccato ci ha allontanato “dai cieli”, sono essi la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).

La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo. E’ un cielo ormai aperto: “si spalancarono i cieli” durante il battesimo di Gesù, e da allora non sono più richiusi all’uomo. In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati. Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6).

La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione: I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (5,8).

Nel rivelarti che il nome di Dio è Padre, Gesù vuole aiutarti a comprendere fino a che punto ti è vicino e come è intimo a te. Ma quando aggiunge «che sei nei cieli», il Signore ti ricorda che questo Dio, che è tuo Padre, è essenzialmente diverso da tutto ciò che tu puoi immaginare e pensare. Perciò non localizzarlo nello spazio e nemmeno confrontarlo con quello che esiste. Egli è Diverso, il tre volte Santo, di cui non si sa dire nulla e suscita adorazione.

Delle cose create nessuna può darti un'idea o un'immagine. Egli è l'Increato, l'Inimmaginabile; eppure, proprio questo Dio è tuo Padre. Tu puoi dirgli «Abbà».

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Per essere fedele alla verità, prova ad abbracciare in un solo sguardo l'immensità di Dio (il vicinissimo) e la sua trascendenza (il diverso). Questi due aspetti sono complementari. Tener presente di Dio solo la vicinanza e l'intimità (Dio-Amore) e lasciar da parte la trascendenza (Dio-Spirito) ti porta facilmente all'idolatria. Ne faresti un Dio a tua immagine, frutto del tuo cervello e del tuo sentimento, e quindi non lo conosceresti più secondo verità.

Meno grave sarebbe conservare di Dio solo l'aspetto della trascendenza. Vedere le cose in questo modo è incompleto, anche se non è errato. Poiché molto spesso porta all'idea - perfino alla convinzione - che Dio è inaccessibile, sfugge a ogni indagine dell'uomo, e nulla si può dire di lui, nemmeno conoscerlo, quindi non è possibile avere con lui alcuna relazione personale di amore. Di qui il sentimento che Dio è talmente lontano, talmente diverso che non può occuparsi dell'essere umano e che per lui non ha alcun interesse. Questo porta a vivere come se tra lui e noi nulla ci fosse e come se egli fosse estraneo alla nostra vita.

La Buona Novella di Gesù è completamente diversa. Solo essa conserva l'unità tra queste due altrimenti diventano – come dicevamo all’inizio - completamente contraddittorie: l'immanenza e la trascendenza di Dio. Del resto, vediamo questo con Abramo all'inizio dell'Antico Testamento: quando Dio lo chiama e gli si rivela come il «Diverso» esigendo da lui un atto di singolare sottomissione Abramo si rende conto che questo Dio sconosciuto si interessa di lui personalmente (Gn 12), gli dà un nome nuovo e lo colma di benedizioni (Gn 17,5). La stessa cosa avviene con Melchisedek (Gn 14,19-20). o con la conoscenza del Dio immanente, del Dio che interviene nella storia umana ».

Nel cap 3 dell’Esodo si vedono come queste due realtà sono legate tra di loro. «Io sono», di cui non si deve fare immagine alcuna, è anche colui che ha compassione del suo popolo. Dio non si rivela solo come colui che è, ma anche come colui che ama il suo popolo e vuole liberarlo dalla schiavitù. Con Isaia risuona un annuncio straordinario: l'altissimo vuol essere Emmanuele, cioè «Dio con noi» (Is 7,12-14).

Un po' alla volta, il Diverso si fa il Vicino, il piccolo, il bambino di Betlemme. Agli occhi di quanti credono in lui, appare il volto di Dio. Nella sua persona il Padre si fa umanamente presente agli occhi degli uomini: «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9).

Ecco allora tutto il significato delle parole: «Padre nostro che sei nei cieli». Purtroppo questa formula è talmente abituale che per esplorarne la ricchezza, dovrai eliminare l'abitudine. Gesù ti fa pregare così per metterti immediatamente di fronte all'essenziale: il Padre, presenza amante, intima e diversa nello stesso tempo, vicina e inafferrabile. La preghiera non è altro che questo dialogo di amore tra il figlio e il Padre; uno scambio a livello di cuore profondo. Stai dunque davanti al Padre come figlio amato. Così non avrai mai paura di Dio. Potrai abbandonarti a lui come figlio, con fiducia totale, e vedrai spuntare nel tuo cuore la preghiera di lode, frutto del tuo stupore di fronte alla tenerezza del Padre.

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PER LA PREGHIERA

Olivier Clément, Saper guardare l'azzurro, lasciarci invadere,

pulire.

I "cieli" qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un

Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l'assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima;

l'intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l'oceano divino. Poi viene il momento in cui cessa ogni attività

mentale, quando l'uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda

emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell'uomo quando arriva sul bordo di un'alta scogliera, con il

mare che si apre vertiginosamente davanti a lui.

A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il

silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una

chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell'evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si

prosegue, ci si ferma in un'attesa silenziosa, a volte colmata... Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza?

Indubbiamente perché l'azzurro profondo - specialmente nei paesi mediterranei - è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente

ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente - "cielo brillante" - indica la divinità.

Dobbiamo saper guardare l'azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non

vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell'azzurro? Perché vanno verso i mari del sud,

dove l'acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d'azzurro?

S. Agostino, Discorso del Signore sul monte 2,5,17

‘Il nuovo popolo, chiamato all’eredità eterna, usi dunque la voce del Nuovo Testamento e dica: Padre nostro che sei nei cieli, cioè nei santi e nei

virtuosi, poiché Dio non è limitato dallo spazio cosmico. I cieli sono infatti i corpi nel cosmo che si distinguono per bellezza, ma sono sempre corpi che quindi possono essere soltanto nello spazio. Ma se si ritiene che la sede di

Dio sia nei cieli in quanto sono le parti più alte del mondo, di più grande merito sono gli uccelli, perché la loro vita è più vicina a Dio. Però non si ha

nella Scrittura: il Signore è vicino ai giganti e ai montanari, ma si ha: Il

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Signore è vicino ai contriti di cuori (Sal 33,19), ma questo concetto è più

attinente a una condizione di terrenità. Ma come il peccatore è stato considerato terra, quando gli fu detto: Sei terra e alla terra tornerai (Gn

3,19), così al contrario il virtuoso può essere considerato cielo. Difatti si dice ai virtuosi: Il tempio di Dio è santo e siete voi (1Cor 3,17). Perciò se Dio

abita nel suo tempio e i santi ne sono il tempio, che sei nei cieli si traduce con criterio: “che sei nei santi”.

Da “Il mistero dei santi innocenti” di Charles Peguy

Io sono il loro padre, dice Dio. Padre nostro, che sei nei cieli.

Mio figlio l’ha detto loro abbastanza, che sono il loro padre.

Io sono il loro giudice. Mio figlio l’ha detto loro.

Sono anche il loro padre. Sono soprattutto il loro padre.

Infine sono il loro padre. Colui che è padre è soprattutto padre.

Padre nostro che sei nei Cieli. Colui che è stato una volta padre

non può più essere che padre.

Essi sono i fratelli di mio figlio; sono miei figli; sono il loro padre.

Padre nostro che sei nei cieli, mio figlio ha insegnato loro questa preghiera.

Sic ergo vos orabitis. Pregherete dunque così. Padre nostro che sei nei cieli,

ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li amava tanto.

Che ha vissuto tra di loro, che era uno come loro.

Che andava come loro, che parlava come loro, che viveva come loro.

Che soffriva. Che soffrì come loro, che morì come loro.

E che li ama tanto dopo averli conosciuti.

Che ha riportato nel cielo un certo gusto dell’uomo, un certo

gusto della terra.

Mio figlio che li ha tanto amati, che li ama eternamente nel cielo.

Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto.

Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro

che sei nei cieli, queste tre o quattro parole.

Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non supereranno mai.

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Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste tre o

quattro parole.

Queste parole che camminano davanti a ogni preghiera come

le mani di chi supplica camminano davanti alla sua faccia.

Come le due mani giunte di chi supplica avanzano davanti alla

sua faccia e alle lacrime della sua faccia.

Queste tre o quattro parole che mi vincono, me, l’invincibile.

E che loro fanno venire davanti alla loro miseria come due mani giunte invincibili.

Queste tre o quattro parole che s’avanzano come un bello

sperone davanti a una povera nave.

E che fendono l’onda della mia collera.

E quando lo sperone è passato, la nave passa, e dietro tutta la flotta.

Adesso, dice Dio, è così che li vedo; E per tutta l’eternità, eternamente, dice Dio.

Per questa invenzione di mio Figlio eternamente è così che bisogna che io li veda.

(E che bisogna che io li giudichi. Come volete, adesso, che io li

giudichi? Dopo di questo.)

Padre nostro che sei nei cieli, mio figlio ha saputo sbrigarsela molto

bene.

Per legare le braccia della mia giustizia e per slegare le braccia

della mia misericordia.

(Non parlo della mia collera, che non è mai stata altro che la mia

giustizia. E qualche volta la mia carità.)

E adesso bisogna che io li giudichi come un padre. Per quel

che può giudicare, un padre. Un uomo aveva due figli.

Per quel che è capace di giudicare. Un uomo aveva due figli.

Si sa bene come giudica un padre. Ce n’è un esempio ben noto.

Si sa bene come il padre ha giudicato il figlio che se n’era andato e

che è ritornato.

Era ancora il padre che piangeva di più.

Ecco cosa ha raccontato loro mio figlio.

Mio figlio ha svelato loro il segreto del giudizio stesso.

E adesso ecco come mi sembrano; ecco come li vedo;

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Ecco come sono obbligato a vederli.

Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi.

Ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello.

Così la scia immensa dei peccatori s’allarga fino a sparire e a

perdersi.

Ma comincia con una punta, ed è questa punta che viene verso di me,

Che è volta verso di me.

Comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello.

E il vascello è il mio stesso figlio, carico di tutti i peccati del mondo.

E la punta del vascello son le due mani giunte di mio figlio.

E davanti allo sguardo della mia collera e davanti allo sguardo della mia giustizia

Si sono tutti nascosti dietro di lui.

E tutto quest’immenso corteo di preghiere, tutta questa scia

immensa s’allarga fino a sparire e a perdersi.

Ma comincia con una punta ed è questa punta che è volta

verso di me. Che avanza verso di me.

E questa punta sono queste tre o quattro parole: Padre nostro,

che sei nei cieli; mio figlio in verità sapeva quello che faceva.

E ogni preghiera sale a me nascosta dietro queste tre o quattro parole.

Citazioni dei Padri della Chiesa

Fin dalle prime parole la Preghiera del Signore ci introduce negli orizzonti immensi del mistero di Dio e dell’uomo. Il Signore del mondo è il

Dio dell’uomo, il suo Creatore, il suo Padre. Scrive san Tommaso d’Aquino: “L’amore ha impedito a Dio di restare solo”.

Noi possiamo invocare Dio come Padre perché ci è rivelato dal Figlio suo fatto uomo e perché il suo Spirito ce lo fa conoscere.Scrive Tertulliano:

“L’espressione Dio-Padre non era mai stata rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, si sentì rispondere un altro nome. A noi

questo nome è stato rivelato nel Figlio: questo nome, infatti, implica il nuovo nome del Padre.

Attraverso la Preghiera del Signore, noi siamo rivelati a noi stessi, mentre ci viene rivelato il Padre. Scrive sant’Ambrogio: “O uomo, tu non

osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso la terra, e, ad

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un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi

peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono... Leva, dunque, i tuoi occhi al Padre... che ti ha redento per mezzo del Figlio e di’: Padre

nostro!...

La preghiera del Padre nostro deve sviluppare in noi il desiderio e la

volontà di somigliargli. Scrive san Cipriano: “Bisogna che quando chiamiamo Dio "Padre nostro", ci ricordiamo del dovere di comportarci come

figli di Dio”.

E san Giovanni Crisostomo: “Non potete chiamare vostro Padre il Dio

di ogni bontà, se conservate un cuore crudele e disumano; in tal caso, infatti, non avete più in voi l’impronta della bontà del Padre celeste”.

E san Gregorio di Nissa: “È necessario contemplare incessantemente la bellezza del Padre e impregnarne l’anima”. Per recitare

convenientemente il Padre nostro dobbiamo avere un cuore umile e confidente che ci fa diventare come bambini (Mt 18,3) perché il Padre si

rivela solo ai piccoli (Mt 11,25). “Chi recita il Padre nostro tratta con Dio come con il proprio Padre, in una tenerezza specialissima di pietà” (san

Giovanni Cassiano).

Olivier Clément, "È ritrovata. Cosa? L'eternità. È il mare unito al sole"

Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l'uomo sembrano più aver

posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un'assenza nera. L'insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in

cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c'è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l'emozione suscitata dall'azzurro

brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove. Altrove? Nel "cuore" affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale,

in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l'azzurro interiore, colore dello zaffiro, come

osservava Evagrio Pontico.

Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le

forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano

l'intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all'abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e

dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa

vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l'essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica,

silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente,

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parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di

cultura.

Il cielo del cuore di Karl Rahner

Padre nostro che sei nel cielo del mio cuore,

anche se sembra un inferno:

sia santificato il tuo nome,

sia invocato nel silenzio mortale

del mio perplesso ammutolire;

venga a noi il tuo regno.

quando tutto ci abbandona:

sia fatta la tua volontà, anche se ci uccide,

poiché essa è la vita,

e ciò che in terra sembra la fine.

in cielo è invece l'inizio della tua vita:

dacci oggi il nostro pane quotidiano.

facci pregare anche per questo

affinché non ci scambiamo mai con te,

neppure nell'ora in cui tu ci sei vicino,

ma invece notiamo, almeno dalla fame,

di essere povere e insignificanti creature:

rimetti i nostri debiti

e nella prova preservaci

dalla colpa e dalla tentazione.

che in fondo è una sola:

di non credere in te

e nella incomprensibilità del tuo amore;

ma liberaci, liberaci da noi stessi,

liberaci in te,

liberaci nella tua libertà

e nella tua vita.

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