Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

17

description

la pubblicazione realizzata in occasione di Cosa ci faccio qui.

Transcript of Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

Page 1: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia
Page 2: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

CHE CI FACCIO QUICampania on the road

fra scrittori, parole e sapori

Bruno Arpaia &

Ottaviano

Fondazione Premio Napoli - Palazzo Reale, Piazza del Plebiscito - Napoli Tel. 081.403187 - e-mail [email protected] - www.premionapoli.it

Page 3: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

Questa pubblicazione è stata realizzata in occasione dell’incontro Bruno Arpaia & Ottaviano avvenuto il 27 marzo 2011 presso il Castello Mediceo di Ottaviano nell’ambito della rassegna Che ci faccio qui? Campania on the road tra scrittori, parole e sapori.

Page 4: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

3

Che ci faccio qui?, si chiedeva spesso Bruce Chatwin. Era un modo per guardarsi intorno, per stabilire un rapporto non superficiale con i luoghi.

Ed era anche un modo per dichiarare un certo spaesamento genera-le. Sempre più spesso attraversiamo luoghi che non hanno più molto da dirci. Così come può capitare di passare vicini ad altri luoghi che potrebbero rivelarci qualcosa, ma non abbiamo le informazioni giuste.

Tra noi e il mondo esterno si va creando una frattura. Cosa fare? La Fondazione Premio Napoli da tempo perlustra la città nella quale ope-ra, prova a farsi un’idea non generica della sua forma e di chi la abita.

Adesso vuole allargare il raggio d’azione all’intera regione. Si è soliti denunciare un certo napolicentrismo. Si è soliti dire che è urgente una visione che tenga conto di più polarità.

Proviamoci. E proviamoci a modo nostro, collegando luoghi e scrit-ture, e perché no?, anche i sapori che i territori della Regione propon-gono (e per questo avremo l’aiuto prezioso di Antonio Fiore).

Il primo esperimento, una sorta di anteprima, ha riguardato Castel San Giorgio, in provincia di Salerno. E lì che è nato il padre di Jean Claude Izzo. Ed è lì che siamo andati come scrutatori calviniani che vogliono prestare la massima attenzione possibile a quel che vedono, portandosi con sé quel che sanno. E donando alle biblioteche comu-nali i libri che negli anni hanno vinto il Premio Napoli.

Dopo la Ottaviano di Arpaia seguiranno la Vatolla di Vico, la Castel-lamare di Viviani, la Anacapri di Munthe. A questi luoghi e a queste città, si affiancheranno le città dei nostri contemporanei, come la Bi-saccia di Arminio, la Baia di Sovente, la Ravello di Scurati.

Di sicuro, chi verrà on the road con noi, dopo essersi posta la doman-da di Chatwin, saprà come rispondersi.

Silvio PerrellaPresidente della Fondazione Premio Napoli

Page 5: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia
Page 6: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

5

“PAESE MIO”

di Bruno Arpaia

Ah, il grande José Feliciano. E, mi voglio rovinare, perfino i Ricchi e Poveri. Già, perché passano gli anni, passano i decenni, ma ogni volta che sento Che sarà, ogni volta che, da solo o in coro, canto «paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato», non posso fare a meno di pensare al mio, di paese, anche se (o magari pro-prio perché) non ci vivo più da tutti quei decenni. Sta sempre lì, Otta-viano, disteso sulle falde del monte Somma, appollaiato sopra il Vesèri che forse scorre ancora sotto terra, come un passato carsico che non si rassegna a passare; sta lì con la sua Chiesa Madre, con il Castello Mediceo finalmente strappato alle grinfie della camorra e restituito ai cittadini, con le viuzze strette e ripide del centro storico, con quella montagna incombente fatta di lapilli, di querce e di robinie.

Tranquilli: non mi metterò a suonare il languido violino della nostal-gia. Sono andato via da più di trent’anni, ma non coltivo sogni da emi-grante che vorrebbe tornare. E tuttavia è chiaro che la mia «patria» di scrittore sono quelle strade in salita, quei bàsoli sconnessi, quei bar in cui ho giocato a bigliardo da ragazzo, quel ritmo cantilenante del dia-letto che ti si imprime dentro quasi come un ritmo interiore e forgia la tua lingua (letteraria e non), quelle prime ragazze e quelle amicizie forti che durano una vita, quella montagna di lapillo, quelle robinie, quella luce dorata di settembre che le scalpella contro il lapillo nero. E sebbene manchi da molto, troppo tempo, quelle cose continuano a parlarmi nell’orecchio in una lingua che riconosco al volo. Perché è la mia. Perché si cambia vita, faccia, si cambia città, nazione, ma certe ombre ti seguono furtive, e sono sempre lì, in agguato, per ricordare a chi sei diventato cosa sei davvero.

Page 7: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

6

Ma non bisogna nemmeno esagerare: la «patria» di uno scrittore non appartiene soltanto alla geografia. Appartiene anche e soprattutto al territorio della memoria, che quasi mai è un territorio completamente reale. Del resto, Ottaviano è molto cambiata rispetto a quella che ho cercato di raccontare in alcuni dei miei libri. Oggi ci sono quartieri interi che non conosco, strade su strade che non ho mai percorso, case rifatte che scopro al posto di quelle che ricordo; gli amici rimasti mi mostrano quelle novità allo stesso modo in cui mostrerebbero a un forestiero i monumenti più notevoli. E tuttavia, paradossalmente, sol-tanto noi che ce ne siamo andati sappiamo davvero com’era il nostro paese e notiamo fino a che punto sia cambiato; sono quelli rimasti (sebbene pensino di essergli rimasti fedeli e ci considerino un poco «disertori») a non ricordarlo, essendosi abituati giorno dopo giorno ai cambiamenti.

Come dice il mio amico Paco Ignacio Taibo II, «nulla è più esatto dei ricordi se si alimentano con la fantasia». Per questo il mio paese, dentro di me, è ancora vivissimo. E quello che ho provato a raccontare è, dunque, un’invenzione della memoria che cerca di fare i conti con il paese reale, con le sue ferite e le sue glorie. È il paese degli anni Ot-tanta e della camorra che spadroneggiava, della gente che cominciava a morire: gli amici, i consiglieri comunali, i ragazzi «cutoliani» con cui avevo giocato a bigliardo nel bar della piazza, chiedendomi ingenua-mente cosa fossero quei cinque puntini tatuati nell’incavo tra il pollice e l’indice. È il paese in cui, nel settembre del 1978, Pasquale Cappuc-cio, avvocato socialista, fu freddato nella sua automobile. È il paese in cui, poco tempo dopo, la morte toccò Mimmo Beneventano, medico e comunista, appena uscito di casa per il giro di visite del mattino. Nel 1981, ci tentarono con Raffaele La Pietra, segretario della sezione comunista, ma non riuscirono ad ammazzarlo per un vero e proprio miracolo. Purtroppo quei morti continuano ogni giorno a morire per-ché i processi d’appello si conclusero con un’assoluzione generale, sia per gli esecutori sia per i possibili mandanti.

Allora, a caldo, ci volle un po’ a comprendere cosa stava davvero succedendo, fino a che punto don Raffaele Cutolo pesava sulle nostre

Page 8: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

7

vite, fino a che punto politica e camorra si erano intrecciate. Quando capimmo, quando scoprimmo che lì in paese la vita non valeva niente, venne la paura, che ti toccava come se fosse un dito, una fredda canna di pistola. Tornavi a casa la sera e speravi di non incontrare nessuno, di non assistere a nulla che ti avrebbe potuto compromettere. Accorrevi a vedere i morti della guerra per bande e pensavi di dover fuggire. Erano i tempi del «riflusso». Senza che ce ne fossimo resi conto, era stato quel nostro fitto parlare di politica, quel non volere vivere da pri-gionieri nel nostro io deserto, ad arginare la camorra, a fare barricate. E invece, a mano a mano che quei ragazzi idealisti che eravamo stati battevano in ritirata, abbandonavano le piazze e le strade, ecco che la malavita organizzata le occupava: a modo suo, di forza, a ferro e fuoco. Poi dilagò. Grazie al terremoto del 1980, strinse ancora di più i legami con il potere, ebbe contatti «impropri» con il terrorismo e con i servizi segreti, e adesso, inutile negarlo, è ancora lì in agguato.

Già, adesso. Una volta, se per sorte o sfortuna ci eri nato, la provin-cia poteva regalarti, senza vie di mezzo, «la grazia o il tedio a morte» di cui canta Guccini. Ma adesso che la provincia non esiste più? Ora che tutto il mondo è un’unica provincia tutta uguale, un’identica rete virtuale, un tempo ubiquo che conosce soltanto il suo presente? Non so, basta guardarsi in giro e viene lo sconforto, il dubbio che sia tutto inutile. Nel disastro generale di questo paese che è l’Italia, il Sud mi sembra affondare sempre più. E Ottaviano, purtroppo, non fa eccezio-ne. Soffre, come l’Italia e il Sud, di quella malattia di cui ha parlato Giuseppe Montesano, una malattia che «giace a grande profondità, ed è una mescolanza esplosiva di egoismo sociale e nichilismo, di rasse-gnazione atroce e di sfiducia assoluta».

Però. Però. Parafrasando Benjamin, mi azzardo a dire che, da vecchio beduino, mi sembra di captare nel deserto segnali, indizi, tracce di qualcosa che si muove, di anticorpi, magari deboli, magari confusi e impacciati, che si sforzano di combatterla, quella malattia: sarà qual-che amministratore che mi pare si impegni con energia; sarà la passio-ne, l’impegno e la conoscenza con cui oggi i miei amici parlano di ciclo dei rifiuti e di raccolta differenziata, sgridandomi se sbaglio cestino

Page 9: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

8

quando butto una cartaccia; saranno quelle centinaia di ragazzi com-mossi ed entusiasti che ho visto pochi mesi fa al Castello del Principe in occasione del trentennale della morte di Mimmo Beneventano… Lo so, lo so: chi di speranza campa… Ma in molti di quegli occhi ho visto finalmente, e nonostante tutto, una sottile scintilla di futuro.

Page 10: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

9

“Il PASSAtO dAvAntI A nOI”

Che ci sei nato a fare in un paese, se poi, quando ci torni, ti guardi in giro e non vedi nemmeno uno straccio di campagna tra un comune e l’altro? Appena dopo Napoli, lungo la strada che alle spalle del Ve-suvio costeggia il monte Somma, ormai ci sono quasi solo case. Case basse e palazzi, case abusive, case venute su in fretta e nemmeno intonacate, con i mattoni di tufo ad asciugare all’aria come panni stesi. Di tanto in tanto, in qualche spiazzo pieno di malerba, trovi dei capannoni con via i vetri e le strutture di ferro arrugginite, oppure infilate di container come dei monumenti al terremoto di tanti anni fa. Lo chiamano “degrado”, ma è solo una parola, buona per tutti gli usi. Per te che ci sei nato in mezzo, invece, è una specie di imprinting, un colpo d’occhio che hai imparato a riconoscere soltanto quando te ne sei separato. Adesso, te ne accorgi: lo vedi nelle strade dissestate, nei cornicioni pericolanti, nelle viuzze scure strette tra file di palazzi in bilico, nei cortili sterrati sempre sul punto di trasformarsi in paludi alle prime gocce di pioggia, negli sterpi e nelle erbacce che aggrediscono indisturbati le pareti e le scale. Peggio: nella volgarità invadente di una ricchezza guadagnata male. Ma un tempo, almeno, c’era la cam-pagna, e ti potevi rotolare giù dalle scarpate o raccogliere le nespole sull’albero… Oggi, nemmeno quella.

Adesso, mentre guidi cercando di evitare le buche appena fuori l’au-tostrada, ti consola soltanto il panorama degli Appennini oltre la pia-na di Pomigliano e Nola; a destra, invece, il monte Somma: dopo le case che ci si arrampicano in cordata, cominciano i boschi di robinie, aggavignate sulla terra nera, lavica, che sotto il sole pare ancora calda dell’ultima eruzione di lapilli. Ma bisogna ammirarlo da lontano, il panorama, avere un punto da cui guardare in prospettiva. Se no, non te lo godi. Appena ti ci cali dentro, a quel paesaggio, ecco di nuovo

Page 11: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

10

le strade rognose di munnezza, di buche e avvallamenti, i marciapiedi sconnessi, gli spiazzi incolti, le piazze stremate di automobili e le ai-uole spelacchiate di paesi che sono diventati un solo suburbio sconfi-nato: solo macchine in coda, negozi pretenziosi al posto di botteghe, e un’aria da periferia mancata, da sobborgo di una città lontana, lon-tanissima, inventata.

Adesso quella strada non la fai più a memoria: ti tocca scrutare sui segnali, cercare di riconoscere gli incroci. Ecco, arrivato. Ti avverte, prima di un dosso, un cartello sbilenco col nome quasi cancellato. Lo sai, te l’hanno detto, che dietro quella curva, oltrepassato l’arco della vecchia masseria, c’è un intero quartiere che non hai mai visto. Quan-do ci andavi tu, a San Severino, con i compagni, a fare “i caseggiati”, c’era solo una fogna a cielo aperto e tre baracche di contadini poveri che vi scacciavano urlando e aizzando i cani. Più giù, passata la sta-zione, al posto della terra in cui ti avventuravi a rubare le albicocche e le ciliegie, ti hanno raccontato di altre case e strade, di villette a schiera, di palazzi, negozi e condominii. Quanti anni che ci manchi? Cinque, sei? Adesso non ti va di fare i conti esatti. Però non ti aspettavi l’assalto di quella strana sensazione addosso, di quell’angoscia sorda che assomiglia fin troppo alla paura.

Le volte scorse, quando ci tornavi, potevi fare finta di non vedere nulla: solo tua madre, la visita alla vecchia zia, alla cugina Armida che ti sta simpatica, poi ti restava la tua personalissima via crucis della memoria, dal basso in alto, dalla pianura al monte, su per stra-dine appese con i polpacci che ormai si lamentavano, che non erano più abituati alla salita. Erano sempre le stesse, le stazioni, e sempre avevano a che fare con i vivi e i morti: al cimitero, a chiacchierare muto davanti alla tomba di tuo padre; nel centro antico, attorno alla piazzetta e al vicolo dov’eri nato ormai tanti anni prima; davanti a quel cancello dove ammazzarono il tuo amico consigliere comunale; in cima alla montagna, tra le felci, i nocciòli e le robinie, fino allo slargo dove la strada muore, poi dietrofront per rifugiarti ancora in casa di tua madre. Stavolta no, è diverso. Stavolta, in mezzo ai guai, ti sei cacciato tu, con le tue mani. Provare a raccontare ti è sembrato

Page 12: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

11

un debito, un dovere. Ora devi ficcarci il naso dentro, al tuo paese, e solo ad arrivarci già stai rimasticando la stanchezza, la noia, la rabbia, l’impotenza di tanti anni fa, di quando hai detto basta e sei partito. Adesso, a casa di tua madre, seduto sul balcone che affaccia sulla piazza principale, pensi che quella piazza, allora, ancora non sembrava un’autogrill, attraversata da una ciurma di auto e motorini, squassata da rombi di marmitte, illuminata da quei lampioni gialli da autostrada: solo trent’anni fa, c’erano ancora le lampade sospese tra le case che le sere d’inverno, con il vento, agitavano la loro luce pallida e a stento ritagliavano le ombre nel silenzio.

No, no. Non è che prima fosse molto meglio. Però il filo dei giorni non era tanto appiccicoso, sospeso a un nulla denso come adesso. Qualcosa si muoveva, allora. Perciò ti fanno male, le radici. Sono pa-renti a un sonnacchioso morbo tropicale, che va e viene, aggrappato ai più perfidi ricordi, quelli che non hanno bisogno di madeleines per tornare improvvisi dal passato. Accendi senza voglia un’altra sigaretta e pensi che su al Nord, perduto in quel reticolo ordinato di strade e di semafori, in quel piattume senza prospettive, vivi come se fossi sem-pre in transito per i tuoi spiccioli di mondo. Eppure, a forza di guardare quella piazza, la gente che si muove, si agita sguaiata, urla arrogante come se fosse sua perfino la terra che calpesta, capisci che laggiù non ci ritornerai mai per davvero. Che sarai sempre in viaggio fra la tua vita e un ricordo pasciuto di speranza. Ti tocca questo, e non è peggio di tanti altri destini. Basta saperlo. Perché è in mezzo a quei vicoli, nel caffè La Ginestra in quella piazza, sopra i binari della Vesuviana, nei boschetti di felci e di robinie, che è cominciata per te tutta la storia. Perché, gira e rigira, più srotoli il gomitolo di quello che sei stato, più i fili ti riportano a quel paese che ormai sembra un vestito smesso. Perché è così, è normale. Non la si fa finita con il tempo, mai.

Page 13: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

12

BIOGRAFIA

Bruno Arpaia è nato nel 1957 a Ottaviano, in provincia di Napoli. Scrittore, giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e lati-noamericana si è laureato in Scienze politiche nel 1979 con una tesi in Storia dell’America latina. Dopo aver insegnato per qualche anno all’Università di Napoli, ha intrapreso la carriera giornalistica al “Mattino” di Napoli, appro-dando nel 1990 a “la Repubblica” fino a diventare caposervizio.

Dal 1998 è ritornato a svolgere attività di freelance, e da allora collabora con l’inserto domenicale de “Il Sole 24 Ore” e con “Qui Touring”.

Oltre ad aver scritto centinaia di recensioni, diversi articoli su riviste e molte prefazioni ad autori spagnoli e latinoamericani, è autore di un saggio dal titolo La morte al presente. Saggi sul nuovo romanzo latinoamericano (Pironti, 1984) e di un libro-conversazione con Luis Sepúlveda dal titolo Raccontare, resistere, Guanda, 2002, e TEA, 2003. Per Guanda ha curato e scritto la prefazione del vo-lume Del racconto e dintorni, che raccoglie alcuni saggi dello scrittore argentino Julio Cortázar.

È stato inoltre il curatore del Meridiano Mondadori del secondo volume delle opere narrative di Gabriel García Márquez. Per il gruppo Longanesi, è consulen-te editoriale di letteratura spagnola, catalana, portoghese e iberoamericana. Ha tradotto, fra gli altri, José Ortega y Gasset, Camilo José Cela, Jorge Volpi, Ignacio Martínez de Pisón, Carlos Fuentes, Gabriel García Márquez e Paco Ignacio Taibo II, pubblicati da vari editori, e ha vinto nel 2002 il Premio Instituto Cervantes come miglior traduttore italiano dal castigliano.

Nel 2006 ha vinto il Premio Napoli con il romanzo Il passato davanti a noi.

ROMAnZI

• I forestieri, Leonardo Editore, 1990. Premio Bagutta- Opera Prima nel 1991• Il futuro in punta di piedi, Donzelli, 1994.• Tempo perso, Marco Tropea editore, 1997; Guanda, 2003. Premio Hammet

Italia 1997.• L’Angelo della storia, Guanda, 2001. Premio Selezione Campiello 2001 e

Premio Alassio Centolibri - Un’autore per l’Europa 2001.• Il passato davanti a noi, Guanda, 2006. Premio Napoli e Premio Letterario

Giovanni Comisso 2006.• Per una sinistra reazionaria, Guanda, 2007.

• L’energia del vuoto, Guanda, 2001.

Page 14: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

13

HAnnO SCRIttO dI lUI

Bruno Arpaia è uno di quelli che affrontano l’arte e la letteratura con l’unica ambizione di essere coerenti con la vita e con l’epoca che gli è toccato vivere.

luis Sepúlveda

Facciamo i nostri complimenti al talento narrativo di Bruno Arpaia, alla sua eleganza efficace, alla sua chiara semplicità, capaci di anima-re parimenti questi 2 personaggi, di porli in un clima d’epoca, il campo di rovine della cultura e della civiltà europee, il montare del nazismo, l’aspra crudezza della guerra di Spagna, l’abulia francese, con una di-sinvoltura discreta che fa pensare a certi romanzi di Mario Vargas Llosa.

daniel Rondeau, L’Express, Francia

Il successo del romanzo di Arpaia risiede nelle sue delicate evoca-zioni della vita quotidiana di Benjamin durante gli anni parigini, con le truppe naziste in marcia, lontane e invisibili. E’ possibile quasi udire gli stivali calpestare il selciato, i carri avanzare pesantemente attra-versando la frontiera francese, mentre Benjamin è pigramente chino su un volume di poesie all’interno di caffè inondati di fumo. Benjamin si incontra spesso con gli amici al Deux Magots per giocare a scacchi e discutere di libri: Arpaia ha completamente assorbito la scena, gli amici, gli argomenti caldi di discussione. Le correnti intellettuali del tempo fluiscono nella sua prosa, che emula in modo intrigante lo stile dello stesso Benjamin, con la sua attenzione ai dettagli, i suoi attacchi e la sua misuratezza, le sue frasi che si intrecciano e si intersecano.

Jay Parini, The Guardian, Gran Bretagna

Page 15: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

14

L’angelo della storia è un romanzo senza trucchi né artifici e la sua atmosfera si rifà a quella de Il mondo di ieri, le memorie che Stefan Zweig scrisse poco prima di suicidarsi, perché il futuro intravisto per gli esseri umani da Zweig e Benjamin era altrettanto desolante. La sconfittà della civiltà: era questo il tema centrale dell’autobiografia di Stefan Zweig. Lo stesso di questo magnifico romanzo di Bruno Arpaia.

Ignacio Martínez de Pisón, El País, Spagna

Bruno Arpaia conosce il disincanto non solo della sua generazione. Ha raccontato la Spagna del 1934 in Tempo perso, e la trappola emo-tiva che inghiottì Walter Benjamin, in fuga dal nazismo, ne L’angelo della storia. Ha lasciato il Sud per Milano. Ha lasciare la cronaca per la letteratura. Bruno Arpaia conosce il rimpianto. Ama i suoi personaggi per quanti errori, ingenuità, misfatti abbiano accumulato in quel tem-po che fu tante cose, anche odio e inganno. Scrive di quel segreto che li tiene a galla, «quell’aria di fraternità, dì collettivo» che si stampò sul corpo «come una cicatrice, poi come un lungo, lunghissimo rimpianto che è stato il filo rosso delle vostre vite». Le quali mai sono confluite nel grande fiume che trionfa in mare, ma hanno viaggiato «goccia a goccia, come acque carsiche misconosciute, eppure imprescindibili, che ogni tanto scintillano di nuovo in superficie». Sempre custodendo un tempo che non ha più attenuanti, andava chiuso. E adesso final-mente ricordato.

Pino Corrias, La Repubblica, Italia

Page 16: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

15

Il CAStEllO MEdICEO dI OttAvIAnO

All’inizio fu un castrum longobardo trasformato nel tempo in maniero che fu residenza di molti nobili, come Fabrizio Maramaldo, don Cesare Gonzaga ed il figlio don Ferrante, prìncipi di Molfetta, fino a quando nella seconda metà del XVI secolo ne divenne proprietaria la famiglia dei Medici. Nel 1567 Bernardetto de Medici e la moglie Giulia lasciarono Firenze e acquistarono il castello e il feudo di Ottaviano per cinquanta-mila ducati. Bernardetto, cugino di Cosimo de Medici, colto e raffinato aveva nutrito simpatie per la Riforma, come tanti intellettuali italiani, e nel napoletano l’atmosfera era relativamente più tollerante e libera. Alla sua morte la moglie fece costruire per i domenicani di Ottaviano il convento del Rosario nella cui chiesa riposano diversi membri della famiglia de Medici. La nobile famiglia fiorentina fu molto legata a Ottaviano e il massimo dell’affetto per il castello e la sua storia si deve al principe Giovanni Battista de Medici, diretto discendente della famiglia di Lorenzo il Magnifico. È proprio in questo periodo che il palazzo acquista il suo aspetto rinascimentale.

Una leggenda popolare, in virtù dei grandi saloni e dei maestosi affreschi, lo descrive come il “palazzo dalle 375 stanze” che resterà di proprietà dei Medici fino all’unificazione del regno d’Italia nel 1861.

Per le notizie sui Medici, principi di Ottaviano, vi sono due testi cu-rati da Raffaele D’Avino, in una ricerca della Scuola Media Statale di Ottaviano, e da Carmine Cimmino.

Per arrivare, tra varie vicende, al 1980 quando il Palazzo fu acqui-stato da una società immobiliare, per conto del capo storico della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. Per anni la maestosità del palazzo è stata sinonimo del potere della camorra e dell’impotenza dello Stato, fino a quando nel 1991 il “Palazzo del Principe”, venne confiscato dallo Stato. Ma come spesso accade, rimase inutilizzato,

Page 17: Che ci Faccio Qui - Ottaviano&Arpaia

16

e, come se non bastasse, abbandonato a se stesso. In quel periodo, hanno rubato di tutto, statue, lapidi, dipinti e distrutto affreschi, fino a che, per fortuna ancora in tempo la Soprintendenza per i Beni Archi-tettonici, il Paesaggio e per il Patrimonio Storico Artistico e Demoan-tropologico di Napoli ha ripreso e completato i restauri. Tanto è stato l’amore con cui si è affrontato il restauro del castello che per ritrovare il colore originale della facciata settecentesca è stato, addirittura, fat-to restaurare il celebre quadro dipinto da Pierre Jacques Volaire nel 1776, raffigurante Maria Giovanna de Medici e Sigismondo Chigi che partono da Ottaviano dopo le nozze, dove è ritratto il castello con il suo colore originale, luminoso e festante.

Finalmente, il 22 aprile 2008 è la legalità ad avere il sopravvento: il Palazzo Mediceo viene riconsegnato alla sua città e diviene sede del Parco Nazionale del Vesuvio.