CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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CENNO STORICO DELL’ISOLA DEL GIGLIO di ANDREA BRIZZI. I primi abitatori del Giglio - Gli Etruschi I Romani Giglio durante le invasioni barbariche Gli Abati Cistercensi Gli Aldobrandeschi, I Conti Orsini I Pisani, I Fiorentini Pace di Pescia, Pisa in potere di Firenze,La Repubblica di Siena, Alfonso d’Aragona Re di Napoli, I Piccolomini d’Aragona, I Medici, II Giglio nel secolo XVI, I Gigliesi nel secolo XVI, I Barbareschi, Amministrazione degli interessi locali, I Lorenesi, II Giglio e i gigliesi nel secolo XVIII, I Francesi, I Lorenesi, Regno d’Italia, I Gigliesi nel secolo attuale.

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ANDREA BRIZZI

CENNO STORICO

DELL’ISOLA DEL GIGLIO

CIRCOLO CULTURALE GIGLIESE

1985

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I N D I C E

Introduzione ................................................................... pag. 7

CAP I. - I primi abitatori del Giglio - Gli Etruschi ...... » 9

CAP II. - I Romani ..................................................... » 13

CAP III. - Giglio durante le invasioni barbariche ......... » 18

CAP IV. - Gli Abati Cistercensi ................................... » 23

CAP V. - Gli Aldobrandeschi - I Conti Orsini ............ » 26

CAP VI. - I Pisani - I Fiorentini ................................... » 28

CAP VII. - Pace di Pescia - Pisa in potere di Firenze - La

Repubblica di Siena ........................... » 32

CAP VIII. - Alfonso d’Aragona Re di Napoli - I Piccolo-

mini d’Aragona - I Medici.................... » 37

CAP IX. - II Giglio nel secolo XVI ................................ » 42

CAP X. - I Gigliesi nel secolo XVI ............................... » 48

CAP XI. - I Barbareschi .............................................. » 52

CAP XII. - Amministrazione degli interessi locali ......... » 60

CAP XIII. - I Lorenesi .................................................... » 67

CAP XIV. - II Giglio e i gigliesi nel secolo XVIII ............... » 75

CAP XV. - I Francesi - I Lorenesi - Regno d’Italia .......... » 79

CAP XVI. - I Gigliesi nel secolo attuale ........................... » 85

Bibliografia ...................................................................... » 93

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INTRODUZIONE

Grazie a questo «Cenno storico dell’Isola del Giglio» Andrea Brizzi,

vissuto nella seconda metà del secolo scorso, può essere senz’altro annoverato, assieme a Daniele Manzini, al conte Vincenzo Mellini Leon

de Poncé, a Stefano Sommier, all’Arciduca Luigi Salvatore d’Austria, al colonnello Nello Paolicchi ed a suor Angela Teresa Sala, fra i massimi

cultori di studi sulla storia dell’Isola del Giglio. Nato al Giglio, Andrea Brizzi studiò a Pisa dove si formò una vasta

e profonda preparazione in varie discipline. Tornato nella sua isola ricoprì, fra l’altro, la carica di notaio e di segretario comunale. Fu grazie a

quest’ultima occupazione che ebbe modo, nell’allora integro archivio storico del Comune, di attingere tutte quelle preziose ed interessanti

notizie contenute nel presente lavoro. Anche per i lontani periodi protostorici per i quali non esisteva

documentazione alcuna, la sua intelligenza e la sua preparazione gli consentirono una ricostruzione storica per induzione che fanno del suo lavoro un’opera estremamente attuale: infatti le sue conclusioni sono state regolarmente confermate da tutte le successive scoperte

archeologiche. L’eccezionalità della fatica del Brizzi consiste però nell’aver salvato

alla storia i contenuti degli antichi statuti gigliesi. Come è noto, nel medio evo ogni piccola comunità disponeva di

un proprio statuto, ossia di una raccolta di norme legislative locali (ordinamenti giuridici particolari cui si contrapponeva la «lex»,

manifestazione normativa tipica dell’autorità suprema, cioè dell’«imperator»).

Il Brizzi ebbe la fortuna di consultare appunto il «Libro degli

Statuti del Giglio», un volume di carta pergamenacea rilegato in marocchino rosso. Era stato scritto il 25 Ottobre del 1558 dal giudice e

notaro Giovanni del fu Anseno Billo, basandosi sugli statuti più antichi, alcuni scritti in latino.

Il «Cenno storico dell’Isola del Giglio» fu pubblicato, fra il 1898 ed il 1900, a puntate sul giornale grossetano «L’Ombrone». Purtroppo le

raccolte complete del suddetto giornale conservate alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ed alla Biblioteca Chielliana di Grosseto

andarono in parte distrutte dall’alluvione del 1966.

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Ma nel 1977 in una modesta casa di Pisa, un pensionato, Osvaldo Brizzi, figlio di Andrea, grazie ad alcune vecchie copie de «L’Ombrone» e

agli appunti del padre, ricostruì l’intera opera di cui, prima di morire, volle depositario il Circolo Culturale Gigliese.

Le notizie contenute nel presente volume, sopravvissute alla furia devastatrice dei pirati che tante volte depredarono l’isola, all’usura del

tempo, all’incuria degli uomini, alle alluvioni, vengono ora restituite alla conoscenza di tutti: fare questo era non solo un obbligo morale nei

confronti di Andrea Brizzi ma anche un dovere storico.

IL CIRCOLO CULTURALE GIGLIESE

ISOLA DEL GIGLIO, GENNAIO 1985

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CAPITOLO I

I PRIMI ABITATORI DEL GIGLIO - GLI ETRUSCHI

Quali furono i primi abitanti del Giglio?

Naturalmente non si può ammettere la teoria favolosa degli aborigeni o autoctoni; quindi è che, per rispondere a simile domanda

occorre dare uno sguardo ai primi abitatori di quella regione, che poi fu la VII di Augusto l’Etruria, che equivale, press’a poco, alla Toscana

attuale. Stando ai fatti paleontologici ed archeologici, appare indubbio che

nell’epoca preistorica, e precisamente quella che i naturalisti chiamano età della pietra, i Liguri si erano spinti, dal dorso dell’Appennino

settentrionale, fino nel cuore della media Italia, nel Lazio. Ed infatti Siculi e Liguri si sarebbero trovati insieme là dove sorse

Roma (Verrio Flacco in Festo, e Dionigi di Alicarnasso). Ma i Liguri non si estesero soltanto fino al luogo ove sorge l’alma

città di Roma: si spinsero anche nelle isole; e così li troviamo nell’Elba che fu denominata, da loro, Ilva, nome comune d’un altro popolo ligure

(gli Ilvetes), e nella Corsica, cui imposero il nome d’un altro popolo ligure (i Corsi), Kyrnos.

Un popolo che si spinge sì arditamente per mare fino a raggiungere la Corsica; che si è impadronito dell’isola più importante

dell’arcipelago toscano, non poteva mancare di occupare le altre isole ad essa vicine, specialmente quelle più prossime al continente, come isole a

cui era più facile l’approdo. E tale considerazione non poteva mancare anche per un altro

riguardo. Sforniti delle cognizioni occorrenti per navigare sicuramente; privi

di mezzi e di navi che resistessero vittoriosamente alle furie del mare, bisogna di necessità ammettere che essi procedessero, dirò così, a passo

a passo; e quindi, partendo dal continente, dovevano soffermarsi nelle prime terre che trovavano, per impiantarvi una stazione, e quindi

slanciarsi ancora, in cerca di altri lidi ignoti, e poi di altri ancora, e via dicendo.

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L’elbano Raffaello Foresi raccolse e inviò, nel 1867, alla Esposizione Mondiale di Parigi, diversi oggetti preistorici, rinvenuti nelle

varie isole dell’arcipelago toscano; e, tra questi, tre punte di frecce scheggiate, con peduncolo e alette, trovate nell’isola del Giglio.

Di queste tre punte di freccia — che ora trovansi nel Museo Archeologico di Firenze — due sono di diaspro ed una di silice.

Anche il geografo e naturalista marchese Giacomo Doria, il quale soggiornò a lungo — specialmente dal 1895 al 1900 — al Giglio, ebbe

una punta di freccia, di silice, ritrovata in quell’isola. Non è improbabile che altri di simili oggetti potrebbero trovarsi, e

che anche oggi qualche famiglia ne sia in possesso, ma non li rivela, più che per ignoranza, per mera superstizione, ritenendoli quali misteriosi

amuleti. Il diaspro ed il silice figurano tra i minerali gigliesi; e ciò è confer-

mato da Giuseppe Giuli e dal Prof. Antonio D’Achiardi, già mio illustre maestro di mineralogia nella R. Università di Pisa.

Ebbene, è ardito il supporre che le punte di freccia rammentate siano state lavorate in loco, con minerali appunto che erano a libera

disposizione di quei remoti abitanti? Ad ogni modo, quegli oggetti rimarrebbero sempre prova

manifesta di gente che li usava, e che li avrebbe importati; ossia dell’andata dei liguri in quell’isola.

La mia è un’induzione, una semplice induzione; ma ritengo per fermo che tutto l’arcipelago toscano, prima, la Corsica, poi, furono abitati

dai Liguri. Quindi anche il Giglio, di cui, probabilmente, queste genti furono i primi abitatori.

Ligures montani duri et agrestes, li dice Cicerone; pernix Ligus, Silva Italicus; Ligus asper, Avieno; ed è un fatto che i Liguri erano non

solo terribili in terra, quali si conveniva alla loro natura semi-selvaggia, ma si gettavano sul mare, dove cercavano di compensarsi dell’asperità

del suolo occupato, facilmente spinti dalla bramosia d’avventure, per cui il buon Virgilio chiamò quelo popolo «assuetus malo Ligur».

Ma dal 1200 al 1000 a.C. all’incirca, compariscono popoli nuovi,

che ricacciano i Liguri nelle sedi che conservarono poscia nelle epoche istoriche e a cui, da essi, rimase il nome: la Liguria, come già

precedentemente, fra il 2000 e il 1500 a.C., gli Itali li avevano cacciati dalla regione nordica italiana.

Questa la leggenda. Però è un fatto che, o si ammetta la teoria lidica di cui uno dei più validi sostenitori è il Deeke, e che novera tra i

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suoi seguaci il Brizio e il Duhn — o che, con il Corsen e il Nissen, l’Helbig, il Lattes, si ammetta la calata in grande massa degli Etruschi,

questi rimasero padroni di quella regione che Tuscia, Etruria fu detta, indi Toscana.

Gli Etruschi — o Tirreni da Tirseno o da Thyrra, città della Lidia da cui vennero, o Rasenne, dal nome d’un popolo italico (liguri) che essi

avrebbero ridotto in servitù — fecero sentire la loro potenza non solo in terra, ma anche in mare: occuparono l’Elba, che offriva loro le ricche

miniere di ferro; li troviamo collegati con i Cartaginesi; conquistano la Corsica (Diodoro), la Sardegna (Diodoro, Strabone), e tutte le isole tra

questa e il continente sono nelle loro mani. Non è, quindi, davvero azzardoso il dire e sostenere che, cacciati i Liguri, a questi essi si

sostituirono, e che anche il Giglio fu abitato da questo popolo colto e potente, la cui civiltà servì grandemente a ingentilire le barbarie dei

popoli che li precedettero. Diodoro Siculo, Erodoto ecc. affermano che i Tirreni, o Etruschi, potenti per forze navali, tennero l’impero del mare; e

Dionisio li chiama «padroni del mare». Gli Etruschi, nel periodo preistorico, rappresentano l’età del ferro.

E tale fu la potenza etrusca sul mare, che ben poche navi dei popoli limitrofi si avventurarono sul mare Tirreno.

Veramente l’Inghirami dice che quei popoli limitrofi erano greci; ma probabilmente erano i Siculi gli audaci che osavano venire nelle

acque etrusche, o tirrene, erano i siculi, popolo, con molta probabilità, italico (Osci). Preludio delle lotte etrusche coi popoli italici, che, dopo

varie vicende, ebbero il loro riepilogo al Vadimone! Che cosa fecero gli Etruschi al Giglio?

Difficile è la risposta; tutt’al più si può arguire che, maestri di civiltà, profondi nelle arti belle, si siano dedicati al lavoro del granito per

le proprie fabbriche, per i propri monumenti, come più tardi fecero i Romani.

Ma intanto, fondata Roma, questa cresceva rapidamente in potenza; i popoli vicini venivano vinti e assoggettati.

E l’ora fatale si avvicinava per gli Etruschi: caduta Veio, vinte ed espugnate Faleria, Capena; ridotto all’obbedienza Nepete e Sutrio, anche

la loro signoria sull’Adriatico e sul Mediterraneo era scomparsa, e i Galli già avevano occupate le pianure del Po, che — sparita la civiltà etrusca —

caddero nella barbarie e nella solitudine. Finalmente, dopo altre guerre, si combattè la grande battaglia

decisiva, in cui la stella dell’Etruria si eclissò totalmente. Al Vadimone

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(441 di R. e 311 a.C.), si scontrarono gli eserciti nemici. Terribile fu la mischia, tanto bene descritta al cap. 39 del libro IX dell’Istorie di Tito

Livio. I più prodi caddero tutti da forti sul campo, né — dopo quella fatale giornata — l’Etruria poté rialzarsi, e questa e le sue isole, Giglio

compreso, vennero in potere di Roma.

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CAPITOLO II

I ROMANI

Appena fondata, si inizia il rapido progredire della città di Roma.

Già sotto Servio Tullio i suoi confini si estendevano per sette miglia, e alla cacciata di Tarquinio, fatto il censimento, si annoverano in essa

130.000 persone, senza le vedove e gli orfani. Nel 457 di R., rinnovato il censimento, si ritrovarono 262.322

cittadini liberi.

Grandi ricchezze i Romani accumularono con le spoglie dei popoli

vinti, ed i patrizi erano opulenti, fastosi e forti. Tra le famiglie patrizie importanti di Roma, notissima era quella

senatoria dei Domizi che — secondo Svetonio — si disse degli Enobarbi, dalla barba rossa; e già nel 661 di R., Domizio Enobarbo fu console.

Furono gli Enobarbi che acquistarono grandi possessi nel territorio Cosano, e Cosa loro appartenne, insieme con l’Isola del Giglio.

Ed infatti, accesasi la guerra di rivalità tra Cesare e Pompeo (49 avanti E.V.), Roma — e con essa l’Italia e tutto il mondo romano — si

divisero in due partiti, l’uno a Cesare favorevole, l’altro a Pompeo. Domizio Enobarbo, signore di Cosa e dell’Isola del Giglio,

dipendente da quel Domizio che fu già console, patteggiò per Pompeo, raccolse sette navi leggiere, le armò con genti gigliesi e cosane, e con

questa piccola flotta si recò a Marsiglia, attaccata dal vincitore delle Gallie.

Leggiamo, infatti, nel libro 1°, capitolo 34 Commentari — De Bello Civili —:

«Quo cum venisset cognoscit... profectum item Domitium ad occupandam Marsiliam navibus actuariis VII, quas Igili et in Cosano a privatis coactas, servis libertis colonis suis compleverat». (Essendo ivi giunto — nella Gallia ulteriore — apprende che Domizio era partito per occupare Marsiglia, con sette navi leggere che, raccolte da privati in Giglio e nel territorio Cosano, aveva armate con i suoi servi, liberati e coloni).

Non accennerò alle peripezie e alle vicende di questa guerra civile

che insanguinò il mondo; solo riporterò un episodio d’un attacco in cui presero parte le sette navi sopra ricordate.

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I marsigliesi, cedendo al consiglio di L. Domizio, con 17 navi attaccarono la flotta di Cesare comandata da D. Bruto.

Ed ecco quello che ne scrive Cesare:

«Certas sibi deposcit naves Domitius, atque has colonis pastoribusque quos securo adduxerat, complet».

Ma l’esito dell’assalto fu infelice, poiché quantunque «pastoresque indomiti, spe libertatis excitati, sub oculis domini, suam probare operam

studebant, (cap. 57 libro 1° opera citata), i partitanti di Cesare «magno numero Albicorum et pastorum partim navium deprimunt nonnullas

cum hominibus capiunt, reliquas in portum compellunt». E così, poi, di volo dirò che Cesare riuscì non solo a prendere la

pompeiana Marsiglia, ma a vincere, più tardi, nelle pianure di Farsalo (Tessaglia) lo stesso Pompeo, che, fuggito in Egitto, fu ucciso.

Dalle parole di Cesare sopra riportate si rileva: 1° che il Giglio, circa mezzo secolo avanti Cristo, era non solo

abitato, ma che vi eran famiglie in possesso di tali bastimenti da poter essere adibiti ad uso di guerra;

2° che il numero degli abitanti doveva essere per lo meno discreto, se si potevano trovare tanti individui per armare ed

equipaggiare le navi stesse; 3° che essendovi delle famiglie di una certa importanza, doveva

esservi del movimento non solo agricolo e marinaro, ma anche civile; 4° che il Giglio, al pari di Cosa, era alla dipendenza della

famiglia dei Domizi; 5° che il Giglio aveva una certa importanza ben nota.

Si pensi al tempo in cui Cesare scriveva i suoi Commentari, tempo, cioè, di guerre e di lotte sanguinose.

E se in simili momenti, lungi dall’Italia, citando il fatto delle navi da Domizio raccolte al Giglio ed a Cosa, rammenta queste due località,

vuoi dire che queste o erano importanti di per sé, o per la senatoria famiglia che su quelle imperava.

Si noti, inoltre, che le navi di D. Bruto furono attaccate da L. Domizio, ad insulam quae est contra Marsiliam, stationes abtinebant; ed

ivi avvenne la battaglia ricordata. Ma quantunque si trattasse d’una località dove le sue armi riuscirono vittoriose, Cesare non cita il nome di quest’isola, che denomina con la perifrase «quae est contra Marsiliam».

Ma vi sono due fatti che provano come il Giglio, in quei tempi,

possedesse splendidi palazzi, ricovero di nobili persone.

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II così detto «Bagno del Saraceno»; numerosi avanzi di antichi fab-bricati, ove forse tuttora si vedono ricchi pavimenti a mosaico commessi

di verde antico, diaspri gialli e simili pietre di diversi colori, ci dimostrano che il Giglio fu non solo stanza dei Domizi, ma che probabilmente fu

scelta per tranquillo ritiro anche da opulenti cittadini romani, vaghi di vivere lontani dalle civili contese, e di godere una tranquillità che mal

potevan trovare fra i rumori della capitale. Ho detto che «forse anche oggi» si possono vedere certi pavimenti,

e ciò dico perché fino a poco tempo addietro io stesso, come già altri, ne ho constatata la presenza ed esistenza, mentre ora la superficie un

tempo coperta da superbe magioni, è percossa e lavorata dal piccone e dalla zappa dell’agricoltore.

Ed altra prova che in quell’epoca al Giglio vi era vita ed attività, l’abbiamo nel fatto che anche allora vi si lavorava il granito, il quale

veniva scavato per farne colonne a ornamento dei palazzi e delle ville dei nobili romani.

Anche a Giannutri si trovano cinque colonne di granito del Giglio in una costruzione romana che, dai ruderi rimasti, rivela la sua prisca

grandezza e suntuosità. In tale costruzione, — situata a Cala Maestra — si conservano ancora cinque stanze con intatti i superbi ed ammirevoli

pavimenti a mosaico. L’essere, poi, il Porto, provveduto d’un molo — imponente opera di quella

meravigliosa nazione (Lessi G., Atti della R. Accademia dei Georg., tomo V) — già lungo 179 braccia, dà indizio che il porto era così frequentato,

da sentirsi il bisogno di farvi quel grande lavoro, per rendervi sicura la stazione dei navigli, impiegati, forse, nel trasporto del granito lavorato,

giacché non si può pensare che in un’isola così piccola tale dispendiosa opera servisse ad altra intrapresa.

Ma il molo, molto probabilmente, fu costruito anche per rendere sicuro l’approdo di quelle navi che trasportavano i signori di quei palazzi,

di cui tuttodì ammiransi le vestigia, e che possedevano navi ed uomini da inviarli a guerre — almeno per allora — discretamente lontane.

Dunque noi troviamo che il Giglio, in quel tempo, era abitato non

solo da nobili signori, ma anche da lavoratori di granito. Naturale è il supporre che vi sarà stata che una parte della popolazione dedicata alla

pesca, giacché conosciamo la passione dei patrizi romani per i pesci, che venivano da loro conservati in certi depositi o cetarie.

Ed anzi, a proposito di questi depositi, debbo notare come io inclini a

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ritenere che il così detto Bagno del Saraceno, non sia stato che una cetaria, annessa al superbo palazzo, le cui rovine più sopra ho ricordate.

Osservando le cetarie del Monte Argentario e confrontandole col Bagno del Saraceno, chiunque può facilmente convincersi che l’antico

palazzo del Castellare aveva annessa una piccola cetaria. Riepilogando: il fatto che diverse navi furono, da Domizio

Enobarbo, raccolte al Giglio, e furono armate, in parte, ed equipaggiate con marinari gigliesi; le lavorazioni di granito che nel Giglio si

eseguivano; il molo, il quale dimostra essere stato, il porto, frequentato; gli avanzi di sontuosi palazzi; il così detto Bagno del Saraceno, ci

inducono a credere che, qualche anno avanti l’era volgare, il Giglio era ben abitato e che vi era attivo commercio, certo maggiore a quello di oggi.

E poiché abitanti vi erano, dove essi stavano raccolti ? Qual parte dell’isola essi abitavano?

Ripensando agli avanzi della così detta Villa Romana al Castellare; al molo sopra ricordato, ad altri ruderi che si trovano

all’attuale Porto; ai numerosi recipienti di terra cotta, con entro resti umani, trovati nei piani del porto stesso insieme con numerose monete della Roma antica; ripensando ancora che il Mediterraneo, il mare nostrum, era una proprietà esclusiva dai Romani, che liberamente vi

scorrevano, e quindi non v’erano pericoli — come più tardi — ad abitarne le spiagge, è facile concludere che il centro della vita e del commercio

fosse, allora, all’attuale Porto o nelle sue immediate vicinanze. Peraltro, io sono di opinione che, mentre il Porto era il vero centro abitato, altre

abitazioni o ville si trovassero sparse per l’isola. Tra le punte del Morto e del Fenaio ne sporge un’altra, dove rinvengonsi avanzi di costruzione, e

dove si sono trovati dei coppi con scheletri umani. Trovai un pezzo granitico di tomba su cui leggesi DOMTI.

Ucciso Giulio Cesare, distrutta la Repubblica Romana nel Convegno di Antonio, Lepido ed Ottavio sopra un isolotto del piccolo

Reno; battuto Lucio — fratello di Antonio — da Ottavio, Antonio, a cui si unirono Domizio Enobarbo e Sesto Pompeo con le flotte loro, deliberò di

portare soccorso al proprio fratello. Ma fu evitato nuovo spargimento di sangue. A Brindisi fu fatta la pace, e ad Antonio fu data in moglie Ottavia

sorella di Ottavio. Morto Lepido oscuramente a Circeo; battuto Antonio ad Azio, e

quindi uccisosi in Egitto, rimase solo seguace Ottavio, che si chiamò Cesare Augusto, e con lui ha principio l’impero romano che tanta

grandezza acquistò, ed il cui apogeo raggiunse sotto Traiano, chiamato il Dacico(97-117 E.V.).

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Trasportata la sede dell’Impero a Bisanzio (330 E.V.), diviso l’im-pero stesso in due, la fatale rovina di Roma si avvicinava.

Ma durante l’impero che ne fu del Giglio? Nulla se ne sa. Forse vi si sarà ancora scavato il granito per le

fabbriche romane, e forse ancora avrà continuato ad essere un luogo di rifugio e di riposo per qualche cittadino dovizioso della grandissima città.

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CAPITOLO III

GIGLIO DURANTE LE INVASIONI BARBARICHE

Siamo al 400 dell’E.V., l’Impero Romano accenna ad imminente

rovina. Già sin dal 330 era stato diviso da Costantino — col trasferimento della sede dell’impero a Bisanzio — in due, e cioè impero orientale con

capitale Bisanzio — che poi si disse Costantinopoli — e l’occidentale che da Roma dipendeva.

Imperava, in quest’ultima, Onorio, figlio di Teodosio; ed Alarico, con i suoi Goti, dopo aver devastato l’oriente, venne in Italia. Ma

Stilicene, generale di Onorio, costrinse l’invasore a ritirarsi (404). L’anno seguente Radagaiso volle, con un’altra invasione,

vendicare la sconfitta di Alarico; ma fu vinto egli pure, e ucciso da Stilicone.

Intanto Alarico si avvicinava di nuovo in Italia, e la novella invasione fu impedita con un enorme regalo a cui Onorio fu costretto

assoggettarsi. Ma scopertasi, e punitasi con la morte, l’ambizione di Stilicone, il

quale voleva la rovina di Onorio per porre il proprio figlio sul trono imperiale, Alarico, vedendo privo l’impero di un tanto valido difensore,

irruppe nuovamente in Italia, assediò Roma, mentre Onorio stava oziando in Ravenna, e il barbaro si ritirò solo dopo avere avuti ingenti

doni, molti giovani romani in ostaggio, e fatti liberi tutti gli schiavi di sua nazione che erano in Roma.

L’anno appresso (409) ritornò ed assediò Roma. Vi entrò

ingiungendo ai cittadini di innalzare alla dignità imperiale Attalo loro prefetto.

Roma riuscì a chiudere le porte in faccia di Alarico; ma nella notte del 24 agosto 410, Alarico la forzò la prese, e, per la prima volta, l’illustre

metropoli fu abbandonata al saccheggio ed al fuoco dei barbari, e cioè dopo 1103 anni dalla sua fondazione!

E la grande città, che già sotto Augusto aveva noverato 4.137.000 cittadini e ben 6.944.000 sotto Claudio imperatore, la grande città,

ripeto, fu un ammasso di rovine, ed i suoi abitanti fugati!

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Molti romani, spaventali dalla ferocia dei barbari aggressori, fuggirono dall’eterna città, e in tale occasione Giglio diede sicuro asilo e

ricovero ai degeneri figli di Roma che, già signora del mondo, trovavasi ora in balia di gente straniera e crudele.

Rutilio Numaziano, gallo di nazione, prefetto allora di Roma, ritornando ad Arles, preferì seguire la via di mare perché i Goti avevano

devastato e distrutto, come egli stesso narra nel suo «De Itinere», la via Aurelia e i ponti sui fiumi tra cui quelli dell’Albegna, Osa, ed Ombrone.

E passando tra l’Argentario ed il Giglio, scorgendo di quest’ultimo le selvose vette, esce nelle parole:

«Eminus Igilii silvosa cacumina miror «Quam fraudare nefas laudis honore suae «Haec proprios nuper tutata est Insula saltus «Sine loci ingenio seu Domini genio. «Gurgite cum modico obstitit victricibus armis «Tamquam longinquo dissociata mari «Haec multos lacera suscepit ab urbe fugatos «Haec fessis posito certa timore salus».

(Da lungi osservo le selvose vette del Giglio. Sarebbe un delitto

privarla dell’onore di una lode che giustamente si merita. Quest’isola, di recente, difese i propri boschi o per la posizione del luogo, o per

l’avvedutezza del suo signore. — Separata dal continente per breve tratto di mare, non fu tocca dai barbari vincitori, quasi che si fosse trovata in

mezzo a mare lontano. Quest’isola ricoverò molti cittadini fuggiti da Roma depredata, e qui deposto ogni timore vi trovarono asilo sicuro).

E così Numaziano, unico contemporaneo, conferma il triste fato di Roma, la fuga dei suoi cittadini, che numerosi si rifugiarono al Giglio.

Da ciò, dunque, che dice Numaziano, vediamo che il Giglio, nel 410 doveva avere un discreto numero di abitanti, poiché ai vecchi

abitatori si aggiunsero i molti romani che fuggivano dinanzi a quei barbari dei quali i loro antenati eran soliti vedere le spalle.

Ci dimostrano, altresì, come questi abitatori nulla avessero a temere dalle orde barbariche che infestavano il continente; ci rivelano

l’antica ospitalità gigliese, e come il Giglio avesse un signore o padrone. Ignorasi qual fosse questo signore cantato da Numaziano; con

probabilità egli era un discendente dei Domizi Enobarbi, ma certamente un romano, poiché con tanta sicurezza i cittadini di Roma vi

accorrevano. E il ricordarsi, i romani, in tanti perigli, di quest’isola e

l’accorrervi, non dimostra che il Giglio era da loro ben conosciuto? non dimostra che il signore di quest’isola fosse uno dei più noti patrizi

romani?

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Altre irruzioni dei Goti tennero dietro a quelle degli Unni, capitanati da Attila, che fu detto «flagello di Dio», e dei Vandali guidati da Genserico,

loro re. Il quale, partito dall’Africa e sbarcato con trecentomila uomini in Italia, si volse alla volta di Roma, e disprezzando le lacrime e le preghiere

del Pontefice S. Leone, si impadronì di quella città, che fu già capitale del mondo conosciuto. Per quattordici giorni crudelmente la saccheggiava

(455) e indi se ne ripartiva carico di preda e di schiavi, tra cui Mamiliano e Sensia, preti, Covuldo, Istochio e Infante, monaci.

Questi ultimi vennero deportati in Africa; ma, eludendo la vigilanza dei barbari, riuscirono a fuggire, imbarcarsi ed approdare

all’Isola di Monte Cristo, l’antica Oglasa, ed anche Mons Iovis, dove quegli sfortunati vivevano nascosti.

E qui, in Monte Cristo, morì Mamiliano, che poi fu santificato. Sensia ed i suoi compagni trasportarono il cadavere di S. Mamiliano all’Isola del

Giglio e quivi lo seppellirono; ed essi rimasero presso la tomba del loro compagno. Ed appunto in Giglio morirono Covuldo, Istochio e Infante; e

Sensia, rimasto solo, se ne partì, sbarcò a Colonia, per ritornare a Bleda, o Bieda, nella Tuscia, sua patria, ove morì e fu sepolto.

Così narra il chiarissimo archeologo prof. De Rossi (Bollett. di archeologia crist., pag. 99), ed io, stante la indiscussa autorità di sì

illustre scrittore, ritengo che la sua versione — per ciò che riguarda la prigionia, la fuga e la morte e sepoltura di S. Mamiliano — sia la vera.

Perché, relativamente a questo santo, vi sono parecchie controversie.

Alcuni, per esempio, dicono che S. Mamiliano, essendo Vescovo di Palermo, perseguitato e cacciato dalla sua città dai Vandali, si rifugiò a

Monte Cristo, dove i Vandali, raggiuntolo, lo uccisero insieme con i suoi compagni. (Lombardi Sebastiano, Memorie sul Montargentario. —

Ristretto storico suII’Etruria e suo littorale antico e del medio evo — cap, 4°). Anzi di tal santo se ne farebbe un martire.

Altri asseriscono che, alla venuta dei Vandali, il Vescovo di Palermo, Mamiliano, fuggisse, ricoverandosi a Monte Cristo. Ad ogni modo tutti convengono che il santo Vescovo sia morto nell’isola ora

rammentata. Stando alle memorie pisane, parrebbe che S. Mamiliano, invece di

essere seppellito al Giglio, venisse sepolto nella stessa Isola dove morì, donde poi fu trasportato, insieme con i cadaveri dei suoi compagni,

nell’anno 848, ai tempi di S. Leone IV, all’Isola del Giglio. La versione del prof. De Rossi, che ritengo la vera, e le cronache

pisane, quantunque discordi nelle epoche, convengono che il cadavere di S. Mamiliano venisse depositato in Giglio.

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Come e quando fu trasportato? dove? Forse i Pontefici non volendo permettere che i resti di un santo potessero venire nelle mani di

pirati o di altri barbari, ne ordinarono il trasporto in altra località, nello stesso modo che dal Giglio il Papa S. Leone IV fece togliere i cadaveri dei

santi Lustro e Vindemmio. È un fatto che nel 1780 Monsignor Santi procedé alla recognizione dei resti di S. Mamiliano esistenti in Sovana;

che qui trovò la quarta parte dello scheletro del Santo! (1). Ed è un fatto ancora che l’unica reliquia posseduta dai gigliesi, del loro protettore,

venne regalata dal Mons. Fulvio Salvi, Vescovo di Sovana, il 7 giugno 1722 a Cosìmo III Granduca di Toscana, il quale, a sua volta, la regalò

alla chiesa arcipretale del Giglio. Aggiungerò che anche prima del 455, si erano rifugiate in Monte

Cristo parecchie persone, che vi menavano vita eremitica, e che nel 727 il Monastero di S. Mamiliano fu distrutto dai pirati. I monaci vi

ritornarono, ma ne furono scacciati nel 1100. I pisani, nel 1200, si impadronirono di Monte Cristo, e i monaci di

nuovo vi ritornarono; ma temendo le continue scorrerie dei barbari, furono costretti ad abbandonare definitivamente quell’isola, ritirandosi in

Pisa, e precisamente nel monastero di S. Michele. II monastero di Monte Cristo era provvisto di diverse rendite:

possedeva in Sardegna, Corsica, Elba e Pianosa, secondo resulta da una bolla di Papa Gelasio II, in data 1° ottobre 1119 diretta ad Enrico, abate

di S. Mamiliano. Intanto Odoacre, condottiero degli Eruli e Turingi, sceso in Italia,

guidato da Ravenna Romolo Momillo, più noto col nome di Augustolo, imperatore del romano impero occidentale, raggiuntolo a Roma lo prese e

dispogliatolo delle insegne imperiali lo relegò nel castello di Lucullo, oggi dell’Ovo in Napoli.

E così l’impero romano aveva termine (476), e Odoacre facevasi fastosamente chiamare Re d’Italia, fissando la sua sede in Ravenna, ove gli Imperatori d’occidente avevano veduto finalmente spengersi la loro

autorità e la possanza di quell’impero che si estendeva su quasi tutto il mondo allora conosciuto.

E così — come argutamente osserva il Rambelli nella sua «Storia d’Italia in compendio» — mentre la potenza romana incominciò con un Romolo,

(1) Al tempo del Vescovo di Sovana Apollonio Massaini, il corpo di San Mamiliano Arcivescovo di Palermo, dall’Isola del Giglio il 1460 fu trasferito a Sovana nella Cattedrale, ove fu reperito dopo due secoli, e vi si legge questa iscrizione:

Hic iacet corpus S. Mamiliani - Archiepiscopi Panormitani.

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sotto un altro Romolo veniva ridotta al niente; e l’impero romano da

Augusto fondato, sotto Augustolo aveva fine.

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CAPITOLO IV

GLI ABATI CISTERCENSI

Le memorie dell’antico convento dei SS. Vincenzo e Anastasio ad

Aquas Salvias — ora delle Tre Fontane, in Roma — ci parlano di una

donazione fatta da Carlo Magno sul principiare del secolo IX a’ monaci

del ricordato convento, del territorio di Cosa, dell’Isola del Giglio e di Giannutri e 100 miglia di mare.

Tale donazione viene rammentata dalla tavola di rame della Badia delle Tre Fontane, tavola trovata nel 1359, ossia 554 anni dopo l’805, alla

quale epoca, appunto, ci richiama la iscrizione della tavola stessa, iscrizione che, per brevità, si omette di riportare.

II documento citato non porta l’indicazione del luogo, del giorno e del mese in cui il privilegio fu pubblicato; ma si può rimediare a tale

difetto consultando Eginardo, segretario, cortigiano e biografo di Carlo Magno, asserisce, egli, infatti, che il suo Sovrano venne, per l’ultima

volta, in Italia nell’800, quando fu incoronato Imperatore. D’altra parte sappiamo dagli annali Bertiniani che il Pontefice

Leone III negli ultimi mesi dell’804 si recò da Roma in Francia, e quindi con Carlo Magno passò nella città di Aquisgrana, dove celebrò il santo

Natale. Con questo stesso giorno chiudevasi il IX anno di pontificato di Leone III, e lo stesso giorno era il principio dell’anno V dell’impero di

Carlo Magno. Ripensando poi, che, poco tempo dopo il Natale dell’804, il

Pontefice Leone, con i suoi cardinali abbandonò Aquisgrana per ritornare, traversando la Baviera, a Roma, dobbiamo concludere che la donazione al monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias,

avvenne nei giorni successivi al Natale dell’anno 804.

Parrebbe, poi, che il luogo ove tale donazione fu fatta, fosse la stessa città di Aquisgrana, e ciò verrebbe desunto dal leggersi nel

surriferito documento i nomi di un Vescovo di Francia, e di un Duca di Leone (Hugo dux Lugo).

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Per la tavola metallica, in cui fu scritto e riportato il privilegio pontificio – imperiale, risulterebbe nella indizione, la quale, al principio

dell’anno 895, era la XIII invece della X. Mi è sembrato che alcuni impugnino il documento ora citato, ma

esista, o no, sia autentico od apocrifo, è un fatto che i luoghi rammentati (Cosa, Giglio, Giannutri ecc.) appartennero ai monaci dei SS. Vincenzo e

Anastasio. Ed infatti il privilegio di cui sopra fu rinnovato a favore dei monaci

cistercensi da Eugenio III (Paganelli, di Montemagno, 1145); da Anastasio IV (1153); da Adriano IV (Breakspeare, di Langley, 1154); da Alessandro

III (Bandinelli, di Siena, 1159), e da Lucio III (1181), il quale ultimo, con una bolla, spedita da Velletri l’anno 2° del suo pontificato, all’Abate

Guidone, e sottoscritta dal medesimo Pontefice e 17 cardinali, dichiara di assumersi la protezione di tutti i beni appartenenti all’Abbadia, ora delle

Tre Fontane, tra cui Ansidonia, Orbetello, Tricosto, Giglio, Giannutri, Porto Fenilia, ecc.

In tutte le bolle, poi, di questi Pontefici testè citati, viene ricordato il dono fatto da Carlo Magno dei castelli, stagni, porti ed isole suddette, a

cui si vedono aggiunte altre località e pertinenze, non rammentate nella tavola di cui sopra.

Il 12 gennaio 1255, con una sua bolla concistoriale, il Pontefice Alessandro IV, ad esempio dei Papi suoi predecessori, già ricordati, confermò ai monaci dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias, tutte

le possessioni loro spettanti, tanto quelle situate nello Stato romano,

quanto le altre della Toscana, che furono donate da Carlo Magno. Non riporterò qui, certamente, la bolla di Alessandro IV, e ciò per

il motivo più sopra accennato: mi piace, peraltro, riportare la descrizione dei confini entro cui erano compresi i beni del monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias:

«Quae continentur infra terminos supradicto Domino Leone P.P. III, et Carlo Magno imperatore designatos (videlicet) ab uno latere mare magnum infra miliara centum, Intra quod mare est mons qui vocatur Gilium, et insula vacatur Iannutri, juris praelinati monasterii nostri; secundo latere est fluvius qui vocatur Albinia; a tertio latere decurrit aqua quae vocatur Serpenna; a quarto autem latere vertit per Sarpennam et vadit per montem Aristini, e decurrit in Buerim (Burano?) et sic revestitur in praedictum mare magnum et sicuit in literis, cartis, et privilegis continentur».

Dai cennati documenti papali, risulta in modo non dubbio che effettivamente Carlo Magno cede l’Isola del Giglio, ed altri paesi e località,

ai Cistercensi, i quali, poi, nel 1269, come vedremo, li cederono in feudo ai conti Aldobrandeschi di Sovana.

Ma durante questo tempo i monaci vi esercitarono un vero imperio? Probabilmente, per non dire certamente, il governo dei monaci

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si ridusse a contentarsi di noverare, tra le loro proprietà, l’Isola del Giglio, e a spiegarvi la loro giurisdizione ecclesiastica. Ed anche tuttodì il

Giglio, ecclesiasticamente, dipende dall’abate delle Tre Fontane. Questo mio asserto meglio si spiegherà in seguito, parlando degli

Aldobrandeschi, degli Orsini, della Repubblica di Siena ecc. Intanto solo accennerò che con Carlo Magno, salutato (nel Natale

dell’801) «piissimo, augustissimo, coronato dalla mano di Dio grande e pacifico imperatore», risorse l’impero occidentale, e dove il Papa soleva

essere raffermato dagli Imperatori, cominciarono questi ad aver bisogno della confermazione del Pontefice.

Così principiò ancora a spiegarsi quella grande autorità dei Papi, il cui regno temporale già aveva cominciato ad esistere fin dal 752,

quando Pipino, padre di Carlo Magno, cede al Pontefice Stefano II Ravenna con l’esarcato, e la così detta Pentapoli; autorità che poscia si

estese su tutta l’Europa, e fu delle maggiori potenze del mondo. Si arriva, il 1240, all’epoca delle titaniche lotte tra Gregorio IX e

l’Imperatore Federigo II. Il Pontefice, assalito da Federigo, che aveva assoldati 20.000 saracini, i quali non temevano, certo, gli anatemi papali,

spedì una circolare ai prelati con l’intimazione di un consiglio generale da farsi nel seguente anno.

Federigo, presentendo che vi si confermerebbero le censure contro di sé, stabilì di impedire che il concilio avesse luogo. A questo fine

radunò più navi che poté in Sicilia, e montatele alla ghibellina Pisa, sotto il comando del suo figlio Enzo Re di Sardegna, le unì alle galere pisane.

Tali navi aspettavano nelle acque del Giglio la flotta genovese che doveva portare a Roma i prelati francesi. Finalmente la flotta aspettata

comparve, ed era composta di 67 legni, di cui 27 galere, guidate dall’ammiraglio lacopo Marocello; i pisani avevano 40 galere, comandate

da Ugolino Buzaccherini, alle quali se ne aggiunsero 27 soggette ad Enzo. Il Marocello, sebbene enorme fosse la disparità delle forze, volle

attaccare la pugna, che — avvenuta tra Giglio, Montecristo e l’Elba — fu vinta dai pisani, i quali condussero in Pisa, prigionieri, tutti i prelati.

Tale battaglia navale fu combattuta il 3 maggio 1241. Di che è

fama perisse di dolore Gregorio IX; mentre il suo antagonista, Federigo II, morì in Firenzuola di Puglia, il 13 dicembre 1250.

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CAPITOLO V

GLI ALDOBRANDESCHI - I CONTI ORSINI

Nei tempi a cui siamo giunti era potente nella Maremma la fami-

glia degli Aldobrandeschi, divisa nei due rami di Soana e di S. Fiora. A questa nobile famiglia fu, dai monaci Cistercensi, ceduta l’Isola

del Giglio, insieme con altri paesi del continente; ma la signoria dei nuovi padroni — almeno per il Giglio — fu soltanto nominale, perché, prima

che tale cessione avvenisse, il Giglio — come in seguito vedremo — era già in possesso dei pisani.

Nel 1269 don Elia, monaco cistercense dei SS. Vincenzo e Anastasio, procuratore dell’Abbazia e dei monaci delle Tre Fontane,

investì, con il titolo di feudo, il conte Aldobrandino di Soana detto il Rosso, di tutti i castelli, porti ed isole rammentati nelle bolle pontificie

che nel capitolo precedente vennero citate. Veniva poi accordata ad Aldobrandino la facoltà di passare tali castelli, porti ed isole nei figli ed

eredi suoi per l’annuo tributo di pochi fiorini d’oro, e il Monastero ed Abbazia delle Tre Fonarne riserbavasi il diritto di laudemio ogni 25 anni e

la giurisdizione ecclesiastica, che — come dissi — dopo tanti anni anche ora conserva.

L’11 dicembre 1272 fu rogato un contratto di divisione fra i due rami Aldobrandeschi di Soana e di S. Fiora. Toccò di parte, al ramo di S.

Fiora, la terra stessa di Santa Fiora, che diede il titolo della contea, oltre i castelli di Arcidosso, Triana, Samprugnano, Selvena, Magliano,

Montemerano, Manciano, Capalbio, Serpenna, Stribugliano, Scansano, Ischia, Roselle, Roccastrada, Sassoforte, e tanti altri luoghi circonvicini,

lasciando a comune con l’altro ramo di Soana, Sorano, Pitigliano, Saturnia, Orbetello, Monte Argentario, Isola del Giglio, Roccalbegna,

Grosseto, il massetano, le cave delle miniere di argento vivo di Silvena, e le regioni che gli Aldobrandeschi potevano avere sopra vari paesi del

contado di Castro e sulla città omonima. La linea maschile degli Aldobrandeschi di Soana si spense ben

presto, mentre quella di S. Fiora continuò, fino al secolo XV, a dominare molti paesi della Maremma e del Monte Amiata.

Venuto a morte il conte Aldobrandino, detto il Rosso, lasciò erede

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dei suoi beni l’unica figlia, Margherita, sposata al conte Guido di Monfort.

L’investitura del feudo paterno fu rinnovata in Orbetello a favore della citata erede, e — onde imprimere una più solenne validità a cotesta

investitura, concorse ancora il beneplacito del Pontefice Bonifazio VIII (Benedetto Gaetani) mercé suo breve, spedito dal palazzo Lateranense il

10 marzo 1303. Tale breve fu rogato alla presenza di Marco, Vescovo di Soana e di Gualcherino, Proposto di Grosseto, i quali fecero da testimoni.

Ma pare che gli Aldobrandeschi di S. Fiora non andassero punto d’accordo con quelli di Soana, poiché il 6 agosto 1286, Donna

Margherita, contessa palatina di Toscana, figlia, come abbiamo detto, di Aldobrandino, costituì il proprio marito, Guido di Monfort, in suo

procuratore per fare la pace con gli Aldobrandeschi di Santa Fiora. Morta la contessa Margherita, il feudo di Orbetello, Giglio ecc. fu

ereditato dalla contessa Anastasia, figlia di Margherita e di Guido di Monfort.

Anastasia, mercé il suo matrimonio contratto nel 1293 con Guido di Bertoldo, dei Conti Orsini, portò le contee di Soana ed il feudo di

Orbetello, Giglio ecc., nella casa Orsini di Roma. Eredi di Guido Orsini e di Anastasia Monfort, furono i figli loro

Aldobrandino, Niccola e Gentile. A favore di questi fu rinnovata l’investitura con un atto pubblico,

rogato in Roma, il 10 marzo 1358. Con tale atto si rinnovò a favore dei citati fratelli Orsini,

l’infeudazione del castello di Orbetello, dello Stagno, con la pesca e Saline; della città dell’Ansedonia, col porto della Fenigia, Portercole,

Monte Argentario, l’Isola del Giglio e quella di Giannutri ecc. mediante un annuo canone.

Il 15 giugno 1401 fu rinnovata, in Pitigliano, una nuova investitura; ed il monaco frate Bernardino, nella sua qualità di Sindaco dell’Abate del Monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias,

infeudò Giglio, Giannutri, Orbetello, Portercole, Monte Argentario,

Capalbio, Marsiliana, Montaguto, al conte Bertoldo Orsini, padre e ad Orso, Aldobrandino e Niccola, di lui figli, per essi e loro successori in

linea maschile; ed in mancanza di maschi, da succedere, nello stesso feudo, a femmine nate dalla stessa branca, con l’obbligo, ai feudatari, di

mandare, a titolo di annuo censo, nel giorno festivo di S. Anastasio, al suo Monastero, un cavallo bianco, o leardo, bardato.

Inoltre, tra gli obblighi, vi era quello di rinnovare il contratto medesimo di generazione, mediante laudemio.

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CAPITOLO VI

I PISANI - I FIORENTINI

I Pisani - Abbiam detto che il Giglio apparteneva, fino dall’805, ai

Monaci Cistercensi, e che questi lo cederono — mediante un annuo

tributo — ai conti Aldobrandeschi di Soana, ed ai conti Orsini di Roma. Però è fatto che, mentre i Monaci Cistercensi si chiamavano

signori del Giglio, e, come tali, cedevano quest’Isola ad altri, — che pure vantavano un’ancor più nominale signoria — i veri padroni e gli effettivi

signori ne erano i pisani. Correvano, allora, i tempi in cui il diritto era costituito dalla forza,

e il debole veniva calpestato dal prepotente. Ed oggi possiamo, con sicurezza, affermare che altrettanto non succeda?

Non ho potuto determinare, con precisione, in quale epoca i pisani si impadronirono del Giglio; ma, certamente, ciò avvenne molto

presto. Questi, mentre con le loro navi solcavano i mari, e mantenevano

costante e florido commercio con l’Oriente, profittando della loro potenza navale, non avranno certamente mancato di impadronirsi subito di

un’isola, come quella del Giglio, tanto a Pisa vicina, e di riconoscerla come propria.

E che così dovesse essere, anzi fu, ce lo fa supporre il fatto che, mentre i Monaci Cistercensi, nel 1269, ritenendo come a loro

appartenente l’Isola del Giglio, la cedevano agli Aldobrandeschi di Soana, i pisani, cinque anni avanti, avevano stipulato un trattato con il Re di

Tunisi, nel quale trattato il Giglio veniva considerato come proprietà e dipendenza pisana.

Ed infatti, tra i paragrafi delle condizioni di pace conclusi nel 1264 fra Pisa e il Re di Tunisi, Elmiro Mommini Buabidelle, vi è il

capitolo che sotto riportiamo, con cui vien dimostrato che, fino da quel tempo, Giglio era alle dipendenze della Repubblica pisana.

Il capitolo in parola è il seguente:

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«De le Isule de li pisani (2) - Lo quale dominus Parente (nome dell’ambasciatore

pisano, incaricata di contrattare questa pace) disse, e ricordò lo confine de le terre loro, le quali messe sono su questa pace, et le quali sono in terra ferma et grande, ciò este de lo

Corbo (3) in fine a Civita Vecchia, et l’isule le quali ano in mare, ciò est tucta l’isula di

Sardegna, et castello di Castro, et l’isula di Corsicha, et l’isula di Pianosa, et l’isula d’Elba, et l’isula di Giglio, et l’isula di Monte-Cristo».

Abbiamo detto che nel 1303, nel 1358 ed anche in altre epoche successive, i Monaci di S. Anastasio avevano ripetuto gli atti, con i quali

l’Isola del Giglio veniva da essi ceduta agli Aldobrandeschi, prima, e poi ai conti Orsini.

Però i fatti che verremo esponendo, dimostreranno sempre più come la signoria dei Cistercensi e dei loro feudatari Aldobrandeschi ed

Orsini, fosse puramente nominale, mentre, in realtà, e di fatto, nell’Isola del Giglio governavano e comandavano i pisani.

Questi, nel tempo che gli Abati delle Tre Fontane infeudavano Giglio a questo ed a quello, vi tenevano invece un distaccamento militare

ed un proprio cittadino con la carica di Governatore (V. Tronci - Annali pisani).

Quello che mi ha prodotto una certa meraviglia è il non aver trovato alcun cenno di protesta da parte del Monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias, o delle Tre Fontane, per l’occupazione, da

parte dei pisani, di un’isola che gli apparteneva; e come gli

Aldobrandeschi e gli Orsini accettassero in feudo l’Isola del Giglio, e, per ciò pagassero un annuo canone, mentre sapevano di non poter esercitare

la loro signoria sopra tale isola, perché posseduta e governata da Pisa. È vero, bensì, che Pisa, a quei tempi, era una delle più grandi

Repubbliche italiane, la cui bandiera sventolava riverita e temuta sui mari, e le cui navi avevano il monopolio dei commerci dei porti d’Oriente.

Che forse, i buoni Monaci, non volevano noie con sì poderosa Repubblica?

Eppure — come si dirà — quante liti essi mossero, più tardi, a Siena, causate soltanto dalla misura del censo da questa a loro dovuto

per il Giglio, ed altre terre, liti, del resto, che, mediante l’intervento dei Pontefici, si risolvevano in concordati più favorevoli ai loro avversari. E

Siena non dominava — siccome vi dominavano i pisani — sul Giglio, ma, al pari degli Aldobrandeschi e degli Orsini, si contentava di segnare fra le proprie terre l’Isola del Giglio.

(2) Tronci – Annali pisani. (3) Il Corbo, o Corvo, è un punto del Golfo della Spezia.

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I Fiorentini - Nel 1362 era primo Gonfaloniere di Firenze Francesco

Cursi, il quale, ritenendo che il sopportare pazientemente le vecchie e

continue ingiurie dei pisani, ad altro non servisse che a provocarne delle nuove, col consiglio ed autorizzazione dei Priori e del Senato, comandò a

Giovanni Di Sasso — famoso condottiero — che togliesse ai pisani il castello di Pietrabuona, avendo prima simulato di bandire dalla città lo

stesso Di Sasso. La vera causa di questa guerra, che generò tanti danni ai due

popoli, ebbe origine dal Porto di Talamone, dipendente, allora, da Siena. Infatti i pisani, vedendo che in questo porto, piuttostoché nelle

loro città, si trasferivano la mercanzie di Firenze (4), e vedendo quanto danno la città propria risentisse da tale stato di cose, cercavano ogni

giorno l’occasione di rompere la pace, incoraggiati a far questo dalla lunga pazienza dei loro nemici.

I fiorentini, benché offesi, mostravano di non intendere gli animi dei pisani, e attesero sempre a difendere le cose loro, fino a che il Cursi,

come abbiamo detto, non ordinò a Giovanni Di Sasso, di assalire il castello di Pietrabuona.

I pisani, vedutisi assaliti, mandarono essi pure delle milizie per togliere ai fiorentini Sommacolonna; ma non riuscendo il loro disegno,

attesero a ricuperare, con maggiori sforzi, la terra perduta. Accesisi maggiormente gli odi, Firenze mise in piedi un

formidabile esercito ed una flotta poderosa; assalì Pierino Grimaldi, genovese, con quattro galere ed a queste ne aggiunse altre due che aveva

avute in soccorso da Niccola Acciaiuoli, gran siniscalco del Re di Napoli. Queste navi recarono gravi danni ai pisani, ardendo ed

affondando i legni e saccheggiando tutte le coste. Ma il Grimaldi, volendo distinguersi, e fare cosa di qualche

importanza prima che il cambiare della stagione gli vietasse o impedisse il navigare, il 1° giorno di ottobre 1362 si volse al Giglio, e, sbarcato

nell’isola, dette una grande battaglia, ed assaltò il castello. I terrazzani, senza che facessero segno alcuno di arrendersi, si

difesero gagliardamente, e mostrarono gran ardimento, che, però, venne meno la mattina seguente, quando si accorsero che il Grimaldi, niente

affatto sbigottito per il contrasto trovato il giorno innanzi, tornava più feroce ad assalirli.

(4) Matteo Villani. Cronaca, lib, VI cap, 11 - Sismondi, Storia delle Repubbliche Italiana, cap, 46 - Malevoli, Storia di Siena, lib, VI.

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affatto sbigottito per il contrasto trovato il giorno innanzi, tornava più feroce ad assalirli.

Veduto l’accanimento del Grimaldi, gli si arresero, salvo l’avere e le persone; ed anzi lo aiutarono ad espugnare la rocca, nella quale era

castellano Iacopo di Vanni da Pisa. Questi, scoraggiato per la perdita della terra, vedendo che i

terrazzani stessi si erano uniti ai fiorentini nell’assalirlo, dopo breve resistenza si arrese egli pure.

Tali cose scritte a Firenze nel momento appunto che vi si erano celebrate le esequie di Luigi re di Napoli, riempirono di grande allegrezza

gli animi dei senatori, i quali mandarono un cittadino fiorentino per castellano della rocca, facendo gli abitanti dell’isola franchi per cinque

anni, con obbligo di dare il cero per S. Giovanni Battista. E queste disposizioni furono prese perché i fiorentini stimavano

non essere cosa di poca importanza l’avere allora, per la prima volta, fermate le loro insegne sul mare Tirreno, impadronendosi di una fortezza

ritenuta inespugnabile. Il Tronci stesso, nei suoi Annali Pisani, si meraviglia della celerità

e prestezza con cui il Grimaldi si impadronì di quel castello, che né genovesi, né catalani, né napoletani avevano mai potuto sottomettere (V.

Tronci citato). Intanto il Grimaldi, non avendo potuto approdare all’Elba, venne

al Porto Pisano, e, impadronitosene, ne mandò a Firenze, in pezzi, le catene, che furono appese alle due colonne di porfido, già dai pisani

regalate ai fiorentini nel 1117, e da questi collocate all’esterno del Battistero di San Giovanni.

L’asprezza della stagione pose breve sosta a questa guerra, che durò, con alterne vicende, fino al 1364.

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CAPITOLO VII

PACE DI PESCIA - PISA IN POTERE DI FIRENZE

LA REPUBBLICA DI SIENA

Pace di Pescia - In quest’anno (1364) fu conclusa la pace tra Pisa e

Firenze, essendo la prima rappresentata dagli ambasciatori Giovanni

Della Rocca, cavaliere, Piero De Vico, e Lupo di Conte, dottori, e Guido Aiutamicristo, e da uno di Lucca, che fu Simone da Barga, dottore, alla

presenza di Patronio, Arcivescovo di Ravenna, e di Fra Marco, generale dei frati minori, ambasciatori di Sua Santità Urbano V, di Leonardo

Draghi, dottore di legge, e di Andalo Pinelli, ambasciatori del Doge di di Genova.

Questa pace venne pubblicata in Firenze il 1° settembre dello stesso anno (1364), quando appunto fu nominato Gonfaloniere di

Giustizia Simone Peruzzi, cittadino molto grato al popolo, per avere, l’anno innanzi, difeso la pubblica libertà contro le importune domande di

Pandolfo Malatesta. La pace, senza alcun dubbio, fu fatta con vantaggio grande, e

grande riputazione dei fiorentini, perché fu trattata e conchiusa in Pescia, terra sottoposta al dominio della Repubblica, mentre Galeotto

Malatesta, suo capitano, con l’esercito armato si trovava sempre sul territorio dei pisani.

I patti furono: i pisani fossero obbligati a restituire ai fiorentini il castello di Pietrabuona, Altopascio ecc.; che dovessero pagare ai

fiorentini centomila fiorini nello spazio di dieci anni. I fiorentini poi dovessero rendere al Doge e Comune di Pisa il castello di Ghezzano,

Peccioli, l’isola, castello e rocca del Giglio, venti giorni dopo pubblicata la pace.

E così il Giglio, dopo un brevissimo periodo (2 ottobre 1362 - 20 settembre 1364) di denominazione fiorentina, ritornò in potere dei pisani,

sotto i quali rimase fino al 1406, per ricadere, in quell’epoca, nuovamente nelle mani dei fiorentini.

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Intanto accennerò come nel 1369 i fiorentini, a causa della via lunga, incomoda e malsicura che dovevano percorrere per trasportare le

merci dal Porto di Talamone in Firenze, pensarono bene di far approdare le loro mercanzie nuovamente nel Porto pisano (Pignotti, t. III).

Giacomo Appiano, ucciso Pietro Gambacorti, si impadronì di Pisa (luglio 1392).

Venuto a morte, la lasciò in eredità a suo figlio Gherardo, il quale vedendosi incapace di mantenersi in signoria, la vendè a Gian Galeazzo

duca di Milano. II figlio di questo, Gabriele Maria, rese al sommo grado

malcontenti i suoi sudditi con la sua tirannia, e fu allora che i fiorentini (1404) tentarono di impadronirsi di Pisa, cacciandone I Visconti.

L’impresa non riuscì perché, sebbene già si fossero impadroniti della cittadella, ne furono cacciati dai pisani, però si impadronirono di

Ripafratta, dove lasciarono Guglielmo Altoviti con cento fanti, e di S. Maria guardata per conto dei fiorentini, dalla compagnia Della Rosa, la

quale, licenziata da Gabriele Visconti, venne al soldo di Firenze. I pisani mandarono ambasciatori ai fiorentini, dicendo che

restituissero le fortezze di Ripafratta e di S. Maria; si contentassero dei loro confini; e, se nei pochi giorni che avevan tenuto quelle fortezze, ci

avevano fatto delle spese per restaurarle, la loro Repubblica avrebbe saputo rimborsarli.

I fiorentini rigettarono le offerte dei pisani, intimarono loro la guerra, ordinando a Iacopo Salviati di cominciare le ostilità.

Allora i pisani si preparano alla difesa; chiamarono i Gambacorti, già da loro esiliati; fecero provvisioni di genti e di vettovaglie, ed

assoldarono Agnello Della Pergola con 600, e, secondo altri, 1000 cavalli, e Gaspare dei Pazzi. I fiorentini, poi, avevano al loro soldo Muzio

Attendolo Sforza. Per una anno attesero a fare scorrerie pel contado di Pisa, e fu sul

principio dell’anno seguente (1406) che si diressero verso la città. I pisani, tormentati dalla fatica e dalla miseria, estenuati dalla fame, dopo avere invano tentato di cacciare dalla città le bocche inutili, inalberarono

la bandiera del duca di Borgogna. Però i fiorentini non si lasciarono intimorire; anzi continuarono

l’assedio, ed essendo in pensiero per l’avvicinarsi della cattiva stagione (era il mese di ottobre) Gino Capponi cercò di intendersi segretamente

con Giovanni Gambacorti. L’intermediario fra questi due era Bindo delle Brache, il quale

sulla mezzanotte si partiva di Pisa per recarsi alla tenda del Capponi. I Gambacorti - Dopo molte segrete trattative si capitolò, e le

condizioni più vantaggiose furono per i Gambacorti. A questi fu riservato

Page 32: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

34

il dominio di molte terre e castelli nel territorio pisano, dell’Isola del Giglio e di Capraia, insieme con una somma di 50.000 fiorini d’oro. Ma

Pisa doveva essere suddita di Firenze, e il Gambacorti doveva dare l’ingresso della città di fiorentini, e i segni di tutte le rocche che aveva in

mano. Questo trattato, fatto occultamente, fu ratificato da Firenze, e, per

garanzia reciproca, furono dati ostaggi dell’uno e dell’altro lato. Giunto il giorno della resa, il Capponi adunò i suoi, ed in tal modo

parlò loro:

«Fanti e cavalli, passeremo tutti dalla parte fiorentina; il primo dei nostri che si muoverà a preda, o commetterà un’estorsione, sarà impiccato sul momento; i capitani ne risponderanno per i soldati; e se il popolo farà movimento, io sarò con voi, e dirò che cosa debba esser fatto».

La mattina del 9 ottobre (1406), prima del far del giorno, l’esercito fiorentino si presentò alla porta di S. Marco, o porta fiorentina. Questa

era aperta, e il Gambacorti sul limitare di essa, tenendo in pugno il suo giavellotto di ferro, e presentandolo al Capponi, «Io vi do — disse —

questo ferro in segno del dominio di questa città, una volta nostra, ora non più perché noi, suoi cittadini, abbiamo troppo guardato alle cose

nostre di noi, e non a quelle della Repubblica». Conquistata Pisa, tutti i paesi del suo dominio si assoggettarono a

Firenze; e nel numero dei nuovi sudditi furono ancora i gigliesi, i quali, quantunque dipendenti, nominalmente, dei Gambacorti, in virtù di certi

capitoli, ottennero limitati privilegi che ogni cinque anni venivano prorogati col recare a Firenze, come tutti gli altri popoli conquistati,

l’anno tributo del palio nel giorno di S. Giovanni. A dimostrare che effimera e brevissima fu la signora dei

Gambacorti, accennerò alla deliberazione presa dal popolo gigliese, adunato solennemente il 25 maggio 1408, nella chiesa parrocchiale di

San Pietro apostolo, per cui si nomineranno due Sindaci, i quali si presentassero a Firenze a portare il loro omaggio alla Signoria, ed un pallio del valore di otto fiorini a S. Giovanni Battista (Arch. Diplom.

Fiorent. Carte delle Riformagioni). Siena - Da quanto sopra è stato detto sappiamo che il Giglio, fin

dal 1293 venne in potere degli Orsini di Roma, i quali se ne dicevano i

padroni, mentre i pisani e i fiorentini, come abbiamo visto, se lo toglievano e cedevano scambievolmente.

La Repubblica di Siena, nemica da gran tempo, ed in lotta con gli Orsini, tolse a questi, nel 1414, Orbetello, e nell’anno successivo gli altri

luoghi ad Orbetello circostanti, e che, prima dell’infeudazione orsina, appartenevano ai Monaci Cistercensi di S. Anastasio.

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Tali luoghi furono: Porto Fenilia, o il Portuso, Portercole, Monte Giglio, l’Isola di Giannutri, Monte Argentario, Marsigliana, Alticosto

(Tricosto), Capalbio, Monte Aguto, Serpenna, Stacchilagio, Abbazia della Selva (le Selve), il territorio del Colignolo (Cutignolo), il monte di

Cerasciole, e il lago di Burano. - (Bianchi L., - Port. Sen. nell’Archivio stor. ital.).

I Monaci dell’Abbazia delle Tre Fontane e dei SS. Vincenzo ed Anastasio ad Aquas Salvias, intentarono una lite a Siena, sostenendo

che, morto Aldobrandino, ultimo discendente della linea Orsini, a cui i Monaci stessi avevan ceduto in enfiteusi Giglio, Orbetello ecc., tale luogo

dovevano ritornare al Monastero delle Tre Fontane, e non poteva, quindi, la Repubblica senese ritenerseli.

Aspra e lunga fu la lite; e finalmente, mercé la potente mediazione del Pontefice Niccolò V, fu posto termine alle inimicizie tra Siena e la

Badia, col concorso altresì del Vescovo di Sovana, Monsignor Apollonio Massaini, e di Niccolò Severini ambasciatore di Siena presso Niccolò V.

Angiolo, abate del rammentato Monastero, pretendeva che Siena dovesse corrispondere alcuni censi enfiteutici arretrati, e non soddisfatti dagli

Orsini. La Repubblica osservava che i luoghi furono acquistati con la guerra, e per diritto di guerra se li potevano tenere, e che non

intendevano pagare i canoni enfiteutici dovuti dagli Orsini. Discussasi la causa dinanzi al predetto Pontefice, si venne ad un concordato (12 agosto

1452), per cui i Monaci acconsentirono che Siena tenesse occupati i luoghi di pertinenza dell’Abbazia delle Tre Fontane, a condizione di

pagare, nel giorno di Pasqua, agli abati di questa, un annuo tributo di lire quindici d’oro senese; che spirati 15 giorni dalla scadenza del tributo,

il canone dovuto dai senesi dovesse raddoppiarsi; e che se il canone stesso non venisse pagato entro tre anni, i senesi si dovessero pagare lire

60 d’oro. I Monaci, poi, avevano il diritto di esportare, dalle località

accennate, merci e generi qualsiasi, senza pagamento di dazi. Siena doveva ancora pagare 100 fiorini d’oro per i censi arretrati dovuti dagli

Orsini. Tali condizioni furono accettate dalla Repubblica e furono

approvate dai Monaci Cistercensi riuniti in Capitolo. Aggiungerò ancora che il tributo dovuto da Siena fu, più tardi,

ridotto a 5 ducati d’argento. Sembravano le cose definitivamente sistemate, quando — sette

anni dopo — l’Abate delle Tre Fontane mosse una nuova lite contro Siena, e sempre per lo stesso motivo. Ma il Pontefice Pio II, con sua Bolla

21 maggio 1459 data in Siena, diretta alla Signoria di questa città, avvertiva che Angiolo Abate dei Cistercensi, aveva desistito dalla lite; e,

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con altra Bolla spedita all’Abate stesso, confermava e ratificava l’operato di Niccolò V, ponendo così nuovamente termine alle divergenze tra senesi e Monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias.

Morto Pio II le liti nuovamente si riaccesero; la Repubblica senese

fu dichiarata decaduta dall’enfiteusi; Siena si appellò contro tale sentenza, e si venne di nuovo ad un amichevole componimento (14 luglio

1466), per il quale Siena rientrava nei suoi diritti, col patto di pagare — quale tributo — un calice d’argento di una libbra, ogni tre anni, al

Monastero dei Cistercensi, e di rinnovare il contratto enfiteutico ogni 24 anni.

E spesso si ebbero altre lotte ed altre pacificazioni tra Siena e Mo-naci ricordati, poiché troviamo atti di aggiustamento reciproco in data del

1467, 1468, 1475. Però se Siena venne a possedere, o meglio ad annoverare fra le lo-

calità soggette al suo dominio, l’Isola del Giglio; se tante lotte sostenne coi Cistercensi, è un fatto che anche la Signoria senese fu, pel Giglio,

nominale, e ciò si arguisce dai seguenti fatti: 1° Siena patteggiò con gli Orsini che le cedessero il Giglio, e noi

sappiamo già che gli Orsini mai vi avevano esercitato il loro dominio. 2° Gli storici pisani — il Tronci specialmente — che registrarono

le più piccole perdite e conquiste fatte da Pisa, mai parlano che il Giglio, dal 1264, anno della stipulazione del trattato fra Pisa e il Re di Tunisi,

fino al 1447, epoca in cui Giglio cadde nelle mani dei napoletani, sia stato preso da altri fuor che dai pisani e dai fiorentini. Come non parlare

della perdita di un castello importantissimo, se perdita vi fosse stata, mentre la prima volta che si accenna alla sua perdita si usano parole di

meraviglia, si decanta la sua inespugnabilità, e si confessa che, invero, fu assalito da tanti e diversi nemici?

3° Nel 1452, 1459, 1466 ecc., si stabiliva — come più sopra accennammo — che Giglio doveva essere di Siena, ed il Giglio, fin dal

1447, era nelle mani di Alfonso d’Aragona, come più sotto vedremo. Bisogna dunque concludere che, tanto i Cistercensi, quanto gli

Aldobrandeschi, gli Orsini e Siena furono, di nome, signori del Giglio, ma i veri padroni e dominatori erano altri.

Page 35: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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CAPITOLO VIII

ALFONSO D’ARAGONA RE DI NAPOLI

I PICCOLOMINI D’ARAGONA

I MEDICI

Alfonso d’Aragona - Per poco tempo stettero i gigliesi sotto

l’effettivo potere dei fiorentini, perché vennero presto sotto il dominio di

Alfonso d’Aragona Re di Napoli. Ed infatti nel 1447 i soldati delle flotte di Alfonso sbarcarono al Giglio, se ne impadronirono e per di lui conto vi

stette un presidio fino al 1460. E mentre che gli aragonesi occupavano il Giglio, si ratificava

(1452 e 1459) la cessione fatta di questa isola dagli Orsini a Siena! Come, dunque, non poter dire che Giglio soltanto nominalmente

apparteneva ai senesi? Nel 1460 il Pontefice Pio II, quello che, come dicemmo, aggiustò le

vertenze fra l’Abate commendatario delle Tre Fontane e la Repubblica senese, riuscì a persuadere e indurre Alfonso a cedere al proprio nipote

Antonio Piccolomini di Aragona, ed ai suoi successori la Signoria dell’Isola del Giglio, con il castello e distretto di Castiglione della Pescaia

e le Rocchette di Pian d’Alma. Tale Signoria fu ceduta poco dopo dallo stesso Piccolomini al

proprio fratello Andrea, Duca di Amalfi, con diritto di successione a favore dei di lui figli ed eredi.

Ai discendenti di Andrea Piccolomini i gigliesi ubbidirono per circa un secolo, e precisamente fino a che donna Silvia Piccolomini ed il suo

marito don Indico da Capestrano, previo l’assenso di Filippo II Re di Spagna, con atto pubblico degli 11 gennaio 1558 (stile fiorentino)

venderono l’Isola del Giglio, Castiglione della Pescaia e le Rocchette di Pian d’Alma, a donna Eleonora di Toledo, moglie di Cosìmo I, allora Duca

di Firenze, per il prezzo di 32,162 ducati napoletani. Tale somma dovette essere pagata quando don Indico da Capestrano avesse trovato da

rivestirla in tanti castelli nel regno di Napoli, a favore della propria moglie donna Silvia.

Page 36: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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Alla morte di donna Eleonora, l’Isola del Giglio, Castiglione della Pescaia, con le rispettive giurisdizioni, furono incorporate al dominio

Granducale della Toscana. I Medici - Se fino a qui abbiam veduto le vicende cui fu soggetta

l’Isola del Giglio; se abbiam conosciuto i padroni ai quali fu costretta ubbidire, ora siam giunti ad un periodo che ci permette di aggiungere

alcuni particolari, i quali ci serviranno per la conoscenza del modi di vivere dei gigliesi.

Innanzi tutto, poche parole generali su quella famiglia dei Medici, che tanto tempo comandò su quest’Isola, e che tanto bene fece agli

isolani. Quietate le continue discordie dei guelfi e ghibellini, dei nobili e,

plebei; cacciato il Duca d’Atene, che si era fatto tiranno di Firenze (13 agosto 1343), cominciò a farsi conoscere la famiglia Medici.

Nel 1378 Salvestro de Medici e Benedetto Alberti sollevarono contro la parte dei veri repubblicani, le arti minori, e sopra tutto quella

della lana dei Ciompi. Michele Lando (1379) venne nominato Gonfaloniere e Signore. Fu

stabilito che dei Signori cinque fossero delle arti minori, e quattro delle arti maggiori. Da questa sollevazione è fuori di dubbio che presero tanto

favore i Medici, Ma la vera origine della futura grandezza della Casa medicea fu Cosìmo, figlio di Giovanni, che, venuti al potere i nobili, poté

sedere tra i Priori. Fu liberale, protettore delle arti e delle lettere, e veniva riguardato

come l’unico sostegno della libertà. Di che astiosi gli Albizi, Cosìmo fu mandato in esilio a Venezia (1433); ma dopo un anno (1434) venne

richiamato a Firenze, e riprese a timoneggiare la repubblica, come fece per trenta anni, mostrando la sua magnificenza nella copia di edifici e di

palazzi, nella collezione di pitture, sculture, statue, codici, medaglie ecc. Morto (1464), sulla sua tomba in S. Lorenzo, fu denominato «Pa-

dre della patria».

«Fu — dice il Machiavelli — il più riputato e nominato cittadino d’uomo disarmato che avesse non solamente Firenze, ma alcun’altre città, di che si abbia memoria, perché non solamente superò ogni altro dei tempi suoi d’autorità e di ricchezza, ma ancora di liberalità e di prudenza, perché fra tutte le altre qualità che lo facciano principe della sua patria, fu l’essere sovra gli uomini liberale e magnifico».

Piero, suo figlio, malsano di corpo, debole di mente, ne ereditò i beni, non le virtù; si circondò di armi e di soldati; furono esiliati gli

avversari che a Castrocaro vennero, in battaglia, disfatti. Morì (1469) lasciando due figli, Lorenzo e Giuliano.

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Avviene la congiura dei Pazzi, per la quale Giuliano è ucciso nella chiesa di S. Reparata (26 aprile 1478), e Lorenzo ne esce con lievi ferite: i

congiurati, Pazzi e Salviati, vennero impiccati. Lorenzo governò con molta lode; protesse gli eccellenti nelle arti,

nelle lettere; fu cortese e largo, ed ebbe il titolo di magnifico.

Venuto a morte (1492), gli successe Piero, suo figlio, intelligente,

ma ambizioso, pertinace, punto atto a reggere il peso dello Stato. Cedé molte rocche e città a Carlo VIII di Francia, sceso in Italia; i

fiorentini, indignati di tanta debolezza e della vile cessione, lo cacciarono di città, insieme con i fratelli Cardinale Giovanni e Giuliano (1494).

Condannato ed impiccato fra Girolamo Savonarola, capo dei Piagnoni, arrabbiati o compagnoni (23 maggio 1498), Giuliano e il

Cardinale Giovanni dei Medici furono ricevuti in Firenze, di cui presero la Signoria (1512).

Morto Giulio II (25 febbraio 1513), fu nominato Pontefice il Cardinale dei Medici, che prese il nome di Leone X (11 marzo 1513).

Fu, questo Pontefice, tanto grande, che lasciò il suo nome al suo secolo, altamente famoso nei più bei fasti delle lettere e delle arti italiane.

Morto Giuliano senza aver avuto figli da Filiberta di Savoia (1515) lasciò la Signoria della patria al nepote Lorenzo. Morto questo (28 aprile

1519) rimase a governare il Cardinale Giulio dei Medici. Leone X mori nel dicembre 1521; e, in via incidentale, accennerò

che, sotto il suo pontificato, si verificò l’eresia del frate agostiniano sassone, Martin Lutero.

Morto il Papa Adriano IV (9 gennaio 1522 - 14 settembre 1523) gli successe il Card. Giulio dei Medici, che si chiamò Clemente VII.

In Firenze signoreggiavano Alessandro e Ippolito dei Medici, figli di Lorenzo; ma, avvenuto il sacco di Roma (5 maggio 1527), i fiorentini li

cacciarono di città, e si riordinarono a repubblica; Gesù Cristo fu proclamato Re dei fiorentini.

Ma accordatosi Clemente VII con Carlo V, rimase convenuto e trattato «che Cesare, per la quiete d’Italia, e pace universale di tutta la

cristianità, dovesse rimettere in Firenze, nella medesima grandezza di prima, l’illustrissima casa dei Medici, a spese comuni, secondoché tra lui

e il Papa si deliberasse». (Varchi - Storia, Kb. VIII, pag. 216). Dopo assedio di dieci mesi eroicamente sostenuto (24 ottobre

1529 – 8 agosto 1530) cadde per non più risorgere la repubblica fiorentina.

Page 38: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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Alessandro dei Medici venne a Firenze, Principe della Repubblica (5 luglio 1531), si fece Duca (1° maggio 1532), fu buono da prima,

pessimo dopo. Il 25 settembre 1534 moriva Clemente VII, sotto il cui pontificato

Arrigo VIII d’Inghilterra, abbracciando la riforma religiosa di Lutero, formò quella che si dice «Chiesa anglicana», di cui si dichiarò capo

supremo. Il 7 gennaio 1537 Lorenzino dei Medici assassinava Alessandro,

rimanendo alla sua volta assassinato in Venezia il 23 febbraio 1548. Cosìmo dei Medici, giovinetto di 18 anni, nato da Giovanni delle

Bande nere, fu nominato capo dello Stato fiorentino. Cosìmo I - Certamente in questo tempo il Giglio non doveva essere

quello che vedemmo essere stato ai tempi romani. Era, anzi, in grande deperimento, e Cosìmo I, tanto per attivarne il commercio e favorirne

l’agricoltura e le industrie, vi mandò una colonna di greci con l’occorrente per coltivare delle vigne ed esercitare la pesca e l’agricoltura. (Repetti,

Dizion. geogr. stor. della Toscana; Galluzzi, Storia del Granducato di Toscana, libro III, cap. X).

Ritirandosi Cosìmo I dal potere, gli successe il di lui figlio Francesco I (11 giugno 1564).

Lo scrittore della storia toscana sotto il governo dei Medici, ci assicura che questo Granduca intraprese la scavazione di una miniera di

ferro nell’Isola del Giglio, e che il metallo fu trovato, dopo molte prove, più atto d’ogni altro a ridursi in acciaio (Galluzzi, op. cit., libro IV, cap.

II). Questo tentativo, però, del quale l’autorità dello storico non ci

permette di dubitare, dovè seguitarsi per poco tempo, e non vedendolo neppure accennato dall’illustre naturalista Targioni in quello scritto che,

sopra questo soggetto, presentò al conte di Ruchecourt l’anno 1743, ci porta a credere quel sommo ricercatore di ogni produzione del suolo

toscano, non ne ritrovasse traccia alcuna nella immensa cultura di cui era fornito. E, forse, quel progetto venne abbandonato del tutto alla

morte di quel principe, per le stesse ragioni che fecero sospendere l’escavazione intrapresa nel territorio senese, sotto la direzione del

celebre Vannuccio Biringucci, per essere, cioè, quella vena, meno ricca e più difficile a fondersi, che non quella di Rio dell’Elba.

Gli scavi fatti alla vena, dimostrano che quella miniera fu abbandonata poco dopo la sua apertura, anche perché il filone di ferro

non si internava nelle montagne (Repetti, Diz. geogr. stor. della Toscana). Il Meneghini, nel Saggio sulla costituzione geologica della

Provincia di Grosseto (pag. 33-34), paragona la miniera di ferro della Cala dell’Allume, ai giacimenti esistenti all’Elba, avvertendo che

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industrialmente potrebbe divenire di grande importanza, e la chiama, altresì, sommamente istruttiva per le sue condizioni geologiche.

Ferdinando I - Morto Francesco I nell’età di 47 anni, ebbe a suo

successore il fratello Ferdinando I (1587).

Il 24 ottobre 1595 si incendiò il Duomo di Pisa. Ferdinando I donò 12.000 scudi del proprio; concesse un’imposizione di altri 40.000 scudi e

queste somme, aggiunte alle rendite di quel tempo, servirono per restaurarlo e ridonarlo al primiero splendore. Le 24 colossali colonne di

granito che tuttora si ammirano, e si vedono fiancheggiare le gran navate del magnifico Duomo Pisano, e che misurano metri 9,953 di altezza,

compresa la base e il capitello, furono levate e lavorate parte al Giglio e parte all’Elba.

Alessandro Da Morrona (Pisa illustrata nelle arti del disegno, Pisa, Francesco Pieraccini (1787-93), nel vol. 1° a pag. 56), riferisce come,

basandosi sull’antico codice, lettera 1, dell’archivio capitolare, vennero, nel 1597, cambiate alcune colonne nell’interno del Duomo stesso, tra le

quali quattro grossissime furono condotte dall’isola del Giglio per la navata di mezzo.

Aggiunge inoltre che da altro codice (92 col. 37) della Magliabecchiana rilevò che una colonna di granito rimase nell’Isola del

Giglio sulla spiaggia del mare. Ferdinando I ordinò, con suo testamento, che del Giglio si facesse,

insieme con altri beni, una primogenitura a favore del figlio principe ereditario Cosìmo, da passare nei suoi discendenti e successori al trono

di Toscana. In conseguenza di tale atto, questa Isola aveva l’onore di dare il titolo di Signoria speciale ai figli primogeniti dei sovrani della Toscana.

Sotto questi signori, e sotto i loro successore: Cosìmo II (1608 -1621), Ferdinando II (1621-1670), Cosìmo III (1670 – 1723) e Gian

Castone (1723 - 1737), i Gigliesi sembra godessero di ampia libertà e di relativo benessere.

E per dare un’idea di come funzionavano, nel secolo XVI, le cose pubbliche ed i pubblici poteri, e come erano retti, e come si reggevano gli

isolani, riporterò quanto ho potuto ricavare dallo studio dei documenti manoscritti che si conservano nell’Archivio comunale dell’Isola del Giglio.

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CAPITOLO IX

IL GIGLIO NEL SECOLO XVI

Potestà - II Governo teneva nell’Isola un Podestà ed un Notaro.

Quali erano le attribuzioni del Podestà? Si vedono nel giuramento che egli era tenuto a prestare. Infatti leggesi nel capitolo 1° degli statuti

dell’Isola del Giglio, intitolalo «Dal sacramento del Podestà e del Notaro».

«In primo statuimo et ordinamo del iuramento del Podestà o vero del Notaro in principio del suo cominciamento del suo offitio de iurare in publico parlamento ale sante seo Vangelo toccando lo presente statuto di tenere ed osservare nelo castelo di Giglio li detti ordini et mantener e’ difendere le zaxioni delle jexie (chiese) et di fare ragioni ad orphani, a le vedove, pupilli et ad ogni altra singolare persona. Et debia giurare a bona fede senza frodo rimosso odi amore timore premio o prezzo et ogni altra humana grazia. Et che lo detto Podestà debbia giurare di mandare ad executione e ciaschedune riformationi et deliberationi di consiglio che a suo tempo si facesse».

Aveva, dunque, il supremo comando, amministrava la giustizia, ed era soggetto a multa chi gli disubbidisse, specialmente in tempi di

mischie e di rumori. Da prima il Podestà rimaneva al Giglio un solo anno «itera

statuimo et ordenamo che lo Podestà el quale verrà in Giglio debia stare nel officio un anno. Et da uno anno in la si debba mandare lo scambio»

(cap. 38 statuti citati); ma più tardi, come vedremo, stava nell’Isola a beneplacito del sovrano, e non poteva allontanarsene senza

l’assentimento di questo. E se il Podestà amministrava la giustizia, aveva diritto, per ogni

causa portata dinanzi a lui, ad un compenso, giacché negli statuti cennati leggesi (cap. 2°):

«Item statuimo et ordenamo che 1 Podestà debia tollere d’ogni richiamo che si ponesse dinanti a lui dinari sei per lira. Et per publicatione soldi dui, et per ogni copia di testimoni soldi dui. Et si qualuq. persona pigliasse pegno o vero cosa stabile habbia lo Podestà soldi quattro. Et li ponitori soldi dui per uno... Et chel Podestà o vero lo Notaio non possano tollere alcuno danaio d’alcunio piato per insino a tante che sarà diffinito o sententia data.

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Et quello che perde lo piato sia gravato a pagare le spese. Item che lo Podestà e suo offitiale no debbiano ricevere alcuno danaio per alcuna scrittura che facessimo per ritrovare alcuno malifitio comesso o messo avanti al offitiale per un ricercamento».

Per quanto fosse l’autorità del Podestà, pure, in casi normali, non poteva, di suo arbitrio, mettere in rocca nessuna persona, salvo il caso di

flagrante delitto o tradimento. Era obbligo suo di tenere, quale magistrato, due soli libri separati,

l’uno per gli affari penali, l’altro per gli affari civili. Invidiabile semplicità tutt’opposta ai sistemi burocratici attuali!

Era proibito, poi, tanto al Podestà quanto al Notaio di fare il compare infino che «sono all’offitio di Giglio» e la ragione di tale

provvedimento è troppo chiara per doverla dilucidare. Bella era la disposizione per cui il Podestà ed il Notaio, decaduti

di carica, dovevano rendere conto del loro operato ai nuovi officiali, ed a tre persone del Giglio, retribuite, per ciascheduno, con otto soldi

giornalieri. Ed ancora più bella era l’altra disposizione per cui il Podestà e il Notaio dovevano trattenersi tre giorni dopo scaduti d’ufficio, e ciò per

dare tempo e comodo agli abitanti di far valere le loro ragioni e di chiedere quello che loro spettava, a persone che, per avere deposta la

veste ufficiale, erano da considerarsi come privati cittadini. In quanto, poi, al Notaro, questi aveva su per giù, le attribuzioni

degli odierni cancellieri e notari. Mentre la legge assicurava gli isolani dalle possibili prepotenze

degli impiegati del Governo, vediamo come le cose del Comune del Giglio erano regolate.

Chiamatori – Tutti i cittadini dai 25 anni in su erano elettori; però

i votanti erano pochissimi. Infatti venivano imborsati i nomi di tutti i

cittadini aventi 25 anni o più, ed ogni sei mesi — e precisamente ai primi di maggio e novembre di ciascun anno — si estraevano a sorte cinque

chiamatori (elettori), i quali dovevano eleggere due sindaci, un camarlingo o cassiere comunale, e sei consiglieri facenti parte del Consiglio minore.

I chiamatori non dovevano essere in terzo grado di parentela con

coloro che venivano proposti per le cariche di sindaci, camarlingo e consiglieri. Due fratelli carnali non potevano essere contemporaneamente

chiamatori. Oltre i due sindaci, il camarlingo ed il Consiglio minore, vi era

ancora il Consiglio maggiore, composto di 11 membri, ed inoltre vi erano

due ministrali, tre stimatori del Comune, operai della chiesa, tre viari,

due operai di porto, quattro guardie palesi e due segrete, ed infine due capitani di guerra.

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44

Tanto il Consiglio maggiore, quanto gli altri pubblici ufficiali rammentati, erano nominati dai sindaci, dal Consiglio minore e dal

Podestà; come pure dagli stessi venivano nominati gli spartitori di mischie e i testimoni di fama.

La gerarchia amministrativa di quei tempi, si chiudeva con un camparo, ed un messo.

Sindaci – Questi, in numero di due, dovevano ogni sei mesi,

insieme col Podestà e con il Consiglio minore, farsi rendere ragione dal

camarlingo e dal gabellotto della entrata e della uscita del Comune. Radunavano il Consiglio dietro la richiesta di chiunque, e

potevano radunarlo anche se il Podestà si fosse opposto. Bella era la disposizione per cui un sindaco doveva stare in

adunanza fino a che questa non era sciolta; tutti e due i sindaci, poi, oppure uno di essi, dovevano esser sempre presenti alle disamine dei

testimoni, o di chiunque altro fosse esaminato. Ed anzi, era nulla quella disamina che fosse stata fatta senza la presenza dei sindaci.

A maggior garanzia, poi, era inibito al Podestà di citare testimoni in luogo che non fosse la casa comunale, dove soltanto rendevasi

ragione. E gli eletti del popolo, i sindaci, avevano un grande potere, ed anzi

maggiore di quello di coloro che erano mandati dai Governo a reggere l’Isola.

Mentre il Podestà non poteva arrestare alcuno, e nessuno interrogare se non alla presenza dei sindaci, questi, al contrario, avevano

il potere perfino di togliere chi loro paresse dalle carcere, (cap. 25 statuti dell’Isola del Giglio), purché non fosse imputato di ferimento o di «cosa

dubbiosa di morte», e purché il carcerato «volesse... dare raccolta di pagare la sua condannagione».

Qualunque cittadino avesse ricevuto ingiuria dal Podestà, dal Notaio o da qualche altro ufficiale o funzionario pubblico, doveva

ricorrere ai sindaci, ed era punito chi ai sindaci non avesse ricorso. Per non raggruppare nelle mani di una sola persona più cariche,

era vietato ai sindaci, a quelli del Consiglio minore ed al camarlingo, di avere altre cariche durante il loro ufficio.

Era obbligo dei sindaci fare, ogni anno, nel mese di maggio, l’inventario dei beni del Comune, e consegnare tale inventario ai loro

successori. Venivano retribuiti con venti soldi al mese per ciascuno, ed erano dispensati, per il tempo del loro ufficio, dal servizio di guardia.

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Erano i sindaci che nominavano gli ufficiali che loro abbisognavano nei sei mesi del giudicato, e cioè: i ministrali, stimatori ed

altri sopra ricordati. Consiglio Minore – Componevasi di sei persone nominate dai

cinque chiamatori. I sei consiglieri stavano, essi pure, in carica per sei mesi. Coadiuvavano i sindaci, e dovevano rivedere le entrate e le uscite

del Comune. Venivano compensati con mezza libbra di pepe per ciascheduno!

Camarlingo – Amministrava le finanze comunali, rendendone

conto — come vedemmo — al Podestà, al Notaio, ai Sindaci e al Consiglio

minore, e veniva pagato con due lire al mese. Gli ufficiali che sopra, e cioè i sindaci, i Componenti il Consiglio

minore ed il camarlingo, eletti dai cinque chiamatori, non potevano essere rieletti che dopo due anni da che erano scaduti di carica.

Diciamo ora qualche cosa delle altre cariche. Consiglio Maggiore – Er composto di undici membri, nominati dai

sindaci e dal Consiglio minore. I consiglieri dovevano intervenire al Consiglio, ed erano puniti con multa quelli che, senza un giusto motivo,

mancavano alle adunanze. In quanto, poi, al mantenimento dell’ordine nelle adunanze sia del

Consiglio maggiore che del Consiglio minore, vi era un articolo negli statuti dell’Isola del Giglio (libro 3°, cap. 73) che disponeva:

«Statuimo et ordinemo che qualche consigliere, quando fusse in Consiglio, sedendo gridasse o favellasse quando favellasse un altro se non saglie ne la ringhiera e non si levasse ritto paghi di pena soldi cinque».

Ministrali – Dovevano verificare, ogni tre mesi, i pesi e le misure;

ed ogni tre mesi, dovevano mandare un bando per avvertire che non si

potevano più adoperare le stesse misure e gli stessi pesi senza una nuova verifica.

Passavano a chiedere che si macellasse tre volte la settimana, e cioè il martedì, il giovedì e il sabato.

Chiunque voleva esportare grascie dal Giglio, doveva rendere avvertiti i ministrali: a chi non lo faceva veniva confiscata la mercanzia,

di cui un quarto andava ai ministrali, ed il resto al Comune. Stimatori – Stimavano i danni dati nei beni comunali e in quelli

privati, e dovevano portare il mazzapicchio per crociare, ossia per segnare I confini delle possessioni.

Viari – Erano incaricati di sorvegliare le vie e le fonti; tenerle nette,

e sgombre, ripararle, non permettere qualsiasi occupazione di suolo

pubblico.

Page 44: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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Nel mese di luglio dovevano mandare un bando che ciascun abitante andasse ad accomodare le vie fino a S. Maria di agosto (15

agosto, giorno della Assunzione), e quando taluno, fabbricando, occupava pubblico suolo, o non stava nei termini assegnati dai viari, era obbligo di

questo di procurare che «torni lo defitio in dareto!». Anche i viari, come gli stimatori, dovevano portare, per lo stesso

motivo, il mazzapicchio. Operai di porto – Era loro la spettanza di accusare chi gettava

zavorra dal molo in dentro, ossia nel porto; e guardare che, se la zavorra veniva gettata a terra, doveva essere portata ad una certa distanza dal

mare, e proprio sull’erba viva. Guardie palesi e segrete - L’incarico loro era di accusare chi non

rispettava le leggi, o recava danni negli altrui termini. Il curioso si è che limitata era la fede in queste guardie; difatti si

credeva a loro se il danno procurato dalla persona accusata ascendeva da uno a venti soldi; se ascendeva a somma maggiore occorreva anche la

deposizione di un testimone di buona fama. Altra cosa che fa meraviglia è che, invece di accusare subito un

individuo, il quale aveva mancato, le guardie erano in tempo a farlo entro sei giorni dalla scoperta del reato.

La distinzione, poi, tra guardie palesi e guardie segrete, ci viene fornita dal loro stesso, nome, essendo le prime note a tutti per agenti

pubblici, mentre le seconde erano dei veri e propri agenti segreti. Capitani di guerra – Questi, in numero di due, dovevano

chiamare, ogni sei mesi, gli uomini del castello del Giglio, e tutte le sere eran tenuti a fornire le guardie, la cui forza poteva essere aumentata o

diminuita secondo che piaceva al Podestà. La guardia che non obbediva ai capitani, doveva pagare soldi

venti, ed eguale somma pagavano quei capitani che tralasciavano di fornire le guardie.

Chi, di guardia, trascurava il proprio dovere, era multato, e pagava due soldi; chi arrivava a prestare servizio ad ora incompetente,

doveva pagare un soldo; e chi non montava la guardia era punito con la multa di cinque soldi.

La sentinella che non rispondeva alla guardia della rocca, era punita col dover pagare due soldi alla sentinella che dava l’allarme.

Durante il loro ufficio i capitani di guerra erano esenti dal servizio di guardia.

Page 45: CENNO STORICODELL’ISOLA DEL GIGLIO

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Testimoni di fama – Erano certamente una specie di guardie; ed

abbiamo veduto che dovevano raffermare la deposizione delle guardie,

quando queste accusavano taluno di danni che superavano il valore di venti soldi.

Spartitori di mischie – Non saprei propriamente quale incarico

avessero questi «spartitori»; ma, se dobbiamo stare alla loro

denominazione, non era certo invidiabile il loro compito. Camparo – Equivaleva all’attuale guardia campestre.

Messo del Comune – Non poteva esso allontanarsi dal castello al di

là delle croci, e doveva servire chiunque lo richiedesse dell’opera sua. Era corrisposto con otto danari, se gli affari si facevano dalle croci in dentro, con sedici danari se fuori dalle croci: con due soldi se dovevasi, il

messo, recare al porto. Il Comune, poi, poteva mandare ambasciatori, retribuiti con venti

soldi giornalieri. Ogni cinque anni si faceva la lira, una specie di catasto, che ogni

anno andava corretta. Da quanto sopra ho esposto si vede chiaramente che i gigliesi, nel

secolo XVI, potevano dirsi liberi e governati da leggi semplici ma chiare, ed erano garantiti da qualunque sopruso, essendo obbligati a ricorrere ai

sindaci nel caso avessero avuto da lagnarsi dei funzionari del governo. Tutti elettori, sebbene in numero ristrettissimo i votanti, e questi

pochi estratti a sorte; tutti eleggibili alle prime cariche dell’Isola, ora avevano il supremo comando, e poco dopo, deposto il potere, ritornavano

umili cittadini, a compiere quei doveri che i nuovi comandanti e reggitori della casa pubblica, mentre essi erano a capo dell’amministrazione

dell’Isola, compirono. 5Cosa poi degna di nota è che, mentre grande era il numero di coloro che

avevano una pubblica carica o di sindaco, consigliere, ministriale, viario, stimatore, guardia, capitano di guerra ecc., piccola, anzi piccolissima era

la popolazione gigliese. Ed infatti nel 1594 questa ascendeva a 187 persone (5). Possiamo, dunque, asserire che allora, se vero è il

censimento riportato dal Salvagnoli, tolti i fanciulli e le donne, tutti gli altri abitanti rivestivano una certa carica pubblica.

(5) Salvagnoli – Soc. Geogr. Vol. 22, pag. 76.

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CAPITOLO X

I GIGLIESI DEL SECOLO XVI

Col cambiare dei tempi cambiano i bisogni ed i costumi, e

cambiano pure le leggi che si debbono adattare all’ambiente nuovo, ed al nuovo genere di vita.

Allora correvano tempi tristi, e non vi era quella sicurezza di cui godiamo attualmente: i mari erano infestati da predoni, e tutti — ma

specialmente gli abitanti delle piccole isole — dovevano vivere in continua apprensione. È per ciò che, mentre ora occorre una licenza speciale per

portare arma qualunque, allora tutti gli abitanti, uscendo dal castello, potevano andare armati; solo il sindaco e il camarlingo erano autorizzati

a portare armi anche nel recinto delle mura del paese, e tale permesso veniva a tutti indistintamente accordato quando approdava nell’Isola un

bastimento armato, e fino a che questo vi si tratteneva. Per provvedere, poi, alla sicurezza e salvezza di tutti, e per poter

far fronte a qualunque attacco, ogni persona di Giglio od abitante in Giglio, doveva restituirsi al castello appena la campana, suonando a

stormo, dava l’allarme ed avvertiva che qualche pericolo sovrastava. Chiunque poteva accusare la persona che avesse trasgredito a tale

disposizione ricevendo la quarta parte della multa pagata dall’accusato. Era poi severamente proibito uscire od entrare in paese

scavalcando le mura, forse perché temevasi che in tal modo si venisse ad indicare il punto più debole del castello.

Qualunque cittadino avesse voluto assentarsi dal Giglio bisognava che prima ne facesse avvertito il Potestà; il padrone di barca poteva

domandare tale permesso tanto per sé, quanto per i suoi. Parimente nessuno poteva, senza licenza, avvicinarsi o salire sui bastimenti da

guerra o mercantili, neppure per contrattare i propri affari. Altra restrizione alla libertà individuale si era quella per cui gli

isolani non potevano, dopo il terzo suono, cioè dopo il de profundis, andare girando per il paese. Solo era lecito, dopo quell’ora, di stare

presso la propria abitazione, fino a quattro canne di distanza. Era permesso andare e venire con fuoco, di chiamare preti,

medico e balia. Non faccia maraviglia la disposizione per la quale era

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lecito di notte andare e venire con fuoco, perché volendo confezionare il pane e non avendo fuoco per riscaldare l’acqua in quei tempi, in cui non

era facile cosa accendere la legna, il vicino ricorreva al vicino per procurarsene, il parente al parente. Ciò si verifica anche oggi, sebbene

con la massima facilità ed economia possiamo aver fuoco; e spesso, di notte, si vedono vagare quali ombre e spaventosi fantasmi per le deserte

ed oscure vie del paese uomini, e per lo più donne con carboni e tizzi accesi, trovati nelle case dei vicini e dei parenti, rievocando così nella

mente di chi vede le leggende che tante volte sentimmo ripetute nella nostra infanzia.

Punito severamente era chi si dava a corseggiare sui mari, il che era permesso solo nel caso di danneggiare i nemici del sovrano.

Era poi vietato acquistare e vendere cosa alcuna ai corsari; l’unica cosa concessa era di poter comprare da essi delle armi.

Dai 14 ai 70 anni tutti i cittadini erano obbligati al servizio militare; montavano la guardia; dovevano compiere tutti i doveri imposti

dai regolamenti, e fare tutti i lavori ordinari delle leggi. Qualora un vecchio di oltre 70 anni avesse lavorato per sé, allora

non era dispensato dal pubblico servizio, ed era sottoposto a tutti gli obblighi degli altri cittadini.

Curiosa era la disposizione per cui una donna, citata come testimone, aveva diritto di essere accompagnata, durante il suo esame,

da un uomo. Era lecito a ciascuna persona sigillare una propria lettera col

suggello del Comune, purché, ottenuto il permesso dal Consiglio minore, avesse pagata una tassa determinata.

Per provvedere, poi, ai bisogni del Giglio, esisteva un fondo nella cassa, col quale era ordinato che «lo Potestà el Notaro, sindichi e

Consiglio che saranno debbiano procurare d’havere del grano da calende di maggio per infino ad ognissanto, a la pena di soldi quaranta per ogni

Sindico». Relazioni fra gigliesi e forestieri – Forestiero era chi non fosse

isolano, ed il forestiero che stava al Giglio era esente da qualsiasi servizio tanto militare che di Comune, questo, forse perché si considerava come

individuo sospetto. Le trasgressioni commesse da un forestiero erano punite con

maggiore severità, e certi privilegi, goduti dagli isolani, erano invece a questo negati.

Mentre tutti gli abitanti potevano portare armi fuori della porta del castello, ciò non era lecito ai forestieri, per i quali occorreva uno

speciale permesso dei Sindaci e del Potestà.

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Abbiamo veduto che ai gigliesi era lecito comprare armi dai corsari; questa cosa ancora era vietata ai forestieri, i quali nulla potevano

acquistare dalla detta gente. Il gigliese che, in luogo di passare, usciva o entrava nel castello

scavalcando le mura, era punito con una multa determinata; invece il forestiero, per lo stesso motivo, era punito, usando le stesse parole della

legge, con pena «chel Potestà et li Sindichi li peneranno, et li piacerà, così in havere come in persona secondo che a loro piacerà». (Statuti

citati, cap. 52). Ma un forestiero che, dopo un anno di domicilio al Giglio, vi

avesse preso moglie, doveva prestare qualunque servizio come se fosse gigliese, ed era ammesso a godere gli stessi privilegi e diritti degli altri

isolani, con i quali aveva a comune i doveri. Ed ora riporterò un capitolo degli statuti dell’Isola del Giglio,

capitolo che, mentre ci rivela il modo tenuto dagli isolani verso i forestieri loro debitori, rispecchia altresì i tempi in cui fu scritto, ed in cui era in

vigore. «Da forastieri a gigliesi – Statuimo che se alcuno forestiero facesse alcun

debito con alcuno gigliese et non lo pagasse, et caso advenisse che in Giglio capitasse sua barca o sua mercantia, che quello che havesse ad

havere lo possa fare sostenere. Et lo Potestà sia lecito di non lassarla partire ne la barca, ne la mercantia infino che lo ditto gigliese sia pagato,

mostrando legittime prove che havesse ad havere. A presso non capitandoci qui lo detto debitore ne sua barca o mercantia. Et

capitandoci nomini di quella terra di quello che ha fatto lo debito con lo gigliese, lo possa far costringere e sostenere a pagare la quantità che

dovesse havere»!! Questo articolo — bisogna convenirne — mentre difendeva ed

assicurava gli interessi gigliesi, violava apertamente la giustizia, stabiliva addirittura un principio di prepotenza.

Per pagare ad uno il debito di un altro, rovinare, vendendogli la mercanzia, e, occorrendo, il bastimento, un innocente per colpa di uno che, astuto, seppe ingannare la buona fede di un isolano, non era

davvero cosa giusta. Piuttosto encomiabile era l’altro capitolo per il quale tanto il

castellano, quanto i suoi uomini, non potevano contrarre debiti con gli isolani. Anzi, se un sottoposto contraeva debiti, il castellano doveva

pagare per quello; ed inoltre, se uno dei suoi uomini dovevasi allontanare dal Giglio, il castellano era in obbligo di mandare un bando per rendere

nota la prossima partenza di quell’individuo, affinché qualunque persona potesse reclamare in tempo i propri diritti.

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Se tale bando non veniva mandato, tanto il castellano, quanto i suoi uomini non potevano partire dall’Isola.

Gli obblighi e i diritti degli isolani eran riassunti in pochi capitoli, che costituivano — lo ripeto — gli statuti dell’Isola del Giglio, e tutti ne

erano a cognizione, perché il Podestà doveva, ogni sei mesi, far leggere in pubblico Consiglio gli statuti rammentati.

E questi statuti tuttora si conservano nell’Archivio Comunale gigliese, e furono scritti e sottoscritti dal notaro – giudice senese

Giovanni del fu Anseno Billo, il 25 ottobre 1558. Essi furono, per lungo tempo, l’unico codice del Giglio, fino a che

il Governo Granducale, accortosi che «molti di essi (statuti) erano in contraddizione con le leggi e bandi di S.A.R. il Sovrano, molti ineseguibili

per la mutazione delle circostanze e variazioni di tempi, credè opportuno di far compilare da persone elette del pubblico Consiglio, un nuovo

Statuto e leggi conformi alle leggi del Granducato, ed alle circostanze, costumi e bisogni del tempo presente» (Lettera della segreteria di guerra

esistente nel civile a libro segnato di E a 109 nell’Archivio).

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CAPITOLO XI

I BARBARESCHI

Mano a mano che le gloriose Repubbliche di Genova e di Pisa

andavano deperendo, e perdevano di quella potenza che le rese per tanto tempo temute e rispettate, i Mussulmani — i quali già si erano estesi

lungo le coste settentrionali dell’Africa, ed avevano conquistato la Spagna — prendevano ogni giorno più baldanza, e spesso capitavano con le loro

navi lungo le spiagge tirrene, per depredare e mettere a ferro ed a fuoco le terre nostre.

Conosciuti col nome di Barbareschi molti di essi spinti da odio religioso, molti altri da cupidigia e da speranza di ricchi bottini, venivano,

assaltavano, rubavano e fuggivano, mettendo lo scompiglio e lo spavento nelle nostre contrade.

Non sappiamo quante volte l’Isola del Giglio sia stata soggetta agli assalti di questa gente.

Lo sbarco più antico che siasi operato in quest’Isola dai Mori o Barbareschi, e che sia a nostra cognizione, è quello del 19 giugno 1452.

Leggiamo, infatti, nel capitolo 80 degli statuti dell’Isola del Giglio, intitolato «Di guardare le feste di sottoscripte»: «Anco costituimo et

ordinamo che ogni persona di Giglio sia tenuta di guardare et custodire tutte le sottoscritte feste a la pena di soldi vinti... La festa di Santo

Gervasio e Prothasio quale viene adì 19 di giugno p. la vittoria havemo de li mori che erano ritrati dentro la terra. Et in tal di li cavamo fora et

riputamo che fusse p. la vittoria di li ditti Santi. Et questa fu nel anno mille quattrocento cinquantadue adì XIX di giugno».

Kair o Keir – Eddin, figlio di corsaro, nacque a Metelino. Conosciuto anche col nome di Ariadeno Barbarossa, pirata audacissimo,

divenne capitano di Solimano II e imperò su Tunisi. (P. Giovio, Stor. lib. 27).

Nel 1534 il Barbarossa, con cento navi, venne in Toscana; saccheggiò l’Elba ed il Giglio e altre isole; e tanti danni recò lungo le

coste toscane, romane e napoletane che Carlo V, Imperatore, si decise a punire il pirata.

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Allestita una flotta potente, assaltò la città di Tunisi, dove trovavasi Barbarossa; la prese facendovi prigionieri molti saraceni, ma

Barbarossa riuscì a fuggire. Accesasi la guerra tra Carlo V e Francesco I, questi, non avendo

una flotta poderosa da contrapporre a quella del suo nemico, chiese aiuto a Solimano II, il quale gli mandò Barbarossa con 130 galere.

Il 1° luglio 1544 la flotta turca, accompagnata da cinque galere francesi, destinate da Francesco I a ringraziare Solimano per i servizi

prestati dalle sue forze marittime, si partì da Tolone per restituirsi ai propri forti.

Passando dall’Elba, Barbarossa la assaltò, mettendola a ferro e a fuoco, per indurre l’Appiani, signore di Piombino, a rilasciare libero un

turco da lui ritenuto prigioniero di nome Sinam, figlio d’un altro capitano di Solimano.

Liberatolo, gli diè comando di sette navi; e quindi, avanzatosi nella Maremma, sbarcava uomini, saccheggiava Montiano, Talamone e

Portercole difeso dallo spagnolo Caransa; tentava prendere Orbetello, che, ben presidiato dai senesi e dalle genti di Cosìmo I, resistè. Allora il

Barbarossa, voltosi improvvisamente al Giglio, ne faceva schiavi quasi tutti gli abitanti!

Sebastiano Lombardi, nelle sue Memorie dell’Isola dell’Elba, dice che i gigliesi fatti schiavi, ascesero a ben 700.

Il cav. Sebastiano Lombardi, nepote dell’autore testé citato, esclama a questo punto, e dopo aver ricordato la cifra che sopra:

«Sembra, il fatto, esagerato, scarsa essendone la popolazione. Quando ciò sia, l’esagerazione stessa mostra però che l’infortunio fu grande».

(Andamento storico delle memorie sul Monte Argentario, e di alcune altre sui paesi prossimi, pag. 38).

Io opino che, purtroppo, la cifra degli schiavi dal Barbarossa sia relativamente esatta, e ciò per i motivi seguenti:

1° Cosìmo I — come abbiamo visto — dové mandare al Giglio una colonia di greci per infondere un po’ di vita in quest’Isola;

2° Che, trascorso mezzo secolo da tale fatto, la popolazione saliva

soltanto a 187 individui. Segno certo che il Giglio aveva dovuto sopportare un grande disastro, quale quello di vedere fatti prigionieri

quasi tutti gli abitanti; 3° II nome di Barbarossa è rimasto impresso nella mente dei

gigliesi, ed il nome di Barbarossa rimane ad una località in vicinanza del castello, località, secondo le menti fanciullesche dei semplicioni, abitata

da spiriti e folletti, sotto forma di cani, difensori d’un tesoro ideale. Partito Barbarossa, la Balia di Siena, a compensare Orbetello e

Portercole dei danni subiti, concesse ad Orbetello (1544) la pesca per

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dieci anni nel lago e stagno omonimo ed altri privilegi; e a Portercole il condono dei debiti ed altri vantaggi.

Dipendendo, allora il Giglio, da Napoli, bisognerebbe consultare quegli archivi per vedere se quest’Isola ottenne qualche indennizzo.

Ma lo stato miserando in cui la trovò Cosìmo I, dimostra, con molta probabilità, che o nulla, o ebbe pochissimo.

Nel 1553 sessanta galere e venticinque galeotte turche si unirono nuovamente alla flotta francese, contro il Re di Spagna, ed essendo morto

Barbarossa, erano capitanate da un altro duce non meno terribile, di nome Bragut.

Gettatosi, questi, sulla Sicilia, venne in Toscana, danneggiò le Isole, e, senza alcun frutto, assaltò l’Elba.

Contemporaneamente Carà Mustafa, o Mustafa Bassa, dipendente di Bragut, s’impadronì della Pianosa, facendone prigionieri

tutti gli abitanti che, carichi di catene, furono imbarcati sui bastimenti turchi. A questa sorte poté sfuggire una sola famiglia che fu in tempo a

nascondersi in certe grotte dell’Isola. Nel 1555 Bragut ritornò nella nostre acque; operò uno sbarco a

Populonia e Piombino, e quindi si ritirò in Corsica. Nel 1558 i turchi ritornarono; il Re di Spagna, Filippo II,

consigliato dal Duca d’Alba, allora Viceré di Napoli (Pecci, p. IV 315, Gall. t. II), incaricò Cosìmo I di fortificare Portercole dove, sotto la direzione di

Chiappino Vitelli, ed architetto Giovanni Camerini, furono costruiti i forti Monte Filippo, S. Caterina e Stella, e la batteria di S. Berbera.

Nel tempo stesso, a S. Stefano veniva costruita la fortezza, e, forse, le due torri del Calvello e di Lividonia (Seb. Lombardi citato).

Mi pare che questa volta la Toscana e le sue Isole non sieno state molestate.

Nell’anno successivo i turchi fecero ritorno; operarono uno sbarco nell’Isola del Giglio (23 giugno 1559), ed inoltratisi fino al castello dettero

l’assalto. Si difesero i gigliesi con valore; ma i turchi prevalsero e riuscirono a salire sulle mura. Terribile momento fu quello, tanto più recente era la memoria di

recentissimo flagello subito. Perduta ogni speranza, i gigliesi valsero il pensiero a S. Giovanni, di cui quel giorno era la vigilia, e fecero voto —

fossero stati vincitori — di solennizzare quel giorno. Fidenti nell’aiuto divino, andarono nuovamente contro i turchi, i

quali, non potendo resistere al nuovo, inaspettato e disperato attacco, fuggirono.

Allora i gigliesi, memori del voto fatto, stabilirono di santificare il 23 giugno di ogni anno per ricordanza di tal fatto, comminando la solita

pena pecuniaria di soldi venti per i trasgressori.

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Cosìmo I, impensierito per queste continue scorrerie che danneggiavano il suo Stato ed il commercio del popolo suo, pensò, nel

1561, di istituire l’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, col duplice scopo di combattere i turchi e di togliere le famiglie più potenti della Toscana

dall’esercizio della mercatura, ed impedire loro, in tal modo, di acquistare maggiori ricchezze e maggiore potenza.

Pio IV (Giovanni Angelo dei Medici), con breve 1° ottobre 1561 dichiarò che l’Ordine dovesse istituirsi sotto le regole di S. Benedetto; che

il Duca Cosìmo (allora non aveva per anco il titolo di Granduca), ne fosse il primo Gran Maestro, e che tale dignità passasse ai suoi successori.

Inoltre stabilì che i cavalieri fossero insigniti della croce e dell’abito militare, e che l’Ordine dovesse appellarsi da S. Stefano, Papa e

martire. Fu costituito un pingue patrimonio; e nel novembre del detto anno, ne fu

pubblicata, finalmente, la costituzione. La residenza era in Pisa, città prossima al mare. Qui fu eretta una

chiesa conventuale (chiesa dei Cavalieri), con clero numeroso, a cui presiedeva, con titolo di Priore, un sacerdote cavaliere che aveva diritto di

pontificare. (Inghirami, Storia della Toscana). Nel 1562 tornarono i corsari, che scesero a Campiglia, e

saccheggiarono l’Elba e le altre isole dell’arcipelago toscano. Fatta la pace tra Spagna e Francia, quella si diè a battere i turchi

che ne danneggiavano le coste dei propri domini in Italia. I Barbareschi furono dispersi e sbandati, presentandosi allora alla

spicciolata; ed anzi Bragut, con poche navi, fece una comparsa nel nostro mare nello stesso anno (1563).

Intanto Cosìmo I, per meglio combattere i pirati, stipulò un contratto con Filippo II, Re di Spagna, obbligandosi ad unire le sue alle

galere spagnole. Queste navi, unite, dovevan dare la caccia ai Barbareschi.

Pio V, vedendo i cristiani perseguitati dai musulmani; impressionato dai continui progressi di questi, pensò di riunire le flotte cristiane per combattere i turchi.

E difatti le navi spagnole, veneziane, pontificie e del Duca di Savoia, si misero insieme in numero di 208 galere ed altri legni da

trasporto, con 24.000 combattenti, sotto il comando di Don Giovanni D’Austria.

II 7 ottobre 1571, nel golfo di Lepanto, si incontrarono con la flotta turca, forte di 238 galere.

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Memorabile fu quella battaglia che rintuzzò la potenza mussulmana: 200 legni turchi furono presi, rotti o inghiottiti dalle onde;

ventimila saraceni furono uccisi; cinquemila furono fatti prigionieri. Dei collegati si perdereno sette galere, e vi furono tremila feriti; ma

quindicimila cristiani vennero liberati dalla schiavitù. Da allora in poi le coste italiane, e specialmente quelle toscane,

furono discretamente libere, tanto più che i cavalieri di S. Stefano davano una caccia spietata alle rare navi saracene che ardivano comparire ai lidi

nostri. Anzi, bramosi di incontrarsi con i turchi, i cavalieri non si

contentavano più di incrociare lungo le coste del proprio paese, ma osarono andare a trovare i loro nemici nelle proprie città e nei propri

ricoveri. Nel 1607, Inghirami, ammiraglio delle galere di S. Stefano, si recò

sulle coste d’Africa; assaltò e prese Bona, facendovi schiavi 1.500 saraceni.

Inorgogliti da questa vittoria, organizzarono un’altra spedizione sotto il comando del marchese Guadagni, e andati in levante, si

scontrarono nell’arcipelago, coi turchi, riportando segnalata vittoria. Nove vascelli turchi furono presi, a bordo dei quali furono trovate tante

gioie e ricchezze pel valore di due milioni di scudi, e 700 prigionieri. Né qui si fermano le gesta dei bravi cavalieri di S. Stefano, perché

nel 1612 l’Inghirami prese il forte di Acliman in Caramania, situato dirimpetto a Cipro, e nel 1616 sorprese presso Negroponte la capitana di

Metelin ed un’altra galera che portava i tributi a Costantinopoli, sulla quale trovaronsi più di un milione di scudi, si fecero 362 schiavi, e 420

cristiani furono liberati. Non potendo, l’Inghirami, a causa della grave età, più

avventurarsi sui mari, cedé il comando a Giulio Montauto, che, nel 1620, prese un bertone turchesco denominato «il Bravo d’Algeri» armato con

21 cannoni, e difeso da centrotrentasette turchi. Incoraggiato da questo successo, il valoroso duce voleva assalire i

forte di Mietta; ma incontrata una galera saracena con duecento turchi e

duecentoventi cristiani a remo, se ne impadronì, e per non perdere queste prede rinunziò all’altra impresa, ritornandosene in Toscana coi

numerosi prigionieri e coi cristiani liberati. I turchi erano perciò terrorizzati, e più non ardivano venire nelle

acque nostre, temendo di incontrarsi con quei terribili nemici che, audaci, si recavano ad attaccarli nelle loro stesse fortezze.

Ma, ogni tanto, qualche nave isolata faceva la sua comparsa tra noi. E così, nel 1740, dopo tanto tempo, un pirata si mise a scorrazzare

nel canale del Giglio; ma fu costretto a partirsene.

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Nel 1753 quattro galeotte turche incrociavano nelle acque gigliesi. Una di esse, rimasta momentaneamente isolata, fu attaccata e presa da

nave genovese; ed allora le altre tre, piombate sul Giglio, sorpresero la torre del Campese e se ne impadronirono; ma i gigliesi riuscirono a

cacciare di nuovo i punto graditi ospiti (Seb. Lombardi citato, pag. 119). Il 20 agosto 1757 la Sublime Porta, dietro reclami mossi

specialmente da Napoli, riprovava gli atti dei corsari, ed imponeva a questi l’uso di bandiera e di colore a forma determinata.

E si arriva, così, all’arino 1799, in cui, per l’ultima volta, i corsari fecero la loro comparsa nell’Isola del Giglio.

All’alba del 18 novembre 1799 furono veduti presso l’Isola, sette bastimenti da guerra dalla parte del Lazzeretto, che vennero ben presto

riconosciuti per barbareschi. Questi andarono terra terra verso il Fenaio, ed arrivati a scoprire la torre del Campese, spedirono nove lance, e poi

altre ancora per sbarcar gente. Intanto i tunisini (che erano tali), discesi, si dettero a rubare da

per tutto e a bruciare quello che non potevan trasportare. Assalirono la torre del Campese, ma i difensori, avendo spezzato le scale con le quali i

tunisini tentavano di penetrare dentro, tralasciarono di più assalirla. Si sa che una cannonata tirata dalla torre, sopra un gruppo di

pirati, ne uccise cinque, fra i quali uno di comando. I cadaveri vennero portati via dai compagni.

Riuscito vano l’assalto alla torre del Campese, tutto il corpo della gente sbarcata fino dalla mattina alle «Secche» in numero di circa

duemila, si mosse verso il castello, che era comandato dal Bondoni Anselmo, da Grosseto.

I tunisini fecero capo a Scopeto, portando spiegate cinque bandiere, di cui quattro rosse ed una metà verde e metà rosso – cupo;

quindi, continuando la marcia per il Vernaccio, si appressarono rapidamente al paese.

Allora fu dato nella campana a martello, e le strida delle donne e dei ragazzi furono grandissime perché non avevano uomini seco, essendo questi in campagna intenti alle loro faccende.

Ma in breve l’allarme si sparse per tutta l’Isola, e la massima par-te degli uomini ritornarono in paese, e, prese le armi, si posero in stato di

difesa. Quando i tunisini furono sopra a Santa Croce, fu principiato,

dagli isolani, un fuoco così vivo, che gli assalitori furono costretti a lasciare la strada, e spiegando altre dieci bandiere, divisisi in due partite,

giunsero a circondare il castello. E, forti di numero, per meglio riuscire nel loro intento, idearono di attaccare simultaneamente il paese da più

parti. Infatti piantarono cinque bandiere al termine del terreno di

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«Rovina» sotto la Casamatta; cinque sotto «l’Orto del Capitano»; due al «Camposanto», e tre sul «Poggio» che fronteggia il paese.

Quantunque non tutti gli isolani avessero potuto essere in tempo di porgere soccorso, nondimeno quelli che riuscirono a ricoverarsi nel

castello, i preti compresi, presero le armi, e, distribuiti per le mura, aumentavano il loro fuoco e il loro coraggio all’appressarsi dei tunisini.

Il combattimento durò a lungo. Finalmente, verso le ore 4 pomeridiane del giorno suddetto, vedendo, i nemici, inutile qualsiasi

sforzo, si ritirarono a bordo dei loro bastimenti; e sul cominciar della notte, ad un segnale della nave ammiraglia, tutti si mossero, e disparvero

in breve. Lasciarono, i tunisini, otto morti sul terreno, e portarono seco

molti feriti, il numero dei quali dové essere assai grande, perché da molto sangue era bagnata tutta la strada di Scopeto, come molto sangue era

per le vie della Fontuccia e del Groceto. Secondo il Lombardi (opera citata, pag. 303 in nota), i tunisini

feriti sarebbero stati più di cento, molti dei quali sarebbero periti per mare, durante la loro ritirata.

Dei gigliesi rimase ucciso il solo Giovanni Battista Pellegrini, e vi furono quattro feriti.

Fu fatto prigioniero un turco, il quale asserì che la spedizione fu fatta dal Bey di Tunisi per prendere l’Isola del Giglio.

Furono tolti ai tunisini sei fucili, quattro cangiari, delle monete d’oro e due anelli, oggetti tutti donati e offerti a S. Mamiliano protettore

dell’Isola, il quale fu subito esposto, appena i barbereschi misero piede sulla terra.

Fu pure trovato un sacco con entro delle scale di corda, dei grossi perni, ed altre cose occorrenti per una scalata.

Le donne, dopo aver messo in sicuro le piccole creature nella fortezza, si distinsero esse pure col portare sassi per scagliarli dalle mura

contro i nemici. Questa fu l’ultima visita fatta al Giglio dai barbereschi, e di essa

si conserva ancora memoria vivissima.

Fino ad ieri ne venivano narrati i particolari dai buoni vecchioni che, sebbene fanciulli all’epoca della venuta dei pirati, pure ne ebbero

tale impressione, che mai si cancellò dalle menti loro. A proposito di questo ultimo sbarco operato nell’Isola dai

berbereschi, alcuni dicono che la flotta era composta di dodici legni algerini, e che il combattimento durò due giorni.

Ciò non è, perché nelle memorie esistenti nell’Archivio comunale del Giglio, si accenna al fatto nel modo come ho descritto.

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È, poi, inesatto che i gigliesi, usciti dal castello, incalzassero gli assalitori, respingendoli fino al mare. Basti il notare che la popolazione

era di circa mille abitanti, compresi i vecchi, le donne e i bambini; e che non tutti gli uomini fecero in tempo a ritirarsi nel castello.

Non starò a ripetere i numerosi episodi, narrati in modo vario; citerò soltanto quello di una donna, chiamata volgarmente «la Rossina»,

la quale, essendo sorda, e guardando le pecore, a quelli che dal castello la esortavano a fuggire ed a ritirarsi in paese perché venivano i turchi,

rispondeva, che le sue bestie non facessero danni, né entravano nei terreni a guastarli. Credeva, la poveretta, che la rimproverassero di poca

sorveglianza al suo gregge! I nemici alcun male fecero a quella donna; gli altri, che non

furono in tempo a rientrare in castello, fuggirono ai tunisini nascondendosi per l’Isola.

È inutile aggiungere che il 18 novembre viene considerato come festivo; e siccome si ritiene che S. Mamiliano fu quello che liberò l’Isola

dai turchi, così in quel giorno si festeggia tale Santo sotto il nome di «S. Mamiliano dei Turchi»; ed in tale occasione si espongono, in chiesa, due

cangiari ed un pistolone che soli conservansi degli oggetti tolti ai tunisini aggressori.

Ed apro qui una parentesi, per esprimere un voto, che mi auguro non debba rimanere allo stato di pio e platonico desiderio, e cioè:

II 18 novembre dell’anno in corso fanno cento anni da che i nostri padri, pochi di numero, sparsi sulla grande distesa di queste mura

castellane, respinsero ben 2000 uomini, addestrati nell’arte della guerra, maestri negli assalti e nei saccheggi.

Sarebbe doveroso, io dico, che in tal giorno, noi che viviamo ora sicuri da qualsiasi aggressione, rammentassimo, in modo particolare, il

valore dei padri nostri che, ravvivati dalla fede, seppero respingere un improvviso e formidabile assalto, cooperando, così, alla difesa della civiltà

e della religione, che ebbero un ultimo attacco, in Italia, dalle orde mussulmane.

E son certo che, signoreggiando, ora, regina la concordia in

quest’Isola, tutti si uniranno in mirabile accordo per rendere tributo di onore e venerazione all’atto eroico compiuto dai nostri cento anni or

sono, atto che dà loro il diritto d’essere chiamati «difensori della fede e della civiltà».

E la parentesi è chiusa.

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CAPITOLO XII

AMMINISTRAZIONE DEGLI INTERESSI LOCALI

In questo secolo abbiamo ancora il potestà, che disimpegna lo

stesso ufficio come nel secolo passato. Però, per gli affari militari, quale comandante del presidio, vi è un governatore militare.

Gli interessi locali sono sempre amministrati dal Comune: non vi è più il Consiglio minore ed il Consiglio maggiore; abbiamo Sindaci, che

presto si convertono in Priori. Il Consiglio era composto di quaranta membri, eletti non dal

popolo, ma dal Granduca, e duravano in carica a vita, ma potevano essere revocati dal Sovrano. Ogni sei mesi il Consiglio nominava due

Sindaci e gli altri offiziali. Verso gli ultimi del 1672 fu ordinato che ogni anno, — il primo di

novembre — si dovessero sorteggiare venti Consiglieri, i quali dovevano servire pel «Consiglio di estate», e gli altri venti pel «Consiglio di

inverno». Inoltre, fu pure stabilito che i Consiglieri non dovessero durare in

carica a vita, ma sibbene per tre anni. I motivi di tali provvedimenti si leggono nel rapporto fatto da

Virginio Magi al Granduca Cosìmo III, il quale ordinò la piena esecuzione delle proposte avanzate dallo stesso Magi.

Ed ecco, ora, il citato rapporto:

«Serenissimo Gran Duca, La terra del Giglio, pel suo buon governo, forma un Consiglio che è stato solito

essere di 40 persone, le quali vengono elette da V.A.S., perdurano in tal carica a vita, e da questi ne estraggono ogni sei mesi due Sindaci ed altri uffiziali. In oggi il numero di questi Consiglieri è di 27 persone, per la morte di molti, e per essere altri stati abilitati. Stimerei bene il riempire il numero di 40, ma col primo di novembre di questi rimborsati se ne estraessero venti che servissero pel Consiglio del verno, e gli altri venti pel Consiglio della state, incominciando col maggio conforme all’altre loro tratte di offiziali, e che ogni anno di novembre si dovesse fare la nuova imborsazione, e prima tratta. Di quelli che di presente risiedono in Consiglio ne levarei alcuni, parte per la loro natura inquieta, parte per non essere abili, e parte per non potere, essendo soli alle faccende di casa loro, e stando fuori dell’Isola il più tempo.

Vi suole essere di molta confusione nei loro Consigli, e per la rozzezza delle persone, e per volere ogn’uno mostrarsi il più saccente; inconveniente antico, onde il loro

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statuto, lib. 3, cap. 73, vi provvede con una pena di cinque soldi, non lieve a quelli tempi come è ora, che perciò parrebbe bene venissero sino ad una lira».

Séguita, quindi, proponendo quali Consiglieri debbano rimanere

in carica, e quali siano quelli da aggiungersi. Meriterebbe il conto di riportare integralmente la relazione Magi,

anche per dimostrare quali e quante famiglie da allora ad oggi siensi spente affatto, come i Pretiani, i Cipriani, i Maringo, i Franceschetti, i

Tonini, i Conforti ecc.; ma non è qui il caso. Solo dirò che il Magi prosegue:

«I quali nominati devono servire in tale carica per tre anni, quali spirati, deve la Comunità supplicare di nuovo per potere allora riformare gli inabili e gli scandalosi, che è quanto in questo proposito mi occorre significare alla A.V.S.

10 agosto 1672 Virginio Masi.

Approvasi ecc., Ferd. Bardi».

Di quanto sopra fu data lettura in Consiglio il 4 novembre 1672.

Pochissime le pubbliche entrate, anche pochissime erano le pubbliche spese.

Provenivano, le prime, dalle multe che dovevano pagare i contravventori alle leggi; ma a nulla si riducevano, perché i condannati

alle pene pecuniarie ricorrevano alla grazia sovrana, che veniva sempre accordata.

Ed anzi i gigliesi fecero, per mezzo dei loro rappresentanti (Consiglio), un’istanza al Granduca, che principia con le parole:

«L’humeni rapp.ti la Comunità del Isola del Giglio, severi e sudditi deutissimi di V.A.S. brevemente espongono...», con la quale istanza

domandavano che non si accordasse più la grazia a chi la domandava; ed il Governatore del Giglio, opportunamente interpellato da Firenze,

rispondeva:

«Ser.mo Gran Duca Per la comandata informat. debbo rappresentare a V.A.S. come questa Comunità

non ha altre entrate che le partecipazioni di accuse e pene dei danni dati e malefitii, ec., i danni dati a capo l’anno importerebbero qualche somma, et in particolare, perché chi ha il bestiame, che non sono più di dieci o dodici famiglie, non ne tengono conto nessuno, e fanno di molti danni, e ricorrono per la pena alla grazia di V.A.S., quale benignamente li concede, e ne segue pel mantenimento della Comunità l’impositione universale del dazio, con danno delle povere vedove e pupilli. Per tanto per ovviare alli inconvenienti, che si causano da q.sti isolani, che hanno il sudd. bestiame con non guardarlo, potrebbe V.A. restar servita dichiarare nei suoi benigni detti, che non intende pregiudicare alla Comunità, p. la sua partecipazione, che in tal modo li sudd. guarderanno li loro bestiami, e li

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miserabili non saranno aggravati conf. sono che è quanto devo rappresentare a V.A.S. alla quale ardisco baciarli humilmente la veste.

Giglio 26 agosto 1676 Di V.A.S. humil.mo dev.mo abb.mo serv.re e suddito

C. Vincenzo Guadaguoli Gov. re»

Concedesi come dimandano non ostante. 7 settembre 1676

Ferd. Bardi

Gli impiegati, il medico ed il chirurgo compresi, erano pagati dallo

Stato, ed i popolani, senza ideali, credendo il mondo limitato alla loro Isola, vivevano senza curarsi di dare sviluppo all’agricoltura ed al

commercio. Soldati, e come tali dai Sovrani pagati, menavano vita frugale e

sufficientemente meschina, col soldo che riscuotevano; ed affidandosi al certo, sebbene piccolo stipendio, non cercavano di procurarsi agi e

comodità. Tutti piccoli possidenti, tali sempre rimangono; ed anche oggi può

dirsi che l’Isola sia divisa press’a poco in parti uguali tra la popolazione. Ciò dimostra apatia assoluta, ed assoluta indolenza da parte degli

abitanti; poiché, se dall’individuale attività deriva il bene economico, è fatale che uno debba sopravanzare finanziariamente l’altro, essendo

impossibile, in una popolazione, una perfetta uguaglianza nell’attività individuale.

I commerci vengono fatti dai forestieri; e sono i napoletani ed i genovesi che, nel Giglio, accumulano qualche cosa e si procurano delle

agiatezze, mentre gli indigeni rimangono tutti allo stesso livello economico.

E la noncuranza dei gigliesi a procacciarsi agi e comodità, e talvolta anche a pensare di procacciarsi il vitto necessario, dipendeva dal

fatto che il Governo veniva in loro soccorso quasi tutti gli anni, somministrando grano e denari.

E se consultiamo le deliberazioni prese nel secolo XVII, e si vede che annualmente si stabiliva in Consiglio di «ricorrere a S.A. per avere

grano come pel solito» (Vedi deliberazione 4 gennaio 1631).

Ed il 20 giugno 1629 il Consiglio si radunò per dispensare il

grano venuto da Grosseto; mentre il 14 luglio 1630 vi fu un’adunanza

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per ricorrere a S.A. perché, a causa del cattivo raccolto, condoni certe spese.

E terminerò le citazioni, col riportare, anzi con l’accennare alla deliberazione del 22 dicembre 1630, con la quale si stabilì di «provvedere

grano, avvertendo i nostri padroni del gran bisogno di questa isola» e si decise di mandare «uno a Siena al signor Principe a perorare la causa

gigliese». Per dare un cenno delle entrate comunali, tolgo queste parole dal

volume delle deliberazioni del secolo XVII: «1° novembre 1630. – Si vende la gabella al solito in quattro terziarie ogni tre mesi. Levante rimase come

più offerente Antonio di Santi, e Giammatteo Miliani per scudi 36, e una lira per pagare a terziarie come sopra».

Mentre nel secolo passato i grasciari o ministrali, gli stimatori ed i viari erano nominati dai Sindaci, dal Consiglio minore e dal Podestà, ora,

invece, sono eletti dai Priori, i quali, insieme con il Camarlingo, sono scelti da cinque chiamatori.

Riporterò testualmente il processo verbale dell’adunanza tenuta il 1° maggio 1630 per mostrare che le cose succedevano appunto come ho

detto:

«Al nome di Dio, si aduna il Consiglio maggiore per cavare li nove offitiali secondo il solito delli statuti e consueto. Si cavano le cinque polize delli chiamatori, Antonio di Santi, Iacomo Antonio Lubrano, Antonio Rossi, Iacomo Modesti, Giovanni di Pasqualino li quali chiamatori elessero per capo priore di questa Comunità Antonio Rossi, ed altro priore compagno Stefano di Giovanni, e col giurarne e accettorno; elessero per camarlingo Andrea di Dom. quale accettò e giurò fare lofitio suo, elessero ancora tre consiglieri Iacomo di Ben.tto, Migliano Arienti, e Iacomo Lubrani, e così giurorno accettorno, così ancora il camarlingo.

Li priori fecero tre grascieri, Dom. Arienti, Nardo di Lazaro, Niccolaio di Caio. Ancora fecero tre stimatori, Bastiano di Batista, Cierbone di A., Carlo del Fabbro. Ancora due viari, M. Andrea Maglioli e Pavolo di Giov., così giurarono tutti tanto li grascieri, stimatori viari».

Tali elezioni avevano luogo di sei mesi in sei mesi, come vedesi

anche dal libro delle deliberazioni di quei tempi. Da ciò si vede che sui primi del secolo XVII il numero dei

consiglieri era ristretto e che venivano eletti da cinque chiamatori; si vede ancora che fu soltanto verso la metà del secolo stesso che il Consiglio

constava di 40 membri, nominati dal Granduca, come risulta dal rapporto del Magi, sopra riportato.

Se consideriamo, poi, gli abitanti di quel tempo dal lato morale pare che, riguardo ai costumi, lasciassero molto ma molto a desiderare.

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Popolo primitivo, ignorante piuttosto che no, superstizioso più che

religioso, appassionato per i balli e per tutto ciò che poteva scuotere i muscoli ed eccitare disordinati appetiti, sentiva violentemente le

passioni, ed a quelle cedeva. E per porre un riparo a tanto male, il 15 gennaio 1629 fu

pubblicato, per mezzo di Michele di Lazaro Testi, balio della corte dell’Isola del Giglio, un bando che venne letto ad alta voce quando,

terminata la Messa cantata, maggiore era la frequenza di popolo. Il rigore e le pene severissime comminate da tale bando mostrano che il male a

cui volevasi rimediare era grande, e che occorrevano rimedi pronti ed energici.

Ecco il tenore di detto bando, che per intero trascrivo, giacché da esso possiamo avere degli schiarimenti sul genere di vita che menavasi al

Giglio, e su alcuni costumi quale il «far la mattinella» ecc.:

«Avendo l’A.S. sentito i gravissimi disordini che con offesa di Dio, e detrimento della pudicizia succedono bene spesso nell’Isola del Giglio, non solo dalla gran libertà dei balli, e delle maschere che in ogni luogo e tempo quella gioventù si fa lecito, ma ancora del commercio che prima di sposarsi in faccia della chiesa hanno tra loro i futuri sposi, col presente pubblico bando proibisco a qualsivoglia persona dell’uno e dell’altro sesso, che non ardischino gli sposi dopoché per verba de futuro si saranno promesse in matrimonio, e prima che in chiesa si sieno attualmente sposati, di entrare e praticare insieme di giorno o di notte, non solo nelle case dello sposo e sposa rispettivamente, ma ancora di stare e trovarsi insieme in qualsivoglia altra casa, ancorché con pretesto di parentela, sotto pena allo sposo dell’esilio dall’Isola per un anno et alla sposa di tre mesi di carcere, e nella medesima incorono li padri, madri e fratelli che dessero comodità nelle loro case di simili pratiche.

Et scoprendosi alcuna di dette spose gravide, o sapendo che fosse tra loro seguita la copula carnale prima dell’effettivo matrimonio, incorra l’uomo in pena della galera per cinque anni, e la donna in pena della berlina, e di tre anni d’esilio dall’Isola, non ostante che poi fosse tra loro seguito il matrimonio.

Che nessuna persona dell’uno e dell’altro sesso ardisca di mascherarsi, o travestirsi né di giorno, né di notte, fuori del carnevale che principia il giorno di S. Antonio Abate, sotto pena dell’esilio dall’Isola per sei mesi all’uomo, e di due mesi di carcere alla donna, dichiarando che si intenderà travestito chi porterà panni non convenienti al suo sesso, et alla sua condizione.

Che nessuna donna sia ardita star di notte tempo, dopo sonata la seconda ritirata, su le porte delle case, o in strada a far l’amore, o discorrere con i loro innamorati, sotto pena, agli uomini dell’esilio dall’Isola per tre mesi, et alle donne d’un mese di carcere.

Che non sia lecito andar di notte tempo uomini e donne insieme cantando e fare, come dicono, «la mattinella» sotto pena a ciaschuno d’un mese di carcere.

Che nessuna persona dell’uno e dell’altro sesso ardisca ballare e far ballare pubblicamente in alcun luogo della suddetta isola nei seguenti giorni cioè nel giorno della nascita del Signore, et altri giorni susseguenti, sino al giorno della Circoncisione inclusivamente, nel giorno dell’Epifania, ne’ tre giorni di Pasqua di risurrezione, nel giorno dell’Ascensione, ne’ tre giorni della Pentecoste, e festa della SS. Trinità, e del Corpus

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Domini, nel giorno di tutti i Santi, et in tutte le feste della beatissima Vergine ancorché non siano di precetto, cioè della Concezione, Nascita, Presentazione, Annunziazione, Visitazione, Purificazione et Assunzione, sotto pena agli huomini di sei mesi d’esilio dalla isola, et alle donne di tre mesi di carcere, et ai sonatori e padroni delle case dove si faranno tali feste e balli, oltre l’esilio di sei mesi, di scudi 10 d’oro per ciascheduno da apllicarsi al maestro della squola che per la buona educazione dei figlioli intende l’A.S. mettere nell’isola».

Da quanto sopra vedesi come la pubblica scuola fu impiantata in

quest’Isola nel 1629. Ma poco frutto, sembra, abbia portato tale bando, o, se lo portò,

fu un frutto passeggiero. E difatti troviamo che il 10 agosto 1672 il Governatore Virginio

Masi, in un rapporto al Gran Duca Cosìmo III, scriveva, tra le altre, queste parole: «Sono quasi di nessuna stima le pene composte dalli

statuti dell’isola contro chi userà violenza a femmina, chi ferisse, chi gioca; onde per reprimere la loro oziosità, e la loro audacia mi parrebbe

bene farvi pubblicare la legge del 2 settembre 1579 contro chi ferisse con mazza or archibusi; e quella del 2 decembre 1558 contro quelli che

usassero violenza a femmine o maschi e la legge pubblicativa di giocare a carte».

Il 22 gennaio 1604 fu fatto attaccare un bando, al luogo solito in piazza, con cui Ferdinando I Granduca di Toscana, ordinava obbedienza

maggiore che si convenga al Governatore. Prescriveva inoltre che se un gigliese o forestiero che si trovasse in Giglio, si ricusasse di arrestare una

persona dietro ordine del Governatore, e di condurlo in rocca, doveva pagare di pena scudi 50. Di tal somma metà andava al fisco, un quarto al

giudice, e l’altro quarto all’accusatore. Qualora l’arrestato avesse opposto resistenza, si doveva portare in carcere o vivo o morto. Nello stesso bando

si minacciava, al primo caso di disobbedienza al bando stesso, di mettere nell’isola un caporale con alcuni birri, a spese della Comunità.

Si aggiungeva che chi avesse offeso il Governatore era punito con le forche e con la confisca dei beni; alla stessa pena andava incontro chi

«dava comodo, consigliava o altro per salvare il malfattore». Ordini severi vi erano anche per i padroni di barca che avessero

facilitata la fuga del reo. Tale bando, pubblicato, come dicemmo, il 22 gennaio 1604, fu

pubblicato nuovamente il 4 maggio 1673, il 4 maggio 1721 ed il 14 agosto 1727.

Anche per questo secolo bisogna fare l’osservazione che facemmo pel secolo passato, relativamente alla sproporzione fra il numero degli

abitanti e quello delle pubbliche cariche che vi erano.

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Infatti, nel 1606 gli abitanti gigliesi erano 267, numero che, sessanta anni dopo, troviamo triplicato, poiché nel 1666 ascendevano a ben 800

individui (Salvagnoli, Soc. Georg, vol. 22, pag. 76).

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CAPITOLO XIII

I LORENESI

Estinta la famiglia Medici con la morte di Gian Castone (1737), fu

nominato Gran Duca di Toscana Francesco Stefano III Duca di Lorena e di Bar, sposatosi (13 febbraio 1736) a Maria Teresa, figlia di Carlo VI

Imperatore d’Austria. Tale passaggio della Toscana alla Casa di Lorena fu stabilito e

decretato nella pace di Vienna (15 novembre 1735), con la quale finirono le contese per la successione al trono della Polonia. In detta pace, a

prevenire nuove lotte e nuove guerre per la successione della Toscana, fu stabilito di far succedere, dopo avvenuta la morte di Gian Gastone,

Francesco di Lorena. Morto Carlo VI (1740), dopo una lunga guerra per la successione

d’Austria, terminata con la pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748), si riconobbe Maria Teresa, già Regina di Ungheria, Imperatrice d’Austria col

titolo di Imperatore al suo marito. Francesco, allora, si recò in Austria, e resse il Governo di Toscana

per mezzo di Ministri da lui incaricati, fin al 13 agosto 1765, nella quale epoca morì.

In Toscana gli successe il secondogenito, Pietro Leopoldo I; sul trono Imperiale invece si assise il suo primogenito Giuseppe II, il quale vi

stette fino al 20 febbraio 1790, anno in cui, venuto a morte, gli successe, come vedremo, suo fratello Pietro Leopoldo I.

Ma prima di parlare di questo Principe, diremo qualche cosa intorno a cose di secondaria importanza, ma che tuttavia meritano di

essere rilevate perché riguardano l’Isola del Giglio. Nel 1723 fu ingrandita la chiesa; e il 2 giugno dello stesso anno

vennero al Giglio, a tale scopo, due maestri muratori, pagati dal Governo. Un anno dopo (1724), infierì nell’isola il vaiolo; ma non esistono

documenti per rilevare se tale malattia, come è supponibile, facesse molta strage.

E fu nel 1728, con lettera al Governatore dell’isola in data 8 marzo, che si concesse ai napoletani di pescare il corallo nelle acque

gigliesi. Però, i pescatori dovevano presentarsi alla Cancelleria del Giglio

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a dare mallevadoria, e dovevano portare tutto il corallo in Livorno, per levarne la decima parte di quello che era stato pescato, il quale decimo

andava alla R. Cassa. Anche il Governatore aveva diritto ad una porzione della pesca.

Però nel 1729 (17 gennaio), forse per risparmiare la seccatura di recarsi in Livorno, prima di andare a Napoli, fu ordinato che i pescatori

di corallo portassero il prodotto della loro pesca nella dogana del Giglio, per depositarvi il decimo spettante al Governo.

Nel 1731 i pescatori di corallo fecero alcuni guasti nell’isola del Giglio. Il Governo toscano ricorse a quello di Napoli, e il Governatore di

Torre del Greco condannò tutti i pescatori a pagare in solido ottanta ducati per risarcimento dei danni prodotti.

Nel 22 aprile 1732 Giov. Battista Cecconi, agente del Granduca di Napoli, scrisse domandando istruzioni a chi doveva rimettere i danari

riscossi e da riscuotere, ed aggiungeva che due padroni di feluche di Resina, condannati dal Governatore, avevan presentato alla Gran Corte

della Vicaria, due attestati del Sig. Baldassarre Puccini, castellano del Giglio, per provare che essi non erano nell’isola quando furono commessi

i detti danni. Perciò la Corte aveva ordinato di far loro restituire la quota che già avevano pagata.

Venuti i danari, ed incaricato il Giudice del Giglio di dispensarli a quelli che dai padroni e marinari delle feluche coralline erano stati

danneggiati, sembra che il Giudice la prima parte l’avesse fatta per sé. Ed infatti il 25 aprile 1733 furono chieste al Governatore dell’isola

informazioni per sapere se il Giudice avesse preso un soldo per lira dell’importare dei danni fatti dalle feluche napoletane; se avesse preso

due talleri e sette barili di vino dai duecento scudi del Granduca mandati ai gigliesi; ed infine se fosse vero che il Giudice non faceva il suo servizio.

Ma non tutti i Governatori del Giglio si contentavano di quello che, per consuetudine (giacché non vi erano disposizioni speciali) loro

toccava del corallo pescato dai napoletani. Il 4 giugno 1765 si chiedono spiegazioni al Governatore Berti, su

certi danari da lui fatti pagare ingiustamente alle feluche di Napoli. Il

Governatore risponde evasivamente, ed allora gli si dettagliano le accuse delle quali deve discolparsi, gli si domanda se è vero che egli, il

Governatore, aggravi i napoletani con esazioni arbitrarie, e come mai, mentre prima ogni feluca pagava al Governatore pro tempore un solo

zecchino per stagione, lo stesso Governatore pretende ora zecchini due e

mezzo per ogni feluca in quattro settimane.

Ma certamente la pesca del corallo doveva farsi anche sugli ultimi del secolo XVII, perché verso il 1700 fu costruita la torre del Campese,

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non solo per definire l’isola, ma anche per tenere a dovere le numerosissime feluche coralline che ogni anno venivano ad approdare

nel golfo del Campese. Tutti i Governatori dell’isola erano soliti, per non dire obbligati, ad

intervenire in chiesa nei di solenni, alle funzioni religiose, in forma ufficiale. Ma forse a tale uso si cominciò a venir meno, poiché il 25 aprile

1733 si avvertiva, dal Governo, il Governatore di prendere parte alle funzioni nei giorni prescritti «per buono esempio ed edificazione del

pubblico»; si avvertiva inoltre di cominciare a recarsi in chiesa dal giorno della prossima Pentecoste.

Quando i bastimenti gigliesi si recavano nei porti soggetti al Re di Napoli, erano obbligati a pagare certi diritti di ancoraggio, dai quali

furono dispensati nel gennaio 1756. Nel castello del Giglio essendovi la chiesa parrocchiale di S. Pietro

Apostolo, mai si era pensato di costruirvi una cappella militare. Ma nel 1761 (28 marzo) venne notificata al Governatore una deliberazione del

Consiglio di reggenza, il quale faceva le veci di Francesco, Imperatore d’Austria e Granduca di Toscana, assente, con la quale deliberazione si

stabiliva di costruire una cappella nella fortezza del Giglio, e si incaricava per la costruzione della stessa il tenente colonnello De Baillon, direttore

delle fortezze. Con altra lettera del 1° settembre dello stesso anno, il

Governatore fu comandato di mettersi d’accordo con l’arciprete per la benedizione della cappella in parola; la quale ultimata, fu benedetta

dall’arciprete Stefano Stefani, e venne consacrata a Santa Barbara. Tale funzione fu compiuta nel 1762.

Venuto, dunque, al potere Pietro Leopoldo I, tutti i toscani — ma in modo speciale i gigliesi — risentirono i benefici arrecati da quest’uomo

grande, benefico e sapiente. Scelto tale Principe modello, si concepirono modificazioni

nell’ordinamento pubblico gigliese, modificazioni che verremo esponendo più sotto, e precisamente nel capitolo seguente.

Desideroso di giovare all’isola, e volendo darle leggi e disposizioni

che fossero in relazione ed armonia con l’ambiente per cui erano fatte, emise dei decreti, abrogandone, poi, taluno appena si accorgeva non

sortire, esso, l’effetto che con quello egli si era proposto. Istituì una scuola pei fanciulli, giacché quella impiantata nel

1629 non funzionava regolarmente; e volendo poi provvedere alla tranquillità dei cittadini, per garantire la quiete ed il buon governo

dell’isola, il 7 marzo 1771 assegnò una squadra di birri, composta di un

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caporale e di due famigli, i quali dovevano prestare il loro servizio nell’isola, coadiuvati nell’opera loro dal messo e dalla guardia comunale.

Ed in questo tempo vi fu un lieve conflitto tra l’arciprete e il corpo della Comunità.

Nelle feste principali, insieme con il Governatore, i componenti il Consiglio comunale si recavano alle funzioni che si facevano in chiesa.

L’arciprete — non si sa il perché — si rifiutava di rendere gli onori dovuti al Consiglio; questo ricorse al Granduca, che fece chiedere notizie

su tale soggetto al Governatore Brusdieri (25 aprile 1771). Avutele, ordinò allo stesso Brusdieri di chiamare l’arciprete e di fargli leggere la

lettera diretta a lui, Governatore, in cui si diceva che nei giorni nei quali interveniva il Corpo della Comunità in chiesa, un prete in piviale e cotta,

doveva presentare l’acqua santa. Il celebrante, nel venire o partire dall’altare, e gli altri ministri,

dovevano fare riverenza ai rappresentanti del Comune, ed a questi si doveva dare l’incenso e la pace, o per mezzo dei ministri assistenti, o per

mezzo di altro sacerdote (13 giugno 1771). E forse per il motivo che sopra, il 18 agosto dell’anno stesso fu

concesso ai priori del Giglio di indossare le zimarre o lucchi, quale ono-rifico distintivo nelle pubbliche funzioni.

Nell’anno appresso (1772) ebbe luogo la visita dell’abate commendatario delle Tre Fontane.

Abbamo veduto che gli abati cistercensi esercitavano nell’isola un governo più religioso che civile, e sebbene la loro giurisdizione

ecclesiastica, anche in seguito, quando, cioè, il Giglio era nelle mani di altri, si estendesse su quest’isola, tuttavia sembra che poco se ne

curassero. Infatti le sacre visite non si compievano, da loro, con quella

frequenza di ora, ed anzi pare che non sieno mai state fatte, personalmente dagli abati, fino al 1772.

Nel volume delle deliberazioni 1759 – 1785, che trovasi nell’Archivio comunale del Giglio, a pag. 149 si legge:

«Si fa noto come nella mattina del di 19maggio 1772 giunse in quest’isola del Giglio, circa le ore 7, l’ecc.mo cardinale Pietro Colonna Pamfili, perpetuo commendatario dell’Abbazia delle Tre Fontane, ordinario ecclesiastico di quest’isola suddetta, per l’effetto di eseguire il ministero apostolico della visita pastorale, proveniente dal Porto Santo Stefano, scortato da sei filughe napoletane, con una compagnia di granatieri delle truppe dei Regi Presidi, con il loro capitano, tenente, alfieri, bandiera tamburo e flautino, oltre l’accompagnamento di 11 fanti di questa medesima isola passati nel porto suddetto di S. Stefano per accompagnare di là a questa parte il porporato visitatore, il quale colla sua corte, e comitiva si trattenne nell’isola e sua terra fino a tutto il di 20 maggio suddetto.

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Questa è la prima visita fatta personalmente dal cardinale commendatario ordinario suddetto, per quanto si rileva dalle memorie dell’Archivio che principiano dal secolo XVI in qua dell’era volgare cristiana, mentre tutte le altre si trovano fatte da uno dei vescovi vicini, a tale effetto delegati dal medesimo ordinario, mai più per l’addietro venuto in questo luogo.

Per ordine di S.A.R. comunicato dalla regia giurisdizione di Firenze fu complimentato dal giudice a nome del Sovrano, ed esibitagli l’assistenza del braccio, per tale occasione secondo le istruzioni di che in detta lettera – per ciò del di 21 aprile 1772, riposta nella filza ecc».

Come si vede, grande fu la pompa con cui fu ricevuto l’abate; e se

oggi tali visite più non si fanno con tanto fasto, e se hanno luogo senza corteggio veramente regale, pure si fanno sempre tra le festose

accoglienze degli isolani che vanno incontro all’abate, e lo accolgono con grida di gioia.

A proposito delle visite sacre fatte all’isola dai Vescovi a ciò delegati, rammenterò che il Rinuccini, ministro di Gian Castone dei

Medici, scrisse al capitano Paolo De Santamont, Governatore del Giglio, avvertendolo di avere ricevuto una lettera di ringraziamento per le

accoglienze e attenzioni usate dalle autorità dell’isola al Vescovo di Acquapendente, che era venuto al Giglio per amministrare la cresima (16

novembre 1731). Mentre Pietro Leopoldo I studiavasi di migliorare le condizioni dei

gigliesi, veniva in soccorso di questi fornendoli persine di grano. Nel 1780, infatti, essendo grande la miseria nell’isola, l’ottimo

Principe mandò prima cinquanta moggia di grano, e quindi altre 1400 staia per aiutare gli affamati isolani. E forse per non sembrare di dare

un’elemosina, mandò il grano a titolo di prestito; ma si può dire che non aveva ancora terminata la spedizione, che si affrettò a condonare il debito

che i gigliesi avevan contratto con lui. Nel citato volume delle deliberazioni troviamo, infatti:

«Si fa memoria che sotto il dì 28 gennaio 1781 per il canale della posta pervenne il seguente benignissimo motuproprio:

S.A.R. volendo usare un atto di clemenza verso le diverse famiglie dell’isola del Giglio, alle quali nell’anno scorso fece somministrare un imprestito dallo scrittore delle reali possessioni, una volta moggia 50 di grano, e di poi altre staia 1400 similmente di grano, è venuta nella determinazione di condonare, conforme col presente motuproprio condona a tutte le famiglie suddette, il respettivo debito che tengono col precitato scrittoio per la pendenza sopra espressa».

Mancando, i gigliesi, d’un molino per macinare le granaglie per il

loro consumo, Giuseppe Modesti domandò al Governo Granducale un sussidio per costruire uno o due mulini ad acqua.

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L’ufficio dei Fossi di Grosseto domandò al Governatore del Giglio se vi era qua un luogo atto alla costruzione, acqua sufficiente ed a

quanto poteva ascendere la spesa relativa. E forse le informazioni giuste dell’isola furono contrarie ai progetti del Modesti, perché il Granduca

ordinò che, a proprie spese, si costruisse un mulino a vento in luogo detto «il Poggio», dirimpetto al castello.

Il (5 aprile 1783 l’ing. Giov. Batta Boldrini ne diè la consegna, a nome del Sovrano, ai rappresentanti la Comunità del Giglio, e nello

stesso mulino fu redatto il seguente verbale:

«Nel Nome SS. di Dio e così sia. L’anno della comune redenzione del nostro Signor Gesù Cristo 1783, et il di 15 del

mese di aprile. Narrasi come essendo stato indotto all’ultima perfezione il nuovo mulino a vento costruito d’ordine di S.A.R., nostro Signore, per comodo e vantaggio del popolo dell’Isola del Giglio, dallo ill.mo sig. Provveditore Sopraintendente all’Ufficio dei Fossi di Grosseto in supplemento del sig. Intendente ing. Giovanni Boldrini è stato spedito in detta isola il sig. Giovanni Battista Boldrini all’effetto di visitare il detto edifizio, e trovandolo perfezionato e macinante, darne la consegna alli SS. Soprintendenti e Priori rappresentanti la Comunità dell’Isola medesima; come resulta dalla lettera del sig. Provveditore in data 10 aprile andante alla quale ecc.

Dicesi inoltre che il signor Domenico Aldi Soprintendente, Giovanni Aldi e Giov. M. Andreini Priori residenti, e anche in nome dei loro colleghi Antonio Brizzi e Giovanni Rossi assenti, essendosi personalmente portati in compagnia dell’ill.mo sig. Intendente Colon. de Guillerinin, Governatore civile e militare per S.A.R. dell’Isola del Giglio, e del signor Boldrini, e di me Cancelliere e Notaro infrascritto, alla visita del nominato mulino a vento, hanno verificato essere esso perfezionato e macinante, e volendo perciò godere della sovrana munificenza, si sono risoluti di ricevere in consegna, e bramando che di tutto ne costi a perpetua memoria del fatto per il presente pubblico istrumento.

Il mulino a vento stato consegnato come sopra è l’infrascritto cioè: Una fabbrica di muro moderna composta di tre piani, coperta con cupolo di legno

incatramalo, situata in detta Isola, luogo detto il Poggio, alla quale confinano da tutte le parti beni di Comunità con due porte nel primo piano che una a ponente con serratura, pestio e chiave, l’altra a levante con pestio e anelli di fero.

Il secondo piano la finestra con telari, sportelli e imposte, nel terzo piano un edifizio atto a macinare grano, con due macine di pietra di b. 2 di diametro, con cascina e coperchio di legno, la tramoggia e sua cassettina di legno.

Il rotone e rocchetto simili cerchiati di ferro, il palo del rocchetto tutto di ferro; il fusto di legno con colonna, e due colli di ferro; un argano di legno per girare la cupola con b. 7 di cavo di canapo, con suo occhio di ferro, altro scorcio di cavo simile per alzare la macina di b. 9 1/2; tre pezzi di catena di 6 (sei) maglie l’ima con suoi occhi di ferro; il palo di ferro a piè di porco, una cassetta fissa di legno, ove è la tromba che conduce la farina dalle macine a pian terreno del mulino. Una scaletta a sei pioli di legno, tre finestre con suoi sportelli, telai a imposte; due antenne, e 4 lapazze di legno, num. 8 vele di canapetta, num. 4 madelline, un pinzo, e uno scarpello di ferro, e una mezzetta simile.

Fatto nell’isola del Giglio nella fabbrica di detto mulino situata in contrada detta il

Poggio, popolo di S. Pietro Apostolo, presenti e alla presenza di Agostino del fu Gio.

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Francesco Folem di Portoferraio, e di Vincenzo del già Gio. Domenico Natali di detta Isola testimoni cogniti e pregati». (V vol. delib. 1759-1783, pag. 279).

Ma presto questo mulino fu a torto abbandonato dai gigliesi, e,

finalmente, nel 1816, nel timore che potesse servire di punto di attacco contro il paese, nel caso di qualche sbarco ostile, venne distrutto. Ed ora

se ne vedono distintamente i ruderi alla superficie del suolo su cui venne costruito.

Essendosi chiusa la scuola, per mancanza di assegnamenti nella cassa comunale, il sac. Giovanni Brizzi domandò che detta scuola

venisse riaperta, e stesse a carico dello Stato. Ed infatti, con biglietto del 25 agosto 1781, si ordinava la

riapertura della scuola, dando l’incarico di maestro al citato sac. Brizzi, retribuito con 24 scudi all’anno, da prelevarsi dalla cassa dell’Ufficio dei

Fossi di Grosseto. Attese le particolari circostanze dell’Isola, il Granduca accordò

ancora scudi 4 al Gonfaloniere ed ai Priori per ciascuno; e due scudi a ciascun Consigliere, e ciò per cinque anni (8 giugno 1784).

E per soccorrere sempre più i gigliesi, nel febbraio 1785 il Granduca fece consegnare 500 scudi all’arciprete Mai. Con parte di tal

somma dovevasi pagare il grano acquistato e distribuito tra le famiglie dell’Isola, nella quantità di moggia otto, staia venti; il rimanente doveva

dividersi tra le famiglie bisognose. Interessandosi dei più piccoli bisogni dei gigliesi, nel mese di

gennaio 1787 ordinò perfino che si aprisse nell’Isola un macello per provvedere di carne gli isolani. E perché il macellaro non risentisse danni

dalla concorrenza di altri individui, e fosse così costretto a chiudere il proprio negozio, fu imposto che nessuno, ad eccezione di certo Pellegrini,

potesse tenere macello. Ma i soccorsi granducali non si limitavano a mandare grano e

danari, perché, volendo incoraggiare e favorire l’agricoltura, restituiva il quarto delle spese che un proprietario incontrava nel migliorare il proprio

terreno; ed anzi questo quarto parte lo inviava anticipato! Ordinò poi che, ad eccezione delle macchie del Franco, le quali

dovevano rimanere a benefizio del Comune, i terreni comunali fossero distribuiti fra quegli abitanti che si fossero obbligati a coltivarli, facendovi

delle piantagioni di castagni, gelsi e viti nel termine di anni cinque dalla concessione (lettera 14 agosto 1787).

Per impedire, poi, le cattive esalazioni che emanavano i cimiteri, o sepolture delle chiese, ordinò la costruzione dell’attuale Camposanto,

situato fuori il paese, da farsi a spese del Governo (21 agosto 1787).

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E non solo l’agricoltura fu protetta da Pietro Leopoldo I, ma cercò che i gigliesi si provvedessero di bastimenti, perché essi potessero

dedicarsi anche alla pesca ed al commercio. Si legge, infatti, in un rescritto del 15 novembre 1786:

«Volendo S.A.R, rivolgere gli effetti della R. Sua munificenza in sollievo della popolazione dell’Isola del Giglio con incoraggiarla ad applicarsi alla pesca, principale ramo d’industria, di cui è suscettibile, è venuta nella determinazione di ordinare che dalla Cassa della Depositeria per il corso d’anni cinque la somma di scudi mille l’anno, per distribuirsi in primi a favore di quegli abitanti che porranno in mare bastimenti atti all’uso della pesca, purché fabbricati nei porti del Granducato… Possono le famiglie unirsi insieme per costruire o acquistare uno o più bastimenti, per fruire dei vantaggi, purché il numero dei bastimenti non sia maggiore di quello delle famiglie unite in società... I premi saranno otto all’anno da darsi ai primi che avranno messo i bastimenti in mare. Se i concorrenti eccedessero il numero di otto, gli eccedenti saranno prescelti l’anno appresso… A prevenire l’abuso, e che si vendano i bastimenti, incorre nella multa uguale al doppio della gratificazione avuta, chi vende entro tre anni il bastimento.

Pietro Leopoldo».

Qui non si fermano i benefizi dal Granduca Pietro Leopoldo ai

gigliesi; e, senza parlare dei numerosi sussidi accordati agli isolani, dirò che, temendo che i gigliesi fossero aggravati dal prezzo troppo elevato del

sale, assegnò lire mille sull’azienda del sale, da dividersi in dieci doti a dieci fanciulle gigliesi (15 ottobre 1788).

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CAPITOLO XIV

IL GIGLIO E I GIGLIESI NEL SECOLO XVIII

Abbiamo veduto che nel secolo scorso il governo comunale

consisteva in un Consiglio e nel primo e secondo priore, i quali nominavano altri ufficiali addetti al pubblico servizio.

Nel secolo del quale dobbiamo parlare, abbiamo sempre il Consiglio, ma i priori da due sono divenuti quattro; ed inoltre abbiamo

un sopraintendente che sulla fine del secolo, prenderà il nome di gonfaloniere.

E che quattro priori vi fossero, ed un sopraintendente, si rileva da un ricorso fatto a S.A.R. il Granduca, dai quattro priori, nel 1771, contro

l’arciprete, perché questi non rendeva i dovuti onori al Consiglio intervenuto alle funzioni religiose nei di solenni, e dall’atto di presa di

possesso del mulino costruito sul «Poggio» (15 aprile 1783), dal quale atto risulta che erano presenti a tale cerimonia i) sopraintendente e due

priori, i quali rappresentavano anche i due priori assenti. Ma nei marzo 1783 (13 marzo) per il regolamento delle Comunità

della Provincia inferiore dello Stato di Siena, e per il regolamento particolare per il Giglio, furono introdotte delle modificazioni. Vi dovevano

essere, per tale regolamento, il Consiglio generale comunitativo, composto di nove mebri, un gonfaloniere, cioè, due priori e sei consiglieri,

che duravano in carica per un anno. Ed ecco il modo che si teneva per la nomina di questo Consiglio

generale comunitativo. Si prendevano due borse; in una vi erano i nomi di quelli che

potevano essere nominati gonfalonieri e priori; l’altra conteneva i nomi di

quelli aventi i requisiti per essere consiglieri. Dalla prima borsa si estraevano tre nomi; il primo era quello del

gonfaloniere, e gli altri due, del primo e secondo priore. Dalla seconda borsa, poi, si estraevano sei nomi, ed i sorteggiati erano consiglieri.

Dunque, non erano più i chiamatori che, estratti a sorte, eleggevano gli amministratori; era, invece, la sorte che decideva chi

doveva esser gonfaloniere, priore e consigliere.

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Nell’estrazione a sorte del 18 novembre 1792 nella borsa di coloro che avevano diritto ad essere priori o gonfalonieri, eranvi i nomi di 108

possidenti. Vi è sempre il potestà che amministra la giustizia; e questo fino al

20 febbraio 1769, in cui tale carica, al Giglio, fu abolita coL seguente rescritto:

«Volendo S.A.R. che al Governatore militare dell’Isola del Giglio resti in avvenire riunita la giurisdizione attribuita al Potestà, per gli editti del di 18 marzo e 10 dicembre 1766, con tutti gli obblighi e partecipazioni prescritte ne i predetti editti agli altri Potestà della Provincia Inferiore, e che per servizio di quel Tribunale il Governatore abbia un giudice che faccia le funzioni di assessore, e dia le sentenze in nome del Governatore medesimo, e abbia simil. un notaro per servizio degl’affari di giustizia.

E frattanto vuole la R.A.S. che il dott. Lodovico Pippi prosegua a far le funzioni di giudice e goda gli assegnamenti che ha goduto fino al presente, incaricando a fare una proposizione al Commissario dell’Uffizio de Fossi di Grosseto sul modo di assicurare in quell’Isola un onesto mantenimento, tanto per l’uffizio di giudice, che per quello di notaro.

Dato in Pisa li 20 febbraio 1769

C. Pietro Leopoldo, T. Rosenberg, F. Simonetti».

Ma poco tempo deve esser durato tale stato di cose, perché

troviamo che nel 1778 vi era, ad amministrare la giustizia, non più il Potestà né il Governatore militare, ma il Vicario. E fu, anzi, con rescritto

del 2 ottobre dello stesso anno, che venne incaricato di nuovo il Governatore dell’isola dell’amministrazione della giustizia.

E piacermi riportare per intero il rescritto, giacché in esso figurano anche i motivi che determinarono il Sovrano a prendere la

risoluzione di abolire la carica di Vicario:

«S.R.A., volendo dare al Tribunale dell’Isola del Giglio una forma più adatta alle circostanze del luogo, e che produca una più sollecita, e meno dispendiosa risoluzione degli affari, sopprime l’attuale posto di Vicario, ed in luogo del medesimo comanda che il Governatore militare presieda ancora il Governo civile e criminale, con tutte quelle autorità e facoltà, obblighi e pesi che fino ad ora sono stati annessi al posto di Vicario. Il Cancelliere civile e criminale, che m avvenire sarà nominato fra quelli ammessi nelle note degli approvati perdetti impieghi, assisterà al Tribunale in qualità di attuario al Governatore predetto, in nome del quale compilerà gli atti, formerà i disegni delle sentenze ecc.

Et il detto Cancelliere negli affari economici farà ancora da Cancelliere comunicativo».

Al posto di Cancelliere era annesso l’annuo stipendio di L. 800, senza verun incerto.

Ma forse il Sovrano non ottenne quei buoni frutti che si aspettava dall’avere abolito il posto di Vicario in Giglio, perché il 19 giugno 1784 emise quest’altro decreto:

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«S.A.R. volendo provvedere ad una più regolare spedizione degli affari civili del Tribunale dell’Isola del Giglio, ordina che il Governatore militare sia sgravato della cognizione di tuttociò che riguarda il regolamento civile, salva l’assistenza del braccio militare, che dovrà prestare quando gli sia richiesta.

La giurisdizione criminale e civile dell’Isola predetta sarà esercitata da un solo soggetto col titolo di Vicario e coll’annua provvigione di L. 2100, da ritenersi dalla Cassa dell’Uffizio dei Fossi di Grosseto».

E mi sia lecito accennare al fatto che il 24 luglio 1764 fu ordinato

dal Governo che non si facessero processi per le ingiurie verbali, ed offese leggiere non medicate.

Perché questo? Forse per mettere un freno al gran numero di querele che l’un contro l’altro i gigliesi al Giudice presentavano?

Le entrate comunali, secondo il solito, erano limitatissime, e poche erano le spese.

A tutto, o quasi, pensava il Sovrano, che, come vedremo, pagava il maestro, il medico, e perfino retribuiva le cariche di Gonfaloniere, Priore

e Consigliere! Il 25 febbraio 1769 fu approvato il rilascio della gabella dei Giglio,

per l’anno stesso, al prezzo di piastre 250. Le condizioni economiche dei singoli abitanti dovevano essere ben

meschine, tanto è vero che il Granduca doveva venire continuamente in soccorso degli isolani, i quali, contando sull’aiuto del Governo, non si

curavano di migliorare le loro sorte, e tralasciavano l’agricoltura, la pesca ed ogni altra industria, sebbene venissero rimunerati con premi in

danaro quei tali che, se pur qualche lavoro eseguivano, lo facevano in pro di se stessi.

Troviamo, dunque, la stessa apatia, la stessa indifferenza e noncuranza che nei tempi addietro.

In quanto ai costumi non pare che i gigliesi di questo secolo differiscano molto di gigliesi dei secoli scorsi.

Pare impossibile che il sentimento religioso, che essi dicevano avere sviluppato, ed il rigore delle leggi, a nulla giovassero.

Abbiamo visto quanti bandi furono mandati nel secolo passato per porre un argine al mal costume; ed ora ripeterò che il bando del 22

gennaio 1604, riguardante il rispetto dovuto al Governatore, fu nuovamente pubblicato non solo nel 1673, ma anche per due altre volte,

nel secolo del quale parliamo, e cioè il 4 maggio 1721, e il 14 agosto 1727.

Nel 1731 il dott. Patrizio Ferri, Giudice dell’Isola del Giglio, domandò a Firenze che si pubblicassero di nuovo i bandi proibenti gli

amoreggiamenti.

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Il Ministro Rinuccini, forse prevedendo la inutilità di ciò, rispose (4 agosto dello stesso anno) al Ferri, che si penserà sul da farsi, e che,

intanto, se avvenisse qualche scandalo in tale maniera, si provveda nella forma più propria e conveniente.

Ma i provvedimenti presi a nulla valsero, per cui il 5 agosto 1784 fu pubblicato un nuovo bando, come si legge nel volume delle

deliberazione 1759-1785. Ivi si dice:

«Si fa memoria come in vista degli scandali e inconvenienti che seguano mediante i suoni e balli che si vanno facendo alla Casamatta, in questo suddetto giorno è stato ordinato pubblicarsi bando proibente in avvenire simili trattamenti notturni ed illeciti, tanto più in tempo dei giorni festivi, non solo alla Casamatta, ma anche in qualunque altro luogo di questa terra, alla pena contro i disubbidienti alla carcere ad arbitrio».

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CAPITOLO XV

I FRANCESI – I LORENESI – REGNO D’ITALIA

Nominato Imperatore d’Austria Pietro Leopoldo I (1790), gli

successe, nel trono di Toscana, il figlio Ferdinando III, tutto clemenza, tutto dolcezza, e non senza sagacità.

Acquistatosi l’odio dell’Inghilterra per avere riconosciuto per primo la Repubblica francese, (1° gennaio 1793), vide il porto di Livorno

occupato dagli inglesi, guidati da lord Hervey. Questi giunse anzi ad intimare al Granduca l’allontanamento del Ministro francese La – Flotte e

l’interruzione di qualsiasi commercio con la Francia: Ferdinando III fu costretto a cedere alla forza.

Nel 1795 il Granduca mandò al Giglio l’abile ingegnere Alessandro Nini, il quale presiedé alla restaurazione del molo del porto, eseguita con

molta spesa nel 1796. I gigliesi, grati al loro benefattore, Ferdinando III, con pubblica deliberazione offrirono al medesimo non meno di dodici

colonne di granito, rimaste in quelle cave sino dal tempo dei romani. Nel 1799 i francesi occuparono la Toscana, cacciandone il

Granduca Ferdinando III, che si ritirò a Vienna. Il generale austriaco D’Aspre poco tempo dopo costrinse i francesi a ritirarsi dalla Toscana;

ma questi vi ritornarono nell’anno appresso. Col trattato di Luneville (1801) la Toscana venne assegnata all’Infante di

Parma, che ne fu fatto re col nome di Lodovico I, e, morto esso, gli successe l’Infante di Spagna, Carlo Lodovico, e, per lui, sua madre Maria

Luisa di Borbone. Nel 1807, pel trattato di Fontainebleau la Toscana venne annessa

all’impero francese, ed in Firenze pose la sua sede la sorella di Napoleone I, Elisa, col titolo di Granduchessa, rimanendovi fino al 1814.

Intanto venne pubblicato in Toscana il codice napoleonico che la divideva in tre dipartimenti, dell’Arno, dell’Ombrone e del Mediterraneo.

In Firenze, Siena e Livorno, capoluoghi degli accennati dipartimenti, eranvi Prefetti; Sottoprefetti erano nelle altre città; e nei paesi, a seconda della loro importanza si trovavano maires e sotto maires.

Il Giglio dipendeva dalla Sotto Prefettura di Grosseto, Prefettura di Siena,

dipartimento dell’Ombrone.

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Per provvedere al buon ordine, alla sicurezza pubblica ed

all’osservanza delle leggi, fu istituita al Giglio una brigata, composta d’un caporale e cinque individui da lui dipendenti (31 maggio 1809).

Il 10 giugno 1809 il Maire del Giglio ricevé una lettera del Sotto Prefetto di Grosseto, con la quale si avvertiva che gli inglesi erano

sbarcati a Giannutri, e furono respinti a Santo Stefano. Raccomandavasi la vigilanza e coraggio ai gigliesi. «Dite ai gigliesi — soggiungeva — che io

ho assicurato il governo della loro bravura; che ho rammentato lo sbarco fatto dai barbareschi, per mostrare che certamente gli inglesi saranno in

ugual modo ricevuti. Dite che non cesso di parlare e scrivere per rendere sempre migliore la loro sorte».

Il governo francese ordinò che nel Giglio fosse stanziata una compagnia di 120 sedentari perché nell’isola non circolasse il danaro; e

rimunerava ed aiutava chi piantasse viti, gelsi ed olivi. Ma l’indolenza isotana non ne fu scossa; e l’agricoltura ed ogni

altra industria furono trascurate. E sebbene i gigliesi fossero chiamati a far parte della compagnia

stabilita al Giglio, e percepissero, così, una paga fissa, come militari, pure non si curavano di arruolarsi. E non è a dire che il servizio fosse

gravoso; non dovevano essere mandati lungi dall’Isola, e, pochi essendo quelli destinati giornalmente alle guardie del castello e delle torri dei

Campese, del Porto e dei Lazzaretto, e delle vedette del Fenaio, della Vena, del Caporosso, della Pieve, del Castellare, delle Porte, tutti gli altri

potevano, anzi dovevano, indossare abito borghese, vivevano nelle proprie case con le proprie famiglie, e lavoravano le possessioni loro.

E voglio riportare un brano di una lettera scritta dal sottoprefetto al maire del Giglio, per mostrare che per far godere certi vantaggi agli

isolani bisognava quasi costringerveli con la forza. Ecco la lettera: «Al Sig. Maire della Comune dell’Isola del Giglio. La Compagnia guardacoste di cotesta isola manca di ventisette individui. Essa deve essere completata. In un paese come cotesto, nel quale ognuno si lagna

di non avere mezzi di risorsa, io mi meraviglio come i nostri amministrati ricusino una paga fissa nella propria patria. Io debbo completare la compagnia, vorrei farlo col mezzo della volontà di cedesti abitanti, e vorrei risparmiare ogni mezzo di violenza. Vi accludo un proclama per invitarli, voi fate dal canto vostro quanto è possibile per ottenere l’intento. Accetterete soggetti che non abbiamo meno di 25 anni, né di più di 45.

Ho rimesso al sig. Arciprete uno dei proclami affinché nei dì festivi lo faccia presente ai popolani. Sono sicuro che alla voce dell’autorità costituita e del ministro del culto non sapranno disdire».

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Caduto, nel 1814, Napoleone, ritornò Ferdinando III a cui

successe Leopoldo II (1824) ultimo dei Granduchi, il quale gareggiò nel beneficare l’Isola con i governi antichi.

Mentre oggi i boschi preferiti per la caccia dei colombi sono quelli del Franco, allora erano invece i Quadrati e il Docce, che venivano

accordati per un lungo periodo di tempo. Il 3 giugno 1784 detti boschi furono concessi per dieci anni ad un

paolo all’anno per ciascun bosco. Relativamente poi al servizio sanitario, questo era disimpegnato

oltre che dal medico, anche dal chirurgo, il quale era retribuito con settanta scudi annui.

Non vi era farmacista; il medico teneva pochi medicamenti, ed il 9 settembre 1769 il dott. Felice Grisetti avverte il Consiglio Comunale che

provveda le medicine, perché senza queste il medico è inutile. In quanto alla popolazione dell’isola in questo secolo, troviamo

che nel 1745 essa ascendeva a 859 individui. Erano, questi, così divisi: impuberi: maschi 114, femmine 119. Adulti: maschi 204, femmine 244.

Vi erano altresì 16 sacerdoti, pari a un ecclesiastico per ogni 53, circa, abitanti.

I coniugati erano 262, e le famiglie ascendevano alla cifra di 217. Una cosa che merita di essere segnalata è questa, che mentre

nello spazio di sessanta anni, dal 1606, cioè, al 1666, la popolazione aveva avuto tale un rapido aumento che si triplicò, invece dal 1666 al

1745, cioè in settantanove anni, la popolazione aumentò di appena 59 individui.

Il dì 11 novembre 1770 i capi famiglia erano 240. Dopo il censimento del 1745 e quello incompleto del 1770, non ho

trovato che quello del 1814, e quest’ultimo assegna all’Isola del Giglio una popolazione di 1052 individui. Da ciò si arguisce che verso la fine del secolo XVIII Giglio aveva raggiunto già il migliaio di abitanti.

A qual grado di cultura erano questi abitanti? Questo solo fatto 10 dimostra: visitata l’isola dall’abate Fortis per studiarla, fu cacciato a

colpi di sassi, come colui che fu preso per negromante.

* * *

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82

Questo Sovrano non solo teneva guarnigione nell’isola allo scopo di favorire i Gigliesi, ma i suoi aiuti giunsero fino al punto di fornire

gratuitamente del pane alla popolazione, donando, nel 1847, circa 400 ettolitri di grano (6), mentre lo stesso principe aveva posto a carico dello

Stato la scuola, il medico, le strade, il fonte, la chiesa ed il culto. E volendo assicurarsi personalmente delle condizioni dei Gigliesi, si recò a

visitare l’isola loro. Distrutto il molino a vento fatto costruire da Pietro Leopoldo I

sopra il Poggio, gli isolani macinavano il loro grano servendosi dell’altro molino idraulico del Docce, costruito diversi anni prima da un frate passionista, capitato al Giglio per la predicazione o per la cerca o questua.

Questo molino, piuttosto vasto, provvisto di un bel serbatoio per l’acqua che serviva a mettere in movimento il meccanismo macinante,

ora è in rovina, ma nel 1819 fu restaurato, come si rileva dalla seguente iscrizione incisa sopra lastra di marmo incassata nel muro sulla porta del molino stesso: Rochus Aldi Rest.ut A.D. 1819. Ma l’acqua,

specialmente d’estate, non scendeva perennemente dal monte, e quindi il

molino non poteva lavorare. Allora il Granduca Leopoldo II fece costruire un molino a vento

vicino al paese, sopra un poggiuolo, a 347 metri sul mare, in località denominata Il Pianello. Il vento non facendo difetto nell’isola in qualsiasi

stagione dell’anno gli abitanti potevano sempre macinarsi il grano. Ma anche tale molino venne abbandonato poco dopo la metà del

secolo che corre, perché i Gigliesi preferiscono, per ragioni economiche, macinare il grano da se stessi, servendosi di due macinelle, una fissa,

l’altra mobile sopra la prima, e che è mossa a mano dalle donne. Avanzi di un alto molino ad acqua si hanno nella valle Ostena, ma

da quanto si scorge, era meno importante di quelli rammentati. Probabilmente questo fu costruito sul finire del secolo passato e mi

spinge a crederlo il fatto che l’Uffizio dei Fossi di Grosseto, con lettera 24 febbraio 1781, chiedeva informazioni al Governatore dell’isola, avendo

avuto una domanda di certo Giuseppe Modesti, che chiedeva sussidi per costruire uno o due molini ad acqua.

Questo fatto, unito all’altro che Pietro Leopoldo I costruì un molino per i Gigliesi, che ne erano privi, dimostra che verso il 1780 non

esistevano molini di sorta nell’Isola del Giglio.

(6) Venne spedita dalle tenute dell’Alberese e della Badiela, proprietà privata del Granduca.

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Ed ora, sorvolando sui fatti gloriosi che menarono alla annessione della Toscana alla monarchia di Casa Savoia, andiamo al 1860.

Partito Leopoldo II, lanciata da Parma una protesta per le violenze subite (1° maggio 1859), avvenuto il suffragio universale (11 e 12 maggio

1860) per cui la Toscana fu annessa al Regno d’Italia, il Giglio, parte della Toscana, rimase compreso nell’unità politica d’Italia.

Pare che, allora, al Giglio non vi fossero elettori in numero sufficiente per costituire una sezione elettorale perché il 22 marzo 1860

fu emesso il seguente decreto:

«Regnando S.M. Vittorio Emanuele II Real Governo della Toscana Vista la deliberazione del Comune dell’Isola del Giglio, dalla quale emerge che il

numero degli elettori non giunge ai 40. Considerando che nelle condizioni eccezionali di quegli abitanti non sarebbe

compatibile l’aggregazione del Comuni occorre uno speciale provvedimento che renda agli abitanti stessi possibile l’esercizio del diritto elettorale.

Decreta

Art. 1° - II Comune dell’Isola del Giglio si costituirà in sezione separata e distinta

qualunque sia il numero degli iscritti nelle liste per compiere le operazioni elettorali, e trasmetterà lo scrutinio al capo del Collegio di Grosseto.

Art. 2° - II Ministro dell’Interno è incaricato della esecuzione del presente Decreto. Dato li 20 marzo 1860. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, e Ministro dell’Interno F. Ricasoli. Il Ministro della Pubblica Istruzione F. Ridolfi».

Istituita la guardia nazionale, anche il Giglio ebbe i suoi militi. Erano da cinquanta a sessanta individui, comandati da un capitano,

luogotenente, sottotenente, bassi ufficiali e caporali. E citerò, tra le altre, l’adunanza tenuta il 22 marzo 1868 nella

sala comunale dalle guardie nazionali, sotto la presidenza del Gonfaloniere, per procedere alla nomina dei propri ufficiali e graduati.

Vi era, poi, una riserva della guardia nazionale comprendente circa 220 individui (marzo 1871).

Venne sciolta la Compagnia cannonieri guardacoste, composta già dagli isolani; quelli che vi avevano servito per diversi anni furono pensionati, gli altri, che avevano minore servizio, furono accettati

nell’esercito regolare, o divennero tranquilli cittadini. Il castello del Giglio e le torri, furono disarmati: le artiglierie e le

altre armi, insieme con le munizioni e provvisioni d’ogni genere, si portarono via dall’Isola.

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Intanto, da Torino, la capitale d’Italia è trasferita a Firenze (1864). Avuta la Venezia (1866) con l’occupazione di Roma (1870) si

compì l’unificazione d’Italia, che, sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, poté assidersi tra le principali nazioni europee.

Il Governo italiano non impose subito tributi, e la Provincia di Grosseto dona un sussidio di cinque o seimila franchi all’anno, perché il

Comune facesse fronte alle spese. Nel 1865 lo Stato cominciò ad imporre le tasse, ed in seguito il

Giglio fu sottoposto allo stesso trattamento che gli altri paesi italiani. Il Comune fu obbligato a pensare alla pubblica istruzione, al

servizio sanitario, ed a pagare tutti gli altri pubblici uffici e servizi, prima retribuiti dallo Stato.

Ma, sebbene costretta, l’Isola, a pagare tasse a cui non era avvezza, e sebbene sia stato tolto l’annuo sussidio della Provincia, pure il

Comune del Giglio vive di vita propria. Ma delle attuali condizioni del Giglio tratterò separatamente,

limitandomi nel seguente capitolo, ad accennare brevemente alcuni punti principali della vita gigliese in questo secolo.

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CAPITOLO XVI

I GIGLIESI DEL SECOLO ATTUALE

Al principiare di questo secolo troviamo che il primo magistrato

del Giglio non porta più il nome di Gonfaloniere, ma è convertito dai francesi, invasori della Toscana, in un maire, dipendente dalla

Sottoprefettura di Grosseto, Provincia di Siena, Dipartimento dell’Ombrone. Ma con la partenza dei francesi (1814) il maire si converte

nuovamente in gonfaloniere, che dura fino a qualche anno dopo l’annessione della Toscana all’Italia, epoca nella quale il gonfaloniere prende il nome di sindaco, nome che tuttora rimane a capo

dell’amministrazione comunale. Si ha sempre il Consiglio costituito probabilmente dello stesso

numero di membri come negli ultimi tempi del secolo passato. Infatti,

anche nel 1854 furono nominati quattro membri effettivi e due supplenti, estratti a sorte per formare il nuovo Consiglio generale pel biennio 1854 –

55. Lo stesso successe nel 1857. La giustizia, che era amministrata dal Vicario, fu, poi, all’epoca

dell’annessione della Toscana all’Italia, amministrata dal Pretore. In quanto ai costumi, pare che sieno alquanto migliorati; ma non

è però senza un sentimento di dolore che riporto la seguente osservazione, che tolgo dalla corografia dello Zuccagni Orlandini al

volume 12. Dice questo scrittore, parlando dei gigliesi: «la mancanza quasi

totale di istruzione gli rende assai superstiziosi, e ben poco amici delle virtù sociali e domestiche…».

Nella primavera del 1818 il Giglio fu visitato dal naturalista Brocchi, il quale poté fare le sue escursioni per l’isola, senza venir in

alcun modo molestato dagli isolani. Segno, questo, di un progresso da parte dei gigliesi, i quali più non scorgevano un essere malefico in un

innocuo scienziato. Il Brocchi aveva notato che il buon ordine regnava tra gli isolani, e

che rari erano i furti ed altri delitti. La stessa osservazione fece il Giuli, il quale ammise che i furti non si verificavano al Giglio perché tutti

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possidenti; e suppose che i delitti non vi si commettevano perché nelle isole di poca estensione, maggiore è la difficoltà di sfuggire alla giustizia.

Il Brocchi, invece, che ciò dipendeva dal fatto che, ove il contadino è esso medesimo il proprietario di un fondo, ivi — a preferenza degli altri

luoghi — si mantiene il buon ordine, e più osservate sono le leggi e rispettate.

Il Giuli notò la vita laboriosissima delle donne del Giglio, essendo loro incombenza — come egli dice — preparare il cibo per la famiglia, e

portarlo al campo o altrove; macinare nel corso della notte il grano per panizzarlo, macerare, filare e tessere il lino e la canapa, imbiancare il

tessuto e cucirlo, aiutare gli uomini nello zappare le vigne, innaffiare il piccolo orticello nell’estate, mietere e trebbiare il grano ecc., in guisa che

esse possono essere assomigliate alla donna forte della Scrittura. (Vedi Giuli, Stor. naturale delle acque minerali della Toscana).

Veramente bello e lusingherò è l’elogio che il Giuli fa delle donne gigliesi; ma il dovere di storico fedele, veritiero e imparziale, mi obbliga a

dire che, se quelle faticano molto ed eseguiscono pressoché tutti i lavori dal Giuli accennati, però per nulla è vero che esse pensavano e pensano

a macerare e tessere il lino e la canapa, industrie affatto sconosciute, e ora e nel passato, nell’Isola del Giglio.

È vero, sì, ciò che disse il Brocchi del Gonfaloniere dei suoi tempi; il quale magistrato lavorava la terra come qualunque altro isolano; ed

oggi ancora, che abbiamo il Sindaco, vediamo che questi, al pari degli altri gigliesi, accudisce alle proprie faccende agricole.

E ciò mi sembra tornare a loro onore, perché la fatica e il lavoro nobilitano l’uomo forse meglio di quanto non facciano le ricchezze

acquistate da altri, e godute da figli che nulla sudarono per procacciarsele.

Eppoi, non si leggono forse tra le più belle pagine delle storie di illustri città e di grandi nazioni, i nomi gloriosi di chi, lavorando all’aratro

e spingendo avanti a sé i buoi, alternava le sue occupazioni col maneggiare la spada e col reggere, tra la generale ammirazione, con somma prudenza e saviezza, il bastone del comando?

Pochissimo sviluppato è in quell’Isola il commercio; e in questo ramo i gigliesi sono ancora molto indietro. Mancano le iniziative di

industriosi cittadini, non si sa, o si teme, avventurare una somma, sia pur piccolissima, che potrebbe procurare tanti guadagni.

Il vino, ecco l’unico prodotto che si ricava dall’Isola; le acciughe, ecco il principale prodotto del mare.

Ma il vino, per quanto di ottima qualità, non ha trovato ancora chi lo introduca nelle piazze commerciali; e le acciughe, sebbene

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eccellenti, non danno quel frutto che potrebbe recare, se di queste si

facesse

Ed a proposito della pesca, accennerò che questa dividesi in diversi periodi. Il principale è quello che, dai primi di maggio, dura fino al

10 dell’agosto successivo e dicesi della «pesca delle acciughe» o «pesca grande».

È in tale periodo che si pescano le ottime acciughe e le buone sardine, che, salate, vengono smerciate o negli ultimi di agosto, o sui

primi di settembre al più tardi. Dopo il primo, comincia il secondo periodo detto «la pescarella»,

in cui si prendono acciughe e sardine, ma in piccola quantità. Si va anche alla «paranza», prendendosi pesci di molte e svariate

specie, che abitano i più profondi strati del mare: dura, questo secondo periodo, fino al 1° di novembre, e dicesi anche «la castagnara», dalle

castagne, forse, che incominciano a vedersi, e anche «ficare», dai fichi che vi sono all’inizio del periodo stesso.

Il terzo periodo comincia subito dopo pochi giorni dalla cessazione del secondo, servendo, quel breve intervallo tra l’uno e l’altro periodo, per

fare i conti, e dura fino a Natale. Dai primi di gennaio al carnevale si svolge il quarto periodo, mentre il quinto ed ultimo, va dal carnevale alla

Pasqua, e dicesi, perciò, «Pasquante». Veramente questo periodo si prolunga fino agli ultimi di aprile, in cui cominciano li apparecchi per la

pesca grande. Fuorché nel primo, ed in parte del secondo, — in cui pescansi

acciughe — negli altri periodi si pesca «alla paranza». La pesca ha luogo, giornalmente, intorno all’Isola e lungo le coste

del continente, in quel tratto che corre tra Piombino e il Promontorio Argentario. Ma questi arditi marinari non si peritano di recarsi, in buon

numero, nelle acque della Sardegna, e, per la pesca delle acciughe, fino ai lontani lidi settentrionali dell’Africa.

Di solito le bilancelle, della portata dalle sette alle diciotto tonnellate, sono montate da cinque a sei uomini, il mozzo compreso.

Grandi potrebbero essere i vantaggi e i proventi della pesca; ma il vero commercio del pesce non fanno i gigliesi, i quali cedono la loro

mercanzia ad altri, che sono quelli che veramente ne ritraggono i tanti guadagni.

Mentre sui primi del secolo che sta per morire, i proprietari delle barche erano in gran parte i gigliesi abitanti del castello, oggi, invece,

tutte le barche appartengono esclusivamente agli abitanti del porto: gli uni costituiscono una popolazione prettamente marinara, gli altri si de87

dicano solo all’agricoltura. Fatto, questo, che rivela come tutto obbedisca a quella legge dell’adattamento all’ambiente.

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Il numero delle barche è fortemente aumentato, e mentre prima, per equipaggiarle, i portolani avevan bisogno di recarsi al castello ad

ingaggiare molti giovani, ora, con l’aumento della popolazione del porto, sentono meno tale bisogno, e, fra non molto, potranno mettere in mare le

loro barche senza più ricorrere all’opera degli abitanti del paese e castello del Giglio.

E poiché siamo nel campo della marina, aggiungerò che, attualmente, i galleggianti di questo porto ascendono al numero di 71, e

si dividono in barche da traffico, da pesca, e da traffico e pesca, e in barchette, le quali si suddividono in barchette da pesca e in barchette pel

servizio dello sbarco ed imbarco dei passeggeri sul piroscafo, o per uso di privati: vi sono, poi, di queste barchette, che servono e da pesca e per il

servizio dei passeggeri. Il grano che nell’Isola si produce è tanto poco, che viene

consumato in tre o quattro mesi. Pochi pure sono i legumi che si raccolgono, ed i frutti non vengono preparati e conservati per farne un

ramo di industria e di commercio. La caccia è abbondante, specialmente nel mese di ottobre quella

dei colombi, tordi e di altri uccelli di passo; e nel novembre quella delle beccacce. Peraltro, stante la guerra che a tali volatili vien mossa in tutti i

paesi da essi sorvolati, il loro numero si rende ogni anno più esiguo. A proposito di uccelli, ricordo di aver letto nel Bollettino della

Società Astronomica di Francia, una notizia del Vesy sull’osservazione della emigrazione notturna degli uccelli stessi. Il mezzo impiegato

consiste nell’osservare la luna con un telescopio o un equatoriale, e gli uccelli migranti, che passano fra la terra e il suo satellite, si proiettano

come delle macchie oscure e mobili sul disco luminoso. Sarebbe stata misurata la loro velocità, che risulterebbe da 150 a 200 chilometri l’ora.

Ma è risaputo che gli uccelli viaggiano anche nelle notti più brevi, quando, cioè, neppure le stelle brillano nel firmamento. Ed

un’osservazione che certamente sarà stata fatta chi sa da quanti altri, e che io cito perché fatta in quest’Isola, è la seguente:

Nelle loro marce notturne gli uccelli si regolano come i naviganti:

prendono di mira i fari. Ciò può costatarsi dal fatto che, forse acciecati, in mezzo alle

tenebre, da quei raggi luminosi — non sapendo che la fiaccola rimane al di dietro di cristalli grossissimi — sbattono, con quella po’ di velocità che

essi hanno, contro i cristalli stessi e nei fili di ferro che sorreggono la cupola del faro, raccogliendosene in certe notti una quantità non

indifferente.

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89

Il granito, bianco, bellissimo si estraeva, anni or sono, in gran copia; ma ora tale estrazione, come pure quella del quarzo, si eseguisce

su scala limitatissima. Ma dovendo ritornare su tale argomento, per parlare più

diffusamente negli «Appunti sull’Isola del Giglio», dirò solo che il commercio dell’Isola si limita alla importazione ed esportazione delle

seguenti materie: Importazione. - Prodotti vegetali. - Legname da costruzione,

mobili, doghe, carbone, grano, olio, castagne, farina di grano e di castagne, riso, droghe, paste alimentari, caffè, zucchero ecc.

Prodotti animali. - Pecore, capre, maiali, qualche somaro, qualche rarissima bestia bovina, polli, cuoiame, formaggio ecc.

Prodotti minerali. - Ferro lavorato ed in verghe, vetri, specchi e marmo lavorato, ma in piccolissima quantità.

Esportazione. - Prodotti vegetali. - Vino, uva, fichi, zibibo, qualche po’ di lenticchie e limoni.

Prodotti minerali. - Granito, quarzo. Prodotti animali. - Colombi, tordi, beccacce ecc.

Dal principio del secolo, fino a che non fu sciolta la compagnia cannonieri guardacoste, quasi tutti gli adulti maschi dell’Isola può dirsi

che erano stipendiati, perché ben 120 di essi appartenevano alla milizia, ossia vi era un militare per 1,81 famiglia! Ma il vantaggio non era

soltanto nello stipendio fisso che molti isolani percepivano, che anzi questo poteva dirsi poca cosa rispetto altri benefici che essi godevano.

I gigliesi, infatti, sebbene nella massima parte militari, accudivano tutti alle proprie faccende. I soldati indossavano quasi sempre abiti

borghesi; potevano lavorare le proprie terre, ed anzi erano ricompensati se introducevano delle migliorie nelle loro campagne. Abitava ognuno

nella casa propria, con la propria famiglia, ed era fornito dal Governo di letto, biancheria, medicinali e perfino di zucchero, cose che,

naturalmente, si adoperavano anche pel resto della famiglia. Erano inoltre dispensati dal pagamento delle imposte, versando

soltanto 600 lire per la tassa di famiglia o fuocatico.

Cessati tutti questi vantaggi, il Governo italiano, forse per attivare un po’ il commercio del Giglio, e per soccorrerne gli abitanti, vi mandò

una numerosa colonia di domiciliate coatte, le quali, allontanate dalla Sicilia, e dal napoletano, erano le mogli, madri, sorelle e spose dei

briganti che esse fornivano di viveri, armi, munizioni e di notizie. Le coatte, venute nel 1863, lasciarono l’Isola nel 1869.

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Il Governo italiano, inoltre, per favorire la navigazione, fece costruire nell’Isola un bellissimo faro di secondo ordine, in località detta

le Vaccherecce, che, incominciato nel 1863, veniva acceso nel 1865. Peraltro, essendo posto sopra un Poggio alto 288 metri dal livello del

mare, spesso le nebbie lo avvolgevano, e ne era, così, impedita la vista ai naviganti. Ed allora furono costruiti due altri fari (1878), uno di secondo

ordine al Capel Rosso, all’altezza di 72 metri dal mare, l’altro di quarto ordine al Fenaio a 36 metri dal mare. Quello delle Vaccherecce fu

abbandonato e gli altri due vennero accesi (1883). A semplice titolo di curiosità dirò, poi, che il faro del Capel Rosso

viene chiamato anche, nel linguaggio ufficiale, faro sud, e quello del Fenaio, faro Nord.

Rimandate le coatte alle case loro, il Governo impiantò al Giglio una colonia di domiciliati coatti (1873), che però allontanati nel 1890 per

i numerosi reclami del Municipio e delle frequenti dimostrazioni popolari ostili alla colonia.

Un notevole miglioramento introdusse il Governo italiano nel servizio postale, che, fatto prima, settimanalmente tra Giglio e S. Stefano

(Monte Argentario) mediante una barca a vela, si fece, poi, tre volte a settimana, e più tardi fu reso giornaliero, con esclusione della domenica.

Dipoi, alla scomoda barca – corriera fu sostituito un elegante piroscafo della Società di navigazione generale italiana.

Altra cosa di somma utilità per il paese è il cavo telegrafico sottomarino che unisce l’Isola al continente.

Aperto al pubblico nel 1887, il telegrafo torna comodo in tutte le contingenze della vita; ed ora, anche se i temporali e le burrasche

trattengono per diversi giorni di seguito i piroscafi e gli altri bastimenti dall’approdare o partire dall’Isola, per il telegrafo sono permesse le

comunicazioni con il continente e nessuno è costretto a interrompere i propri affari.

Nel 1891 fu aperto un secondo ufficio telegrafico nel borgo del Porto, mentre il primo era stato posto nel castello del Giglio.

Nel 1898 II Governo conveniva l’antica fortezza in una stazione

semaforica, che nel 1899 assorbiva l’ufficio telegrafico di Giglio Castello, il quale rimase in tal modo soppresso.

Né qui si fermano i progressi introdotti nell’Isola per opera degli stessi gigliesi.

Il paese mancava di acqua, e nell’estate specialmente, arduo era il problema per trovare acqua potabile. Vi era una fonte in vicinanza del

Castello, ma quasi sempre disseccata, e non bastava ai bisogni della popolazione. Vi era anche un’altra fonte «Acqua selvaggia», ma distava

circa un chilometro e mezzo dal paese.

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Nel 1889 – 1890, allacciate le acque della sorgente «Acqua dei Mori», posta a 392 m. 52 sul livello del mare, con quelle dell’«Acqua

selvaggia», a 374 m, 23 sul mare, furono portate, mediante un condotto lungo 1817 metri, quasi ai piedi delle mura del Castello, che rimase, così

provveduto di ottima acqua e abbondante. (Progetto di condotta d’acqua per il Comune del Giglio, fatto dalla Società Italiana per condotte

d’acque). Per far fronte a tale spesa il Comune contrasse un mutuo di l.

20.000 con la Cassa depositi e prestiti, concesso con R. Decreto 29 gennaio 1888, mutuo da estinguersi in trenta annualità, e all’interesse

del 4 1/2 per cento, di cui il Ministero dell’Interno si assunse la quota annua di interesse dell’1 1/2 per cento, venendo così il Comune a pagare

soltanto il 3%. I lavori iniziati nel 1889 vennero collaudati il 13 settembre 1890;

l’importo degli stessi ascese a L. 18.933,59 e vennero eseguiti dalla Società Italiana per le condotte d’acqua, avente sede in Roma, con la

quale fu stabilito regolare contratto a trattativa privata, come da autorizzazione Prefettizia in data 19 maggio 1889 n. 4487.

Ma anche prima che all’acqua, il Comune aveva pensato a costruire locali scolastici vasti, comodi, dove l’aria e la luce entrano

liberamente, per i fanciulli d’ambo i sessi del Castello e del Porto. E fu nel 1889 che, per opera di un Comitato di scelti cittadini,

presieduto dal Sindaco, e con il concorso del Municipio, fu posto sul campanile della Chiesa parrocchiale del Castello un pubblico orologio.

Ma rimane ancora molto da fare per il bene del Giglio, e poiché non è mio compito — almeno il questo lavoro, destinato alla parte storica

— di enumerare i bisogni dell’Isola, così terminerò col far voti che l’istruzione e l’educazione, non soltanto dell’intelletto, ma anche del

cuore, pongano i gigliesi in condizioni tali da far cessare quell’ingiusto, ingiustificabile ed incivile disprezzo che purtroppo rinviensi spesso in chi — non conoscendo né il Giglio né i gigliesi — parla dell’uno e degli altri

con preconcetti che ridondano, poi, a carico di colui che, invece di esprimere i giudizi con cognizione di causa, o parla a passione, o tratta

cosa che non conosce. La popolazione di questo secolo ha subito e subisce un continuo e

progressivo aumento.

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Il Giglio, che nel 1814 aveva 1052 abitanti, nel 1821 ne aveva 1153, che salirono a 1283 nel 1825 e 1542 nel 1828.

Nel 1833 gli abitanti salirono a 1502, così divisi: impuberi maschi 241, femmine 230; adulti maschi 159, femmine 162; coniugati 692;

ecclesiastici 18; famiglie 356. Come si vede, la casta ecclesiastica era numerosissima, poiché

aveva un prete ogni 16,16 famiglie! Tralasciando di riportare qui i dati relativi alla popolazione del

Giglio in varie epoche, dirò che nel 1881 vi erano 2127 abitanti, di cui 1139 maschi, 988 femmine, e che al 31 dicembre 1899 la popolazione

isolana ascendeva a 2565 e cioè 1277 maschi e 1288 femmine. S’intende che in queste cifre non figurano i numerosi individui che il duro bisogno

costringe ad emigrare. Ma, anche per ciò che si riferisce alla demografia, al prossimo

lavoro.

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Finito di stampare nel

mese di Febbraio 1985

presso le Officine Grafiche

della Pacini Editore PISA

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