Catalogo Della Carezza

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Catalog of the exhibition Della Carezza (2012) In Venice.Curator: Lucrezia CalabròArtists: Alessandra Bucchi, Cecilia Borettaz, Roberta Busechian, Alessia Cargnelli, Serena Luce, Gioele Peressini, Sofia Silva, Caterina Sokota, Spela Volcic

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della Carezza

Studi sull’invasione priva di brama di possesso

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della Carezzaun progetto a cura di Lucrezia Calabrò

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Indice

Introduzione

Nota curatoriale

Cecilia Borettaz

Alessandra Bucchi

Roberta Busechian

Alessia Cargnelli

Serena Luce

Gioele Peressini

Sofia Silva

Caterina Sokota

Špela Volčič

Ringraziamenti e contatti

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Questo progetto nasce come tentativo di fare un primo passo nel mondo dell’arte, organizzando una mostra da zero. Il titolo della Carezza si avvale di una forma tipica della dissertazione filosofica per sottolineare la natura esplorativa della mostra, che si propone come una panoramica di indagini diverse, di cui denominatore comune è il concetto di Carezza, nelle sue molteplici declinazioni. della Carezza mutua una nozione comunemente propria dell’etica (Bauman) e della filosofia erotica (Levinas) ed attua un cortocircuito tra questa e la pratica artistica, tra il gesto della mano che accarezza l’Altro e il dialogo che l’artista instaura con la materia. La caratteristica fondamentale della mano che accarezza è l’ambivalenza: invade l’Altro, lo viola, ma non lo stringe, non lo “afferra” mai, resta aperta e ne segue la forma del corpo. Poiché conserva la tendenza alla penetrazione dell’Altro, pur riconoscendone l’inaccessibilità, non è un piano di svelamento ma di esplorazione costante. I lavori esposti sono quindi ricerche tuttora in corso, che in alcuni casi sono state presentate nello stadio progettuale in cui si trovano, rispettando la loro natura di premesse, mentre in altri hanno portato all’installazione di un’opera compiuta, prodotto di un percorso artistico più maturo e consolidato. Per coerenza rispetto a questa modalità necessariamente debole di approcciarsi all’Altro, le scelte curatoriali che ho fatto sono state di non operare una critica tradizionale dei lavori esposti ma di instaurare un dialogo con gli artisti, di lasciare libera la scelta di cosa scrivere nella didascalia all’opera, e, per quanto riguarda il catalogo, di preservare il principio di polifonicità proponendo agli artisti di utilizzare un’intera pagina a testa nel modo che preferissero.

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Quando Bauman, ne Le sfide dell’etica, propone il concetto operativo della mano che accarezza1, individua la sua caratteristica fondamentale nel “rimanere aperta, […] non stringere mai, […] non “afferrare” mai; essa sfiora senza premere, si sposta seguendo la forma del corpo accarezzato.”2 E’ questa “non violenza” dell’atto di accarezzare (l’Altro) ad ammetterne l’identificazione con il “paradigma fondamentale della relazione morale”3, in un universo che fin dalla prima riga del saggio viene riconosciuto come postmoderno. Fissati questi punti fondamentali viene immediato il confronto con un altro grande archetipo del pensiero contemporaneo, ovvero il pensiero debole di Vattimo e Rovatti: se assumiamo che possa esserci un rapporto tra la mano, che consapevole dell’inaccessibilità dell’Altro lo accarezza senza volontà di possederlo, e il pensiero debole, che rinuncia alla pretesa metafisica di “accedere all’essere come fondamento”4 (al mito del possesso della verità assoluta), scopriamo che forse nell’arte contemporanea possiamo trovare una felice solidarietà di queste due nozioni, in virtù di un’operazione artistica che non si identifichi come l’affermazione di certezze assolute ma come un’esplorazione e un dialogo costante con la materia5. Ma andiamo con ordine, analizzando per prima cosa la funzione “carezza:Altro = pratica artistica:materia”. Se da un lato la delicatezza della carezza ci porta a trovare un’analogia di rapidità quasi sensuale tra questa ed un tipo di ricerca che si occupi della calibrazione meticolosa dell’intervento umano sulla materia (penso, ad esempio, agli studi di pressione di Borettaz), dall’altro sarebbe riduttivo applicare questo concetto senza considerarne la natura profondamente ambivalente: “la carezza è il gesto di un corpo che si protende verso un altro corpo; fin dal principio, nella sua intima “struttura” un atto di invasione, per quanto incerto ed esplorativo.”6 In questo senso Bauman parla di plurifinalità della carezza, che corre strutturalmente il rischio di diramarsi nell’appropriazione e nella violenza - e questo ci avvicina a comprendere la coerenza di un lavoro come quello di Peressini,

in cui tali aspetti convivono, in tensione costante tra l’effetto ottenuto e le pratiche utilizzate per raggiungere quell’effetto. Aprire una parentesi è a questo punto necessario, poiché l’ambivalenza della carezza ha senso soltanto nell’orizzonte di un’analisi fatta sulla base della prospettiva dell’”Altro”: la proposizione stessa del problema della plurifinlità implica la presenza di un rapporto non unilaterale dell’artista con la materia, di una relazione dialogica caratterizzata da indeterminatezza dei risultati.7 Come è emerso in una conversazione con Silva, “nel momento in cui Altro mi sfiora, Altro entra in gioco. Lo specchio si infrange nel ritorno della materia.” La contraddizione della carezza, insita nella sua plurifinalità, inserisce senza riserve tale concetto nell’ambito della logica dialettica.8 Per comprendere come tale condizione di inconciliabilità può portare, attraverso il suo trasferimento nell’ambito artistico, ad un meccanismo positivo e costruttivo, dobbiamo rivolgerci ancora una volta a Vattimo, e alla sua concezione (mutuata da Heidegger) di Verwindung9: utilizzato da Vattimo per riferirsi allo specifico rapporto che l’uomo postmoderno conserva con il passato e la metafisica, questo termine allude al rimettersi da una malattia, ma con la consapevolezza del fatto che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce, ovvero con la consapevolezza che le categorie a cui mentalmente facciamo riferimento continueranno necessariamente ad essere quelle categorie forti e metafisiche da cui tentiamo di sfuggire, sebbene distorte in senso debole. Ritornando all’ambito che ci interessa, è quindi impossibile da eliminare (ma anche in qualche modo necessaria da mantenere) una concezione della creazione artistica come quella di Focillon, che tra l’altro si rifà a sua volta all’immagine della “mano che fa”: “non le [alla mano] basta afferrare ciò che è: deve operare con ciò che non è, deve aggiungere un nuovo regno ai regni della natura.”10 La Verwindung ci pone infatti nell’ottica di una pietas nei confronti di ciò che abbiamo ricevuto in eredità (qualcosa di vicino, anche se in un ambito altro, al principio di carità di Quine11) , ed implica un tipo particolare di rispetto verso la fitta maglia di interferenze che ognuno di noi ha rispetto alla storia culturale a cui appartiene, che Vattimo individua nelle rovine accumalate dalla storia dei vincitori ai piedi dell’angelo di Klee12. “E’ la pietà per queste rovine l’unico vero movente della rivoluzione, più che ogni progetto altrimenti legittimato in nome di qualche diritto naturale o di qualche corso necessario della storia”13. Come la rivoluzione verso un’umanità ultrametafisica nasce dalla pietà verso un passato di cui portiamo le cicatrici, la carezza trae energia per la sua attività dal non riuscire ad appropriarsi dell’Altro, intenzione che però rimane, come memoria di una produzione artistica che, per semplificare, possiamo definire di tipo romantico. Ecco la chiave argomentativa, lo scarto che da un’impossibilità di penetrazione (superamento?) dell’Altro (della storia)

Nota curatoriale:un elogio del cortocircuito

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La semantica acritica è il mito di un museo in cui i pezzi esposti sono i significati e le parole sono etichette.

W.O.V. Quine

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produce, nel continuo tentativo di perseguire tale penetrazione, energia creativa inesausta. L’assenza della brama di possesso della carezza, coniugata a questa persistenza della propensione all’invasione dell’Altro, è ciò che le consente di attuare un meccanismo di generazione che sia indagine senza fine (in quanto senza pretese di universalità), continuo esperimento: ”la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente alla dalla sua forma verso un avvenire […] Essa cerca, fruga. Non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca”14. E’ a questo punto che si inserisce questa mostra: nel tentativo di fissare per un attimo le declinazioni a cui un principio di sperimentazione costante e processualità dell’opera possono portare, considerando sia il caso di una ricerca pluriennale come, ad esempio, quella di Volcic, che il caso di sperimentazioni appena affiorate, come quella di Sokota. Nell’indagine delle possibilità della carezza nell’arte, il nostro impegno fondamentale è stato quello di trovare una varietà di punti di vista diversi tra loro, ma coerenti rispetto alla modalità operativa di cui sopra, cercando di creare un dialogo, una serie di cortocircuiti tra di questi. Da ciò, il titolo e la citazione inserita all’inizio di questo testo, che vogliono essere un omaggio a Quine, e alla sua teoria della relatività ontologica: il filosofo parte dal concetto di indeterminatezza della traduzione, ovvero dal fatto che traducendo da un linguaggio all’altro si possono adottare manuali di traduzione reciprocamente incompatibili eppure egualmente corretti, poiché nel processo di traduzione avviene necessariamente un’operazione di proiezione della nostra ontologia sulle parole (e dunque sull’ontologia) dell’altro, e le ontologie sono tutte sullo stesso piano (“dal punto di vista del fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dèi di Omero differiscono solo quanto al grado e non quanto al genere. Entrambi i tipi di entità entrano nella nostra concezione soltanto come presupposti culturali”15). Sostanzialmente, parlare, per Quine, è sempre tradurre, ed è sempre negoziazione del significato dato ad un certo referente, che noi riduciamo al nostro linguaggio (ed ontologia) di sfondo, e che poi un altro ridurrà al proprio linguaggio di fondo, e così via. In questi termini la situazione sembra disperata, ma in realtà è ben poco diversa dalle questioni di posizione e velocità. Quando ci siano date la posizione e la velocità relativamente a un dato sistema di coordinate, possiamo poi sempre chiedere ancora quali siano la collocazione dell’origine e l’orientamento degli assi di questo sistema di coordinate; e non c’è fine alla successione di sistemi di coordinate ulteriori che possono essere addotti rispondendo alle successive domande così generate. E in pratica poniamo fine al regresso dei linguaggio di sfondo, nelle discussioni sul riferimento, attenendoci alla nostra lingua materna e attribuendo alle sue parole il loro valore nominale16.

E’ come se ogni singola opera di questa mostra fosse semplicemente un dito puntato, che partecipa ad un dialogo tra ontologie diverse, con la consapevolezza che il valore linguistico fondamentale di ogni rapporto è quello di riuscire a mantenere aperta la comunicazione.

Lucrezia Calabrò

1 La morale come carezza,da Le sfide dell’Etica, Zygmunt Bauman. 2 Idem, p.98. 3 Idem, p.99. 4 Dialettica, differenza, pensiero debole, Giovanni Vattimo, da Il pensiero debole, p.12. 5 “materia” è qui inteso in senso lato, anche come sperimentazione con il mezzo, rapporto con la pratica artistica in sé. 6 La morale come carezza,da Le sfide dell’Etica, Zygmunt Bauman. 7 Bauman specifica che la carezza non sia necessariamente un’espressione di reciprocità, che l’invito dell’Altro non sia la sua condizione necessaria. 8 “[la dialettica] è in senso ampio il processo logico-ontologico in cui la determinazione astratta viene dapprima posta, poi negata nella sua separatezza, e infine positivamente ricompressa in una unità più profonda”. (Dizionario filosofico, filosofico.net) 9 Traduzione letterale: torsione 10 Elogio della mano, Henri Focillon, p.116 11 Il principio di carità è un principio di metodo: tra due individui, se la traduzione di uno attribuisce all’altro degli enunciati contraddittori o evidentemente falsi è più probabile che sia sbagliata la sua traduzione piuttosto che sia l’altro ad essere irrazionale, illogico o in possesso di credenze assurde. 12 “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. (Tesi di filosofia della storia n° IX, Walter Benjamin) 13 Dialettica, differenza, pensiero debole, Giovanni Vattimo, da Il pensiero debole, p.27 14 Etica e infinito, Emmanuel Lévinas, p.113 15 Da Un punto di vista logico, Willard Van Orman Quine, p.62 16 Relatività Ontologica, Willard Van Orman Quine, da Filosofia del linguaggio,

AA.VV., p.149

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Cecilia Borettaz

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Nata a Torino, il 24.07.1990Ha conseguito nel 2009 il Diploma di maturità artistica speri-mentale presso l’Istituto d’Arte di Aosta.Attualmente iscritta alla laurea triennale di Arti visive e dello Spettacolo all’Università IUAV di Venezia.

La tua ricerca inserisce all’interno del rapporto tra artista e materiale un nuovo elemento specifico, ovvero un meccan-ismo in parte autonomo con cui ti devi confrontare. Il conc-etto di macchina celibe, sintetizzabile come la produzione di un’attività non finalizzata alla procreazione, inutile dal punto di vista produttivo-economico ma utile alla creazione di un processo di “piacere” fine a se stesso, è in qualche modo du-plicato nel tuo lavoro, poiché il giradischi, già di per sé legato ad una produzione di tipo “non funzionale” come quella della musica, viene importato nell’ambito artistico ed utilizzato per la creazione di nuovi sistemi, altrettanto inutili1. Vorrei chie-derti di parlarmi delle macchine che crei, del rapporto che si instaura tra te e loro, per dirla con Focillon, tra la tua mano e l’utensile: “l’una [la mano] comunica all’altro [l’utensile] il suo calore vivo e continuamente lo plasma. Quando è nuovo, l’utensile non è “fatto”; bisogna che tra esso e le dita che lo impugnano si stabilisca un accordo formato di appropriazione progressiva, di gesti lievi e coordinati, di abitudini reciproche e anche di una certa usura. Allora lo strumento inerte diventa una cosa viva”2.

Il rapporto che si instaura è un rapporto di necessità che na-sce implicitamente dall’urgenza di fare ed è da quest’ultima che parte la sperimentazione vitale della macchina e dei suoi risultati sul foglio.

Nelle discussioni che abbiamo fatto su questa mostra, sull’importanza del tatto come senso fondamentale della percezione, abbiamo, una volta, citato il compasso di Weber, uno strumento che misura la distanza minima tra due punti sulla pelle capaci di dare sensazioni distinte. La tua pratica artistica, basata sulla precisione millimetrica della pressione della penna sul foglio che gira, e in più indissolubilmente lega-ta alla forma del cerchio, mi ha sempre fatto pensare ad una complementarietà rispetto a questo strumento. Vorrei che mi parlassi del momento in cui impercettibilmente il foglio passa dall’essere bianco all’essere segnato dal tuo gesto, quel qual-cosa di così delicato che l’hai accortamente descritto per op-posizione, intitolando il lavoro Tutto il resto è silenzio

Tutto ha origine da questa riflessione. C ome poter catturare un istante fuggente, che non ha occhi per poter vedere, né voce per poter parlare. Eppure, ascoltando, senti. Nel silenzio nascono quelle tensioni che precedono le espressioni e che ac-compagnano tutto il procedimento di realizzazione. Diventa un atto necessario unico e irripetibile. C’è il pericolo di perdere tutto, per questo c’è un estrema delicatezza, la tensione della mano diventa quasi incontrollabile. Trema, appena prima di ap-poggiare la penna sul foglio. Respiro.L’astratto prende forma nel segno che lo media e diviene così una traccia “fantasma”, un attimo sospeso, etereo che viene congelato e reso eterno. Salvato.Quello che vediamo sul foglio è nato dal silenzio e nel silen-zio è destinato a tornare, l’hic et nunc che l’ha generato è già caduto nella dimensione del passato. Per questo Tutto il resto è silenzio.

Un altro aspetto fondamentale del tuo lavoro è, secondo me, il fatto che sia allestito in orizzontale, come è nato. Questa scelta, che non è stata immediata, ma la conclusione di un processo di pensiero “collettivo”, ne rispetta una serie di echi (segue)

1 Nell’accezione “positiva” di cui parla Dorfles2 Elogio della mano, Henri Focillon, pag.119

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Tutto il resto è silenzio_ 6, disegni con biro su carta, 24x33 cm, 2012

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Nota dell’artista:

Tutto il resto è silenzio

Una matrice e un foglio bianco.Una linea, un segno sull’aridità del foglio bianco.I segni si animano nel paradosso dell’infinitamente piccolo.Così sottili fino al superamento della soglia della visibilità.Dove muore il segno.

Un silenzio sospeso.

Afferare l’imponderabile senza occhi e senza voce, ma vedenti e parlanti. Una potenza quasi palpabile, concreta. Affondando nel cuore della materia per costringerla a subire una metamorfosi. Segni senza corpo vivono intensamente di vita propria. Resti destinati presto a scomparire.Eppure, quando tutto sembra perduto tutto può essere salvato.Indipendentemente da noi.

L’allestimento si adatta al movimento circoncentrico della matrice, ovvero, un movimento di propagazione superficiale che permette alla penna di accarezzare il supporto. Il forma-to verticale, che richiamerebbe un andamento ascensionale, frantumerebbe il contatto delle opere con la matrice, inoltre si perderebbe sull’onda dell’eco delle altre opere. Il formato orizzontale, invece, rimanda ad una dimensione terrena, ma-teriale, concreta.

ed allusioni che sarebbero andati perduti in qualsiasi altro tipo di allestimento. Mi interessa chiederti quali sono questi eco e se sei soddisfatta del risultato finale.

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Per più antiche memorie

lascio a te che mi ascolti un breve messaggionon la vita che l’arco fra due silenzi invano lotterai per mondi diversila marea non ha memoriae la sabbia cancella ogni suo ricordofra attese e vane speranze si consuma una vita noi non siamo che fra irreverenti gesti d’amorela voce e l’eco spesso si confondonopietra che cade sull’acqua in cerchi concentricidove muore il segnovorrei stringervi la mano ma morte mi chiama...addio!

Mario Stefani, Per più antiche memorie, 1993

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Alessandra Bucchi

Il meccanismo che avviene nelle tue fotografie è la trasfor-mazione di un muro, piatto, artificiale, indizio di un perimetro chiuso, in un paesaggio immaginario, aperto e potenzialmente infinito. Ciò che mi interessa è la semplicità e immediatezza del tuo gesto, che mi ha fatto pensare al “far finta che” dei bam-bini: il gioco consente di creare nuovi mondi senza sostituire i vecchi, giocando su due costruzioni di significato compre-senti e coerenti tra loro. Trasferendo questo concetto nell’arte, secondo Focillon “l’artista […] prolunga quel privilegio che è, nell’infanzia, la curiosità, estendendola ben oltre i limiti di tale era della vita. Tocca, tasta, valuta il peso, misura lo spazio, modella la fluidità dell’aria per prefigurarvi la forma, accarez-za la superficie di ogni oggetto, e da tale linguaggio del tatto compone il linguaggio della vista – un tono caldo, uno freddo, uno pesante, uno vuoto, una linea rigida, una linea morbida.”1 Quanto è importante per te questo rapporto col gioco e la curi-osità e in qualche modo col tatto, anche in relazione al legame profondo che hai con il luogo in cui sei nata?

Ho sempre pensato che la mia formazione sia un punto d’inizio fondamentale per tutto il mio lavoro e per il percorso che sto compiendo. Io arrivo da un Istituto d’arte, dove mi sono special-izzata in Cinema d’Animazione e Illustrazione. Probabilmente questo corso, ma soprattutto le persone che ho incontrato in questo percorso, mi hanno dato, in qualche maniera, un modo del tutto peculiare di vedere le cose; non solo guardarle ma osservarle con gli occhi stupiti di un bambino che studia con curiosità anche le cose più piccole e insignificanti. Allo stesso tempo, questo stretto contatto che ho avuto con l’illustrazione e l’animazione ha fatto sì che in me non si spezzasse quel legame che ognuno ha con la propria infanzia, che con l’età adulta va piano piano ad affievolirsi. Penso quindi che questa curiosità per le cose che mi circondano sia molto importante in tutto il mio percorso e lavoro; non si tratta di un gioco ma più che altro di un’osservazione meticolosa ai dettagli e alle picco-le cose che mi circondano e che molti reputano insignificanti.Insieme a questo primo legame, una seconda, e forse più im -

Alessandra Bucchi nasce a Sant’Ippolito, in provincia di Pesaro-Urbino nel 1990. Frequenta l’Istituto d’arte a Urbino e si diploma nel corso di Cinema d’Animazione. Adesso vive a Venezia. Frequenta la triennale in arti visive e dello spettacolo allo IUAV e lavora a Palazzo Bembo, spazio espositivo vicino a Rialto.

Un altro elemento interessante della tua ricerca è la tua ne-cessità di raccontare storie. Molte delle caratteristiche dei tuoi lavori, ad esempio, si potrebbero ricollegare ai valori della let-teratura di cui parla Calvino in Lezioni Americane (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità). Vorrei che mi par-lassi di questo aspetto del tuo lavoro, e del tuo rapporto con la letteratura in generale.

portante, relazione è quella che ho con il luogo in cui sono nata. Qui non si tratta di una questione di tatto, né di curiosità, nè di gioco ma è semplicemente un bisogno di essere legata al mio luogo di origine. Dove mi sento al sicuro e protetta. Alcune volte ho la necessità di tornare alla semplicità delle cose. Una sorta di filo rosso che mi tiene unita alla mia terra. Con i miei lavori posso immaginarmi luoghi inventati e mondi paralleli ma, in qualche modo, rimane sempre forte questo legame, an-che se spesso questo viene rappresentato con un segno quasi impercettibile e nascosto, come può essere un pezzo di muro.

Effettivamente, in tutti i miei lavori, sento la necessità di rac-contare delle storie; queste però spesso sono nascoste dietro la semplicità e l’immediatezza di una fotografia, di una scritta o di un’incisione. Le storie sono lì, seminascoste dietro il lavoro ma pronte per essere “lette” da chiunque abbia la voglia di non fermarsi alla superficie ma di andare oltre.Questa necessità è dovuta probabilmente, come ho già detto nella prima risposta, dalla mia formazione. Sono cresciuta in-fatti circondata da libri, soprattutto fumetti e libri di illustazi-one: da Charlie Brown a Gipi, da libri di illustrazione per bam-bini a Mattotti. Allo stesso tempo, assieme a questa passione sempre crescente per i fumetti c’è in me questa curiosità per la letteratura. Raramente vengo attirata dai grandi classici, preferisco sperimentare libri che raccontano storie strane, non convenzionali ma del tutto immaginarie e irreali. Mi piace im-medesimarmi nei personaggi, pensare a disegni e location im-probabili e soprattutto cercare ispirazione per le mie opere. (segue)

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Foto di famiglia, # 1-7, stampa fotografica 30x40, 2011 Il lavoro è costituito da una serie di fotografie di paesaggi realizzate attraverso il fotomontaggio di due immagini. Le prime sono di cieli. Fotografie realizzate durante i viaggi di famiglia, immagini legate a un ricordo, a un luogo e un tempo preciso e definito. Le seconde sono invece realizzate intorno alla casa in cui sono nata: fotografie di muri, quei muri con cui sono cresciuta e che non rappresentano solo una costruzione ma anche e soprattutto una storia. Con queste due componenti ho cercato di creare dei nuovi mondi. Mondi che non esistono ma che possono essere esplorati con l’immaginazione.

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La differenza tra il percorso immaginativo di un bambi-no e quello di un artista (in questo caso, il tuo percorso), è l’inserimento del concetto di gioco all’interno di uno schema definito, all’interno di una griglia di mezzi espressivi che pos-sono rendere la soggettività dell’immaginazione dell’infanzia entro l’intersoggettività di un dialogo artistico maturo. Nella tua opera questa griglia è data da una serie di elementi, tra cui la serialità. Perché, dopo il primo muro, hai continuato? Cosa stavi cercando, e cosa hai trovato?

Perché non mi sono fermata? Perché non mi bastava un pae-saggio…tutto è iniziato come un gioco, una sorta di sfida con me stessa: “sono capace a creare paesaggi anche minimam-ente realistici solo con un dettaglio di un muro e una vecchia fotografia di vacanze?” Poi però, una volta iniziato, non sono ri-uscita più a fermarmi. Mi sono resa conto che non solo riuscivo a creare dei paesaggi verosimili, ma che questi diventavano dei veri e propri mondi che ognuno poteva esplorare, dove ri-usciva a riconoscere paesaggi che aveva effettivamente visto, durante le vacanze o semplicemente aprendo le finestre della propria stanza. Mondi che riuscivano a dare una sensazione a coloro che li guardavano. Non erano più dei semplici pezzi di muro ma diventavano qualcosa di più. Ne ho realizzati molti, di questi “mondi-paesaggi”, questi sette sono solo una selezione di una serie molto più numerosa.

Spessissimo infatti i miei lavori hanno al loro interno una paro-la, una frase o una citazione. Queste ti rimandano a qualcosa, e quel qualcosa non è altro che uno spunto che do allo spet-tatore per creare una propria storia.

1Elogio della mano,Henri Focillon, p.114

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Roberta BusechianNasce a Trieste il 28.01.1990, attualmente è iscritta allo IUAV di Venezia presso la Facoltà di Arti Visive e dello Spettacolo. Vive e lavora a Venezia. Nella sua ricerca si occupa sia di mu-sica sperimentale, sound design e registrazioni sonore sia di produzione visiva attraverso il disegno e la performance.

Per prima cosa vorrei chiederti il rapporto tra i disegni esposti e Post-human: i tuoi studi sembrano infatti, se ne consideria-mo la definizione teorica, far parte di questo filone dell’arte contemporanea, per cui “l’opera si identifica in una procedura ricostruttiva del corpo, alterato nella sua identità biologica in un processo di biodiversificazione tra arte, scienza e tecno-logia, che ha come fine una mutazione genetica”, secondo il quale “il corpo naturale, anacronisticamente superato ed ina-datto al mondo tecnologico in cui si colloca, si adegua artificial-izzandosi in una esasperata ricerca di identificazione con una realtà nuova”1.Tuttavia, se guardiamo agli artisti più celebri che di questo fi-lone fanno parte “2, sono spesso performer, scultori o fotografi che realizzano interventi visivamente aggressivi, perturbanti nei loro contrasti e soprattutto interessati al corpo come carne e fisicità esterna. Sono decisamente lontani dalla tua sottile linea leonardesca e dal tuo interesse per la struttura interna e microscopica. Definiresti la tua ricerca una deviazione cons-apevole di questa corrente oppure qualcosa di totalmente al-tro?

La mia ricerca non rientra nell’ottica del post-human soprat-tutto perché non tratta il corpo come qualcosa di inadatto all’avanzamento tecnologico, ma come un’architettura che si avvicina di più alla coscienza umana come accumulo di sim-boli e significati, il tutto trasposto in forma anatomica e fisio-logica, che non tratta di problematiche legate al post umano. Per rendere l’idea, Antonin Artaud, quando parla del teatro della crudeltà definisce i corpi degli attori “geroglifici viventi” e segni parlanti. Io immagino le mie proiezioni come entità reali ma soprattutto come fisicità interne, come organi, anche non solamente umani. La delicatezza che si percepisce guardando i disegni deriva soprattutto dalla precarietà di qualunque or-gano, dalla costituzione effimera delle membrane, con tutta la loro diafanità.Concordo però con il fatto che l’intreccio tra meccanico ed or-ganico è sicuramente intrinseco nelle mie costruzioni,

Un aspetto che mi affascina molto delle tue architetture ana-tomico-tecniche è il loro essere assimilabili ad organismi, mac-chine, strutture complesse con un loro funzionamento auton-omo. Penso che questo in qualche modo possa rendere la loro “costruzione” vicina alla composizione musicale, il che rende molto coerente la tua pratica di artista visiva con quella di sperimentatrice del suono. Vorrei chiederti di parlarmi di come influiscono una sull’altra queste tue ricerche.

anche perché l’inadeguatezza che ne deriva rispecchia total-mente l’inadeguatezza che si presenta attraverso gli elementi descritti, slegati da un contesto, da un’atmosfera ben definita tutti a metà tra il levitare e il movimento dinamico.

Spesso affermo che la mia pratica musicale non si leghi implici-tamente alle figure che rappresento a livello visuale e a volte i l’immaginario che si materializza con i lavori sonori smen-tisce questa mia affermazione. Il disegno si è sviluppato an-ticipatamente a qualsiasi interesse per l’ elaborazione sonora e l’attenzione per le capacità “introduttive” della musica speri-mentale, introduttive nel senso che introducono un discorso che si fonda soprattutto su un tentativo di ricodificazione della trasmissione sonora. I suoni, le timbriche che utilizzo e che mi interessa analizzare hanno molto a che fare con l’organicità e la fisiologia. Ciò che mi interessa principalmente è creare nuove possibilità acustiche e immaginative. Per quanto riguar-da le installazioni sonore ciò su cui pongo molta attenzione sono le capacità acustiche degli spazi e dei singoli suoni come entità a sé stanti, che a loro volta possono riprendere quella che è l’impostazione visiva del mio lavoro.Se con queste considerazioni emerge un forte connubio delle due pratiche, sotto un altro punto di vista le due attitudini in-traprendono percorsi separati. La sperimentazione musicale è sicuramente quella più carica di afflato critico quando si tratta di composizione musicale, ovvero quando si tratta di costruire una partitura che per quanto possa essere “libera” ha delle regole fisse da prendere in considerazione. (segue)

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Antinomie,# 1-3, matita su carta da riso, 66x61 cm - matita su cartonlegno, 73x103 cm, 2011Antinomie elaborate sulla base di tavole anatomiche umane. Intenzioni, interpretazioni. Vuote di per se stesse, esse mostrano ap-punto che un mondo sussiste per l’uomo solo nel movimento che le idee gli imprimono, non nella diretta intelligenza delle idee.Costruite su una forte base simbolica, diventano, man mano che i segni vanno a sedimentarsi, tragedie del visivo.

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1Post-Human, Vilma Torselli 2 Tra gli artisti più famosi che fecero parte della mostra Post-human del 1992, a cura di Jeffrey Deitch, si possono citare: Matthew Barney, Wim Delvoye, Cindy Sherman, Jeff Koons, Charles Ray…

Comunque sia, costruire da zero un ensamble musicale porta con sé la necessità di tempistiche altre rispetto alla pratica visiva, più diretta da questo punto di vista e attiva allo stes-so tempo alcuni lati “registici” che non si occupano di messa in scena ma dell’impostazione di una situazione fertile per l’esecuzione.

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Alessia Cargnelli

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Nata nel 1990 a Trieste, vive a Venezia.Si interessa di fotografia e arte contemporanea. Frequenta l’ultimo anno del corso triennale di Arti Visive e dello Spetta-colo all’Università IUAV di Venezia.

Roland Barthes ne La Camera Chiara paragona l’operazione del fotografo al processo d’imbalsamazione, indissolubilmente legato alla morte. Le tue foto rovesciano questa funzione, già pienamente esplicata nei diorami, vivificando in modo violento un soggetto rappresentato assolutamente finto, e questo pro-prio in nome della finzione della sua rappresentazione. Un as-petto interessante del tuo lavoro sta anche nel riuscire a fare questo con un gesto strutturalmente affatto violento, anzi semplice e pulito come quello di uno scatto. Vorrei chiederti di parlarmi dell’ambiguità di questa operazione, e di approfon-dire il meccanismo che sta dietro l’appropriazione di queste immagini.

Attraverso la fotografia ho cercato di trasformare i diorami in qualcosa di ancora più costruito, dei poster seducenti di una natura già stereotipata. Lo scatto annulla la profondità tra fig-ura e sfondo, creando così un’immagine piatta, di cui è difficile riconoscere la provenienza. Mi hanno sempre affascinato le ricostruzioni degli ambienti naturali dei musei, che mischiano indifferentemente animali impagliati, oggetti reali e fondi finti per resuscitare una realtà ormai passata. In fondo si tratta di un’operazione molto simile a quello che Barthes intende per fotografia: il ritorno del morto. In tutta questa sovrabbondanza di finzione ci sono però dei particolari che stranamente saltano all’occhio: una certa smor-fia sulla preda agonizzante, lo sguardo perso dell’orso -perchè l’orso sembra proprio avere uno sguardo-, il balzo fulmineo del capriolo. Per un attimo riprendono vita. Penso ad un discorso di Hal Foster, che riferendosi ad artisti come Richard Prince e Cin-dy Sherman parla dell’arte dell’appropriazione con l’immagine schermo come qualche cosa che può essere critica verso lo schermo, ma anche affascinata da esso, quasi innamorata. L’arte di appropriazione, cercando di esporre le illusioni del-la rappresentazione, può a volte bucare l’immagine-schermo premettendo al reale di irrompere. Questo sottile meccanismo innesca una certa tensione nelle immagini: si tratta di quell’ambiguità a cui accennavi nella tua

domanda, un aspetto del lavoro che mi interessa molto. Solo un piccolo dubbio, per un momento.

Queste nature morte sono in qualche modo una messa in scena dello stereotipo che possediamo di ognuno dei soggetti rappresentati. Il diorama di per sé non ci stupisce proprio per-ché corrisponde a quello che già conosciamo, a quello che ci aspettiamo. E’ con le tue fotografie che si supera la soglia del perturbante, proprio perché queste rompono l’orizzonte di at-tesa dello spettatore offrendo una (oggi come oggi parados-sale) finzione del soggetto stesso e non della fotografia post-prodotta. L’effetto sembra a prima vista lo stesso, ma si rivela come il frutto di un processo opposto. Guardando al presente, pensi che in qualche modo la tua operazione possa essere con-siderata una possibilità “postmoderna” della fotografia docu-mentaria?

Il mio intervento si limita semplicemente alla scelta dell’inquadratura. Il set era già pronto, l’immagine già perfetta. La post-produzione è superflua, inoltre è un procedimento che solitamente escludo dal mio lavoro: cerco sempre di attenermi a quello che vedo, senza ulteriori modifiche. Vorrei solo trat-tenere quel pezzettino di realtà che un secondo dopo sembra già perso. Per la prima volta, davanti ai diorami non avevo nessuna fretta: le cose stavano lì, realtà congelate e immobili, quasi insensibili allo scorrere del tempo.

E invece, guardando al passato, come si relaziona il tuo lavoro con la natura morta intesa come genere pittorico?

La natura morta è la rappresentazione di una scena allestita appositamente per diventare soggetto di una tela. Spesso sono presenti anche degli elementi naturali: una mela, dell’uva, qualche fiore. Ma si tratta sempre di fiori recisi, di frutti già colti. Le nature morte contengono qualcosa che si sta deterio-riando e che svanirà a breve.(segue)

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Nature morte, # 1-6, stampe digitali, 65x100 cm, 2012Un piccolo safari tra i diorami del Museo di Storia Naturale di Milano.

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Credo ci siano alcune analogie con il mio lavoro: i diorami sono in fondo ricostruzioni costituite da elementi naturali ormai mor-ti che hanno la funzione di rappresentare se stessi (da vivi): io mi sono appropriata di questa messa in scena trasformandola nel mio soggetto di ricerca.

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La stratificazione rende in qualche modo visibile il processo senza rivelarne immediatamente le fasi , in qualche modo costringe ad una lettura ravvicinata e d’insieme al contempo. La cera ha reso possibile questo tipo di “visibilità”, l’ho scelta per esplorarne la trasparenza, ma manipolandola ne ho ap-prezzato la corposità (per non dire corporeità), la levigatezza e la ruvidità, la sua diversa capacità di “dipingere” a diverse temperature. Il filo in questo caso specifico è fibra, elemento interno, sottile, intimo che invece diventa contorno e quasi fatica a contenere un corpo sfibrato che ha disperso i suoi or-gani. In altri lavori ho usato il filo come segno e come scrit-tura, come metafora tessile di linguaggio (dal filo del discorso al filo di voce) o come sua raffigurazione e in qualche modo è a quell’ambito che ogni volta “tutto torna”. Sono convinta che questo lavoro non esaurisca le possibilità di esplorazione dei materiali e della relazione scrittura-corpo...per questo mi piace considerarlo come una sorta di fase preliminare di un lavoro che ancora non è stato fatto. Per quanto riguarda la garza, il suo incontro è stato piuttosto casuale (pensavo ad un modo per realizzarmi una tela), ma si è rivelato poi determinante per la definizione dei soggetti, del ti-tolo e di tutto il resto. Per quanto i presupposti possano essere semplici, è inevitabile che il processo che si innesca porti alla complessità. Mi piacerebbe per una volta poter fare il percorso opposto: per assurdo la stratificazione così come mi ha per-messo di aggiungere, potrebbe anche consentirmi di levare.

La prima sensazione che mi hanno dato i tuoi lavori è stata lo scomporsi delle diverse parti di un corpo: sullo sfondo si strati-ficano, una sopra l’altra, il legno, la cera, la garza (i tessuti, le suture), e su di esse poi si disegna il contorno dello stesso corpo, superficie sottile e debole. Come se il filo fosse solo la parte più superficiale della cute, epidermide protetta unica-mente dalla presenza dei peli della lana, mentre tutto ciò che “sta sotto” è stato assorbito dalla tela. Vorrei chiederti come sei arrivata alla definizione di questo procedimento “a strati”, e cosa ti ha portata alla scelta di questi specifici materiali.

Parto dalla consapevolezza di saper copiare molto bene, ma di non aver ancora imparato a disegnare o meglio di non aver an-cora trovato il mio disegno. Il disegno che cerco deve in qual-che modo costruirsi da sé, cadere sul foglio, essere in parte de-terminato dal comportamento spontaneo del materiale che sto utilizzando, riservando una minima parte al mio controllo, che comunque rimane. Così è avvenuto col filo: io cercavo di ripro-durre dei corpi, copiandoli da alcune fotografie, ma gran parte della qualità del segno finale è dovuta a quella specifica lana...Potrei sforzarmi di ripetere l’operazione con del fil di ferro o con una corda, ma inevitabilmente cambierebbero i risultati e i ma-teriali stessi cambierebbero i miei gesti. Mi piace molto come tu definisca “non-mediato” il mio rapporto col disegno perché lo ritrovo anche in altri lavori (spazi ricordati, monotipi...) in cui non necessariamente ho usato il filo, ed effettivamente ogni volta che disegno, mani e mente devono essere impegnate a fare dell’altro.

L’uso del filo nella tua ricerca elimina in qualche modo una determinata distanza, che si costituisce nel rapporto artista-strumento-segno-tela (ad esempio nella pratica del disegno c’è una distinzione netta tra chi disegna, l’oggetto matita e il segno che viene tracciato sulla carta). In che modo questo rapporto non-mediato si colloca nella tua pratica artistica, nei tuoi gesti?

Serena LuceNata a Cagliari nel 1989, vive e lavora tra Padova e Venezia. Dopo la maturità linguistica ha intrapreso il Corso di Laurea in Arti Visive e dello Spettacolo focalizzando la propria ric-erca sulla scrittura, l’illustrazione, il linguaggio e il rapporto tra parola e immagine con una particolare attenzione alla resa della processualità.

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SUTURE(scritture) #1-4, tecnica mista su tavola, 100x70 cm, 2011-2012

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Nota dell’artista: la scrittura a volte incide, divide, solca la superficie che l’accoglie, altre, la sfiora e l’accarezza: è innanzitutto un atto corporeo, un gesto di variabile violenza. In Suture il corpo, privo di volto e mani, comunica attraverso la sua superficie: da strumento di scrittura diviene oggetto di lettura. La scrit-tura rimane, più o meno implicitamente, il nucleo originario di queste tavole di cera, nelle quali il segno e il disegno sono inglobati più che incisi, andando a ricucire in qualche modo il rapporto tra segno, materia e superficie. L’opera quindi, a partire dalla corporeità della scrittura diviene un’indagine sui segni e le scritture corporee. Gli elementi più che esplicativi, cercano di essere evocativi di universi semantici differenti tra i quali creare delle connessioni: in questo modo la cera che ri-corda le tabulae della scrittura classica, è anche una cera ana-tomica; il tessuto corporeo è associato al tessuto linguistico; la scrittura diviene sutura, legame tattile. I deboli contorni faticano a contenere la materialità della fig-ura che prosegue oltre senza distinguersi dallo sfondo e oltre ancora relazionandosi sorprendentemente con la superficie “vissuta” della parete dello Spazio Punch. La serialità innesca automaticamente dei dialoghi sordi tra i quattro corpi, incons-apevoli protagonisti di una serie di incontri mancati e di cont-atti impossibili.

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Gioele PeressiniNato a Monfalcone (GO) il 17.05.1990.Attualmente è iscritto al triennio in Arti visive e dello spetta-colo presso l’università IUAV di Venezia.Vive e lavora tra Monfalcone e Venezia

Nonostante nel tuo lavoro sia presente un rapporto artista–materia molto forte e complesso, se dovessi interpretarlo sulla base della relazione mano che accarezza-Altro che viene accarezzato, penso che entrambi gli elementi della funzione corrisponderebbero a te stesso. Ciò che mi interessa della tua ricerca è infatti che, in qualche modo, definisca (se non un onanismo) una certa schizofrenia della carezza, un dialogo che però non è “interiore”, è tra te e un altro te, esteriorizzato. Ti sembra plausibile una lettura di questo tipo?

Mi piace molto una lettura di questo tipo, e non posso fare altro che condividerla. Apprezzo tu abbia visto una sorta di dialogo fra due me, e in effetti è vero. Piuttosto che ad una schizofrenia ciò a cui io aspiro e guardo è un disturbo border-line della personalità. Ma aspirare ad essere una cosa è ben diverso dall’esserlo veramente. Parlare di schizofrenia significa rendere impossibile un dialogo, il borderline invece implica un andirivieni tra il confine ed un dialogo molto più sciolto.Comunque io non condivido quello che sto dicendo.

Il tuo lavoro è, all’interno della mostra, il più coerente rispetto alla natura ambivalente della carezza; sia dal punto di vista più immediato ed estetico (l’usignolo che da lontano sembra librarsi leggero nell’aria e da vicino si rivela nella sua natura di cadavere), sia dal punto di vista della pratica che l’ha prodot-to (nel tuo accudire con delicatezza il suo corpo, posizionarlo meticolosamente sullo scanner e poi schiacciarlo per trovare la nitidezza dell’immagine). Vorrei che mi parlassi di qual era il tuo punto di partenza quando hai iniziato questa ricerca, dove ti sta portando, e se quest’ambiguità era voluta o è solo un ef-fetto collaterale della tua indagine sulla materia.

per l’ennesima volta La terra desolata di T. S. Eliot e non pote-vo sentirmi altro che sterile.

Allo stesso modo non avevo e tutt’ora non ho idea di dove an-drò a finire con questa ricerca. Forse è già finita e non me ne sono accorto, o non ha dato frutti interessanti.In Eliot mi ha sempre affascinato il correlativo oggettivo, la re-ificazione del sentimento, il potersi rispecchiare negli elementi della vita quotidiana e condividere la gioia o il dolore. Probabil-mente è in questa direzione che mi sta portando la ricerca: in una o più immagini che possano essere l’equivalente in fattore emotivo di un testo poetico.

Era ottobre e cadevano le prime foglie. Nel mio giardino c’era un’inspiegabile moria di uccelli ed altri animali, i campi dopo l’ultimo raccolto erano abbandonati. Vedevo queste cose at-torno a me e volevo conservarne il ricordo. È nato tutto per caso, in quei giorni c’era sul mio comodino

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Anatomia delle tue assenze, tre scansioni su carta fotografica di 30x20 cmSi dice che un tempo il canto dell’usignolo fosse il più potente palliativo: portava una morte dolce a chi esalava l’ultimo respiro e una pronta guarigione al malato.

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Sofia SilvaSofia nasce nel 1990, figlia di due intellettuali tanto originali nel pensiero quanto impegnativi nella condotta. Cattiva e sen-sibile, passa i primi 20 anni della sua vita a studiare alla luce dell’abat-jour, facendosi distrarre solo da commedie rosa e sol-itarie passeggiate in giardino dove giorno dopo giorno alimenta le sue fantasie d’onnipotenza.

Quello che mi interessa, rispetto al concetto di “carezza”, è la tua pratica artistica - In particolare il momento in cui riesci a fermarti: nel rapporto tra il tuo corpo e il corpo della tela, quando capisci di “aver dato” abbastanza? Ma è poi un “dare” il tuo?

Prima hai parlato della polvere sul grande vetro di Duchamp in termini di “accettazione e imperfezione”: ma non dimentichia-mo che Duchamp quella polvere l’aveva fissata con la lacca. Il tuo obiettivo è arrivare ad un momento in cui la tua tela ti sem-brerà perfetta senza aver bisogno di “autocensurare” le tue scelte istintuali impreviste, oppure pensi che le cancellature siano parte integrante del tuo lavoro concluso? I pentimenti sono una polvere da salvaguardare?

La creazione di un dipinto per me è fatta di due momenti mol-to importanti, uno in cui la pittura è un flusso continuo, dove posso parlare con chi mi viene a trovare nello studio o pen-sare liberamente e un secondo momento spartiacque in cui devo compiere delle scelte. Affronto questo secondo momento con ironia e consapevolezza, perché sento in partenza che an-drò incontro ad uno sbaglio. Poniamo il caso: ho davanti un ritratto incompiuto, ci sono solo le pennellate marroni e quelle bianche, ora mi si pone la domanda “Devo inserire un terzo colore?”. Posso pensarci anche un giorno, ma so già che per il semplice fatto per cui quel terzo colore è apparso nella mia do-manda, sta per comparire anche sulla tela. Quindi lo aggiungo e viene una mostruosità! A quel punto…basta toglierlo. Certo, rimarranno sempre le tracce, la tela non è più pulita, ma resta in compenso la traccia di quella scelta istintuale che è il bello della pittura, il “proviamoci”. La si accoglie con accettazione e imperfezione, come la polvere sul grande vetro di Duchamp, la differenza è solo nel fatto che qui c’è il nostro zampino.

No, il mio non è un dare, è un dialogo. E le parole hanno una loro indipendenza.

Hai specificato chiaramente la natura dei tuoi soggetti: sono in-fatti ricchi di “assenze”, ma non assenze silenziose e reticenti di chi “non vuole dire troppo”: assenze create dal pentimento di chi ha già detto troppo, e cerca di fare un passo indietro pur restando totalmente affascinato dalla propria scelta di fare quel passo. Restano a questo punto da chiarire gli spazi in-completi: vorrei che mi parlassi del momento in cui capisci che non devi più riappoggiare il pennello sulla tela, che è finita così com’è e un solo segno in più sarebbe una violenza.

Mi trattengo dal non riappoggiarlo quando mi allontano dalla tela. Fino a che non manca l’ultimo quadratino di pittura, le sto attaccata, a dividerci solo 20 cm. Poi arriva un momento in cui quello che volevo dipingere, è dipinto, lo sfondo per quel che doveva essere coperto, è coperto. Mi allontano e, se mi affasci-na, è conclusa così. Se invece non mi affascina cancello e con-tinuo, ma probabilmente continuerà a non convincermi perché le cancellazioni che mi riescono meglio sono quelle strutturali e non di compromesso. Anche se giungere a compromessi in pittura mi piace molto.

Le mie tele non sono mai perfette, raramente ottengo ciò che ho in mente. Finito un quadro, lo guardo sempre a lungo per farci conoscenza, perché a volte è come se non fosse mio. Quando si ha una cicatrice, difficilmente la si pensa come un corpo estraneo sulla pelle, ma piuttosto come una diversa con-formazione della pelle stessa. E così per le cancellature, non sono un modo per ritornare indietro, ma si inseriscono in un processo in divenire. Un corpo cancellato è diverso da un corpo che non esiste. Pensiamo alle sante mistiche: più negavano il loro corpo, più lo sentivano sporco, sessuale, pulsante, era lì.

Un altro aspetto che mi incuriosisce è il processo di creazione della tela stessa: quando ti ho chiesto, infatti, di mostrarmi dei disegni preparatori delle tue tele, mi hai spiegato che questi non esistono.(segue)

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Ritratto Bianco - Libertà, olio su tela, 120x100 cm, 2012

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Se c’è una cosa che detesto è elucubrare sulle idee per i miei quadri. Le mie scelte avvengono ineffabili attraverso la scelta dei soggetti. Faccio una passeggiata e mi ritrovo con in mano tre immagini per tre quadri e guarda caso si assomigliano tutte, è inconscio? Considero la mia pratica del disegno come qualcosa di totalmente disgiunto dalla pittura. Non disegno mai schizzi preparatori, anche perché mi piace disegnare con modalità e soggetti diversi da quelli che dipingo. Ho imparato a disegnare dipingendo, tela dopo tela, con il pennello e non con la matita. Ad Reinhardt disse: “Only a bad artist thinks he has a good idea. A good artist does not need anything.”, l’artista passa la vita a pensare, ma quando sente l’opera premere per uscire non vede l’ora di vederla e non perde tempo a elucubrare, non ha paura.

Come funziona la progettazione dei tuoi lavori? La fase di stu-dio e di ricerca?

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Nota dell’artista:Da sempre i miei romanzi preferiti sono quelli di formazione: rincorrono i momenti più importanti della vita del giovane pro-tagonista, delineando il personaggio in contemporanea con il racconto. Ritrovo questo nella mia pratica pittorica: è emersa all’improvviso e sin da subito si è imposta come il capitolo cen-trale del mio romanzo. Non ho un soggetto prediletto, né un tema che mi si imponga. Ciò che mi spinge alla pratica quotidi-ana della pittura sono insofferenza e insoddisfazione.

Libertà è il secondo dipinto di una serie di ritratti bianchi che comprende anche Iniziazione, Vecchiaia, Il bacio e Il riflesso.Trovo che il momento in cui entra in gioco per l’uomo la pul-sione alla libertà sia il più delicato e liminare possibile, un mo-mento trattenuto con sforzo dai segni del pennello. Chissà a quale libertà il ragazzo anela… Alla libertà del corpo o a quella dal corpo? O forse alla libertà di articolarsi nel quadro insegu-endo il proprio desiderio?

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Caterina SokotaCaterina Sokota nasce il 14 giugno 1990 a Trieste. Frequenta il terzo anno allo IUAV, alla facoltà di arti visive e dello spettacolo di Venezia.

La tua ricerca è quella che più si lega al concetto di carezza inteso come esplorazione costante. Quando abbiamo parlato del tuo lavoro, infatti, la cosa che più mi ha colpita è stato il tuo “lasciarti ossessionare” dalla ricerca che stai facendo: partire dagli elementi minimi necessari per creare un lavoro e speri-mentarli senza riserve, interrogarli lasciandoti trasportare da-gli effetti collaterali che ne derivano, senza accontentarti mai delle risposte che trovi. Vorrei che mi parlassi di questa tua pratica quasi rituale: non tanto nel senso di cosa stai cercando o di cosa hai trovato, ma piuttosto nel senso del percorso che sta determinando questi due momenti.

Non ho mai pensato che in una ricerca si “trovi”, in un dato mo-mento, qualcosa di evidente e chiaro. Penso alla ricerca come ad un sentiero, che va, prosegue. Parte da un punto preciso, svolta, scende, curva, risale. Non so mai se il percorso porterà ad un lavoro finito, o sarà solo un camminare faticoso e stan-cante, pieno di domande. Questa sensazione l’ho avuta anche dipingendo i disegni blu: uno dopo l’altro, con più calma o freneticamente, vedendo il colore scomparire o diventare così buio e profondo da inghiot-tirmi. Continuando e continuando. E poi riguardando ciò che avevo fatto, con un occhio più lucido, cercando di dare un giudizio, di distaccarmene, di valutarli. L’unica cosa che credo è che lo sguardo debba restare attento e vigile, mentre si va, pronto ad assecondare e accompagnare ogni cambiamento.

Una questione che nei tuoi lavori spesso ritorna è quella del silenzio, dell’assenza. Anche Levinas tratta di questo, sempre nell’ambito della car-ezza, definendo un concetto forte di assenza come ricerca “di qualche cosa d’altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sem-pre a venire”1.Assenza come attesa attiva di un avvenire puro. Mi interessa chiederti se, ed in che modo, questo concetto complesso e costruttivo di assenza si relaziona con la tua ricerca attuale.

I miei lavori parlano di qualcosa che c’è stato, un momento, preciso, che se n’è andato via. I fogli blu sono secondi assorbiti dalla carta, meccanicamente, attraverso lo stesso gesto, quasi ossessivamente, non importa quanto risultino “banali” o simili l’uno all’altro.

Penso all’assenza come ad una mancanza mentre Levinas parla di assenza come “attesa attiva”. L’attesa è quello stato d’animo che ha chi aspetta qualcosa. Ho spesso la sensazione che questo qualcosa sia inaccessibile, debba ancora arrivare o alle volte non arrivi proprio, così forte e deciso, ma sia un continuo procedere senza sapere. E’ facendo silenzio che le cose possono affiorare, prendere una forma. In questo silenzio, dove c’è una presenza, leggera, che vorrebbe scomparire ma che vedo in quei segni, quasi invisibili sul foglio, che ne diventano testimoni.

1Il tempo e l’altro, Emmanuel Levinas, p.58

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Senza titolo, 28 di 60 disegni realizzati fin ora, acrilico su carta, 42x29,7 cm, 2011-2012

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Špela Volčič

Le fotografie che hai esposto sono state scattate in momenti diversi della tua vita, eppure hanno una coerenza interna mol-to forte. Ciò che mi colpisce sempre dei tuoi lavori è proprio il loro essere diversi tra di loro, ma evidentemente parte della stessa ricerca, come se tu avessi acquisito ad un livello tal-mente profondo l’alfabeto che usi che alla fine le tue fotografie parlano tutte la stessa lingua. Vorrei chiederti come procedi nel tuo lavoro, se quando scatti la fotografia hai già in mente un’altra foto a cui si potrebbe legare, se è un lavoro che fai a posteriori sulla base del materiale che hai scattato, o se è un procedimento automatico che non controlli nemmeno più razionalmente.

Bisogna distinguere tra due percorsi diversi che seguo quan-do realizzo i miei progetti: il primo è legato alla progettazione vera e propria, ovvero quando parto con un’idea ben definita, e realizzo le fotografie pensando a come rendere quest’idea. Il secondo è composto da fotografie che faccio e poi seleziono senza avere in mente una forma compiu-ta del progetto. Le intendo come esercizi, accumuli.

Le fotografie presentate fanno parte di questa secon-da ricerca, che è in progress, in continuo mutamento. Essa segue tutti e tre i procedimenti che hai citato, ma secondo degli stimoli che stanno in equilibrio tra di loro, forse sarebbe sbagliato dire che uno prevale totalmente sugli altri. In questi casi non tendo a fare fotografie come dei documenti espliciti, è piuttosto una naturale ricerca del “vedere” nei lu-oghi che mi attraggono, dei quali tento di preservare l’aspetto poetico senza strutturare necessariamente le fotografie sec-ondo le regole e i limiti della fotografia documentaria. Proprio per questo li intendo come esercizi (soggettivi)La ricerca del luogo è sempre più lunga del fare fotografico, an-che perché è dal posto stesso che parte un nuovo scoprire…

Le tue fotografie (intese come “esercizi” e non “progetti”) sono state la prima cosa a cui ho pensato, come trasposizione artis-tica del concetto di carezza: sono parte di una ricerca costante che porti avanti da anni, e il tuo approccio rispetto alla realtà che fotografi è esattamente quello di chi la indaga senza ten-tare di appropriarsene, restando sul limite tra osservazione ed invasione. Questo si lega secondo me alla tua indagine sull’ambiguità dell’immagine: vorrei che mi parlassi di questo tuo ricercare l’equilibrio giusto tra il mostrare il soggetto e allo stesso tempo celarlo, creando armonie che, se ad un primo sguardo sembrano qualcosa di totalmente “sensoriale”, ad un esame più approfondito sono il risultato di precisi echi formali e di contenuto tra una fotografia e l’altra.

Quello che tu chiami un’ “indagine sull’ambiguità dell’immagine” non è, in realtà, nel mio lavoro, uno scattare la foto con uno scopo determinato in mente, è piuttosto un mettere in pratica dei princìpi che ho interiorizzato nel mio percorso e che di fron-te ad un’inquadratura mi fanno dire “funziona”. In un secondo momento capisco se questi scatti possono funzionare da soli o in dialogo con gli altri, anche se c’è sempre un’autonomia dell’immagine che ho scattato. Quando parli di “mostrare il soggetto e allo stesso tempo celarlo” mi fai pensare al rapporto che c’è tra le mie fotografie e la figura umana: ad esempio, nei paesaggi esposti, la figura umana è sempre presente, ma questa presenza non è diretta, è in absentia. Mostrare diret-tamente una persona sarebbe stato violento, ed invece l’unica violenza presente nell’immagine è quella con cui l’uomo ha lasciato tracce sul paesaggio. In un certo senso questa poetica dell’ambiguità esiste nella dualità fra realtà e immaginazione: c’è un punto di domanda e non necessariamente una risposta.

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Nata a Postojna in Slovenia nel 1984.Ha frequentato la scuola professionale Riccardo Bauer a Milano, lavorando nell’ ambito della fotografia. Ora è iscritta al corso di laurea in Arti Visive e dello Spettacolo presso l’Università IUAV di Venezia. Vive e lavora tra Venezia e la Slovenia.

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In absentia, stampa su carta fotografica, 50x70 cm

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Ringraziamenti Spazio Punch, per averci ospitati ed aiutati in ogni modo, Centro stampa digitale Al Canal, che si è occupato della stampa di tutto il materiale grafico e del catalogo, Azienda vinicola Risare-Cecchini Michele, Andrea Vecchiato, musicista del vernissage,Alessandra Bucchi per la collaborazione nell’allestimento.Tommaso Marinaro e Sebastian Pablo Poloni, musicisti, light designers e collaboratori senza i quali la realizzazione di quest’evento non sarebbe stata possibile.

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