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MARINATraduzione di Bruno ArpaiaNon sapevo ancora che, prima o poi,

l’oceano del tempo ci restituisce iricordi che vi seppelliamo.

Quindici anni più tardi, mi è tornatoalla mente quel giorno.

Ho visto quel ragazzo girovagarenella bruma della stazione Francia e ilnome di Marina si è infiammato dinuovo come una ferita recente.

Tutti noi custodiamo un segretochiuso a chiave nella soffitta dell’anima.Questo è il mio.

Marina…………………………………………………………………………………………….6

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Epilogo

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Amico lettore,ho sempre creduto che ogni scrittore,

lo ammetta o no, ha tra i propri libriqualcuno a cui è più affezionato. Questapredilezione non ha quasi mai a che farecon il valore letterario intrinsecodell’opera né con l’accoglienza deilettori né con gli agi o le ristrettezze chela sua pubblicazione gli ha procurato.Per qualche strana ragione, ci si sentepiù vicini a qualcuna delle propriecreature senza che se ne sappia spiegarebene il perché. Fra tutti i libri che hopubblicato da quando, verso il 1992, hoiniziato questo strano mestiere, Marina

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è uno dei miei preferiti.Scrissi il romanzo a Los Angeles tra

il 1996 e il 1997. Avevo allora quasitrentatré anni e iniziavo a sospettare chela prima gioventù, come l’aveva definitaqualche sempliciotto, mi stessescivolando tra le dita a velocità dicrociera. In precedenza avevopubblicato tre romanzi per ragazzi, epoco tempo dopo essermi imbarcatonella stesura di Marina ebbi la certezzache sarebbe stato l’ultimo libro delgenere che avrei scritto. Via via cheprocedevo, tutto in quella storiacominciò ad avere un sapore di addio, equando la terminai ebbi l’impressioneche qualcosa dentro di me, qualcosa che

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ancora oggi non so bene cosa sia ma chemi manca ogni giorno, fosse rimasto lìper sempre.

Marina è probabilmente il piùindefinibile e il più difficile daclassifica-re dei tanti romanzi che hoscritto, e forse il più personale di tutti.Parados-salmente, la sua pubblicazioneè quella che mi ha causato piùdispiaceri. È

sopravvissuto a dieci anni diedizioni pessime e spesso fraudolenteche a volte, senza che io potessi faregranché per evitarlo, hanno confusomolti lettori tentando di spacciare ilromanzo per quello che non era. Etuttavia, lettori di ogni età e condizione

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continuano a scoprire qualcosa tra le suepagine e ad accedere a quella soffittadell’anima di cui ci parla Óscar, il suonarratore.

Marina alla fine torna a casa, e ilracconto che Óscar conclude per lei puòora essere scoperto dai lettori, per laprima volta, nelle condizioni chel’autore ha sempre desiderato. Forseadesso, con il loro aiuto, sarò in gradodi capire perché questo romanzocontinua a essere presente nella miamemoria come il giorno in cui ho finitodi scriverlo, e riuscirò a ricordare,come direbbe Marina, quello che non èmai accaduto.

C.R.Z.

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Barcellona, giugno 20085

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Marina6Una volta Marina mi disse che

ricordiamo solo quello che non è maiaccaduto. Sarebbe trascorsa un’infinitàdi tempo prima che potessi comprenderequelle parole. Ma è meglio che comincidall’inizio, che in questo caso è la fine.

Nel maggio del 1980 sparii dalmondo per una settimana. Per settegiorni e sette notti nessuno seppedov’ero finito. Amici, colleghi,insegnanti e persino la polizia silanciarono alla ricerca di quel fuggiascoche alcuni credevano già morto, osmarrito nelle strade malfamate dellacittà in preda a un attacco di amnesia.

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Una settimana più tardi, un poliziottoin borghese credette di riconoscere quelragazzo; la descrizione coincideva. Ilsospetto vagava per la stazione Franciacome un’anima in pena in una cattedralefatta di nebbia e di ferro. L’agente mi siavvicinò con aria da romanzopoliziesco. Mi chiese se mi chiamavoÓscar Drai e se ero io il ragazzoscomparso senza lasciare tracce dalcollegio in cui studiava. Annuii senzadire una parola. Ricordo solo il riflessodella volta della stazione sulle lenti deisuoi occhiali.

Ci sedemmo su una panchina lungo ibinari. Il poliziotto si accese con calmauna sigaretta e la lasciò bruciare senza

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portarsela alle labbra. Mi disse chec’era un mucchio di gente che mi stavaaspettando per farmi un sac-co didomande, per le quali mi convenivaavere buone risposte. Annuii di nuovo.Mi fissò negli occhi, studiandomi. «Avolte dire la verità non è una buona idea,Óscar.» Mi allungò qualche moneta e miinvitò a chiamare il mio tutore incollegio. Lo feci. Il poliziotto aspettòche finissi la telefonata, poi mi diede isoldi per un taxi e mi augurò buonafortuna. Gli domandai come faceva asapere che non sarei sparito ancora. Miguardò a lungo.

«Scompare solo la gente che haqualche posto dove andare» rispose

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secco.Mi accompagnò fuori e mi salutò,

senza neppure chiedermi dov’ero stato.Lo vidi allontanarsi lungo il Paseo

Colón. Il fumo della sigaretta, intonsa, loseguiva come un cane fedele.

Quel giorno il fantasma di Gaudíaveva scolpito nel cielo di Barcellonadelle nubi impossibili su uno sfondoazzurro che accecava lo sguardo. Presiun taxi fino al collegio, doveimmaginavo mi attendesse un plotoned’ese-cuzione.

Per quasi un mese gli insegnanti e glipsicologi della scuola mi martella-ronodi domande per farmi rivelare il miosegreto. Mentii a tutti, raccon-tando a

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ciascuno quello che voleva sentire o chepoteva accettare. Con il 7

tempo, tutti si sforzarono di fingeredi aver dimenticato quell’episodio. Ioseguii il loro esempio. Non ho mairivelato a nessuno quello che erasuccesso davvero.

Non sapevo ancora che, prima o poi,l’oceano del tempo ci restituisce iricordi che vi seppelliamo. Quindicianni più tardi, mi è tornato alla mentequel giorno. Ho visto quel ragazzogirovagare nella bruma della stazioneFrancia e il nome di Marina si èinfiammato di nuovo come una feritarecente.

Tutti custodiamo un segreto chiuso a

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chiave nella soffitta dell’anima.Questo è il mio.8

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1Alla fine degli anni Settanta

Barcellona era un’illusione di vicoli eviali in cui si poteva viaggiare a ritrosonel tempo di trenta o quarant’annisemplicemente oltrepassando la sogliadi una portineria o di un caffè. Il tempo ela memoria, la storia e la finzione, sifondevano in quella città stregata comeacquerelli sotto la pioggia. Fu lì, traquelle strade ormai scomparse, checattedrali e palazzi usciti da un libro difiabe architettarono lo scenario di questastoria.

All’epoca ero un quindicenne cheammuffiva tra i muri di un collegio conil nome di un santo alle falde della

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collina di Vallvidrera. In quei giorni ilquartiere di Sarriá aveva ancoral’aspetto di un paesino arenato sulle rivedi una metropoli modernista. Il collegiosorgeva in cima a una strada che siinerpicava dal Paseo de la Bonanova.La sua monumentale facciata facevapensare più a un castello che a unascuola. La spigolosa sagoma colorargilla era un rompicapo di torri, archi eali tenebrose.

Il collegio era circondato da unacittadella di giardini, fontane, stagnipaludosi, cortili e boschi di piniincantati. Tutt’intorno, cupi edificiospitavano piscine velate da vaporispettrali, palestre stregate dal silenzio e

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lugu-bri cappelle in cui le immagini deisanti sorridevano al riflesso dei ceri. Ilcollegio aveva quattro piani, senzacontare le due cantine e una mansarda diclausura in cui alloggiavano i pochisacerdoti che ancora insegnavano.

Le stanze dei convittori siaffacciavano sui cavernosi corridoi delquarto piano, perennemente sprofondatinella penombra e avvolti da echispettrali.

Passavo i giorni a sognare a occhiaperti nelle aule di quell’immensocastello, in attesa del miracolo che siripeteva ogni giorno alle cinque e ventidel pomeriggio. A quella magica ora ilsole rivestiva di oro liquido le alte

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vetrate. Suonava la campanella cheannunciava la fine delle lezioni e noiinterni avevamo quasi tre ore di libertàprima della cena nel grande refettorio. Inteoria, avremmo dovuto destinare queltempo allo studio e alla ri-flessionespirituale. Non ricordo di avere maidedicato a queste nobili attività un sologiorno di quelli passati in collegio.

Era il momento che preferivo.Eludendo il controllo del portiere,uscivo 9

a esplorare la città. Presi l’abitudinedi rientrare in collegio giusto in tempoper la cena, camminando per strade eviali mentre tutt’intorno a me calaval’oscurità. Quelle lunghe passeggiate mi

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davano un’inebriante sensazione dilibertà. La mia immaginazione volava aldi sopra dei palazzi e toccava il cielo.Per qualche ora le strade di Barcellona,il collegio e la lugubre stanza al quartopiano scomparivano. Per qualche ora,con in tasca soltanto un pa-io di monete,mi sentivo l’individuo più fortunatodell’universo.

Spesso il mio girovagare mi portavadalle parti del deserto di Sarriá,nient’altro che una specie di boscosperso in terra di nessuno. La maggiorparte delle antiche residenze signoriliche un tempo avevano punteggiato iltratto settentrionale del Paseo de laBonanova era ancora in piedi, anche se

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quasi in rovina. Le strade attorno alcollegio tracciavano i contorni di unacittà fantasma. Muri ricoperti d’ederaimpedivano l’accesso a giardini sel-vatici in cui s’innalzavano villemonumentali. Palazzi invasi dalleerbacce e dall’abbandono, su cui lamemoria sembrava galleggiare comenebbia che non vuole dissiparsi.Parecchie di queste ville attendevanosolo di essere demolite e altrettanteerano state saccheggiate nel corso deglianni. Alcune, tuttavia, erano ancoraabitate.

I loro occupanti erano i discendentidimenticati di stirpi decadute. Famiglie icui nomi comparivano sulle prime

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pagine di “La Vanguardia”quando i tram suscitavano ancora la

diffidenza delle invenzioni moderne.Ostaggi del loro passato moribondo

che si rifiutavano di abbandonare le navialla deriva. Temevano che, se avesseroosato mettere piede oltre i confini delleloro cadenti proprietà, i loro corpi sisarebbero dissolti come cenere al vento.Come prigionieri, languivano alla lucedei candelabri. A volte, quando passavoin fretta davanti a quelle cancellatearrugginite, mi sembrava di coglieresguardi sospettosi dietro le impostescolorite.

Un pomeriggio, verso la fine disettembre del 1979, decisi di avventu-

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rarmi a casaccio per uno di quei vialidisseminati di ville moderniste, delquale fino ad allora non mi ero accorto.La strada descriveva una curva cheterminava davanti a una cancellatasimile a molte altre, oltre la quale siscorgevano i resti di un vecchio giardinosegnato da decenni di abbandono.

Tra la vegetazione si notava lasagoma di una villa a due piani. La suacupa facciata si ergeva dietro unafontana decorata con statue che il tempoaveva rivestito di muschio.

Era l’imbrunire e quel luogo misembrò un po’ sinistro. Lo avvolgeva un10

silenzio mortale, incrinato solo da

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una leggera brezza che mi sussurravasenza parole un avvertimento. Capii diessere finito in una delle zone “morte”del quartiere. Pensai che fosse megliotornare sui miei passi e rientrare incollegio. Ero combattuto tra il fascinomorboso di quel luogo dimenticato e ilbuonsenso, quando scorsi due brillantiocchi gialli che luccicavano nellapenombra, fissi su di me come daghe.Deglutii.

Il mantello grigio e vellutato di ungatto si stagliava immobile davanti alcancello della villa. Un passerottoagonizzava tra le sue fauci. Un sonaglioargentato pendeva dal collo del felino. Isuoi occhi mi studiarono per qualche

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secondo, poi il gatto si voltò e s’infilòtra le sbarre di metallo. Lo vidiscomparire nell’immensità di quell’edenmaledetto portando il passerotto verso ilsuo ultimo viaggio.

L’apparizione di quella piccola fieraaltezzosa e sprezzante mi intrigò. Agiudicare dal mantello lustro e dalsonaglio, aveva un padrone. Forse lavilla ospitava qualcosa di più concretodei fantasmi di una Barcellonascomparsa. Mi avvicinai e appoggiai lamano sulle sbarre del cancello. Ilmetallo era freddo. Le ultime luci delcrepuscolo infuocavano le tracce dellegocce di sangue lasciate dal passero inquella selva. Perle scarlatte che

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tracciavano un sentiero nel labirinto.Deglutii di nuovo. O meglio, ci provai.Avevo la bocca secca. Il cuore, come sesapesse qualcosa che io igno-ravo, mibatteva nelle tempie all’impazzata. Fuallora che sentii il cancello cedere sottoil mio peso e capii che era aperto.

Quando feci il primo passo versol’interno, la luna illuminava il pallidovolto degli angeli di pietra della fontana.Mi osservavano. I piedi mi si eranoinchiodati a terra. Mi aspettavo chequelle figure inanimate saltassero giùdai loro piedistalli e si trasformasseroin demoni armati di artigli da lu-po elingue da serpente. Non accadde nulla ditutto ciò. Respirai a fondo, esaminando

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la possibilità di zittire la miaimmaginazione o, meglio ancora, diabbandonare la mia timida esplorazionedella proprietà. Ancora una volta,qualcun altro decise per me. Un suonocelestiale invase le ombre del giardinocome fosse un profumo. Sentii levariazioni di quel sussurro cesel-lare lenote di un’aria accompagnata alpianoforte. Era la voce più bella cheavessi mai ascoltato.

La melodia mi era familiare, ma nonriuscii a riconoscerla. La musicaproveniva dalla casa. Seguii la suatraccia ipnotica. Lame di luce vaporosafiltravano dalla porta socchiusa di unaveranda a vetrate.

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11Riconobbi gli occhi del gatto, fissi

su di me dal davanzale di un fine-stronedel primo piano. Mi avvicinai allaveranda illuminata da cui provenivaquel suono indescrivibile. La voce diuna donna. Il tenue alone di centocandele palpitava all’interno. Intravidi iltrombone dorato di un vecchiogrammofono su cui girava un disco.Senza pensare a quello che facevo, misorpresi a entrare nella stanza,soggiogato dalla voce di quella sirenaprigioniera del grammofono. Sopra altavolo su cui era appoggiato l’apparec-chio, notai un oggetto brillante erotondo. Era un orologio da taschino. Lo

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presi e lo esaminai alla luce dellecandele. Le lancette erano ferme e ilquadrante scheggiato. Mi sembrò d’oroe vecchio almeno quanto la casa in cuimi trovavo. Un po’ più in là c’era unavecchia poltrona rivolta verso uncamino sopra il quale era appeso unritratto a olio di una donna vestita dibianco. I suoi grandi occhi grigi, tristi esenza fondo, dominavano la sala.

Improvvisamente l’incantesimo andòin pezzi. Una sagoma si alzò dallapoltrona e si girò verso di me. Lunghicapelli bianchi e due occhi ardenti comebraci luccicarono nell’oscurità. Riusciisolo a vedere due enormi ma-ni biancheche si allungavano verso di me. In preda

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al panico, mi misi a correre verso laporta, inciampai nel grammofono e lofeci cadere a terra.

Sentii la puntina che lacerava ildisco. La voce celestiale si spezzò conun gemito infernale. Mi precipitai ingiardino, sentendo quelle mani che misfioravano la camicia, e lo attraversaicon le ali ai piedi e il terrore che mibruciava in ogni poro. Non mi fermainemmeno per un attimo. Corsi e corsisenza mai voltarmi indietro, fin quandouna fitta di dolore mi trapanò il fianco ecapii che a stento riuscivo a respirare. Aquel punto ero zuppo di sudore e le lucidel collegio brillavano a trenta metri dame.

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Mi intrufolai da una porta vicina allecucine che non era mai sorvegliata e mitrascinai fino alla mia stanza. Gli altridovevano essere in refettorio da un belpezzo. Mi asciugai il sudore dallafronte, e a poco a poco il cuore recuperòil suo ritmo naturale. Iniziavo acalmarmi quando qualcuno bussò allaporta.

«Óscar, è ora di scendere a cena» miavvertì uno dei miei tutori, padre Seguí,un gesuita razionalista che detestavadover fare il poliziotto.

«Vengo subito, padre» risposi. «Unsecondo.»

Mi infilai velocemente la giacca dirigore e spensi la luce della stanza.

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Dalla finestra si vedeva lo spettrodella luna che sorgeva su Barcellona.So-lo allora mi accorsi che nella manostringevo ancora l’orologio d’oro.

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2Nei giorni che seguirono, quel

maledetto orologio e io diventammocompagni inseparabili. Lo portavoovunque, lo tenevo addirittura sotto ilcuscino mentre dormivo, per paura chequalcuno lo vedesse e mi chiedessedove lo avevo preso. Non avrei saputocosa rispondere. “Il fatto è che non l’haitrovato; l’hai rubato” mi sussurrava unavoce accusatrice. “Il termine tecnico èfurto con violazione di domicilio”aggiungeva la voce che, per qualchestrana ragione, assomigliava in modosospetto a quella dell’attore chedoppiava Perry Mason.

Di notte aspettavo pazientemente che

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i miei compagni si addormentas-sero peresaminare il mio tesoro segreto. Quandocalava il silenzio lo osservavo alla lucedi una pila. Nemmeno tutti i sensi dicolpa del mondo sarebbero riusciti aintaccare il fascino esercitato su di medal bottino della mia prima esperienzanel “crimine disorganizzato”. L’orologioera pesante e sembrava d’oro massiccio.Il quadrante scheggiato faceva pensare aun colpo o a una caduta. Immaginai chefosse stato quell’impatto a rompere ilmeccanismo e a congelare le lancettesulle sei e ventitré. Una condanna perl’eternità. Sul retro si leggeva:

Per Germán, in cui parla la luce.K.A.

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19-1-1964Mi venne in mente che

quell’orologio doveva valere unmucchio di soldi, e i rimorsi nontardarono ad assalirmi. Quelle paroleincise mi facevano sentire un ladro diricordi.

Un giovedì di pioggia decisi dicondividere il mio segreto. Il miglioreamico che avevo in collegio era unragazzo dagli occhi penetranti e daltemperamento nervoso che insisteva afarsi chiamare JF, anche se quelleiniziali avevano poco o nulla a chevedere con il suo vero nome. JF avevaun animo da poeta libertario eun’intelligenza così affilata che finiva

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spesso per tagliarcisi la lingua. Eradebole di costituzione e bastava chequalcuno pronunciasse la parolamicrobo nel raggio di un chilometroperché lui si 13

convincesse di avere presoun’infezione. Un giorno cercai su unvocabola-rio la parola ipocondriaco egli fotocopiai la pagina.

«Non so se lo sapevi, ma la tuabiografia compare nel Dizionario dellaReal Academia» gli annunciai.

Diede un’occhiata alla fotocopia emi fulminò con lo sguardo.

«Prova a cercare alla “i” di idiota evedrai che non sono l’unico a esserefamoso» replicò.

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Quella mattina, nell’intervallo dimezzogiorno, io e JF ci intrufolammo neltenebroso salone dell’aula magna. Inostri passi nel corridoio centralerisvegliavano l’eco di centinaia diombre che camminavano in punta dipiedi. Due fasci di luce metallicacadevano sul palcoscenico polveroso.Ci sedemmo in mezzo a quel chiarore,davanti alle file di sedili vuoti che sifondevano con la penombra. Il sussurrodella pioggia graffiava i vetri del primopiano.

«Allora?» sbottò JF. «Perché tuttoquesto mistero?»

Senza dire una parola, tirai fuoril’orologio e glielo diedi. JF aggrottò le

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sopracciglia e soppesò l’oggetto. Lovalutò con attenzione per qualche istanteprima di restituirmelo, guardandomiintrigato.

«Che te ne pare?» chiesi.«Mi sembra un orologio» rispose JF.

«Chi è questo Germán?»«Non ne ho la più pallida idea.»Gli raccontai nei dettagli l’avventura

che avevo vissuto qualche giorno primain quella villa scalcinata. JF ascoltòattentamente il resoconto dei fatti con lapazienza e l’attenzione quasi scientificache lo caratterizzavano.

Finito il racconto, rifletté a lungoprima di esprimere le sue impressioni.

«In pratica, lo hai rubato» concluse.

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«Non è questo il punto» obiettai.«Bisognerebbe sentire cosa ne dice

quel Germán.»«Quel Germán probabilmente è

morto da anni» suggerii senza troppaconvinzione.

JF si grattò il mento.«Mi domando cosa prevede il

Codice Penale per il furto premeditatodi oggetti personali e orologi condedica…» insisté il mio amico.

14«Ma quale premeditazione»

protestai. «È successo tuttoall’improvviso, senza che avessi iltempo di riflettere. Quando mi sonoaccorto di avere in mano l’orologio, era

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troppo tardi. Al posto mio avresti fattocosì anche tu.»

«Al posto tuo avrei avuto un infarto»precisò JF, che era più uomo di paroleche d’azione. «Ammesso che fossi statocosì pazzo da intrufolarmi in quella casasolo per seguire un gatto luciferino.Chissà che razza di germi si possonoprendere da una bestia così.»

Rimanemmo in silenzio per qualcheistante, ascoltando l’eco lontana dellapioggia.

«Comunque» concluse JF, «quel cheè fatto è fatto. Non vorrai tornare inquella casa, vero?»

Sorrisi.«Da solo, no.»

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Il mio amico sgranò gli occhi. «Ah,no. Scordatelo.»

Quel pomeriggio, finite le lezioni, ioe JF ce la svignammo dalla porta dellecucine e imboccammo la misteriosastrada che portava alla villa. Il selciatoera cosparso di pozzanghere e fogliesecche. Un cielo minaccioso incombevasulla città. JF, per niente convinto, erapiù pallido del solito. La vista di quelluogo prigioniero del passato gli stavariducendo lo stomaco alle dimensioni diuna biglia. Il silenzio era assordante.

«Credo che la cosa migliore siagirare i tacchi e squagliarcela» sussurrò,indietreggiando di qualche passo. «Nonfare il coniglio.»

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«La gente non apprezza i coniglicome meritano. Ci si fanno manicarettida leccarsi i baffi…»

All’improvviso, il tintinnio di unsonaglio si propagò nel vento. JF am-mutolì. Gli occhi gialli del gatto cifissavano. Di colpo, l’animale sibilòcome un serpente e tirò fuori gli artigli.Gli si rizzò il pelo sul dorso, e le fauciscoprirono i denti aguzzi che, giorniprima, avevano strappato la vita a unpassero. Un lampo lontano squarciò ilcielo illuminandolo. Io e JF ciscambiammo un’occhiata.

Un quarto d’ora dopo eravamoseduti su una panchina accanto allostagno del chiostro del collegio.

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L’orologio era ancora nella tasca dellamia giacca. Più pesante che mai.

15Rimase lì per il resto della

settimana, fino al sabato mattina. Pocoprima dell’alba mi svegliai con la vagasensazione di aver sognato la voceimprigionata nel grammofono.

Fuori dalla finestra Barcellona siincendiava in un telone di ombrescarlatte, una foresta di tetti e antenne.Saltai giù dal letto e cercai il maledettoorologio che negli ultimi giorni miaveva avvelenato l’esistenza. Ciguardammo. Alla fine mi armai dellarisolutezza che scoviamo solo quandodobbiamo affrontare compiti assurdi e

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mi decisi a mettere fine a quellasituazione. Lo avrei restituito.

Mi vestii in silenzio e percorsi inpunta di piedi il buio corridoio delquarto piano. Nessuno si sarebbeaccorto della mia assenza fino alle diecio alle undici del mattino. Per quell’orasperavo di essere già di ritorno.

Fuori, le strade languivano sotto iltorbido manto purpureo che avvolge lealbe di Barcellona. Scesi fino a calleMargenat. Attorno a me, Sarriá si stavasvegliando. Nuvole basse sfioravano ilquartiere imprigionando le prime luci inun alone dorato. Le facciate delle caseemergevano tra gli spiragli dellanebbiolina e delle foglie secche che

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svolazzavano senza meta.Non tardai a trovare la strada. Mi

fermai un attimo per assorbire quelsilenzio, la strana pace che regnava inquell’angolo sperduto della città.Cominciavo a credere che il mondo sifosse fermato assieme all’orologio cheavevo in tasca, quando sentii un rumorealle mie spalle.

Mi voltai e fui spettatore di unavisione rubata da un sogno.

16

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3Una bicicletta emergeva lentamente

dalla bruma. Una ragazza vestita dibianco avanzava verso di me, pedalandolungo la strada in salita. L’alba incontroluce permetteva di scorgere la suasilhouette sotto il vestito di cotone. Ilunghi capelli color fieno ondeggiavanocoprendole il volto. Rimasi immobile,guardandola avvicinarsi, come unimbecille durante un attacco di paralisi.La bicicletta si fermò a un paio di metrida me. I miei occhi, o la miaimmaginazione, intuirono il contorno didue agili gambe che si posavano a terra.Risalii con lo sguardo il vestito chesembrava uscito da un quadro di Sorolla

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fino a imbattermi nei suoi occhi, di ungrigio così profondo da poterci caderedentro. Erano fissi su di me conun’espressione sarcastica. Sorrisi e fecila mia migliore faccia da idiota.

«Tu devi essere quellodell’orologio» disse la ragazza con untono coerente con il suo sguardo.

Calcolai che doveva avere i mieianni, forse uno di più. Indovinare l’etàdi una donna era, per me, un’arte o unascienza, mai un semplice passatempo. Lasua pelle era pallida come il vestito.

«Abiti qui?» balbettai, indicando ilcancello.

Abbassò appena le palpebre. Quegliocchi mi trapanavano con una tale furia

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che mi ci vollero un paio d’ore prima diaccorgermi che, per quanto miriguardava, era la creatura piùabbagliante che avessi mai visto osperassi di vedere in vita mia. Punto e acapo.

«E tu chi sei per farmi delledomande?»

«Immagino di essere quellodell’orologio» improvvisai. «Mi chiamoÓscar. Óscar Drai. Sono venuto arestituirlo.»

Senza darle il tempo di ribattere, lotirai fuori dalla tasca e glielo porsi.

La ragazza sostenne il mio sguardoper qualche istante prima di prenderlo.

Quando lo fece, notai che la sua

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mano era bianca come quella di unpupazzo di neve e che sfoggiava unanello dorato all’anulare.

«Era già rotto quando l’ho preso»spiegai.

«È rotto da quindici anni» mormoròsenza guardarmi.

17Quando alla fine alzò gli occhi, fu

per esaminarmi dall’alto in basso, comese stesse calcolando il valore di unvecchio mobile o di qualche cian-frusaglia. Qualcosa nei suoi occhi midisse che non mi considerava un ladrovero e proprio; probabilmente mi stavaclassificando nella categoria dei cretinio in quella degli idioti. La mia faccia da

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illuminato non aiutava granché. Laragazza inarcò un sopracciglio e sorriseenigmatica, poi mi restituì l’orologio.

«Tu l’hai preso, tu lo restituirai alproprietario.» «Ma…»

«L’orologio non è mio» mi spiegò.«Appartiene a Germán.»

Quel nome mi fece tornare in menteil gigante dalla bianca capigliatura che,giorni prima, mi aveva sorpreso nelsalotto della villa.

«Germán?»«Mio padre.»«E tu sei?» chiesi.«Sua figlia.»«Intendevo dire: come ti chiami?»

«So benissimo cosa intendevi dire»

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rispose la ragazza.Senza aggiungere altro, montò di

nuovo in sella e attraversò il cancellod’ingresso. Prima di sparire in giardino,si voltò per un attimo. Quegli occhiridevano di me a crepapelle. Sospirai ela seguii. Un vecchio conoscente midiede il benvenuto. Il gatto mi fissavacon il suo solito disprezzo. Avrei volutoessere un dobermann.

Attraversai il giardino scortatodall’animale. Mi districai in quellagiungla fino ad arrivare alla fontana deicherubini, dove era appoggiata labicicletta. Dalla cesta sul manubrio laragazza stava scaricando un sacchettoche profumava di pane fresco. Tirò fuori

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una bottiglia di latte e si accovacciò aterra per riempire una ciotola. Il felinosi avventò sulla sua colazione.

Doveva trattarsi di un ritualequotidiano.

«Pensavo che il tuo gatto mangiassesolo uccellini indifesi.»

«Non li mangia, li caccia soltanto.Marca il territorio» mi spiegò, come separlasse a un bambino. «A lui piace illatte. Vero, Kafka, che ti piace il latte?»

Il kafkiano felino le leccò le dita insegno di assenso. La ragazza sorridevaamorevole mentre gli accarezzava laschiena. Sotto le pieghe del ve-18

stito le si disegnarono i muscoli deifianchi. Proprio in quel momento alzò

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gli occhi e mi sorprese a osservarla conl’acquolina in bocca.

«E tu? Hai già fatto colazione?»chiese.

Scossi il capo.«Allora avrai fame. Gli stupidi

hanno sempre fame» disse. «Vieni, entrae mangia qualcosa. Ti conviene avere lostomaco pieno se devi spiegare aGermán perché gli hai rubatol’orologio.»

La cucina era una grande stanza sulretro della casa. L’inaspettata colazioneconsisteva nei croissant che la ragazzaaveva comprato da Foix, una pasticceriain Plaza Sarriá. Mi versò un’enormetazza di caffellatte e si sedette di fronte a

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me, mentre io divoravo con avidità quelbendidio. Mi guardava come se avesseraccolto per strada un mendicanteaffamato, con un misto di curiosità,compassione e diffidenza. Lei non toccòniente.

«Ti avevo già visto qualche volta daqueste parti» disse senza togliermi gliocchi di dosso. «Te e quel piccolettodall’aria spaventata. Passate spessodalla strada sul retro quando vi fannouscire dal collegio. A volte te ne vai ingiro da solo, canticchiando distratto.Scommetto che vi divertite alla grandein quella galera…»

Stavo per risponderle qualcosa diintelligente quando un’ombra gigante-

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sca si sparse sulla tavola come unamacchia d’inchiostro. La mia ospite al-zò lo sguardo e sorrise. Io restaiimmobile, con la bocca piena dicroissant e il cuore come due nacchere.

«Abbiamo visite» annunciòdivertita. «Papà, lui è Óscar Drai, ladrodi-lettante di orologi. Óscar, questo èGermán, mio padre.»

Trangugiai di colpo e mi voltailentamente. Un uomo che mi sembrò al-tissimo se ne stava ritto davanti a me.Indossava un abito di alpaca, con gi-lè ecravattino. La chioma bianca, pettinatacon cura all’indietro, gli ricade-va sullespalle. Un paio di baffi bianchi gliornava il volto spigoloso, dagli occhi

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scuri e tristi. Ma ciò che più lo definivaerano le sue mani. Mani bianche daangelo, dalle dita sottili e interminabili.Germán.

«Non sono un ladro, signore…»articolai nervoso. «Posso spiegare tutto.

Se mi sono azzardato a entrare incasa sua è perché pensavo che fosse di-sabitata. Una volta dentro non so cosami è successo, ho sentito quella musica,cioè, insomma, il fatto è che sono entratoe ho visto l’orologio. Non 19

volevo rubarlo, glielo giuro, ma misono spaventato e quando mi sonoaccorto di averlo in mano ero giàlontano. Cioè, non so se mi sono spiega-to…»

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La ragazza sorrideva maliziosa. Gliocchi di Germán, scuri e impenetra-bili,si posarono sui miei. Mi frugai in tasca egli porsi l’orologio, aspettandomi che daun momento all’altro si mettesse a urlaree minacciasse di chiamare la polizia, laGuardia Civil e il tribunale dei minori.

«Le credo» disse amabile,prendendo l’orologio e sedendosi atavola con noi.

La sua voce era dolce, appena unsussurro. La figlia gli servì un piatto condue croissant e una tazza di caffellattegrande come la mia. Mentre lo faceva,lo baciò in fronte e Germán laabbracciò. Li osservai stagliati nelchiarore soffuso che filtrava dai

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finestroni. Il volto di Germán, che avevoimmaginato da orco, era invece delicato,quasi malaticcio. Era alto e incre-dibilmente magro. Mi sorrise cortesementre si portava la tazza alle labbra eper un attimo notai che tra padre e figliacircolava una corrente di affetto cheandava oltre i gesti e le parole. Unlegame di sguardi e di silenzi li univa trale ombre di quella casa, alla fine di unastrada isolata, dove si prendevano cural’uno dell’altro, lontani dal mondo.

Finita la colazione, Germán miringraziò di cuore per essermi preso ildisturbo di restituirgli l’orologio. Tantagentilezza mi fece sentire doppia-mentecolpevole.

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«Bene, Óscar» disse con vocestanca. «È stato un piacere conoscerla.

Spero di rivederla da queste partiquando vorrà venirci a trovare.»

Non capivo perché continuava adarmi del lei. C’era qualcosa in lui cheparlava di un’altra epoca, dei tempi incui quella chioma grigia luccicava equella villa era un elegante palazzo ametà strada tra Sarriá e il cielo. Mistrinse la mano e si accomiatò perpenetrare in quel labirinto insondabile.

Lo vidi allontanarsi zoppicandoleggermente lungo il corridoio. La figlial’osservava nascondendo un velo ditristezza negli occhi.

«Germán non sta molto bene in

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salute» mormorò. «Si stanca facilmen-te.»

Ma cancellò subito dal voltoquell’espressione malinconica.

«Ti va qualcos’altro?»20«Si sta facendo tardi» dissi,

combattendo la tentazione di trovare unascusa qualunque per restare ancora conlei. «Credo sia meglio che vada.»

Lei accettò la mia decisione e miaccompagnò in giardino. La luce delgiorno aveva diradato la nebbia. L’iniziodell’autunno tingeva di rame le fogliedegli alberi. Camminammo verso ilcancello; Kafka ronfava al sole.

La ragazza si fermò prima

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dell’inferriata e mi cedette il passo. Ciguardammo in silenzio. Mi tese la manoe gliela strinsi. Sentii il battito del suopolso sotto la pelle vellutata.

«Grazie di tutto» dissi. «E scusamiper…»

«Non ha importanza.»Mi strinsi nelle spalle.«Bene…»Cominciai a camminare, sentendo

che la magia di quella casa si separavada me a ogni passo. Improvvisamente, lasua voce risuonò alle mie spalle.

«Óscar!»Mi voltai. Era ancora lì, oltre il

cancello. Kafka era accoccolato ai suoipiedi.

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«Perché sei entrato in casa nostral’altra sera?»

Mi guardai intorno, come se sperassidi trovare la risposta scritta sul selciato.

«Non lo so» ammisi alla fine. «Ilmistero, suppongo…»

La ragazza sorrise enigmatica.«Ti piacciono i misteri?»Annuii. Se mi avesse chiesto se mi

piaceva l’arsenico, credo che la miarisposta sarebbe stata la stessa.

«Hai da fare domani?»Scossi il capo, sempre muto. Se

avessi avuto da fare, mi sarei inventatouna scusa. Come ladro non valevoniente, ma come bugiardo devo confes-sare che sono sempre stato un artista.

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«Allora ti aspetto qui, alle nove»disse lei, perdendosi tra le ombre delgiardino.

«Aspetta!»21Il mio grido la trattenne.«Non mi hai detto come ti chiami…»«Marina… A domani.»La salutai con la mano, ma era già

scomparsa. Aspettai inutilmente che siriaffacciasse. Il sole sfiorava lo zenit:doveva essere più o meno mezzogiorno.Quando capii che Marina non sarebbericomparsa, mi avviai verso il collegio.I vecchi portoni del quartieresembravano sorridermi, complici.

Potevo sentire l’eco dei miei passi

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sul selciato, ma avrei giurato dicamminare sospeso a un palmo da terra.

22

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4Credo di non essere mai stato tanto

puntuale in vita mia. La città era ancorain pigiama quando attraversai PlazaSarriá. Al mio passaggio, uno stormo dicolombe si alzò in volo al rintocco dellecampane che annuncia-vano la messadelle nove. Un sole da calendarioravvivava le tracce di una pioggerellanotturna. Kafka era venuto adaccogliermi all’inizio della strada cheportava alla villa. Un gruppo di passerisi teneva a prudente distanza sulla cimadi un muro. Il gatto li osservava con lastudiata indifferenza di unprofessionista.

«Buongiorno, Kafka. Abbiamo già

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assassinato qualcuno stamattina?»Il gatto mi rispose con un semplice

ronron e, come un flemmatico mag-giordomo, mi fece strada attraverso ilgiardino. Marina mi aspettava seduta sulbordo della fontana, con un vestito coloravorio che le lasciava scoperte lespalle. Aveva tra le mani un quadernorilegato in pelle sul quale scriveva conuna stilografica. Il suo volto tradiva unagrande concentrazione e non si accorsedella mia presenza. Sembrava persa inun altro mondo e ne ap-profittai perosservarla imbambolato per qualcheistante. Decisi che doveva essere statoLeonardo da Vinci a disegnarle quelleclavicole: non c’era altra spiegazione.

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Kafka, geloso, ruppe l’incanto con unmiagolio. La stilografica si fermò dicolpo e gli occhi di Marina incrociaronoi miei. Chiuse in fretta il quaderno.«Pronto?»

Marina mi guidò per le strade diSarriá verso una meta ignota, senzadarmi altro indizio sulle sue intenzionise non un misterioso sorriso.

«Dove andiamo?» chiesi dopodiversi minuti.

«Pazienza. Lo vedrai.»La seguii docilmente, anche se

avevo il sospetto di essere oggetto di unqualche scherzo che per il momento nonriuscivo a capire. Scendemmo fi-no alPaseo de la Bonanova e, di lì,

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svoltammo per San Gervasio. Passammodavanti al buco nero del bar Victor. Ungruppo di fighetti, al riparo degliimmancabili occhiali da sole, scolavanobirre e scaldavano con indolen-za ilsellino delle loro Vespe. Al nostropassaggio, in parecchi abbassarono 23

a mezz’asta i RayBan perradiografare Marina. “Mangiatevi ilfegato” pensai.

In calle Dr. Roux, Marina girò adestra. Scendemmo per un paio di iso-lati fino a imboccare un sentierinosterrato all’altezza del numero 112.L’enigmatico sorriso era sempre fissosulle sue labbra.

«È qui?» chiesi incuriosito.

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Quel sentiero non sembrava portareda nessuna parte. Marina si limitò apercorrerlo. Mi guidò per una stradinache saliva fino a un loggiato fian-cheggiato da cipressi. Più in là, ungiardino incantato pieno di lapidi, crocie mausolei ammuffiti languiva tra ombreazzurrate. Il vecchio cimitero di Sarriá.

Il cimitero di Sarriá è uno dei luoghipiù nascosti di Barcellona. Se lo sicerca sulla cartina non si trova. Se sichiede a qualche abitante del quartiere oa un tassista come arrivarci è moltoprobabile che non lo sappiano, anche setutti ne hanno sentito parlare. Se poiqualcuno decidesse di trovarlo da solo,quasi sicuramente si perderebbe. I pochi

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che sono in possesso del segretosospettano che questo vecchio cimiterosia, in realtà, un’isola del passato checompare e scompare a suo capriccio.

Fu quello lo scenario dove micondusse Marina quella domenica disettembre per svelarmi un segreto che miintrigava quasi quanto la suaproprietaria. Seguendo le sueindicazioni, raggiungemmo un puntoappartato nella zona alta dell’ala norddel camposanto. Da lì si godeva unabuona visuale di tutto il cimitero. Cisedemmo in silenzio a osservare letombe e i fiori appassiti. Marina nondiceva nemmeno una parola e io, dopoqualche minuto, cominciai a

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spazientirmi. Per me, l’unico veromistero di tutta la faccenda era chediavolo ci facevamo lì.

«È un po’ un mortorio» suggerii,volutamente ironico.

«La pazienza è la madre dellascienza» ribatté Marina.

«E la madrina della scemenza»replicai. «Qui non c’è niente di niente.»

Marina mi rivolse uno sguardo chenon seppi decifrare.

«Ti sbagli. Qui ci sono i ricordi dicentinaia di persone, le loro vite, isentimenti, le illusioni, la loro assenza, isogni che non sono mai riusciti arealizzare, le delusioni, i tradimenti e gliamori non corrisposti che hanno

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avvelenato le loro esistenze… Qui c’ètutto questo, prigioniero per l’eterni-24

tà.»La osservai con un misto di curiosità

e soggezione, anche se non capivo benedi cosa stesse parlando. In ogni caso,per lei era molto importante.

«Non si capisce niente della vitafinché non si comprende la morte»aggiunse Marina.

Ancora una volta, mi sfuggì il verosignificato delle sue parole.

«Io non ci penso molto» dissi. «Allamorte, voglio dire. Sul serio, almeno…»

Marina scosse il capo, come unmedico che riconosce i sintomi di unamalattia letale.

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«Insomma, sei uno di queglisprovveduti…» commentò in tonoenigmatico.

«Sprovveduti?»Adesso sì che non ci capivo più

niente.Marina lasciò vagare lo sguardo e il

suo volto assunse un’espressione graveche la fece sembrare più vecchia. Eroipnotizzato da lei.

«Immagino che tu non conosca laleggenda…» disse. «Quale leggenda?»

«Lo immaginavo» sentenziò.«Dicono che la morte abbia degliemissari che vagano in cerca di personeignoranti, di teste vuote che non pensanoa lei.»

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A questo punto fissò le sue pupillenelle mie.

«Quando uno di questi sfortunati siimbatte in un emissario della morte»

proseguì Marina, «viene condotto, asua insaputa, in una trappola. Una portadell’inferno. Questi emissari si copronoil volto per nascondere il fatto che nonhanno occhi, ma due cavità scurepullulanti di vermi. Quando non c’è piùvia di scampo l’emissario si scopre ilvolto, e solo allora la vittima comprendel’orrore che l’aspetta…»

Le sue parole aleggiarono nell’ariapiene di echi, mentre il mio stomaco sicontraeva.

Solo allora a Marina sfuggì quel

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sorriso malizioso. Un sorriso da gatto.«Mi stai prendendo in giro» dissi

alla fine.«Evidentemente. »Trascorremmo in silenzio cinque o

dieci minuti, o forse più. Un’eternità.25Una lieve brezza sfiorava i cipressi.

Due colombe bianche svolazzavano frale tombe. Una formica mi si arrampicavasui pantaloni. Accadeva poco altro.Sentivo che mi si addormentava unagamba e temetti che, di lì a po-co, ancheil mio cervello avrebbe seguito la stessastrada. Stavo per prote-stare quandoMarina, con un gesto della mano, miordinò di tacere prima ancora che

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potessi aprire bocca. Poi mi indicò illoggiato del cimitero.

Era appena entrato qualcuno.Sembrava una donna avvolta in unmantello di velluto nero. Un cappucciole copriva il viso. Le mani, unite sulpetto, calzavano guanti dello stessocolore dell’abito. Il mantello arrivavafino a terra e impediva di vedere i piedi.Da dove ci trovavamo, quella figurasenza volto pareva avanzare sospesanell’aria. Inspiegabilmente, fui scossoda un brivido.

«Chi…?» sussurrai.«Sssh» mi zittì Marina.Nascosti dietro le Colonne della

balconata, spiammo la dama in nero. Si

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muoveva fra le tombe comeun’apparizione. Stringeva una rosa rossatra le dita guantate. Il fiore sembrava unaferita ancora sanguinante scolpita alcoltello. La donna si avvicinò a unalapide proprio sotto il nostro punto diosservazione e si fermò, dandoci lespalle. Solo in quel momento notai chequella tomba, a differenza delle altre,era anonima. Si distingueva soltantoun’incisione nel marmo: un simbolo chesembrava rappresentare un insetto, unafarfalla nera con le ali spiegate.

La dama in nero rimase ai piedidella tomba per cinque minuti, insilenzio. Alla fine si chinò, appoggiò larosa rossa sulla lapide e se ne andò

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lentamente, così com’era venuta. Comeun’apparizione.

Marina mi rivolse uno sguardonervoso e si avvicinò per sussurrarmiqualcosa all’orecchio. Sentii le suelabbra sfiorarmi e un millepiedi dallezampette infuocate cominciò a ballare ilsamba sulla mia nuca.

«L’ho scoperta per caso tre mesi fa,quando ho accompagnato Germán aportare dei fiori sulla tomba di sua ziaReme… Viene qui l’ultima domenica diogni mese, alle dieci del mattino, edepone una rosa rossa, sempre identica,su quella tomba» mi spiegò Marina.«Indossa sempre lo stesso mantello, glistessi guanti e il cappuccio. È sempre

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sola, non si scopre mai il volto e nonparla con nessuno.»

26«Chi è sepolto in quella tomba?»Lo strano simbolo scolpito sul

marmo solleticava la mia curiosità.«Non lo so. Nel registro del cimitero

non figura nessun nome…»«E chi è quella donna?»Marina stava per rispondere quando

intravide la sagoma della donna sparireoltre il loggiato del cimitero. Mi afferròla mano e si rialzò in fretta.

«Presto o la perdiamo.»«Dobbiamo seguirla?» chiesi.«Non volevi un po’ d’azione?» mi

rispose, a metà strada fra la pena e

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l’irritazione, come se avesse a che farecon uno stupido.

Quando arrivammo in calle Dr.Roux, la dama in nero stava svoltandoverso la Bonanova. Ricominciava apiovere, anche se il sole si rifiutava dinascondersi. Seguimmo la donna sottoquella cortina di lacrime dorate.Attraversammo il Paseo de la Bonanovae cominciammo a salire verso le faldedella collina, punteggiata di ville epalazzi che avevano conosciuto tempimigliori. La dama si infilò nel reticolodi strade deserte, ricoperte da un tappetodi foglie secche, lucenti come le squameabbandonate da un enorme serpente. Poi,arrivata a un incrocio, si fermò come

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una statua viva.«Ci ha visto…» sussurrai,

nascondendomi con Marina dietro ungrosso tronco pieno di scritte.

Per un istante pensai che si sarebbevoltata e ci avrebbe scoperti. Invece no.Poco dopo girò a sinistra e sparì. Io eMarina ci guardammo. Ripren-demmol’inseguimento. Le tracce ci condusseroin un vicolo cieco, sbarrato dal trattoall’aperto della ferrovia di Sarriá, chesaliva verso Vallvidrera e Sant Cugat.Ci fermammo: della dama in nero nonc’era traccia, anche se l’avevamo vistasvoltare proprio in quel punto. Oltre lecime degli alberi e i tetti delle case, siscorgevano in lontananza i torrioni del

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collegio.«Sarà entrata in casa» buttai lì.

«Magari abita da queste parti…»«No. Queste case sono disabitate.

Qui non ci vive nessuno.»Marina mi indicò le facciate

nascoste dietro i muri e le inferriate. Unpa-io di vecchi magazzini abbandonati eun villa divorata anni prima dallefiamme era tutto ciò che restava in piedi.La donna ci era sparita sotto il naso.

27Ci addentrammo nella viuzza. Ai

nostri piedi, uno scorcio di cielo sirifletteva in una pozzanghera. Le goccedi pioggia sfumavano le nostreimmagini. In fondo al vicolo

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sbatacchiava un portone di legno mossodal vento. Marina mi guardò in silenzio.Ci avvicinammo con circospezione e miaffacciai per dare un’occhiata. Ilportone, ritagliato su un muro di mattonirossi, dava su un cortile. Quello che unavolta era stato un giardino adesso eracompletamente in balia delle erbacce.Oltre la fitta vegetazione si intravedevala facciata di uno strano edificioricoperto d’edera. Mi ci vollero un paiodi secondi per capire che si trattava diuna serra di vetro dall’armatura inacciaio. Gli arbusti sibilavanominacciosi, come uno sciame in agguato.

«Prima tu» mi esortò Marina.Mi armai di coraggio e mi addentrai

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tra le erbacce, seguito da Marina che,senza preavviso, mi aveva preso lamano. Sentii i nostri passi affonda-re inuno strato di detriti. Mi passò per lamente l’immagine di un groviglio discuri serpenti dagli occhi scarlatti.Attraversammo quella giungla di ra-miostili che graffiavano la pelle finchésbucammo in uno spiazzo davanti allaserra. Marina mi lasciò la mano perosservare da vicino il sinistrofabbricato. L’edera avviluppava l’interastruttura come una ragnatela. La serrasembrava un palazzo inabissato in fondoa una palude.

«Ho paura che ci abbia seminati»dissi. «Qui non mette piede nessuno da

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anni.»A denti stretti, Marina dovette darmi

ragione. Diede un’ultima occhiata allaserra con aria delusa. “Le sconfittesilenziose hanno più gusto” pensai.

«Dai, andiamo via» le suggerii,tendendole la mano con la segretasperanza che me la stringesse di nuovoper superare la distesa di rovi.

Marina la ignorò e, con ariacorrucciata, si allontanò per fare il girodella serra. Sospirai e la seguiicontrovoglia. Quella ragazza era piùtestarda di un mulo.

«Marina» dissi, «qui non…»La ritrovai sul retro dell’edificio,

davanti a quella che sembrava l’entrata.

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Mi guardò e sollevò la mano verso ilvetro per rimuovere uno strato di su-diciume che copriva un’incisione.Riconobbi la farfalla nera scolpita sullatomba anonima del cimitero. Marina ciappoggiò sopra la mano e la portacedette lentamente. Fummo investiti dauna zaffata di aria stagnante e dol-ciastra. Era il fetore dei pantani e deipozzi avvelenati. Ignorando il poco 28

buonsenso che ancora mi restava, miaddentrai nelle tenebre.

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5Un sentore spettrale di profumo e di

legno vecchio aleggiava nell’ombra. Ilpavimento in terra battuta trasudavaumidità. Volute di vapore danzavanoverso la volta di vetro e la condensastillava gocce invisibili nell’oscurità.Uno strano rumore palpitava oltre il miocampo visivo, un mormorio metallicocome quello di un’imposta scossa dalvento.

Marina continuava ad avanzarepiano. Il calore era opprimente, umido.

Sentivo i vestiti appiccicati allapelle, e un velo di sudore mi copriva lafronte. Mi voltai verso Marina e nellapenombra mi accorsi che anche a lei

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succedeva la stessa cosa. Quelmormorio soprannaturale continuava adagitarsi nell’ombra. Sembrava provenireda ogni parte.

«Cos’è?» sussurrò Marina, con unafitta di paura nella voce.

Mi strinsi nelle spalle. Continuammoad avanzare nella serra, poi cifermammo nel punto in cuiconvergevano gli aghi di luce chefiltravano dal tetto. Marina stava perdire qualcosa quando sentimmo di nuovoquel tramestio sinistro. Vicino. A menodi due metri da noi. Proprio sopra lenostre teste. Ci scambiammo un’occhiatasilenziosa e lentamente alzammo losguardo verso il soffitto, immerso nelle

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tenebre. Sentii la mano di Marinastringere forte la mia. Tremava.Tremavamo.

Eravamo circondati. Diverse sagomespigolose penzolavano nel vuoto.

Ne distinsi una dozzina, forse più.Gambe, braccia, mani e occhi cheluccicavano nell’oscurità. Un branco dicorpi inerti incombeva su di noi, comemarionette infernali. Erano loro,sfiorandosi gli uni con gli altri, aprodurre quel mormorio metallico.Arretrammo di qualche passo e, primadi poterci rendere conto di quello chestava succedendo, la caviglia di Marinarimase impigliata in una leva cheazionava un sistema di pulegge. La leva

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cedette.Una frazione di secondo più tardi

quell’esercito di sagome congelateprecipitò nel vuoto. Mi gettai su Marinaper proteggerla e cademmo bocconi aterra. Sentii l’eco di un violentoscossone e il ruggito della vecchiastruttura di vetro che vibrava. Temettiche qualche pannello andasse in frantumie che ci trafiggesse una pioggia dicoltelli trasparenti. In quel momentosentii un contatto gelido sulla nuca. Dita.

30Riaprii gli occhi. Un volto mi

sorrideva. Occhi brillanti e giallastriche luccicavano, privi di vita. Occhi divetro in un volto intagliato nel legno

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smaltato. Allora sentii Marina, accanto ame, soffocare un urlo.

«Sono pupazzi» dissi, quasi senzafiato.

Ci rialzammo per esaminare la veranatura di quegli esseri. Marionette.

Figure di legno, metallo e ceramica.Erano appese a una specie dimacchinario teatrale per mezzo dimigliaia di fili. La levainvolontariamente azio-nata da Marinaaveva messo in moto il meccanismo dipulegge che le sosteneva. Le figure,sospese a tre spanne da terra, danzavanoun macabro balletto da impiccati.

«Che diavolo…?» esclamò Marina.Osservai i pupazzi. Riconobbi una

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figura vestita da mago, un poliziotto, unaballerina, una gran dama con un abitogranata, un forzuto da fiera…

Erano tutti di dimensioni reali eindossavano eleganti costumi da ballo inmaschera che il tempo aveva ridotto instracci. Ma c’era qualcosa che li ac-comunava e conferiva loro una stranacaratteristica che ne denunciaval’origine comune.

«Sono incompleti» scoprii.Marina capì all’istante a cosa mi

riferivo. A tutte le marionette mancavaqualcosa. Il poliziotto era privo dibraccia, la ballerina aveva due oscurecavità al posto degli occhi, il mago nonaveva la bocca e le mani… Osser-

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vammo le figure che penzolavano nellaluce spettrale. Marina si avvicinò allaballerina e la esaminò attentamente. Miindicò un piccolo segno sulla fronte,proprio all’attaccatura dei capelli dabambola. Di nuovo la farfalla nera.Marina allungò la mano verso quelsegno. Le sue dita la sfiorarono eritrasse bruscamente la mano. Notai ilsuo gesto di disgusto.

«I capelli… sono veri» disse.«Impossibile.»Esaminammo a uno a uno quei

macabri fantocci, scoprendo su tutti lorolo stesso segno. Azionai di nuovo laleva, e il sistema di pulegge riportò queicorpi verso il soffitto. Vedendoli salire

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così inerti, pensai che fossero animemeccaniche che si ricongiungevano alloro creatore.

«Lì sembra che ci sia qualcosa»disse Marina alle mie spalle.

Mi voltai e vidi che indicava unangolo della serra dove si intravedevauna vecchia scrivania. Il ripiano dilegno era ricoperto da un sottile strato31

di polvere. Un ragno ci zampettavasopra, lasciandovi delle minuscoleimpronte. Mi chinai e soffiai su quelvelo impalpabile. Una nuvola grigia sisparse in aria. Sulla scrivania c’era unvolume rilegato in pelle, aperto a metà.Un’ordinata calligrafia aveva scritto in

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calce a una vecchia foto color seppiafissata a una pagina: “Arles, 1903”.L’immagine mostrava due bambinesiamesi unite per il torace. Sfoggiandovestiti eleganti, le sorelle esibivanodavanti alla macchina fotografica ilsorriso più triste del mondo.

Marina sfogliò le pagine. Il volume,in realtà, era un comunissimo album divecchie fotografie. Di comune, tuttavia,quelle immagini non avevano nulla. Ilritratto delle bambine siamesi era statoun presagio. Le dita di Marina giravanouna pagina dopo l’altra per osservare,con un misto di attrazione e repulsione,quelle fotografie. Anch’io diediun’occhiata, e uno strano formicolio mi

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percorse la spina dorsale.«Scherzi della natura…» sussurrò

Marina. «Esseri deformi, di quelli cheun tempo si esibivano nei circhi…»

Lo sconvolgente potere di quelleimmagini mi colpì come una frustata.

Il lato oscuro della natura rivelava ilsuo volto mostruoso. Anime innocentirinchiuse dentro corpi orribilmentedeformi. Per lunghi minuti scorremmo lepagine di quell’album in silenzio. A unaa una le foto ci mostravano, mi spiacedoverlo dire, creature da incubo. Eppurele aberrazioni fisiche non riuscivano avelare gli sguardi di desolazione, diorrore e di solitudine che ardevano suiloro volti.

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«Dio mio…» sussurrò Marina.Sotto ogni foto c’erano l’anno e il

luogo in cui era stata scattata: BuenosAires, 1893. Bombay, 1911. Torino,1930. Praga, 1933… Mi era difficileimmaginare chi, e perché, avesseraccolto una simile sfilza di orrori. Uncatalogo infernale. Alla fine Marinadistolse lo sguardo dall’album e siallontanò nell’ombra. Provai a seguirla,ma non riuscivo a separarmi dal doloree dall’orrore di cui erano impregnatequelle immagini. Avrei potuto viveremille anni, ma avrei continuato aricordare lo sguardo di ognuna di quellecreature. Chiusi il libro e mi voltaiverso Marina. La ascoltai sospirare

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nella penombra e mi sentiiinsignificante, incapace di sapere chefare o che dire. Qualcosa in quelle fotol’aveva profondamente turbata.

«Stai bene?» chiesi.Marina annuì in silenzio, gli occhi

quasi chiusi.32D’un tratto, qualcosa risuonò nella

stanza. Esplorai con lo sguardo la coltredi oscurità che ci avvolgeva. Ancora unavolta sentii quel rumore indefinibile.Ostile. Malefico. Avvertii allora untanfo di marcio, nauseabon-do epenetrante. Proveniva dall’oscuritàcome il fiato di una bestia selvati-ca.Ebbi la certezza che non eravamo soli.

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C’era qualcun altro lì. E ci osservava.Marina scrutava pietrificata quellamuraglia di tenebre. La presi per mano ela guidai verso l’uscita.

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6Fuori, una fine pioggerella aveva

vestito d’argento le strade. Era l’una.Percorremmo la via del ritorno

senza scambiare parola. A casa diMarina, il padre ci aspettava per pranzo.

«Non dire niente a Germán, perfavore» mi pregò Marina.

«Non preoccuparti.»Del resto, non sarei stato capace di

spiegare quello che era successo. Viavia che ci allontanavamo, il ricordo diquelle immagini e di quella serrasinistra si faceva sempre più vago.All’altezza di Plaza Sarriá, mi accorsiche Marina era molto pallida erespirava con difficoltà.

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«Ti senti bene?» chiesi.Mi disse di sì con poca convinzione.

Ci sedemmo su una panchina dellapiazza. A occhi chiusi, respirò a lungo eprofondamente. Uno stormo di colombescorrazzava ai nostri piedi. Per unattimo temetti che Marina sarebbesvenuta. Invece riaprì gli occhi e misorrise.

«Stai tranquillo. Ho solo un po’ dinausea. Dev’essere stato quell’odore.»

«Certo. Probabilmente era unanimale morto. Un topo o…»

Marina avvalorò la mia ipotesi.Dopo un po’, le sue guance ripreserocolorito.

«In realtà avrei bisogno di mangiare

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qualcosa. Sbrighiamoci. Germán si saràstufato di aspettare.»

Ci alzammo e ci incamminammoverso casa sua. Kafka ci aspettavadavanti al cancello. Mi guardò condisprezzo e corse a strusciarsi contro lecaviglie di Marina. Mentre riflettevo suivantaggi di essere un gatto, sentii dinuovo quella voce celestiale dalgrammofono di Germán. La musica i-nondava il giardino come un’alta marea.

«Che musica è?»«Léo Delibes» rispose Marina.«Chi?»«Delibes. Un compositore francese»

mi spiegò Marina, indovinando la 34mia ignoranza. «Ma cosa vi

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insegnano in collegio?»Alzai le spalle.«È l’aria di una sua opera. Lakmé.»

«E quella voce?» «Mia madre.» Lafissai attonito.

«Tua madre è una cantanted’opera?» Marina mi restituì unosguardo impenetrabile. «Era» rispose.«È morta.»

Germán ci aspettava nel saloneprincipale, una grande stanza ovale conun lampadario di cristallo a gocce chependeva dal soffitto. Il padre di Marinavestiva quasi da cerimonia, con tanto digilè, e la folta chioma argenta-ta erameticolosamente pettinata all’indietro.Mi sembrava di avere davanti agli occhi

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un gentiluomo di fine Ottocento. Cisedemmo a tavola, apparec-chiata contovaglie di pizzo e posate d’argento.

«E un piacere averla con noi,Óscar» disse Germán. «Non tutte le do-meniche abbiamo la fortuna di una cosìgradita compagnia.»

Il servizio di piatti, veri e propripezzi d’antiquariato, era di porcellana.

Il menu sembrava consistere in unaminestra dall’aroma deliziosoaccompagnata da crostini di pane.Nient’altro. Mentre Germán mi servivaper primo, capii che tutto quello sfoggiodi eleganza era dovuto alla miapresenza. Malgrado le posate d’argento,le stoviglie da museo e l’abito da

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cerimonia, in quella casa non c’erano isoldi per un secondo piatto. In realtà,non c’erano neanche per pagare labolletta della luce. La casa, infatti, eraperennemente illuminata dalle candele.Germán dovette leggermi nel pensiero.

«Si sarà accorto che non abbiamoelettricità, Óscar. Il fatto è che noncrediamo troppo alle moderne scopertescientifiche. Del resto, che razza discienza è quella che porta un uomo sullaLuna ma non è in grado di garan-tire unpezzo di pane a tutti gli esseri umani?»

«Forse il problema non sta nellascienza, ma in chi decide che uso farne»suggerii.

Germán rifletté sulla mia

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osservazione e annuì con solennità, nonso se per cortesia o per convinzione.

«Intuisco in lei una certainclinazione filosofica. Óscar. Ha lettoSchopenhauer?»

Un’occhiata di Marina mi suggerì didare corda al padre.

35«Superficialmente» improvvisai.Sorbimmo la minestra in silenzio.

Ogni tanto Germán mi sorrideva amabilee guardava con affetto la figlia.Qualcosa mi diceva che Marina nonaveva molti amici e che il padre vedevadi buon occhio la mia presenza in quellacasa, anche se non sapevo distingueretra Schopenhauer e una marca di

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prodotti ortopedici.«Mi dica, Óscar, che si dice nel

mondo ultimamente?»Formulò la domanda in modo da

farmi sospettare che, se avessi annun-ciato la fine della Seconda guerramondiale, avrei causato grandeagitazione.

«Non molto, in verità» risposi, sottolo sguardo vigile di Marina. «Ci sarannole elezioni…»

La notizia risvegliò l’interesse diGermán, che fermò la danza del suocucchiaio e ponderò la questione.

«E lei, Óscar, è di destra o disinistra?»

«Óscar è anarchico, papà» tagliò

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corto Marina.Il pezzo di pane che stavo ingoiando

mi andò di traverso per la sorpresa.Germán mi scrutò a lungo,

incuriosito.«L’idealismo della gioventù…»

mormorò. «La capisco, la capisco…Alla sua età anch’io ho letto Bakunin. Ècome il morbillo; una volta bisognaprenderlo…»

Fulminai con un’occhiata Marina,che si leccava le labbra come un gatto.Mi fece l’occhiolino e distolse losguardo. Germán mi osservò condi-scendente, io lo ricambiai con un cortesecenno del capo e mi portai il cucchiaioalla bocca. Così, almeno, avrei evitato

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di parlare e fare altre figurac-ce.Continuammo il pranzo in silenzio. Nontardai ad accorgermi che Germán,all’altro capo della tavola, si stavaappisolando. Quando alla fine ilcucchiaio gli scivolò dalle dita, Marinasi alzò per allentargli il cravattino diseta argentato. Germán sospirò. Glitremava leggermente una mano. Marinaprese il padre per un braccio e lo aiutòad alzarsi. Germán annuì, avvi-lito, e misorrise imbarazzato. Mi parve che fosseinvecchiato di una quin-dicina d’anni inun soffio.

«Le chiedo scusa, Óscar…» dissecon un filo di voce. «Purtroppo l’e-tà…»

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Mi alzai anch’io, offrendo aiuto aMarina con un’occhiata. Lei rifiutò, 36

pregandomi di restare in salone.L’uomo si appoggiò al braccio dellafiglia e li vidi lasciare la stanza.

«È stato un piacere, Óscar…»sussurrò la voce affaticata di Germán,perdendosi nel corridoio buio. «Torni atrovarci, torni a trovarci…»

Sentii i loro passi svanire e attesi ilritorno di Marina alla luce delle candeleper quasi mezz’ora, sempre più immersonell’atmosfera della casa.

Quando ebbi la certezza che nonsarebbe tornata, cominciai apreoccupar-mi. Fui in dubbio se andarlaa cercare, ma non mi sembrò il caso di

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curio-sare nelle stanze senza permesso.Pensai di lasciarle un messaggio, ma nonavevo nulla con cui scrivere. Stavacalando la sera ed era meglioandarmene. Sarei ripassato il giornodopo, finite le lezioni, per controllareche fosse tutto a posto. Mi sorpreserendermi conto che non vedevo Marinada appena mezz’ora e stavo giàcercando delle scuse per tornare. Usciidalla porta della cucina, sul retro dellacasa, attraversai il giardino e raggiunsiil cancello. Il cielo si spegneva sullacittà, solcato da nuvole di passaggio.

Mentre rientravo in collegio a passilenti, gli avvenimenti della giornata miripassarono davanti agli occhi. Sulle

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scale, a pochi passi dalla mia stanza alquarto piano, ero convinto di avervissuto il giorno più strano della miavita. Ma se avessi potuto comprare unbiglietto per riviverlo, l’avrei fattosenza pensarci due volte.

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7La notte sognai di essere

imprigionato in un immensocaleidoscopio. Lo faceva girare unessere diabolico, del quale potevoscorgere solo il grande occhioattraverso la lente. Il mondo sifrantumava in labirinti di illusioniottiche che fluttuavano intorno a me.Insetti. Farfalle nere. Mi svegliai disoprassalto, con la sensazione di averedel caffè bollente che mi scorreva nellevene. Quello stato di eccitazione miaccompagnò per l’intera giornata.

Le lezioni del lunedì sfilarono viacome treni che non fermavano nella miastazione. JF se ne accorse subito.

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«Di solito vivi sulle nuvole»sentenziò, «ma oggi stai oltrepassandol’atmosfera. Non ti senti bene?»

Lo tranquillizzai con un gestoassente. Guardai l’orologio sopra lalava-gna: le tre e mezzo. Mancavanomeno di due ore alla fine delle lezioni.

Un’eternità. Fuori la pioggiagraffiava i vetri delle finestre.

Al suono della campanella me lasvignai a tutta velocità, dando buca a JFche mi aspettava per la nostra solitapasseggiata nel mondo reale. Superai glieterni corridoi del collegio e raggiunsil’uscita. I giardini e le fontanedell’ingresso impallidivano sotto iltemporale. Ero uscito senza ombrello,

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senza neanche un cappuccio. Il cielo erauna lapide plumbea. Le luci deilampioni bruciavano come fiammiferi.

Mi misi a correre. Schivai lepozzanghere ed evitai gli scarichitraboccanti dei tubi di scolo. Le stradeerano percorse da rivoli d’acqua, similia vene che si dissanguavano. Bagnatofradicio, corsi per strade strette esilenziose. I tombini ruggivano al miopassaggio. La città sembravasprofondare in un oceano di tenebre. Mici vollero dieci minuti per raggiungere ilcancello della villa di Marina e Germán,ormai irrimediabilmente zuppo dallatesta ai piedi. Il crepuscolo era unsipario di marmo grigiastro

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all’orizzonte. Mi sembrò di sentire unoscricchiolio alle mie spalle,all’imboccatura del vicolo. Mi voltai discatto. Per un istante, ebbi la sensazioneche qualcuno mi avesse seguito. Ma nonc’era nessuno, solo la pioggia chemitragliava le pozzanghere dellastradina.

38Mi intrufolai dal cancello. Il

chiarore dei lampi guidò i miei passifino alla casa. I cherubini della fontanami diedero il benvenuto. Rabbrividendodi freddo, raggiunsi la porta della cucinasul retro. Era aperta. Entrai. La casa eracompletamente immersa nel buio.Ricordai le parole di Germán a

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proposito dell’assenza di elettricità.Fino a quel momento non mi era

passato per la testa che nessuno miaveva invitato. Per la seconda volta, miintrufolavo in quella casa senza nessunagiustificazione. Fui tentato diandarmene, ma il temporale, là fuori,infuriava. Sospirai. Avevo le manicongelate e i polpastrelli quasiinsensibili. Tossii come un cane e sentiiuna pulsazione alle tempie. I vestiti,geli-di, mi aderivano al corpo. “Il mioregno per un asciugamano”pensai«Marina?» dissi.

L’eco della mia voce si perse nellagrande casa. Ero circondato da un mantodi tenebre. Solo il bagliore dei lampi

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che filtrava dai finestroni squarciava atratti l’oscurità, come il flash di unamacchina fotografica.

«Marina?» insistetti. «SonoÓscar…»

Mi addentrai timidamente in casa. Lescarpe fradice producevano un rumorevischioso. Mi fermai sulla soglia delsalone dove avevamo pranza-to il giornoprima. La tavola era vuota, le sediedeserte.

«Marina? Germán?»Non ebbi risposta. Su una console

intravidi nella penombra un piccolocandeliere e una scatola di fiammiferi.Mi ci vollero cinque tentativi prima chele mie dita intirizzite e insensibili

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riuscissero ad accenderne uno.Sollevai la luce tremolante. Un

chiarore spettrale inondò la stanza.Avanzai piano verso il corridoio in cuiavevo visto sparire Marina e suo padrela sera prima. Conduceva a un altrogrande salone, anch’esso sovrastato daun lampadario le cui gocce di cristallobrillavano nella penombra come unagiostra di diamanti. Attraverso i vetri, iltemporale proiettava dentro casa delleombre oblique. Poltrone e vecchi mobiligiacevano sotto lenzuola bianche. Unascalinata di marmo portava al primopiano. La raggiunsi, sentendomi unintruso. Due occhi gialli luccicavano incima alla scala.

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Sentii un miagolio. Kafka. Sospiraisollevato. Un attimo dopo il gattoscomparve nelle tenebre. Guardandomiin giro, notai che i miei passi avevanolasciato una scia di impronte sullapolvere.

«C’è qualcuno?» chiamai ancora,senza ottenere risposta.

39Immaginai quella grande sala

qualche decennio prima, decorata consfarzo, rallegrata da un’orchestra e dadecine di coppie che ballavano. Adessosembrava il salone di una naveaffondata. Le pareti erano tappezzate daritratti a olio. Raffiguravano tutti unadonna. La riconobbi. Era la stessa del

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quadro che avevo visto quando mi erointrufolato per la prima volta in quellacasa. La magia e la perfezione dellapennellata e la luminosità di quei ritrattierano quasi soprannaturali. Mi chiesi chipotesse averli dipinti.

Perfino per me era evidente cheerano opera di una stessa mano. Ladonna sembrava sorvegliarmi da tutte lepareti. Non era difficile notare latremen-da somiglianza tra lei e Marina.Le stesse labbra su una carnagionepallida, quasi trasparente. La stessa vita,delicata e sottile come quella di unabambola di porcellana. Gli stessi occhidi cenere, tristi e senza fondo. Qualcosami sfiorò una caviglia. Era Kafka che

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faceva le fusa ai miei piedi. Mi chinaiad accarezzargli il mantello argentato.

«Dov’è la tua padrona, eh?»Per tutta risposta, il gatto emise un

malinconico miagolio. Non c’eranessuno in quella casa. Sentii la pioggiache ticchettava sul tetto, disperdendosiin una miriade di rivoli d’acqua. Marinae Germán dovevano essere usciti peruna ragione impossibile da indovinare.In ogni caso, non erano affari miei.Accarezzai Kafka, deciso ad andarmeneprima che tornassero.

«In questa casa uno di noi due è ditroppo» sussurrai a Kafka. «Io.»

Improvvisamente, il pelo gli si rizzòsulla schiena. Avvertii i suoi muscoli

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tendersi come cavi d’acciaio sotto lamia mano. Kafka miagolò di terrore. Mistavo chiedendo cosa avesse potutospaventarlo in quel modo quando losentii. Quell’odore. Il tanfo di animalein putrefazione della serra. Mi venne lanausea.

Alzai gli occhi. Una cortina dipioggia velava le finestre del salone.

Fuori si intravedevano gli incerticontorni degli angeli della fontana.Seppi d’istinto che qualcosa nonquadrava. Tra le statue c’era un intruso.Mi rialzai e avanzai lentamente verso lavetrata. Una delle statue si girò su sestessa. Mi fermai, pietrificato. Nonriuscivo a distinguere i suoi lineamenti,

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vedevo solo una sagoma scura avvoltain un mantello. Ero certo chequell’estraneo mi stava osservando. Eanche lui sapeva che io lo stavoguardando. Rimasi immobile per unistante infinito. Qualche secondo do-po,la sagoma si ritrasse nell’oscurità.Quando il bagliore di un lampo esplosesul giardino, l’intruso non c’era più. Cimisi un po’ a rendermi conto 40

che con lui era sparito anche queldisgustoso odore.

Non mi venne in mente nient’altroche sedermi ad aspettare il ritorno diGermán e Marina. L’idea di uscire nonmi attirava troppo. Il temporale era ilmeno. Mi lasciai sprofondare in

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un’immensa poltrona. A poco a poco, ilticchettio della pioggia e il chiaroresoffuso del grande salone mi concilia-rono il sonno. A un certo punto, sentii ilrumore di una chiave che girava nellatoppa della porta principale e unoscalpiccio di passi nella casa. Misvegliai definitivamente e il cuore simise a battere all’impazzata. Voci che siavvicinavano lungo il corridoio. Unacandela. Kafka corse incontro alla luceproprio mentre Germán e la figliaentravano nel salone. Marina miinchiodò con uno sguardo gelido. «Checi fai qui, Óscar?»

Balbettai qualcosa senza senso.Germán mi sorrise amabile e mi osservò

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con curiosità.«Per Dio, Óscar! È bagnato fradicio!

Marina, porta degli asciugamani pulitiper Óscar… Venga, adesso accendiamoil fuoco, è proprio una sera da cani…»

Mi sedetti davanti al camino tenendofra le mani una tazza di brodo bollentepreparato da Marina. Spiegai alla bell’emeglio perché mi trovavo in casa, senzaaccennare alla figura intravista ingiardino e a quel tremendo fetore.Germán accolse di buon grado le miespiegazioni e non si mostrò affattoseccato per la mia intrusione, anzi.Marina… era un’altra storia. Le sueocchiate scottavano. Temetti che la miastupidaggine di intrufolarmi in casa loro

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quasi per abitudine avesse infranto persempre la nostra amicizia.

Non aprì bocca per tutta la mezz’orache passammo seduti davanti al fuoco.

Quando Germán mi pregò discusarlo e mi augurò la buona notte,pensai che la mia ex amica mi avrebbecacciato a pedate, intimandomi di nontornare mai più.

“Eccolo” pensai. Il bacio dellamorte. Marina mi rivolse un sorriso affi-lato, sarcastico.

«Sembri il brutto anatroccolo»disse.

«Grazie» risposi, aspettandomi dipeggio.

«Allora mi spieghi che diavolo ci

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facevi qui?»I suoi occhi brillavano, ravvivati

dalle fiamme. Terminai il brodo e ab-41bassai lo sguardo.«La verità è che non lo so…» dissi.

«Immagino che… Non so…»Il mio deplorevole aspetto mi aiutò,

perché Marina mi si avvicinò e mi diedequalche pacca sulla mano.

«Guardami» ordinò.La guardai. Mi osservava con un

misto di compassione e simpatia.«Non sono arrabbiata con te,

capisci?» disse. «Mi ha solo sorpresotro-varti qui, così, senza preavviso. Tuttii lunedì accompagno Germán dalmedico, all’ospedale di San Pablo. Per

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questo eravamo usciti. Non è la giornataideale per le visite.»

Ero mortificato.«Non succederà più» promisi.Mi accingevo a raccontare a Marina

della strana apparizione che credevo diavere visto quando lei, sorridendo, siallungò per darmi un bacio sullaguancia. Bastò che mi sfiorasse con lelabbra perché i miei vestiti si asciu-gassero all’istante e dimenticassi quelloche stavo per dire. Marina si accorsedel mio muto balbettio.

«Che c’è?»La guardai in silenzio e scossi il

capo. «Niente.»Inarcò un sopracciglio, come se non

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mi credesse, ma non insistette.«Ancora un po’ di brodo?» chiese,

rialzandosi. «Grazie.»Marina prese la tazza e andò in

cucina per riempirla. Io restai accanto alfuoco, affascinato dai ritratti della donnaalle pareti. Quando tornò, seguì il miosguardo.

«La donna di quei quadri…» iniziai.«È mia madre» disse Marina.Sentii di avere toccato un tasto

delicato.«Non avevo mai visto quadri così.

Sono come… fotografie dell’anima.»Lei annuì in silenzio.«Deve trattarsi di un artista famoso»

proseguii. «Ma non avevo mai visto

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niente di simile.»Marina tardò a rispondere.«E non lo vedrai. Sono quasi

diciassette anni che l’autore non dipinge42

più. Questa serie di ritratti è stata lasua ultima opera.»

«Doveva conoscere molto bene tuamadre per poterla ritrarre così»osservai.

Marina mi fissò a lungo. Era lostesso sguardo imprigionato nei quadri.

«Meglio di chiunque altro» rispose.«L’aveva sposata.»

43

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8Quella sera, accanto al fuoco,

Marina mi raccontò la storia di Germáne della villa di Sarriá.

Germán Blau era nato in una riccafamiglia della fiorente borghesiacatalana dell’epoca. Alla dinastia Blaunon mancavano il palco al teatrodell’Opera, un villaggio industriale sullerive del fiume Segre né qualchescandalo in società. Si mormorava che ilpiccolo Germán non fosse figlio delpatriarca Blau, ma frutto degli amoriilleciti tra Diana, la madre, e unpittoresco individuo chiamato QuimSalvat. Salvat era, nell’ordine, unlibertino, un pittore ritrattista e un satiro

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di professione. Scandalizzava gliesponenti dell’alta società al tempostesso in cui ne immortalava, a prezziastronomici, le facce sulla tela. Qualeche fosse la verità, Germán nonassomigliava affatto, né fisicamente nénel carattere, a nessun altro membrodella famiglia. I suoi soli interessi eranola pittura e il disegno, cosa che de-stò isospetti di tutti. Specie del genitoretitolare.

Quando compì sedici anni il padrelo informò che in famiglia non c’eraposto né per i fannulloni né per ivagabondi. Se insisteva a voler “farel’artista” l’avrebbe mandato a lavorarein fabbrica come apprendista o spacca-

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pietre, nella legione straniera o inqualsiasi altra istituzione capace diforti-ficarne il carattere e di farne unapersona utile alla società. Germándecise allora di fuggire di casa, dovetornò ventiquattro ore dopo scortatodalla Benemerita.

Il progenitore, disperato e deluso dalprimogenito, convogliò le sue speranzesul secondo figlio, Gaspar, chescalpitava per imparare il mestiere diimprenditore tessile e dimostrava unamaggiore predisposizione a continuarela tradizione familiare. Preoccupato peril suo futuro economico, il vecchio Blauintestò a Germán la villa di Sarriá,semiabbandonata da anni.

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«Anche se sei la vergogna dellafamiglia, non ho lavorato come unoschia-vo perché mio figlio finisca su unastrada» gli disse. Un tempo la villa erastata una delle meglio frequentate dalbel mondo, ma ormai nessuno se neoccupava più. Era maledetta. In realtà,si diceva che gli incontri segreti traDiana e il libertino Salvat avesseroavuto la villa come scenario. E così, perironia del destino, la palazzina passònelle mani di Germán. In seguito, 44

grazie all’aiuto clandestino dellamadre, Germán divenne apprendista diQuim Salvat in persona. Il primo giorno,Salvat lo fissò negli occhi e pronunciòqueste parole:

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«Primo, io non sono tuo padre econosco tua madre solo di vista.Secondo, la vita dell’artista è fatta dirischi, di incertezze e, quasi sempre, dipovertà.

Non sei tu a sceglierla; è lei chesceglie te. Se hai dei dubbi su unoqualunque di questi due punti, meglioche esci subito da quella porta». Germánrimase.

Gli anni di apprendistato con QuimSalvat furono per Germán come un balzoin un nuovo mondo. Per la prima voltascoprì che qualcuno credeva in lui, nelsuo talento e nella possibilità didiventare qualcosa di più che unapallida copia del padre. Si sentiva

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un’altra persona. Nel giro di sei mesiimparò più cose e fece più progressi chenel resto della sua vita precedente.

Salvat era un uomo stravagante egeneroso, amante delle cose raffinate.

Dipingeva solo di notte e, sebbenenon fosse una bellezza (anzi, somigliavaa un orso), poteva essere considerato unirresistibile rubacuori, dotato di unostrano potere di seduzione che usavaquasi meglio del pennello.

Modelle mozzafiato e signoredell’alta società sfilavano nel suo studioansiose di posare per lui e, sospettavaGermán, di ottenere qualcos’altro.

Salvat sapeva di vini, di poeti, dicittà leggendarie e di tecniche amatorie

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acrobatiche importate da Bombay.Aveva vissuto intensamente i suoi qua-rantasette anni. Diceva sempre che gliesseri umani lasciavano scorrere lapropria esistenza come se fosserodestinati a vivere in eterno e che questaera la loro perdizione. Se la rideva dellavita e della morte, delle cose divi-ne edi quelle umane. Cucinava meglio deigrandi chef della guida Miche-lin emangiava come tutti loro messi assieme.Nel corso degli anni che Germán passòaccanto a lui, Salvat divenne il suomaestro e il suo migliore amico. Germánseppe sempre che ciò che avevarealizzato di buono nella vita, comeuomo e come pittore, lo doveva a Quim

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Salvat.Salvat era uno dei pochi privilegiati

a possedere il segreto della luce.Diceva che era una capricciosa

ballerina, cosciente del proprio fascino.Nelle sue mani la luce si tramutava

in linee meravigliose che illuminavanola tela e spalancavano le portedell’anima. Almeno, così era scritto sultesto promozionale dei cataloghi dellesue mostre.

45«Dipingere è scrivere con la luce»

sosteneva Salvat. «Innanzitutto deviimparare il suo alfabeto; poi la suagrammatica. Solo allora potrai averestile e magia.»

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Fu Quim Salvat che ampliò gliorizzonti di Germán portandolo con sénei suoi viaggi. Gli fece conoscereParigi, Vienna, Berlino, Roma…Germán comprese ben presto che Salvat,oltre a essere un grande pittore, sapevavendere forse ancora meglio la propriaarte. Era quella la chiave del suosuccesso.

«Su mille persone che acquistano unquadro o un’opera d’arte, soltanto unaha una remota idea di ciò che stacomprando» gli spiegava Salvat, sor-ridente. «Tutti gli altri non compranol’opera ma l’artista, quello che hannosentito dire di lui e, quasi sempre,quello che immaginano di lui. È come

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vendere pozioni magiche o filtrid’amore, Germán. La differenza sta nelprezzo.»

Il grande cuore di Quim Salvat smisedi battere il 17 luglio 1938. Qualcunosostenne che fu a causa dei suoi eccessi.Germán, invece, credette sempre cheerano stati gli orrori della guerra auccidere la speranza e la voglia divivere del suo mentore.

«Potrei dipingere per mille anni»mormorò Salvat sul letto di morte,

«ma non cambierei di una virgola labarbarie, l’ignoranza e la brutalità degliuomini. La bellezza è un soffio rispettoal vento della realtà, Germán.

La mia arte non ha senso. Non serve

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a niente…»L’interminabile schiera delle sue

amanti, i suoi creditori, gli amici e icolleghi, le decine di persone che avevaaiutato senza chiedere nulla in cambio,lo piansero al suo funerale. Sapevanoche quel giorno una luce si spegneva nelmondo e che, da quel momento, tuttisarebbero stati più soli, più vuoti.

Salvat gli lasciò una modestissimasomma di denaro e il suo studio. Gliaffidò l’incarico di dividere quantorestava (non molto, perché Salvat spen-deva più di quello che guadagnava, eancor prima di guadagnarlo) tra le sueamate e gli amici. Il notaio incaricato dieseguire il testamento consegnò a

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Germán una lettera affidatagli da Salvatquando aveva intuito che la fine eraprossima. Doveva aprirla alla suamorte.

Con le lacrime agli occhi e il cuoreinfranto, il giovane vagabondò tutta lanotte per la città. L’alba lo sorprese sulfrangiflutti del porto e fu lì, alle primeluci del giorno, che lesse le ultimeparole che Quim Salvat gli aveva 46

riservato.Caro Germán,non te l’ho mai detto da vivo,

perché credevo di dover aspettare ilmomento opportuno. Tuttavia, temo dinon essere qui quando arriverà. Questoè quanto devo dirti. Non ho mai

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conosciuto un pittore con più talento dite, Germán. Tu ancora non lo sai e nonlo puoi capire. Ma il talento è dentro dite, e il mio unico merito è stato quellodi riconoscerlo. Ho imparato più io date che tu da me, senza che te nerendessi conto. Mi sarebbe piaciuto cheavessi avuto il maestro che meritavi,qualcuno che avesse indi-rizzato il tuotalento meglio di questo poveroapprendista. La luce parla in te,Germán. Noialtri possiamo soloascoltarla. Non dimenticarlo mai. D’o-ra in avanti il tuo maestro diventerà iltuo alunno e il tuo migliore amico, persempre.

SALVAT

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Una settimana dopo, in fuga da queiricordi intollerabili, Germán partì perParigi. Gli avevano offerto un lavorocome professore in una scuola di pittura.Non avrebbe rimesso piede aBarcellona per dieci anni.

A Parigi, Germán acquisì una certafama come ritrattista di prestigio escoprì l’opera, una passione che non loavrebbe più abbandonato. I suoi quadriiniziavano a vendere bene e un mercanted’arte che lo conosceva dai tempi diSalvat accettò di rappresentarlo. Oltreallo stipendio da professore, la venditadelle sue opere gli consentiva una vitasemplice ma dignitosa.

Facendo qualche sacrificio e grazie

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all’interessamento del direttore dellascuola, che era amico di mezza Parigi,riuscì a prenotare una poltrona alThéâtre de l’Opéra per l’intera stagione.Niente di pretenzioso: sesta fila inbalconata, leggermente spostata asinistra. Un venti per cento delpalcoscenico restava fuori dalla suavisuale, ma la musica gli arrivavagloriosa, ignorando la differenza diprezzo tra palchi e poltrone.

Fu all’Opera che la vide per laprima volta. Sembrava una creaturauscita da un quadro di Salvat, maneppure la sua bellezza poteva renderegiustizia alla sua voce. Si chiamavaKirsten Auermann, aveva diciannove

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anni e, secondo il programma, era unagiovane promessa della lirica mondiale.

47Gli fu presentata quella sera stessa

al ricevimento organizzato dallacompagnia dopo lo spettacolo. Germánera riuscito a intrufolarsi spacciandosiper il critico musicale di “Le Monde”.Al momento di stringerle la mano restòmuto come un pesce.

«Per essere un critico, parlapochissimo e con un forte accento»scherzò Kirsten.

Germán decise all’istante cheavrebbe sposato quella donna, fossestata l’ultima cosa che faceva nella vita.Fece ricorso a tutte le tecniche di

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seduzione che aveva visto utilizzare daSalvat nel corso degli anni. Ma di Salvatce n’era uno solo, e avevano rotto lostampo. Cominciò così un interminabilegioco al gatto e al topo che sarebbedurato sei anni e che si concluse in unapiccola cappella della Normandia, unpomeriggio d’estate del 1946. Il giornodelle nozze lo spettro della guerraaleggiava ancora nell’aria come il fetoredi una carogna.

Kirsten e Germán rientrarono aBarcellona qualche tempo dopo e si in-stallarono nella villa di Sarriá. In suaassenza, la palazzina era diventata unmuseo spettrale. La luminosità diKirsten e tre settimane di pulizie fecero

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il resto.La casa visse un periodo di

splendore mai conosciuto prima.Germán dipingeva senza sosta,posseduto da un’energia che nemmenolui stesso riusciva a spiegarsi. I suoiquadri cominciarono a essere quotati trala gente importante, e ben prestopossedere “un Blau” divenne unrequisito impre-scindibile nella buonasocietà. All’improvviso, il padre presea vantarsi in pubblico del successo diGermán. «Ho sempre creduto nel suotalento e sapevo che avrebbe avutosuccesso», «ce l’ha nel sangue, cometutti i Blau» e

«non esiste un padre più orgoglioso

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di me» diventarono le sue frasi preferite.A forza di ripeterle, finì per credercidavvero. Mercanti d’arte e galleristi cheanni prima lo salutavano a malapena sifacevano in quattro per ingra-ziarselo. Enel bel mezzo di questo turbinio divanità e ipocrisie Germán non dimenticòmai quello che Salvat gli avevainsegnato.

Anche la carriera lirica di Kirstenprocedeva con il vento in poppa.

All’epoca in cui cominciarono adiffondersi i dischi a settantotto giri, fuuna delle prime voci a immortalare ilproprio repertorio. Furono anni luminosie felici nella villa di Sarriá, anni in cuitutto sembrava possibile e dove non si

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scorgevano ombre all’orizzonte.Nessuno diede importanza alle

nausee e ai mancamenti di Kirsten se 48non quando era ormai troppo tardi. Il

successo, i viaggi, la tensione per idebutti spiegavano tutto. Il giorno in cuiKirsten venne visitata dal dottor Cabrilsdue notizie cambiarono il suo mondo persempre. La prima: era incinta. Laseconda: un’inguaribile malattia delsangue la stava minando lentamente. Lerestava un anno di vita. Due al massimo.

Lo stesso giorno, uscita dallo studiodel medico, Kirsten ordinò un orologiod’oro, con una dedica per Germán,nell’Orologeria Svizzera della ViaAugusta.

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Per Germán, in cui parla la luceK.A.19-1-1964Quell’orologio avrebbe scandito le

ore che restavano da trascorrereinsieme.

Kirsten abbandonò i palcoscenici ela carriera. L’addio alla scene si celebròal Liceo, il teatro dell’Opera diBarcellona, dove cantò il Lakmé diDelibes, il suo compositore preferito.Non si sarebbe più ascoltata una vocecome quella. Durante la gravidanza,Germán dipinse una serie di ritratti dellamoglie che superavano ogni sua operaprecedente. Si rifiutò sempre divenderli.

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Un 26 settembre del 1964, nella casadi Sarriá, venne al mondo una bambinadai capelli chiari e dagli occhi colorcenere, identici a quelli di Kirsten. Sisarebbe chiamata Marina e avrebbesempre portato sul proprio voltol’immagine e la luminosità della madre.Kirsten Auermann morì sei mesi dopo,nella stanza in cui aveva dato alla lucela figlia e dove aveva trascorso imomenti più felici della sua vita conGermán. Il marito le stringeva la mano,pallida e tremante, tra le sue. Era ormaifredda quando l’alba se la portò viacome un sospiro.

Un mese dopo la sua morte, Germánrimise piede nello studio, che si trovava

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nella soffitta della villa. La piccolaMarina giocava ai suoi piedi.

Germán afferrò il pennello e cercòdi imprimere un tratto di colore sulla te-la. Gli occhi gli si riempirono di lacrimee il pennello gli cadde dalle mani.

Germán Blau non dipinse mai più.La luce dentro di lui aveva taciuto per49

sempre.50

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9Durante il resto dell’autunno le mie

visite a casa di Germán e Marinadivennero un rituale quotidiano. Inclasse passavo il tempo sognando aocchi aperti, aspettando il momento perfuggire e raggiungere quella stradinasegreta. Lì mi attendevano i miei nuoviamici, a eccezione del lunedì, giorno incui Marina accompagnava Germán inospedale per le sue cure. Beveva-mocaffè e chiacchieravamo nelle sale inpenombra. Germán accettò di in-segnarmi i rudimenti degli scacchi.Malgrado quelle lezioni Marina mi da-va scacco matto nel giro di cinque o seiminuti, ma io non perdevo la speranza.

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A poco a poco, quasi senzarendermene conto, il mondo di Germán eMarina diventò anche il mio. La lorocasa, i ricordi che sembravano fluttu-arenell’aria… finirono per diventare anchei miei. Scoprii così che Marina nonfrequentava la scuola per non lasciare ilpadre da solo e per prendersi cura dilui. Mi spiegò che Germán le avevainsegnato a leggere, a scrivere e apensare.

«Tutta la geografia, la trigonometriae l’aritmetica del mondo non ser-vono aniente se non impari a pensare con la tuatesta» si giustificava Marina. «E non telo insegnano in nessuna scuola. Non ènel programma.»

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Germán le aveva aperto la menteall’arte, alla storia e alla scienza. Labiblioteca alessandrina di quella casaera diventata il suo universo. Ciascunodi quei libri era una porta su nuovimondi e nuove idee. Una sera di fineottobre ci sedemmo sul davanzale di unafinestra a guardare le luci lontane delTibidabo. Marina mi confessò che il suosogno era quello di diventare scrittrice.Aveva un baule pieno di storie e diracconti che aveva scritto da quandoaveva nove anni. Quando le chiesi dimostrarmene qualcuno, mi guardò comese fossi ubriaco e disse che non se neparlava neanche. “È

come con gli scacchi” pensai. Tempo

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al tempo.Mi soffermavo spesso a osservare

Germán e Marina a loro insaputa.Scherzavano, leggevano o si

affrontavano in silenzio davanti allascacchiera. L’invisibile legame che liuniva, quel mondo a parte che si eranoco-struiti lontano da tutto e da tutti, eraun meraviglioso incantesimo. Un mi-51

raggio che a volte temevo didissolvere con la mia presenza. C’eranogiorni in cui, rientrando in collegio, misentivo la persona più felice del mondoper il solo fatto di poterlo condividere.

Senza chiedermi il perché, tennisegreta quell’amicizia. Non avevoparlato di loro a nessuno, nemmeno al

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mio compagno JF. Nel giro di pochesettimane, Germán e Marina eranodiventati la mia vita segreta e, in verità,l’unica vita che volessi vivere. Ricordouna sera in cui Germán si era ritira-topiuttosto presto, scusandosi comesempre con i suoi modi impeccabili dagentiluomo dell’Ottocento. Io erorimasto da solo con Marina nel salonedei ritratti. Lei mi rivolse un sorrisoenigmatico e disse che stava scrivendosu di me. La sola idea mi terrorizzò.

«Su di me? Che vuol dire che staiscrivendo su di me?»

«Vuol dire che sto scrivendo di te,non sopra di te, usandoti comescrivania.» «Fin lì c’ero arrivato.»

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Marina era divertita dal mioimprovviso nervosismo.

«E allora?» chiese. «Hai così pocastima di te stesso da credere che nonvalga la pena scrivere su di te?»

Non avevo risposte per quelladomanda. Decisi di cambiare strategia epassare all’offensiva. Me l’avevainsegnato Germán nelle sue lezioni discacchi. Strategia di base: quando tisorprendono con i pantaloni abbassati,mettiti a urlare e attacca.

«Se parli di me non puoi rifiutarti difarmi leggere quello che scrivi»

sottolineai.Marina inarcò le sopracciglia,

indecisa.

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«È un mio diritto sapere quello chesi scrive su di me» aggiunsi.

«Magari non ti piace.»«O magari sì.»«Ci penserò su.»«E io aspetterò.»Il freddo arrivò a Barcellona come

suo solito: come un meteorite. Da ungiorno all’altro i termometricominciarono a guardarsi l’ombelico.Eserciti di cappotti lasciarono la riservaper sostituire i leggeri soprabitiautunnali.

Cieli d’acciaio e raffiche di ventoche mordevano le orecchie si imposses-52

sarono delle strade. Germán e

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Marina mi lasciarono a bocca apertarega-landomi un berretto di lana chedoveva essere costato una fortuna.

«È per proteggere le idee, caroÓscar» mi spiegò Germán. «Non sia maiche le si raffreddi il cervello.»

Verso metà novembre Marina miannunciò che lei e Germán dovevanoandare a Madrid per una settimana. Unmedico di La Paz, una vera celebri-tà,aveva accettato di sottoporre Germán auna cura ancora in fase sperimentale,applicata solo un paio di volte intutt’Europa.

«Dicono che quel medico facciamiracoli, non so…» affermò Marina.

L’idea di stare una settimana senza

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di loro mi cadde addosso come unapietra tombale. I miei sforzi pernasconderlo erano inutili. Marinaleggeva nel mio cuore quasi fossetrasparente. Mi diede qualche paccasulla mano.

«È solo una settimana, eh? Poi cirivediamo.»

Annuii, abbacchiato.«Ieri ho detto a Germán che potresti

occuparti di Kafka e della casa mentresiamo via…» buttò lì Marina.

«Ma certo. Tutto quello che serve.»Le si illuminò il viso.

«Spero proprio che quel medico siabravo come dicono» aggiunsi.

Marina mi fissò per un lungo istante.

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Dietro il suo sorriso, quegli occhi dicenere sprigionavano una luce ditristezza che mi disarmò.

«Speriamo.»Il treno per Madrid partiva dalla

stazione Francia alle nove del mattino.Io me l’ero svignata all’alba. Con i

risparmi messi da parte, avevo prenotatoun taxi per passare a prendere Germán eMarina e accompagnarli alla stazione.Quella mattina domenicale era avvoltada foschie scure che cedeva-nolentamente il passo alla luce ambrata diuna timida alba. Per buona parte deltragitto nessuno fiatò. Il tassametro dellavecchia Seat 1500 ticchettava come unmetronomo.

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«Non doveva disturbarsi, caroÓscar» disse Germán.

«Nessun disturbo» replicai. «Fa unfreddo cane e non è il caso che ci si geliil morale, no?»

Alla stazione, Germán si sedette inun bar, mentre io e Marina andavamo acomprare i biglietti. Al momento dipartire, Germán mi abbracciò con 53

una tale intensità che fui sul punto dimettermi a piangere. Poi, con l’aiuto diun facchino, salì in vettura per lasciarmisalutare Marina da solo. L’eco di millevoci e fischi si perdeva sotto l’enormevolta della stazione. Ci guardammo insilenzio, quasi di sfuggita.

«Be’…» dissi.

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«Non scordarti di scaldare il latteperché…»

«Kafka odia il latte freddo,soprattutto dopo aver commesso undelitto, lo so. Il gatto figlio di papà.»

Il capostazione stava per dare ilsegnale di partenza con la sua bandieri-na rossa. Marina sospirò.

«Germán è orgoglioso di te» disse.«Non ce n’è motivo.»«Ci mancherai.»«Lo credi tu. Forza, sali.»D’un tratto, Marina si allungò verso

di me e mi sfiorò le labbra con le sue.Prima che potessi battere ciglio era giàsalita sul treno. Rimasi lì a guardarlomentre si allontanava verso la parete di

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nebbia. Quando il rumore dellalocomotiva si perse nell’aria miincamminai verso l’uscita. Stradafacendo pensai che non avevo mairaccontato a Marina della stranaapparizione di quella notte di tempesta acasa sua. Io stesso, con il passare deltempo, avevo preferito dimenticare ealla fine mi ero convinto di essermiimmaginato tutto. Ero già nell’atrio dellastazione quando fui quasi travolto da unragazzo.

«Tieni… Me l’hanno data per te.»Mi tese una busta color ocra.«Credo che si sbagli» dissi.«No, no. Quella signora mi ha detto

di darla proprio a te» insistette.

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«Quale signora?»Il ragazzo si voltò per indicare il

porticato che dava sul Paseo Colón.Filamenti di bruma avvolgevano igradini dell’ingresso. Non c’eranessuno. Si strinse nelle spalle e siallontanò.

Perplesso, mi diressi verso ilporticato e uscii in strada giusto intempo per riconoscerla. La dama in neroche avevamo visto al cimitero di Sarriástava salendo su un’anacronisticacarrozza a cavalli. Per un attimo si voltò54

a guardarmi. Il viso era nascostodietro un velo scuro, una ragnatelad’acciaio. Un secondo dopo la portiera

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della carrozza si chiuse e il cocchiere,avvolto in un cappotto grigio che gliarrivava quasi ai piedi, frustò i cavalli.

La vettura si allontanò a tuttavelocità perdendosi nel traffico delPaseo Co-lón, diretta verso le Ramblas.

Ero talmente stupito da averdimenticato la busta che mi avevaconsegnato il ragazzo. Appena miaccorsi che la tenevo ancora in mano laaprii.

Conteneva un vecchio biglietto davisita con un indirizzo: MichailKolvenik

Calle Princesa, 33,4°-2°Girai il biglietto. Sul dorso lo

stampatore aveva riprodotto il simbolo

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in-ciso sulla tomba anonima del cimiteroe sulla porta della serra abbandonata.Una farfalla nera con le ali spiegate.

55

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10Lungo il cammino verso calle

Princesa mi accorsi di avere fame e mifermai a comprare una pasta nellapanetteria di fronte alla basilica di SantaMaria del Mar. Un aroma di panini dolcifluttuava sull’eco del rintocco dellecampane. Calle Princesa era una stradabuia che attraversava il centro storicocome un’angusta valle di ombre. Passaidavanti a edifici e palazzi chesembravano più vecchi della cittàstessa. Il numero 33 era appena visibilesu una di quelle facciate. Entrai in unandrone che ricordava il chiostro di unavecchia cappella. Da una parete dimattonelle crepate pendevano delle

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cassette postali arrugginite. Mentrecercavo inutilmente il nome di MichailKolvenik, sentii un respiro pesante allemie spalle.

Mi voltai allarmato e scorsi il visogrinzoso di una vecchia seduta nellaguardiola della portineria. Sembravauna figura di cera vestita da vedova.

Un fascio di luce le sfiorò il volto.Gli occhi erano bianchi come il marmo.

Privi di pupille. Era cieca.«Chi sta cercando?» chiese la

portinaia con voce querula.«Michail Kolvenik, signora.»La vecchia sbatté un paio di volte gli

occhi vuoti, senza vita, poi scosse ilcapo.

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«Mi hanno dato questo indirizzo»insistetti. «Michail Kolvenik, quartopiano, appartamento numero 2…»

L’anziana scosse nuovamente il capoe ritornò alla sua immobilità. Alloranotai un movimento sul tavolo dellaguardiola. Un ragno nero risaliva lemani rugose della portinaia, i cui occhibianchi fissavano il vuoto. Senza farerumore sgattaiolai verso le scale.

In quella scala nessuno cambiavauna lampadina da almeno trent’anni. Igradini erano scivolosi e consunti. Ipianerottoli pozzi di oscurità e disilenzio. Un tremolante chiarore filtravada un lucernario all’ultimo piano, dovesvolazzava una colomba imprigionata.

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La porta dell’appartamento al quartopiano era di legno massiccio intagliato,con una pesante maniglia di 56

ferro. Suonai un paio di volte: losquillo del campanello si perseall’interno della casa. Trascorseroalcuni minuti. Suonai ancora. Altri dueminuti.

Cominciai a pensare di esserepenetrato in una tomba. Uno dei tantiedifici spettrali che conferivano unasinistra magia al centro storico diBarcellona.

D’improvviso, la grata dellospioncino si aprì. Filamenti di luceperfora-rono l’oscurità. La voce chesentii era di sabbia. Una voce che non

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veniva usata da settimane, forse da mesi.«Chi è?»«Signor Kolvenik? Michail

Kolvenik?» domandai. «Potrei parlarleun attimo, per favore?»

Lo spioncino si chiuse di scatto.Silenzio. Stavo per suonare di nuovoquando la porta si aprì.

La sagoma di un uomo si stagliòsulla soglia. Dall’interno arrivava ilgocciolio di un rubinetto che perdeva.

«Cosa vuoi, ragazzo?»«Signor Kolvenik?»«Non sono Kolvenik» m’interruppe

la voce. «Mi chiamo Sentís. BenjaminSentís.»

«Mi scusi, signor Sentís, mi hanno

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dato questo indirizzo e…»Gli porsi il biglietto che mi era stato

consegnato dal ragazzo alla stazione.Una mano rigida lo afferrò e due occhiche non riuscivo a vedere lo e-saminarono a lungo, in silenzio, prima direstituirmelo.

«Michail Kolvenik non abita più inquesta casa da molti anni.»

«Lo conosce?» chiesi. «Forse puòaiutarmi.»

Un altro lungo silenzio.«Entra» disse alla fine Sentís.Benjamin Sentís era un uomo

corpulento che viveva dentro unavestaglia di flanella granata. Aveva trale labbra una pipa spenta e un paio di

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baffi uniti a delle folte basette, stileJules Verne, gli incorniciavano il viso.

L’appartamento sovrastava lagiungla di tetti del centro storico efluttuava in un chiarore etereo. Inlontananza si scorgevano le torri dellacattedrale e, ancora più in là, le pendicidella collina di Montjuïc. I muri eranospogli.

Un pianoforte collezionava strati dipolvere, e scatoloni pieni di giornali 57

ormai scomparsi si accumulavanosul pavimento. Non c’era nulla, in quellacasa, che parlasse del presente.Benjamin Sentís viveva nel trapassatoremoto.

Ci accomodammo in una stanza che

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si affacciava su un balcone e Sentísesaminò un’altra volta il biglietto davisita.

«Perché cerchi Kolvenik?»domandò.

Decisi di raccontargli tuttodall’inizio, a partire dalla visita alcimitero fino alla strana apparizionedella dama in nero alla stazione Franciaquella mattina. Sentís mi ascoltava conlo sguardo perso, senza mostrare alcunaemozione. Quando finii di parlare calòun imbarazzante silenzio. Sentís miosservò a lungo. Aveva uno sguardo dalupo, freddo e penetrante.

«Michail Kolvenik ha vissuto inquesta casa per quattro anni, poco dopo

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essere arrivato a Barcellona» disse. «Daqualche parte, dev’esserci ancoraqualche suo libro. È tutto quello cherimane di lui.»

«Ha per caso il suo attualeindirizzo? Mi sa dire dove possotrovarlo?»

Sentís scoppiò a ridere.«Prova all’inferno.»Lo guardai senza capire.«Michail Kolvenik è morto nel

1948.»Stando a quanto mi raccontò

Benjamin Sentís quella mattina, MichailKolvenik era arrivato a Barcellona allafine del 1919. Aveva poco più divent’anni ed era originario di Praga.

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Fuggiva da un’Europa devastata dallaGrande Guerra. Non sapeva una solaparola di catalano né di castigliano, masi esprimeva correntemente in francese ein tedesco. Non aveva soldi né amici néconoscenti in quella città difficile eostile. La prima notte a Barcellona lapassò in galera, dopo essere statosorpreso a dormire in un portone perripararsi dal freddo. In carcere due suoicompagni di cella, ac-cusati di furto,rapina e incendio doloso, lomassacrarono di botte, sostenendo che ilPaese stava andando in malora per colpadegli stranieri pidoc-chiosi come lui. Letre costole rotte, le contusioni e lelesioni interne sarebbero guarite con il

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tempo, ma l’orecchio sinistro lo avrebbeperso per sempre. “Lesione del nervo”diagnosticarono i medici. Un pessimoinizio.

Ma Kolvenik diceva che quello cheinizia male non può che migliorare.

Dieci anni dopo Michail Kolveniksarebbe diventato uno degli uomini più58

ricchi e potenti di Barcellona.Nell’infermeria del carcere conobbe

quello che, con gli anni, sarebbediventato il suo migliore amico, ungiovane dottore di origine inglesechiamato Joan Shelley. Il dottor Shelleymasticava un po’ di tedesco e sapeva peresperienza diretta cosa significava

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essere straniero in terra straniera.Grazie a lui Kolvenik, non appena

uscì di galera, ottenne un lavoro in unapiccola azienda chiamata Velo-Granell.La Velo-Granell fabbricava articoliortopedici e protesi mediche. Il conflittocon il Marocco e la Grande Guerra inEuropa avevano creato un enormemercato per questo genere di prodotti.Legioni di uomini, mutilati a maggiorgloria di banchieri, ministri, agenti diBorsa e altri padri della patria, eranodiventati invalidi a vita in nome dellalibertà, della democrazia, dell’impero,della razza o della bandiera.

I laboratori della Velo-Granellsorgevano accanto al mercato del Borne.

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Al loro interno, vetrine piene dibraccia, occhi, gambe e giuntureartificiali ricordavano ai visitatori lafragilità del corpo umano. Grazie almodesto stipendio e a unaraccomandazione della ditta, MichailKolvenik riuscì a trovare alloggio in unappartamento di calle Princesa. Lettorevorace, in un anno e mezzo aveva giàimparato a difendersi sia in catalano siain castigliano. Ben presto, per il suotalento e la sua intelligenza, divenne unodei dipendenti insostituibili della Velo-Granell. Kolvenik possedeva vaste co-noscenze nel campo della medicina,della chirurgia e dell’anatomia. Progettòun rivoluzionario meccanismo

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pneumatico che consentiva di articolareil movimento delle protesi di gambe ebraccia. Il congegno reagiva agli im-pulsi muscolari e dotava il paziente diuna mobilità senza precedenti.

Quell’invenzione proiettò la Velo-Granell all’avanguardia nel settore. Fusolo l’inizio. Il tavolo da disegno diKolvenik sfornava senza tregua proto-tipi e, alla fine, il praghese fu nominatoingegnere capo del laboratorio diprogettazione e sviluppo.

Qualche mese dopo, un malauguratoincidente mise alla prova il talento delgiovane Kolvenik. Il figlio del fondatoredella Velo-Granell fu vittima di unospaventoso infortunio sul lavoro. Una

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pressa idraulica dello stabilimento,simile alle fauci di un drago, gli tranciòentrambe le mani. Per settimaneKolvenik lavorò senza sosta per crearenuove mani in legno, metallo eporcellana, le cui dita rispondessero alcomando dei muscoli e dei ten-59

dini dell’avambraccio. La soluzioneideata da Kolvenik sfruttava gli impul-sielettrici generati dagli stimoli nervosidel braccio per articolare i movi-menti.Quattro mesi dopo l’incidente, la vittimainaugurava un paio di mani meccanicheche gli consentivano di afferrare oggetti,di accendersi una sigaretta o diabbottonarsi la camicia da solo. Furonotutti d’accordo nell’af-fermare che

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Kolvenik aveva superato qualsiasiimmaginazione. Lui, persona schiva epoco amante degli elogi, affermò che sitrattava della nascita di una nuovascienza. Come ricompensa per il lavorosvolto, il fondatore della Velo-Granelllo nominò direttore generaledell’impresa e gli offrì un pacchetto diazioni che lo rese virtualmenteproprietario dell’azienda, assiemeall’uomo che il suo ingegno avevadotato di nuove mani.

Sotto la direzione di Kolvenik, laVelo-Granell decollò. Ampliò il propriomercato e diversificò la linea deiprodotti. L’impresa adottò come simbolouna farfalla nera con le ali spiegate, il

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cui significato Kolvenik non spiegò mai.Lo stabilimento fu ampliato e vennerolanciati nuovi articoli: arti snodati,valvole per la circolazione sanguigna,fibre ossee e un’infinità di altricongegni. Il luna park del Tibidabo sipopolò di automi creati da Kolvenik perpassatempo e a scopo sperimentale. LaVelo-Granell esporta-va in tutta Europa,in America e in Asia. Il valore delleazioni e il patrimo-nio personale diKolvenik salirono alle stelle, ma lui sirifiutò sempre di lasciare il modestoappartamento di calle Princesa. Aquanto diceva, non c’e-ra motivo dicambiare. Era un uomo solo, conducevauna vita semplice e quella casa bastava

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per lui e per i suoi libri.Quello scenario sarebbe

radicalmente cambiato con l’apparizionedi un’altra pedina sulla scacchiera. EvaIrinova era la protagonista di un nuovospettacolo di successo al Teatro Real.La giovane, di origine russa, avevaappena diciannove anni. Si mormoravache, per la sua bellezza, si fosserosuicidati diversi gentiluomini a Parigi, aVienna e in altre capitali euro-pee. EvaIrinova era sempre scortata da due stranipersonaggi, Sergej e Tatiana Glazunow,due gemelli. I fratelli Glazunow agivanoin qualità di agenti e tutori di EvaIrinova. Si diceva che Sergej e lagiovane diva fossero amanti, che la

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sinistra Tatiana dormisse dentro unabara nella fossa dell’orchestra delTeatro Real, che Sergej fosse uno degliassassini dei Romanov, che Eva fosse ingrado di parlare con le anime deidefunti… I rocambole-schi pettegolezzidel bel mondo contribuivano adalimentare la fama della bella Irinova,che teneva Barcellona in pugno.

60La sua leggenda giunse alle orecchie

di Kolvenik che, incuriosito, una seraandò a teatro per accertarsi di personadel motivo di tanta agitazione.

Quella sera rimase affascinato dallaragazza. Da allora il camerino di EvaIrinova si trasformò in un vero e proprio

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letto di rose. Due mesi dopo la ri-velazione Kolvenik decise di affittare unpalco in teatro, dove si recava ogni seraad ammirare, rapito, l’oggetto della suavenerazione. Inutile dire che eradiventato lo zimbello dell’intera città.Un bel giorno, Kolvenik convocò i suoiavvocati e impartì loro istruzioni perfare un’offerta all’impresario DanielMestres. Voleva acquistare quel vecchioteatro, accollan-dosene i debiti.Intendeva ricostruirlo dalle fondamentaper trasformarlo nel più importantepalcoscenico d’Europa. Uno strabilianteteatro dotato delle tecnologie piùavanzate e consacrato alla sua adorataEva Irinova. La direzione del teatro si

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arrese alla sua generosa offerta. Il nuovoprogetto fu battezzato Gran Teatro Real.Il giorno dopo, in un russo impeccabile,Kolvenik propose a Eva Irinova disposarlo. Lei accettò.

Dopo le nozze la coppia progettavadi trasferirsi in una villa da favola cheKolvenik si stava facendo costruireaccanto al Parque Güell. Avevaconsegnato lui stesso un bozzetto delsontuoso palazzo allo studio d’archi-tettura Sunyer, Balcells i Baró. Si dicevache nella storia di Barcellona non eramai stata spesa una simile fortuna percostruire una residenza privata, il cheera tutto dire. Non tutti, però, eranorimasti incantati da quella fiaba. Il socio

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di Kolvenik nella Velo-Granell nonvedeva di buon occhio quellaossessione. Temeva che attingesse aifondi dell’azienda per finanziare il suodelirante progetto di fare del TeatroReal l’ottava meraviglia del mondomoderno. E non era troppo lontano dalvero. Per di più, in città si diffuserovoci relative a pratiche poco ortodosseda parte di Kolvenik. Sorsero dubbi sulsuo passato e sull’immagine di selfmode man che amava dare di sé. Lamaggior parte di questi pettegolezzi sispegneva ancor prima di arrivare sullepagine dei giornali, grazieall’implacabile apparato legale dellaVelo-Granell. Il denaro non compra la

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felicità, era solito dire Kolvenik, macompra tutto il resto.

Da parte loro, anche Sergej e TatianaGlazunow, i due sinistri custodi di EvaIrinova, vedevano il proprio futuro inpericolo. Nella nuova residenza nonerano previste stanze per loro. Kolvenik,anticipando l’insorgere di problemi coni due gemelli, offrì loro una generosasomma di denaro per 61

rescindere il presunto contratto conEva Irinova. In cambio dovevanolasciare il Paese, impegnarsi a nontornarvi mai e a non cercare di mettersiin contatto con la ragazza. Sergej, fuoridi sé, oppose un netto rifiuto e giurò aKolvenik che non sarebbe mai riuscito a

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sbarazzarsi di loro.All’alba di quello stesso giorno,

mentre Sergej e Tatiana uscivano da unportone di calle Sant Pau, una raffica dicolpi partita da una carrozza per poconon li uccise. L’attentato fu attribuitoagli anarchici. Una settimana dopo igemelli firmarono il documento in cui siimpegnavano a rescindere il contrattocon Eva Irinova e a sparire per sempre.Le nozze tra Michail Kolvenik ed EvaIrinova furono fissate per il 24 giugno1935. Lo scenario: la cattedrale diBarcellona.

La cerimonia, che qualcunoparagonò all’incoronazione del reAlfonso XIII, fu celebrata una mattina

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luminosa. La folla si assiepava lungotutto il viale della cattedrale per godersiil fasto e la maestosità dello spettacolo.

Eva Irinova non era mai stata cosìsplendida. Sulle note della marcia nuzia-le di Wagner, interpretata dall’orchestradel Liceo sulle scale della cattedrale, glisposi scesero verso la carrozza che liattendeva. Quando mancavano pochimetri per raggiungere la vettura trainatada cavalli bianchi una figura superò ilcordone di sicurezza e si avventò suglisposi. Qualcuno gridò per avvertirli.Voltandosi, Kolvenik si imbatté negliocchi iniettati di sangue di SergejGlazunow. Nessuno tra i presentisarebbe mai riuscito a dimenticare

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quello che accadde subito dopo.Glazunow estrasse una boccetta di vetroe lanciò il contenuto sul viso di EvaIrinova. L’acido corrose il velo da sposain una nuvola di vapore. Un urlosquarciò il cielo. La confusione piùtotale si impossessò della folla e, in unbattibaleno, l’aggressore si dileguò trala gente.

Kolvenik si inginocchiò accanto allamoglie e la prese tra le braccia. I beilineamenti di Eva Irinova sidissolvevano a contatto con l’acidocome acquerelli nell’acqua. La pellesfrigolante si accartocciò come unaperga-mena ardente e un puzzo di carnebruciata inondò l’aria. L’acido aveva

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risparmiato gli occhi della giovane, cheriflettevano orrore e sofferenza. Neltentativo di salvare il volto dellamoglie, Kolvenik lo coprì con le mani,ma riuscì solo a strapparle brandelli dicarne morta mentre l’acido gli corrode-va i guanti. Quando alla fine Eva perse isensi il suo viso si era trasformato inuna grottesca maschera di ossa e carneviva.

62Il Teatro Real rinnovato non aprì mai

i battenti. Dopo la tragedia Kolvenikportò la moglie nel palazzo, non ancoraterminato, del Parque Glieli.

Eva Irinova non mise mai più piedefuori casa. L’acido le aveva

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completamente sfigurato il viso,danneggiandole anche le corde vocali.Si diceva che comunicasse scrivendo suun bloc-notes e che trascorresse interesettimane senza uscire dalle sue stanze.

In quel periodo i problemi finanziaridella Velo-Granell cominciarono arivelarsi più gravi di quanto sisospettasse. Kolvenik si sentiva messoalle strette e ben presto smise di farsivedere in azienda. Raccontavano cheaveva contratto una strana malattia chelo obbligava a restare sempre di più incasa. Vennero a galla numeroseirregolarità nell’amministrazione dellaVelo-Granell e transazioni anomaleeffettuate in passato dallo stesso

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Kolvenik. Una ridda di insinuazioni e dioscure accuse affiorò con inusitata vi-rulenza. Kolvenik, recluso nel suorifugio con l’amata Eva, si trasformò nelprotagonista di una leggenda nera. Unappestato. Il governo espropriò ilconsorzio societario della Velo-Granellmentre le autorità giudiziarie av-viaronoindagini. Il fascicolo, appena istruito,superava già le mille pagine.

Negli anni seguenti Kolvenik persela sua fortuna. Il palazzo si trasformò inun tenebroso castello in rovina. Laservitù, dopo mesi senza stipendio, liabbandonò. Solo l’autista personale diKolvenik gli rimase fedele.

Iniziarono a propagarsi

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raccapriccianti voci di ogni sorta. Sidiceva che Kolvenik e la moglievivevano in mezzo ai topi, vagando neicorridoi di quel sepolcro in cui si eranovolontariamente rinchiusi da vivi.

Nel dicembre del 1948 un incendiospaventoso distrusse la villa deiKolvenik. Le fiamme si scorgevano finda Mataró, scrisse il quotidiano “ElBrusi”. Chi lo ricorda assicura che ilcielo di Barcellona si trasformò in untelone scarlatto e che nuvole di ceneresolcarono la città all’alba, mentre lafolla osservava in silenzio le maceriefumanti. I corpi di Kolvenik e di Eva,stretti in un ultimo abbraccio, vennerotrovati carbonizzati in soffitta. Fu questa

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l’immagine che comparve sulla primapagina di “La Vanguardia”

sotto il titolo: La fine di un’era.All’inizio del 1949 Barcellona

cominciava già a dimenticare la storia diMichail Kolvenik ed Eva Innova. Lagrande città stava inesorabilmentecambiando e il mistero della Velo-Granell era ormai entrato a far parte diun passato leggendario, condannato aperdersi per sempre.

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11Il racconto di Benjamin Sentís mi

perseguitò per tutta la settimana comeun’ombra furtiva. Più ci riflettevo, piùavevo l’impressione che a quella storiamancassero dei pezzi. Quali, era un’altrafaccenda. Questi pensieri mitormentavano giorno e notte mentreaspettavo con impazienza il ritorno diGermán e Marina.

Nel pomeriggio, finite le lezioni,andavo a casa loro per accertarmi chefosse tutto a posto. Kafka mi aspettavasempre davanti alla porta d’ingresso, avolte con il bottino di una battuta dicaccia tra le grinfie. Gli versavo il lattenella ciotola e chiacchieravamo; cioè,

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lui beveva il latte e io parlavo da solo.Più di una volta fui tentato diapprofittare dell’assenza dei proprietariper esplorare la villa, ma resistetti.L’eco della loro presenza si avverti-vain ogni angolo della casa. Presil’abitudine di aspettare il tramonto inquella villa vuota, al tepore della loroinvisibile compagnia. Mi sedevo nelsalone dei quadri e osservavo per ore iritratti della moglie che Germán Blauaveva dipinto quindici anni prima. Viscorgevo una Marina adulta, la donnache stava diventando, e mi chiedevo seanch’io, un giorno o l’altro, sarei statocapace di creare qualcosa dello stessovalore. Di qualche valore.

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La domenica mi piantai come unchiodo alla stazione Francia.Mancavano ancora due ore all’arrivodell’espresso da Madrid. Ingannai iltempo girando per l’edificio. Sotto lasua volta, treni e persone sconosciute siriu-nivano come pellegrini. Avevosempre pensato che le vecchie stazioniferroviarie fossero tra i pochi luoghimagici rimasti al mondo. I fantasmi diricordi e di addii vi si mescolavano conl’inizio di centinaia di viaggi perdestinazioni lontane, senza ritorno. “Seun giorno dovessi perdermi, che micerchino in una stazione ferroviaria”pensai.

Il fischio dell’espresso da Madrid

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mi strappò dalle mie bucoliche medi-tazioni. Il treno irrompeva al galoppo instazione. Imboccò il binario e i frenigemettero. Lentamente, con la flemmadovuta alla stazza, si fermò. I primipasseggeri, figure senza nome,iniziarono a scendere. Scrutai ilmarciapiede con il cuore che batteva amille. Decine di volti sconosciuti mi sfi-64

larono davanti. D’un tratto mi venneil sospetto di avere sbagliato giorno,treno, stazione, città o forse pianeta. Eallora sentii una voce inconfondibilealle mie spalle.

«Questa sì che è una sorpresa, caroÓscar. Ci è mancato.»

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«Anche voi» risposi, stringendo lamano dell’anziano pittore.

Marina stava scendendo dal vagone.Aveva lo stesso vestito bianco cheindossava il giorno in cui era partita. Misorrise in silenzio, con gli occhi che lebrillavano.

«Com’era Madrid?» improvvisai,prendendo la valigia di Germán.

«Bellissima. E sette volte più grandedall’ultima volta che ci sono stato»

disse Germán. «Se non smette dicrescere, prima o poi traboccherà daibordi dell’altopiano.»

Dal tono di voce capii che Germánera di ottimo umore e aveva un’energiainsolita. Mi augurai che dipendesse

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dalle buone notizie ricevute dal dottoredi La Paz. Verso l’uscita, mentreGermán, in vena di chiacchiere,rivolgeva a un attonito facchino unpanegirico sui progressi delle scienzeferroviarie, rimasi a tu per tu conMarina. Lei mi strinse forte la mano.

«Com’è andata?» sussurrai.«Germán sembra allegro.»

«Bene. Molto bene. Grazie peressere venuto a prenderci.»

«Grazie a te per essere tornata»dissi. «Barcellona sembrava vuota inquesti giorni… Ho un mucchio di coseda raccontarti.»

Fermammo un taxi sul piazzale dellastazione, una vecchia Dodge più

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rumorosa dell’espresso per Madrid.Mentre risalivamo le Ramblas, Germánosservava la gente, i mercati, lebancarelle di fiori e sorridevacompiaciuto.

«Possono dire quello che vogliono,ma una strada così non esiste innessun’altra città del mondo, caro Óscar.Altro che New York.»

Marina approvava i commenti delpadre, che sembrava rinato e molto piùgiovane dopo quel viaggio.

«Domani non è un giorno festivo?»chiese all’improvviso Germán.

«Sì» risposi.«Quindi lei non ha lezioni…»

«Tecnicamente, no.»

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Germán scoppiò a ridere e, per unistante, intravidi in lui il ragazzo che erastato un tempo, tanti anni prima.

65«E mi dica, Óscar, ha impegni?»Alle otto del mattino ero già a casa

loro, come mi aveva chiesto Germán. Lasera prima avevo promesso al mio tutoreche la settimana succes-siva avreidedicato il doppio del tempo allo studiose mi avesse permesso di uscire quellunedì, che era un giorno festivo.

«Non so cosa ti passa per la testaultimamente. Questo non è un albergo,ma non è neppure una prigione. Seiresponsabile delle tue azioni…»sottolineò padre Seguí, sospettoso.

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«Spero che tu sappia quello che fai,Óscar.»

Alla villa di Sarriá trovai Marina incucina. Stava preparando una cesta conpanini e thermos di bevande. Kafkaseguiva con attenzione ogni suomovimento, leccandosi i baffi.

«Dove andiamo?» chiesi incuriosito.«Sorpresa» rispose Marina.Poco dopo comparve Germán,

euforico e gioviale.Era vestito come un pilota da rally

degli anni Venti. Mi strinse la mano e michiese se potevo aiutarlo in garage.Annuii. Avevo appena scoperto chec’era un garage. In realtà, ce n’erano tre,come constatai facendo il giro della

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proprietà insieme a Germán.«Sono contento che abbia potuto

unirsi a noi, Óscar.»Si fermò davanti alla terza porta

dell’autorimessa, una tettoia ricopertad’edera grande come una casetta. Ilsaliscendi della porta cigolò e una nubedi polvere inondò l’interno buio. Quelposto aveva l’aria di essere chiuso daalmeno vent’anni. Resti di una vecchiamotocicletta, attrezzi arrugginiti escatoloni impilati sotto una cappa dipolvere spessa come un tappeto per-siano. Intravidi un telone grigio cheproteggeva quella che doveva essereun’automobile. Germán prese un angolodel telone e mi fece segno di imi-tarlo.

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«Al tre?» mi chiese.Al segnale, tirammo con forza e il

telone si sollevò come un velo da sposa.Quando la nuvola di polvere si dispersenell’aria, la tenue luce che filtrava tragli alberi mi dischiuse un’incredibilevisione. Una sfavillante Tucker deglianni Cinquanta, color vinaccia e con leruote cromate, son-necchiava in mezzo aquell’antro. Guardai Germán, attonito.Lui mi sorrise orgoglioso.

66«Macchine così non se ne fanno più,

caro Óscar.»«Partirà?» chiesi, osservando quello

che mi sembrava un pezzo da museo.«Ha di fronte a sé una Tucker, Óscar.

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Una macchina che non parte, de-colla.»Un’ora dopo pennellavamo le curve

della litoranea. Germán era al volante,equipaggiato con la sua tenuta dapioniere dell’automobilismo e unsorriso da lotteria. Io e Marinaviaggiavamo accanto a lui sul sedileante-riore, mentre Kafka dormivaplacidamente su quello posteriore, tuttoper lui. Tutte le auto ci superavano, ma iloro occupanti si voltavano a guardarela Tucker con un misto di stupore eammirazione.

«Quando c’è la classe, la velocità èsecondaria» spiegava Germán.

Eravamo già nei pressi di Blanes eio non sapevo ancora dove eravamo

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diretti. Germán era talmente assorto alvolante che non volli disturbare la suaconcentrazione. Guidava con la stessagalanteria con cui faceva ogni cosa,dando la precedenza perfino alleformiche e salutando ciclisti, passanti emotociclisti della Guardia Civil.Superata Blanes, un cartello strada-leannunciò la cittadina costiera di Tossade Mar. Mi voltai verso Marina che mifece l’occhiolino. Immaginai che forseandavamo al castello di Tossa, invece laTucker non entrò in paese, ma imboccòla stretta strada che, seguendo la costa,proseguiva verso nord. Più che unastrada, era una striscia d’asfalto sospesatra il cielo e le scogliere a strapiombo,

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che serpeggia-va in un susseguirsi dicurve a gomito. Tra i rami dei piniabbarbicati ai di-rupi scoscesi siscorgeva l’incandescente distesa azzurradel mare. Un cen-tinaio di metri sotto dinoi decine di calette e anse inaccessibilitracciavano un itinerario segreto fraTossa de Mar e Punta Prima, accanto alporto di Sant Feliu de Guíxols, a unaventina di chilometri.

Venti minuti dopo Germánparcheggiò la Tucker sul ciglio dellacarreg-giata. Marina mi guardò,facendomi segno che eravamo arrivati.Scendemmo dall’auto e Kafkascomparve tra i pini, come seconoscesse la strada. Mentre Germán si

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accertava che il freno a mano fosse beninserito e che la Tucker non scivolassegiù per il dirupo, Marina si avvicinòallo strapiombo sul mare. La raggiunsi econtemplai il panorama. Ai nostri piediuna caletta a forma di mezzalunaabbracciava una lingua di mare verdecri-stallino. Più in là, un avvicendarsi dispiagge e scogliere disegnava un arcofino a Punta Prima, sulla cui cima, comeuna sentinella, svettava l’eremo di 67

Sant Elm.«Su, andiamo» mi incitò Marina.La seguii nella pineta. Il sentiero

attraversava la proprietà di un’anticacasa abbandonata, invasa dagli arbusti.Da lì, alcuni gradini scavati nella roccia

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conducevano a una spiaggia di sassolinidorati. Al nostro passaggio uno stormodi gabbiani si alzò in volo, cercandorifugio sulle scogliere che coronavano laspiaggia, formando una specie dibasilica di roccia, mare e luce. L’acquaera così cristallina da poter scorgere,sotto la superficie, ogni rugosità dellasabbia. Un faraglione spuntava nel belmezzo della baia, simile alla prua di unanave arenata. Il profumo del mare eraintenso e una brezza salmastraaccarezzava la costa. Lo sguardo diMarina si perse nell’orizzonte d’argentoe di bruma.

«Questo è il mio posto preferito almondo» disse.

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Marina volle mostrarmi tutti glianfratti delle scogliere. Capii ben prestoche avrei finito per rompermi l’osso delcollo o per cadere in acqua.

«Non sono una capra» puntualizzai,nella speranza di introdurre un po’

di buonsenso in quella sorta dialpinismo senza funi.

Marina, ignorando le mie suppliche,si inerpicava sulle pareti levigate dalmare e si lasciava scivolare nellefenditure delle rocce dove la marearespirava come una balena pietrificata.E io, a rischio di perdere l’orgoglio,continuavo ad aspettare che da unmomento all’altro il destino miapplicas-se tutte le formule della legge

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di gravità. Ben presto, infatti, i mieiprono-stici si realizzarono. Marinaaveva saltato un minuscolo isolotto perispezionare una grotta tra gli scogli. Sec’era riuscita lei, mi dissi, tanto valevaprovarci anch’io. Un attimo dopo eroimmerso fino alla vita nelle acque delMediterraneo. Tremavo di freddo e divergogna. Marina, preoccupata, miosservava dagli scogli.

«Sto bene» gemetti. «Non mi sonofatto niente.»

«È fredda?»«Macché» balbettai. «È un brodo.»Marina sorrise e, sotto i miei occhi

attoniti, si tolse il vestito bianco e situffò in acqua. Riemerse accanto a me,

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ridendo. Era una pazzia, in quellastagione dell’anno. Però decisi di nonessere da meno. Nuotammo fino a rivacon energiche bracciate e poi cistendemmo al sole sui sassi tiepidi.

Sentii il cuore che mi batteva nelletempie, non so dire se a causa dell’ac-68

qua gelida o di quanto potevointravedere attraverso la biancheriafradicia di Marina. Lei si accorse deimiei sguardi e si alzò per recuperare ilvestito lasciato sugli scogli. La osservaicamminare sui sassi, i muscoli del corpotesi sotto la pelle umida. Mi passai lalingua sulle labbra salate e pensai cheavevo una fame da lupo.

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Passammo il resto del pomeriggio inquella caletta isolata dal mondo,divorando i panini della cesta mentreMarina mi raccontava l’insolita storiadella proprietaria di quella tenutaabbandonata tra i pini.

La casa era appartenuta a unascrittrice olandese che una stranamalattia degenerativa stava a poco apoco rendendo cieca. Consapevole delproprio destino, la scrittrice avevadeciso di costruirsi un rifugio sullascogliera e di trascorrere lì i suoi ultimigiorni di luce, seduta davanti allaspiaggia a guardare il mare.

«Viveva qui in compagnia di Sasha,un pastore tedesco, e dei suoi libri

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preferiti» mi spiegò Marina. «Quandoperse del tutto la vista, sapendo che isuoi occhi non avrebbero mai più potutoassistere al sorgere del sole sul mare,chiese a un gruppo di pescatori chegettavano l’ancora nei pressi della caladi occuparsi di Sasha. Qualche giornodopo, all’alba, prese una barca a remi esi spinse in alto mare. Nessuno la videmai più.»

Chissà perché, ebbi il sospetto chela storia della scrittrice olandese fosseun’invenzione di Marina e glielo fecicapire.

«A volte le cose più reali succedonosolo nell’immaginazione, Óscar»

disse lei. «Ricordiamo solo quello

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che non è mai accaduto.»Germán si era addormentato, la

faccia sotto il cappello e Kafka ai suoipiedi. Marina osservò il padre contristezza. Approfittando del sonno diGermán, la presi per mano e cidirigemmo all’altra estremità dellaspiaggia.

Lì, seduti su un letto di scoglilevigati dalle onde, le raccontai tuttoquello che era successo in sua assenza.Non trascurai nessun dettaglio, dallastrana apparizione della donna vestita dinero alla stazione fino alla storia diMichail Kolvenik e della Velo-Granellraccontatami da Benjamin Sentís, senzadimenticare la sinistra presenza nella

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sua casa di Sarriá in quella seratempestosa. Mi ascoltò in silenzio,assente, con lo sguardo perso nell’acquache formava piccoli gorghi ai suoi piedi.Rimanemmo a lungo così, senza parlare,osservando in lontananza la sagomadell’eremo di Sant Elm.

69«Cos’ha detto il medico di La Paz?»

chiesi alla fine.Marina sollevò lo sguardo. Il sole

stava calando e un raggio ambrato mirivelò i suoi occhi appannati dallelacrime.

«Che non resta molto tempo…»Mi voltai e vidi Germán che ci

salutava con la mano. Provai una stretta

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al cuore, e un groppo insopportabile mistrinse la gola.

«Lui non ci crede» disse Marina.«Meglio così.»

La guardai di nuovo: si era asciugatale lacrime in tutta fretta e ostenta-vaun’espressione ottimista. Mi sorpresi afissarla e, senza sapere dove avessitrovato il coraggio, mi chinai sul suoviso in cerca della sua bocca.

Marina mi appoggiò le dita sullelabbra e mi accarezzò il volto,respingen-domi con delicatezza. Unattimo dopo si alzò e si allontanò.Sospirai.

Mi alzai anch’io e raggiunsi Germán,che stava disegnando su un qua-dernetto

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di appunti. Ricordai che erano anni chenon prendeva in mano una matita o unpennello. Germán alzò gli occhi e misorrise.

«Le sembra somigliante, Óscar?»chiese sereno, mostrandomi il quaderno.

I tratti della matita avevano evocatoil volto di Marina con una perfezionesconvolgente.

«È magnifico» mormorai. «Lepiace? Sono contento.»

Il profilo di Marina si stagliavaall’altra estremità della spiaggia,immobile di fronte al mare. Germánguardò prima lei e poi me. Strappò ilfoglio e me lo tese.

«È per lei, Óscar, perché non si

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dimentichi della mia Marina.»Al ritorno il tramonto trasformò il

mare in una tavola di rame fuso.Germán guidava sorridendo e non la

smetteva di raccontare aneddoti suglianni passati al volante di quella vecchiaTucker. Marina lo ascoltava, ridendodelle sue trovate, e sosteneva laconversazione con invisibili fili damaga. Io me ne stavo zitto, con la fronteappoggiata al finestrino e il morale nellecalze. A metà strada, Marina mi prese lamano in silenzio e la strinse fra le sue.Arrivammo a Barcellona all’imbrunire.Germán volle a tutti i costiaccompagnarmi in collegio. Parcheggiòla Tucker davanti al cancello e mi

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strinse la mano. Marina scese dall’autoed entrò con me. La 70

sua presenza mi bruciava e nonsapevo come uscire da quella situazione.

«Óscar, se c’è qualcosa…»«No.»«Vedi, Óscar, ci sono cose che non

puoi capire, ma…»«Questo è evidente» tagliai corto.

«Buona notte.»Mi girai per fuggire attraverso il

giardino.«Aspetta» disse Marina dal

cancello.Mi fermai accanto allo stagno.«Voglio che tu sappia che oggi è

stato uno dei più bei giorni della mia

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vita» disse.Quando mi voltai per rispondere

Marina se n’era già andata.Salii le scale come se indossassi

stivali di piombo. Incrociai qualchecompagno che mi guardò di soppiatto,quasi fossi uno sconosciuto. L’interocollegio mormorava sulle miemisteriose assenze. Non mi importava.Presi il quotidiano dal tavolo sulpianerottolo e mi rifugiai nella miastanza. Mi stesi a letto con il giornalesul petto. Sentii delle voci in corridoio.Accesi la lampada del comodino e miimmersi nel mondo, per me irreale, delquotidiano. Mi sembrava di leggere ilnome di Marina in ogni rigo. “Passerà”

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pensai. A poco a poco, il susseguirsidelle notizie mi placò. Niente di meglioche immergersi nei problemi altrui perdimenticare i propri. Guerre, truffe,omicidi, frodi, inni, sfilate e partite dicalcio. Il mondo era sempre lo stesso.Continuai a leggere, più tranquillo.All’inizio non lo notai. Era un trafiletto,una breve per riempire spazio. Piegai ilgiornale e lo avvicinai al-la luce.

RITROVATO CADAVERE IN UNTUNNEL

DELLA RETE FOGNARIA DELBARRIO GÓTICO

(Barcellona) Gustavo Berceo,redazione

Il corpo di Benjamin Sentís,

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barcellonese di ottantatré anni, è statoritrovato all’alba di venerdìall’imbocco del quarto collettore dellarete fognaria della Ciutat Velia. Siignora come il cadavere possa esserefinito in quel tratto, chiuso dal 1941.La causa della morte è stata attribuitaa un 71

arresto cardiaco. Da nostre fonti,tuttavia, risulta che al corpo deldefunto sono state amputate entrambele mani. Benjamin Sentís, pensionato,aveva avuto una certa notorietà neglianni Quaranta perché coinvolto nelloscandalo dell’impresa Velo-Granell,della quale era stato azionista. Negliultimi anni viveva relegato in un

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piccolo appartamento di callePrincesa, senza parenti e quasi inrovina.

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12Passai la notte in bianco,

rimuginando sul racconto di Sentís.Lessi e ri-lessi la notizia della suamorte, sperando di scovare qualchechiave segreta tra i punti e le virgole. Ilvecchio mi aveva nascosto di essere luiil socio di Kolvenik nella Velo-Granell.Se il resto della sua storia reggeva,dedussi che Sentís doveva essere ilfiglio del fondatore dell’azienda, ilfiglio che aveva ereditato il cinquantaper cento delle azioni quando Kolvenikera stato nominato direttore generale.Questa scoperta cambiava le carte intavola.

Se Sentís mi aveva mentito su quel

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punto poteva averlo fatto anche su tuttoil resto. La luce del giorno mi sorpresementre cercavo di interpretare ilsignificato di quella storia e la suaconclusione.

Quello stesso martedì me la svignaidurante l’intervallo di mezzogiorno perincontrare Marina.

Lei, che per l’ennesima voltasembrava avermi letto nel pensiero, miaspettava in giardino con una copia delquotidiano del giorno prima tra le mani.

Mi bastò un semplice sguardo percapire che aveva già letto la notiziadella morte di Sentís.

«Quell’uomo ti ha mentito…»«E adesso è morto.»

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Marina diede un’occhiata velocealla casa, come temendo che Germánpotesse sentirci.

«Meglio se facciamo un giretto»propose.

Accettai, anche se dovevo rientrarein classe dopo meno di mezz’ora. Inostri passi ci portarono verso il parcodi Santa Amelia, ai confini del quartieredi Pedralbes. Un palazzo restaurato direcente, divenuto sede di un centrocivico, sorgeva nel cuore del parco. Unodegli antichi saloni adesso ospitava unbar. Ci sedemmo a un tavolino accanto aun’ampia vetrata. Marina lesse ad altavoce la notizia che io avevo quasiimparato a memoria.

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«Non c’è scritto da nessuna parteche si è trattato di un omicidio» azzardòalla fine, poco convinta.

73«Non ce n’è bisogno. Un uomo che

ha vissuto per vent’anni chiuso in unappartamento viene ritrovato cadaverenelle fogne, dove qualcuno si è di-vertito a strappargli le mani, così, persovrappiù, prima di abbandonare ilcorpo…»

«D’accordo. È un omicidio.»«È più di un omicidio» dissi, con i

nervi a fior di pelle. «Cosa ci facevaSentís, in piena notte, in un tunnelabbandonato della rete fognaria?»

Un cameriere annoiato che asciugava

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bicchieri dietro il bancone ci ascoltava.«Abbassa la voce» sussurrò Marina.Annuii e cercai di calmarmi.«Forse dovremmo andare alla

polizia e raccontare quello chesappiamo»

suggerì Marina.«Ma non sappiamo niente» obiettai.«Magari ne sappiamo più di loro.

Una settimana fa una donna misteriosa tifa recapitare un biglietto da visita conl’indirizzo di Sentís e il simbolo dellafarfalla nera. Tu lo vai a trovare e luisostiene di non sapere nulla, pe-rò tiracconta una strana storia su MichailKolvenik e la ditta Velo-Granell,implicata in un torbido giro di affari

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quarant’anni prima. Per qualche ragionesi dimentica di dirti che anche lui eracoinvolto in quella storia, in quantofiglio del socio fondatore, l’uomo percui Kolvenik aveva creato due maniartificiali in seguito a un incidente infabbrica… Sette giorni dopo Sentísviene trovato morto nelle fogne…»

«Senza le protesi…» aggiunsi,ricordando che Sentís aveva evitato distringermi la mano quando ci eravamoincontrati.

Al pensiero di quella mano rigidarabbrividii.

«Per qualche motivo quando siamoentrati in quella serra abbiamo inter-ferito nei piani di qualcuno» dissi,

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tentando di mettere ordine nella miatesta. «E adesso anche noi siamocoinvolti. La dama in nero mi ha cercatoper darmi quel biglietto…»

«Óscar, non siamo sicuri checercasse proprio te e, soprattutto, nonabbiamo idea del perché. Non sappiamoneppure chi è…»

«Ma lei sa chi siamo noi e dovetrovarci. E se lo sa lei…»

74Marina sospirò.«Chiamiamo subito la polizia e

dimentichiamoci al più presto di questastoria» disse. «Non mi piace, e poi nonsono fatti nostri.»

«Lo sono, da quando abbiamo

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deciso di seguire la donna nelcimitero…»

Marina sviò lo sguardo verso ilparco. Due bambini giocavano con unaquilone, cercando di fargli prenderequota. Senza distogliere gli occhi daloro, mormorò lentamente:

«Cosa suggerisci, allora?».Sapeva esattamente cosa mi frullava

per la testa.Il sole tramontava dietro la chiesa di

Plaza Sarriá quando io e Marinaimboccammo il Paseo de la Bonanovadiretti alla serra. Ci eravamo pre-munitidi una pila e di una scatola difiammiferi. Svoltammo in calle Iradier eci addentrammo nelle viuzze solitarie

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che fiancheggiavano i binari dellaferrovia. L’eco dei treni che risalivanola collina verso Vallvidrera ciraggiungeva attraverso gli alberi.Ritrovammo ben presto la stradina doveavevamo perso di vista la dama in neroe il portone dietro il quale sinascondeva la serra.

Un tappeto di foglie secche rivestivail selciato. Ombre gelatinose siallungavano intorno a noi mentre cifacevamo strada tra le erbacce. Gliarbusti sibilavano al vento e il voltodella luna sorrideva dagli interstizi trale nubi. Al calar del buio l’edera chericopriva la serra mi fece pensare a unachioma di serpenti. Girammo intorno al

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fabbricato e trovammo la porta sul retro.Il chiarore di un fiammifero illuminò ilsimbolo di Kolvenik e della Velo-Granell, velato dal muschio. Deglutii eguardai Marina: era pallida come uncadavere.

«È stata tua l’idea di tornare qui…»disse.

Accesi la pila e la sua luce rossastraperforò l’oscurità della serra. Prima dientrare diedi un’occhiata all’interno.Alla luce del giorno quel posto mi erasembrato sinistro. Adesso, di notte, miparve uno scenario da incubo. Il fasciodella pila rivelava contorni sinuosi trale macerie. Procedevo seguito daMarina, con la pila puntata davanti a me.

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Il pavimento umido scricchio-lava sottoi nostri piedi. Fummo raggiunti dallospaventoso rumore delle marionette chesi sfioravano l’una con l’altra. Mifermai ad ascoltare quel sudariod’ombre nel cuore della serra. Per unistante non riuscii a ricordare 75

se la volta precedente, uscendo,avevamo lasciato alzato o abbassato ilmeccanismo da cui pendevano le figuredi legno. Guardai Marina e capii cheanche lei stava pensando la stessa cosa.

«C’è stato qualcuno dall’ultimavolta…» disse, indicando le marionetteche penzolavano a mezza altezza dalsoffitto.

Un mare di piedi dondolava davanti

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a noi. Sentii un brivido di terrore al-labase della nuca quando capii chequalcuno le aveva abbassate di nuovo.

Senza perdere altro tempo, corsiverso la scrivania e passai la pila aMarina.

«Cosa stiamo cercando?» bisbigliò.Indicai l’album di vecchie foto

poggiato sul tavolo. Lo presi e lo misinella borsa che portavo in spalla.

«Quell’album non è nostro, Óscar,non so se…»

Ignorai le sue proteste e miinginocchiai per ispezionare i cassettidella scrivania. Il primo conteneva ognitipo di attrezzi arrugginiti, coltelli, puntedi ferro e seghe sdentate. Il secondo era

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vuoto. Una Colonia di piccoli ragni neriscorrazzava sul fondo cercando rifugiotra le fessure del legno. Lo chiusi etentai la sorte con il terzo cassetto. Laserratura era bloccata.

«Cosa succede?» sussurrò Marina,con la voce carica di agitazione.

Presi un coltello dal primo cassettoe tentai di forzare la serratura. Marina,dietro di me, reggeva la pila,osservando le ombre danzanti che scivo-lavano sulle pareti della serra.

«Ti manca molto?»«Tranquilla. È questione di un

attimo.»Riuscivo a sentire con la lama il

fermo della serratura. Seguendone i

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contorni, gli scavai tutt’intorno. Quellegno secco, marcio, cedeva con facilitàalla mia pressione, scricchiolandorumorosamente. Marina si accovacciòaccanto a me e posò la pila a terra.

«Cos’è questo rumore?» chieseall’improvviso.

«Niente. È il legno del cassetto cheormai sta cedendo…»

Appoggiò una mano sulle mieimpedendomi ogni movimento. Per unattimo ci avvolse il silenzio. Avvertii ilbattito accelerato del polso di Marinasulla mia mano. Allora sentii anch’ioquel suono. Lo scricchiolio delle travi làin alto. Qualcosa si stava muovendo trale marionette appese nell’oscuri-76

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tà. Aguzzai la vista, giusto in tempoper scorgere i contorni di un braccio, oalmeno così mi parve, che si muovevasinuosamente. Una delle marionette sistava staccando dal tramezzo escivolava come un aspide tra i rami.Altre cominciarono a muoversiall’unisono. Strinsi forte il coltello e mialzai, tremando. In quel preciso istantequalcuno o qualcosa spinse via la piladai nostri piedi. Rotolò in un angolo e ciritrovammo immersi nella più totaleoscurità. Fu allora che sentimmo quelsibilo che si avvicinava.

Afferrai la mano della mia amica eci precipitammo verso l’uscita mentre lastruttura meccanica calava lentamente e

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una foresta di braccia e di gambe cisfiorava le teste, cercando diaggrapparsi ai nostri vestiti. Sentii delleunghie di metallo sulla nuca e Marina almio fianco che gridava. La spinsidavanti a me, nel tentativo dioltrepassare quel tunnel di creature chescendevano dalle tenebre. I raggi dellaluna che filtravano tra le fessure lasciatedall’edera della serra svelavano visionidi volti esangui, occhi di vetro edentature smaltate.

Sferrai coltellate a destra e a manca.Sentii che avevo graffiato un corpo duro.Un fluido spesso mi impregnò le dita.Ritrassi la mano; qualcosa trascinavaMarina, che urlava terrorizzata, verso

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l’oscurità. Riuscii a scorgere il voltosenza sguardo, dalle orbite vuote e nere,della ballerina di legno.

Stringeva la gola di Marina con ditaaffilate come rasoi. Il volto eraricoperto da una maschera di pellemorta. Mi avventai su di lei con tutte lemie forze e la gettai a terra. Ciprecipitammo verso la porta mentre ilfantoccio decapitato della ballerina sirialzava, un burattino mosso da filiinvisibili con artigli che facevaschioccare come se fossero forbici.

Fuori dalla serra vidi parecchiesagome scure che ci sbarravano il passoverso l’uscita. Corremmo nelladirezione opposta e raggiungemmo una

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rimessa addossata al muro che dividevala proprietà dai binari del treno. Leporte a vetri del garage erano ricoperteda decenni di lerciume. Chiuse.

Ruppi il vetro con una gomitata ecercai a tentoni la serratura. La manigliacedette e la porta si aprì verso l’interno.Entrammo in fretta e furia. Le finestresul retro disegnavano due chiazze dichiarore lattiginoso, oltre le quali siscorgeva la ragnatela della lineaelettrica del treno. Marina si voltò unistante per guardarsi alle spalle. Dellefigure spigolose si stagliavano sullaporta della rimessa.

«Presto!» gridò.Mi guardai attorno, disperato,

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cercando qualcosa per rompere il vetro77

della finestra. La carcassaarrugginita di una vecchia automobilemarciva nell’oscurità. La manovella delmotore era al suo posto. L’afferrai ecolpii varie volte la finestra,proteggendomi dalla pioggia di scheggedi vetro. La brezza notturna mi soffiòsulla faccia e sentii l’aria viziata cheesalava dall’imboccatura del tunnel.

«Da questa parte!»Marina si issò sulla finestra mentre

io osservavo le figure che serpeg-giavano lentamente verso l’interno delgarage. Brandii la manovella con tutte edue le mani. All’improvviso i fantocci si

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fermarono e arretrarono di un passo. Liguardai senza capire e solo allora sentiiquel rumore meccani-co, proprio sopradi me. Saltai istintivamente verso lafinestra, nell’istante in cui un corpo silasciava cadere dal soffitto. Riconobbiil poliziotto senza braccia. Il suo voltomi sembrò coperto da una rozzamaschera di pelle morta. Le cucituresanguinavano.

«Óscar!» urlò Marina dall’altraparte della finestra.

Mi lanciai tra le fauci di vetroscheggiato. Una lama aguzza mi tagliò lastoffa dei pantaloni, e sentii che mi aprìuno squarcio nella carne. Quandoatterrai, avvertii un dolore intenso. Un

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rivolo di sangue tiepido mi scendevalungo la gamba, sotto i pantaloni. Marinami aiutò a rialzarmi e ci tra-scinammoverso i binari del treno. In quel momentoqualcosa mi afferrò una caviglia e caddia faccia in giù sulle rotaie. Mi girai,stordito. La mano di una mostruosamarionetta mi stringeva il piede. Miappoggiai su un binario e avvertii lavibrazione del metallo. La luce lontanadi un treno si ri-flesse sui muri. Sentii lostridio delle ruote e la terra che tremavasotto di me.

Marina soffocò un gemito quando siaccorse che un treno si avvicinava atutta velocità. Si inginocchiò ai mieipiedi e ingaggiò una lotta furiosa con le

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dita di legno che mi imprigionavano. Leluci del treno la illuminarono. Sentii ilfischio della locomotiva. Il burattino sene stava fermo, senza mollare la presa,indomito. Marina combatteva conentrambe le mani per liberarmi.Finalmente, un dito cedette. Lei sospirò.Un attimo dopo il fantoccio si rialzò econ l’altra mano afferrò il braccio diMarina. Con la manovella che tenevoancora in mano colpii con tutte le mieforze al volto quella figura inerte fino afracassargli il cranio. Notai con orroreche ciò che avevo scambiato per legnoera invece osso. C’era vita in quellacreatura.

78

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Il ruggito del treno si fece assordantee coprì le nostre grida. I sassi fra ibinari vibravano. Fummo avvolti dalfascio di luce della locomotiva. Chiusigli occhi e continuai a colpire come unossesso quella macabra marionettafinché non sentii la testa staccarsi dalcorpo. Solo allora le sue grinfiemollarono la presa. Rotolammo sullepietre della massicciata, abbagliati dallaluce. Tonnellate di acciaio passarono apochi centimetri da noi, in una pioggiadi scintille. I frammenti di quel mostroschizzarono da tutte le parti, crepitandocome le braci di un falò.

Passato il treno, riaprimmo gliocchi. Mi voltai verso Marina e annuii

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per farle capire che stavo bene. Cirialzammo lentamente. Allora sentii lafitta di dolore alla gamba. Marina sifece passare il mio braccio sulle spalle,e così riuscii ad attraversare i binari.Quando ci voltammo a guardareindietro, qualcosa si muoveva tra lerotaie, brillando alla luce della luna.

Era una mano di legno, tranciatadalle ruote del treno. Si agitava con spa-smi sempre più distanziati, poi si fermòdel tutto. Senza scambiare una parolarisalimmo in mezzo agli arbusti esbucammo in un vicolo che portava incalle Angli. Le campane della chiesasuonavano in lontananza.

Per fortuna, quando rientrammo a

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casa Germán dormicchiava nello studio.Senza fare rumore, Marina mi portò inuno dei bagni per disinfettarmi la feritaalla luce delle candele. Le pareti e ilpavimento erano rivestiti di piastrellesmaltate che riflettevano le fiammelle.Una monumentale vasca da bagno chepoggiava su quattro piedi di ferrocampeggiava nel centro.

«Togliti i pantaloni» disse Marinavoltandomi le spalle, mentre frugavanell’armadietto dei medicinali.

«Cosa?»«Mi hai sentito.»Feci quello che mi ordinava e stesi

la gamba sul bordo della vasca. Il taglioera più profondo di quanto immaginassi

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e i contorni della ferita erano di un rossopurpureo. Mi venne la nausea. Marina siinginocchiò accanto a me ed esaminò iltaglio con attenzione.

«Ti fa male?»«Solo quando lo guardo.»La mia infermiera improvvisata

prese del cotone imbevuto di alcol e loavvicinò alla gamba.

«Ti brucerà…»79Quando l’alcol morse la ferita strinsi

il bordo della vasca con tanta forza dalasciarci impresse le impronte digitali.

«Mi dispiace» sussurrò Marina,soffiando sul taglio.

«Dispiace più a me.»

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Respirai a fondo e chiusi gli occhi,mentre lei continuava a disinfettaremeticolosamente la ferita. Alla fine,prese una benda dall’armadietto el’applicò sul taglio. Assicurò il cerottocon mano esperta, senza distogliere gliocchi da quello che stava facendo.

«Non ce l’avevano con noi» disseMarina.

Non riuscivo a capire a cosa siriferisse.

«Le marionette della serra» aggiunsesenza guardarmi. «Volevano l’album.Non avremmo dovuto prenderlo…»

Mentre mi metteva un’altra bendapulita, sentii il suo respiro sulla pelle.

«A proposito dell’altro giorno, al

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mare…» iniziai.Marina si fermò e alzò lo sguardo.«Niente.»Fissò l’ultimo cerotto e mi osservò

in silenzio. Pensai che stesse per dirmiqualcosa, invece si alzò e uscì dalbagno.

Restai solo, in compagnia dellecandele e di un paio di pantaloni inser-vibili.

80

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13Quando rientrai in collegio, a

mezzanotte passata, tutti i miei compagnierano già a letto, anche se dalle loroserrature filtrava qualche lama di luceche illuminava il corridoio. Sgattaiolainella mia stanza in punta di piedi.

Chiusi la porta senza fare rumore eguardai la sveglia sul comodino. Quasil’una. Accesi la lampada e tirai fuoridalla borsa l’album che avevamo presonella serra.

Lo aprii e mi immersi di nuovo inquella galleria degli orrori. Una fotomostrava una mano le cui dita eranounite da membrane, come quelle di unanfibio. Accanto, una bambina dai

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riccioli biondi, vestita di bianco,esibiva un sorriso quasi demoniaco, concanini simili a zanne che le spuntavanodalle labbra. Pagina dopo pagina, misfilò davanti agli occhi una crudeleteoria di capricci della natura. Duefratelli albini dalla pelle così chiara cheil chiarore di una candela sembravabastasse a bruciarla. Siamesi uniti per ilcranio, costretti a guardarsi negli occhiper tutta la vita. Il corpo nudo di unadonna dalla Colonna vertebrale contortacome un ramo secco… Molti eranobambini o adolescenti, moltisembravano più giovani di me. Non c’e-ra quasi nessun adulto o anziano. Eraevidente che le speranze di vita di

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quegli infelici erano minime.Ricordai le parole di Marina:

quell’album non era nostro e nonavremmo dovuto appropriarcene.Adesso, svanita ogni traccia diadrenalina, quell’idea assunse un nuovosignificato. Stavo profanando dei ricordiche non mi appartenevano. Percepivoche quel concentrato di disgrazie era, amodo suo, un album di famiglia. Losfogliai varie volte, credendo dicogliere tra le immagini un legame al dilà dello spazio e del tempo. Poi lorichiusi e lo infilai di nuovo in borsa.Quando spensi la luce mi tornò allamente l’immagine di Marina checamminava sulla spiaggia deserta. La

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vidi allontanarsi lungo la riva finché ilsonno zittì lo sciabordio della marea.

Per un giorno la pioggia si stancò diBarcellona e si spostò verso nord.

Come un bandito, me la svignai dalcollegio saltando l’ultima lezione delpomeriggio per incontrare Marina. Lenuvole si erano aperte in un telone 81

azzurro. Una lingua di soleaccarezzava le strade. Lei mi aspettavain giardino, concentrata sul suo diariosegreto. Non appena mi vide si affrettò achiuderlo. Mi chiesi se stesse scrivendosu di me o su quello che era successonella serra.

«Come va la gamba?» domandò,stringendo il diario tra le braccia.

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«Sopravviverò. Vieni, voglio fartivedere una cosa.»

Presi l’album e mi sedetti accanto alei sul bordo della fontana. Lo aprii esfogliai le pagine. Marina sospirò,turbata da quelle immagini.

«Eccola qui» dissi, fermandomi suuna delle ultime foto. «Stamattina,svegliandomi, mi è venuto in mente.Finora non ci avevo fatto caso, maoggi…»

Marina osservò la foto che le stavomostrando. Era un’immagine in bianco enero, stregata dalla strana nitidezza chesolo i vecchi ritratti in studiopossiedono. Vi si vedeva un uomo dalcranio brutalmente deforme, la cui spina

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dorsale riusciva a malapena asorreggerlo. Si appoggiava a unapersona giovane che portava un camicebianco, occhiali rotondi e un cravattinoche faceva pendant con un paio dibaffetti estremamente curati. Un medico.Il dottore fissava l’obiettivo. Il pazientesi copriva gli occhi con la mano, comese si vergognasse della propriacondizione. Dietro di loro, siintravedevano il paravento di unospogliatoio e quello che sembrava unostudio medico. In un angolo, c’era unaporta socchiusa. Da quella porta facevacapolino una bambina con una bambolain braccio che osservava timidamente lascena. La fotografia sembrava più che

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altro un documento da archivio medico.«Guarda bene» insistetti.«Vedo solo un poveraccio che…»«Non guardare lui. Guarda dietro di

lui.»«Una finestra…»«E cosa si vede dalla finestra?»Marina aggrottò la fronte.«Lo riconosci?» chiesi, indicando la

statua del drago che decorava la facciatadi un palazzo, sul marciapiede oppostorispetto alla stanza dove era statascattata la fotografia.

«L’ho già visto da qualche parte…»82«È sembrato anche a me» confermai.

«Qui a Barcellona. Sulle Ramblas, di

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fronte al Teatro del Liceo. Ho guardato eriguardato tutte le foto, ma questa èl’unica scattata a Barcellona.»

La staccai dall’album e la tesi aMarina. Sul retro, in caratteri quasicancellati, si leggeva:

Studio fotografico Martorell-Borrás -1951

Copia - Dottor Joan ShelleyRambla de los Estudiantes 46-48,1°

Barcellona Marina fece spallucce e mela restituì.

«Questa foto è stata scattata quasitrent’anni fa, Óscar… Non significanulla…»

«Stamattina ho guardato l’elenco deltelefono. Quel tale, il dottor Shelley,

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abita ancora al primo piano del numero46-48 della Rambla de los Estudiantes.Il nome mi diceva qualcosa. Poi mi sonoricordato delle parole di Sentís: il dottorShelley è stato il primo amico diMichail Kolvenik a Barcellona…»

Marina mi squadrò.«E tu, per festeggiare, non ti sei

limitato a consultare l’elenco…»«Ho chiamato» ammisi. «Mi ha

risposto la figlia del dottor Shelley,Maria. Le ho detto che dovevamoparlare con il padre per una questionedella massima importanza.»

«Ti ha preso sul serio?»«All’inizio no, ma quando ho fatto il

nome di Michail Kolvenik le è cambiata

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la voce. E il padre ha accettato diincontrarci.»

«Quando?»Guardai il mio orologio.«Tra una quarantina di minuti.»Prendemmo il metrò fino a Plaza de

Cataluña. Era quasi buio quandosalimmo le scale che portavano insuperficie, all’imbocco delle Ramblas.

Natale era alle porte e la città eraaddobbata da un tripudio di luminarieche 83

disegnavano spettri multicolorisopra il viale. Stormi di colombesvolazzavano tra caffè e chioschi difiori, musicisti ambulanti e mimi, turistie gente del posto, poliziotti e truffatori,

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tipi di città e fantasmi di altri tempi.Germán aveva ragione: non c’eraun’altra strada come quella in tutto ilmondo.

La sagoma del Gran Teatro del Liceosi stagliò davanti a noi. Era seratad’opera e le luci della pensilinasfavillavano come un diadema didiamanti.

Sul marciapiede oppostoriconoscemmo il drago verde della fotoche contemplava la folla da un angolodella facciata. Pensai che la storia avevariservato a san Giorgio gli altari e isantini, ma al drago era toccata la sortedi vegliare per l’eternità sulla città diBarcellona.

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Il vecchio studio medico del dottorJoan Shelley era al primo piano di unvecchio palazzo dall’aria signorile edall’illuminazione funebre.Attraversammo un atrio cavernoso dacui partiva una sontuosa scalinata aspira-le. I nostri passi si perseronell’eco delle scale. Notai che ibatacchi delle porte, in ferro battuto,riproducevano volti di angeli. Vetrate dacattedrale decoravano il lucernario,trasformando il palazzo nel più grandecaleidoscopio del mondo. Il primopiano, come spesso accadeva negliedifici dell’epoca, era in realtà il terzo.Superato il mezzanino e il pianopadronale, ci ritrovammo davanti a un

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uscio sul quale una vecchia targa dibronzo annunciava: Dr. Joan Shelley.Guardai l’orologio. Mancavano dueminuti all’ora convenuta quando Marinabussò alla porta.

La donna che ci ricevette sembravauscita da un’immaginetta religiosa.

Evanescente, virginea, coronata daun’aura mistica. La pelle era nivea,quasi trasparente; gli occhi talmentechiari da non avere quasi colore. Unangelo senza ali.

«Signora Shelley?» chiesi concortesia.

La donna confermò, lo sguardoacceso dalla curiosità.

«Buona sera» esordii. «Mi chiamo

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Óscar. Ho parlato con lei stamattina…»«Mi ricordo. Prego, avanti…»Ci fece entrare. Maria Shelley si

muoveva al rallentatore, come unaballerina che danza tra le nubi. Era dicorporatura fragile e profumava diacqua di rose. Calcolai che dovevaavere una trentina d’anni, ma sembravapiù giovane. Aveva un polso bendato eun foulard le avvolgeva il collo da 84

cigno. L’ingresso era una stanzascura, carica di velluti e di specchianneriti. La casa odorava di museo,come se l’aria vi fosse stataimprigionata per decenni.

«Le siamo molto grati per averciricevuto. Questa è la mia amica

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Marina.»Lo sguardo di Maria si posò su

Marina. Mi è sempre sembrato affasci-nante osservare come le donne sistudiano a vicenda. Quella volta noncostituì un’eccezione.

«Molto piacere» disse alla fineMaria Shelley, strascicando le parole.

«Mio padre è un uomo anziano, dalcarattere un po’ volubile. Vi prego dinon affaticarlo.»

«Non si preoccupi» disse Marina.Ci fece segno di seguirla. Maria

Shelley si muoveva davvero con un’ela-sticità vaporosa.

«Mi ha detto di possedere una cosaappartenuta al defunto signor

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Kolvenik?» chiese Maria.«L’ha conosciuto?» domandai a mia

volta.Il suo volto s’illuminò al ricordo di

altri tempi.«In realtà, no… Ma ne ho sentito

parlare molto. Da bambina» disse quasitra sé.

Dalle pareti tappezzate di vellutonero pendevano immaginette di santi,vergini e martiri in agonia. I tappetierano scuri e assorbivano la scarsa luceche filtrava dalle persiane chiuse.Mentre seguivamo la padrona di casalungo il corridoio, mi chiesi da quantotempo abitasse lì, sola con il padre.

Si era sposata, aveva vissuto, amato

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o conosciuto qualcos’altro al di làdell’oppressivo universo di quellequattro mura?

Maria Shelley si fermò davanti a unaporta scorrevole e bussò con le nocche.

«Papà?»Il dottor Joan Shelley, o ciò che ne

rimaneva, era seduto su una poltronadavanti al fuoco, sotto strati di coperte.La figlia ci lasciò soli con lui. Cercai didistogliere lo sguardo dal suo vitino davespa mentre usciva dalla stanza.L’anziano dottore, in cui a stento sipoteva riconoscere l’uomo del ritrattoche avevo nel taschino, ci studiava insilenzio. I suoi occhi stillava-85

no diffidenza. Una mano tremava

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leggermente sul bracciolo dellapoltrona.

Un aroma di acqua di Coloniacopriva a malapena il puzzo dellamalattia.

Il sorriso sarcastico non nascondevail disgusto che gli ispiravano il mondo ele proprie condizioni.

«Il tempo fa con il corpo ciò che lastupidità fa con l’anima» disse,indicando se stesso. «Lo corrompe.Cos’è che volete?»

«Ci chiedevamo se poteva parlarcidi Michail Kolvenik.»

«Potrei, ma non vedo perché dovreifarlo» tagliò corto il dottore. «Se ne èparlato fin troppo a suo tempo e sono

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circolate un mucchio di bugie. Se lagente pensasse un quarto di quanto parla,questo mondo sarebbe il paradiso.»

«Sì, ma noi siamo interessati allaverità» puntualizzai.

L’anziano fece una smorfia beffarda.«La verità non si trova, ragazzo. È

lei che trova noi.»Mi sforzai di sorridere docilmente,

ma cominciavo a sospettare chequell’uomo non intendeva aprire bocca.Marina, intuendo i miei timori, presel’iniziativa.

«Dottor Shelley» disse con dolcezza,«per puro caso siamo entrati in possessodi un album fotografico che forse èappartenuto al signor Michail Kolvenik.

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In uno dei ritratti lei compare insieme aun suo paziente. Ecco perché ci siamopermessi di disturbarla, con la speranzadi restituire l’album al legittimoproprietario o a chi eventualmentespetta.»

Stavolta Shelley non rispose con unafrase lapidaria. Osservò Marina, senzanascondere una certa sorpresa. Midomandai perché non era venuto inmente a me uno stratagemma comequello. Decisi che era meglio lasciare aMarina l’onere della conversazione.

«Non so di quali fotografie stiaparlando, signorina…»

«Di una serie di immagini chemostrano pazienti colpiti da gravi

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malformazioni…» chiarì Marina.Gli occhi del dottore brillarono.

Avevamo toccato un nervo scoperto.Dopo tutto, c’era ancora vita sotto

quelle coperte.«Cosa le fa pensare che l’album sia

appartenuto a Michail Kolvenik?»domandò, fingendo indifferenza. «O

che io c’entri qualcosa?»«Sua figlia ci ha detto che eravate

amici» disse Marina, cambiando ar-86gomento.«Maria possiede la virtù

dell’ingenuità» ribatté Shelley con tonoostile.

Marina annuì, si alzò in piedi e mifece segno di fare altrettanto.

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«Capisco» disse cortese. «Vedo checi siamo sbagliati. Ci spiace di averladisturbata, dottore. Andiamo, Óscar.Troveremo qualcuno a cui con-segnarel’album…»

«Un momento» la interruppe Shelley.Si schiarì la voce e ci indicò le

sedie.«Avete ancora quell’album?»Marina annuì, sostenendo lo sguardo

del vecchio. All’improvviso, Shelleyproruppe in quella che doveva essereuna risata. Fece il rumore di un vecchiogiornale che viene accartocciato.

«Come posso sapere che dite laverità?»

Marina mi impartì un ordine muto.

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Tirai fuori dalla tasca la fotografia e ladiedi al dottor Shelley. La prese conmano tremante e la esaminò. La studiò alungo. Alla fine, con gli occhi fissi sullefiamme, cominciò a parlare.

Il dottor Shelley ci raccontò che erafiglio di padre britannico e madrecatalana. Si era specializzato intraumatologia all’ospedale di Bourne-mouth. Quando si trasferì a Barcellonala sua condizione di straniero gli sbarròle porte dei circoli sociali in cui siforgiavano le carriere più promet-tenti.Tutto quello che riuscì a ottenere fu unlavoro nell’infermeria del carcere. Cosìfu lui a curare Michail Kolvenik quandorimase vittima di un brutale pestaggio in

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cella. A quei tempi Kolvenik nonparlava castigliano né catalano. Ebbe lafortuna di imbattersi in Shelley chemasticava un po’

di tedesco. Il medico gli prestò ildenaro per comprarsi dei vestiti, loospitò a casa sua e lo aiutò a trovarelavoro alla Velo-Granell. Kolvenik gli siaffezionò moltissimo e non dimenticòmai la sua generosità. Tra i due nacqueuna profonda amicizia.

In seguito quell’amicizia sarebbesfociata anche in un rapporto profes-sionale. Molti pazienti del dottorShelley avevano bisogno di prodottiortopedici e di protesi speciali. La Velo-Granell era un’azienda leader nel settore

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e, tra i suoi progettisti, quello dotato dimaggior talento era Michail Kolvenik.Con il passare del tempo Shelleydivenne il suo medico personale.

87Quando la sorte gli sorrise,

Kolvenik decise di aiutare l’amicofinanziando la creazione di un centromedico specializzato nello studio e nellacura di malattie degenerative emalformazioni congenite.

L’interesse di Kolvenik per quelramo della medicina risaliva alla sua in-fanzia a Praga. Shelley ci spiegò che lamadre dell’amico aveva dato alla lucedue gemelli. Uno, Michail, era nato fortee sano. L’altro, Andrej, era venuto al

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mondo con un’incurabile malformazioneossea e muscolare che lo avrebbecondotto alla morte a soli sette anni.Questo episodio segnò profondamente ilgiovane Michail e, in qualche misura, necondizionò la vo-cazione. Kolvenik fusempre convinto che, grazie a curemediche appro-priate e allo sviluppo diuna tecnologia che supplisse allecarenze della natura, il fratello sarebbepotuto diventare adulto e avrebbe potutovivere una vita piena. Fu questaconvinzione a spingerlo a dedicare ilproprio talento alla progettazione dicongegni che, come amava dire,“completassero” i corpi trascurati dallaprovvidenza.

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“La natura è come un bambino chegioca con le nostre vite. Quando sistanca dei suoi giocattoli rotti liabbandona e li sostituisce con altri”diceva Kolvenik. “Tocca a noiraccogliere i pezzi e rimetterli insieme.”

Alcuni vedevano in queste paroleun’arroganza prossima alla bestem-mia;altri vi scorgevano solo speranza.L’ombra del fratello non aveva maiabbandonato Michail Kolvenik. Credevache un destino capriccioso e crudeleavesse predestinato lui alla vita e ilfratello alla morte. Shelley ci spiegò cheKolvenik era roso dai sensi di colpa eche sentiva in fondo al cuore un debitoverso Andrej e verso tutti quelli che,

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come lui, erano marchiati dallo stigmadell’imperfezione. Fu in quel periodoche Kolvenik cominciò a raccoglierefotografie di fenomeni ed esseri deformida tutto il mondo.

Per lui quegli infelici abbandonatidal destino erano i fratelli invisibili diAndrej. La sua famiglia.

«Michail Kolvenik era un uomobrillante» proseguì il dottor Shelley.

«Le persone come lui suscitanosempre la diffidenza di chi si senteinferio-re. L’invidia è un cieco chevuole strapparti gli occhi. Le cose che sidissero di Michail negli ultimi anni edopo la sua morte erano solo calunnie…Quel maledetto ispettore… Florián. Non

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si rendeva conto che lo stavano manipo-lando per distruggere Michail…»

«Florián?» intervenne Marina.88«Era l’ispettore capo della polizia

giudiziaria» disse Shelley, tirando fuoritutto il disprezzo che gli consentivano lesue corde vocali. «Un arrivi-sta, unverme che voleva farsi un nome allespalle della Velo-Granell e di MichailKolvenik. La mia unica consolazione èsapere che non è mai riuscito a provareniente. La sua ostinazione finì perrovinargli la carriera. Fu lui a sollevarelo scandalo dei corpi…» «Corpi?»

Shelley sprofondò in un lungosilenzio. Ci guardò e riaffiorò il suo

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sorriso sprezzante.«Quell’ispettore Florián…» chiese

Marina. «Sa dove possiamo trovarlo?»«In un circo, con gli altri pagliacci»

ribatté Shelley.«Ha conosciuto Benjamin Sentís,

dottore?» chiesi, cercando di riprende-re il filo del discorso.

«Certo» rispose Shelley. «Avevamocontatti frequenti. Come socio diKolvenik, Sentís si occupavadell’amministrazione della Velo-Granell. Era un uomo avaro che,secondo me, non sapeva qual era il suoposto nel mondo. Invidioso marcio.»

«Lo sa che il corpo del signor Sentísè stato trovato nelle fogne una settimana

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fa?» chiesi.«Leggo i giornali» rispose glaciale.«Non le è sembrato strano?»«Non più di tante altre notizie che si

leggono» replicò Shelley. «Il mondo èmalato. E io comincio a essere stanco.Qualche altra domanda?»

Stavo per chiedergli della dama innero quando Marina mi anticipò,scuotendo il capo con un sorriso.Shelley allungò la mano e tirò il cordonedel campanello di servizio. MariaShelley fece atto di presenza, con gliocchi fissi sui propri piedi.

«Questi ragazzi stanno perandarsene, Maria.»

«Sì, papà.»

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Ci alzammo. Feci per recuperare lafotografia, ma la mano tremante deldottore mi precedette.

«Questa foto la tengo io, se non vidispiace…»

Poi ci girò le spalle e fece segnoalla figlia di accompagnarci alla porta.

Prima di uscire dalla biblioteca mivoltai per un’ultima occhiata e vidi che89

gettava la foto nel camino. I suoiocchi vitrei la guardarono bruciare tra lefiamme.

Maria Shelley ci guidò in silenziofino all’ingresso, dove ci sorrise comese volesse scusarsi.

«Mio padre è un uomo difficile, ma

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di buon cuore…» si giustificò. «Haavuto molti dispiaceri dalla vita e avolte il carattere lo tradisce…»

Ci aprì la porta e accese la lucedelle scale. Lessi un’incertezza nel suosguardo, come se volesse dirci qualcosama temesse di farlo. Anche Marina ebbela stessa impressione e le tese la manoper ringraziarla. Maria Shelley glielastrinse. Dai pori di quella donnatrasudava solitudine.

«Non so cosa vi ha detto miopadre…» mormorò, abbassando la vocee guardandosi attorno, timorosa.

«Maria?» ci giunse nitida la vocedel dottore. «Con chi stai parlando?»

Un’ombra le calò sul volto. «Vengo

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subito, papà.»Ci lanciò un ultimo sguardo desolato

e rientrò in casa. Mentre si voltava,notai una piccola medaglietta che lependeva dal collo. Avrei giurato cheraffigurasse una farfalla con le ali nerespiegate. La porta si richiuse senzadarmi il tempo di esserne certo.Restammo sul pianerottolo ad ascoltarela voce assordante del dottore chescaricava la sua collera sulla figlia.

La luce delle scale si spense. Per unattimo credetti di avvertire un odore dicarne in decomposizione. Proveniva daqualche punto delle scale, come se cifosse un animale morto nell’oscurità.Allora mi sembrò di sentire dei passi

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che si allontanavano verso l’alto equell’odore, o quell’impressione, sidileguò. «Andiamocene via» dissi aMarina.

90

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14Sulla strada del ritorno mi accorsi

che Marina mi guardava di sottecchi.«Non passi le feste in famiglia?»Scossi il capo, lo sguardo perso nel

traffico.«Perché no?»«I miei sono sempre in viaggio.

Sono anni che non passiamo il Nataleinsieme.»

Senza volerlo, la mia voce suonòfredda e ostile. Il resto del tragitto lopercorremmo in silenzio. AccompagnaiMarina fino al cancello della villa e lasalutai.

Mentre rientravo in collegiocominciò a piovere. Guardai da lontano

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la fila di finestre del quarto pianodell’edificio. Solo un paio eranoilluminate.

La maggior parte degli interni erapartita per le vacanze di Natale e nonsarebbe rientrata prima di tre settimane.Ogni anno era la stessa storia. Ilcollegio si svuotava e rimanevanosoltanto un paio di poveracci, affidatialle cure dei tutori. Gli ultimi due annierano stati i peggiori, ma adesso non mene importava più nulla. In realtà, erameglio così. L’idea di allontanarmi daMarina e Germán mi sembravaimpensabile. Accanto a loro non misarei sentito solo.

Salii ancora una volta le scale che

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conducevano alla mia stanza. Ilcorridoio era silenzioso, abbandonato.Quell’ala del collegio era deserta.Probabilmente era rimasta soltanto doñaPaula, la vedova che si occupava dellepulizie e viveva in un piccoloappartamento del terzo piano da cuiusciva, incessante, il frastuono dellatelevisione. Superai parecchie stanzevuote prima di arrivare alla mia. Apriila porta. Un tuono ruggì sul cielo dellacittà squassando l’intero edificio. Laluce del lampo filtrò tra le persianechiuse. Mi gettai sul letto senzaspogliarmi. Fuori il temporale siabbatteva sulla città. Aprii il cassettodel comodino e tirai fuori lo schizzo di

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Marina che Germán aveva fatto quelgiorno sulla spiaggia. Lo contemplainella penombra finché il sonno e lafatica mi vinsero. Mi addormentaistringendolo 91

tra le mani come se si trattasse di unamuleto. Quando mi svegliai il ritrattoera sparito.

Aprii gli occhi di scatto. Sentivofreddo e una ventata di aria gelida infaccia. La finestra era aperta e lapioggia profanava la stanza. Mi drizzaisul letto, stordito. Trovai a tentoni lalampada sul comodino e premettiinutilmente l’interruttore. Non c’eraluce. Fu allora che mi resi conto di nonavere più tra le mani il ritratto con cui

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mi ero addormentato. Non era sul lettoné a terra. Mi sfregai gli occhi, senzacapire. All’improvviso lo sentii.

Intenso e penetrante. Quel tanfo dimarcio. Nell’aria. Nella stanza. Sui mieivestiti, come se qualcuno, mentredormivo, mi avesse sfregato sulla pelleil cadavere di un animale indecomposizione. Trattenni un conato divomito e, un attimo dopo, caddi in predaal panico. Non ero solo. Qualcuno oqualcosa era entrato da quella finestramentre dormivo.

Lentamente, tastando i mobili,arrivai alla porta. Tentai di accendere laluce centrale della stanza. Niente. Miaffacciai in corridoio: buio pesto.

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Avvertii di nuovo quella puzza,ancora più intensa. L’odore di unanimale selvatico. Poi mi sembrò discorgere una sagoma che si intrufolavanell’ultima stanza.

«Doña Paula?» dissi, quasimormorando.

La porta si chiuse con delicatezza.Inspirai a fondo e avanzai nel corridoio,sconcertato. Mi fermai di colpo quandosentii un sibilo da rettile che sussurravauna parola. Il mio nome. La voceproveniva dalla stanza chiusa.

«Doña Paula, è lei?» balbettai,cercando di controllare il tremore dellemani.

Avanzai nel buio. La voce ripeté il

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mio nome. Non avevo mai sentito unavoce simile. Una voce spezzata, crudele,che sanguinava malvagità.

Una voce da incubo. Ero immobilein quel corridoio buio, incapace dimuovere un muscolo. Improvvisamente,la porta della stanza si spalancò con unaforza brutale. Nel giro di uninterminabile secondo il corridoiosembrò restringersi e ritirarsi sotto imiei piedi, attirandomi verso quellaporta.

Al centro della stanza, i miei occhividero con assoluta chiarezza un oggettoche luccicava sul letto: il ritratto diMarina. Era sorretto da due mani dilegno, le mani di una marionetta. Dei fili

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sanguinolenti spuntavano dai 92polsi. Capii allora che si trattava

delle mani perse da Benjamin Sentísnelle profondità delle fogne. Estirpatealla radice. Mi si mozzò il fiato.

Il fetore divenne insopportabile,acido. E con la lucidità del terrore miaccorsi della sagoma sul muro, appesalì, immobile, un essere vestito di ne-rocon le braccia incrociate sul petto. Icapelli arruffati gli coprivano il vi-so.Fermo sulla porta, vidi quel voltosollevarsi con infinita lentezza,scoprendo dei canini che luccicarononella penombra. Sotto i guanti, degliartigli presero ad agitarsi come ungroviglio di serpenti. Arretrai di un

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passo e sentii di nuovo la voce chesussurrava il mio nome. La sagomastrisciava verso di me come ungigantesco ragno.

Mi sfuggì un grido e gli sbattei laporta in faccia. Cercai di bloccarglil’uscita, ma sentii un impatto brutale.Dieci unghie affilate come coltellitrapassarono il legno. Corsi versol’altro estremo del corridoio mentre laporta veniva fatta a pezzi. Il corridoioera diventato un tunnel interminabile. Apochi metri dalle scale, mi voltai aguardare indietro. La creatura infernaleveniva verso di me. Il luccichio dei suoiocchi perforava l’oscurità.

Ero in trappola.

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Scappai lungo il corridoio cheportava alle cucine, approfittando delfatto che conoscevo a memoria tutti glianfratti del collegio. Mi chiusi la portaalle spalle. Inutile. La creatura vi siscagliò contro e l’abbatté, facendomicadere a terra. Rotolai sulle piastrelle emi rifugiai sotto il tavolo. Vidi un paiodi gambe. Attorno a me, decine di piattie bicchieri andarono in frantumi e unostrato di schegge di vetro ricoprì ilpavimento. Scorsi la lama di un coltelloa seghetto tra i cocci e lo afferraidisperato. La sagoma si accovacciò difronte a me, come un lupo all’imboccodi una tana. Gli sferrai una coltellata alvolto e la lama affondò come nel fango.

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Ciò nonostante arretrò di mezzo metro,dandomi modo di scappare all’estremitàopposta della cucina. Arretrando passodopo passo, cercai qualcosa con cuidifendermi.

Trovai un cassetto. Lo aprii. Posate,utensili da cucina, candele, un accendinoa benzina… Cianfrusaglie inutili.Istintivamente presi l’accendino e tentaidi accenderlo. Vidi l’ombra dellacreatura a pochi passi da me. Sentii ilsuo alito fetido ; Uno dei suoi artigli siavvicinava alla mia gola. Fu allora chel’accendino si accese e illuminòquell’essere ad appena venti centimetri.Chiusi gli occhi e trattenni il fiato,convinto di aver visto la morte in faccia

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e di non poter fare altro che aspettare.L’attesa divenne eterna.

Quando riaprii gli occhi se n’eraandato. Avvertii i suoi passi che si al-93

lontanavano. Lo seguii verso la miastanza e mi sembrò di sentire un gemito.Di dolore, o forse di rabbia. Quando miaffacciai dentro, vidi la creatura frugarenella mia borsa e afferrare l’album difotografie che avevo preso nella serra.Si girò verso di me e ci guardammo. Laluce spettrale della notte illuminòl’intruso per un decimo di secondo.Avrei voluto dirgli qualcosa, ma si eragià lanciato dalla finestra.

Corsi al davanzale e mi affacciai,convinto di vedere il corpo precipitare

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nel vuoto. La sagoma sgattaiolava giùper la grondaia a una velocità inve-rosimile. Il suo mantello neroondeggiava al vento. Da lì, saltò sui tettidell’ala est e si districò tra una selva digargolle e comignoli. Paralizzato, vidiquell’apparizione infernale dileguarsisotto il temporale con piroetteimpossibili, come una pantera, come se itetti di Barcellona fossero la suagiungla. Mi accorsi che la cornice dellafinestra era impregnata di sangue.

Ne seguii le tracce fino in corridoioe mi ci volle qualche secondo per capireche quel sangue non era mio. Avevoferito un essere umano. Mi appoggiai almuro. Le ginocchia mi tremavano e mi

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rannicchiai a terra, esausto.Non so per quanto tempo rimasi in

quella posizione. Quando riuscii arialzarmi, decisi di rifugiarmi nell’unicoposto in cui credevo di essere al sicuro.

94

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15Arrivai a casa di Marina e

attraversai il giardino a tentoni. Giraiattorno all’edificio e raggiunsil’ingresso di servizio. Una luce caldadanzava tra le stecche delle imposte. Misentii sollevato. Bussai con le nocche edentrai.

La porta era aperta. Nonostante l’oratarda, Marina scriveva sul suo quadernoal tavolo di cucina, alla luce dellecandele, con Kafka in grembo.

Non appena mi vide, la penna lecadde dalle dita.

«Mio Dio, Óscar! Cosa…?»esclamò, guardando i miei vestitisporchi e stracciati, toccandomi i graffi

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sul viso. «Cosa ti è successo?»Dopo un paio di tazze di tè bollente,

riuscii a spiegare a Marina quello cheera successo, o meglio, quello chericordavo, perché cominciavo a du-bitare dei miei stessi sensi. Mi ascoltòstringendomi la mano tra le sue pertranquillizzarmi. Dovevo avere unaspetto peggiore di quello che pensavo.

«Ti dispiace se dormo qui stanotte?Non sapevo dove andare. E non vogliotornare in collegio.»

«E io non te lo permetterei. Puoistare con noi tutto il tempo che vuoi.»

«Grazie.»Lessi nei suoi occhi la stessa

preoccupazione che consumava me.

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Dopo quanto era successo quella notte,la sua casa era sicura quanto il collegioo qualunque altro posto. Quella presenzache ci aveva seguito sapeva bene dovetrovarci.

«E ora che facciamo, Óscar?»«Potremmo cercare l’ispettore di cui

parlava Shelley, Florián, e tentare discoprire cosa sta succedendodavvero…»

Marina sospirò.«Senti, forse è meglio che me ne

vada…» azzardai.«Neanche a parlarne. Ti preparo una

stanza di sopra, vicino alla mia.Vieni.»«Cosa… Cosa dirà Germán?»

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95«Germán ne sarà entusiasta. Gli

diremo che trascorrerai le feste diNatale con noi.»

La seguii su per le scale. Non eromai stato al piano di sopra. La luce delcandelabro illuminò un corridoio su cuisi affacciavano delle porte di rovereintarsiato. La mia stanza era l’ultima,accanto a quella di Marina. I mobilisembravano oggetti d’antiquariato, maera tutto lindo e ordinato.

«Le lenzuola sono pulite» disseMarina, scoprendo il letto.«Nell’armadio ci sono altre coperte, seper caso hai freddo. E qui ci sono gliasciugamani. Vediamo se ti trovo un

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pigiama di Germán.»«Mi starà come una tenda da

campeggio» scherzai.«Meglio largo che stretto. Torno

subito.»Sentii i suoi passi allontanarsi lungo

il corridoio. Lasciai i vestiti su unasedia e scivolai tra le lenzuola pulite einamidate. Credo di non essermi maisentito tanto stanco in vita mia. Lepalpebre erano diventate due lastre dipiombo. Marina tornò con una specie dicamicione lungo due metri che sembravarubato dal corredo di una principessa.

«Non se ne parla neanche» protestai.«Io non dormo con quella robaaddosso.»

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«È l’unica cosa che ho trovato. Tistarà a pennello. E poi Germán non mipermette di far dormire in casa ragazzinudi. Questione di regole.»

Mi lanciò il camicione e lasciòqualche candela sul comò.

«Se hai bisogno di qualcosa, batti uncolpo sulla parete. Io sono dall’altraparte.»

Per un attimo ci fissammo insilenzio. Alla fine Marina distolse losguardo.

«Buona notte, Óscar» sussurrò.«Buona notte.»Mi svegliai in una camera inondata

di luce. La stanza dava a est, e lafinestra incorniciava un sole splendente

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che si alzava sulla città. Mentrescendevo dal letto, notai che i vestiti nonerano più sulla sedia su cui li avevoappoggiati la notte prima. Capii quelloche significava e maledissi tutta quellasollecitudine, convinto che Marina loavesse fatto apposta. Un aroma di panecaldo e di caffè appena fatto siintrufolava da sotto la porta.

96Abbandonando ogni speranza di

conservare la dignità, mi preparai ascendere in cucina con addosso quelridicolo camicione. Uscii in corridoio evidi che tutta la casa era immersa inquella magica luminosità. Sentii le vo-cidei miei ospiti che chiacchieravano in

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cucina. Mi armai di coraggio e scesi lescale. Mi fermai sulla porta e mi schiariila gola. Marina, che stava servendo ilcaffè a Germán, sollevò gli occhi.

«Buongiorno, bella addormentata»disse.

Germán si voltò verso di me e sialzò, cortese come sempre, perstringermi la mano e farmi accomodare atavola.

«Buongiorno, amico Óscar!»esclamò con entusiasmo. «È un piacereaverla tra noi. Marina mi ha detto deilavori in collegio. Sappia che puòrestare qui tutto il tempo che vuole,senza problemi. Questa è casa sua.»

«Grazie infinite…»

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Marina, sorridendo sorniona, miservì una tazza di caffè indicando ilcamicione.

«Ti sta uno schianto» disse.«Una meraviglia. Sembro la

principessa sul pisello. Dove sono imiei vestiti?»

«Te li ho lavati e adesso si stannoasciugando.»

Germán mi passò un vassoio dicroissant appena arrivati dallapasticceria Foix. Mi venne l’acquolinain bocca solo a guardarli.

«Ne provi uno, Óscar» suggerì. «Èla Mercedes Benz dei croissant. E

non si confonda, questa non èsemplice marmellata; è un monumento.»

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Divorai con avidità tutto quello chemi mettevano davanti con l’appetito diun naufrago. Germán sfogliavadistrattamente il giornale. Si notava cheera di buon umore e, sebbene avesse giàfinito di fare colazione, non si alzò datavola finché non ebbi sbafato tutto e nonrimasero che le stoviglie vuote. Poiguardò l’orologio.

«Arriverai tardi all’appuntamentocon il prete, papà» gli ricordò Marina.

Germán annuì con un certo fastidio.«Mi chiedo perché perdo tempo con

lui…» disse. «Quella canaglia è unimbroglione matricolato.»

«È la sottana» spiegò Marina. «Conquella addosso pensa di poter fare

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tutto…»97Li guardai sconcertato. Non avevo la

minima idea di cosa parlassero.«Scacchi» mi spiegò Marina.

«Germán e il prete si sfidano da anni.»«Non giochi mai a scacchi con un

gesuita, amico Óscar. Mi dia retta.Con permesso…» disse Germán,

alzandosi.«Non ci penso proprio. In bocca al

lupo.»Germán prese il paltò, il cappello e

il bastone d’ebano e si avviòall’appuntamento con il prelato stratega.Non appena uscì, Marina andò ingiardino e tornò con i miei vestiti.

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«Mi spiace doverti dire che Kafka ciha dormito sopra.»

Gli abiti erano asciutti, ma permandar via l’odore del felino nonsarebbero bastati cinque lavaggi.

«Stamattina, quando sono andata acomprare i croissant, ho chiamato laquestura dal bar della piazza. L’ispettoreVictor Florián è in pensione e abita aVallvidrera. Non ha il telefono, ma mihanno dato l’indirizzo.» «Mi ve-sto in unattimo.»

La stazione della funicolare diVallvidrera era poco lontana da casa diMarina. Camminando di buon passo, ciarrivammo in dieci minuti e com-prammo due biglietti. Visto dalla

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stazione, ai piedi della collina, ilquartiere di Vallvidrera disegnava unaspecie di balcone sulla città. Le casesembravano appese alle nuvole con filiinvisibili. Ci sedemmo in fondo alvagone a contemplare Barcellona che sistendeva ai nostri piedi mentre lafunicolare si inerpicava lentamente.

«Questo dev’essere proprio un bellavoro» dissi. «Autista di funicolari.

Ascensorista per il cielo.»Marina mi guardò scettica.«Ho detto qualcosa di male?» chiesi.«Niente. Se questo è tutto ciò a cui

aspiri.»«Non so a che cosa aspiro. Non tutti

hanno le idee chiare come te. Marina

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Blau, premio Nobel per la letteratura econservatrice della collezione dicamicioni della famiglia Borbone.»

Marina si fece così seria che mipentii all’istante di aver aperto bocca.

«Chi non sa dove è diretto nonarriva da nessuna parte» replicò fredda-mente.

98Le mostrai il mio biglietto.«Io so dove vado.»Distolse lo sguardo. Salimmo in

silenzio per un paio di minuti. Lasagoma del mio collegio si stagliava inlontananza.

«Architetto» sussurrai.«Cosa?»

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«Voglio diventare architetto. Questaè la mia aspirazione. Non l’avevo maidetto a nessuno.»

Finalmente mi sorrise. La funicolarestava arrivando in cima alla collina esussultava come una vecchia lavatrice.

«Ho sempre desiderato avere unacattedrale tutta mia» disse Marina.

«Qualche suggerimento?»«Gotica, per esempio. Dammi un po’

di tempo e te la costruisco.»Il sole le illuminò il viso, e gli

occhi, fissi su di me, le brillarono.«Me lo prometti?» chiese,

tendendomi la mano aperta.Gliela strinsi con forza.«Te lo prometto.»

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L’indirizzo che Marina si eraprocurato corrispondeva a una vecchiaca-sa che era praticamente sul bordodell’abisso. Le erbacce del giardino sene erano impossessate. Una cassettadella posta arrugginita svettava tra i ce-spugli come un residuo dell’eraindustriale. Ci intrufolammo fino allaporta di casa. Qua e là si intravedevanoscatoloni colmi di vecchi giornali legaticon lo spago. La pittura della facciata,corrosa dal vento e dall’umidità, sistaccava dal muro come pelle secca.L’ispettore Victor Florián non si sve-nava in spese di rappresentanza.

«Qui sì che c’è bisogno di unarchitetto» disse Marina.

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«O di un’impresa di demolizioni…»Bussai alla porta delicatamente.

Temevo che dei colpi più energiciavrebbero fatto rotolare la casa giù perla collina.

«E se provassi con il campanello?»Il pulsante era rotto e i cavi che

spuntavano dal quadro elettricorisalivano all’epoca di Edison.

99«Io non lo tocco» risposi, bussando

di nuovo.D’improvviso la porta si aprì di una

decina di centimetri. Una catena disicurezza brillò davanti a un paio diocchi dai riflessi metallici.

«Chi è?»

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«Victor Florián?»«Quello sono io. Ma ho chiesto chi

è.»Il tono di voce era autoritario e

impaziente. Una voce abituata a imparti-re ordini.

«Abbiamo delle informazioni suMichail Kolvenik…» rispose Marina amo’ di presentazione.

La porta si spalancò. Victor Floriánera un uomo tarchiato e muscoloso.

Indossava lo stesso vestito delgiorno in cui era andato in pensione, oalmeno così pensai. Aveva l’espressionedi un vecchio Colonnello ormai privo diguerre e di battaglioni da comandare.Stringeva tra le labbra un sigaro spento

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e aveva più peli in un solo sopracciglioche la maggior parte della gente su tuttala testa.

«Cosa sapete di Kolvenik? Chisiete? Chi vi ha dato questo indirizzo?»

Florián non faceva domande, lemitragliava. Ci fece entrare dopo averdato qualche occhiata intorno, come setemesse che qualcuno ci avesse seguito.L’interno della casa era un porcile epuzzava di retrobottega. C’erano piùfogli di carta che nella biblioteca diAlessandria, ma tutti sparsi, messi inordine da un ventilatore. «Andiamo sulretro.»

Passammo davanti a una stanza conle pareti tappezzate di armi. Revolver,

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pistole automatiche, mauser, baionette…Erano state fatte rivoluzioni con moltameno artiglieria.

«Madonna santa…» mormorai.«Silenzio, questa non è mica una

cappella» tagliò corto Florián, chiu-dendo la porta di quell’arsenale.

Il retro a cui alludeva era unapiccola sala da pranzo da cui si vedevatutta Barcellona. Anche in pensione,l’ispettore continuava a sorvegliare lacittà dall’alto. Ci indicò un divano pienodi buchi. Sul tavolo c’erano un ba-rattolo di fagioli lasciato a metà e unabottiglia di birra Estrella Dorada;nessun bicchiere. “Pensione dapoliziotto, vecchiaia da barbone”

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pensai.Florián si accomodò su una sedia di

fronte al divano e prese una sveglia da100

quattro soldi. La piazzò con un colposecco sul tavolo, rivolta verso di noi.

«Quindici minuti. Se in un quartod’ora non mi avete detto niente che giànon sappia vi caccio a calci.»

Ci volle molto più di un quarto d’oraper raccontargli tutto quello che erasuccesso. Via via che ascoltava la nostrastoria, la facciata da duro di VictorFlorián si sgretolava. Tra le crepeintravidi l’uomo stanco e spaventato chesi rifugiava in quella tana con i suoigiornali vecchi e la sua collezione di

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pistole. Al termine del nostro raccontoFlorián prese il suo sigaro e, dopoaverlo esaminato in silenzio per quasi unminuto, lo accese.

Poi, con lo sguardo perso nelmiraggio della città avvolta dalla bruma,cominciò a parlare.

101

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16«Nel 1945 ero ispettore della

polizia giudiziaria di Barcellona» iniziòFlorián. «Pensavo di chiedere iltrasferimento a Madrid quando mi fuasse-gnato il caso della Velo-Granell.Da circa tre anni la giudiziaria stavaindagando su Michail Kolvenik, unostraniero che godeva di scarse simpatienegli ambienti del regime, ma non erariuscita a trovare nessuna prova. Il miopredecessore aveva rinunciatoall’incarico. La Velo-Granell era protet-ta da un muro di avvocati e da unlabirinto di società finanziarie che servi-vano a confondere le acque. I mieisuperiori me la vendettero come un’oc-

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casione unica per fare carriera. Casicome quello, mi dissero, ti portavanodritto a un ufficio al ministero, conl’autista e un orario da pascià.L’ambizione è una cattivaconsigliera…»

Florián fece una pausa, assaporandol’effetto delle sue parole e sorridendosarcastico fra sé. Mordicchiava il sigarocome fosse un bastoncino di li-quirizia.

«Quando studiai la pratica» proseguì«mi accorsi che quella che era ini-ziatacome un’indagine di routine su una seriedi irregolarità finanziarie e su unaprobabile frode aveva finito perdiventare una faccenda che non sisapeva bene a quale reparto affidare.

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Estorsione. Furto. Tentato omicidio…E c’era dell’altro… Rendetevi conto

che, all’epoca, avevo una certaesperienza solo nell’ambito dellamalversazione di fondi, dell’evasionefiscale, della frode e dellaconcussione… Non che quelleirregolarità fossero sempre punite, eranoaltri tempi, ma sapevamo tutto.»

Florián scomparve dietro una nuvoladi fumo azzurrino, turbato.

«Perché accettò il caso, allora?»chiese Marina.

«Per arroganza. Per ambizione e peravidità» rispose Florián, utilizzan-doper sé il tono che, immaginai, riservavaai peggiori criminali.

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«Magari anche per scoprire laverità» azzardai. «Per fare giustizia…»

Florián mi sorrise tristemente. Inquello sguardo si potevano intravederetrent’anni di rimorsi.

«Alla fine del 1945 la Velo-Granellera già tecnicamente in bancarotta»

102proseguì. «Le tre maggiori banche di

Barcellona le avevano chiuso le linee dicredito, e le azioni della compagniaerano state ritirate dalla Borsa. Venutameno la base finanziaria, la muraglialegale e la rete di società fantasmacrollò come un castello di carte. I giornidi gloria erano finiti. Il Gran TeatroReal, rimasto chiuso dal giorno della

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tragedia che aveva sfigurato EvaIrinova, era un ammasso di rovine. Lafabbrica e i laboratori furono chiusi. Leproprietà dell’impresa pignorate. Levoci si diffondevano come una cancrena.Kolvenik, senza perdere il sanguefreddo, decise di organizzare unosfarzoso cocktail alla Borsa diBarcellona per fornire all’esternoun’immagine di calma e normalità. Ilsocio, Sentís, era in preda al panico.

Non c’erano soldi nemmeno perpagare la decima parte del cibo ordinatoper la serata. Furono spediti inviti a tuttii grandi azionisti, alle famiglie più invista di Barcellona… La sera della festapioveva a catinelle. La Borsa era

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agghindata come un palazzo dellefavole. A partire dalle nove, i membridella servitù delle principali fortunedella città, molte delle quali sidovevano a Kolvenik, portarono bigliettidi scuse. Quando arrivai sul posto, amezzanotte passata, trovai Kolvenik,tutto solo nel grande salone, chesfoggiava un impeccabile frac e fumavauna sigaretta, di quelle che si facevaarrivare da Vienna. Mi salutò e mi offrìuna coppa di champagne.

“Mangi qualcosa, ispettore, è unpeccato sprecare tutto questo bendidio”mi disse. Non ci eravamo mai trovatifaccia a faccia. Conversammo per un’o-ra. Mi parlò dei libri che aveva letto da

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adolescente, dei viaggi che non avevamai potuto fare… Kolvenik era un uomocarismatico. L’intelligenza gli ardevanegli occhi. Per quanto mi sforzassi dievitarlo, mi fu simpatico.

Di più: mi fece pena, anche se iodovevo essere il cacciatore e lui lapreda.

Notai che zoppicava e si appoggiavaa un bastone d’avorio intarsiato. “Credoche nessuno abbia mai perso tanti amiciin un giorno solo” gli dissi. Mi sorrise erespinse tranquillo la mia idea. “Sisbaglia, ispettore. In occasioni comequeste non si invitano gli amici.” Michiese molto cortesemente se intendevoperseguitarlo ancora. Gli risposi che mi

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sarei fermato solo quando sarei riuscitoa portarlo davanti a un giudice. Ricordoche mi chiese:

“Che posso fare per dissuaderla datale proposito, caro Florián?”.“Uccidermi” risposi. “Ogni cosa a suotempo, ispettore” mi disse sorridendo. Esi allontanò zoppicando. Non lo rividimai più… Ma sono ancora vivo.Kolvenik non ha messo in pratica la suaultima minaccia.»

Florián fece una pausa e bevve ungoccio d’acqua, assaporandolo come sefosse l’ultimo della sua vita. Si leccò lelabbra e riprese a raccontare.

103«Da quel giorno Kolvenik, isolato e

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abbandonato da tutti, visse rinchiuso conla moglie nel grottesco torrione che siera fatto costruire. Negli anni successivinessuno lo rivide più. Solo due personeavevano accesso a lui. Il suo vecchioautista, un certo Luis Claret, unpoveraccio che adorava Kolvenik e siera rifiutato di abbandonarlo anchequando non poteva più pa-gargli lostipendio; e il suo medico personale, ildottor Shelley, pure lui coinvolto nellenostre indagini. Nessun altro lo vedeva.Shelley ci assicurava che Kolvenik sitrovava nella sua villa del Parque Güell,colpito da una malattia che non seppespiegarci. Ma la sua testimonianza nonci convin-ceva per niente, soprattutto

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dopo aver dato un’occhiata agli archivie alla contabilità dell’impresa. Perqualche tempo pensammo addirittura cheKolvenik fosse morto o fuggitoall’estero, e che la sua reclusione fosseuna far-sa. Shelley continuava asostenere che Kolvenik aveva contrattouna strana malattia che lo tenevaconfinato in casa. Non poteva riceverevisite né uscire dal suo rifugio pernessun motivo; questo era il suoresponso. Né noi né il giudice glicredevamo. L’ultimo giorno del 1948ottenemmo un mandato di perquisizionedomiciliare e un mandato di cattura perKolvenik. Gran parte dei documentiriservati dell’impresa era scomparsa.

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Sospettavamo che li nascondesse a casasua. Avevamo già accumulatoabbastanza indizi per accusare Kolvenikdi frode ed evasione fiscale. Non avevasenso aspettare ancora. Il 31 dicembredel 1948 sarebbe stato il suo ultimogiorno di libertà. Una squadra specialeera pronta a fare irruzione nella villa lamattina dopo. A volte, i grandi criminalibisogna rassegnarsi a incastrarli perqualche inezia…»

Il sigaro di Florián si era spento dinuovo. L’ispettore gli diede un’ultimaocchiata e lo lasciò cadere in un vasovuoto. Dentro c’erano altri resti disigaro, in una specie di fossa comuneper mozziconi.

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«Quella notte stessa un incendiospaventoso distrusse il palazzo e misefine alla vita di Kolvenik e della moglieEva. All’alba i loro corpi carbonizzatifurono trovati abbracciati in soffitta…Le nostre speranze di chiudere il casobruciarono insieme a loro. Non ho maidubitato che l’incendio fosse doloso. Inun primo momento pensai che dietro cifossero Benjamin Sentís e altri membridel Consiglio d’amministrazionedell’azienda.»

«Sentís?» lo interruppi.«Non era un mistero che Sentís

detestava Kolvenik per avergli soffiatoil controllo dell’impresa del padre, masia lui sia gli altri avevano tutto l’in-104

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teresse a evitare che il casoarrivasse in tribunale. Morto il cane,niente più rabbia. Senza Kolvenik ilpuzzle non aveva più senso. Si potrebbedire che, quella notte, molte manisporche di sangue vennero lavate con ilfuoco.

Ma, come era sempre successo findall’inizio in quello scandalo, non fupossibile provare niente. Tutto finì incenere. Ancor oggi il caso della Ve-lo-Granell resta il più grande enigma nellastoria della polizia di Barcellona. E ilpiù grande fallimento della mia vita…»

«L’incendio però non fu colpa sua»intervenni.

«Ma la mia carriera andò in fumo.

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Mi assegnarono alla brigata antisov-versione. Sapete cos’è? I cacciatori difantasmi. Li chiamavano così, al di-partimento. Avrei voluto dare ledimissioni, ma erano tempi duri e con lostipendio mantenevo mio fratello e lasua famiglia. E poi, nessuno avrebbeassunto un ex poliziotto. La gente erastufa di spie e confidenti. Così rimasi. Ilmio nuovo lavoro consistevanell’irrompere a mezzanotte in squallidepensioni frequentate da anziani e mutilatidi guerra alla ricerca di qualche copiadel Capitale o di volantini socialistinascosti dentro lo scarico del cesso insacchetti di plastica, o roba delgenere… All’inizio del 1949 pensavo di

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aver toccato il fondo. Tutto quello chepoteva andare male era finito peggio.Almeno così credevo. All’alba del 13dicembre 1949, a quasi un annodall’incendio in cui erano mortiKolvenik e la moglie, davanti al vecchiomagazzino della Velo-Granell, nelBorne, vennero ritrovati i cadaveri fattia pezzi di due ispettori della miavecchia squadra. Erano arrivati lìindagando su una soffiata anonima.Invece era una trappola. Una morte cosìnon l’auguro neanche al mio peggiorenemico. Nemmeno le ruote di un trenoriducono un corpo in quello stato. Li hovisti all’obitorio… Erano due bravipoliziotti. Armati. Sapevano quello che

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facevano. Secondo il rapporto, moltiabitanti del quartiere sentirono gli spari.Nella zona del delitto furono trovatiquattordici bossoli di nove millimetri,tutti provenienti dalle armi in dotazioneagli ispettori. Sui muri nemmeno un foroo un proiettile.»

«Come se lo spiega?» chieseMarina.

«Non me lo spiego. È semplicementeimpossibile. Ma è successo… Io stessoho visto i bossoli e ho ispezionato lazona.»

Io e Marina ci scambiammoun’occhiata.

«Non è possibile che gli sparifossero diretti contro un oggetto, per

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esempio un’automobile o una carrozza,che è stato colpito e poi è scomparsosenza lasciare traccia?» chiese Marina.

105«La tua amica sarebbe una brava

poliziotta. È l’ipotesi che facemmoall’epoca, anche se non c’erano prove.Ma proiettili di quel calibro tendono arimbalzare sulle superfici metalliche elasciano sempre tracce o, comunque, isegni di un impatto. Non si trovò nulla.»

«Qualche giorno dopo vidi Sentís alfunerale dei miei colleghi» proseguìFlorián. «Era sconvolto, con l’aria dichi non chiude occhio da diverse notti. Isuoi vestiti erano sporchi e puzzava dialcol. Mi confessò che non aveva il

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coraggio di tornare a casa e vagava dagiorni in città, dormendo dove capitava.“La mia vita non vale più niente,Florián” mi disse. “Sono un uomomorto.” Gli offrii la protezione dellapolizia. Si mise a ridere. Gli proposiaddirittura di rifugiarsi a casa mia.Rifiutò. “Non voglio avere la sua mortesulla coscienza, Florián” disse, prima disparire tra la folla. Nei mesi seguentitutti i vecchi membri del Consiglio diamministrazione della Velo-Granellmorirono, apparentemente per causenaturali. Arresto cardiaco fu il responsomedico per tutti i casi. Le circostanzedella morte erano simili. In camera daletto, da soli, sempre verso mezzanotte,

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sempre trasci-nandosi sul pavimento…per sfuggire a una morte che nonlasciava tracce.

Tutti tranne Benjamin Sentís. Non cisiamo sentiti per trent’anni, fino aqualche settimana fa.»

«Poco prima della sua morte…»precisai.

Florián annuì.«Telefonò al commissariato e chiese

di me. Disse di avere delle informazionisugli omicidi davanti alla fabbrica e sulcaso della Velo-Granell.

Lo richiamai e ci parlai. Pensavoche delirasse, ma accettai di fissargli unappuntamento. Per compassione.Rimanemmo d’accordo di vederci il

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giorno dopo in un’osteria di callePrincesa. Sentís non si presentò. Duegiorni dopo un vecchio amico delcommissariato mi avvertì che il suocadavere era stato ritrovato in un tunnelabbandonato della rete fognaria dellaCiutat Velia. Le mani artificiali createper lui da

Kolvenik gli erano state amputate.Ma questo c’era sui giornali, invece nonè stato reso noto che la polizia hascoperto una parola scritta con il sanguesulle pareti del tunnel: Teufel.»«Teufel?»

«È tedesco» disse Marina.«Significa “diavolo”.»

«È anche il nome del simbolo di

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Kolvenik» ci svelò Florián.106«La farfalla nera?»Mosse il capo in senso affermativo.«Perché si chiama così?» chiese

Marina.«Non sono un entomologo. So solo

che Kolvenik le collezionava.»Era quasi mezzogiorno e Florián ci

invitò a mangiare qualcosa in un barvicino alla stazione. Non vedevamol’ora di uscire da quella casa.

A quanto pareva, il proprietario delbar era un amico di Florián e ci feceaccomodare a un tavolino appartatovicino alla finestra.

«Visita dei nipoti, capo?» gli chiese

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sorridendo.Lui annuì senza perdersi in troppe

spiegazioni. Un cameriere ci servìtortilla e bruschette; portò anche unpacchetto di Ducados per l’ex poliziotto.Mentre assaporava l’ottimo cibo del bar,Florián riprese il suo racconto.

«Quando iniziai a indagare sullaVelo-Granell, scoprii che il passato diMichail Kolvenik non era limpido… APraga non figurava nei registridell’anagrafe. Forse Michail non era ilsuo vero nome.»

«Chi era allora?» chiesi.«Me lo chiedo da trent’anni. In

realtà, quando mi misi in contatto con lapolizia di Praga, venni a sapere che un

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Michail Kolvenik esisteva, ma era unospite della WolfterHaus.»

«E che cos’è?» chiesi.«Il manicomio comunale. Ma non

credo che Kolvenik ci sia mai stato.Ha solo adottato il nome di un

ricoverato. Kolvenik non era pazzo.»«Perché avrebbe assunto l’identità

di un paziente del manicomio?» chieseMarina.

«All’epoca non era una cosa strana»spiegò Florián. «In tempo di guerracambiare identità può significarerinascere, lasciarsi alle spalle unpassato indesiderabile. Voi siete moltogiovani e non sapete cos’è una guerra.Le persone si conoscono davvero solo

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dopo aver vissuto una guerra…»«Kolvenik aveva qualcosa da

nascondere?» domandai. «Se la poliziadi Praga aveva informazioni sul suoconto, doveva esserci una ragione…»

«Semplice coincidenza di cognomi.Burocrazia. Credetemi, so di cosaparlo» disse Florián. «Supponendo cheil Kolvenik dei loro archivi fosse il 107

nostro Kolvenik, aveva lasciatopoche tracce. Il suo nome comparivanell’indagine sulla morte di un chirurgodi Praga, un certo Antonin Kolvenik. Ilcaso fu chiuso e la morte venne attribuitaa cause naturali.»

«Allora perché rinchiusero quelMichail Kolvenik in manicomio?»

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insistette Marina.Florián esitò qualche secondo, come

se non avesse il coraggio di rispondere.«Si sospettava che avesse fatto

qualcosa con il cadavere…»«Qualcosa?»

«La polizia di Praga non chiarì checosa» ribatté seccamente Florián,accendendosi un’altra sigaretta.

Sprofondammo in un lungo silenzio.«Cosa ci dice del racconto del

dottor Shelley? Sul fratello gemello diKolvenik, la malattia degenerativa e…»

«Questa è la versione che gli diedeKolvenik. Quell’uomo mentiva con lastessa facilità con cui respirava. EShelley aveva ottime ragioni per cre-

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dergli senza fare domande» disseFlorián. «Kolvenik finanziava il suocentro medico e le sue ricerche finoall’ultimo centesimo. In pratica, Shelleyera uno dei dipendenti della Velo-Granell. Un tirapiedi…»

«Quindi il fratello gemello diKolvenik era l’ennesima invenzione?»

domandai sbalordito. «La suaesistenza giustificherebbe l’ossessionedi Kolvenik per gli esseri deformi e…»

«Non credo che il fratello fosseun’invenzione» mi interruppe Florián.

«E allora?»«Credo che il bambino di cui

parlava fosse, in realtà, lui stesso.»«Ancora una domanda, ispettore…»

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«Non sono più ispettore, figliamia…»

«Victor, allora. Si chiama sempreVictor, vero?»

Per la prima volta vidi sorridereFlorián in modo aperto, disteso.

«Qual è la domanda?»«Lei ha detto che indagando sui reati

di frode della Velo-Granell aveva-tescoperto altro…»

«Sì. All’inizio pensammo al piùclassico dei sotterfugi: fatturare spese epagamenti inesistenti per evadere letasse, donazioni a ospedali, a centri di108

accoglienza per indigenti eccetera.Finché a uno dei miei uomini parve

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strano che un certo tipo di fatture, tuttecon l’approvazione e la firma del dottorShelley, fossero emesse dal servizionecroscopico di diversi ospedali diBarcellona. Insomma, dagli obitori»chiarì l’ex poliziotto. «Le mor-gues.»

«Kolvenik vendeva cadaveri?»azzardò Marina.

«No. Li comprava. A decine.Barboni. Persone senza famiglia néconoscenti. Suicidi, annegati, anzianiabbandonati… I dimenticati della città.»

In sottofondo si sentiva il brusio diuna radio, come un’eco della nostraconversazione.

«E cosa ci faceva con queicadaveri?»

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«Nessuno lo sa» rispose Florián.«Non ne abbiamo mai trovato neancheuno.»

«Ma lei ha un’idea al riguardo, non èvero?» incalzò Marina.

Florián ci fissò in silenzio.«No.»Per essere un poliziotto, anche se in

pensione, mentire non gli riusciva bene.Marina non insistette. L’ispettore aveval’aria stanca, consumato dalle ombre chepopolavano i suoi ricordi. Tutta la suaferocia era andata in pezzi. La sigarettaaccesa gli si consumava fra le ditatremanti.

«Riguardo alla serra di cui mi aveteparlato… Non tornateci. Dimenticatevi

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di questa faccenda. Scordateviquell’album di fotografie, la tombaanonima e la donna che va a visitarla.Dimenticatevi di Sentís, di Shelley e delsottoscritto, un povero vecchio che nonsa più niente. Questa faccenda ha giàdistrutto troppe vite. Lasciate perdere.»

Fece segno al cameriere di metterglisul conto le consumazioni e concluse:

«Promettete di darmi retta».Mi chiesi come avremmo potuto

lasciar perdere quella faccenda se eraproprio lei a rincorrerci. Dopo quelloche era successo la notte prima, i suoiconsigli mi sembravano solo una speciedi favola.

«Ci proveremo» rispose Marina a

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nome di tutti e due.«La strada per l’inferno è lastricata

di buone intenzioni» ribatté Florián.109L’ispettore ci accompagnò alla

stazione della funicolare e ci diede iltelefono del bar.

«Qui mi conoscono. Di qualunquecosa abbiate bisogno, chiamatemi e mifaranno avere il messaggio. A qualsiasiora del giorno o della notte.

Manu, il proprietario, soffre diinsonnia cronica e passa le notti adascoltare la Bbc, così magari imparal’inglese, perciò non disturberete…»

«Non so come ringraziarla…»«Ringraziatemi dandomi retta e

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restando fuori da questo casino» tagliòcorto Florián.

Annuimmo. La funicolare aprì leporte.

«E lei, Victor?» chiese Marina.«Che farà?»

«Quello che fanno tutti gli anziani:ricordare e domandarmi cosa sarebbesuccesso se avessi fatto il contrario diquello che ho fatto. Su, andateadesso…»

Entrammo nel vagone e ci sedemmoaccanto al finestrino. Era quasi bu-io. Sisentì un fischio e le porte si chiusero. Lafunicolare iniziò la discesa con unoscossone. A poco a poco ci lasciammoalle spalle le luci di Vallvidrera e la

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sagoma di Florián, immobile sullabanchina.

Germán aveva preparato undelizioso piatto italiano il cui nomesembrava quello di un’opera lirica.Cenammo in cucina, mentre ciraccontava della partita a scacchi con ilprete che, come al solito, lo avevabattuto. Marina rimase stranamente insilenzio, lasciando a Germán e a mel’onere della conversazione. Mi chiesiperfino se avessi detto o fatto qualcosache l’aveva infastidita. Dopo cenaGermán mi sfidò a scacchi.

«Mi piacerebbe molto, ma credo chemi tocchi lavare i piatti» mi scusai.

«Li lavo io» mormorò Marina alle

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mie spalle.«No, sul serio…» obiettai.Germán era già nell’altra stanza,

canticchiava e schierava i pezzi sullascacchiera. Mi voltai verso Marina, cheevitò il mio sguardo e cominciò arigovernare.

«Lascia che ti aiuti…»«No… Vai da Germán.

Accontentalo.»«Allora, Óscar… Viene?» dal

salotto mi arrivò la voce di Germán.110Osservai Marina alla luce delle

candele accese su una mensola. Misembrò pallida, stanca. «Ti senti bene?»

Si voltò e mi sorrise. Marina aveva

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un modo di sorridere che mi facevasentire piccolo e insignificante. «Su, vai.E lascialo vincere.» «Niente di piùfacile.»

La lasciai sola e raggiunsi il padrein salotto. Mi sedetti davanti allascacchiera, illuminata dal candelabro diquarzo, pronto a farlo divertire per unpo’, come Marina desiderava.

«Tocca a lei, Óscar.»Mossi un pedone. Lui si schiarì la

voce.«Le ricordo che i pedoni non saltano

in questo modo, Óscar.»«Mi scusi.»«Non si preoccupi. È la foga della

gioventù. Non creda, gliela invidio

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molto. La giovinezza è una fidanzatacapricciosa. La comprendiamo e l’ap-prezziamo solo quando ci lascia per unaltro e non torna più… Ah!… Insomma,non so cosa c’entrava… Vediamo…Pedone…»

A mezzanotte un rumore improvvisomi strappò a un sogno. La casa era inpenombra. Mi misi a sedere sul letto elo sentii ancora. Colpi di tosse, soffocatie lontani. Inquieto, mi alzai e uscii incorridoio. Il rumore proveniva dal pianodi sotto. Passai davanti alla stanza diMarina. La porta era aperta e il lettovuoto. Sentii una fitta di paura.«Marina?»

Nessuna risposta. Discesi i freddi

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gradini in punta di piedi. Gli occhi diKafka brillavano in fondo alle scale. Ilgatto miagolò piano e mi guidò per uncorridoio scuro. In fondo, un filo di lucefiltrava da una porta chiusa. La tosseveniva da dentro. Dolorosa.Agonizzante. Kafka si avvicinò allaporta e si fermò, miagolando. Chiamaisottovoce.

«Marina?»Un lungo silenzio.«Vattene, Óscar.»La sua voce era un gemito. Lasciai

passare qualche istante e aprii la porta.Una candela sul pavimento rischiarava astento le piastrelle bianche del bagno.Marina era in ginocchio, con la fronte

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appoggiata al lavandino.Tremava tutta e la camicia da notte,

impregnata di sudore, le aderiva al 111corpo come un sudario. Si nascose il

viso, ma riuscii a vedere che perdevasangue dal naso e che varie macchiescarlatte le coprivano il petto. Restaiparalizzato, incapace di reagire.

«Cosa ti succede…?» mormorai.«Chiudi la porta» disse con

fermezza. «Chiudi.»Feci quello che mi ordinava e mi

avvicinai. Bruciava di febbre. I capelliincollati al viso, madido di sudore.Spaventato, mi alzai per chiamareGermán, ma la mano di Marina miafferrò con una forza insospettata.

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«No!»«Ma…»«Sto bene.»«Non stai bene!»«Óscar, per quello che hai di più

caro, non chiamare Germán. Lui non puòfarci niente. Mi sta già passando.Adesso sto meglio.»

Il tono sereno della sua voce misembrò raccapricciante. I suoi occhicercarono i miei. Qualcosa in quellosguardo mi costrinse a ubbidirle. A quelpunto mi accarezzò il viso.

«Non preoccuparti. Sto meglio.»«Sei pallida come un cadavere»

balbettai.Mi prese la mano e se la portò al

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petto. Sentii il battito del suo cuore sottole costole. Ritrassi la mano, senzasapere bene che fare.

«Viva e vegeta, hai visto? Devigiurarmi che non dirai niente a Germán.»

«Perché?» protestai. «Che hai?»Abbassò lo sguardo, vinta da

un’immensa stanchezza. Tacqui.«Giuramelo.»«Devi andare da un medico.»

«Giuramelo, Óscar.»«Se mi prometti di andare da un

medico.»«Affare fatto. Te lo prometto.»Inumidì un asciugamano e cominciò

a pulirsi il sangue dal viso. Io mi sentivoinutile.

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«Adesso che mi hai visto in questostato non ti piacerò più.»

112«Non mi fai ridere.»Continuò a pulirsi in silenzio, senza

togliermi gli occhi di dosso. Il suocorpo, prigioniero della tela umida,quasi trasparente, mi parve fragile edelicato. Mi sorprese non provareimbarazzo a guardarla così. E neanchelei sembrava imbarazzata per la miapresenza. Le tremavano le mani mentresi asciugava il sudore e si ripuliva dalsangue. Appeso alla porta, trovai unaccappatoio pulito e glielo allungai. Selo mise sulle spalle e sospirò, esau-sta.

«Cosa posso fare?»

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«Resta qui con me.»Si sedette davanti allo specchio. Con

una spazzola cercò inutilmente disciogliere il groviglio di capelli che lecadevano sulle spalle. Le mancavano leforze.

«Lascia fare a me» e le tolsi laspazzola dalle mani.

La pettinai in silenzio, mentre inostri sguardi si incontravano nellospecchio. Marina mi strinse forte lamano e se la premette contro unaguancia. Le sue lacrime mi bagnarono ledita e mi mancò il coraggio di chiederleperché piangeva.

Accompagnai Marina nella suastanza e l’aiutai a mettersi a letto. Non

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tremava più e sulle guance eraricomparso un po’ di colore. «Grazie…»sussurrò.

Pensai che la cosa migliore fosselasciarla riposare e tornai nella miastanza. Mi rimisi a letto e tentaiinutilmente di riconciliare il sonno. Mene stetti lì, al buio, inquieto, ad ascoltaregli scricchiolii di quella grande casamentre il vento graffiava le chiome deglialberi. Ero divorato da un’ansia cieca.Stavano succedendo troppe cose, etroppo in fretta. Il mio cervello nonriusciva ad assimilarle tutte insieme.Nell’oscurità della notte tutto sembravaconfondersi. Ma quello che più mispaventava era non riuscire a capire o a

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spiegare a me stesso i miei sentimentiper Marina. Spuntava l’al-ba quandofinalmente mi addormentai.

In sogno mi ritrovai ad attraversarele stanze di un palazzo di marmo bianco,deserto e immerso nell’oscurità. Erapopolato da centinaia di statue cheaprivano i loro occhi di pietra al miopassaggio e sussurravano parole che noncapivo. Allora, in lontananza, mi sembròdi scorgere Marina e le 113

corsi incontro. Una silhouette di lucebianca a forma di angelo la teneva permano lungo un corridoio dalle paretiinsanguinate. Cercavo di raggiun-gerliquando una porta del corridoio sispalancò e ne uscì Maria Shelley, che

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fluttuava nell’aria trascinando unsudario consunto. Piangeva, ma le suelacrime non toccavano terra. Tese lebraccia verso di me, ma quando misfiorò il suo corpo si dissolse in cenere.Io urlavo il nome di Marina, scon-giurandola di tornare indietro, però leinon mi sentiva. Correvo e correvo, masembrava che il corridoio si allungassea ogni mio passo. Allora l’angelo diluce si voltò verso di me e mi rivelò ilsuo vero volto. Gli occhi erano duecavità vuote e i capelli serpenti bianchi.Rideva in modo crudele. L’angeloinfernale dispiegò le sue bianche ali suMarina, poi se ne andò. Nel sognoavvertii una specie di fiato fetido che mi

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sfiorava la nuca. Era l’inconfondibiletanfo della morte, che sussurrava il mionome. Mi voltai e vi-di una farfalla neraposarsi sulla mia spalla.

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17Mi svegliai senza fiato. Mi sentivo

più stanco di quando ero andato a letto.Le tempie mi pulsavano come se avessibevuto due caraffe di caffè.

Non sapevo che ora fosse ma, agiudicare dal sole, doveva essere più omeno mezzogiorno. Le lancette dellasveglia confermarono la mia diagno-si.La mezza. Mi affrettai a scendere, ma lacasa era deserta. La colazione, ormaifredda, mi aspettava sul tavolo dellacucina, insieme a un biglietto.

Óscar,siamo dovuti andare dal medico.

Rimarremo fuori tutto il giorno. Nondimenticarti di dar da mangiare a

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Kafka.Ci vediamo all’ora di cena.MARINARilessi il biglietto e ne studiai la

calligrafia mentre divoravo la colazione.Kafka si degnò di comparire qualcheminuto dopo e gli servii una taz-zona dilatte. Non sapevo che fare, quel giorno.Decisi di andare in collegio perprendere qualche indumento di ricambioe avvisare doña Paula di nonpreoccuparsi di pulire la mia stanzaperché avrei trascorso le vacanze infamiglia. La passeggiata fino al collegiomi fece bene. Entrai dalla portaprincipale e mi diressi versol’appartamento di doña Paula, al terzo

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piano.Doña Paula era una brava donna che

aveva sempre un sorriso per gli studenti.Era vedova da trent’anni e a dieta da diosa quanti. «Il fatto è che, di costituzione,tendo a ingrassare» diceva sempre. Nonaveva avuto figli e ancora adesso, aquasi sessantacinque anni, si mangiavacon gli occhi i ne-onati in carrozzina cheincontrava quando andava al mercato.Abitava da sola e la sua unicacompagnia erano due canarini e unimmenso televisore Zenit che nonspegneva se non quando l’inno nazionalee i ritratti dei membri della famigliareale la spedivano a letto. Aveva le manirovinate dalla candeggina. Le vene delle

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sue caviglie gonfie facevano male solo aguardarle. Gli unici lussi che siconsentiva erano una visita dalparrucchie-115

re ogni due settimane e la rivista“Hola”. Le piaceva da morire leggere ipettegolezzi sulla vita delle principessee ammirare gli abiti delle stelle dellospettacolo. Quando bussai alla portadoña Paula stava guardando la replicapomeridiana di una commedia musicalecon Joselito, L’usignolo dei Pirenei. Peraccompagnare la visione, si stavapreparando una razione di tostadastraboccanti di latte condensato ecannella.

«Buona sera, doña Paula. Scusi il

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disturbo.»«Óscar, figlio mio, ma quale

disturbo? Entra, entra…»Sullo schermo, Joselito cantava

un’allegra canzoncina a una capretta,sotto lo sguardo benevolo e rapito didue poliziotti della Guardia Civil.Accanto al televisore una collezione diimmaginette della Vergine Maria sidisputava il posto d’onore nellavetrinetta con i vecchi ritratti del maritoRodolfo, tutto brillantina e fiammanteuniforme della Falange. Nonostante ladevozione al defunto marito, doña Paulaadorava la democrazia perché, comediceva lei, adesso la tele era a colori ebisognava stare al passo con i tempi.

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«Che spavento l’altra sera, eh? Altelegiornale c’era il terremoto inColombia, guarda, non so, mi ha fattouna paura…»

«Non si preoccupi, doña Paula, laColombia è molto lontana.»

«Non dico di no, ma siccome anchelì parlano spagnolo, non so, mettiche…»

«Stia tranquilla, non c’è pericolo.Volevo dirle di non preoccuparsi per lamia stanza. Passerò il Natale infamiglia.»

«Ah, Óscar, che bello!»Doña Paula, in un certo senso, mi

aveva visto crescere ed era convinta chetutto quello che facevo era fantastico.

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«Tu sì che hai talento» diceva sempre,anche se non spiegava mai bene percosa. Volle a tutti i costi farmi bere unbicchiere di latte e assaggiare qualchebiscotto preparato da lei. La accontentai,anche se non avevo appetito. Mitrattenni ancora un po’, guardando il filmin televisione e annuendo a ogni suocommento. La brava donna non smettevaun istante di parlare quando avevacompagnia, cioè quasi mai.

«Era proprio bello da ragazzino,eh?» e indicava il candido Joselito.

«Sì, doña Paula, adesso però devolasciarla…»

La salutai con un bacio sulla guanciae me ne andai. Salii un attimo nel-116

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la mia stanza dove presi in tuttafretta qualche camicia, un paio dipantaloni e della biancheria intima,gettandoli alla rinfusa in una sacca senzafermarmi un solo secondo più delnecessario. Prima di uscire, passai insegre-teria e ripetei la storia delle festein famiglia con aria imperturbabile.Lasciai il collegio augurandomi chefosse tutto così facile come mentire.

Cenammo in silenzio nel salone deiquadri. Germán se ne stava sulle sue,perso nei propri pensieri. A volte inostri sguardi si incrociavano e lui misorrideva, per pura cortesia. Marinarigirava il cucchiaio nel piatto diminestra, senza mai portarselo alle

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labbra. La conversazione si riduceva altintinnio delle posate sul fondo dei piattie al crepitio delle candele. Non civoleva molto a immaginare che ilmedico non aveva dato buone notiziesulla salute di Germán. Decisi di nonfare domande su quello che sembravaevidente. Dopo cena Germán si scusò esi ritirò in camera sua. Mi sembrò piùvecchio e più stanco che mai. Da quandolo conoscevo era la prima volta che lovedevo ignorare i ritratti della moglieKirsten. Non appena eb-be lasciato lastanza, Marina scostò il suo piatto,intatto, e sospirò.

«Non hai mangiato niente.»«Non ho fame.»

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«Brutte notizie?»«Parliamo d’altro, d’accordo?»

rispose in tono secco, quasi ostile.La sua risposta tagliente mi fece

sentire un estraneo in casa d’altri. Eracome se avesse voluto ricordarmi cheloro non erano la mia famiglia, chequella non era la mia casa e che i loroproblemi non erano i miei, per quanto misforzassi di coltivare quell’illusione.

«Mi dispiace» mormorò dopo unpo’, allungando la mano verso di me.

«Non importa» mentii.Mi alzai per portare i piatti in

cucina. Lei rimase seduta in silenzio adaccarezzare Kafka, che le miagolava ingrembo. Ci misi più tempo del

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necessario. Lavai piatti e posate finchénon sentii più le mani sotto l’acquafredda. Quando tornai in salotto, Marinaera già salita in camera sua. Avevalasciato due candele accese per me. Ilresto della casa era immerso nel buio enel silenzio. Soffiai sulle candele e usciiin giardino. Nere nubi si allungavanolentamente in cielo. Un vento gelidoagitava il bosco. Mi voltai e vidi che lafinestra di Marina era illuminata. Laimmaginai sdraiata sul 117

letto. Un attimo dopo la luce sispense. La grande casa si ergeva comeuna tenebrosa rovina, proprio come miera apparsa il primo giorno. Consideraila possibilità di andare anch’io a letto,

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ma avvertivo un inizio d’ansia e so-spettavo una lunga notte di insonnia.Decisi di fare due passi per schiarirmile idee o, quanto meno, affaticare un po’il corpo. Avevo fatto soltanto pochimetri quando cominciò a piovigginare.Era una notte uggiosa e non c’e-ranessuno per strada. Infilai le mani intasca e continuai a camminare. Va-gabondai per quasi due ore. Ma né ilfreddo né la pioggia mi concessero lastanchezza tanto desiderata. Mi frullavaun’idea per la testa e più cercavo diignorarla più si faceva insistente.

I miei passi mi condussero alcimitero di Sarriá. La pioggia sferzava ivolti di pietra annerita e le croci

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inclinate. Oltre il cancello siintravedeva una teoria di figure spettrali.La terra umida puzzava di fiori marci.Appoggiai la testa fra le sbarre. Ilmetallo era freddo. Un rivolo di rugginemi colò sul viso. Scrutai le tenebre,come se sperassi di trovare in quelluogo la spiegazione di tutto quello chestava succedendo. Non riuscii a vederealtro che morte e desolazione. Che cifacevo lì? Se avevo ancora un po’ disale in zucca, dovevo tornare a casa adormire per almeno cento ore filate.

Era, probabilmente, la migliore ideache avessi avuto negli ultimi tre mesi.

Mi girai e cominciai a percorrere aritroso il vialetto di cipressi. In

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lontananza un lampione brillava sotto lapioggia. D’un tratto una sagoma scuraeclissò il suo alone luminoso. Sentii unoscalpiccio di zoccoli sul selciato escorsi una carrozza nera che avanzavafendendo la cortina d’acqua. Il fiato didue cavalli corvini si condensava inspettri di vapore. L’anacronistica figuradi un cocchiere troneggiava a cassetta.Cercai un nascondiglio sul ciglio dellastrada, ma trovai solo dei muri spogli.Sentii la terra vibrarmi sotto i piedi. Mirestava una sola alternativa: tornareindietro. Zuppo e quasi senza fiato, miarrampicai sulla cancellata e saltaiall’interno del camposanto.

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18Atterrai su un letto di fango che si

disfaceva sotto l’acquazzone. Riga-gnolid’acqua sporca trascinavano fiori secchiscorrendo fra le lapidi. Mani e piedisprofondarono in quella melma. Mirialzai e corsi a nascondermi dietro unbusto di marmo che sollevava le bracciaal cielo. La carrozza si era fermatadavanti al cancello. Il cocchiere scese.Reggeva in mano una lanterna eindossava un mantello che gli arrivavafino ai piedi. Un cappello a larghe faldee una sciarpa lo proteggevano dallapioggia e dal freddo, co-prendogli ilvolto. Riconobbi la carrozza. Era lastessa che aveva portato via la dama in

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nero quella mattina alla stazioneFrancia. Su uno sportello campeggiavail simbolo della farfalla nera. Drappi divelluto scuro coprivano i finestrini. Michiesi se lei era lì, nella vettura.

Il cocchiere si avvicinò allacancellata e si mise in ascolto,guardando all’interno del cimitero. Miappiattii contro la statua, immobile. Poisentii il tintinnio di un mazzo di chiavi.Lo scatto metallico di un lucchetto.Impre-cai tra me e me. L’inferriatacigolò. Passi nel fango. Il cocchiere sistava avvicinando al mio nascondiglio.Dovevo andarmene al più presto. Migirai per scrutare il cimitero alle miespalle. Il velo di nubi nere si squarciò.

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La luna disegnò un sentiero di lucespettrale. Per un attimo la distesa ditombe scintillò nelle tenebre. Arretraisgusciando tra le lapidi fino a unmausoleo sigillato da pesanti porte divetro e ferro battuto. Il cocchiere erasempre più vicino. Trattenni il fiato e miimmersi nell’oscurità. Passò a meno didue metri da me, tenendo la lanterna inalto. Mi superò e tirai un sospiro disollievo. Lo vidi allontanarsi verso ilcuore del cimitero e seppiimmediatamente dove stava andando.

Era una follia, ma lo seguii. Avanzainascondendomi dietro le lapidi fi-no alsettore nord del cimitero, poi miarrampicai su una piattaforma dalla

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quale si dominava tutta la zona. Un paiodi metri più in basso brillava la lanternadel cocchiere, appoggiata sulla tombaanonima. La pioggia colava sullafarfalla incisa nella pietra, come sesanguinasse. Scorsi la sagoma delcocchiere che si chinava sulla tomba.Estrasse da sotto il mantello un oggettoallungato, una sbarra di metallo, e simise ad armeggiare. Deglutii quandocapii cosa stava cercando di fare.Voleva scoperchiare la tomba.

119Avrei voluto scappare a gambe

levate, ma non potevo muovermi.Facendo leva con la spranga, riuscì aspostare la pietra tombale di qualche

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centimetro. Quel pozzo d’oscurità sischiuse a poco a poco, finché la lapidedi marmo cadde di lato e si spezzò indue. Sentii la terra sotto i miei piedivibrare per l’impatto. Il cocchiereafferrò la lanterna e illuminò la fossa,profonda un paio di metri. Un ascensoreper l’inferno. Sul fondo luccicava lasuperficie di una bara nera. L’uomo alzòlo sguardo al cielo e, d’un tratto, saltòdentro la tomba. Sparì in un istante,come se la terra lo avesse inghiottito.Sentii dei colpi e il rumore del legnovecchio che andava in pezzi. Saltai giù.Avanzando nel fango, mi avvicinaimillimetro dopo millimetro al bordodella fossa. Mi affacciai.

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La pioggia si abbatteva all’internodella tomba e il fondo si stava alla-gando. Il cocchiere era sempre lì. Inquel momento stava forzando ilcoperchio della bara, che cedette su unlato con grande fracasso. Il legno marcioe la stoffa logora rimasero esposti alleintemperie. La bara era vuota.

L’uomo la osservò immobile. Losentii mormorare qualcosa. Capii cheera il momento di scappare a gambelevate. Mentre stavo per farlo, urtai unsasso che precipitò nella fossa e colpì labara. In un decimo di secondo, ilcocchiere si voltò verso di me. Nellamano destra impugnava una pistola.

Mi misi a correre come un disperato

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verso l’uscita, schivando lapidi e statue.Sentii il cocchiere gridare alle miespalle, mentre risaliva dalla fossa.Intravidi il cancello d’ingresso e lacarrozza ferma lì fuori. Corsi senza fiatoin quella direzione. I passi del cocchiereerano sempre più vicini. Capii che, incampo aperto, mi avrebbe raggiunto inpochi secondi. Pensai all’arma cheaveva in mano e mi guardaidisperatamente in giro alla ricerca di unnascondiglio. Gli occhi si fermaronosull’unica alternativa possibile.

Supplicai tutti i santi del paradisoche al cocchiere non venisse in mente dicercarmi proprio lì: nel bagagliaio sulretro della carrozza. Saltai sul piana-le e

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mi ci infilai. Qualche secondo doposentii i passi veloci dell’uomo ri-suonare nel vialetto di cipressi.

Immaginai quello che stava vedendo:un sentiero deserto sotto la pioggia. Ipassi del cocchiere si fermarono.Girarono attorno alla carrozza. Temettidi aver lasciato impronte cherivelassero la mia presenza. Avvertii ilpeso del suo corpo che montava acassetta. Rimasi immobile. I cavalli ni-trirono. L’attesa mi sembròinterminabile. Allora sentii lo schioccodella frusta, e il contraccolpo miscaraventò sul fondo del baule. Cimuovevamo.

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Il tramestio iniziale si trasformò benpresto in una vibrazione secca e bruscache mi martellava i muscoli pietrificatidal freddo. Tentai di affacciarmi dalbagagliaio, ma gli scossoni mirendevano quasi impossibile so-stenermi al bordo.

Ci lasciavamo alle spalle Sarriá.Valutai le probabilità di rompermi l’os-so del collo se avessi cercato di saltaredalla carrozza in corsa. Scartai l’idea.Mi sentivo troppo debole per tentarealtri atti eroici e, in fondo in fondo,morivo dalla curiosità di sapere doveeravamo diretti, perciò mi arresi allecircostanze. Mi stesi come potei ariposare sul fondo del baule. Pensai che

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sarebbe stato meglio recuperare un po’di forze: ben presto mi sarebberoservite.

Il tragitto mi parve infinito. La miaprospettiva da valigia non aiutava e misembrò di avere percorso chilometri echilometri sotto la pioggia. I muscoli misi stavano anchilosando sotto i vestitifradici. Avevamo lasciato i viali piùtrafficati. Adesso percorrevamo stradedeserte. Riuscii a rialzarmi e asollevarmi fino all’apertura per dareun’occhiata fuori. Vidi strade strette escure come fenditure nella roccia.Lampioni e facciate gotiche nellanebbia. Mi lasciai ricadere sul fondo delbagagliaio, sconcertato. Eravamo nella

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città vecchia, in qualche punto delRaval. Nell’aria aleggiava un tanfo difogna, come la scia di un acquitrino.Girovagammo per il cuore di tene-bra diBarcellona una buona mezz’ora prima difermarci. Sentii il cocchiere smontare.Qualche secondo dopo, il rumore di unasaracinesca. La carrozza avanzò a trottolento ed entrammo in quella che,dall’odore, immaginai fosse una vecchiascuderia. La saracinesca si richiuse.

Non mi mossi. Il cocchiere sganciò icavalli e sussurrò loro qualche parolache non riuscii a decifrare. Una strisciadi luce filtrava dall’apertura delbagagliaio. Sentii scorrere dell’acqua epoi dei passi sulla paglia. Alla fine la

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luce si spense e il cocchiere siallontanò. Aspettai un paio di minuti,finché mi arrivò solo il respiro deicavalli. Scivolai fuori. La scuderia eraimmersa in una penombra azzurrina. Apassi felpati mi diressi verso una portalaterale e sbucai in un garage buio dalsoffitto alto con travi di legno. Sul fondosi disegnava il contorno di una porta chepareva un’uscita di emergenza. Miaccorsi che la serratura si apriva solodall’interno. Abbassai la maniglia concautela e sbucai finalmente in strada.

Mi ritrovai in un vicolo oscuro delRaval. Era talmente stretto che ba-121

stava allargare le braccia pertoccare i muri sui due lati. Un rigagnolo

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fetido scorreva al centro del selciato.Percorsi una decina di metri verso unastrada più ampia, illuminata dalvaporoso chiarore di lampioni chedovevano essere più che centenari.Riconobbi la saracinesca della scuderiasulla fiancata del palazzo, una strutturagrigia e squallida. Sull’architrave delportone era incisa la data di costruzione:1888. Solo allora, da quella prospettiva,mi accorsi che si trattava del corpolaterale di un edificio più grande cheoccupava l’intero isolato. Era unimponente palazzo circondato da unabarriera di impalcature e teloni sporchiche lo coprivano del tutto.

Al suo interno si sarebbe potuta

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nascondere una cattedrale. Mi sforzai,inutilmente, di capire cosa fosse. Non mivenne in mente nessuna struttura di queltipo in quella zona del Raval.

Mi avvicinai e diedi un’occhiatadalle fessure tra i pannelli di legno chericoprivano i ponteggi. Una grandepensilina in stile liberty era immersanell’oscurità. Riuscii a vedere delleColonne e una fila di finestrelle con in-tricate decorazioni in ferro battuto.Biglietterie. Poco più in là, gli archidell’ingresso principale mi ricordaronoi porticati di un castello delle fiabe.

Il tutto era ricoperto da strati dimacerie, umidità e abbandono.D’improvviso capii dove mi trovavo:

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era il Gran Teatro Real, il sontuosomonumento che Michail Kolvenik avevafatto ristrutturare per la moglie Eva, lecui scene, tuttavia la donna non era mairiuscita a calcare. Adesso si ergevacome una colossale catacomba inrovina. Un figlio bastardo dell’Opera diParigi e del tempio della SagradaFamilia, in attesa soltanto di essere de-molito.

Ritornai all’edificio contiguo cheospitava le scuderie. Nel portone dilegno era ritagliata una porticina chericordava l’entrata di un convento. O diuna prigione. Era aperta. La spinsi e miintrufolai nell’androne. Un cavediospettrale saliva verso una veranda con i

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vetri rotti. Una ragnatela di corde da cuipendevano vecchi stracci si agitava alvento. C’era odore di miseria, di fogna edi malattia. Dalle pareti trasudaval’acqua sporca dei tubi scop-piati. Ilpavimento era pieno di pozzanghere. Miavvicinai a un blocco di cassette dellelettere arrugginite. Perlopiù erano vuote,mezze rotte e prive di nome. Solo unasembrava ancora in uso. Sotto lo stratodi sporcizia, si riusciva a leggere:

Luis Claret i Mila, 3°122Quel nome mi era familiare, anche

se non sapevo bene perché. Midomandai se non fosse quello delcocchiere. Me lo ripetei in testa più

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volte, cercando di ricordare dovel’avevo sentito. All’improvviso, unlampo nella memoria. L’ispettoreFlorián ci aveva detto che, negli ultimitempi, solo due persone erano ammessealla presenza di Kolvenik e della moglienel torrione del Parque Güell: il medicopersonale e un autista che si era rifiutatodi abbandonare il padrone, Luis Claret.Mi tastai le tasche alla ricerca delnumero di telefono che Florián ci avevadato nel caso avessimo avuto bisogno dimetterci in contatto con lui. Misembrava di averlo trovato quandosentii dei passi e delle voci in cima allescale. Scappai.

Una volta in strada, corsi a

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nascondermi dietro l’angolo del vicolo.Poco dopo una sagoma sbucò dalportone e si mise a camminare sotto lapioggia.

Era di nuovo il cocchiere, Claret.Aspettai che sparisse e seguii l’eco deisuoi passi.

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19Sulle tracce di Claret, mi trasformai

in un’ombra tra le ombre. Lo squal-loree la miseria del quartiere si potevanorespirare nell’aria. Claret camminava alunghe falcate per strade in cui non eromai stato. Riuscii a orien-tarmi soloquando svoltò a un incrocio e riconobbicalle Conde del Asalto.

Sbucato sulle Ramblas, Claret girò asinistra verso Plaza de Cataluña.

Solo pochi nottambuli percorrevanoil viale. Le edicole illuminatesembravano navi arenate. All’altezza delLiceo, Claret passò sul marciapiedeopposto e si fermò davanti al portonedel palazzo in cui abitavano il dottor

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Shelley e Maria. Prima che entrasse, lovidi estrarre da sotto il mantello unoggetto luccicante. La pistola.

La facciata del palazzo era unamaschera di fregi e gargolle che sputa-vano fiumi d’acqua cenciosa. Una spadadi luce dorata filtrava da una finestrad’angolo. Lo studio del dottor Shelley.Immaginai il vecchio dottore nella suapoltrona da invalido, incapace diconciliare il sonno. Corsi verso ilportone. Era chiuso. Claret lo avevabloccato dall’interno. Esaminai lafacciata in cerca di un altro ingresso.Girai attorno all’edificio. Sul retro, unascaletta antincendio conduceva a uncornicione che circondava l’intero

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palazzo. Era come una passerella dipietra verso i balconi della facciataprincipale. Da lì alla veranda dellostudio di Shelley c’erano soltanto pochimetri. Mi inerpicai sulla scala eraggiunsi il cornicione. A quel puntostudiai di nuovo il percorso. Ilcornicione era largo non più di duespanne. Ai miei piedi si spalancava unabisso. Respirai a fondo e appoggiai unpiede sulla sporgenza.

Appiccicandomi al muro, avanzaicentimetro dopo centimetro. Lasuperficie era scivolosa. Alcuni blocchidi pietra si muovevano sotto i mieipiedi. Ebbi la sensazione che ilcornicione si stringesse ai ogni passo e

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che il muro alle mie spalle si inclinassein avanti. Era punteggiato da figure difauni. Infilai la mano nel ghigno satanicodi uno di quei volti scolpiti, temendoche le sue fauci potessero chiudersi etranciarmi le dita. Usandole comeappigli, raggiunsi la balaustra in ferrobattuto che delimitava la veranda dellostudio di Shelley.

124Riuscii a scavalcarla e mi piazzai

davanti alla porta-finestra. I vetri eranoappannati. Avvicinai il viso e sbirciaidentro. La finestra non era chiusadall’interno. La spinsi delicatamente eriuscii a socchiuderla. Una folata di ariacalda, impregnata dell’odore di legna

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bruciata del caminetto, mi raggiunse infaccia. Il dottore era seduto sulla suapoltrona davanti al fuoco, come se nonsi fosse mai mosso da lì. Alle sue spallele porte dello studio si aprirono. Claret.Ero arrivato troppo tardi.

«Non hai mantenuto il tuogiuramento» esclamò Claret.

Era la prima volta che sentivochiaramente la sua voce. Grave, stanca.

Identica a quella di un giardinieredel collegio, Daniel, ferito alla laringeda un proiettile durante la guerra. Imedici gli avevano ricostruito la gola,ma il pover’uomo aveva dovutoaspettare dieci anni prima di poterparlare di nuovo. Quando lo faceva, il

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suono che gli usciva dalle labbra eracome la voce di Claret.

«Avevi detto di aver distruttol’ultimo flacone…» affermò Claret,avvi-cinandosi a Shelley.

L’altro non si prese nemmeno labriga di voltarsi. Vidi la pistola diClaret sollevarsi e prendere di mira ilmedico.

«Ti sbagli su di me» disse Shelley.Claret girò attorno al vecchio e gli si

piazzò davanti. Shelley sollevò losguardo. Se aveva paura, non lodimostrava. Claret gli puntò l’arma allatesta.

«Tu menti. Dovrei uccidertisubito…» disse Claret, strascicando

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ogni sil-laba come se gli facesse male.Appoggiò la canna della pistola in

mezzo alla fronte di Shelley.«Spara. Mi fai un favore» disse

calmo il medico.Io deglutii. Claret bloccò il

percussore.«Dov’è?»«Non qui.»«E dove, allora?»«Lo sai bene» rispose Shelley.Sentii Claret sospirare. Abbattuto,

allontanò la pistola e lasciò cadere ilbraccio.

«Siamo tutti condannati» disseShelley. «È solo questione di tempo…

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Non l’hai mai capito, e adesso menoche mai.»

«Chi non riesco a capire sei tu»disse Claret. «Io affronterò la morte conla coscienza tranquilla.»

Shelley rise amaro.«Alla morte non importano le

coscienze, Claret.» «A me sì.»D’improvviso Maria Shelley

comparve sulla porta. «Papà, staibene?»

«Sì, Maria. Torna a letto. È solo ilmio amico Claret, e sta per andarsene.»

Maria esitò. Claret la fissava coninsistenza e, per un attimo, mi sembròche ci fosse qualcosa di indefinibile nelgioco dei loro sguardi.

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«Su, fa’ quello che ti dico.»«Sì, papà.»Maria se ne andò. Shelley fissò di

nuovo il fuoco.«Tu occupati della tua coscienza. Io

ho una figlia di cui occuparmi.Torna a casa. Non puoi farci niente.

Nessuno può farci niente. Hai visto chefine ha fatto Sentís.»

«Sentís ha fatto la fine che meritava»sentenziò Claret.

«Non vorrai mica andare acercarlo?» «Io non volto le spalle agliamici.» «Però loro le hanno voltate ate.» Claret si diresse verso l’uscita, masi fermò non appena sentì la vocesupplicante di Shelley.

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«Aspetta…»Il vecchio raggiunse un armadio

vicino alla scrivania. Si tastò il collocercando una catenella da cui pendevauna piccola chiave, con cui aprìl’armadio. Prese qualcosa da un ripianoe lo diede a Claret.

«Prendile» gli ordinò. «Io non ho ilcoraggio di usarle. E nemmeno la fede.»

Aguzzai la vista per capire cosastesse tendendo a Claret. Era un astuc-cio; sembrava contenere delle capsuleargentate. Pallottole.

Claret le prese e le esaminòattentamente. I suoi occhi si imbatteronoin quelli di Shelley.

«Grazie» mormorò.

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Il medico scosse il capo in silenzio,come se non volesse essere ringra-126

ziato. Vidi Claret svuotare iltamburo della pistola e caricarlo con iproiettili che gli aveva dato Shelley, ilquale lo osservava nervoso,stropicciandosi le mani.

«Non andare…» lo supplicò Shelley.L’altro richiuse il tamburo e lo fece

ruotare.«Non ho scelta» ribatté mentre si

avviava verso l’uscita.Appena lo vidi sparire, tornai sul

cornicione. La pioggia adesso cadevameno fitta. Mi affrettai per non perderele sue tracce. Ridiscesi la scalettaantincendio e feci velocemente il giro

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del palazzo, giusto in tempo per vedereClaret che scendeva lungo le Ramblas.Accelerai il passo e accorciai ledistanze. Svoltò verso Plaza San Jaimeall’altezza di calle Fernando. Intravidiun telefono pubblico sotto i portici diPlaza Real. Sapevo che avrei dovutoavvertire quanto prima l’ispettoreFlorián e raccontargli quello che stavasuccedendo, ma fermarmi avrebbesignificato perdere Claret.

Quando si addentrò nel BarrioGótico, io gli stavo alle calcagna. Benpresto, la sua sagoma si dileguò sotto iponti tesi tra i palazzi. Archi impossibiliproiettavano sui muri le loro ombreinquiete. Eravamo arrivati nel cuore

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incantato di Barcellona, nel labirintodegli spiriti, dove le strade avevanonomi leggendari e i folletti del tempocamminavano alle nostre spalle.

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20Seguii Claret fino a una stradina

nascosta dietro la cattedrale. All’angoloc’era un negozio di maschere. Miavvicinai alla vetrina e avvertii su di melo sguardo vuoto di quei volti di carta.Mi sporsi per dare un’occhiata. Claret siera fermato a una ventina di metri,vicino a un tombino di accesso al-la retefognaria, e stava armeggiando con ilpesante coperchio di metallo.

Quando riuscì a spostarlo s’inabissòin quel buco. Soltanto allora miavvicinai. Sentii i suoi passi chescendevano per la scaletta di ferro evidi il riflesso di un raggio di luce.Avanzai verso l’imboccatura del

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tombino e guardai di sotto. Da quelpozzo saliva una corrente di aria stantia.Rimasi lì fino a quando i passi di Claretnon si sentirono più e le tenebredivorarono il bagliore della lanterna cheaveva in mano.

Era il momento di telefonareall’ispettore Florián. Intravidi le luci diun’osteria che chiudeva molto tardi o,forse, apriva molto presto. Il locale erauna specie di cella che puzzava di vino eoccupava il seminterrato di un edificiovecchio almeno tre secoli. L’oste, untipo acido dagli occhietti sospettosi,sfoggiava quello che mi sembrò unberretto militare. Aggrottò la fronte e miguardò schifato. La parete alle sue

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spalle era addobbata con stendardi dellaDivisión Azul, cartoline del Valle de losCaídos e un ritratto di Mussolini.

«Smamma» sbottò. «Apriamo allecinque.»

«Voglio solo telefonare. Èun’emergenza.»

«Torna alle cinque.»«Se potessi tornare alle cinque, non

sarebbe un’emergenza… Per favore.Devo chiamare la polizia.»L’oste mi squadrò dalla testa ai piedi

e finalmente mi indicò un vecchiotelefono a muro.

«Aspetta che ti do la linea. Ce li haii soldi per pagare?»

«Certo» mentii.

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La cornetta era sporca eappiccicosa. Accanto al telefono c’eraun piatto di vetro colmo di scatolette dicerini con il nome del locale e un’aquilaim-128

periale. Cantina Valor, diceva.Approfittai del momento in cui l’oste mida-va le spalle per attivare il contascattie mi riempii le tasche di scatole dicerini. Quando si voltò gli sorrisi concandida innocenza. Composi il numeroche mi aveva dato Florián e aspettai alungo la risposta. Cominciavo a te-mereche l’amico insonne dell’ispettore sifosse addormentato sotto il fuoco deibollettini della Bbc quando qualcunosollevò il ricevitore all’altro capo del

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filo.«Buona sera, mi scusi se la disturbo

a quest’ora» dissi. «Ho urgente bisognodi parlare con l’ispettore Florián. Èun’emergenza. Mi ha dato lui questonumero in caso…»

«Chi lo desidera?»«Óscar Drai.»«Óscar che?»Dovetti compitare pazientemente il

mio cognome.«Un attimo. Non so se Florián è a

casa. Non vedo luci. Può aspettare?»Guardai il proprietario del bar che

asciugava bicchieri a ritmo marzialesotto lo sguardo fiero del duce.

«Sì» azzardai.

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L’attesa si fece interminabile. L’ostenon mi toglieva gli occhi di dosso, comese fossi un criminale èva-* so. Provai asorridergli. Non fece una piega.

«Mi potrebbe preparare uncaffellatte?» chiesi. «Sono congelato.»

«Non prima delle cinque.»«Mi può dire che ora è, per favore?»

indagai.«Manca ancora molto alle cinque»

rispose. «Sicuro di aver chiamato lapolizia?»

«La Benemerita, per l’esattezza»improvvisai.

Finalmente, sentii la voce di Florián.Sembrava sveglio e allerta.

«Dove sei, Óscar?»

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Gli raccontai l’essenziale nel piùbreve tempo possibile. Quando gli ac-cennai al tombino e alle fogne, lo sentiinervoso.

«Ascoltami bene, Óscar. Voglio chemi aspetti lì e che non ti muovi finchénon arrivo. Prendo subito un taxi. Sesuccede qualcosa mettiti a corre-129

re. Non ti fermare fino alla questuradi Via Layetana. Lì chiedi di Mendo-za.Mi conosce e ti puoi fidare. Qualunquecosa succeda, mi hai capito?, qualunquecosa succeda, non scendere nelle fogne.È chiaro?»

«Come il sole.»«Arrivo tra un minuto.»La telefonata si interruppe.

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«Sono sessanta pesetas» sentenziòimmediatamente l’oste alle mie spalle.«Tariffa notturna.»

«La pago alle cinque, generale»risposi calmissimo.

Le borse sotto gli occhi si tinsero dirosso vino.

«Ti spacco la faccia, poppante» miminacciò, furioso.

Mi precipitai fuori dal locale senzadargli il tempo di uscire da dietro ilbancone con il suo manganellod’ordinanza antisommossa. Avreiaspettato Florián all’angolo, davanti alnegozio di maschere. Non poteva tardaremolto, mi dissi.

Le campane della cattedrale

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suonarono le quattro. I primi sintomi distanchezza cominciavano ad assalirmicome lupi affamati. Per combattere ilfreddo e il sonno mi misi a camminare incircolo. Poco dopo sentii dei passi sulselciato. Mi voltai per andare incontro aFlorián, ma la figura che si stavaavvicinando non combaciava con quelladel vecchio poliziotto. Era una donna.Istintivamente mi nascosi, temendo chela dama in nero si fosse messa sulle mietracce. L’ombra si proiettò sul selciato ela donna mi passò davanti senzavedermi. Era Maria, la figlia del dottorShelley.

Si avvicinò al tombino e si sporsesull’orlo dell’abisso. In mano aveva una

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boccetta di vetro. Il suo viso brillava alchiarore della luna, trasfigura-to.Sorrideva. Capii subito che qualcosanon quadrava. Pensai perfino che fossecome in trance e che fosse arrivata lìcome una sonnambula. Era l’unicaspiegazione che mi veniva in mente.Preferivo quell’ipotesi assurda piuttostoche contemplare altre alternative. Pensaidi avvicinarmi, di chia-marla per nome,di fare una cosa qualunque. Mi armai dicoraggio e avanzai di qualche passo.Maria si voltò con una rapidità eun’agilità da felino, come se avesseannusato la mia presenza nell’aria. I suoiocchi lampeggia-rono nel vicolo, e lasmorfia che le si disegnò sul volto mi

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fece gelare il sangue.«Vattene» mormorò con una voce

irriconoscibile.130«Maria?» balbettai sconcertato.Un attimo dopo saltò giù nel tunnel.

Corsi verso il bordo del tombino,aspettandomi di vedere il corpo a pezzidi Maria Shelley. Un raggio di lunarischiarò fugacemente il pozzo, e il voltodi Maria brillò sul fondo.

«Maria» urlai. «Aspetti!»Scesi in fretta e furia la scaletta. Un

fetore penetrante mi assalì dopo appenaun paio di metri. Via via che avanzavo lasfera di chiarore in superficie diventavasempre più piccola. Cercai in tasca una

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scatoletta di cerini e ne accesi uno.Davanti a me si dischiuse un’immaginespettrale.

Una galleria circolare si perdevanell’oscurità. Umidità e marciume.

Squittii di ratti. E l’eco infinita dellabirinto di tunnel sotto la città. Su unaparete, una targa ricoperta di sporciziadiceva: SGAB/1881

Collettore Settore IV/ Livello 2 -Tratto 66

La parete opposta era crollata e ilterriccio aveva ostruito parte delcollettore. Si distinguevano i diversistrati di antichi livelli della città, unosopra l’altro.

Contemplai i cadaveri di quelle

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vecchie Barcellone sulle quali si ergevala nuova città. Era lo scenario in cuiSentís aveva trovato la morte. Accesi unaltro cerino. Trattenni i conati di vomitoche mi risalivano in gola e seguii perqualche metro le impronte.

«Maria?»La mia voce si trasformò in un

rimbombo spettrale che mi raggelò ilsangue nelle vene. Decisi di stare zitto.Una miriade di puntini rossi si agi-tavano come insetti sopra uno stagno.Topi. La fiamma dei cerini cheaccendevo in continuazione li teneva aprudente distanza.

Stavo riflettendo se continuare adavanzare nella galleria quando sentii una

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voce in lontananza. Guardai per l’ultimavolta verso l’imboccatura del tombino.Nessuna traccia di Florián. Sentii dinuovo quella voce. Sospirai e miaddentrai nelle tenebre.

Il tunnel lungo il quale camminavomi faceva pensare all’intestino di un 131

animale. Il pavimento era ricopertoda un ruscello di acque fecali. Avanzavosoltanto alla luce dei cerini. Neaccendevo uno dopo l’altro, impedendoall’oscurità di avvolgermicompletamente. Via via che miaddentravo nel labirinto, l’olfatto siabituava al puzzo di fogna. Notai cheanche la tempe-ratura saliva. Un’umiditàvischiosa mi si era appiccicata alla

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pelle, ai vestiti e ai capelli.Qualche metro più avanti scorsi una

croce rozzamente dipinta di rosso cheluccicava su un muro. Altre croci similimarcavano le pareti. Mi sembrò discorgere qualcosa che brillava per terra.Mi inginocchiai per vedere meglio: unafotografia. La riconobbi subito. Era unodei ritratti dell’album che avevamotrovato nella serra. C’erano altrefotografie sparse per terra.

Venivano tutte dallo stessoraccoglitore. Alcune erano statestrappate. Venti passi dopo trovail’album, praticamente a pezzi. Loraccolsi e ne sfogliai le pagine vuote.Sembrava che qualcuno vi avesse

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cercato qualcosa e, non trovandolo, loavesse stracciato con rabbia.

Ero davanti a un bivio, una specie dicamera di distribuzione, un raccor-do dicondutture. Alzai gli occhi: propriosopra di me c’era l’imbocco di un altrocondotto fognario. Mi parve di scorgereuna grata. Avvicinai il cerino, ma unazaffata di aria melmosa esalata da unodei collettori spense la fiamma. In quelmomento sentii qualcosa di gelatinosoche si muoveva lentamente rasentando imuri. Un brivido di paura mi corse lungola schiena.

Cercai un altro cerino nell’oscurità eprovai ad accenderlo a tentoni, ma nonci riuscii. Stavolta ne ero sicuro:

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qualcosa si muoveva nei tunnel,qualcosa di vivo che non erano topi. Misentii soffocare. Il fetore mi sferzòbrutalmente le narici. Finalmente riusciiad accendere un cerino. All’inizio lafiamma mi accecò. Poi vidi qualcosache strisciava verso di me. Da tutti itunnel. Sagome confuse avanzavanocome ragni lungo i condotti. Il cerino micadde dalle dita tremanti. Avrei volutomettermi a correre, ma avevo i muscolibloccati.

All’improvviso un raggio di lucefendette l’oscurità, catturando la fugacevisione di un braccio che si allungavaverso di me.

«Óscar!»

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L’ispettore Florián correva nella miadirezione. Con una mano reggeva unapila. Con l’altra una pistola. Appena miraggiunse, scandagliò tutti gli angoli conil fascio di luce. Sentivamo il rumoreraggelante di quelle sagome che siritraevano, fuggendo dalla luce. Floriánteneva la pistola sol-132

levata.«Cos’era?»Avrei voluto rispondere, ma la voce

mi si spezzò in gola.«Mi spieghi cosa diavolo ci fai qui

sotto?»«Maria…» balbettai.«Cosa?»«Mentre l’aspettavo, ho visto Maria

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Shelley sparire nelle fogne e…»«La figlia di Shelley?» chiese

Florián, sconcertato. «Qui?»«Sì.»«E Claret?»«Non lo so. Ho seguito delle

impronte…» Florián ispezionò le paretiche ci circondavano. Alla fine di unagalleria c’era una saracinesca di ferrotutta arrugginita. Corrugò la fronte e simosse lentamente in quella direzione. Iomi incollai a lui.

«È in questi tunnel che hanno trovatoSentís?»

Florián annuì in silenzio, indicandol’estremità opposta del tunnel.

«Questa rete di collettori arriva fino

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al vecchio mercato del Borne. Sentís èstato trovato lì, ma c’erano tracce che ilcorpo era stato trascinato.»

«È lì la vecchia fabbrica della Velo-Granell, vero?»

Florián annuì di nuovo.«Crede che qualcuno utilizzi questi

corridoi sotterranei per muoversi sottola città, dalla fabbrica a…?»

«Tieni, reggi la pila» mi interruppeFlorián. «E questa.»

“Questa” era la pistola. La tenni inmano mentre lui forzava la saracinesca.Il revolver pesava più di quanto avessiimmaginato. Appoggiai il dito sulgrilletto e la osservai alla luce. Floriánmi lanciò un’occhiata assassina.

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«Attento, non è un giocattolo.Continua a fare lo stupido e prima o poiun proiettile ti spacca la testa come unmelone.»

La saracinesca cedette. Il fetore chene uscì era indescrivibile. Facemmoqualche passo indietro, cercando diresistere alla nausea.

«Cosa diavolo c’è lì dentro?»esclamò Florián.

Tirò fuori un fazzoletto e si tappò ilnaso e la bocca. Gli tesi l’arma e 133

sollevai la pila. Florián abbatté lasaracinesca con un calcio. Puntai la luceverso l’interno. L’aria era così spessache non si vedeva quasi niente. Floriánarmò il percussore e avanzò sulla soglia.

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«Resta lì» mi ordinò.Ignorai le sue parole e lo raggiunsi.«Santo Dio!…» esclamò.Sentii che mi mancava l’aria. Era

impossibile accettare lo spettacolo chesi offriva ai nostri occhi. Imprigionatinelle tenebre, decine di corpi inerti eincompleti pendevano da ganciarrugginiti. Su due grandi tavoligiacevano, nel caos più totale, straniattrezzi: congegni di metallo, ingranaggie meccanismi di legno e acciaio. Unacollezione di contenitori era allineata inuna teca di vetro. Più in là vidi un set disiringhe ipodermiche e una paretetappezzata di strumenti chirurgicisporchi e anneriti.

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«Che razza di roba è?» mormorò,teso, Florián.

Una figura di legno e di pelle, dimetallo e di osso, giaceva su un tavolocome un macabro giocattolo non ancorafinito. Rappresentava un bambino conocchi rotondi da rettile e una linguabifida che spuntava fra le labbra nere.Sulla fronte, marchiato a fuoco, sivedeva chiaramente il simbolo dellafarfalla.

«È il suo laboratorio… È qui che licrea…» mi scappò a voce alta.

E allora gli occhi dell’infernalepupazzo si mossero. Girò la testa. Le sueviscere facevano il rumore di unorologio che viene caricato. Sentii le

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sue pupille da serpente posarsi sullemie, mentre si passava sulle labbra lalingua bifida. Ci stava sorridendo.

«Usciamo di qui» gridò Florián.«Subito!»

Ritornammo nella galleria dopo averchiuso la saracinesca alle nostre spalle.Florián ansimava.

non riuscivo nemmeno a fiatare. Miprese la pila dalle mani tremanti eispezionò il tunnel. Una gocciaattraversò il fascio di luce. Poi un’altra.E

un’altra ancora. Gocce brillanti di unrosso scarlatto. Sangue. Ci guardammoin silenzio. Qualcosa gocciolava dalsoffitto. Florián mi fece segno di

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indietreggiare e puntò in alto il fascio diluce. Vidi suo volto impallidire e la suamano salda scossa da un tremito.

«Scappa» fu tutto quel che riuscì adirmi. «Vattene via di qui!»

134Sollevò la pistola dopo avermi

lanciato un ultimo sguardo. Vi lessi dap-prima il terrore e poi la rara certezzadella morte. Schiuse le labbra peraggiungere qualcosa, ma dalla sua boccanon uscì più alcun suono. Una sagomascura si avventò su di lui e lo colpìprima che potesse muovere un muscolo.Risuonò uno sparo, una detonazioneassordante che rimbalzò sul muro. Lapila cadde in un rivolo d’acqua. Il corpo

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di Florián fu scagliato contro la paretecon tale violenza che aprì uno squarcio aforma di croce sulle piastrelle annerite.Ebbi la certezza che era morto ancoraprima che scivolasse lungo la parete e siaccasciasse a terra, inerte.

Mi misi a correre, cercandodisperatamente la via del ritorno. Unurlo bestiale invase i tunnel. Mi voltai.Una dozzina di quegli esseri avanzavada ogni direzione. Corsi come nonavevo mai corso in vita mia, inciam-pando, inseguito dall’ululato di quellamuta invisibile. Non riuscivo aschiodarmi dalla testa l’immagine delcorpo di Florián incrostato nella parete.

Avevo quasi raggiunto l’uscita

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quando una delle sagome mi scavalcòd’un balzo, sbarrandomi l’accesso allascaletta. Mi fermai di botto. La luce chefiltrava dal pozzetto illuminò il volto diun arlecchino. Due rombi neri velavanoil suo sguardo vitreo e dalle labbra dilegno levigato spuntavano zanned’acciaio. Indietreggiai di un passo. Unpaio di mani si posarono sulle miespalle. Le unghie mi stracciarono ivestiti. Qualcosa mi scivolò attorno alcollo. Era freddo e viscido. Sentii ilnodo stringersi fino a moz-zarmi il fiato.La vista si annebbiò. Qualcosa miafferrò le caviglie. L’arlecchino siinginocchiò davanti a me e allungò lemani verso il mio viso.

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Credetti di essere lì lì per svenire.Pregai che accadesse. Un attimo dopoquella testa di legno, carne e metalloandò in mille pezzi.

Lo sparo proveniva dalla mia destra.La detonazione mi perforò i timpa-ni el’odore della polvere da sparo impregnòl’aria. L’arlecchino crollò ai miei piedi.Ci fu un secondo sparo. La pressione sulmio collo cessò e caddi bocconi.Percepivo soltanto l’intenso odore dellapolvere da sparo. Qualcuno mi tira va.Aprii gli occhi e intravidi un uomo chesi chinava su di me e mi sollevava.

Avvertii all’improvviso il chiaroredel giorno e i polmoni mi si riempironodi aria pura. Poi persi i sensi. Ricordo

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solo di aver sognato uno scalpi-tio dizoccoli e un incessante rintocco dicampane.

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21La stanza in cui mi risvegliai mi era

familiare. Le finestre erano chiuse e unchiarore diafano filtrava dalle imposte.In piedi, accanto al letto, qualcuno miosservava in silenzio. Marina.

«Benvenuto nel mondo dei vivi.»Mi drizzai di scatto. La vista mi si

annebbiò immediatamente e schegge dighiaccio mi trapanarono il cervello.Marina mi sostenne mentre il dolore sispegneva a poco a poco.

«Stai calmo» sussurrò.«Come sono arrivato qui…?»«Ti ha portato qualcuno, all’alba. Su

una carrozza. Non ha detto chi e-ra.»«Claret…» mormorai, mentre i

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tasselli di quel rompicapo cominciavanoa mettersi in ordine nella testa.

Era stato Claret a tirarmi fuori daitunnel e a portarmi nella villa di Sarriá.Gli dovevo la vita.

«Mi hai fatto prendere unospavento… Ma dove sei stato? Ti hoaspettato in piedi tutta la notte. Non tiazzardare mai più a farmi una cosa delgenere, capito?»

Avevo dolori dappertutto e mifaceva persino male la testa quandoannuivo. Mi sdraiai di nuovo. Marina miportò un bicchiere d’acqua alle labbra.Lo bevvi in un sorso.

«Ne vuoi ancora, vero?»Socchiusi gli occhi e lei riempì

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un’altra volta il bicchiere.«E Germán?» le chiesi.«Nel suo studio. Era preoccupato

per te. Gli ho detto che qualcosa tiaveva fatto male.» «E ti ha creduto?»

«Mio padre crede a tutto quello chegli dico» rispose Marina, senza ma-lizia.

Mi avvicinò il bicchiere d’acqua.136«Che ci fa tante ore nello studio se

non dipinge più?»Marina mi prese il polso per sentire

le pulsazioni.«Perché è un artista» disse. «Gli

artisti vivono nel passato o nel futuro;mai nel presente. Germán vive di

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ricordi. È tutto quello che ha.»«Ha te.»«Io sono il più importante dei suoi

ricordi» disse fissandomi negli occhi.«Ti ho portato qualcosa da mangiare.

Devi recuperare le forze.»Rifiutai con un gesto della mano. La

sola idea del cibo mi dava il volta-stomaco. Marina mi appoggiò una manodietro la nuca e mi sostenne la testamentre bevevo ancora. Quell’acquafresca e cristallina era come una be-nedizione.

«Che ore sono?»«È tardo pomeriggio. Hai dormito

quasi otto ore.»Mi appoggiò la mano sulla fronte e

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la lasciò lì per qualche secondo.«Almeno non hai più la febbre.»Aprii gli occhi e le sorrisi. Marina,

pallidissima, mi osservava seria.«Deliravi. Parlavi nel sonno…»«Cosa dicevo?»«Sciocchezze.»Con le dita mi sfiorai la gola. Mi

faceva male.«Non toccarti» disse Marina,

scostandomi la mano. «Hai una bruttaferita. E dei tagli sulle spalle e sullaschiena. Chi ti ha ridotto così?»

«Non lo so…»Marina sospirò, impaziente.«Mi hai fatto morire di paura. Non

sapevo che fare. Ho telefonato a Florián

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da una cabina, ma il barista mi ha dettoche lo avevi appena chiamato e chel’ispettore era uscito senza dire doveandava. Ho richiamato poco primadell’alba e non era ancora tornato…»

«Florián è morto» dissi, sentendoche la voce mi si spezzava mentrepronunciavo il nome del poveroispettore. «Ieri notte sono tornato alcimitero» confessai.

«Tu sei matto» esclamò Marina.Probabilmente aveva ragione. Senza

dire una parola, mi diede un terzo 137bicchiere d’acqua. Lo svuotai fino

all’ultima goccia. Poi, lentamente, leraccontai quello che era successo lanotte prima. Alla fine Marina si limitò a

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fissarmi in silenzio. Avevol’impressione che fosse preoccupata perqualcos’altro, qualcosa che nonc’entrava niente con il mio racconto.Volle a tutti i costi che mangiassi quelloche mi aveva portato, che avessi fame ono. Mi offrì del pane e della cioccolata,e non mi tolse gli occhi di dosso finchénon ebbi inghiottito mezza tavoletta e unpanino grande come un ta-xi. La sferzatadegli zuccheri nel sangue non si feceattendere e ben presto mi sentiirinascere.

«Anch’io, mentre dormivi, hogiocato al detective» disse Marina,indicando un grosso volume rilegato inpelle sul comodino.

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Lessi il titolo sul dorso.«Ti interessi di entomologia?»«Di insetti» precisò Marina. «Ho

trovato la nostra amica, la farfalla ne-ra.»

«Teufel…»«Una creatura adorabile. Vive in

scantinati e gallerie sotterranee, lontanodalla luce. Ha un ciclo di vita di duesettimane. Prima di morire seppel-lisceil proprio corpo tra i rifiuti. Tre giornidopo si genera una nuova lar-va.»

«Risuscita?»«Si potrebbe dire così.»«E di cosa si nutre?» chiesi.

«Sottoterra non ci sono fiori népolline…»

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«Mangia i propri piccoli» spiegòMarina. «Tutto lì. Vite esemplari deinostri cugini insetti.»

Marina si avvicinò alla finestra efece scorrere le tende. Il sole inondò lastanza ma lei non si mosse, immersa neisuoi pensieri. Mi sembrava quasi disentir funzionare gli ingranaggi del suocervello.

«Che senso ha aggredirti perrecuperare l’album e poi gettare via lefotografie?»

«Probabilmente chi mi ha aggreditocercava qualcosa che era dentrol’album…»

«Invece, qualunque cosa fosse, nonc’era più…» completò la frase Marina.

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138«Il dottor Shelley…» esclamai,

ricordando all’improvviso.Marina mi guardò senza capire.«Quando siamo andati a trovarlo, gli

abbiamo mostrato la foto scattata nel suostudio» dissi.

«E se l’è tenuta!»«Non solo. Mentre andavamo via

l’ha gettata nel fuoco.»«E perché Shelley avrebbe dovuto

distruggere quella foto?»«Forse perché c’era qualcosa che

nessuno doveva vedere…» suggerii,saltando giù dal letto.

«Dove credi di andare?»«A trovare Luis Claret» risposi. «È

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lui che ha la chiave di tutta questafaccenda.»

«Tu non esci di casa prima diventiquattro ore» replicò Marina,appog-giandosi alla porta. «L’ispettoreFlorián ha dato la vita perché tu potessisalvarti.»

«Tra ventiquattro ore quello che sinasconde nelle gallerie sarà già venuto acercarci, se non facciamo qualcosa perfermarlo» dissi. «Il minimo che Floriánsi merita è che facciamo giustizia.»

«Shelley ha detto che alla morteimporta poco della giustizia» mi ricordòMarina. «Forse ha ragione.»

«Forse» ammisi. «A noi peròimporta della giustizia, eccome.»

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Quando arrivammo ai confini delRaval la nebbia invadeva i vicoli,appena rischiarata dalle luci di tuguri esquallide bettole. Ci eravamo lasciatialle spalle l’allegra animazione delleRamblas e ci addentravamo nelquartiere più miserabile della città. Nonc’era traccia di turisti o di curiosi.

Sguardi furtivi ci seguivano daportoni maleodoranti e da finestreritagliate su facciate che si sgretolavanocome l’argilla. L’eco dei televisori edelle radio rimbombava in quei canyondi miseria, senza mai oltrepassare i tetti.

La voce del Raval non arriva alcielo.

Ben presto, dagli spiragli tra quegli

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edifici ricoperti da decenni di lerciume,scorgemmo i monumentali ruderi delGran Teatro Real. Sul tetto, come unabanderuola, spiccava il simbolo dellafarfalla dalle ali nere. Ci fermammo acontemplare quello spettacolofantastico. La costruzione più 139

delirante di Barcellona sidecomponeva come un cadavere in unapalude.

Marina indicò le finestre illuminateal terzo piano del fabbricato laterale.Riconobbi l’ingresso delle scuderie.Quella era la casa di Claret. Entrammonel portone. L’androne era ancora pienodi pozzanghere formate dal temporaledella notte prima. Ci spingemmo su per

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le scale dai gradini anneriti e consunti.«E se non vuole vederci?» chiese

Marina, turbata. «Probabilmente ci staaspettando» mi passò per la testa.

Arrivati al secondo piano, notai cheMarina era molto pallida e respiravacon difficoltà. «Ti senti bene?»

«Un po’ stanca» rispose con unsorriso poco convincente. «Vai troppo infretta per me.»

La presi per mano e la guidai fino alterzo piano, scalino dopo scalino.

Ci fermammo davanti alla porta diClaret. Marina respirò a fondo. Il pettole tremava.

«Sto bene, davvero» disse,indovinando i miei timori. «Dai, bussa.

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Non mi hai mica portato qui per fare ungiro turistico del quartiere…»

Bussai con le nocche sulla vecchiaporta di legno, solida e spessa come unmuro. Bussai di nuovo. Passi lenti che siavvicinavano. La porta si aprì e sullasoglia comparve Luis Claret, l’uomo chemi aveva salvato la vita.

«Entrate» si limitò a dire. Poi si giròe ci precedette all’interno.

Ci chiudemmo la porta alle spalle.L’appartamento era buio e freddo.

L’intonaco pendeva dal soffitto comela pelle di un rettile. I lampadari, prividi lampadine, ospitavano nidi di ragni.Le piastrelle del pavimento erano tuttesbrecciate.

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«Da questa parte» ci invitò Claret.Seguimmo la sua voce fino a una

stanza illuminata a stento da un bra-ciere. Lui sedeva davanti ai carboniaccesi, osservando le braci in silenzio.

I muri erano tappezzati di vecchiritratti, personaggi e volti di altri tempi.

Claret alzò lo sguardo verso di noi.Aveva gli occhi chiari e penetranti, icapelli grigi e la pelle grinzosa. Decinedi rughe gli segnavano il tempo sulvolto, ma nonostante l’età avanzata davauna sensazione di forza che avrebbefatto invidia a molti uomini contrent’anni meno di lui. Un attor giovanedi varietà invecchiato alle intemperie,con dignità e stile.

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«Non ho ancora avuto modo diringraziarla. Per avermi salvato la vita.»

140«Non è me che devi ringraziare.

Come mi avete trovato?»«L’ispettore Florián» mi anticipò

Marina «ci aveva detto che lei e ildottor Shelley eravate stati gli unici arimanere fino all’ultimo istante accantoa Michail Kolvenik e a Eva Irinova. Eche lei non li aveva mai abbandonati.

Come ha conosciuto MichailKolvenik?»

Un debole sorriso affiorò sullelabbra di Claret.

«Il signor Kolvenik arrivò in questacittà durante una delle più intense gelate

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del secolo» spiegò. «Solo, affamato emorto di freddo, cercò rifugionell’androne di un vecchio palazzo perpassarvi la notte. Aveva solo pochispiccioli per comprarsi magari un po’ dipane e del caffè bollente. Nient’altro.Mentre rifletteva sul da farsi, si accorsedi non essere solo in quell’androne.C’era anche un bambino di nemmenocinque anni vestito di stracci, unmendicante che, come lui, cercavariparo dal gelo. Kolvenik e il bambinonon parlavano la stessa lingua, perciò sicapivano a stento. Però Kolvenik glisorrise e gli diede i suoi soldi,spiegandogli a gesti di spenderli percomprarsi da mangiare. Il bambino,

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incredulo, corse a comprare una focac-cia in una panetteria accanto a PlazaReal che rimaneva aperta tutta la notte.Quando tornò per condividere il panecon lo sconosciuto vide la polizia che loportava via. In prigione Kolvenik fupestato brutalmente dai compagni dicella e finì nell’infermeria del carcere.Il bambino lo aspettò per giorniall’ingresso, come un cane senzapadrone. Due settimane dopo, quando furilasciato, Kolvenik zoppicava. Ilbambino era lì a sostenerlo.

Diventò la sua guida e giurò di nonabbandonare mai quell’uomo che, nellanotte più buia della sua vita, gli avevaceduto il poco che possedeva… Quel

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bambino ero io.»Claret si alzò e ci fece segno di

seguirlo lungo uno stretto corridoio chefiniva con una porta. Tirò fuori unachiave e aprì. Dietro quella porta cen’era un’altra, identica, e, tra le due, unpiccolo vano di passaggio.

Per attenuare l’oscurità che viregnava Claret accese una candela. Conun’altra chiave aprì la seconda porta.Una corrente d’aria investì il corridoio efece ondeggiare la fiamma. Marina mistrinse forte la mano mentre var-cavamola soglia. Poi ci fermammo. Davanti anoi una visione da favola.

L’interno del Gran Teatro Real.Piani su piani si innalzavano verso

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la grande volta. Le tende di vellutopendevano dai palchi, ondeggiando nelvuoto. Grandi lampadari di cristallo,sospesi sulla platea sconfinata e deserta,attendevano un collegamento 141

elettrico che non era mai arrivato. Citrovavamo a un ingresso laterale delpalcoscenico. Sopra le nostre teste ilmacchinario di scena saliva versol’infinito, un universo di sipari,impalcature, pulegge e passerelle che siperdeva lassù in alto.

«Da questa parte» indicò Claret,precedendoci.

Attraversammo il palco. Alcunistrumenti languivano nella fossadell’orchestra. Sul podio del direttore

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una partitura coperta dalle ragnatele eraaperta alla prima pagina. Più in là ilgrande tappeto del corridoio centraledella platea tracciava una strada che nonportava da nessuna parte.

Claret si diresse verso una portailluminata e ci fece segno di aspettaresulla soglia. Io e Marina ci scambiammoun’occhiata.

La porta immetteva in un camerino.Centinaia di abiti luccicanti eranoappesi a sbarre metalliche. Una pareteera coperta di specchi; l’altra eratappezzata da decine di vecchi ritratti diuna donna di indescrivibile bellezza:Eva Irinova, l’incantatrice deipalcoscenici. La donna per cui Michail

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Kolvenik aveva fatto costruire quelsantuario. Fu allora che la vidi. La da-ma in nero si guardava in silenzio allospecchio, il volto velato. Sentendo inostri passi si voltò lentamente e annuì.Solo allora Claret ci permise di entrare.Ci avvicinammo a lei come se fosseun’apparizione, con un misto diattrazione e timore, e ci fermammo a unpaio di metri di distanza. Claret erarimasto sulla porta, come una sentinella.La donna si voltò di nuovo verso lospecchio, esaminando la propriaimmagine.

Improvvisamente, con infinitadelicatezza, si sollevò il velo. La lucedelle poche lampadine funzionanti ci

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rivelò il suo volto riflesso nellospecchio, o meglio, ciò che l’acidoaveva risparmiato. Ossa allo scoperto epelle avvizzita. Labbra senza forma,appena una fessura sui lineamenticancellati. Occhi che non potevano piùpiangere. Per un interminabile istante cilasciò contemplare quell’orrore che disolito celava sotto il velo. Poi, con lastessa delicatezza con cui ci avevarivelato il suo volto e la sua identità, linascose di nuovo e ci invitò a sederci.Calò un lungo silenzio.

Eva Irinova allungò una mano versoil viso di Marina e le accarezzò leguance, le labbra, il collo. Ne leggeva labellezza e la perfezione con dita ansiose

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e tremanti. Marina deglutì. La damaritrasse la mano e, da dietro il velo, unluccichio balenò nei suoi occhi senzapalpebre. Soltanto allora cominciò araccontarci la storia che aveva tenutosegreta per più di trent’anni.

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22«Non ho mai conosciuto il mio

Paese se non in fotografia. Quello che sodella Russia lo devo ai racconti, allechiacchiere e ai ricordi di altre persone.Sono nata su una chiatta che attraversavail Reno, nell’Europa distrutta dallaguerra e sconvolta dal terrore. Annidopo seppi che mia madre mi portavagià in grembo quando, sola e malata,aveva attraversato la frontiera russo-polacca in fuga dalla rivoluzione. Morìnel mettermi al mondo. Non ho maisaputo il suo nome né chi fosse miopadre. La seppellirono sulla ri-va delfiume in una tomba anonima, perduta persempre. Una coppia di at-tori di San

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Pietroburgo che viaggiava sulla chiatta,Sergej Glazunow e la gemella Tatiana,decise di occuparsi di me: percompassione e perché, co-me mi disseSergej molti anni dopo, ero nata con gliocchi di colore diverso, e questo è unsegno di buona sorte.

«A Varsavia, grazie all’abilità e agliintrighi di Sergej, ci unimmo a unacompagnia circense diretta a Vienna. Imiei primi ricordi sono di quella gente edei loro animali. La tenda di un circo, igiocolieri e un fachiro sor-domuto dinome Vladimir che mangiava vetro,sputava fuoco e mi regalava sempreuccellini di carta che costruiva come permagia. Sergej finì per diventare

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l’amministratore della compagnia e cistabilimmo a Vienna. Il circo fu la miascuola e la casa in cui crebbi. Già daallora, però, sapevamo che aveva igiorni contati. La realtà del dopoguerraera assai più grottesca delle pantomimedei pagliacci e degli orsi ballerini. Di lìa poco nessuno avrebbe più avutobisogno di noi. Il Ventesimo secolo eradiventato il grande circo della storia.

«Quando avevo appena sette o ottoanni Sergej mi disse che era venuto ilmomento di guadagnarmi il pane. Cosìentrai anch’io a far parte dellospettacolo, prima come assistente diVladimir e poi con un numero tutto mioin cui cantavo una ninna nanna a un orso

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che alla fine si addormentava. Il numero,che in un primo momento serviva datappabuchi per consen-tire ai trapezistidi prepararsi, ebbe un grande successo.Nessuno ne fu più sorpreso di me.Sergej decise allora di darmi più spazio.Fu così che finii per cantare filastrocchea vecchi leoni affamati e ammalatidall’alto di una piattaforma luminosa.Gli animali e il pubblico mi ascoltavanoipnotizzati.

143A Vienna si parlava della bambina

che, con la sua voce, ammansiva le fie-re. E un mucchio di gente era disposta apagare per vederla. Avevo nove anni.

«Sergej non tardò a capire che ormai

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non aveva più bisogno del circo.La bambina dagli occhi di colore

diverso gli aveva portato fortunadavvero.

Espletò le procedure legali perdiventare mio tutore e annunciò al restodella compagnia che ci saremmo messiin proprio. Disse che il circo non era unluogo adatto a far crescere una bambina.Quando si scoprì che qualcuno, nelcorso degli anni, aveva sistematicamenterubato parte dei guadagni del circo,Sergej e Tatiana accusarono Vladimir,aggiungendo inoltre che si prendevacerte libertà con me. Vladimir fuarrestato e messo in prigione, ma ildenaro non venne mai trovato.

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«Per festeggiare la sua indipendenzaSergej comprò un’automobile di lusso,vestiti da dandy e gioielli per Tatiana.Ci trasferimmo in una villa che Sergejaveva affittato nei boschi intorno aVienna. Non fu mai chiaro dove avessepreso i soldi per pagarsi tutto quel lusso.Pomeriggio e sera io cantavo in un teatroaccanto all’Opera, in uno spettacolointitolato L’angelo di Mosca. Miribattezzarono Eva Irinova, un’idea diTatiana, che aveva preso il nome da unromanzo a puntate pubblicato con uncerto successo da un giornale. Quella fula prima di una serie di messinscene.Dietro suggerimento di Tatiana mivennero assegnati un maestro di canto,

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uno di danza e un professore d’artedrammatica. Quando non calcavo unpalcoscenico mi esercitavo. Sergej nonmi permetteva di avere amici, di uscirea passeggio, di starmene da sola o dileggere libri. È per il tuo bene, diceva.Quando il mio corpo cominciò asvilupparsi, Tatiana insisté perchéavessi una stanza tutta per me. Sergejacconsentì di malavoglia, ma volle unacopia della chiave. Tornava spessoubriaco a mezzanotte e cercava dientrare nella mia stanza. A volte era cosìsbronzo che non riusciva nemmeno ainfilare la chiave nella toppa. Altrevolte ce la faceva. L’applauso di unpubblico ano-nimo fu l’unica

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soddisfazione di quegli anni. Con iltempo mi divenne più indispensabiledell’aria.

«Viaggiavamo spesso. Il miosuccesso a Vienna era arrivatoall’orecchio degli impresari di Parigi,Milano e Madrid. Sergej e Tatiana eranosempre al mio fianco. Naturalmente, nonho mai visto un soldo del ricavato diquei concerti e non so che fine abbiafatto quel denaro. Sergej era semprepieno di debiti e di creditori. La colpa,mi accusava con amarezza, era mia.

144Spendeva tutto per farmi vivere

come una regina. Invece io non sapevoap-prezzare quello che lui e Tatiana

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avevano fatto per me. Sergej mi insegnòa vedermi come una ragazzina sporca,pigra, ignorante e stupida; un’infeliceche non avrebbe mai combinato niente dibuono nella vita, che nessuno avrebbemai amato né rispettato. Ma tutto questonon importava perché, mi sussurravaall’orecchio Sergej con il suo alitoetilico, lui e Tatiana sarebbero semprestati lì a prendersi cura di me e aproteggermi dalle insidie del mondo.

«Il giorno in cui compii diciassetteanni scoprii di odiarmi e di tollerare astento la mia immagine allo specchio.Smisi di mangiare. Il mio corpo miripugnava e cercavo di nasconderlosotto vestiti laceri e sporchi. Un giorno

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trovai nella spazzatura un vecchio rasoiodi Sergej. Lo nascosi nella mia stanza epresi l’abitudine di tagliuzzarmi le manie le braccia. Per punirmi.

Ogni notte Tatiana mi curava insilenzio.

«Due anni dopo, a Venezia, un conteche mi aveva sentito cantare mi proposedi sposarlo. Quella sera stessa, appenalo venne a sapere, Sergej mi massacròdi botte. Mi spaccò le labbra a furia dipugni e mi incrinò due costole. Tatiana ela polizia riuscirono a fermarlo. LasciaiVenezia su un’ambulanza. Tornammo aVienna, ma i problemi economici diSergej non ci davano tregua.Ricevevamo continue minacce. Una

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notte, mentre dormivamo, deglisconosciuti appiccarono il fuoco allanostra casa. Qualche settimana primaSergej aveva ricevuto un’offerta da unimpresario di Madrid per il quale, inpassato, mi ero esibita con grandesuccesso. Daniel Mestres, così sichiamava, era diventato socio dimaggioranza del vecchio Teatro Real diBarcellona e voleva inaugurare con mela stagione. Così una mattina, all’alba,praticamente fuggendo, facemmo levaligie e partimmo per Barcellona conquello che avevamo addosso. Avevoquasi diciannove anni e pregavo il cielodi non farmi arrivare a venti. Già damolto pensavo di togliermi la vita.

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Niente mi legava a questo mondo. Eromorta da tempo, ma adesso me neaccorgevo. Fu allora che conobbiMichail Kolvenik…

«Eravamo in scena al Teatro Real daqualche settimana. Nella compagnia siera sparsa la voce che un gentiluomoveniva ogni sera nello stesso palco persentirmi cantare. In quel periodo aBarcellona circolavano storie di ognigenere su Michail Kolvenik. Su comeaveva fatto fortuna… Sulle sue origini ela sua vita privata, piena di enigmi emisteri… La sua leggenda lo precedeva.Una sera, attratta da quello stranopersonaggio, gli feci reca-145

pitare un invito per venirmi a trovare

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in camerino dopo lo spettacolo. Eraquasi mezzanotte quando MichailKolvenik bussò alla mia porta. Con tuttiquei pettegolezzi, mi aspettavo un tipominaccioso e arrogante. Invece la miaprima impressione fu che si trattava diun uomo timido e riservato. Vestiva discuro, con semplicità. Sfoggiava solouna piccola spilla sul risvolto dellagiacca: una farfalla con le ali spiegate.Mi ringraziò per l’invito e mi espressela sua ammirazione, sostenendo che eraun onore conoscermi. Replicai che,dopo quanto avevo sentito dire su di lui,l’onore era mio. Sorrise e mi suggerì dinon dare retta ai pettegolezzi. Michailaveva il sorriso più bello che abbia mai

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visto. Quando sorrideva, uno potevacredere a qualunque cosa gli uscissedalle labbra. Una volta qualcuno hadetto che Michail, se se lo fosseproposto, avrebbe potuto convincereCristoforo Colombo che la terra erapiatta come una mappa; e aveva ragione.Quella notte convinse me a passeggiarecon lui per le strade di Barcellona. Mispiegò che girova-gava spesso nel cuoredella notte per la città addormentata. Io,che da quando eravamo a Barcellonaavevo a malapena messo il naso fuoridal teatro, accettai. Sapevo che Sergej eTatiana si sarebbero infuriati, ma non miimportava. Uscimmo di nascosto dallaporta del proscenio. Michail mi offrì il

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braccio e passeggiammo fino all’alba.Mi mostrò la città magica attraverso isuoi occhi. Mi parlò dei suoi misteri,dei suoi angoli incantati e dello spiritoche viveva in quelle strade. Mi raccontòmille e una leggenda.

Percorremmo i vicoli segreti delBarrio Gótico e della città vecchia.Michail sembrava sapere tutto: chiaveva abitato in ogni palazzo, qualidelitti e quali storie d’amorenascondevano ogni muro e ogni finestra.Conosceva i nomi di tutti gli architetti,di tutti gli artigiani e delle migliaia diinvisibili operai che avevano costruitoquello scenario. Mentre mi parlava ebbil’impressione che Michail non avesse

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mai condiviso con nessuno quelle storie.Mi turbò la sua solitudine e, allo

stesso tempo, mi sembrò di intravederein lui un abisso infinito sul quale nonpotevo evitare di affacciarmi. L’alba cisorprese su una panchina del porto.Osservai lo sconosciuto con cui avevovagabondato per ore e mi sembrò diconoscerlo da sempre. Glielo confessai.Michail rise e in quel preciso momento,con la rara certezza che si ha soltanto unpaio di volte nella vita, seppi che avreitrascorso accanto a lui il resto della miaesistenza.

«Quella notte Michail mi disse chesecondo lui la vita concede a ciascunodi noi rari momenti di pura felicità. A

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volte, solo pochi giorni o settimane. Avolte, anni. Tutto dipende dalla fortuna.Il ricordo di quei momenti 146

non ci abbandona mai e si trasformain un paese della memoria a cui cer-chiamo inutilmente di fare ritorno per ilresto della vita. Per me quegli istantisaranno sempre sepolti in quella primanotte in cui passeggiammo per le viedella città…

«La reazione di Sergej e Tatiana nonsi fece attendere. Soprattutto quella diSergej. Mi proibì di rivedere Michail odi rivolgergli la parola. Minacciò diuccidermi se fossi uscita di nuovo dalteatro senza il suo permesso. Per laprima volta scoprii che non mi incuteva

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più timore, ma solo disprezzo. Per farloinfuriare ancora di più gli dissi cheMichail mi aveva chiesto di sposarlo eche io avevo accettato. Mi ricordò cheera il mio tutore, e non solo non avrebbeautorizzato il matrimonio, ma saremmopartiti al più presto per Lisbona. Tramiteuna ballerina della compagnia feciarrivare un messaggio disperato aMichail. Quella sera, prima dellospettacolo, si presentò a teatro incompagnia di due avvocati perincontrare Sergej. Gli comunicò che nelpomeriggio aveva firmato un contrattocon l’impresario del Teatro Real e cheera diventato il nuovo proprietario. Daquel momento lui e Tatiana erano

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licenziati.«Gli mostrò un dossier con

documenti e prove delle attività illegalidi Sergej a Vienna, Varsavia eBarcellona. Materiale più chesufficiente per sbatterlo dietro le sbarreper quindici o vent’anni. Ci aggiunse unassegno per una cifra superiore a quellache Sergej avrebbe potuto mettereinsieme in tutta una vita di intrallazzi emeschinità. L’alternativa era questa: seentro quarantotto ore lui e Tatianalasciavano per sempre Barcellona e siimpegnavano a non mettersi in nessunmodo in contatto con me potevanoprendersi assegno e dossier; se sirifiutavano di cooperare il dossier

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sarebbe finito nelle mani della polizia,assieme all’assegno, come incentivo peroliare gli ingranaggi della giustizia.Sergej, pazzo di rabbia, sbraitava chenon si sarebbe mai separato da me e che,per averla vinta, Michail sarebbe dovutopassare sul suo cadavere.

«Michail gli sorrise e se ne andò.Quella notte Tatiana e Sergej andarono aparlare con un losco individuo cheoffriva i propri servigi come sica-rio.Uscendo dal luogo dell’incontro furonoquasi colpiti dagli spari partiti da unacarrozza. I giornali, nel pubblicare lanotizia, avanzarono una serie di ipotesisull’attentato. Il giorno dopo Sergejaccettò l’assegno di Michail e lasciò la

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città con Tatiana senza nemmenosalutarmi…

«Quando seppi quello che erasuccesso volli a tutti i costi che Michail147

mi dicesse se era lui il responsabiledell’attentato. Desideravodisperatamente che mi rispondesse dino. Mi guardò fisso negli occhi e michiese perché dubitavo di lui. Mi sentiimorire. Il fragile castello di carte fattodi felicità e di speranza sembrava sulpunto di crollare. Insistetti. Michailrispose di no: non era lui ilresponsabile.

«“Se lo fossi, nessuno dei duesarebbe vivo” rispose gelido.

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«In quel periodo assunse uno deimigliori architetti della città perrealizzare la torre vicino al ParqueGlieli in base alle sue indicazioni. Delcosto dell’opera non discusse nemmenoun istante. Mentre la torre era incostruzione Michail affittò un interopiano del vecchio Hotel Colón in Plazade Cataluña, dove ci sistemammotemporaneamente. Per la prima voltanella vita scoprii che era possibileavere tanti servitori da non riuscire aricordare il nome di tutti. Michail inveceaveva un solo aiutante, Luis, il suoautista.

«Ricevevo i gioiellieri Bagués neimiei appartamenti. I migliori sarti mi

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prendevano le misure per confezionarmiun guardaroba da imperatrice.

Michail aprì crediti illimitati a mionome nei più esclusivi negozi diBarcellona. Persone mai viste misalutavano ossequiose per strada o nellahall dell’albergo. Ricevevo inviti perballi di gala in palazzi di famiglie il cuinome avevo visto soltanto sulle paginemondane dei giornali. Avevo solovent’anni. Non avevo mai avuto tra lemani abbastanza soldi per comprare unbiglietto del tram. Sognavo a occhiaperti. Cominciavo a sentirmi a disagiocon tutti quei lussi e quegli sprechi.Quando ne accennavo a Michail,rispondeva che il denaro non ha alcuna

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importanza, a meno di non posse-derne.«Trascorrevamo insieme le giornate:

a passeggio per la città, al casinò delTibidabo, anche se non l’ho mai vistopuntare una sola moneta, al Liceo… Altramonto rientravamo all’Hotel Colón eMichail si ritirava nelle sue stanze. Benpresto mi accorsi che, molte notti,Michail usciva di nuovo e non rientravafino all’alba. A sentire lui dovevaoccuparsi di questioni di lavoro.

«Ma i pettegolezzi aumentavano.Avevo l’impressione di stare persposare un uomo che tutti sembravanoconoscere meglio di me. Sentivo lecameriere mormorare alle mie spalle.Dietro il sorriso ipocrita dei passanti,

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mi sentivo esaminata con la lented’ingrandimento. A poco a poco diventaiprigioniera dei miei stessi sospetti. Eun’idea cominciò a ossessionarmi.

Tutto quel lusso, quello sperpero dicose materiali intorno a me mi faceva148

sentire come un bel soprammobile.Uno dei tanti capricci di Michail. Luipoteva comprare tutto: il Teatro Real,Sergej, automobili, gioielli, palazzi.

E me. Morivo di angoscia ogni voltache lo sentivo uscire a tarda ora,convinta che corresse tra le braccia diun’altra donna. Una notte decisi diseguirlo per farla finita con quellasciarada.

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«I suoi passi mi condussero allaboratorio della Velo-Granell, accantoal mercato del Borne. Michail era solo.Dovetti calarmi all’interno da una fi-nestrella che si affacciava su un vicolo.Il vecchio capannone mi sembrò unoscenario da incubo. Centinaia di piedi,mani, braccia, gambe, occhi di vetropenzolavano nelle navate: pezzi diricambio per un’umanità disgra-ziata.Attraversai il laboratorio fino a unagrande stanza buia, piena di enormirecipienti di vetro al cui internogalleggiavano sagome indefinite. Alcentro della sala, in penombra, Michailmi osservava da una sedia, fuman-douna sigaretta.

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«“Non avresti dovuto seguirmi”disse, senza rabbia nella voce.

«Gli spiegai che non potevo sposareun uomo di cui avevo visto soltanto unametà, con cui condividevo il giorno, manon la notte.

«“Forse quello che scoprirai non tipiacerà” insinuò.

«Gli dissi che non mi importava néil come né il perché. Non mi importavasapere quello che faceva né se le voci sudi lui erano vere o false. Volevo soloessere parte integrante della sua vita.Senza ombre. Senza segreti.

Lui annuì e seppi quello chesignificava: stavo per varcare un confinesenza ritorno. Quando Michail accese le

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luci della stanza mi risvegliai dal sognodelle ultime settimane. Ero all’inferno.

«I recipienti di formalinacontenevano dei cadaveri che danzavanoin un macabro balletto. Su un tavolo dimetallo giaceva il corpo nudo di unadonna dissezionata dal ventre allatrachea. Le braccia erano spalancate acroce, e mi accorsi che le articolazionierano congegni di legno e metallo.

Dalla gola le scendevano dei tubi,mentre cavi di bronzo le penetravanonelle estremità e nelle anche. La pelleera traslucida, azzurrina come quella diun pesce. Senza fiato, seguii con losguardo Michail che si avvicinava aquel corpo e lo osservava con tristezza.

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«“Ecco quello che la natura fa aisuoi figli. Non c’è traccia di male nelcuore degli uomini, soltanto una lotta persopravvivere all’inevitabile. Non esistealtro demonio che madre natura… Il miolavoro, tutti i miei sforzi, sono solo untentativo di beffare il grande sacrilegiodella creazione…”

149«Lo vidi prendere una siringa e

riempirla di un liquido smeraldino checustodiva in una boccetta. I nostrisguardi si incrociarono per un istante,poi Michail affondò l’ago nel cranio delcadavere e vi iniettò il contenuto dellasiringa. Ritrasse l’ago e aspettò,immobile, fissando il corpo inerte.

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Qualche attimo dopo mi si gelò ilsangue nelle vene. Le ciglia di una pal-pebra stavano tremando. Sentii il cigoliodegli ingranaggi di metallo e legno. Ledita si agitarono. D’improvviso il corpodella donna si sollevò con un violentosussulto. Un urlo animale invase lastanza. Bianchi filamenti di saliva lecolavano dalle labbra nere, tumefatte. Ladonna si liberò dei cavi metallici che leperforavano la pelle e crollò a terracome un burattino rotto. Ululava comeun lupo ferito. Sollevò il viso e inchiodògli occhi nei miei. Fui incapace didistoglierli dall’orrore che vi lessi. Dalsuo sguardo si sprigionava unaspaventosa energia animale. Voleva

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vivere.«Ero paralizzata. Pochi secondi

dopo il corpo rimase di nuovo inerte,senza vita. Michail, che aveva assistitoimpassibile allo spettacolo, prese unlenzuolo e coprì il cadavere.

«Si avvicinò a me e mi strinse lemani tremanti tra le sue. Mi scrutò co-me se volesse leggere nei miei occhi sesarei stata ancora capace di rima-nergliaccanto dopo quello che avevo visto.Avrei voluto trovare le parole percomunicargli la mia paura, per dirgliquanto si sbagliava… Riuscii solo abalbettare di portarmi via di lì.Rientrammo all’Hotel Colón. Miaccompagnò nella mia stanza, ordinò una

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tazza di brodo caldo e mi rimboccò lecoperte mentre lo bevevo.

«“La donna che hai visto stanotte èmorta sei settimane fa sotto le ruote diun tram. Aveva cercato di salvare unbambino che giocava sui binari e non èriuscita a evitare l’impatto. Le ruote lehanno tranciato le braccia all’altezza deigomiti. È morta per strada. Nessuno sacome si chiama. Nessuno ha reclamato ilcadavere. Ce ne sono decine come lei.Ogni giorno…”

«“Michail, non capisci… Non puoisostituirti a Dio…”

«Mi accarezzò la fronte e mi sorrisetristemente, annuendo.

«“Buona notte” disse.

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«Prima di uscire si fermò sullaporta.

«“Se domani non sarai più qui”disse, “capirò.”

«Due settimane dopo ci sposammonella cattedrale di Barcellona.»

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23«Michail desiderava che quello

fosse un giorno speciale per me. Fece inmodo che l’intera città si trasformasse inuno scenario da fiaba. Il mio regno suquel mondo irreale finì per sempre suigradini della cattedrale. Non ebbinemmeno il tempo di sentire le urladella gente. Come un animale sel-vaggioche balza fuori dalla foresta, Sergejsbucò dalla folla e mi lanciò unaboccetta di acido sul viso. L’acido midivorò la pelle, le palpebre, le mani. Milacerò la gola e mi rubò la voce. Ripresia parlare solo dopo due anni, quandoMichail mi ebbe ricostruita come unabambola rotta. Fu l’inizio dell’orrore.

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«Sospendemmo i lavori della casa eci trasferimmo in quel palazzo in-compiuto. Ne facemmo una prigione ches’innalzava in cima a una collina.

Era un posto freddo e oscuro. Unguazzabuglio di torri e archi, di volte escale a chiocciola che non portavano danessuna parte. Io vivevo reclusa in unastanza in cima alla torre. Nessunopoteva accedervi se non Michail e, avolte, il dottor Shelley. Trascorsi ilprimo anno nel letargo della morfina,prigioniera di un lungo incubo. Credevodi vedere in sogno Michail che facevaesperimenti su di me, così come avevafatto con quei corpi abbandonati negliospedali e negli obitori. Sognavo che mi

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ricostruiva e beffava la natura. Quandorecuperai il senno capii che i miei sognierano veri. Era stato lui a restituirmi lavoce, a ricostruirmi la gola e la boccaperché potessi alimentarmi e parlare.Era stato lui a modificare le mieterminazioni nervo-se affinché nonsentissi il dolore delle ferite provocatedall’acido. È vero, ho beffato la morte;ma sono diventata una delle tantecreature maledette di Michail.

«Nel frattempo lui aveva perso ogniinfluenza in città. Nessuno loappoggiava più. I vecchi alleati gligiravano le spalle e lo abbandonavano.

Poliziotti e giudici cominciarono abraccarlo. Il suo socio, Sentís, era un

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usuraio meschino e invidioso. Fornìfalse informazioni che coinvolgevanoMichail in losche faccende di cui lui nonsospettava nemmeno l’esistenza.

Voleva sottrargli il controllodell’azienda. Era uno dei tanti delbranco. Tutti si auguravano che cadessedal piedistallo per divorare i suoi resti.L’esercito di ipocriti e adulatori sitrasformò in un’orda di iene affamate.Nulla di 151

tutto questo sorprese Michail. Findall’inizio aveva riposto la sua fiduciasoltanto in Shelley e Luis Claret. “Lameschinità degli uomini” ripeteva “è unamiccia in cerca di fuoco.” Alla fine,però, quella serie di tradimenti spezzò

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del tutto il fragile legame che mantenevacon il mondo esterno. Si rifugiò nel suolabirinto di solitudine e cominciò acomportarsi in modo sempre piùstravagante. Prese l’abitudine diallevare nelle cantine decine diesemplari di un insetto che loossessionava, una farfalla nera nota conil nome di Teufel. Ben presto le farfallenere divennero padrone della torre.

Si posavano sugli specchi, suiquadri e sui mobili come silenziosesentinel-le. Michail proibì ai domesticidi ucciderle, di spaventarle o anche solodi avvicinarsi a loro. Uno sciame diinsetti dalle ali nere svolazzava per icorridoi e i saloni. A volte si posavano

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su Michail e lo ricoprivano dalla testa aipiedi, mentre lui rimaneva immobile.Quando lo vedevo così temevo diperderlo per sempre.

«Fu in quei giorni che iniziò la miaamicizia con Luis Claret, un’amiciziache dura tutt’oggi. Era lui a tenermiinformata su quanto succedeva oltre imuri di quella fortezza. Michail miaveva raccontato solo menzogne sulTeatro Real e sul mio rientro in scena.Parlava di riparare ai danni pro-vocatidall’acido, di cantare con una voce chenon mi apparteneva più…

Chimere. Luis mi spiegò che i lavorial Teatro Real erano stati sospesi. Isoldi erano finiti parecchi mesi prima.

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L’edificio era un’immensa e inutilecaverna… L’apparente serenità diMichail era solo una facciata. Passavasettimane e mesi senza uscire di casa.Giorni interi chiuso nel suo studio, senzaquasi mangiare e dormire. Joan Shelley,come mi confessò in seguito, temeva perla sua salute, soprattutto mentale. Loconosceva meglio di chiunque altro e findall’inizio lo aveva assistito nei suoiesperimenti. Fu lui a parlarmichiaramente dell’ossessione di Michailper le malattie degenerative, del suodisperato tentativo di scoprire imeccanismi attraverso i quali la naturadeformava e atrofizzava i corpi. Corpiche per lui erano do-tati di un’energia,

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di un ordine e di una volontà al di là diogni ragione. Ai suoi occhi la natura erauna belva che divorava le propriecreature, insensi-bile al destino e allasorte degli esseri che ospitava.Collezionava fotografie di rari casi diatrofie e altri fenomeni medici. In quegliesseri umani sperava di trovare unarisposta alla sua domanda: comeingannare i propri demoni?

«Fu allora che si manifestarono iprimi sintomi del male. Michail sapevadi portarselo dentro, implacabile epaziente come un meccanismo a orolo-152

geria. Lo sapeva da sempre, daquando aveva visto morire il fratello a

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Praga. Il suo corpo si stavaautodistruggendo. Le ossa sisgretolavano. Da tempo Michail sicopriva le mani con i guanti.Nascondeva la faccia e il corpo.Rifuggiva la mia compagnia. Io facevofinta di non accorgermene, ma era vero:il suo aspetto era cambiato. Un giornod’inverno, all’alba, mi svegliarono lesue urla. Michail stava facendo unascenata alla servitù. Se ne andaronotutti, perché negli ultimi mesi avevanopaura di lui. Soltanto Luis si rifiutò dilasciarci. Michail, piangendo di rabbia,fracassò tutti gli specchi della casa ecorse a chiudersi nello studio.

«Una notte mandai Luis a cercare il

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dottor Shelley. Da due settimane Michailnon usciva e non rispondeva quando lochiamavo. Lo sentivo sin-ghiozzaredietro la porta dello studio, parlare dasolo… Non sapevo più che fare. Lostavo perdendo. Con l’aiuto di Shelley eLuis buttammo giù la porta e riuscimmoa trascinarlo fuori. Michail eraintervenuto chirurgicamente sul propriocorpo, cercando di ricostruirsi la manosinistra, che si stava trasformando in unartiglio grottesco e inservibile. Shelleygli diede un seda-tivo e vegliammo sulsuo sonno fino all’alba. Nel corso diquella lunga notte, affranto per l’agoniadel vecchio amico, Shelley si sfogò einfranse la promessa di non rivelare a

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nessuno la storia che Michail gli avevaconfida-to anni prima. Alla fine del suoracconto capii che né la polizia né ilpovero ispettore Florián sospettavano didare la caccia a un fantasma. Michailnon era mai stato un criminale né unimbroglione. Michail era statosemplicemente un uomo convinto che ilproprio destino fosse quello di beffarela morte prima che la morte beffasselui.»

«Michail Kolvenik nacque nellefogne di Praga l’ultimo giorno del Di-ciannovesimo secolo.

«La madre era una domestica diappena diciassette anni a servizio pressouna famiglia della grande nobiltà. Bella

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e ingenua, era diventata ben presto lafavorita del padrone. Quando si scoprìche era incinta fu cacciata come un canerognoso e si ritrovò per strada, in mezzoalla neve e alla sporcizia.

Marcata a vita. In quegli annil’inverno spazzava le strade con unmanto di morte. Correva voce che idiseredati di Praga trovassero rifugionei vecchi tunnel della rete fognaria. Laleggenda locale raccontava di una vera epropria città sotterranea in cui migliaiadi emarginati passavano la loro vita 153

senza mai vedere la luce del sole.Accattoni, malati, orfani, fuggiaschi. Tradi loro si era diffuso il culto di unenigmatico personaggio chiamato il

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Principe dei Mendicanti. Si diceva chenon avesse età, che il suo volto eraangelico e il suo sguardo di fuoco, cheviveva avvolto in un manto di farfallenere. Che accoglieva nel proprio regnotutti coloro a cui la crudeltà del mondoaveva negato la possibilità disopravvivere in superficie. In cerca diquell’universo di ombre, la ragazza siaddentrò nei sotterranei. Ben prestoscoprì che la leggenda era vera. La gentedei tunnel viveva nelle tenebre eformava un mondo a parte, governato daproprie leggi e devoto a un proprio dio:il Principe dei Mendicanti. Nessuno loaveva mai visto, ma tutti credevano inlui e facevano offerte in suo onore. Si

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facevano marchia-re a fuoco con ilsimbolo della farfalla nera. La profeziadiceva che un giorno un messia inviatodal Principe dei Mendicanti sarebbeapparso nei tunnel e avrebbe sacrificatola propria vita per redimere dallasofferenza i loro abitanti. Ma quelsalvatore si sarebbe rovinato con leproprie mani.

«Fu lì che la giovane madre diedealla luce due gemelli: Andrej e Michail.Andrej venne al mondo segnato da unaterribile malattia. Le sue ossa nonriuscivano a solidificarsi e il suo corpocresceva informe e privo di struttura. Unabitante dei tunnel, un medicoperseguitato dalla giustizia, spiegò alla

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ragazza che si trattava di una malattiaincurabile. La morte di Andrej era soloquestione di tempo. Invece suo fratelloMichail era un ragazzinodall’intelligenza vivace e dal carattereschivo che sognava di lasciare i tunneled emergere in superficie. Fantasticavaspesso di essere lui il messia tantoatteso. Non avendo mai conosciuto ilpadre, la sua fervida mente attribuì quelruolo al Principe dei Mendicanti, la cuivoce credeva di ascoltare in sogno. Inlui non c’erano segni apparenti delterribile male che avrebbe spezzato lavita del fratello. In effetti, Andrej morì asette anni senza essere mai uscito dallefogne. Il corpo fu affidato alle correnti

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sotterranee seguendo il rituale dellagente dei tunnel. Michail chiese allamadre perché fosse accaduta una cosasimile.

«”È la volontà di Dio, Michail” glirispose la donna.

«Michail non avrebbe maidimenticato quelle parole. La morte delpiccolo Andrej fu un colpo che la madrenon riuscì mai a superare. L’invernosuccessivo si ammalò di polmonite.Michail le rimase accanto finoall’ultimo momento, stringendole lamano tremante. Aveva ventisei anni e ilviso di una vecchia.

154«”È questa la volontà di Dio,

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mamma?” chiese Michail al corpoesani-me.

«Non ottenne mai risposta. Qualchegiorno più tardi il giovane Michailemerse in superficie. Non c’era piùnulla che lo legasse al mondo sotterra-neo. Affamato e morto di freddo, cercòrifugio in un androne. Il caso volle chesi imbattesse in un medico, AntoninKolvenik, che rientrava da una visita. Ildottore lo portò in un’osteria e gli feceservire un piatto caldo.

«“Come ti chiami, ragazzo?”«“Michail, signore.”«Antonin Kolvenik impallidì.«“Avevo un figlio che si chiamava

come te. È morto. Dov’è la tua

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famiglia?”«“Non ho famiglia.”«“E tua madre?”«“Dio se l’è portata via.”«Il medico annuì gravemente. Prese

la valigetta e tirò fuori un marchin-gegnoche lasciò Michail a bocca aperta.C’erano altri strumenti nella borsa.Lucenti. Prodigiosi.

«Il dottore gli appoggiò quellostrano aggeggio sul petto e si portò ledue estremità alle orecchie.

«“Che cos’è?”«“Serve per sentire quello che

dicono i tuoi polmoni… Fai un belrespiro.” «“Lei è un mago?” chieseMichail, sbigottito. «Il dottore sorrise.

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«“No, non sono un mago. Sono soloun medico.” «“Che differenza c’è?”

«Antonin Kolvenik aveva perso lamoglie e il figlio anni prima, duranteun’epidemia di colera. Adesso vivevasolo, mandava avanti un modestoambulatorio chirurgico e coltivava unagrande passione per le opere di Wagner.Osservò quel ragazzino cencioso concuriosità e compassione.

Michail sfoggiò uno dei suoiirresistibili sorrisi.

«E. dottor Kolvenik decise diprenderlo sotto la sua protezione e diportarselo a casa, dove Michailtrascorse i dieci anni seguenti. Dal buonmedico ricevette un’istruzione, un tetto e

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un nome. Era ancora un adolescentequando cominciò ad assistere il padreadottivo nei suoi interventi e a scoprire isegreti del corpo umano. La misteriosavolontà di Dio si manifesta-155

va in complesse strutture fatte dicarne e ossa, animate daun’incomprensi-bile scintilla di magia.Michail assorbiva con avidità quellelezioni, certo che nella scienza medicaci fosse un messaggio che attendeva diessere svelato.

«Non aveva ancora compiutovent’anni quando la morte gli fece dinuovo visita. La salute dell’anzianodottore era da tempo precaria. Un infartogli aveva compromesso il cuore una

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vigilia di Natale mentre progettavano difare un viaggio nell’Europa del Sud, cheMichail non conosceva. AntoninKolvenik stava morendo. Michail giuròche stavolta la morte non glielo avrebbestrappato.

«“Il mio cuore è stanco, Michail”diceva il vecchio dottore. “È venuto ilmomento di raggiungere la mia Frida el’altro mio Michail…”

«“Io le darò un altro cuore, papà.”«Il dottore sorrise. Quello strano

ragazzo e le sue idee stravaganti…L’unico motivo per cui temeva diabbandonare questo mondo era che loavrebbe lasciato solo e indifeso. Gliunici amici di Michail erano i libri. Co-

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sa ne sarebbe stato di lui?«“Mi hai già regalato dieci anni di

compagnia, Michail” gli disse. “Oradevi pensare a te. Al tuo futuro ”

«“Non la lascerò morire.”«“Michail, ti ricordi del giorno in

cui mi chiedesti la differenza tra unmedico e un mago? Ebbene, la magianon esiste. Il nostro corpo comincia amorire nel preciso istante in cuinasciamo. Siamo fragili. Creaturepasseg-gere. Ciò che resta di noi sono leazioni, il bene e il male che facciamo ainostri simili. Capisci quello che vogliodire, Michail?”

«Dieci giorni dopo la polizia trovòil ragazzo, coperto di sangue, che

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piangeva accanto al cadavere dell’uomoche aveva imparato a chiamare padre. Ivicini avevano avvisato le autorità dopoaver avvertito uno strano odore e sentitole urla del ragazzo. Il rapporto dellapolizia stabilì che Michail, sconvoltoper la morte del dottore, gli avevaaperto il torace nel tentativo diricostruirgli il cuore con un meccanismodotato di valvole e ingranaggi. Michailvenne ricoverato nel manicomio diPraga, da dove fuggì due anni dopofingendosi morto. Quando le autoritàandarono all’obitorio trovarono soltantoun lenzuolo bianco circondato dasvolazzanti farfalle nere.

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«Michail arrivò a Barcellonaportando con sé i semi della pazzia e delmale che si sarebbe manifestato annidopo. Mostrava scarso interesse per lecose materiali e per la compagnia dellagente. Non si vantò mai delle grandiricchezze che aveva accumulato. Dicevache nessuno merita di possedere uncentesimo in più di quanto è disposto acedere a chi ne ha più bisogno di lui. Lanotte in cui lo conobbi Michail mi disseche, per qualche motivo, la vita è solitaoffrirci quello che non abbiamo cercato.A lui aveva conces-so ricchezza, fama epotere, mentre desiderava soltanto lapace dello spirito e di poter tacitare leombre che gli tormentavano il cuore…»

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«Nei mesi successivi all’episodiodello studio, io, Shelley e Luis ci met-temmo d’accordo per tenere Michaillontano dalle sue ossessioni. Distrarlonon era compito facile. Michail capivasempre quando gli mentivamo, anche senon lo diceva. Stava al nostro gioco,simulando docilità e fingendo diaccettare con rassegnazione lamalattia… Quando lo guardavo negliocchi, però, potevo scorgervi l’oscuritàche lo invadeva. Non si fidava più dinoi. La miseria in cui vivevamopeggiorò. Le banche ci avevanobloccato i conti correnti, e i beni dellaVelo-Granell erano stati confiscati dalgoverno. Sentís, a dispetto delle

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manovre con cui sperava di diventare ilpadrone assoluto dell’azienda, finì sullastrico. Riuscì a ottenere solo ilvecchio appartamento di Michail incalle Princesa. Noi conservammo leproprietà che Michail aveva intestato amio nome: il Gran Teatro Real, questainutile tomba in cui mi sono rifugiata, euna serra accanto alla linea ferroviariadi Sarriá, utilizzata un tempo da Michailcome laboratorio per i suoi esperimenti.

«Per sopravvivere, Luis dovettevendere al miglior offerente i mieigioielli e i miei vestiti. Il corredo dasposa, che non riuscii mai a usare,divenne la nostra fonte di sostentamento.Io e Michail ci parlavamo a stento.

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Lui vagava per la villa come unospettro, sempre più deforme. Le maninon erano in grado di reggere un libro.Gli occhi gli consentivano a fatica dileggere. Non lo sentivo più piangere.Ora, semplicemente, rideva. La suarisata amara in piena notte mi gelava ilsangue. Con le dita atrofizzate, in unagrafia illeggibile, scriveva senza sostasu un quaderno pagine e pagine il cuicontenuto ci era ignoto. Ogni volta che ildottor Shelley veniva a trovarlo Michailsi chiudeva nello studio e ne usciva soloquando l’amico se n’era andato.Confidai al medico il mio timore cheMichail stesse pensando 157

di togliersi la vita. Shelley mi

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confessò che temeva cose peggiori. Noncapii, o non volli capire, a cosa siriferisse.

«Un’altra idea assurda mi ronzavada tempo in testa. Pensai che mi avrebbeaiutato a salvare Michail e il nostromatrimonio. Decisi di avere un bambino.Ero convinta che, se fossi riuscita adargli un figlio, Michail avrebbe trovatouna ragione per vivere e per tornare almio fianco. Mi lasciai trasportare daquell’illusione. Il mio corpo era ansiosodi concepire quella creatura portatricedi salvezza e di speranza. Sognavo diallevare un piccolo Michail, puro einnocente. Il mio cuore desideravariavere un’altra versione di suo padre,

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libera da ogni male. Dovevo fare inmodo che Michail non sospettasse dinulla, perché altrimenti si sarebberifiutato. Già riuscire a trovare ilmomento per restare sola con lui eraun’impresa. Come ho già detto, da tempoMichail mi evitava. La sua deformità lofaceva sentire a disagio. La malattia gliaveva intaccato l’uso della parola.Balbettava, pieno di rabbia e divergogna. Poteva ingerire solo liquidi.Tutti i miei sforzi per dimostrargli chenon mi disgustava, che nessuno megliodi me poteva capirlo e condividere lasua sofferenza, sembravano solopeggiorare le cose. Ma fui paziente e,per una volta nella vita, mi illusi di

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averlo ingannato. Purtroppo ingannaisolo me stessa. E fu il più grave dei mieierrori.

«Quando annunciai a Michail cheavremmo avuto un figlio la sua reazionemi terrorizzò. Sparì per quasi un mese.Luis lo ritrovò nella vecchia serra diSarriá, privo di sensi. Aveva lavoratosenza sosta per ricostruirsi la gola e labocca. Era un mostro. Si era dotato diuna voce profonda, metallica emalevola. Le mandibole erano segnateda canini di metallo. Il volto, aeccezione degli occhi, erairriconoscibile. Sotto quell’orrorel’anima del Michail che ancora amavobruciava nel suo stesso inferno. Accanto

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al corpo Luis trovò una serie dicongegni e centinaia di disegni. Feci inmodo che Shelley potesse dare loroun’occhiata mentre Michail recuperavale forze grazie a un lungo sonno che duròtre giorni. Le conclusioni del dottorefurono raccapriccianti. Michail avevaperso completamente la ragione.

Stava progettando di ricostruirsi dacapo a piedi prima che la malattia loconsumasse del tutto. Lo relegammo incima alla torre, in una cella inespu-gnabile. Diedi alla luce nostra figliasentendo le urla selvagge di mio marito,chiuso in gabbia come una belva. Nonrestai nemmeno un giorno insieme allabambina. Il dottor Shelley la prese con

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sé e giurò di farla crescere come unafiglia. Si sarebbe chiamata Maria e,come me, non conobbe mai 158

la sua vera madre. La poca vita chemi restava nel cuore svanì con lei, masapevo di non avere scelta. La tragediaimminente si respirava nell’aria. Potevoannusarla come un veleno. Era soloquestione di tempo. Come sempre, ilcolpo di grazia venne da dove meno celo aspettavamo.»

«Benjamin Sentís, ridotto sullastrico dall’invidia e dall’avidità, nelfrattempo aveva tramato la sua vendetta.Già all’epoca si era sospettato che fossestato lui ad aiutare Sergej a fuggire dopoavermi sfigurato davanti al-la cattedrale.

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Come nell’oscura profezia degli abitantidei tunnel, aveva uti-lizzato le manidategli da Michail anni prima solo pertessere una trama di perfidie etradimenti. L’ultima notte del 1948Benjamin Sentís ricomparve per sferrarela pugnalata definitiva a Michail, cheodiava profondamente.

«In quegli ultimi anni i miei extutori, Sergej e Tatiana, avevano vissutoin clandestinità. Anche loro eranoansiosi di vendicarsi. Era giunta l’ora.

Sentís sapeva che la squadradell’ispettore Florián, alla ricerca dellepre-sunte prove contro Michail, avevadeciso di perquisire la casa del ParqueGüell il giorno successivo. Se la polizia

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avesse effettuato la perquisizione le suemenzogne e i suoi traffici sarebberovenuti allo scoperto. Poco prima dimezzogiorno Sergej e Tatianasvuotarono diverse taniche di benzinaattorno a casa nostra. Sentís, codardocome sempre, vide le prime fiamme dalontano, nascosto nella sua macchina, esi dileguò.

«Quando mi svegliai, un fumo densosaliva su per le scale. Il fuoco sipropagò in pochi minuti. Luis mitrascinò fuori dalla stanza e riuscimmo ametterci in salvo saltando da un balconesulla tettoia dei garage e, da lì, ingiardino. Ci voltammo a guardare: lefiamme avvolgevano completamente i

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primi due piani e salivano verso iltorrione in cui avevamo rinchiusoMichail. Volevo correre a salvarlo, maLuis, ignorando le mie urla e i mieipugni, mi trattenne fra le sue braccia.Solo allora ci accorgemmo di Sergej eTatiana. Sergej rideva come un folle.Tatiana tremava in silenzio, con le maniche puzzavano di benzina. Quello cheavvenne in seguito lo ricordo come unavisione da incubo. Le fiamme avevanoraggiunto la cima del torrione. Lefinestre esplosero in una pioggia divetri. All’improvviso una sagomaemerse dal fuoco. Credetti di vedere unangelo tenebroso precipitare lungo imuri. Era Michail. Si muoveva come un

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ragno sulle pareti, alle quali siaggrappava con gli artigli di metallo chesi era impiantato, spo-standosi a unavelocità impressionante. Sergej eTatiana lo guardavano at-159

toniti, incapaci di comprenderequanto stava accadendo. L’ombra siavventò su di loro e, con una forzasovrumana, li trascinò dentro. Nonappena li vidi scomparire inquell’inferno persi i sensi.

«Luis mi portò nell’unico rifugio checi era rimasto, le rovine del Gran TeatroReal. Questa è stata fino a oggi la nostracasa. Il giorno dopo i giornaliannunciarono la tragedia. Due cadavericarbonizzati erano stati trovati

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abbracciati nella soffitta. La poliziadedusse che si trattava di me e diMichail. Solo noi sapevamo che inrealtà erano Sergej e Tatiana. Non fu maitrovato un terzo corpo. Quello stessogiorno Shelley e Luis andarono allaserra di Sarriá in cerca di Michail.Neanche l’ombra. La trasformazionestava per essere completata. Shelleyraccolse tutte le sue carte, i progetti e gliappunti per non lasciare tracce. Li studiòper settimane, sperando di tro-varvi lachiave che ci consentisse di localizzareMichail. Sapevamo che era nascosto daqualche parte in città, in attesa,ultimando la sua trasformazione.Decifrando i suoi appunti, Shelley capì

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il piano di Michail. Nei quaderni venivadescritto un siero prodotto con l’essenzadelle farfalle che aveva allevato peranni, il siero con cui lo avevo vistorisuscitare il cadavere di una donnanella fabbrica della Velo-Granell. Allafine capii cosa aveva in mente. Michailsi era eclissato per morire. Avevabisogno di liberarsi del suo ultimosoffio di umanità per fare il grande salto.Come la farfalla nera, avrebbeseppellito il proprio corpo per poirinascere dalle tenebre. E una voltarinato non sarebbe più stato MichailKolvenik. Sarebbe tornato sotto lespoglie di una belva.»

Le sue parole risuonarono come

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un’eco nel Gran Teatro.«Per mesi non abbiamo avuto notizie

di Michail né siamo riusciti a trovare ilsuo nascondiglio» proseguì Eva Irinova.«In fondo, speravamo che il suo pianofallisse. Ci sbagliavamo. Un anno dopol’incendio due ispettori andarono allaVelo-Granell, avvertiti da una soffiataanonima. Di nuovo Sentís, naturalmente.Non avendo più avuto notizie di Sergej eTatiana, sospettava che Michail fosseancora vivo. I locali della fabbricaerano stati sigillati e nessuno potevaaccedervi. I due ispettori sorpresero unintruso all’interno e gli spararono. Glisvuotarono addosso i loro caricatori,ma…»

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«Ecco perché non hanno mairitrovato i proiettili» dissi, ricordandole parole di Florián. «Il corpo diKolvenik ha assorbito i colpi…»

L’anziana signora annuì.160«I corpi dei due poliziotti furono

ritrovati a pezzi» disse. «Nessuno,tranne me, Shelley e Luis, riusciva aspiegarsi cosa fosse successo. Michailera tornato. Nei giorni seguenti tutti imembri del vecchio Consiglio diamministrazione della Velo-Granell chelo avevano tradito trovarono la morte incircostanze poco chiare. Sospettavamoche Michail si nascondesse nelle fogne eutilizzasse le gallerie sotterranee per i

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suoi spostamenti. Non era un mondosconosciuto per lui. Restava un unicointerrogativo. Per quale motivo eratornato alla Velo-Granell? Ancora unavolta i suoi appunti ci fornirono larisposta: il siero. Aveva bisogno diiniettarsi il siero per restare in vita. Lescorte della torre erano andate distruttee quelle che conservava nella serra sierano senza dubbio esaurite. Il dottorShelley corruppe un uf-ficiale dellapolizia per poter entrare nella fabbrica.E lì trovammo un armadio con le ultimedue boccette di siero. Shelley neconservò una di nascosto. Dopo una vitapassata a combattere malattie, morte edolore, era incapace di distruggere quel

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liquido. Doveva studiarlo, svelarne isegreti…

Lo analizzò e riuscì a sintetizzare uncomposto a base di mercurio con cui siproponeva di neutralizzarne gli effetti.Intinse dodici pallottole nel composto ele mise da parte, sperando di nondoverle mai usare.»

Capii che si trattava delle pallottoleche Shelley aveva consegnato a LuisClaret. Io ero vivo grazie a loro.

«E Michail?» chiese Marina. «Senzail siero…»

«Trovammo il suo cadavere in unafogna del Barrio Gótico» disse EvaIrinova. «O, almeno, quello che restavadi lui, perché si era trasformato in un

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mostro infernale che puzzava come lacarogna putrefatta che aveva usato perricostruirsi…»

L’anziana sollevò lo sguardo verso ilvecchio amico Luis. Fu lui a prendere laparola e a completare la storia.

«Seppellimmo il corpo nel cimiterodi Sarriá, in una tomba anonima»

spiegò. «Ufficialmente il signorKolvenik era morto un anno prima.

Non potevamo rivelare la verità. SeSentís avesse scoperto che la signoraera ancora viva non si sarebbe dato pacefinché non l’avesse eliminata. Così cicondannammo a una vita segreta fraqueste quattro mura…»

«Per anni ho creduto che Michail

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riposasse in pace. Andavo a trovarlol’ultima domenica di ogni mese, ilgiorno in cui lo avevo conosciuto, perricordargli che presto, molto presto,saremmo stati di nuovo insieme… Vi-161

vevamo in un mondo di ricordi e,tuttavia, abbiamo dimenticato una cosaessenziale…»

«Quale?» chiesi.«Maria, nostra figlia.»Io e Marina ci scambiammo

un’occhiata. Ricordai che Shelley avevagettato nel fuoco la fotografia che gliavevamo mostrato. La bambina di quellafoto era Maria Shelley.

Portando via l’album dalla serra

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avevamo privato Michail Kolvenikdell’unico ricordo che conservava dellafiglia che non aveva mai conosciuto.

«Shelley allevò Maria come unafiglia, ma lei intuì sempre che la storiache le aveva raccontato non era vera,che sua madre non era morta nel met-terla al mondo… Shelley non ha maisaputo mentire. Con il passare del tempoMaria trovò i quaderni di Michail nellostudio del medico e ricostruì la storiache vi ho raccontato. Maria ha ereditatola pazzia del padre. Ricordo che, ilgiorno in cui gli rivelai che ero incinta,Michail sorrise. Quel sorriso mi riempìdi inquietudine, anche se allora noncapii il perché. Solo anni dopo, negli

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appunti di Michail, scoprii che lafarfalla nera delle fogne si alimenta deipropri figli e che, nel seppellirsi permorire, porta con sé una delle sue larve,che poi divora quando rinasce… Mentrevoi scoprivate la serra, seguendomiall’uscita del cimitero, anche Maria allafine trovava quello che stava cercandoda anni. La boccetta di siero che Shelleynascondeva… E dopo trent’anni Michailè ritornato dalla morte. Da allora si ècibato della figlia, ricostruendosi conpezzi di altri corpi, acquisendo forza,creando altri esseri come lui…»

Deglutii al pensiero di quello cheavevo visto la notte precedente neitunnel.

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«Quando ho capito quello che stavasuccedendo» proseguì la donna «hovoluto mettere in guardia Sentís.Sarebbe stato lui la prima vittima. Pernon svelare la mia identità mi sonoservita di te, Óscar, con quel biglietto davisita. Ho pensato che, vedendolo eascoltandovi raccontare quel poco chesapevate, la paura lo avrebbe spinto aprendere delle precauzioni. Ancora unavolta ho sopravvalutato quel vecchiomeschino… Ha deciso di affrontareMichail e di distruggerlo. Nella suacaduta ha trascinato con sé Flo-162

rián… Luis era andato al cimitero diSarriá e aveva verificato che la tombaera vuota. All’inizio sospettavamo che

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Shelley ci avesse tradito. Pensava-moche fosse stato lui ad andare nella serraper costruire nuove creature…

Forse non voleva morire senza averscoperto i misteri lasciati insoluti daMichail… Non ci siamo mai fidaticompletamente di lui. Quando abbiamocapito che proteggeva Maria era troppotardi… Adesso Michail verrà acercarci.»

«Perché?» chiese Marina. «Perchédovrebbe venire a cercarvi?»

La donna slacciò in silenzio i primidue bottoni del vestito ed estrasse unacatenina da cui pendeva una boccetta divetro in cui brillava un liquidosmeraldino.

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«Per questa» disse163

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24Stavo osservando in controluce la

boccetta di siero quando li sentii. AncheMarina li aveva sentiti. Qualcosastrisciava sopra la volta del teatro.

«Eccoli» disse con voce cupa LuisClaret dalla porta del camerino.

Eva Irinova, senza mostraresorpresa, nascose di nuovo il siero. VidiClaret tirare fuori il revolver econtrollare il caricatore. I proiettilid’argento che gli aveva dato Shelleyluccicavano nel cilindro.

«Dovete andarvene» ci ordinò EvaIrinova. «Adesso conoscete la verità.

Imparate a dimenticarla.»Il suo volto era nascosto dietro il

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velo e la voce meccanica era priva diespressione. Mi fu impossibile coglierel’intenzione di quelle parole.

«Con noi il suo segreto è al sicuro»dissi comunque.

«La verità è sempre al sicuro dallagente» replicò Eva Irinova. «Ora an-datevene, presto.»

Claret ci fece cenno di seguirlo elasciammo il camerino. Attraverso lavolta di cristallo la luna proiettava unrettangolo di luce argentea sulpalcoscenico. Su quel rettangolo, comeombre danzanti, si stagliavano i profilidi Michail Kolvenik e delle suecreature. Alzai gli occhi e mi sembrò didi-stinguerne una dozzina.

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«Dio mio…» mormorò Marinaaccanto a me.

Claret stava guardando nella stessadirezione. Vidi la paura nei suoi occhi.Una delle sagome sferrò un colpobrutale sul tetto. Claret armò ilpercussore e prese la mira. La creaturacontinuava a vibrare colpi. Nel giro diqualche secondo il vetro avrebbeceduto.

«Sotto la fossa dell’orchestra c’è untunnel che attraversa la platea e sbucanel foyer» ci informò Claret senzastaccare gli occhi dalla volta. «Sotto lascala principale troverete una botola cheimmette in un corridoio. Segui-telo finoa un’uscita di emergenza…»

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«Non sarebbe più facile uscire dadove siamo venuti?» chiesi. «Da casasua…»

«No. Sono già passati di lì…»164Marina cominciò a tirarmi.«Facciamo come dice lui, Óscar.»Guardai Claret. Gli lessi negli occhi

la fredda serenità di chi va incontro allamorte a volto scoperto. Un attimo dopoil vetro della volta andò in mille pezzi euna creatura lupesca piombò sulpalcoscenico, ululando. Claret le sparòal cranio e la colpì in pieno, ma in altosi stagliavano già i profili degli altrimostri. Al centro riconobbi subitoKolvenik. A un suo segnale avanzarono

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tutti strisciando all’interno del teatro.Io e Marina saltammo nella fossa

dell’orchestra e seguimmo le indicazionidi Claret mentre lui ci copriva le spalle.Sentii un altro sparo, assordante. Mivoltai per l’ultima volta prima diinfilarmi nello stretto passaggio.

Un corpo avvolto in cenciinsanguinati balzò sul palcoscenico e siavventò su Claret. L’impatto delproiettile gli aprì nel petto un forogrande come un pugno. Il corpocontinuava ad avanzare quando chiusi labotola e spinsi dentro Marina.

«Che ne sarà di Claret?»«Non so» mentii. «Corri.»Ci gettammo nel tunnel. Era un

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cunicolo largo appena un metro e altonon più di un metro e mezzo. Bisognavaavanzare chinati, tastando i muri per nonperdere l’equilibrio. Avevamo percorsopochi metri quando sentimmo dei passisopra di noi. Ci stavano seguendo dallaplatea. L’eco degli spari si fece semprepiù intenso. Mi chiesi quanto tempo equante pallottole restassero a Claretprima di essere sbranato da quella mutainfernale.

All’improvviso, sopra le nostreteste, qualcuno sollevò un pannello dilegno marcio. La luce penetrò nel tunnelcome una lama accecante e qualcosa, unpeso morto, cadde ai nostri piedi.Claret. Gli occhi erano vuoti, privi di

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vita. Tra le sue mani, la canna dellapistola fumava ancora. Sul corpo nonc’erano ferite né apparenti segni diviolenza, ma qualcosa non quadrava.Marina guardò da sopra le mie spalle egemette. Gli avevano spezzato l’osso delcollo con una forza sovrumana, e la suafaccia dava sulla schiena. Un’ombra cisovrastò e vidi una farfalla nera posarsisul fedele amico di Kolvenik. Distratto,mi accorsi della presenza di Michailsolo quando infilò un braccio attraversolo squarcio e strinse il collo di Marinacon i suoi artigli. La sollevò di peso e laportò via prima che potessi affer-rarla.Gridai il suo nome. E allora mi parlò.Non dimenticherò mai quella voce.

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165«Se ci tieni a rivedere la tua amica

tutt’intera, portami la boccetta.»Non riuscii ad articolare nemmeno

un pensiero per parecchi secondi.Poi l’angoscia mi riportò alla realtà.

Mi chinai sul corpo di Claret e armeg-giai per togliergli la pistola. I muscolidella mano erano tesi nello spasmofinale. L’indice era inchiodato algrilletto. Un dito dopo l’altro raggiunsifinalmente il mio intento. Aprii iltamburo e vidi che le munizioni eranofinite. Tastai le tasche di Claret in cercadi altri proiettili. Trovai la secondacarica di munizioni, sei pallottoled’argento con la punta bucherellata,

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nella tasca interna della giacca. Ilpoveretto non aveva fatto in tempo aricaricare la pistola. L’ombradell’amico al quale aveva dedicatol’esistenza lo aveva ucciso con un colposecco e brutale prima che potesseriuscirci. Forse, do-po tanti annitrascorsi nel timore di quell’incontro,Claret non aveva avuto il coraggio disparare a Michail Kolvenik, o a quantorimaneva di lui. Ma ormai importavapoco.

Tremando mi arrampicai lungo lepareti del tunnel, sbucai in platea e corsiin cerca di Marina.

I proiettili del dottor Shelleyavevano lasciato una scia di corpi sul

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palcoscenico. Altri erano rimasticonficcati nei lampadari, sui palchi…Luis Claret si era fatto precedereall’inferno dalla muta di belve cheaccompagnava Kolvenik. Guardandoquei cadaveri non potei fare a meno dipensare che quello fosse il destinomigliore a cui potevano aspirare. Cosìinanimati, la natura artificiosa degliinnesti e dei pezzi da cui erano formatirisaltava ancora di più. Uno dei corpiera steso nel corridoio centrale dellaplatea, con le mascelle slogate. Loscavalcai. Il vuoto dei suoi occhi opachimi tra-smise una profonda sensazione difreddo. Non c’era niente in loro. Niente.

Andai verso il palcoscenico e mi ci

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arrampicai sopra. La luce nel camerinodi Eva Irinova era ancora accesa, manon c’era più nessuno. L’aria puzzava dicarogna. Sulle vecchie fotografie appesealle pareti si scorgevano tracce di ditainsanguinate. Kolvenik. Avvertii unoscricchiolio alle mie spalle e mi voltai,puntando la pistola. Sentii dei passi chesi allontanavano.

«Eva?» chiamai.Tornai sul palcoscenico e scorsi un

cerchio di luce ambrata nell’anfitea-tro.Quando mi avvicinai intravidi la sagomadi Eva Irinova. Reggeva tra le mani uncandelabro e contemplava le rovine delGran Teatro Real. Le rovine della suavita. Si voltò e, lentamente, avvicinò la

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fiamma ai brandelli di velluto chependevano dai palchi. La stoffa vecchiabruciò all’istante. Il 166

fuoco si estese rapidamente allepareti dei palchi, alle dorature sui murie alle poltrone. «No!» gridai.

Lei ignorò il mio richiamo escomparve dalla porta che conducevaalle gallerie dietro i palchi. Nel giro diqualche secondo le fiamme si propaga-rono come una piaga rabbiosa cheavanzava cancellando ogni cosa al suopassaggio. Lo sfavillio delle fiammesvelò un nuovo volto del Gran Teatro.

Sentii un’ondata di calore, e l’odoredi legno e pittura bruciata mi diede lanausea.

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Seguii le fiamme con lo sguardo. Sulsoffitto intravidi il macchinario di scena,un complesso sistema di corde, pulegge,sipari, fondali sospesi e passerelle. Dueocchi ardenti mi osservavano da lassù.Kolvenik. Reggeva Marina con una solamano, come fosse un giocattolo. Simuoveva sulle impalcature con l’agilitàdi un gatto. Nel frattempo le fiammeavevano in-vaso il primo ordine dipalchi e lambivano il secondo. Losquarcio nella volta alimentava il fuoco,creando un immenso effetto camino.

Mi precipitai verso le scale dilegno. I gradini salivano a zig-zag evibravano a ogni mio passo. Al terzopiano mi fermai e alzai lo sguardo.

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Avevo perso Kolvenik. In quel precisoistante sentii degli artigli che mi siconficcavano nella spalla. Voltandomiper sfuggire a quell’abbraccio mortalevidi una delle creature di Kolvenik. Iproiettili di Claret le avevano staccatoun braccio, ma era ancora viva. Avevalunghi capelli e il suo viso, un tempo,era stato un viso di donna. Le puntaicontro la pistola, ma non si fermò.Improvvisamente ebbi la certezza diaver già visto quel volto. Il luccichiodelle fiamme svelò ciò che restava delsuo sguardo. Sentii un no-do alla gola.«Maria?» balbettai.

La figlia di Kolvenik, o la creaturache ne abitava la carcassa, si fermò per

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un attimo, esitante. «Maria?» ripetei.Non restava più nulla della creatura

angelica che ricordavo. La sua bellezzaera stata profanata. Una bestiacciaorribile e patetica aveva preso il suoposto. La sua pelle era ancora fresca:Kolvenik aveva lavorato in fretta.

Abbassai la pistola e allungai unamano verso quella povera donna. Forseper lei c’era ancora qualche speranza.

«Maria? Mi riconosce? Sono Óscar.Óscar Drai. Si ricorda di me?»

Maria Shelley mi fissò intensamente.Per un istante una scintilla di vita lebalenò negli occhi. La vidi versarequalche lacrima e guardarsi la mano.

Osservò i grotteschi artigli di

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metallo che le spuntavano dal braccio ela 167

sentii gemere. Le tesi di nuovo lamano. Maria Shelley, tremando, fece unpasso indietro.

Una vampata di fuoco si propagòlungo la trave che sosteneva il siparioprincipale. Il telone di stoffa consuntavenne giù in un manto di fiamme.

Le funi che l’avevano sostenutoschizzarono via come fruste roventi,inve-stendo in pieno la piattaforma sucui ci trovavamo. Una lingua di fuoco ciseparò. Ancora una volta tesi la manoalla figlia di Kolvenik. «Per favore, laprenda.»

Indietreggiò, sfuggendomi. Il viso

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era coperto di lacrime. Il legno dellapiattaforma sotto i nostri piediscricchiolò.

«Maria, per favore…»La creatura fissò le fiamme, come

attratta da qualcosa. Mi rivolse unultimo, indecifrabile sguardo e afferrò lafune rovente che era caduta sullapiattaforma. Il fuoco si propagò dalbraccio al torace e ai capelli, le avvolsegli abiti e il viso. La vidi bruciare comese fosse una figura di cera finché letavole di legno cedettero e il corpoprecipitò nell’abisso.

Corsi verso una delle uscite delterzo piano. Dovevo trovare Eva Irinovae salvare Marina.

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«Eva!» urlai, quando finalmenteriuscii a localizzarla.

Mi ignorò e continuò a camminare.La raggiunsi sulla scalinata di marmo.L’afferrai con forza per un braccio e labloccai. Lei si divincolò per liberarsi.

«Ha preso Marina. Se non gliconsegno il siero, la ucciderà.»

«La tua amica è già morta. Vattenefinché sei in tempo.»

«No!»Eva Irinova si guardò intorno. Le

scale erano già invase dal fumo. Nonrestava molto tempo.

«Non posso andarmene senza dilei…»

«Non capisci» replicò. «Se ti do il

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siero vi ucciderà tutti e due, e nessunopotrà più fermarlo.»

«Lui non vuole uccidere nessuno.Vuole solo vivere.»

«Proprio non capisci, Óscar» disseEva. «Non posso farci niente. È tuttonelle mani di Dio.»

Detto questo, girò le spalle e siallontanò.

168«Nessuno può prendere il posto di

Dio. Neppure lei» dissi, ricordandole lesue stesse parole.

Si fermò. Sollevai la pistola e glielapuntai contro. Lo scatto del percussoreche si armava si perse nell’eco dellagalleria. A quel punto Eva si voltò.

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«Sto solo cercando di salvarel’anima di Michail» disse.

«Non so se potrà salvare l’anima diKolvenik, ma la sua sì.»

La donna mi fissò in silenzio,affrontando la minaccia della pistolanelle mie mani tremanti.

«Saresti capace di spararmi a sanguefreddo?» mi chiese.

Non risposi. Non conoscevo larisposta. Le uniche cose che mi osses-sionavano erano l’immagine di Marinaprigioniera degli artigli di Kolvenik e ipochi minuti che ci restavano prima chele fiamme spalancassero definitivamentele porte dell’inferno sul Gran TeatroReal.

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«La tua amica deve significaredavvero molto per te.»

Annuii. Dietro il velo mi parve chequella donna abbozzasse il sorriso piùtriste della sua vita.

«Lei lo sa?» chiese.«Non lo so» dissi senza pensare.Annuì lentamente ed estrasse la

boccetta color smeraldo.«Io e te siamo uguali, Óscar. Siamo

soli e condannati ad amare chi è giàcondannato…»

Mi tese il flacone e io abbassail’arma. La poggiai a terra e presi laboccetta tra le mani. Mentre laesaminavo sentii di essermi tolto unpeso di dosso. Volevo ringraziare Eva

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Irinova, ma lei non c’era più. Enemmeno la pistola.

Quando arrivai all’ultimo pianol’intero edificio agonizzava ai mieipiedi. Corsi in fondo al corridoio incerca di un accesso alla volta delmacchinario di scena. Improvvisamenteuna delle porte, avviluppata dallefiamme, fu sbalzata via dalla cornice. Unfiume di fuoco invase il corridoio. Eroin trappola. Mi guardai attorno,disperato, e vidi soltanto una via discampo.

Le finestre che davano in strada.Attraverso i vetri appannati scorsi unostretto cornicione lungo la facciata. Ilfuoco avanzava verso di me. I vetri 169

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della finestra andarono in pezzicome investiti da un alito infernale. Imiei vestiti fumavano. Sentivo quasi lefiamme sulla pelle. Stavo per soffocare.

Saltai sul cornicione. L’aria freddadella notte mi sferzò il viso. Molti metripiù in basso si intravedevano le stradedi Barcellona. Era uno spettacoloimpressionante. Il fuoco avevacompletamente avvolto il teatro. Iponteggi, ridotti in cenere, eranocrollati. L’antica facciata svettava comeun maesto-so palazzo barocco, unacattedrale di fiamme nel bel mezzo delRaval. Le sirene dei pompieri ululavanocome lamentandosi della propriaimpotenza.

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Accanto alla guglia metallica, versola quale convergevano le nervatured’acciaio della volta, Kolvenik tenevaprigioniera Marina. «Marina!» gridai.

Feci un passo avanti e mi aggrappaid’istinto a un arco di ferro per noncadere. Era rovente. Urlai dal dolore etirai via la mano. Dal palmo anneri-tosaliva del fumo. In quell’istante unnuovo scossone fece vibrare la strutturad’acciaio, e indovinai quello che stavaper succedere. Con un fracassoassordante il teatro crollò, lasciando inpiedi, allo scoperto, solo l’armatura dimetallo. Una ragnatela d’acciaiosospesa sull’inferno. Al centro, la figuradi Kolvenik. Scorsi il viso di Marina.

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Era viva. Feci la sola cosa che potevasalvarla.

Presi la boccetta e la sollevai perfarla vedere a Kolvenik. Lui allontanòda sé Marina e l’avvicinò al precipizio.La sentii urlare. Poi Michail protese gliartigli nel vuoto. Il messaggio erachiaro. Davanti a me c’era una trave chepoteva servire da ponte. La raggiunsi.

«Óscar, no!» mi supplicò Marina.Mi concentrai sulla stretta passerella

e avanzai. Sentii la suola delle scarpeche si squagliava. Il vento asfissianteche saliva dalle fiamme ruggiva attornoa me. Passo dopo passo, senza staccaregli occhi dalla trave, come unequilibrista. Quando alzai gli occhi

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scoprii il volto atterrito di Marina. Erasola! Stavo per abbracciarla, maKolvenik si materializzò alle sue spalle.La afferrò di nuovo e la fece penzolarenel vuoto. Tirai fuori la boccetta e fecialtrettanto, dandogli a intendere chel’avrei gettata tra le fiamme se nonavesse liberato Marina. Ricordai leparole di Eva Irinova: “Vi ucciderà tuttie due…”. Così aprii il flacone e versaiun paio di gocce nell’abisso. Kolvenikscagliò Marina contro una statua dibronzo e si avventò su di me. Saltai perschivarlo e la boccetta mi scivolò dalledita.

Il siero evaporava a contatto con ilmetallo rovente. Gli artigli di Kolve-

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170nik recuperarono la boccetta quando

ormai era quasi vuota. Stringendola nelsuo pugno di acciaio Kolvenik la fece apezzi. Qualche goccia color smeraldogli colò dalle dita. Le fiamme gliilluminarono il volto, un pozzo di odio edi furia incontenibile. Allora cominciòad avanzare verso di noi.

Marina mi afferrò le mani e lestrinse forte. Poi chiuse gli occhi e iofeci lo stesso. Sentii il fetore putrefattodi Kolvenik a pochi centimetri e mipreparai all’impatto.

Il primo sparo attraversò le fiammesibilando. Riaprii gli occhi e vidi lasagoma di Eva Irinova che avanzava

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sulla passerella come avevo fatto io.Teneva la pistola sollevata. Una rosa

di sangue scuro sbocciò nel petto diKolvenik. Il secondo sparo, più vicino,gli sfracellò una mano. Il terzo lo colpì auna spalla. Allontanai Marina. Kolveniksi voltò verso Eva, barcol-lando. Ladama in nero avanzava lentamente. Glipuntava contro l’arma senza pietà. SentiiKolvenik gemere. Il quarto sparo gliaprì un foro nel ventre. Il quinto e ultimolo centrò in mezzo agli occhi. Un attimodopo cadde in ginocchio. Eva Irinovalasciò cadere la pistola e corse da lui.

Lo prese tra le braccia e lo cullò. Iloro occhi si incontrarono di nuovo e lavidi accarezzare quel volto mostruoso.

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Piangeva.«Porta via la tua amica» disse senza

alzare lo sguardo.Annuii. Guidai Marina lungo la

passerella e raggiungemmo il cornicionedel palazzo. Da lì riuscimmo a calarcisui tetti del fabbricato laterale e ametterci in salvo. Prima di perderli divista ci voltammo a guardare. La damain nero stringeva ancora MichailKolvenik nel suo abbraccio. Intra-vedemmo le due sagome tra le fiammefin quando il fuoco non le avvolsecompletamente. Immaginai la scia delleloro ceneri che si spargevano al vento,sospese su Barcellona, finché l’alba nonle disperdeva per sempre.

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Il giorno dopo i quotidiani parlaronodel più grande incendio mai avve-nutoin città, della vecchia storia del GranTeatro Real e di come la sua finecancellasse le ultime tracce di unaBarcellona scomparsa. La cenere avevasteso un manto grigio sulle acque delporto. Sarebbe continuata a cadere sullacittà fino al tramonto. Alcune fotoscattate da Montjuïc offrivano la visionedantesca di una pira infernale chelambiva il cielo. La tragedia assunsenuovi contorni quando la polizia rivelòdi sospettare che l’edificio fosseoccupato da emarginati, e che parecchidi loro fossero rimasti intrap-polati trale macerie fumanti. Non si sapeva nulla

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dell’identità dei due corpi 171carbonizzati trovati abbracciati in

cima alla volta. La verità, come avevapredetto Eva Irinova, era al sicuro dallagente.

Nessun quotidiano ricordò lavecchia storia di Eva Irinova e diMichail Kolvenik. Ormai noninteressava più a nessuno. Ricordo quelmattino, assieme a Marina, davanti aun’edicola delle Ramblas. La primapagina di

“La Vanguardia” apriva con un titoloa cinque Colonne: BARCELLONABRUCIA!

Mattinieri e curiosi si affrettavano acomprare la prima edizione, chie-

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dendosi chi avesse smaltato il cielod’argento. A passi lenti ci dirigemmoverso Plaza de Cataluña mentre lacenere continuava a cadere attorno a noicome fiocchi di neve morta.

172

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25Nei giorni successivi all’incendio

del Gran Teatro Real un’ondata difreddo si abbatté su Barcellona. Per laprima volta da molti anni un manto dineve ricoprì la città, dal porto alla cimadel Tibidabo. Io e Marina, in compagniadi Germán, trascorremmo delle festivitàtaciturne, cariche di sguardi sfuggenti.Marina evitava quasi ogni accenno aquanto era accaduto. Cominciai adaccorgermi che evitava la miacompagnia e preferiva ritirarsi nella suastanza a scrivere. Io ammazzavo iltempo giocando con Germáninterminabili partite a scacchi nellagrande sala riscaldata dal camino.

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Guardavo nevicare e aspettavo ilmomento di trovarmi a tu per tu conMarina. Un momento che non arrivavamai.

Germán fingeva di non accorgersi diquello che succedeva e cercava di farmicoraggio chiacchierando.

«Marina dice che lei vuole diventarearchitetto, Óscar.»

Io annuivo, anche se non sapevo piùcosa desideravo davvero. Passavo lenotti in bianco, riordinando i tassellidella storia che avevamo vissuto.

Mi sforzai di allontanare dallamemoria i fantasmi di Kolvenik e di EvaIrinova. Più di una volta pensai diandare a trovare il vecchio dottor

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Shelley per raccontargli quello che erasuccesso. Mi mancò il coraggio diaffrontar-lo e di spiegargli come avevoassistito alla morte della donna cheaveva allevato come una figlia, o comeavevo visto bruciare il suo miglioreamico.

L’ultimo giorno dell’anno la fontanadel giardino gelò. Temetti che i mieigiorni in compagnia di Marina fosseroarrivati al capolinea. Di lì a poco sareidovuto rientrare in collegio.Trascorremmo l’ultima notte dell’annoalla luce delle candele, ascoltando irintocchi lontani delle campane dellachiesa di Plaza Sarriá. Fuori continuavaa nevicare, come se le stelle si fossero

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staccate dal cielo senza preavviso. Amezzanotte brin-dammo tra i sussurri.Cercai gli occhi di Marina, ma leinascose il viso nella penombra. Quellanotte tentai di capire cosa potevo averdetto o fatto per meritare queltrattamento. Avvertivo la presenza diMarina nella stanza accanto alla mia. Laimmaginavo sveglia, un’isola che siallontanava sempre più nella corrente.Bussai con le nocche alla parete. Lachiamai invano.

173Non ottenni risposta.Raccolsi le mie cose e scrissi un

biglietto per accomiatarmi da Germán eda Marina, ringraziandoli per

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l’ospitalità. Qualcosa che non riuscivo aspie-garmi si era spezzato e ormai misentivo di troppo. All’alba lasciai ilbiglietto sul tavolo della cucina e usciidi casa. Mentre m’incamminavo verso ilcollegio ebbi la certezza che Marina mistesse osservando dalla finestra dellasua camera. La salutai con un gesto dellamano, nella speranza che mi stesseguardando. Le impronte dei miei passi sistamparono sulla neve delle stradedeserte.

Mancava ancora qualche giorno alrientro degli altri alunni. Le stanze delquarto piano erano lagune di solitudine.Mentre disfacevo il bagaglio padreSeguí passò a trovarmi. Lo salutai

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educatamente e continuai a siste-mare ivestiti.

«Curiosi gli svizzeri» disse.«Mentre tutti gli altri nascondono ipropri peccati, loro li avvolgono nellacarta stagnola, li riempiono di liquore, liin-fiocchettano e li vendono a pesod’oro. Il prefetto mi ha mandato daZurigo una scatola di cioccolatiniimmensa e non so con chi dividerla.Qualcuno deve darmi una mano primache doña Paula la scopra…»

«Conti su di me» dissi pococonvinto.

Seguí si avvicinò alla finestra eosservò la città ai nostri piedi, simile aun miraggio. Si voltò e mi osservò come

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se potesse leggermi nel pensiero.«Un buon amico mi ha detto una

volta che i problemi sono come gliscarafaggi.» Era il tono scherzoso cheusava quando voleva parlare sul serio.«Se li porti alla luce si spaventano escappano.»

«Doveva essere un amico saggio»dissi.

«No» ribatté Seguí. «Ma era proprioun brav’uomo. Buon anno, Óscar.»

«Buon anno, padre.»Passai quei giorni che precedettero

l’inizio delle lezioni senza uscire quasimai dalla mia stanza. Cercavo dileggere, ma le parole volavano via dallepagine. Le ore se ne andavano

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guardando dalla finestra la villa diGermán e Marina in lontananza. Millevolte fui tentato di tornarci e più d’unami spinsi fino all’imbocco del vicoloche portava al loro cancello.

Non si sentiva più il grammofono diGermán tra gli alberi, solo il vento fra irami spogli. Ogni notte rivivevo i fattidelle ultime settimane fino a crol-174

lare esausto in un sonno senzariposo, agitato e asfissiante.

Le lezioni iniziarono una settimanadopo. Erano giorni plumbei, di vetriappannati e radiatori che gocciolavanonella penombra. I miei vecchi compagnie il loro baccano mi risultavanoestranei. Chiacchiere su regali, feste e

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ricordi che non potevo né volevocondividere. Le voci degli insegnanti milasciavano indifferente. Non riuscivo acapire che importanza avessero leelucubrazioni di Hume o come lederivate potessero fermare gli orologi ecambiare il destino di Michail Kolvenike di Eva Irinova. O il mio.

Il ricordo di Marina e delleimpressionanti vicende che avevamovissuto mi impediva di pensare,mangiare o sostenere una conversazionecoerente.

Era lei l’unica persona con cuipotevo condividere la mia angoscia, e lane-cessità della sua presenza finì pertramutarsi in dolore fisico. Un dolore

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che mi straziava e che niente e nessunopoteva alleviare. Mi trasformai in unascialba figura che vagava per i corridoi.La mia ombra si confondeva con lepareti. I giorni cadevano come fogliemorte. Speravo di ricevere un bigliettodi Marina, un segno che desideravarivedermi. Una semplice scusa percorrere da lei e colmare la distanza checi separava e che sembrava crescereogni giorno di più. Quel segno nonarrivò mai. Ammazzavo il tempo vaga-bondando per i luoghi in cui ero statocon Marina. Mi sedevo sulle panchi-nedi Plaza Sarriá sperando di vederlapassare…

Alla fine di gennaio padre Seguí mi

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convocò nel suo ufficio. Con l’aria cupae lo sguardo penetrante, mi chiese cosami stava succedendo.

«Non lo so» risposi.«Se ne parliamo magari riusciamo a

capire di cosa si tratta» suggerì Se-guí.«Non credo» replicai con una

bruschezza di cui mi pentiiimmediatamente.

«Hai trascorso una settimana dellefeste di Natale fuori dal collegio.

Posso chiederti dove sei stato?»«Con la mia famiglia.»Lo sguardo del mio tutore si tinse di

ombre.«Se ti ostini a mentire non ha senso

proseguire questa conversazione,

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Óscar.»«È la verità» dissi. «Sono stato con

la mia famiglia.»175Febbraio portò con sé il sole. Le

luci dell’inverno squagliarono il mantodi gelo e brina che aveva ricoperto lacittà. Il bel tempo mi diede coraggio eun sabato mi presentai a casa di Marina.Il cancello era chiuso con una catena.Oltre gli alberi la vecchia casa apparivapiù solitaria che mai. Per una frazione disecondo pensai di essere impazzito. Miero immaginato tutto? Gli abitanti diquella villa spettrale, la storia diKolvenik e della dama in nero,l’ispettore Florián, Luis Claret, le

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creature resuscitate… Personaggi che lamano nera del destino aveva fattoscomparire uno dopo l’altro… Avevoforse sognato Marina e la sua spiaggiaincantata?

“Ricordiamo solo quello che non èmai accaduto…”

Quella notte mi svegliai urlando, inun bagno di sudore, senza capire dovemi trovavo. In sogno ero ritornato neitunnel di Kolvenik. Seguivo Marinasenza riuscire a raggiungerla, finché lascoprivo sepolta sotto un manto difarfalle nere; nel momento in cuispiccavano il volo, però, lasciavanodietro di sé solo il vuoto. Freddo.Inspiegabile. Il demone distruttore che

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ossessionava Kolvenik. Il nulla oltre ilbuio finale.

Quando padre Seguí e JF irrupperonella stanza, richiamati dalle mie ur-la,ci misi qualche secondo a riconoscerli.Seguí mi sentì il polso mentre JF

mi guardava sgomento, convinto cheil suo amico avesse completamenteperso la ragione. Rimasero accanto a mefinché non mi riaddormentai.

Il giorno seguente, dopo due mesiche non vedevo Marina, decisi ditornare alla villa di Sarriá. Non sareitornato indietro senza aver primaottenuto una spiegazione.

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26Era una domenica brumosa. Le

ombre degli alberi, con i loro ramispogli, disegnavano figure scheletriche.Le campane della chiesa scandivano ilritmo dei miei passi. Mi fermai davantial cancello sbarrato. C’erano improntedi pneumatici sulle foglie secche e michiesi se Germán avesse tira-to fuori dinuovo dal garage la sua vecchia Tucker.Mi intrufolai all’interno come un ladro,scavalcando l’inferriata, e mi addentrainel giardino.

La villa era immersa in un totalesilenzio, più tetra e desolata che mai.

Tra le erbacce vidi la bicicletta diMarina, a terra come un animale ferito.

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La catena era arrugginita, ilmanubrio roso dall’umidità. Quelloscenario mi diede l’impressione ditrovarmi davanti a un rudere, abitatosolo da vecchi mobili e invisibili echi.

«Marina?» chiamai.La mia voce se ne andò via col

vento. Girai attorno alla villa, direttoalla porta di servizio che dava in cucina.Era aperta. Il tavolo vuoto e ricopertoda uno strato di polvere. Mi spinsiall’interno della casa. Silenzio. Arrivainel grande salone dei quadri. Kirsten miguardava dalle pareti, ma per me quellierano gli occhi di Marina… Fu allorache sentii piangere alle mie spalle.

Germán se ne stava raggomitolato su

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una poltrona, immobile come una statua.L’unico movimento era quello dellelacrime che gli solcavano le guance.Non avevo mai visto un uomo della suaetà piangere così. Mi gelò il sangue.Pallido, smagrito, con lo sguardo personei ritratti, era molto invecchiatodall’ultima volta che l’avevo visto.Indossava uno dei vestiti da cerimoniache ricordavo, ma sporco e sgualcito.Chissà da quanto tempo era in quellostato, da quanti giorni era rannicchiatosu quella poltrona.

Mi accovacciai di fronte a lui e glipresi la mano.

«Germán…»La mano era talmente fredda che mi

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spaventai. Improvvisamente il pittore misi gettò al collo, tremando come unbambino. Sentii un nodo alla gola. Loabbracciai anch’io mentre piangevasulla mia spalla. Temetti che i medici gliavessero diagnosticato il peggio, che lesperanze degli ultimi 177

mesi fossero svanite, e lo lasciaisfogare, mentre mi domandavo dov’erafinita Marina, perché non era accanto aGermán…

Allora il vecchio sollevò lo sguardo.Mi bastò fissarlo negli occhi per capirela verità. La capii con la brutalechiarezza con cui si dissolvono i sogni.Come un pugnale freddo e avvelenatoche ti si conficca irrimediabilmente

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nell’anima.«Dov’è Marina?» chiesi, quasi

balbettando.Germán non riuscì ad articolare

parola. Non ce n’era bisogno. Seppi daisuoi occhi che i controlli di Germánall’ospedale di San Pablo erano falsi.

Seppi che il medico di La Paz nonaveva mai visitato il pittore. Seppi chel’allegria e l’ottimismo di Germán alritorno da Madrid non avevano niente ache fare con lui. Marina mi avevaingannato fin dall’inizio.

«Il male che si è portato via lamadre…» mormorò Germán «… se lasta portando via, caro Óscar, si staportando via la mia Marina…»

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Sentii le palpebre chiudersi comelastre di marmo, mentre il mondo sidissolveva lentamente attorno a me.Germán mi abbracciò di nuovo e lì, inquel desolato salone della vecchia villa,scoppiai a piangere come un imbecillementre le prime gocce di pioggiabagnavano Barcellona.

Dal taxi l’ospedale di San Pablo misembrò una città sospesa tra le nubi,tutto pinnacoli e impossibili cupole.Germán aveva indossato un abito pulitoe viaggiava accanto a me in silenzio. Ioavevo in mano un pacchetto avvoltonella carta da regalo più scintillante cheero riuscito a trovare. Quandoarrivammo, il medico di Marina, un

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certo Damián Rojas, mi squadròdall’alto in basso e mi diede una serie diistruzioni. Non dovevo stancare Marina.Dovevo mostrarmi positivo e ottimista.Era lei ad avere bisogno del mio aiuto, enon il contrario. Non ero andato lì perpiangere o lamen-tarmi, ma per aiutarla.Se non ero capace di seguire alla letteraquelle istruzioni potevo evitarmi ildisturbo di tornare. Damián Rojas era ungiovane medico il cui camice odoravaancora di università. Usò un tono severoe impaziente, senza sforzarsi troppo diessere cortese. In altre circostanze loavrei giudicato un cretino arrogante, maqualcosa in lui mi diceva che non avevaancora imparato a isolarsi dal dolore

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dei suoi pazienti, e che quell’at-teggiamento era la sua maniera disopravvivere.

Salimmo al quarto piano epercorremmo un lungo corridoio chesem-178

brava non finire mai. C’era odore diospedale, un miscuglio di malattia,creolina e deodorante. Il poco coraggioche mi restava andò in fumo appena misipiede in quell’ala dell’edificio. Germánentrò per primo nella stanza. Mi chiesedi aspettarlo fuori mentre annunciava aMarina la mia visita.

Intuiva che la figlia avrebbepreferito che io non la vedessi lì.

«Lasci che le parli prima io,

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Óscar…»Aspettai in corridoio, una galleria

infinita di porte e di voci perdute.Volti carichi di dolore e perdita si

incrociavano in silenzio. Ripetevo frame, fino alla nausea, le istruzioni deldottor Rojas. Ero lì per aiutarla. Allafine Germán si affacciò sulla porta eannuì. Deglutii ed entrai. Lui rimasefuori.

La stanza era un lungo rettangolodove la luce svaporava ancora prima disfiorare il pavimento. Dai finestronil’avenida Gaudí si perdeva versol’infinito. Le torri del tempio dellaSagrada Familia tagliavano il cielo ametà. C’erano quattro letti separati da

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ruvide tende. In controluce siscorgevano le sagome degli altrivisitatori, come in uno spettacolo diombre ci-nesi. Marina occupaval’ultimo letto sulla destra, accanto allafinestra.

In quei primi istanti la cosa piùdifficile fu sostenere il suo sguardo. Leavevano tagliato i capelli, che adessoerano corti come quelli di un ragazzo.

Senza la sua lunga chioma Marina misembrò umiliata, nuda. Mi morsi forte lalingua per scacciare le lacrime che misalivano dall’anima.

«Me li hanno dovuti tagliare…»disse, veggente. «Per gli esami.»

Notai dei segni sul collo e sulla nuca

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che facevano male solo a guardarli.Cercai di sorridere e le diedi ilpacchetto.

«A me piacciono» dissi a mo’ disaluto.

Accettò il pacchetto e se lo mise ingrembo. Mi sedetti accanto a lei insilenzio. Marina mi prese la mano e lastrinse forte. Aveva perso peso. Sotto ilcamicione bianco dell’ospedale le siintravedevano le costole. Gli occhicolor cenere, cerchiati da occhiaiescure, non brillavano più. Le labbraerano due linee sottili e screpolate. Conmani incerte scartò il pacchetto edestrasse il libro che conteneva. Losfogliò e alzò gli occhi, incuriosita.

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«Le pagine sono bianche…»«Per ora» risposi. «Abbiamo una

bella storia da raccontare, e scriverla ècompito tuo.»

Strinse il libro al petto.179«Come hai trovato Germán?» mi

domandò.«Bene» mentii. «Stanco, ma bene.»«E tu, come stai?» «Io?»«No, io. Chi, sennò?» «Sto bene.»«Certo, soprattutto dopo la predica

del sergente Rojas…»inarcai le sopracciglia, come se non

sapessi a cosa si riferiva. «Mi seimancato» disse. «Anche tu.»

Le nostre parole restarono sospese

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in aria. Per un lungo istante ciguardammo in silenzio. La sicurezzaostentata da Marina stava persgretolarsi.

«Sei autorizzato a odiarmi» disseallora.

«Odiarti? Perché dovrei odiarti?»«Ti ho mentito» rispose Marina.

«Quando sei venuto a restituirel’orologio di Germán sapevo già diessere malata. Sono stata egoista, hovoluto avere un amico… E credo che cisiamo persi per strada.»

Spostai lo sguardo verso la finestra.«No, non ti odio.»Mi strinse di nuovo la mano, poi si

sollevò e mi abbracciò.

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«Grazie di essere il migliore amicoche abbia mai avuto» mi sussurròall’orecchio.

Sentii che mi mancava il fiato. Avreivoluto fuggire a gambe levate.

Marina mi strinse forte a sé mentreio scongiuravo che non si accorgesseche stavo piangendo. Il dottor Rojas miavrebbe tolto il lasciapassare.

«Se mi odi solo un pochino al dottorRojas non dispiacerà» disse allora.

«Sicuro che fa bene ai globulibianchi, o qualcosa del genere.»

«Allora solo un pochino.»«Grazie.»180

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27Nelle settimane che seguirono

Germán Blau diventò il mio miglioreamico. Alle cinque e mezzo, appenaterminate le lezioni in collegio, miprecipitavo dal vecchio pittore.Prendevamo un taxi fino all’ospedale etrascorrevamo il pomeriggio conMarina, finché le infermiere non cicacciavano dalla stanza. Nel lungotragitto da Sarriá all’avenida Gaudíimparai che Barcellona, d’inverno, puòessere la città più triste del mondo. Lestorie e i ricordi di Germán divennero imiei.

Durante le lunghe attese nei desolaticorridoi dell’ospedale, Germán mi

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confidò dei segreti che non aveva mairivelato a nessuno, se non alla moglie.Mi parlò degli anni trascorsi con ilmaestro Salvat, del suo matrimonio, e dicome soltanto la compagnia di Marinagli avesse permesso di sopravviverealla perdita della moglie. Mi parlò deisuoi dubbi e delle sue paure, di come lavita gli aveva insegnato che le suecertezze erano pure illusioni. Mi disseche molte, troppe, sono le lezioni chenon valeva la pena imparare. Anch’io,per la prima volta, parlai con lui senzareticenze e gli raccontai di Marina, deimiei sogni come futuro architetto, ingiorni in cui avevo smesso di crederenel futuro. Gli parlai della mia

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solitudine e di come, prima di incontrareloro, avessi l’impressione di essere almondo per caso. Gli parlai dei mieitimori di esserlo di nuovo, se li avessiperduti. Germán mi ascoltava e micapiva. Sapeva che le mie parole eranosolo un tentativo di fare chiarezza neimiei sentimenti e mi lasciava sfogare.

Conservo un ricordo speciale diGermán Blau e dei giorni chetrascorremmo assieme a casa sua e neicorridoi dell’ospedale. Sapevamoentrambi che a tenerci uniti era soloMarina e che, in circostanze diverse,non ci saremmo nemmeno rivolti laparola. Ho sempre creduto che Marinafosse diventata quella che era grazie a

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Germán, e sono certo che anch’io, nelmio piccolo, gli devo più di quanto mifaccia piacere am-mettere. Custodisco lesue parole e i suoi consigli sotto chiave,nello scrigno della memoria, sapendoche prima o poi mi serviranno per af-181

frontare le mie paure e i miei dubbi.In quel mese di marzo piovve quasi

ogni giorno. Marina scriveva la storia diKolvenik e di Eva Innova nel libro chele avevo regalato, mentre decine dimedici e infermieri andavano e venivanocon esami, analisi e poi altri esami ealtre analisi. Fu allora che mi ricordaidella promessa fatta una volta a Marina,sulla funicolare di Vallvidrera, e iniziai

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a lavorare alla cattedrale. La suacattedrale. Nella biblioteca del collegiotrovai un libro sulla cattedrale diChartres e iniziai a disegnare i pezzi delmodellino che intendevo costruire.Anzitutto li ritagliai sul cartoncino.

Dopo un’infinità di tentativi, chequasi mi convinsero che non sarei maistato capace di progettare neanche unacabina telefonica, affidai a un fa-legname di calle Margenat l’incarico diritagliare i miei pezzi su fogli dicompensato.

«Cos’è che stai costruendo,ragazzo?» mi chiedeva curioso. «Un ra-diatore?»

«Una cattedrale.»

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Marina mi osservava intrigatamentre costruivo la sua piccolacattedrale sulla mensola della finestra. Avolte faceva battute che mi tenevanosveglio nottate intere.

«Perché tanta fretta, Óscar?»chiedeva. «Non penserai mica chemuoia domani?»

La mia cattedrale divenne ben prestopopolare tra i pazienti della stanza e iloro visitatori. Doña Carmen, unasivigliana di ottantaquattro anni cheoccupava il letto accanto a Marina, milanciava occhiate scetti-che. Aveva unaforza di carattere capace di sfiancare unesercito e un sedere grande come unaSeicento. Faceva scattare il personale

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dell’ospedale schioccando le dita. Erastata venditrice di borsa nera, cantantedi varietà, contrabbandiera, bailaora,cuoca, tabaccaia e Dio sa cos’altro.Aveva seppellito due mariti e tre figli.Una ventina tra nipoti e parenti venivanospesso a trovarla e a adorarla. Lei limetteva subito in ri-ga, dicendo che lesmancerie erano roba da scemi. Hosempre pensato che doña Carmen fossenata nel secolo sbagliato e che, se cifosse stata 182

lei, Napoleone non sarebbe riuscitoa oltrepassare i Pirenei. Tutti i presenti,tranne il diabete, erano dello stessoparere.

Sul lato opposto della stanza c’era

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Isabel Llorente, una signora rigida comeun manichino che parlava sottovoce esembrava uscita da una rivista di modad’anteguerra. Passava le giornate atruccarsi e a guardarsi in uno specchiettoper sistemarsi la parrucca. Lachemioterapia l’aveva resa calva comeuna palla da biliardo, ma era convintache nessuno lo sapesse. Mi dissero cheera stata Miss Barcellona nel 1934 el’amante di un sindaco della città. Ciparlava sempre di una sua avventura conuna famosa spia che un giorno o l’altrol’avrebbe portata via da quell’orribileposto in cui l’avevano relegata. DoñaCarmen alzava gli occhi al cielo ognivolta che lei apriva bocca. Nessuno

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andava mai a trovarla, e bastava dirlequanto era bella per farla sorridere peruna settimana intera. Un giovedìpomeriggio, entrando nella stanza,trovammo il letto vuoto. Isabel Llorenteera morta quella mattina, senza dare iltempo al suo inna-morato di portarselavia.

La quarta paziente era Valeria Astor,una bambina di nove anni che respiravagrazie a una tracheotomia. Mi sorridevaogni volta che entravo nella stanza. Lamadre non l’abbandonava un istante e,quando era costretta a uscire, dormiva incorridoio.

Invecchiava di un mese ogni giornoche passava. Valeria mi chiedeva

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sempre se Marina era una scrittrice e iole rispondevo di sì, e che era anchefamosa. Una volta - chissà perché - midomandò se ero un poliziotto. Marina leraccontava delle storie che si inventavaal momento.

Le sue preferite erano, nell’ordine,di fantasmi, di principesse e di treni.

Doña Carmen ascoltava i racconti diMarina e rideva di gusto. Perringraziarla la madre di Valeria, unadonna scialba il cui nome non riuscivomai a ricordare, regalò a Marina unoscialle di lana fatto con le sue mani.

Il dottor Damián Rojas visitava lepazienti varie volte al giorno. Con iltempo quel medico finì per diventarmi

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simpatico. Scoprii che anni prima avevastudiato nel mio collegio ed era stato sulpunto di entrare in seminario. Aveva unasplendida fidanzata, Lulù, che sfoggiavauna collezione di minigonne e calze diseta nere da mozzare il fiato. Lulù pas-183

sava a prenderlo in ospedale ognisabato e spesso veniva a salutarci e achiederci se quel bruto del suo fidanzatosi comportava bene. Io diven-tavosempre rosso come un peperone quandoLulù mi rivolgeva la parola. Marina miprendeva in giro: diceva che, a forza diguardarla, mi sarebbe venuta la facciada donnaiolo. Lulù e il dottor Rojas sisposarono in aprile. Quando, una

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settimana dopo, il medico tornò dallabreve luna di miele a Maiorca era magrocome un chiodo. Le infermiere loguardavano e scoppiavano a ridere.

Per qualche mese quello fu il miomondo. Le lezioni e il collegio erano uninsignificante intermezzo. Rojas simostrava ottimista sulla salute diMarina. Era forte e giovane, diceva, e laterapia stava dando buoni risultati. Io eGermán non sapevamo comeringraziarlo. Gli rega-lammo sigari,cravatte, libri, persino una Mont Blanc.Lui protestava e diceva di fare soltantoil suo lavoro, ma tutti sapevano chetrascorreva in reparto più ore diqualsiasi altro medico.

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Alla fine di aprile Marina acquistòun po’ di peso e di colorito. Facevamobrevi passeggiate per i corridoi e,quando il freddò emigrò verso altri lidi,uscivamo un po’ nel chiostrodell’ospedale. Marina continuava ascrivere sul libro che le avevo regalato,anche se non mi faceva leggerenemmeno un rigo.

«A che punto sei?» le chiedevo.«È una domanda stupida.»«Gli stupidi fanno domande stupide.

I furbi trovano le risposte. A che puntosei?»

Non c’era modo di saperlo.Immaginavo che fissare sulla cartal’esperienza che avevamo vissuto

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insieme avesse per lei un significatospeciale. Durante una passeggiata nelchiostro mi disse una cosa che mi fecevenire la pelle d’oca.

«Promettimi che, se dovessesuccedermi qualcosa, finirai tu lastoria.»

«La finirai tu» replicai. «E dovraianche dedicarmela.»

Nel frattempo la piccola cattedraledi compensato prendeva forma e, anchese doña Carmen diceva che sembraval’inceneritore di rifiuti di 184

San Adrian del Besós, la gugliadella cupola svettava sulla costruzione.

Io e Germán cominciammo a fareprogetti per organizzare una gita con

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Marina al suo posto preferito, la calettasegreta fra Tossa e Sant Feliu deGuíxols, non appena avesse ottenuto ilpermesso di uscire. Il dottor Rojas,sempre prudente, fissò come data dimassima la metà di maggio.

In quelle settimane imparai che sipuò vivere di sola speranza e poco più.

Secondo il dottor Rojas, Marinadoveva trascorrere il maggior tempopossibile camminando e facendoesercizi all’interno dell’ospedale.

«Anche farsi bella le gioverà» disse.Da quando si era sposato, Rojas era

diventato un esperto di faccendefemminili, o almeno così credeva. Unsabato mi spedì con sua moglie Lulù a

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comprare una vestaglia di seta perMarina. Era un regalo e lo pa-gò ditasca sua. Accompagnai Lulù in unnegozio di biancheria intima sullaRambla de Cataluña, di fianco al cinemaAlexandra. Le commesse laconoscevano bene. Seguii Lulù su e giùper il negozio, osservandola mentrevagliava un’infinità di completi intimiche facevano girare a millel’immaginazione. Un passatempoinfinitamente più stimolante degliscacchi.

«Piacerà questo alla tua ragazza?»mi chiedeva Lulù, umettandosi le labbraincendiate di rossetto.

Non le dissi che Marina non era la

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mia ragazza. Ero orgoglioso chequalcuno potesse pensarlo. Inoltre,l’esperienza di acquistare dellabiancheria intima da donna con Lulù eratalmente inebriante che mi limitai adannuire a tutto come un allocco.

Quando lo raccontai a Germán risedi gusto e mi confessò che anchesecondo lui la moglie del dottore eragravemente nociva per la salute.

Era la prima volta dopo tanti mesiche lo vedevo ridere.

Un sabato mattina, poco prima diprendere il taxi per l’ospedale, Germánmi chiese di salire nella stanza diMarina per cercare una boccetta del suoprofumo preferito. Mentre rovistavo nei

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cassetti del comò, sul fondo trovai deifogli di carta piegati. Li aprii ericonobbi all’istante 185

la calligrafia di Marina. Parlavanodi me. Il testo era pieno di correzioni edi paragrafi cancellati. Eranosopravvissute solo queste righe: Il mioamico Óscar è uno di quei principisenza regno che si danno un gran dafare nella speranza di essere baciati epotersi trasformare in rospi. Capiscetutto al contrario e per questo mi piacetanto. Mi osserva pensando che io nonlo veda. Crede che potrei svanire se mitocca e che, se non lo fa, a svanire saràlui. Mi ha messo su un piedistallo cosìalto che non sa più come fare per

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salirci sopra. Pensa che le mie labbrasiano le porte del paradiso, ma non sache sono avvelenate. Io sono co-sìvigliacca che, per non perderlo, nonglielo dico. Fingo di non vederlo e, sì,anche di poter svanire…

Il mio amico Óscar è uno di queiprincipi che farebbero bene a te-nersilontani dalle fiabe e dalle principesseche le abitano. Non sa che è il principeazzurro a dover baciare la bellaaddormentata per svegliar-la dal suosonno eterno, ma questo succedeperché Óscar ignora che tutte le fiabesono menzogne, anche se non tutte lemenzogne sono fiabe. I principi nonsono azzurri e le addormentate, per

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quanto belle, non si risvegliano mai dalloro sonno. È il miglior amico cheabbia mai avuto e, se un giorno miimbatterò in Merlino, lo ringrazieròper aver-melo fatto incrociare sullamia strada.

Rimisi i fogli al loro posto eraggiunsi Germán. Si era messo uncravattino speciale ed era più vivace delsolito. Mi sorrise e io gli restituii ilsorriso. Quel giorno, durante il tragittoin taxi, splendeva il sole. Barcellonasfoggiava il suo volto migliore,incantando turisti e nuvole, che sifermavano ad ammirarla. Ma nulla ditutto questo riuscì a scrollarmi di dossol’inquietudine che quelle poche righe mi

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avevano conficcato in testa. Era il primogiorno di maggio del 1980.

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28Quella mattina trovammo il letto di

Marina vuoto, senza lenzuola.Non c’era traccia né del modellino

della cattedrale né delle sue cose.Quando mi voltai Germán stava già

correndo a cercare il dottore. Gli andaidietro. Lo trovammo nel suo ufficio, conl’aria di chi non aveva chiuso occhiotutta la notte.

«Ha avuto una ricaduta» dissesoltanto.

Ci spiegò che la sera prima, appenaun paio d’ore dopo che ce n’eravamoandati, era insorta un’insufficienzarespiratoria e il cuore di Marina si erafermato per trentaquattro secondi.

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L’avevano rianimata e adesso era interapia intensiva, in stato di incoscienza.Le sue condizioni erano stabili e Rojasriteneva che potesse tornare in reparto inmeno di ventiquattro ore, anche se nonvoleva alimentare in noi false speranze.

Notai che le cose di Marina, il libro,la cattedrale di compensato e lavestaglia che non aveva ancoraindossato, erano appoggiate su unoscaffa-le.

«Posso vedere mia figlia?» chieseGermán.

Rojas ci accompagnò di persona nelreparto di terapia intensiva. Marina eraimprigionata in un groviglio di tubi emacchine d’acciaio assai più mostruoso

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e reale di qualsiasi invenzione diMichail Kolvenik. Se ne stava inerte sullettino, come un pezzo di carneinscatolato in quelle magiche lattine. Fuallora che vidi il vero volto del demoneche tormentava Kolvenik e compresi lasua pazzia.

Ricordo che Germán scoppiò apiangere e che una forza incontrolla-bilemi portò via da lì. Corsi all’impazzata emi fermai solo in una strada rumorosaaffollata di volti anonimi, indifferenti almio dolore. Ero circondato da gente acui non importava nulla del destino diMarina. Un universo nel quale la suavita era una semplice goccia d’acqua trale on-de. Mi venne in mente un solo

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posto dove potevo andare.187Il vecchio palazzo delle Ramblas era

sempre immerso nel suo abisso dioscurità. Il dottor Shelley aprì la porta enon mi riconobbe. L’appartamento erasottosopra e puzzava di vecchio. Ilmedico mi guardò con gli occhi fuoridalle orbite, completamente persi. Loaccompagnai nel suo studio e lo fecisedere accanto alla finestra. L’assenza diMaria aleggiava nell’aria. E bruciava.Tutta l’arroganza e la scontrosità deldottore erano svanite. Avevo di fronte unpovero vecchio, solo e disperato.

«Se l’è presa» mi disse. «Se l’èpresa…»

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Aspettai che si tranquillizzasse. Allafine alzò lo sguardo e mi riconobbe. Michiese cosa volevo e glielo dissi. Miosservò con calma.

«Non c’è nessuna boccetta del sierodi Michail. Sono state tutte distrutte.Non posso darti quello che non ho. Mase anche lo avessi, ti fa-rei un miserofavore. E tu commetteresti un errore ausare il siero per salvare la tua amica.Lo stesso errore commesso daMichail…»

Le sue parole tardarono araggiungermi davvero. Abbiamoorecchie solo per ciò che vogliamoascoltare, e io non volevo sentire queidiscorsi. Shelley sostenne il mio

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sguardo senza battere ciglio. Sospettaiche avesse riconosciuto la miadisperazione, e che i ricordi che glirievocava lo spaventassero. Mi resiconto che, se fosse dipeso da me, avreiimboc-cato senza esitare lo stessocammino di Kolvenik. Non avrei maipiù provato a giudicarlo.

«Il territorio degli esseri umani è lavita» disse il dottore. «La morte non ciappartiene.»

Mi sentivo terribilmente stanco.Avrei voluto arrendermi, ma non sapevoa che cosa. Mi girai per andarmene.Prima che uscissi, Shelley mi richiamò.

«Tu eri lì, vero?» mi chiese.Annuii.

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«Maria è morta in pace, dottore.»Vidi i suoi occhi brillare di lacrime. Mitese la mano e gliela strinsi. «Grazie.»

Fu l’ultima volta che lo vidi.188Alla fine di quella settimana Marina

riprese conoscenza e fu dimessa dallaterapia intensiva. La sistemarono in unastanza al secondo piano che siaffacciava sul quartiere di Horta. Era dasola. Non aveva più la forza di scriveree riusciva a stento a sollevarsi perguardare la sua cattedrale, quasi finita,sulla mensola della finestra. Rojaschiese il permesso di effettuareun’ultima serie di esami. Germánacconsentì. Lui non aveva perso la

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speranza. Quando Rojas ci comunicòl’esito nel suo ufficio gli si spezzò lavoce. Dopo mesi di lotta si arreseall’evidenza, mentre Germán lorincuorava e gli dava pacche sullespalle.

«Non posso fare di più… Non possofare di più… Mi scusi…» gemevaDamián Rojas.

Due giorni dopo riportammo Marinanella casa di Sarriá. I medici nonpotevano fare più niente per lei. Ciaccomiatammo da doña Carmen, daRojas e da Lulù, che piangeva come unafontana. La piccola Valeria mi chiesedove portavamo la mia fidanzata, lascrittrice famosa, e se era vero che non

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le avrebbe più raccontato le sue storie.«A casa. La riportiamo a casa.»Me ne andai dal collegio un lunedì,

senza avvertire e senza dire a nessunodove andavo. Non pensai nemmeno chemi sarebbe mancato.

Non m’importava. Il mio posto eraaccanto a Marina. La sistemammo nellasua stanza. La sua cattedrale, ormaifinita, le teneva compagnia dallafinestra. Quello fu l’edificio più belloche abbia mai costruito. Io e Germánfacevamo i turni per vegliarlaventiquattr’ore su ventiquattro.

Rojas ci aveva detto che nonavrebbe sofferto, che si sarebbe spentalentamente come una fiammella al vento.

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Marina non mi parve mai così bellacome in quegli ultimi giorni nella grandecasa di Sarriá. I capelli le eranoricresciuti, ancora più lucenti, screziatida mèche argentate. Anche i suoi occhierano più luminosi. Io non lasciavoquasi mai la sua stanza. Volevoassaporare ogni minuto e ogni secondoche mi restavano accanto a lei. Spessopassavamo ore abbracciati senzaparlare, senza muoverci. Una sera, ungiovedì, Marina mi baciò sulle labbra emi sussurrò all’orecchio che mi amava eche, qualunque cosa fosse accaduta, miavrebbe amato per sempre.

189Morì all’alba del giorno successivo,

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in silenzio, come aveva predetto ildottor Rojas. All’alba, con le prime lucidel giorno, Marina mi strinse forte lamano, sorrise al padre e la fiamma deisuoi occhi si spense per sempre.

Facemmo l’ultimo viaggio conMarina a bordo della vecchia Tucker.

Germán guidò in silenzio fino allaspiaggia, come qualche mese prima.

La giornata era così luminosa chevolli credere che il mare, da lei tantoamato, si fosse vestito a festa peraccoglierla. Parcheggiammo tra glialberi e scendemmo a riva per spargerele sue ceneri.

Al ritorno Germán mi confessò chenon se la sentiva di guidare fino a

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Barcellona. Lasciammo la Tucker tra ipini e ci accordammo con alcunipescatori di passaggio per farci portarealla stazione ferroviaria.

Quando arrivammo alla stazioneFrancia, a Barcellona, ero sparito dasette giorni. A me sembrava che fosseropassati sette anni.

Salutai Germán con un abbracciosulla banchina della stazione. Ancoraoggi ignoro dove sia andato e che fineabbia fatto. Sapevamo entrambi che nonci saremmo più potuti guardare negliocchi senza veder-vi riflessi quelli diMarina. Lo vidi allontanarsi, una lineasbiadita sulla tela del tempo. Poco dopoun poliziotto in borghese mi riconobbe e

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mi chiese se il mio nome era ÓscarDrai.

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EpilogoLa Barcellona della mia gioventù

non esiste più. Le sue strade e la sualuce se ne sono andate per sempre evivono solo nel ricordo. Quindici annidopo sono tornato in città e horipercorso i luoghi che credevo ormaiesiliati dalla memoria. Ho saputo che lavilla di Sarriá è stata de-molita. Lestradine che la circondavano sonodiventate una strada a scorrimentoveloce sulla quale, dicono, corre ilprogresso. Il vecchio cimitero è ancoralì, suppongo, perso nella nebbia. Misono seduto in piazza sulla panchina chetanto spesso avevo condiviso conMarina. In lontananza ho scorto il

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profilo del mio vecchio collegio, ma nonho avuto il coraggio di avvicinarmi.Qualcosa mi diceva che, se lo avessifatto, la mia giovinezza sarebbe svanitaper sempre. Il tempo non ci rende piùsaggi, solo più vigliacchi.

Per anni sono fuggito senza sapereda cosa. Credevo che, correndo più infretta dell’orizzonte, le ombre delpassato non avrebbero intralcia-to il miocammino. Credevo che, mettendo tra mee loro una distanza sufficiente, le vocinella mia testa si sarebbero zittite persempre. Alla fine sono tornato su quellaspiaggia segreta di fronte alMediterraneo.

L’eremo di Sant’Elm svettava in

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lontananza, sempre vigile. Ho ritrovatola vecchia Tucker del mio amicoGermán. Curiosamente è ancora lì, tra ipini, alla sua meta finale.

Ho raggiunto la riva del mare e misono seduto sulla sabbia, nel punto incui, anni prima, avevo sparso le ceneridi Marina. Il cielo era terso e luminosocome quel giorno e ho avvertito, intensa,la sua presenza.

D’un tratto ho capito che non potevoné volevo più fuggire. Ero tornato acasa.

Gli ultimi giorni avevo promesso aMarina che, se lei non ci fosse riuscita,avrei finito io questa storia. Il librodalle pagine bianche che le avevo

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regalato mi ha fatto compagnia per tuttiquesti anni. Le sue parole saranno lemie. Non so se riuscirò a onorare la miapromessa. A volte 191

dubito della mia memoria e michiedo se non finirò per ricordare soloquello che non è mai accaduto.

Marina, ti sei portata via tutte lerisposte.

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