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Capitolo terzo ipo del mito è un tempo prigioniero, congelato. La stor ome un fiume nel tempo quotidiano: la storia è aperta." distinzione ci riporta alla critica letteraria, e alla differ tteri e figure nella narrativa. Secondo la teoria del racconti (19760), in una narrazione ;ggìati nelle linee essenziali; i loro aspetti sono abbozzati senza pri 'entità rigorosamente unitaria. Compaiono nei romanzi di Dickens, non j gure sono quelle che troviamo nei racconti moraleggianti, nei romanzi ( afie, ossia in quelli scritti che presentano in forma narrativa dei tipi di ' ipltolo 4 ' L'osservatore e il tempo liti personali e familiari, come in quelli culturali, i per lire » statiche e stilizzate, nelle storie non mitiche i persi atteri » realistici, in carne e ossa, e possono essere descrit i, dinamica, aperta al cambiamento. Estinzione su cui vorremmo soffermarci è quella tra sister Sistema», per definizione, si riferisce a un gruppo di eie ca relazione entro un confine (boundary), e necessariament ensione spaziale. Come descriveremo nel capitolo che segue ottanta abbiamo lavorato con l'approccio sistemico-ciber Ito, che si basava prevalentemente sulla dimensione sinc abbiamo introdotto il tempo. La narrazione, invece, si rif ite alla temporalità, più che alla spazialità. In essa le vicende ie che si dipanano nel tempo. Da questa breve descrizioni noi è stato facile accettare anche il pensiero narrativo e oggi ci serviamo di entrambe queste lenti, in una «visioì ci consente di orientarci nel tempo e nello spazio.1' Com4 , due punti di vista sono meglio di uno. 1 o di concettualizzare l'incontro fra il mito e la storia particolare di un sog-j di soggetti è che la storia «compiuta» del mito confluisce in essa, riac- i ipo. itemi/narrazione è per certi versi analoga a quella che, negli anni settanta, Tuttura. In quel caso, Minuchin e Hiley rollerò la visione strutturale, il illa sistemica. Nei primi capitoli di questo libro abbiamo delineato la nostra visione |l tempo. Abbiamo scelto il tempo come chiave di lettura, punto di osser- Itione privilegiato delle relazioni umane, a svantaggio di altri punti di i, quali l'inconscio, il potere, le emozioni o le cognizioni. Perché il OT>po e non lo spazio? Il tempo richiama lo spazio, come lo spazio il I llmpo. Ad esempio, Kant in filosofia, Piaget in psicologia, Einstein in I Jlllca hanno concepito tempo e spazio come strettamente correlati. In que- | No libro noi raramente parliamo di spazio inmaniera esplicita, tuttavia lo Ipfttìo è ubiquitario nelle nostre concettualizzazioni. Quando parliamo di mondo interno», «mondo esterno», «orizzonte», «prospettiva», «dimensione temporale», «sistema», «struttura» ecc., questi - e molti litri - concetti presuppongono una rappresentazione, una cornice spaziale, -, incessane per la conoscenza.' E naturale che il tempo sia già stato considerato da altri autori come una dimensione importante anche nella psicoterapia; ma noi lo abbiamo scelto Come punto focale della ricerca, come lente per osservare le interazioni. In [ ttlU prospettiva di cibernetica di secondo ordine, potremmo dire che tale Unte viene a rappresentare una premessa epistemologica, o un pre-giudizio (Mv, in lingua inglese) dell'osservatore. Per noi, il tempo non è soltanto un mezzo, un modo di strutturare le Itdute o un ritmo da seguire per entrare in relazione con i clienti, ma il ine dei nostri interventi per favorire armonia ed evolutività, quando que- ItC - come spesso accade nei casi chevediamo - vengono a mancare: come 1 Bateson definisce un'informazione come una differenza che fa una differenza, una rela- klone. Le percezioni visive, uditive, tattili e proprìocettive rappresentano differenze spaziali e/o Mmporali che raggiungono il sistema nervoso centrale attraverso impulsi binari. Questi ultimi Milo elaborati, integrati e associati in sensazioni, immagini, pensieri che trovano la loro collo- emione in cornici spaziali e temporali.

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Capitolo terzo

ipo del mito è un tempo prigioniero, congelato. La storome un fiume nel tempo quotidiano: la storia è aperta."distinzione ci riporta alla critica letteraria, e alla differtteri e figure nella narrativa. Secondo la teoria del racconti(19760), in una narrazione

;ggìati nelle linee essenziali; i loro aspetti sono abbozzati senza pri'entità rigorosamente unitaria. Compaiono nei romanzi di Dickens, non jgure sono quelle che troviamo nei racconti moraleggianti, nei romanzi (afie, ossia in quelli scritti che presentano in forma narrativa dei tipi di '

ipltolo 4

' L'osservatore e il tempo

liti personali e familiari, come in quelli culturali, i perlire » statiche e stilizzate, nelle storie non mitiche i persiatteri » realistici, in carne e ossa, e possono essere descriti, dinamica, aperta al cambiamento.Estinzione su cui vorremmo soffermarci è quella tra sisterSistema», per definizione, si riferisce a un gruppo di eieca relazione entro un confine (boundary), e necessariamentensione spaziale. Come descriveremo nel capitolo che segueottanta abbiamo lavorato con l'approccio sistemico-ciberIto, che si basava prevalentemente sulla dimensione sincabbiamo introdotto il tempo. La narrazione, invece, si rifite alla temporalità, più che alla spazialità. In essa le vicendeie che si dipanano nel tempo. Da questa breve descrizioninoi è stato facile accettare anche il pensiero narrativoe oggi ci serviamo di entrambe queste lenti, in una «visioìci consente di orientarci nel tempo e nello spazio.1' Com4

, due punti di vista sono meglio di uno.

1o di concettualizzare l'incontro fra il mito e la storia particolare di un sog-jdi soggetti è che la storia «compiuta» del mito confluisce in essa, riac- i

ipo.itemi/narrazione è per certi versi analoga a quella che, negli anni settanta,Tuttura. In quel caso, Minuchin e Hiley rollerò la visione strutturale, ililla sistemica.

Nei primi capitoli di questo libro abbiamo delineato la nostra visione|l tempo. Abbiamo scelto il tempo come chiave di lettura, punto di osser-Itione privilegiato delle relazioni umane, a svantaggio di altri punti di

i, quali l'inconscio, il potere, le emozioni o le cognizioni. Perché il• OT>po e non lo spazio? Il tempo richiama lo spazio, come lo spazio ilI llmpo. Ad esempio, Kant in filosofia, Piaget in psicologia, Einstein inI Jlllca hanno concepito tempo e spazio come strettamente correlati. In que-| No libro noi raramente parliamo di spazio in maniera esplicita, tuttavia lo

Ipfttìo è ubiquitario nelle nostre concettualizzazioni. Quando parliamo di• mondo interno», «mondo esterno», «orizzonte», «prospettiva»,«dimensione temporale», «sistema», «struttura» ecc., questi - e moltilitri - concetti presuppongono una rappresentazione, una cornice spaziale,

-, incessane per la conoscenza.'E naturale che il tempo sia già stato considerato da altri autori come una

dimensione importante anche nella psicoterapia; ma noi lo abbiamo sceltoCome punto focale della ricerca, come lente per osservare le interazioni. In

[ ttlU prospettiva di cibernetica di secondo ordine, potremmo dire che taleUnte viene a rappresentare una premessa epistemologica, o un pre-giudizio(Mv, in lingua inglese) dell'osservatore.

Per noi, il tempo non è soltanto un mezzo, un modo di strutturare leItdute o un ritmo da seguire per entrare in relazione con i clienti, ma iline dei nostri interventi per favorire armonia ed evolutività, quando que-ItC - come spesso accade nei casi che vediamo - vengono a mancare: come

1 Bateson definisce un'informazione come una differenza che fa una differenza, una rela-klone. Le percezioni visive, uditive, tattili e proprìocettive rappresentano differenze spaziali e/oMmporali che raggiungono il sistema nervoso centrale attraverso impulsi binari. Questi ultimiMilo elaborati, integrati e associati in sensazioni, immagini, pensieri che trovano la loro collo-emione in cornici spaziali e temporali.

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cambiare un orizzonte temporale? come introdurre mobilità nel temporallentato di un depresso? come operare per creare le connessioni diacro-niche perdute nella storia frammentata d'uno schizofrenico? come resti-tuire evolutività a persone che sembrano aver perduto la nozione di futuro?E infine, come si può usare la lente del tempo per osservare e capire lesincronie e le dissincronie tra individui, famiglie, sistemi sociali? e comepossiamo favorire l'armonia tra i diversi tempi individuali e sociali?

Da terapeuti sistemici, noi indaghiamo le relazioni. Osservare le relazioniattraverso la lente del tempo può illuminare aspetti trascurati dell'agire tera-peutico. Ci occuperemo ora di alcuni aspetti dell'approccio sistemico allaconsulenza e alla psicoterapia.

La consulenza e la terapia sistemica

Racconteremo brevemente la storia dell'approccio sistemico, come èstato sviluppato dal gruppo di Milano (Mara Selvini Palazzoli, LuigiBoscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata), al fine di orientare il let-tore nel seguire lo sviluppo delle idee degli ultimi due decenni. Siamo con-sapevoli che questa è una nostra descrizione, e che la descrizione che noifacciamo nel nostro presente diventerà un evento passato per i nostri let- •'•tori, che a loro volta le attribuiranno significato nel loro presente. E sap- ;piamo anche che, come tutte le narrazioni, anche questa riscrive il pas* jsato, interpretandolo secondo i sistemi di significato del presente. Cosnarrare di nuovo questa storia è un modo da un lato di rinnovare vecchieazioni, dall'altro di costruire ponti proiettati verso il futuro. In questQ|modo, noi entriamo nell'anello autoriflessivo di passato, presente e futnell'atto stesso di scrivere la nostra storia.2

Nei primi anni settanta, il gruppo di Milano, dopo un periodo di terapiadella famiglia a orientamento psicoanalitico (1967-71), adottò il cosiddetmetodo di Palo Alto, un modello sistemico influenzato dalle idee di GregorBateson, Jay Haley, Don Jackson, Milton Erickson (Watzlawick, Beavin iJackson, 1967; Haley, 1963). In questo primo periodo d'attività del gruppdurato fin verso il 1975, la terapia era sempre offerta all'intera famigliacui s'era presentato un problema, anche quando il problema era riferitouno solo dei membri (il «paziente designato»).

Uno specchio unidirezionale divideva la sala di terapia dalla salaosservazione. L'equipe terapeutica s'incontrava in genere prima di ogseduta per formulare un'ipotesi di lavoro sulla base delle informazicricevute in precedenza. Quindi il terapeuta, o, più spesso, la coppia

2 Per un approfondimento della storia del modello sistemico di Milano si vedano Hofl(1981), Tomm (1984, 1985), Campbell e Draper (1985), Boscolo, Cecchin e altri (1987).

terapeuti, iniziava la seduta mentre il resto dell'equipe osservava dietro10 specchio. La seduta poteva essere interrotta su iniziativa tanto dei tera-peuti quanto dell'equipe di osservazione; in entrambi i casi, il terapeutae l'equipe s'incontravano brevemente nella sala di osservazione per unoscambio d'idee. Alla fine della seduta terapeuta ed équipe s'incontravanoper un periodo più lungo, a volte anche di un'ora, dove il lavoro di équipeconsisteva nello sviluppare una serie di ipotesi che confluivano in un'ipo-tesi sistemica, tale da dare un senso ai comportamenti osservati in rela-zione al sintomo. A partire dall'ipotesi sistemica, poi, si costruiva un«intervento finale», che poteva consistere in una riformulazione, unaprescrizione con un compito da eseguire a casa, oppure un rituale. Erapoi il terapeuta o la coppia di terapeuti a porgere alla famiglia l'inter-vento finale.

Il metodo di Palo Alto era basato sul pensiero sistemico e sulla ciberneticadi primo ordine, ovvero sulla cibernetica del sistema osservato. Ciò implicavaun osservatore separato dall'entità osservata. L'equipe cercava di escogitareun'ipotesi sistemica sul modo in cui la famiglia si era organizzata in relazioneal sintomo o ai sintomi presentati; l'ipotesi corrispondeva quindi a quello cheera definito il «gioco familiare». Per essere efficace, l'ipotesi sistemica dovevaessere ad hoc, quindi rappresentare il gioco familiare, o almeno corrisponderviin qualche modo, come una chiave corrisponde alla sua serratura.

Nella maggior parte dei casi era possibile arrivare facilmente a un accordodi tutta l'equipe sull'ipotesi sistemica, e costruire interventi efficaci. Moltefamiglie senza membri psicotici, infatti, concludevano la terapia in pochesedute. Anche in vari casi di psicosi acuta era possibile raggiungere successievidenti; nei casi di psicosi cronica, però, la terapia facilmente si bloccava etendeva a superare le dieci sedute, il numero massimo previsto dal contrattoiniziale.

Il libro Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli, Boscolo e altri, 1975),che descrive il lavoro con quindici famiglie con un membro diagnosticatocome schizofrenico, narra che entrare in relazione con quelle famiglie eraCome entrare in un labirinto. Era difficile arrivare a ipotesi che avessero unlenso per tutti i membri dell'equipe, con risultante senso di confusione efrustrazione. Come Bowen (1978), il gruppo vedeva i sintomi inseriti in ungioco trigenerazionale. In questo gioco il paziente designato occupava unaposizione speciale, in cui convergeva il massimo grado di disconferma, conconseguente incertezza sulla percezione di sé e degli altri, sensazione d'insen-Htezza e confusione. Centrale nella comprensione del sintomo psicotico era11 teoria del doppio legame (Bateson, Jackson e altri, 1956), di cui abbiamoparlato nel capitolo 3, basata sui paradossi emergenti dalla confusione dilivelli logici.

Lo scopo della terapia era eliminare le configurazioni rigide di compor-

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lamenti disfunzionali, lasciando spazio al possibile emergere di configura-zioni più funzionali. Tale scopo era raggiunto per mezzo della connotazionepositiva di tutti i comportamenti, sintomatici e non (riformulazione para-dossale), e per mezzo dei rituali familiari.'

Intorno al 1975 la pubblicazione delle opere di Bateson in volume (Stepsto an Ecology ofMind, 19723) aprì al gruppo nuovi orizzonti. Il modo di pen-sare e di lavorare cambiò drasticamente. Il tentativo era quello di trasferirel'epistemologia cibernetica di Bateson nella pratica clinica, di pensare inmodo sistemico per agire in modo sistemico.

Rispetto alle posizioni del Mental Research Institute di Palo Alto, gliscritti originali di Bateson si rifacevano a un pensiero sistemico insieme piùpuro e più complesso. La distinzione tra la mappa e il territorio, le catego-rie logiche dell'apprendimento, il concetto di mente come sistema e disistema come mente, la nozione di epistemologia cibernetica e l'introdu-zione della semantica assunsero una posizione centrale. L'applicazione diqueste idee in campo clinico portò allo sviluppo d'un nuovo metodo di rac-colta e di elaborazione d'informazioni e di intervento sui sistemi umani.Furono enunciati tre princìpi per la conduzione della seduta: ipotizzazione,circolarità e neutralità, che diventarono il tratto distintivo del modello(Selvini Palazzoli, Boscolo e altri, i98ob).

L'ipotizzazione connette i dati provenienti dall'osservazione. Un'ipotesiè giudicata sistemica se considera insieme tutti i componenti del sistema ingioco, e propone una spiegazione delle loro relazioni, che non è né vera néfalsa: è uno strumento di ricerca. Il terapeuta valuta la plausibilità delle pro-prie ipotesi sulla base delle retroazioni verbali e non verbali dei clienti.

La circolarità è appunto il principio attraverso il quale il terapeuta si affidaa tali retroazioni per valutare le proprie ipotesi e svilupparne di nuove. Èimportante continuare a cambiare le proprie ipotesi, per evitare la trappoladell'«ipotesi vera», che introdurrebbe rigidità nell'interazione e chiude-rebbe il discorso. Le ipotesi emergono dall'interazione ricorsiva fra tera-peuta e famiglia. In questo senso, essere « davvero batesoniani » comportal'attribuzione delle ipotesi non al terapeuta né ai clienti, ma a entrambi.Bateson (1979) si chiedeva: quando un uomo taglia un albero, dov'è la mente?E ne concludeva che la mente è il circuito che connette l'uomo, l'ascia e <l'albero. Mente e sistema, in altri termini, sono sinonimi. Analogamente, idov'è l'ipotesi? nella mente del terapeuta o altrove? Negli anni settanta Tipo- <tesi era collocata nella mente del terapeuta, mentre oggi la collochiamo;senz'altro nel contesto dell'interazione.

Le domande circolari - da non confondere con il concetto di circolarità

3 In questa breve descrizione del periodo di Palo Alto abbiamo usato termini quali «rifor-mulazione paradossale», «comportamenti disfunzionali», «interventi efficaci», «ipotesi adhoc », « doppio legame » e così via, appartenenti a quel periodo, e da noi non più usati in seguito.

appena esposto - furono così definite in quanto il terapeuta faceva domande aturno ai vari membri della famiglia sui comportamenti di due o più altri fami-liari. Queste domande erano state create per ottenere informazioni piuttostoche dati: Bateson, infatti, sosteneva che un'informazione è «una differenza chefa una differenza», cioè una relazione, e in questo si distingue da un dato.

Le domande circolari hanno anche l'importante effetto di porre ognifamiliare nella condizione di osservatore dei pensieri, delle emozioni e deicomportamenti degli altri, creando così nella terapia una comunità di osser-vatori. Per mezzo di esse si sfida l'egocentrismo di ciascuno di noi: ognimembro della famiglia è detto invece di dire, ascolta l'opinione dell'altro sudi sé e così ha più possibilità di conoscerlo.

Per approfondire ulteriormente il processo, possiamo dire che l'informa-zione ottenuta con le domande circolari è ricorsiva. Tanto la famiglia quantoil terapeuta, attraverso le domande, cambiano costantemente la propria com-prensione sulla base dell'informazione offerta dall'altro. Le domande circo-lari portano notizie di differenze, nuove connessioni tra idee, significati ecomportamenti. Questi nuovi collegamenti possono cambiare l'epistemolo-gia, ovvero le premesse personali, gli assunti inconsci (Bateson, 1972) dei varimembri della famiglia. Le domande circolari sono così diventate esse stesseun intervento, forse il più importante per il terapeuta sistemico.

Proposte inizialmente nell'articolo Ipotizzazione, circolarità, neutralità, ledomande circolari sono state in seguito oggetto di studio e più accurata clas-sificazione da parte di diversi autori, tra cui Hoffman (1981), Penn (1982,1985), Tomm (1984,1985,19873, b, 1988), Deissler (1986), Fleuridas, Nelsone Rosenthal (1986), Borwick (1990). Accenneremo brevemente a due di taliclassificazioni.

Karl Tomm, uno dei primi studiosi delle domande circolari, le ha distintein diverse categorie a seconda dei loro obiettivi e delle loro caratteristiche.Ci limiteremo 3lla prima distinzione di Tomm, che, prendendo in consi-derazione,l'intenzionalità del terapeuta nel porre le domande, le ha divisein domande circolari informative e domande circolari riflessive. Le primehanno soprattutto l'obiettivo di raccogliere informazioni, le seconde di susci-tare cambiamenti (i due obiettivi non sono mutualmente esclusivi, e ledomande hanno spesso un carattere misto). La distinzione tra domandeinformative e domande riflessive sta non tanto nella formulazione quantonella posizione delle domande nel tìming del dialogo: una stessa domanda,a seconda del momento in cui è offerta, potrà così assumere un carattereinformativo o riflessivo (Tomm, 1985, ip88).4

4 Nel suo esame delle domande a disposizione dell'intervistatore, Tomm ha considerato anchele domande basate, a differenza di quelle circolari, su un'epistemologia lineare, dando il nomedi domande lineari a quelle che mirano a raccogliere informazioni, e di domande strategice a quelleche mirano, in maniera lineare, a provocare cambiamenti.

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Tanto le domande informative quanto quelle riflessive hanno un'analogafunzione: investigare ed evidenziare delle differenze, quindi delle relazioni.Le differenze considerate da Tomm possono essere categoriali («il contra-sto dialettico tra un percetto o concetto in relazione a un altro percetto oconcetto», Tomm, 1985, p. 39) oppure temporali.

Le domande su differenze temporali sono in qualche modo più complesse. Si fecalizzano su unadifferenza tra differenze categoriali in due punti nel tempo, in altre parole, su un cambiamento(...) Se viene riportato un cambiamento, il terapeuta può far domande sugli eventi che possonoavervi dato inizio, tenendo in mente che i ricordi del passato stanno nel presente (p. 41).

Enfasi sulle differenze temporali è stata posta anche da Klaus Deissler(1986), che ha definito il suo modello sistemico PST (basato sulle tre coor-dinate Persona, Spazio, Tempo). In questo modello le domande «esplica-tive», centrate sul passato, hanno un effetto di autoconferma delle premessedei clienti, quelle di «mantenimento», centrate sul presente, possono avereeffetto di conferma ma anche di creazione di novità; ma sono le domandedi « soluzione », centrate sulle prospettive future, ad avere il maggior effettodi novità.

La neutralità è il principio più difficilmente compreso al di fuori di unavisione diacronica. Per definizione, come «è impossibile non comunicare»,così è impossibile essere neutrali nel momento dell'azione. Per esempio,quando il terapeuta chiede al membro di una famiglia di descrivere le emo-zioni e i comportamenti di altri familiari, lo pone in una posizione attiva,spesso di vantaggio nei confronti degli altri. La neutralità, come definitaoriginariamente dal gruppo di Milano, è un processo che si svolge nel tempo.Il terapeuta non crea alleanze o coalizioni né con i vari membri della fami-glia né con le loro idee. Naturalmente, ciò deve essere considerato nella suadimensione diacronica. Per esempio, nel corso di una seduta il terapeuta,per non perdere la propria spontaneità e per evitare la paralisi, può sbilan-ciarsi, ma in seguito - eventualmente con l'aiuto dei colleghi dietro lo spec-chio, o, se lavora da solo, attraverso la riflessione nell'intervallo tra unaseduta e l'altra - può riconquistare la neutralità. Che è una posizione rela-zionale facilitata da una visione circolare della realtà; è una posizione dicuriosità (Cecchin, 1987), che favorisce l'emergere d'una pluralità di idee epunti di vista.

Con lo sviluppo delle teorie sistemiche è stato necessario rivedere la!nozione stessa di neutralità. Tale concetto, com'era stato concepito neglianni settanta in un contesto di cibernetica di primo ordine, presupponevala separatezza tra osservatori e osservati. Sarebbe perciò possibile al tera-peuta porsi in posizione «meta» rispetto ai clienti. In seguito, l'adozionedella cibernetica di secondo ordine ha cambiato le carte in tavola. E impos-sibile la separazione, il sistema deve includere osservatore e osservato, per

cui il terapeuta non può essere davvero «neutrale»: perché, essendo egliparte in causa, non può essere neutrale rispetto a sé stesso, ai propri pre-giudizi, alle proprie idee. Lo stesso vale per l'equipe, che ha un punto divista più astratto - anche perché molteplice - rispetto a quello del terapeutain seduta, ma a sua volta non può non essere influenzata dalle proprie pre-messe.

Molte idee sono state proposte per integrare o correggere il concetto dineutralità, tra le quali quella di «curiosità» (Cecchin, 1987) o «multipar-zialità» (Hoffman, 1988); noi, oggi, preferiamo pensare a una tendenza allaneutralità, una tendenza che deve essere una sorta di asintoto ideale per ilterapeuta o per l'equipe terapeutica, ma che è, per definizione, irraggiun-gibile.

Nel 1979, il gruppo di Milano si divise. Selvini Palazzoli e Prata abban-donarono il Centro per continuare la loro ricerca sulla famiglia. Tale ricerca,fondata su una cibernetica di primo ordine, era diretta a «scoprire» possi-bili specifiche organizzazioni familiari («giochi»), relative a specifiche sin-dromi, quali anoressia e psicosi. Nel 1983, poi, Mara Selvini Palazzoli,Stefano Cirillo, Matteo Selvini e Anna Maria Sorrentino formaronoun'equipe per portare avanti la ricerca sulle tipologie familiari, i cui risul-tati sono stati pubblicati nel volume I giochi psicotici nella famiglia (1988).

Boscolo e Cecchin proseguirono nella propria ricerca, che seguì undiverso percorso, influenzato notevolmente da un cambiamento di conte-sto. Nel 1977, infatti, i due terapeuti avevano iniziato un corso di forma-zione alla terapia familiare sistemica, basato su gruppi di dieci-quindicioperatori provenienti dai più svariati contesti (in prevalenza dai servizipubblici). Le famiglie erano ora viste da uno o due terapeuti, spesso allieviin formazione, mentre dietro lo specchio li osservavano gli altri allieviinsieme a due didatti. Si era così passati dalla ricerca sulla terapia allaricerca su formazione e terapia. I ruoli si fecero più complessi: ad esem-pio, un didatta si poteva trovare in un determinato momento nel ruolo diterapeuta, docente, supervisore.

All'inizio degli anni ottanta, poi, Boscolo e Cecchin iniziarono a viag-giare per il mondo, esponendo e applicando il loro metodo in consulenze,workshop, seminari e convegni. I viaggi li portarono a contatto con colle-ghi e organizzazioni diverse, dal piccolo centro di igiene mentale a clini-che, ospedali, università o altre istituzioni. Diverse équipe, in Europa e inAmerica, iniziarono a sperimentare quello che stava diventando noto comeil «metodo di Milano».

Particolare importanza ebbero gli incontri personali, anche prolungati,con Humberto Maturana, Heinz von Foerster e più tardi Ernst vonGlasersfeld. Maturana portò in posizione centrale l'osservatore: «Tutto ciòche è detto è detto da un osservatore» (Maturana e Varela, 1980). Oltre a

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ciò, primario nel suo pensiero era il concetto di autonomia organizzativadei sistemi viventi, che lo conduceva a teorizzare l'impossibilità delle «inte-razioni istruttive », ovvero di interazioni che potessero ottenere direttamenteun cambiamento nel sistema vivente: il sistema risponde secondo la propriaorganizzazione e in conseguenza della propria storia. Secondo Maturana eVarela la realtà emerge nel linguaggio attraverso il consenso: in quest'ottica,ci sono tante realtà quante conversazioni. Von Foerster introdusse il con-cetto di cibernetica di secondo ordine, o cibernetica del sistema osservante:l'osservatore entra nella descrizione di ciò che è osservato; in tal modo,osservatore e osservato non possono essere separati. Von Glasersfeld, infine,aprì la via ai concetti del costruttivismo radicale.

L'effetto combinato di queste attività e di questi incontri portò come con-seguenza ad aprire i confini della famiglia, per abbracciare una gamma piùvasta di sistemi umani in interazione. L'attenzione si spostò dal sistemaosservato al sistema osservante. Entrambi erano concepiti ora come « menti »dotate dello stesso grado di organizzazione: i clienti osservano i terapeutiquanto i terapeuti i clienti. Di conseguenza, coerentemente con le prospet-tive costruttiviste e di cibernetica di secondo ordine, l'enfasi nelle terapiepassò dal comportamento osservato al comportamento, alle idee, alle teo-rie, alle premesse personali dei componenti il sistema osservante. La fami-glia non era più vista come una «macchina omeostatica» che il terapeutadoveva prima conoscere e poi riparare. Si iniziò a prestare maggiore inte-resse a ciò che avveniva in seduta: allo scambio d'informazioni, emozioni esignificati fra terapeuti e clienti, cioè al processo terapeutico piuttosto cheall'intervento finale. Questo, nel periodo precedente, rappresentava il dondell'incontro tra équipe e famiglia, ed esclusivamente a esso era attribuitala possibilità o meno d'innescare un cambiamento. Se ciò non si verificava,significava per l'equipe che l'ipotesi sistemica sulla quale s'era costruitol'intervento finale non era ad hoc, cioè non corrispondeva all'organizzazionedel sistema osservato.

Rivalutato alla luce di queste nuove acquisizioni, il modo di lavoraredel gruppo subì un'ulteriore evoluzione (Boscolo, Cecchin e altri, 1987).Terapeuta ed équipe cessarono di considerare soltanto il sistema costituitodalla famiglia che si presentava alle sedute, e presero a formulare ipotesi sul«sistema significativo» connesso con il problema presentato. Per sistemasignificativo s'intende il sistema di relazioni fra le persone coinvolte nel prò- iblema presentato. Esso include per definizione il paziente designato, e puòcomprendere i membri della famiglia nucleare, la famiglia estesa (compresi idefunti più importanti), i coetanei del paziente, la scuola, il lavoro e, soprat- • >tutto, gli operatori, gli esperti e i servizi sociali e sanitari che nel tempo pos-sono essere entrati in contatto con il paziente. Il sistema significativo includenaturalmente anche il terapeuta, nella sua qualità di osservatore, con le pro-

prie teorie e pregiudizi. I terapeuti cercavano ora di capire i modi in cui i pat-tern di idee e significati, emersi nel tempo dalla complessa rete del sistemasignificativo, contribuiscono alla creazione consensuale dell'immagine clinicaosservata.5

Questo passo, dalla famiglia al sistema allargato, si rese necessario edemerse dall'interazione, nei primi gruppi di formazione, tra i docenti e gliallievi. Questi ultimi, infatti, operavano in maggioranza nei servizi pubblici,e ciò comportava che l'ipotesi del terapeuta dovesse come minimo inclu-dere il paziente, la famiglia, il committente, l'inviante e l'organizzazionecomplessiva del servizio, con le sue regole e con operatori di diversa pro-fessionalità e con variegate impostazioni tecniche.

I concetti di Maturana, Varela, von Foerster e von Glasersfeld condus-sero a prendere in considerazione, ogni volta che si valutava un sistema, leposizioni di ciascun osservatore facente parte del sistema significativo. Siconosce tanto più un sistema quanto più si prendono in considerazione idiversi punti di osservazione. Se il terapeuta, invece di crearsi un'ipotesi sullabase dei propri pregiudizi e del suo unico punto d'osservazione, cerca diimmaginare e correlare le possibili ipotesi o punti di vista degli altri mem-bri del sistema significativo di cui fa parte, può, in tal modo, costruire un'ipo-tesi più complessa, pluricentrica e in un certo senso collettiva. L'ipotesi per-sonale, che rischia di essere unidimensionale, piatta come un'immaginemonoculare, viene sostituita da un'ipotesi complessa, pluridimensionale,dotata di profondità, offrendo così un'immagine stereoscopica del sistema.

L'effetto finale del confronto fra docenti e allievi è stato così di intro-durre una dimensione macrosistemica nel lavoro. Si è in tal modo arrivatia una complessificazione:1) considerare non soltanto situazioni in contesti psicoterapeutici, ma anchein altri contesti: assistenza, riabilitazione, organizzazione istituzionale;2) quindi, considerare non soltanto interventi verbali, come nel caso dellapsicoterapia, ma anche interventi basati sull'azione.

Man mano che si andava avanti, ci si rendeva conto che l'insegnamentodato agli allievi consisteva non in una tecnica, ma in un modo nuovo di vederee di agire. Questo nuovo modo di vedere è riferibile all'« epistemologia ciber-netica» di Bateson. Per cui ciascun allievo doveva imparare ad agire attra-verso un'analisi sistemica del proprio contesto di lavoro, che poteva sugge-rirgli le tecniche appropriate. Per questo gli allievi che iniziano un corso sonomessi in guardia dal riprodurre pedissequamente le tecniche che vedono usareal Centro nel proprio ambiente. Il lavoro con la famiglia può così diventareun laboratorio, dove si apprende a pensare e agire in modo sistemico.

5 Un modo di vedere la terapia che ha qualche somiglianzà con questo, pur non facendoriferimento alla cibernetica, è descritto da Andenon, Gooliihian e Winderman nell'articoloProblcm Dtttrmined Systems (1986).

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Tempo e modello sistemico di Milano

L'atteggiamento dei terapeuti del gruppo di Milano rispetto al tempo haseguito una sua linea evolutiva, una sua «storia naturale», se si preferisce.Quando, all'inizio degli anni settanta, il primo gruppo di Milano abban-donò il modello psicoanalitico e adottò quello del Mental Research Insàturedi Palo Alto, si concentrò esclusivamente sul presente, a differenza di quantoavveniva allora nel modello psicoanalitico, il cui interesse principale era ilpassato. Un famoso esempio di Watzlawick, Beavin e Jackson (1967) para-gona la situazione presente a una posizione di una partita di scacchi: il gio-catore navigato, osservando una certa posizione di una certa partita, è ingrado di ricostruire plausibilmente la sequenza di mosse che ha condotto aquella posizione; pertanto la conoscenza del presente è l'unica necessaria,specie da un punto di vista operativo.

Coerentemente con queste premesse, nel primo periodo del gruppo diMilano, dal 1971 al 1975, tutto l'interesse era concentrato sul presente, men-tre il passato era preso in considerazione soltanto dal momento della com-parsa del sintomo in poi. L'indagine ruotava intorno alle relazioni che,nell'attualità, si creavano intorno al sintomo.

Quando, dopo il 1975, furono introdotte le domande circolari e il pro-cesso d'ipotizzazione, la conduzione della seduta si fece più complessa. Fareun'ipotesi implicava chiedersi come il sistema si era organizzato: esserecuriosi di scoprire in che modo il sistema avesse trovato fra le tante possi-bili proprio quell'organizzazione che si osservava nel «qui e ora» in seduta.I terapeuti presero a interessarsi dei modi in cui il sintomo si era costituito.Ci si chiedeva di dove venissero le modalità di relazione osservate, e si cer- jcava di rintracciarne la logica nel susseguirsi delle interazioni passate, awa-,,;lendosi anche di una prospettiva transgenerazionale. Si esplorava così la con-1tinuità tra passato e presente.6 :]

Concentrarsi troppo sul passato, però, implicava il rischio di costruirsi;spiegazioni lineari-causali del sintomo. Procedere attraverso un'indagine sulpassato può costringere il sistema osservato nell'imbuto della necessità: sol-tanto questa realtà esiste, quindi era l'unica possibile, quindi esiste una,sequenza di eventi necessari che ha dovuto arrivare al punto che vedo ora.{Aderire strettamente a una tale idea vuoi dire anche sostituire la visionesistemica (il presente crea il suo passato) con una visione deterministica (èil passato a determinare il presente). !

Il gruppo si rese conto che a volte accadeva di arrestarsi all'ipotesi for- !

6 Senza però mai arrivare a costruire genogrammi o addentrarsi troppo nei trascorsi delle fgenerazioni. In questo senso, l'impostazione era diversa da quella transgenerazionale di Murray ;Bowen (1978).

-, mutata sul «gioco familiare» nella prima seduta. Si creava così una situa-zione congelata come in un fotogramma: come se i terapeuti fermassero lafamiglia nel tempo, considerando gli eventuali cambiamenti come qualcosadi aggiunto al quadro iniziale. Si era ancorati a una prospettiva sincronica,che nettamente prevaleva sulla prospettiva diacronica. Ci volle del tempoper accorgersi e convincersi che la famiglia era quella che si vedeva nelmomento in cui la si vedeva e non quella del passato, della prima seduta.7Se avveniva un cambiamento, doveva essere incluso in una nuova ipotesi, ela famiglia doveva essere vista come una nuova famiglia, così come il sistematerapeutico doveva essere visto come un sistema nuovo.

Si abbandonò, inoltre, la tendenza a vedere la terapia come una «storia»coerente ordinata in sequenze, in una serie di passaggi obbligati. Dalmomento che l'intervento della prima seduta crea un sistema nuovo, diversoda quello che esisteva in precedenza, ogni seduta è «la prima». Non esistonoprecetti tecnici che vincolino una seduta ad avere uno specifico rapportocon quelle che precedono e quelle che seguiranno. Soltanto gli eventi cheemergono nel presente della seduta determinano il suo corso. Il ricordo dellesedute precedenti agisce soltanto come un'ampia cornice (loose frante) che fada sfondo, e da un senso, alla conversazione in atto.

Tuttavia, la storia raccontata nelle sedute non ha alcuno svolgimentolineare, non è una narrazione tradizionale. Ogni seduta racconta una storiadiversa.8 Nello stesso tempo il sistema terapeutico che vive quella storia,come è stato detto, è definito anche dai suoi stati precedenti, quindi dallealtre sedute. Il sistema ha in sé gran parte delle informazioni per cambiare,e non è predicibile quando, quanto e come cambierà.9

Il terapeuta si trova così in una posizione stranamente simile a quelladell'indigeno delle Trobriand menzionato da Ornstein (1975, p. 107), conla sua cultura non lineare e centrata sul presente:

In genere quando noi osserviamo il processo di maturazione di una pianta (per esempio unoy»m), vediamo una sequenza. Esperiamo lo stesso yam che passa dall'essere maturo al troppomiruro nel tempo sequenziale. Il monaco Zen non condivide la nostra visione, come pure il tro-briandese. Lo yam maturo (che nella lingua delle Trobriand è detto taytu) rimane uno yammaturo. Quando appare uno yam troppo maturo, è un'entità differente, senza alcuna connes-llone causale o sequenziale con lo yam maturo. È un'entità interamente altra, e riceve anche unlitro nome, ymvana.

Così il cliente (individuo, coppia o famiglia) visto dai terapeuti in ogni

Si può dire che in questo contesto « sincronia » e « diacronia » fanno pensare all'Essere diPirmenide e al Divenire di Eraclito.

1 Questo è il motivo per cui il neofita è spesso disorientato nel vedere una serie di sedutecondotte da terapeuti di Milano: chi non conosca bene il metodo, non ne comprende la logica.

8 Quando ci mettiamo in una prospettiva «a posteriori», e descriviamo o scriviamo di unCito clinico, eli diamo una coerenza narrativa che può far pensare a una concatenazione deter-mlnlitica degli eventi.

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seduta è un'entità inedita. Il terapeuta favorisce un allentamento delle rela-zioni di causalità sequenziale, della concezione deterministica che inchiodail cliente in quella specifica visione della realtà che è la fonte delle sue ango-sce. Il sistema, perciò, è visto come un'entità sempre pronta a evolvere inentità diverse, pronta cioè a costruirsi un futuro.

Se, come sosteniamo, il cambiamento è impredicibile, tuttavia c'è unarelazione fra la teoria del cambiamento adottata dal terapeuta e il cambia-mento stesso. Sorvoliamo, in questo momento, sulla relazione tra i signifi-cati attribuiti al cambiamento da parte di terapeuti di diverso orientamento,che variano notevolmente. Ci occuperemo invece della relazione fra tempoe cambiamento nella teoria del terapeuta. Cominceremo con un esempio,tratto dall'esperienza psicoanalitica di uno degli autori.

Nel programma di training psicoanalitico che seguivo, l'allievo doveva analizzare tre casi clinicisotto la supervisione di un didatta. Era il mio secondo caso: un uomo di trent'anni, con cuiavevo iniziato un'analisi a tre sedute per settimana. Il caso volle - era d'estate - che il mio super-visore si fosse preso una vacanza di due mesi, per cui prima che potessi riferirgli sull'andamentodell'analisi erano passati tre mesi. Ora, dopo quei tre mesi il mio paziente non presentava più isintomi iniziali, si sentiva anzi bene, e aveva iniziato a lanciare messaggi di guarigione e di pos-sibile conclusione della sua analisi.Alla fine della presentazione del caso, il supervisore non mi esternò l'entusiasmo che mi aspet-tavo. Mi chiese come io valutavo la situazione. Timidamente risposi che ero d'accordo con ilpaziente. Non mi aspettavo la doccia fredda: i presunti miglioramenti del paziente erano fruttodi una «seduzione» dell'analista e di una classica «fuga nella guarigione», quindi di una resi-stenza. Ciò mi raggelò, ma dovetti modificare la mia convinzione che l'analisi fosse al termine:ero pur sempre un allievo, e dovevo ubbidire. Lessi la stessa espressione di disappunto sul voltodel mio cliente quando gli interpretai, ovviamente con linguaggio non tecnico, il miglioramento icome «fuga nella guarigione». Ero curioso di vedere se il paziente avrebbe accettato la mia ,idea, come io avevo accettato quella del mio supervisore. Così fu, e l'analisi continuò a lungo.Si può dire che il cliente aveva obbedito a me, che avevo obbedito al supervisore. Ma il super- ivisore, a chi aveva obbedito? Ai suoi maestri e ai testi di tecnica psicoanalitica, che prescrivono :un tempo appropriato per il completamento di un'analisi.

Questo caso ha acquisito un'importanza particolare nel suscitare un inte- iresse verso il tempo, si può dire che abbia favorito lo sviluppo di un insight^<di una presa di coscienza sulla relazione fra tempo e teoria, fra tempo e cam-biamento. La durata prevista di una terapia da parte di un terapeuta è chia-ramente in relazione al tempo previsto dalla sua teoria. Ad esempio, il tempo ,di un'analisi freudiana di quell'epoca andava da tre a cinque anni, al ritmo •di tre o quattro sedute alla settimana; un'analisi kleiniana poteva essereancora più lunga, e arrivare anche a otto anni. Una simile relazione - comeillustrato dall'esempio - prescriveva i tempi in cui sarebbero potuti appa-rire cambiamenti di rilievo, fino alla « guarigione » (per quanto quest'ultimotermine non faccia parte del vocabolario psicoanalitico).

Quando il gruppo di Milano iniziò a trattare famiglie e coppie, nel 1967,seguiva il metodo psicoanalitico, con frequenza di una o due sedute alla set-

, rimana, per periodi molto lunghi, anche di anni. Ovviamente, frequenzadelle sedute e durata delle terapie erano coerenti con la teoria psicoanali-tica. Se dovessimo leggere una tale prassi in chiave costruttivista, potremmodire che, fin dal principio della terapia, i terapeuti co-creavano con i clientiuna realtà in cui i cambiamenti significativi erano da attendersi non primadi uno o due anni.

La già citata adozione del metodo strategico di terapia breve del MentalResearch Institute di Palo Alto, nel 1971, condusse a prospettare terapie chedovevano durare non più di dieci sedute, con frequenza settimanale. Lanuova prassi introduceva, nello stesso tempo, l'idea dell'inizio e della fine.Gran parte delle famiglie esibivano cambiamenti significativi entro il periodoprescritto. Quel che più conta, cambiamenti repentini e rilevanti arrivavanofacilmente entro l'ottava o la nona seduta. In altri termini, le aspettative dicambiamento entro la decima seduta portavano all'effetto pragmatico dellacomparsa dei cambiamenti medesimi.

Per qualche tempo, vive discussioni si svilupparono all'interno del grupposulla validità dei cambiamenti ottenuti con il modello psicoanalitico rispettoa quelli frutto del modello strategico. In seguito si stabilì che era un falsoproblema. Ciò che rimase fu l'importanza della relazione fra tempo, teoriae cambiamento, e s'impose l'opportunità d'una certa flessibilità del terapeutanei riguardi della relazione tempo-cambiamento: il terapeuta dovrebbe coor-dinarsi con i tempi dei clienti, che naturalmente sono diversi nelle diversecircostanze. Un analista che si aspetta « comportamenti normali » non primadi tre anni di analisi o un terapeuta breve che se li attende non oltre ladecima seduta sono entrambi rigidi nell'imporre ai clienti un proprio schemadi cambiamento. È un atteggiamento analogo a quello dei genitori che hannoun'aspettativa temporale rigida riguardo al passaggio dei figli dall'adole-scenza all'età adulta.

Un punto interessante, riguardo alla durata delle terapie, fu che, perragioni di distanza geografica, si rese necessario diradare le sedute di un pic-colo numero di famiglie che provenivano da molto lontano: la frequenzapassò a una seduta al mese. « Stranamente », quelle famiglie non solo otte-nevano risultati migliori delle altre, ma davano anche l'impressione che lacadenza mensile si adattasse meglio alle loro esigenze, anche se si trattavadi famiglie con problemi gravi. Si decise perciò di generalizzare l'intervallomensile a tutte le altre famiglie, con risultati più che soddisfacenti. Da allora,'l'intervallo mensile rimase una delle caratteristiche più note del modello diMilano, che portò a definire la terapia non più come «terapia breve», macome «terapia breve-lunga»: breve per il numero di sedute, ma lunga perdurata complessiva.

Nella grande maggioranza dei casi osservati, le terapie terminarono consuccesso entro la decima seduta. Ma in alcuni casi, particolarmente in fami-

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glie con pazienti psicotici cronici, alla fine della decima seduta non s'eranomanifestati cambiamenti sufficienti a concludere la terapia, per cui si offrivaun nuovo ciclo di dieci sedute; alcune di queste famiglie, poi, si perdevano Iper strada senza terminare il secondo ciclo. Questi insuccessi con casi trat- *tati per lunghissimi periodi, anche di due o tre anni, contrastavano strana-mente con inaspettati, clamorosi successi con famiglie che interrompevanoil trattamento di propria iniziativa, spesso alle primissime sedute, senza nep-pure avvertire i terapeuti. Infatti, alcuni rilievi catamnestici sui casi di drop-out, cioè di abbandono spontaneo della terapia entro le prime tre sedute daparte dei clienti, rivelarono sorprendentemente che in alcuni di questi casi,dopo l'uscita dalla terapia, si era verificata un'evoluzione positiva moltosignificativa. Un fenomeno curioso, per certi versi sconcertante, anche peril fatto che in alcuni di questi casi erano presenti problematiche piuttostoserie. Era difficile spiegare come si fossero manifestati cambiamenti di cosìlarga portata in così breve tempo in famiglie non cooperanti.

Una delle ipotesi più plausibili per spiegare tali « fughe terapeutiche » erache la famiglia fuggiva dalla terapia perché si era innescato un cambiamentotale da minacciarne la coesione interna, con pericolo di dissolvimento. Nellinguaggio di allora, si diceva che la famiglia, come sistema vivente, avevadue tendenze: una verso l'omeostasi, l'altra verso l'evoluzione. Queste fami-glie rallentavano l'evoluzione bruscamente innescata con l'abbandono dellaterapia.

Questi inattesi risultati catamnestici portarono una ventata di entusiasmonella ricerca, e per un breve tempo il gruppo entrò in una sorta di ego-trip,Si credette che, quando le terapie proseguivano oltre la quarta o la quintaseduta, ciò significava che i terapeuti non riuscivano a identificare o a inci-dere sui «punti nodali» del sistema, sui quali si supponeva convergesserotutte le funzioni del sistema. Un'azione sui «punti nodali» poteva produrreil massimo cambiamento con il minimo sforzo (Selvini Palazzoli, Boscolo ealtri, 1975). S'incaricarono le famiglie, specie quelle con un membro psi- ,corico, di far tornare il gruppo sulla terra e di guarirlo dall'onnipotenza tera-peutica.

Questa serie d'esperienze, tuttavia, ebbe un grande effetto: far pensare ilcambiamento come un evento non soltanto continuo, ma anche e soprat-tutto discontinuo. Simili concetti trovarono in seguito la loro cornice teo-rica nelle teorie dei sistemi dissipativi di Prigogine (Prigogine e Stengers,1979) e nella teoria delle catastrofi di Thom (1972).

Possiamo aggiungere anche una semplice considerazione: tutti i sistemiviventi hanno in sé le proprie possibilità evolutive e autorganizzative. È suf-ficiente creare un contesto appropriato perché possano evolvere sponta-neamente. La metafora del fiume bloccato può rappresentare con sempli-cità lo stesso concetto. È sufficiente eliminare l'ostacolo, e il fiume ha in sé

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t le potenzialità per arrivare al mare da solo, senza attendere che l'alveo siapazientemente ricostruito.

Cambiamento continuo e discontinuo

Le diverse teorie psicoterapeutiche implicano diversi rapporti fra tempoe cambiamento. Tutte le terapie centrate sulla modificazione del sintomoimplicano un'idea di cambiamento discontinuo. Ad esempio, nella terapiadel comportamento applicata a un caso di fobia il terapeuta ha bisogno diun certo periodo di tempo per operare la desensibilizzazione dell'ansia legataal sintomo fobico, scomparso il quale la terapia è considerata conclusa. Lostesso vale per le terapie comportamentali basate sul condizionamento ope-rante, cioè sul favorire la comparsa di comportamenti più graditi.Analogamente, nelle terapie strategiche (Haley, 1963; Watzlawick, Beavine Jackson, 1967), l'obiettivo è la scomparsa del sintomo. Non a caso, tuttequeste terapie rientrano nella categoria delle terapie brevi, che presuppon-gono un periodo di tempo ben definito per il cambiamento.

Nelle terapie psicoanalitiche il sintomo è considerato un epifenomeno,espressione di conflitti intrapsichici profondi. La semplice scomparsa delsintomo non è indice di guarigione, in quanto il sintomo può benissimoessere sostituito da altri, finché i conflitti restano irrisolti. La psicoanalisi,nonostante le molte modifiche teoriche e tecniche cui è andata incontronegli anni, con recenti evoluzioni che si sono avvicinate all'ermeneutica eal decostruzionismo (Jervis, 1989), sottende un processo di crescita del clienteall'interno della relazione con l'analista. Un tale processo richiede ovvia-mente un'opera lunga e laboriosa.

Per questo motivo, il tempo della psicoanalisi è un tempo continuo.Terapeuta e paziente, interagendo per due, tre o quattro volte alla setti-mana, finiscono per modulare uno sull'altro i loro tempi e ritmi. E espe-rienza comune che il tempo dell'analizzando sia scandito dal ritmo dellesedute. Così terapeuta e paziente coevolvono in continuità, insensibilmente.11 cambiamento, oltre che lento, è graduale e progressivo. A volte può veri-ficarsi un cambiamento di grande portata, che eventualmente viene analiz-zato, interpretato e stabilizzato in una successiva serie di sedute.

Nella terapia sistemica l'idea centrale è che i sintomi emergono quandoi rapporti di una persona con sé stessa o con i suoi simili (i familiari hannoun'importanza particolare) perdono significato, o acquistano significatioscuri o ambigui. In questi casi i sintomi assumono il senso di dilemmi rela-zionali, in cui una persona si chiede: «Qual è la mia posizione nella miafamiglia? che cosa vuole da me? mia madre preferisce me o mio fratello?qual è la mia posizione nel mondo?» e così via. Tali dilemmi relazionaliinsorgono, naturalmente, anche in altri contesti, quali la scuola, il lavoro, il

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gruppo dei coetanei. Un sintomo può insorgere se nel gruppo di apparte-nenza si creano dei segreti, delle coalizioni negate, da cui uno dei membriè escluso. La persistenza del sintomo, espressione dei dilemmi relazionali,mantiene i membri del sistema in oscillazione tra alternative. In particolare,per il soggetto sintomatico è come se il tempo si fermasse: c'è una nettaperdita di evolutività.10 L'azione terapeutica è mirata a dissolvere le ambi-guità e i dilemmi relazionali; se questo avviene, il sistema può liberarsidell'oscillazione e ricercare le proprie soluzioni. La terapia opera quindi perdiscontinuità.

Già in Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli, Boscolo e altri, 1975)il gruppo di Milano aveva proposto una concezione discontinua del cam-biamento: un cambiamento per salti, in opposizione al cambiamento gra- iduale accettato in precedenza. Noi riteniamo che la nostra terapia tenda, jfin dalla prima seduta, a innescare possibilità di cambiamento non legate ad ialcun programma né a passi prestabiliti (ogni seduta è la prima). Ciò signi-1fica accettare il rischio che il «salto» produca cambiamenti imprevisti o|indesiderati dai terapeuti stessi. In un certo senso, significa rinunciare a ogniipretesa di onnipotenza terapeutica, e restituire alla vita tutte le sue poten-izialità evolutive.

Questo non significa che noi non abbiamo una nostra ideologia. D'altparte, non sarebbe possibile non averne una. Cerchiamo continuamente iesserne coscienti e di non usarla per condizionare l'altro. Noi vediamoterapeuta come un facilitatore, un catalizzatore capace di innescare nel clientun cambiamento. Ciò significa evitare, per quanto possibile, di offrire sohizioni ai clienti, e costruire insieme a loro un contesto in cui possanovare le proprie soluzioni. Vedremo più avanti come il processo sia leggibiliin termini di mondi possibili.

Possiamo rileggere in questa chiave l'articolo Perché un lungo intetra le sedute? (Selvini Palazzoli, 1980), che proponeva alcune ipotesi per spiegare il motivo per cui nella terapia familiare le sedute distanziate, una voltal mese, dessero risultati migliori di quelle settimanali. L'idea di base è ehqualora in una seduta si inneschino cambiamenti dovuti alla perturbazicportata dal terapeuta, è necessario un periodo di tempo perché il sistefamiliare ritrovi un nuovo equilibrio. Se la seduta seguente avesse lueprima che tale equilibrio fosse raggiunto, il processo terapeutico potrebllsubire delle complicazioni ed esserne rallentato, con possibile invismento del terapeuta.

Qualcuno ha definito questo processo terapeutico come «mordi e fug(hitandrurì), processo che viene di solito concluso dal terapeuta o dall'équif

10 Freud, nella sua teoria delle nevrosi, ha posto la «coazione a ripetere» al centro iproduzione e del mantenimento dei sintomi, con conseguente «perdita di libertà» del igetto.

terapeutica con la comunicazione di «termine di terapia», qualora si veri-fichi un cambiamento molto significativo, che fa bene sperare possa conti-nuare spontaneamente in futuro, in assenza del terapeuta. Alla famiglia chesi è così mobilizzata è lasciato il compito, ma anche la libertà, di governareil proprio cambiamento. In questo senso la terapia sistemica enfatizza ilfuturo, il tempo della possibilità.

Simili idee sono assai sintone con l'altro nostro principio appena enun-ciato, che il sistema - individuo o famiglia - abbia al suo interno le infor-mazioni e le potenzialità per le proprie possibili evoluzioni. Naturalmente,prendere l'assioma troppo alla lettera può condurre a conclusioni estreme:basterebbe trovare il giusto intervento, e un unico punto di discontinuitàpotrebbe risolvere qualsiasi problema in un'unica seduta: una convinzionepalesemente del tutto irrealistica. L'esperienza insegna che occorrono ripe-tuti contatti cliente-terapeuta affinchè possano emergere nuove prospettive,nuove soluzioni. Talvolta, come nei casi di psicosi cronica, non è sufficientenemmeno la terapia, ma occorrono altri interventi, ad esempio di custodiaospedaliera, di sostegno, di riabilitazione.

L'intervallo di un mese in terapia familiare - intervallo necessario, comegià affermato, perché il sistema familiare raggiunga un nuovo equilibrio -è ovviamente arbitrario. Ci siamo avventurati anche in strane ipotesi pergiustificarne la validità, quali cicli mestruali, fasi lunari, mesi del calendarioecc. Una cosa è certa: come tale intervallo sembrava essere gradito alla mag-gioranza delle famiglie, così era certamente gradito a noi, perché ci facili-tava notevolmente nell'organizzazione del nostro lavoro. Naturalmente, perogni intervallo di tempo adottato c'è sempre il rischio della rigidità. A volte,nei primi due incontri, vediamo la famiglia ogni due settimane e in seguitoa intervalli di un mese o più. Un altro fattore che incide sugli intervalli trale sedute è il contesto di lavoro, lavorare da soli o in équipe, lavorare in unservizio pubblico o privato. C'è da sottolineare che, se è vero che i cambia-menti nel.sistema terapeutico sono discontinui, è anche vero che i cambia-menti avvengono all'interno di una relazione continua."

Vogliamo ricordare, peraltro, che l'intervallo di un mese, frequente-mente usato e assai adatto alla terapia della famiglia, risulta secondo noitroppo lungo per la terapia individuale, per la quale è più indicato unintervallo settimanale o quindicinale. L'intervallo ottimale nella terapiaindividuale è più breve che nella terapia familiare, in quanto nella tera-pia individuale è necessaria una maggiore frequenza di contatti per favo-rire un clima di continuità nella relazione diadica terapeuta-cliente, men-tre nella famiglia è già presente una rete di relazioni fra i membri della

" Nei primissìmi tempi del gruppo di Milano si era anche provato a cambiare i terapeuti arotazione. Ma questo metodo fu abbandonato per gli effetti negativi, dovuti, con tutta proba-bilità, alla difficoltà di stabilire una continuità ai relazione.

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famiglia stessa, che diminuisce la necessità di un contatto più frequentelcon il terapeuta.

L'anello autoriflessivo di passato, presente e futuro

Vogliamo ora addentrarci nella relazione tra l'osservatore e le tre dimen*sioni del tempo: presente, passato e futuro. Ogni sistema ha una storia, unipassato che contribuisce a definire i significati degli eventi presenti, corneiquesti ultimi a loro volta definiscono il passato. Si crea così un anello auto-1riflessivo, in cui passato e presente si influenzano reciprocamente. L'anello!diventa più complesso se si prende in esame l'eventualità, ovvero il futuro/che riceve significato da passato e presente, e a sua volta li influenza: Ifljaspettative, i progetti, le strategie contribuiscono a dare significato alle azionipresenti, che a loro volta influenzano l'elaborazione della memoria (il «»-Jsato).

Ad esempio, un mito familiare radicato nel passato influenza le perzioni e le azioni nel presente, e pone vincoli sugli eventi futuri, che a lorvolta potranno portare a modificare il mito, fino alla sua possibile scorrparsa, e all'eventuale insorgenza di altri miti, con l'apertura di altri aneautoriflessivi. Un secondo esempio può essere tratto da un gruppo urnaben più vasto: il mito dell'American dream, che trova le sue radici nell'ep*pionieristica in cui si sono formati gli Stati Uniti. Tale mito, che ha illulminato per oltre due secoli la vita dei suoi cittadini, raggiungendo l'apicinel secondo dopoguerra, si è offuscato con la guerra del Vietnam. Ciòavuto l'effetto, nella coscienza collettiva (non solo americana), di creareclima di smarrimento, di dubbio, e un riesame delle premesse sulle quali ifondato il mito stesso.

Passato, presente e futuro sono così uniti in un unico anello ricorsivo ilcui ciascuno riceve i suoi significati dagli altri due. È da sottolineare, per*'che il presente ha una posizione particolare nell'anello autoriflessivo. Condirebbe sant'Agostino, tutti i problemi sono problemi del presente. Per il filesofò di Ippona esisteranno problemi passati nel presente e problemi futrnel presente, oltre a problemi presenti nel presente. Ma nessun proble:esiste fuori dal presente: o meglio, se è fuori dal presente, non è più un prblema, è il ricordo o la possibilità d'un problema.

Può accadere che un particolare evento - quale un tradimento, uno s§una guerra o una perdita - acquisisca un significato totalizzante, che coledi sé nello stesso modo, nonostante il passare del tempo, gli eventi delsente, e vincola rigidamente le prospettive future. In simili circostanze è ose l'anello autoriflessivo del tempo si spezzasse, e fosse sostituito da una catlineare, deterministica: l'evento, che «è passato», esercita una massicinfluenza sul presente e sul futuro, senza esserne a sua volta modificato. Eser

. di questo processo possono essere: un lutto non elaborato, il disturbo post-traumatico dei reduci di guerra che li ossessiona con ricordi o sogni carichid'ansia o di terrore, un tradimento coniugale le cui forti emozioni continuanoad aleggiare nella relazione di coppia, impregnandone tutta l'esistenza.

Nel suo articolo Da Versatile; alla cibernetica Bateson porta un esempio sto-rico molto eloquente. Verso la fine della prima guerra mondiale gli alleatiprospettarono ai tedeschi condizioni di resa favorevoli, racchiuse neiQuattordici Punti ampiamente pubblicizzati dal presidente Wilson, in cuinon ci sarebbero state né annessioni, né riparazioni di guerra, né distruzionipunitive. Nel trattato di Versailles gli alleati non mantennero le promesse,creando un clima di risentimento, sfiducia e odio, che rappresentò la base sucui s'innescò in seguito la seconda guerra mondiale. Coloro che la iniziaronoerano convinti d'essere spinti da motivi contingenti, ascrivibili al « presente »,mentre erano in realtà condizionati dagli effetti di eventi passati.

Il comun denominatore di tutti questi esempi è che le idee legate a unevento prendono una posizione dominante nella coscienza individuale o col-lettiva, a scapito di altre possibili idee sull'evento stesso, o di idee, ricordi,aspettative relative ad altri eventi. Con un altro linguaggio, si può dire che11 sistema diventa rigido. Un ecosistema è tanto più flessibile, adattabile,«normale», quanto più i circuiti ricorsivi sono aperti, e quindi l'informa-zione può circolare liberamente. Sulla base di questa formulazione, si puòritenere che la terapia sistemica, in particolare attraverso l'uso delle ipotesie delle domande circolari, crei un contesto in cui le «rigidità» presenti sidissolvono permettendo l'apertura di nuovi circuiti, quindi di nuove idee enuove prospettive.

Ciò avviene, come ha sottolineato sant'Agostino, nel presente, nel «quie ora », attraverso la presentificazione dei problemi del passato e del futuro.In psicoanalisi ciò si attua nell'analisi del transfert e del controtransfert,attraverso la quale è rivissuto il passato. In altri modelli terapeutici, qualiquello behavioristico e in una certa misura anche quelli strategico e strut-turale, attraverso prescrizioni comportamentali nel presente. In alcune cor-renti più recenti della terapia psicoanalitica o sistemica (Anderson eGoolishian, 1988), che si rifanno all'ermeneutica, l'enfasi è posta sulla con-versazione e sui significati che emergono nel « qui e ora ».

Un interessante modello terapeutico rivolto al futuro è quello di MiltonErickson, ripreso e sviluppato in seguito da de Shazer (1981). Erickson, nelluo lavoro Pseudo-Orientation in Time as a Hypnotic Procedure (1954), descrivel'ipnosi come una tecnica non soltanto di regressione nel passato, ma anchedi orientamento nel futuro, in cui si suggerisce al cliente di aver già rag-giunto quegli obiettivi che sono espressione dei suoi desideri attuali. DeShazer (1981, p. 50), senza usare l'induzione ipnotica, raggiunge obiettivianaloghi:

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II terapeuta e il cliente coscientemente e deliberatamente pianificano insieme che cosavorrà al cliente per raggiungere la soluzione desiderata. Sembra che nella situazione tera-|peutica la semplice descrizione dettagliata di un futuro nel quale il problema è già risoltiaiuti a costruire l'aspettativa che il problema sarà risolto e che questa aspettativa, una voltaiformatasi, possa aiutare il cliente a pensare e a comportarsi in modo tale da realizzare le pr<

prie aspettative.

La presentificazione del passato e del futuro nella relazione terapeutìcha lo scopo di introdurre circolarità e flessibilità nel sistema, così che scom4paiano le oscillazioni, le coazioni a ripetere, i blocchi, e il tempo possa riprendidere a fluire liberamente. Come questo possa avvenire è ben sintetizzato i" 'Telfener (1987, pp. 34 sg.):

La rinnovata attenzione al tempo permetterà infatti di scollegare il presente dal passato e d|futuro; una diversa lettura del presente permetterà di selezionare un nuovo passato e immagnare più futuri probabili. Il cambiamento è infatti la regola di trasformazione che permette andi scollegare il futuro dal passato e di rompere una sequenza spesso data per scontata da i

viene in terapia.

Mondi possibili

È frequente in letteratura l'accostamento tra sistemi «patologici»sistemi « rigidi », cioè sistemi dotati di scarsa o nulla flessibilità. Questi ultirtendono a riproporre gli stessi pattern, gli stessi comportamenti o le stspiegazioni. Essi si strutturano su premesse deterministiche. Frequentemei nostri clienti hanno una concezione lineare del tempo, una concezic«storica», secondo cui il passato determina il presente e pone potenti viicoli sul futuro. Una possibilità di innescare il cambiamento, come desopra, è creare un contesto che possa agire sulle premesse deterministicdei clienti, così da favorirne la creatività.

Una concettualizzazione che abbiamo trovato interessante per «spigare» come ciò possa avvenire è quella che si riferisce alla logica e alla etzione consensuale di una serie di mondi possibili. «Mondo possibile*un'espressione usata in logica formale per riferirsi alle diverse situazicche si possono verificare. L'espressione fu introdotta da Leibniz nel Duidi metafisica, in cui il filosofo arrivò alla sua affermazione forse più celeb«II nostro è il migliore dei mondi possibili» (Allwood, Anderson e ~

I977)-II mondo reale è semplice - direi anche troppo semplice -, è schematico, sostanzialmente ](...) L'avvento della mente umana cambia tutto. A quell'unico mondo schematico aggiunge 1pluralità fantastica di mondi diversi. Dalla povertà si passa alla ricchezza, dalle ferree catene Ilibertà. Credo che qui vada cercato il profondo valore della concezione di Leibniz, che ha n "in luce che cosa è veramente successo quando nell'universo è comparso l'uomo. In unsenso, sono nati una miriade di nuovi universi (Toraldo di Francia, 1990, p. 26).

La tendenza, nel linguaggio comune, è quella di ragionare secondo unalogica predicativa o proposizionale (Allwood, Anderson e Dahl, 1977). Unalogica di tal genere considera un solo mondo possibile alla volta, enunciandole proprie verità come assolute, come se le nostre affermazioni sul mondosi concatenassero con conclusioni incontrovertibili derivate dalle premesse.Funzione della terapia sarebbe allora quella d'indirizzare verso ima logicamodale, in cui è ammessa l'esistenza di diversi mondi possibili. NelsonGoodman (1978) riferisce che per una persona nella sua vita quotidiana èimportante pensare che la terra è piatta, altrimenti avrebbe delle difficoltà;viceversa, per un astronauta è importante pensare che la terra è rotonda,altrimenti correrebbe grossi pericoli. Entrambe le affermazioni, «la terra èpiatta» e «la terra è rotonda», sono valide, all'interno di due diversi mondipossibili, ovvero di due diversi domini descrittivi.12

Giuliano Toraldo di Francia (1990) esprime lo stesso concetto nel rile-vare che le contraddizioni fra la teoria della relatività generale, che si occupadel mondo macroscopico, e la meccanica quantlstica, valida nel mondo sub-atomico, non rendono queste teorie meno applicabili da parte dei fisici, cia-scuna nel proprio dominio descrittivo.

Possiamo così dire che la nostra conoscenza del mondo esterno non derivada un semplice rispecchiamento, ma è una costruzione dinamica dell'osser-vatore, che confronta il mondo «reale» con mondi possibili, introducendoil tempo.

Un mondo possibile non è una struttura sincronica, bensì lo sviluppo diacronico di una strut-tura: è una storia. L'universo sincronico potrà forse apparirci troppo semplice. Ma appena intro-duciamo la dimensione storica tutto si arricchisce e si complica in modo meraviglioso (Toraldodi Francia, 1990, p. 29).

La teoria dei mondi possibili è inscrivibile nella logica modale, comeosserva Jerome Bruner (1986, p. 57):

Nella nuova e più potente logica modale, di una proposizione non ci si chiede se sia vera o falsa,bensì in che tipo di mondo possibile essa sarebbe vera. Qualora, poi, fosse possibile dimostrareche essa è vera in nati i mondi possibili - nel senso in cui, per esempio, è vera in tutti i mondipossibili l'affermazione «uno scapolo è un uomo non sposato» -, allora quasi certamente si trat-ttrebbe di una verità derivante non dal mondo, bensì dalla natura del linguaggio.

Ogni discorso è leggibile - entro certi limiti - secondo logiche diverse,• ogni lettura è corretta all'interno delle premesse del mondo che viene cosìI costituirsi, nel senso dato al termine «mondo» da Goodman (1978). Il

12 Secondo Goodman i «mondi» sono prodotti dell'attività mentale, che pertanto può creareUn'infinità di «mondi possibili», ciascuno dotato d'una propria coerenza. All'interno della coe-

: rtnza con le proprie premesse, ogni mondo è reale quanto ogni altro (anche se Goodman, ben1 lontano dal relativismo totale, ha poi dedicato gran parte della propria riflessione a stabilire qualiI tono i criteri che rendono un certo mondo più verosimile di un altro).

110 Capitolo quarto

modo in cui interpretiamo i nostri discorsi e i nostri atti è ricco di conse-guenze sulla nostra vita. Cambiare le basi di tali interpretazioni (le premesse)è una delle condizioni per il cambiamento.

Facciamo un esempio. Se un genitore ci dice: «Mio figlio non è auto-sufficiente » esprime un enunciato con valore di necessità, con validità estesaa tutti i mondi possibili. Viceversa l'affermazione: «Può darsi che mio figlionon sia autosufficiente » implica: « Questo enunciato è possibile, cioè veroin qualche mondo possibile.» Il lavoro terapeutico tende a eliminare le affer-mazioni con valore di necessità per introdurre affermazioni con valore dipossibilità. Una modalità frequente da noi adottata è l'uso del termine « idea »come espressione di un mondo possibile. Ad esempio: «Quando le è venutal'idea che suo figlio non sia autosufficiente? Da dove è venuta quell'idea?Che cosa potrebbe accadere perché un'altra idea prenda il suo posto? Qualè, fra le persone che più stima, quella che potrebbe indurla a cambiare ideasull'autosufficienza di suo figlio? Supponiamo che l'idea che non sia auto-sufficiente cambi fra un anno. Che cosa cambierà, allora, nella sua fami-glia?» ecc.

La logica modale è utilizzabile in una prospettiva diacronica, cioè in uncontesto temporale che permetta di mettere in rapporto un enunciato conenunciati corrispondenti verificatisi in altri «punti» del continuum tempo-rale (Allwood, Anderson e Dahl, 1977). Nel nostro lavoro, noi agiamo inmodo analogo. I mondi possibili evocati dalle ipotesi sistemiche, formulatee sottoposte a verifica nel corso della consulenza o della terapia, possononon solo influenzare il «mondo reale» dei clienti, ma anche aiutarli a pen-sare in termini di mondi possibili. In questo modo si può dire che la con-sulenza o la terapia non creano soltanto un contesto di apprendimento, maun contesto di deutero-apprendimento (apprendere ad apprendere).

Capitolo 5

I tempi nella relazione di consulenza e di terapia

Ogni dialogo ha un suo tempo e un suo ritmo, tempo e ritmo che sonocreati dall'interazione fra i tempi individuali degli attori del dialogo. In que-sto capitolo esamineremo l'importanza dell'analisi delle interazioni tempo-rali nella seduta di terapia o di consulenza. Ci occuperemo, pertanto, dialcuni aspetti relativi al tempo dei clienti, al tempo del terapeuta o del con-sulente, ai tempi dell'equipe, per arrivare infine a delineare il modo in cuiindaghiamo e usiamo il tempo nel nostro lavoro.

Contesti di consulenza e di terapia sistemica

Vorremmo qui descrivere e chiarire preliminarmente i concetti di con-sulenza e terapia sistemica e la loro evoluzione nel tempo. Nel campo cli-nico relativo agli interventi sulla famiglia, a lungo si è parlato prevalente-mente o esclusivamente di «terapia»; nella letteratura specialistica, il ter-mine «consulenza» era piuttosto insolito. Negli anni ottanta l'interesseverso la consulenza e la sua relazione con la terapia s'è progressivamenteampliato. Addirittura, alcuni autori, pur operando in un contesto clinico conindividui, coppie o famiglie, hanno abbandonato tout court la definizione di«terapia» (si veda Hoffman, 1988).

Un libro pubblicato qualche anno fa, Systems Consultation: a New Perspectìvefar Family Therapy (Wynne, McDaniel e Weber, 1986), ha messo in luceragioni e utilità del mutamento di prospettiva dalla terapia alla consulenzain campo clinico. Fra le ragioni, sono state addotte innanzitutto le incer-tezze e le inadeguatezze delle tipologie dei disturbi familiari: secondo alcuni,nessuno schema classificatorio è concettualmente adeguato a descrivere iproblemi delle famiglie. L'idea che una famiglia sia « malata », « patologica »o «patogena», e perciò abbia necessita di terapia, è sempre meno condi-