Capitolo 7 I SISTEMI LOCALI DI IMPRESE: STUDI TEORICI E...
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CCaappiittoolloo 77
II SSIISSTTEEMMII LLOOCCAALLII DDII IIMMPPRREESSEE:: SSTTUUDDII TTEEOORRIICCII EE
IINNTTEERRVVEENNTTII DDII PPOOLLIITTIICCAA EECCOONNOOMMIICCAA
I profondi mutamenti nella struttura produttiva delle economie, intervenuti
durante l'ultimo trentennio, hanno stimolato un’ampia letteratura economica su un
fenomeno non previsto dalle teorie tradizionali, ma che ha avuto notevole diffusione,
specialmente in Italia: lo sviluppo dei sistemi produttivi locali di piccola e media
impresa.
Peraltro il procedere del processo di unificazione europea e la sempre più
ampia applicazione comporterà un abbandono progressivo delle politiche
macroeconomiche a favore di interventi a carattere locale. Anche questa circostanza
dovrebbe logicamente indurre una maggiore attenzione all’analisi e alla
comprensione delle condizioni che favoriscono lo sviluppo di una determinata area
geografica.
Questo capitolo offre un tentativo di sintesi, da un lato, dei principali
contributi teorici in tema di localizzazione e, dall’altro, del quadro normativo e delle
politiche economiche attualmente poste in essere per favorire lo sviluppo delle aree
locali.
Il quadro normativo esistente viene descritto con riferimento ai tre livelli -
europeo, nazionale e regionale (con particolare attenzione alle iniziative della regione
Piemonte) – in cui tradizionalmente si articolano gli interventi di politica economica,
cercando in particolare di cogliere, se esiste, un coordinamento, o quantomeno
un’unità di intenti, fra le azioni delle diverse istituzioni.
L’obiettivo che ci si prefigge è quello di verificare se, dal confronto fra la
letteratura e la pratica politico-normativa, possano emergere utili suggerimenti per
migliorare l’azione della politica economica orientata allo sviluppo delle aree locali.
Il capitolo si divide in due parti.
Nella prima, a partire dalla letteratura sui modelli locali di sviluppo, vengono
innanzitutto tratteggiate le caratteristiche principali dei sistemi locali d’impresa,
IInnttrroodduuzziioonnee
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prendendo come riferimento principale l'ormai classico modello del distretto
industriale (paragrafo 2); ad esso segue una descrizione dell'origine del fenomeno
della localizzazione, anche da un punto di vista storico, con particolare riferimento
all'Italia (paragrafo 3); infine, si discutono gli aspetti salienti degli approcci
alternativi – rispetto a quello distrettuale – allo studio dei sistemi locali di imprese
(paragrafo 4).
Nella seconda parte - dedicata all’analisi del quadro normativo e delle azioni
di politica economica - dopo un paragrafo introduttivo sul ruolo delle istituzioni
(paragrafo 5), si descrivono sinteticamente la struttura normativa attualmente
progettata a livello europeo (paragrafo 6), nonché gli interventi legislativi in favore
delle piccole e medie imprese (Pmi) e dei distretti industriali posti in essere a livello
nazionale (paragrafo 7) ed, infine, come la regione Piemonte sta attualmente
applicando la legge nazionale sui distretti industriali (paragrafo 8).
Nel paragrafo conclusivo del capitolo (paragrafo 9) si riprende il tema del
confronto e della sostanziale distanza fra l’analisi teorica e la pratica normativa in
tema di modelli locali di sviluppo.
77..11 II ssiisstteemmii llooccaallii dd’’iimmpprreessaa nneellll’’aannaalliissii tteeoorriiccaa Nello studio delle realtà produttive locali un primo fondamentale problema è
quello definitorio. Differenti terminologie sono spesso, anche se non
necessariamente, legate a diversi modelli o chiavi di lettura proposte per l’analisi dei
sistemi economici locali.
Il concetto di distretto industriale, o distretto industriale marshalliano, è
quello a cui più spesso, specialmente gli studiosi italiani, hanno fatto ricorso e che
compare con maggiore frequenza nei lavori pionieristici sul tema dei sistemi locali
d’impresa. Tuttavia, uno studio dettagliato del ruolo del territorio sul sistema
produttivo e sulla competitività delle imprese locali permette di osservare una
notevole varietà di modelli produttivi locali, alcuni dei quali presentano differenze
sostanziali rispetto ai distretti industriali propriamente intesi, e necessitano di
ulteriori denominazioni e specificazioni (ad esempio, le aree-sistema o i corporate
networks, che possono essere visti sia come un’evoluzione dei distretti, sia come
sistemi organizzativi alternativi). Da questo punto di vista, sarebbe più corretto fare
riferimento, anziché direttamente ai distretti industriali, a concetti più generali come
quello dei sistemi locali d’impresa.
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In questo paragrafo si mettono in luce le questioni sufficientemente generali,
o paradigmatiche, circa il ruolo del territorio sulla nascita, lo sviluppo e la
competitività dei sistemi locali di piccola impresa. Il distretto industriale, per quanto
possa essere un caso particolare, può essere inteso, seguendo la terminologia di
Becattini, come una "unità di indagine", un termine di confronto comune.
7.2 Il distretto industriale
Quello di distretto industriale è un concetto dinamico. Si tratta, infatti, di un
sistema socio-produttivo che mantiene la sua unità nel continuo mutamento. Il
mutamento, a cui si fa riferimento, può essere di varia natura: dalla formazione di
nuovi settori produttivi che si sovrappongono o si sostituiscono ai vecchi,
all’introduzione continua di innovazioni tecnologiche più o meno marginali, alla
natività e mortalità delle imprese, alla specializzazione e flessibilità della forza-
lavoro locale, al ruolo delle istituzioni nel processo di riproduzione del sistema locale
di imprese e della sua competitività.
Il distretto industriale ha le caratteristiche di un'unità economica minima, ben
diversa dell'agente atomistico della teoria economica tradizionale. E' infatti un corpo
organico composto da imprese industriali in relazione fra loro e con una comunità di
persone territorialmente, storicamente e culturalmente determinata. Su questa
compenetrazione di comunità e imprese si costruisce l'identità del distretto
industriale, in cui "si sposano componenti oggettive di concomitanza di interessi e
componenti soggettive di tipo storico-culturale" tali da formare un comune "senso di
appartenenza" capace di conservarsi nel mutamento.
All'interno del distretto industriale le imprese, tipicamente di media e piccola
dimensione, competono e collaborano allo stesso tempo fra loro, e anche questo è un
elemento della loro dinamicità, in quanto alla coesistenza di competizione e
collaborazione è correlato il continuo ridefinirsi del sistema stesso, ovvero la
velocità con cui le imprese nascono, muoiono o si rinnovano. D'altro canto, il
distretto industriale, unitariamente inteso, è capace di competere con l'esterno,
sfruttando risorse locali di qualsiasi natura come propri fattori di successo. Si tenga
conto, infatti, che i distretti industriali italiani sono stati in grado di rendere
competitivi - a livello internazionale - settori comunemente considerati
tecnologicamente arretrati o non più trainanti dal punto di vista merceologico (tipico
è il caso del settore tessile).
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7.2.1 Il territorio
Il ruolo essenziale del territorio emerge proprio quando si cerca di
individuare quali fattori o risorse determinano il successo competitivo di un distretto
industriale. Per risorse territoriali non si intendono le materie prime e neanche i
vantaggi dovuti alla vicinanza geografica, in termini di minori costi di trasporto. Il
territorio entra invece nell'analisi come un fattore di produzione sui generis.
Il grado di fiducia reciproca dei piccoli produttori che operano in una stessa
area geografica, la loro facilità di comunicazione, la diffusa professionalità, sono
esempi di risorse locali, spesso imponderabili, che determinano l'efficienza ed il
successo competitivo di un distretto industriale, compensando l'insufficienza dei
mezzi rispetto agli scopi. A questi fattori, territorialmente e culturalmente
determinati, sono connessi il grado di circolazione e diffusione dell'informazione ed
il conseguente livello d’integrazione produttiva del sistema locale.
Per quanto riguarda la circolazione e diffusione delle informazioni, si può
notare come un linguaggio e un'etica comuni, o più genericamente un comune
tessuto culturale, permettono il consolidarsi di una vera e propria rete informale, non
mediata dal mercato, che costituisce il veicolo della continua formazione e
trasmissione di conoscenze fra i componenti del distretto. Si tratta di conoscenza
informale, difficile da definire, di tipo sicuramente diverso dalla conoscenza
codificata istituzionalmente. La conoscenza scientifica cui è legata quella
tecnologica, essendo prodotta e diffusa all'interno di istituzioni nazionali e
internazionali, è in un certo senso di pubblico dominio, o quantomeno non ha una
specifica identità territoriale. All'interno del distretto e del territorio, invece, si
produce e trasmette un tipo di conoscenza non codificato, che è legato all'operare ed
al produrre, ed è dunque conoscenza pratica. Ma, come illustri teorici dell'economia
hanno sostenuto, anche da questo tipo di conoscenza possono nascere le innovazioni
tecnologiche (è celebre l'esempio di Adam Smith sulla fabbrica di spilli). La capacità
innovativa e lo spirito imprenditoriale dipendono dunque in gran parte da quanto è
ampia e creativa la comunicazione informale e la collaborazione interna al distretto.
Si tenga conto, comunque, che le conoscenze tecniche o tecnologiche non
sono l'unico risultato della circolazione delle informazioni, per quanto forse possono
essere considerate la punta più elevata. La diffusione informale permette infatti il
formarsi di conoscenze di qualsiasi tipo attinenti al mondo degli affari in cui il
distretto industriale si ritrova ad operare (informazioni sui mercati di sbocco, sulle
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nuove tecniche commerciali e finanziarie, su nuove materie prime, componenti e
semilavorati utilizzabili nel processo produttivo, ecc.).
L'integrazione produttiva, insieme alla circolazione delle informazioni, è un
elemento essenziale del successo di un distretto industriale e della sua competitività.
Un distretto si può ritenere ben integrato produttivamente quando, almeno in gran
parte, è capace di provvedere autonomamente a tutte le fasi della catena produttiva
del settore merceologico in cui opera (o dei settori merceologici, visto che spesso
l'attività del distretto è diversificata in più settori). Quest’autonomia dipende anche
dalle possibilità tecnologiche in relazione alle dimensioni delle imprese. Sono infatti
escluse, dalle attività produttive di un distretto di piccole imprese, tutte le merci che
necessitano di grossi impianti per essere prodotte.
Come si vedrà, negli ultimi anni molti cambiamenti tecnologici hanno
favorito la parcellizzazione del sistema tecnologico-produttivo, così da consentire
una divisione del lavoro fra unità produttive diverse. I servizi alla produzione
(commerciali, formativi, creditizi-finanziari, ecc.) sono una componente spesso
cruciale dell'integrazione produttiva, non essendo tanto legati alle possibilità
tecnologiche, quanto alle capacità organizzative e imprenditoriali, o alla presenza di
vigili interventi istituzionali.
Dall'efficiente circolazione delle informazioni e dal grado d’integrazione
produttiva dipendono le cosiddette economie di agglomerazione. E' questo un
concetto che non trova un esatto corrispondente nella letteratura economica
tradizionale, se non in Marshall, in quanto anche le economie di agglomerazione
sono strettamente legate al ruolo del territorio. Con questo termine ci si riferisce ai
vantaggi economici del costituire un comune tessuto produttivo, capace di
provvedere in gran parte a se stesso e di riprodursi o allargarsi. Le economie di
agglomerazione sono quindi alla radice sia della competitività, sia della possibilità
per lo sviluppo locale di autosostenersi.
7.2.2 Il fattore lavoro
Le specificità locali sedimentate sul territorio non entrano nel processo
produttivo soltanto come fattore di produzione distinto e separato da quelli
tradizionalmente considerati (capitale e lavoro), ma piuttosto questi ultimi vengono
plasmati e resi a loro volta territorialmente determinati.
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Si consideri il fattore lavoro. I lavoratori nel distretto industriale sono
solitamente specializzati e flessibili. Nel distretto industriale vi è un certo grado di
professionalità diffusa, consolidata spesso da specifiche scuole professionali
orientate ad addestrare la forza-lavoro secondo le esigenze produttive del sistema
locale. La flessibilità, invece, consiste sia in un elevato turnover dei lavoratori fra le
imprese del distretto, sia in un'abitudine a modificare le forme organizzative del
lavoro e i rapporti di produzione, ma anche nella disponibilità dei lavoratori a
lavorare un numero di ore variabile in funzione alle esigenze produttive.
Il livello di sindacalizzazione dei lavoratori del distretto è normalmente
inferiore rispetto alle aree tradizionalmente legate alla grande industria. Non solo, ma
nella stragrande maggioranza dei casi, la figura del lavoratore non coincide con
quella tradizionale dell’occupato nella grande impresa, essendo molto più vicina a
quella dell'imprenditore (e viceversa).
Il distretto industriale è spesso popolato di lavoratori autonomi o piccoli
imprenditori, figure intermedie fra percettori di profitti e salariati. Molto spesso
l'autonomia di questi lavoratori è soltanto giuridica, poiché essi rimangono
economicamente dipendenti dai loro committenti (lavoratori eterodiretti). Questa
fusione fra figure professionali, altrove ben distinte, impedisce, da un lato, una
soddisfacente azione sindacale diffusa, ed è, dall'altro lato, alla radice sia di un
elevato grado di consenso sociale interno al distretto, sia della presenza di
imprenditorialità diffusa.
7.2.3 Imprenditorialità e innovazione
Come si è precedentemente accennato, l'innovazione nel distretto industriale
non può essere della stessa natura delle grandi innovazioni tecnologiche che
determinano rivoluzioni nel modo di produrre e nelle caratteristiche delle merci
prodotte. Non è, in altre parole, legata a scoperte scientifiche ed alle attività di
Ricerca e Sviluppo. Si tratta di un tipo d’innovazione più simile all'idea del learning
by doing o learning by using. L'innovazione nel distretto industriale è pertanto un
fenomeno diffuso, costituito da "eventi innovativi singolarmente minori ma
cumulativamente non trascurabili".
Determinare i fattori che scatenano le innovazioni è peraltro impresa ardua,
in quanto i casi conosciuti sono difficilmente generalizzabili. Talvolta il meccanismo
delle innovazioni marginali a catena è incentivato semplicemente da eventi casuali e
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soggettivi, come, ad esempio, il semplice ma concreto timore di un artigiano
(terzista) circa la possibilità che il suo unico committente trovi più conveniente
rivolgersi a qualcun’altro che provveda agli stessi servizi. Anche eventi puramente
casuali possono innestare effetti di trascinamento che migliorano la competitività del
distretto unitariamente inteso. A tale proposito si può osservare che, per quanto
casuali possano essere questi meccanismi, esistono certe condizioni che creano il
terreno adatto alla creatività imprenditoriale e soprattutto alla sua capillare
diffusione.
L'imprenditorialità diffusa è ragionevolmente correlata al tipo di attività
produttiva. Infatti, affinché vi sia un buon livello di imprenditorialità diffusa, è
necessario che le singole professioni permettano l'esercizio della discrezionalità,
senza la quale la creatività è fortemente disincentivata. La potenzialità innovativa di
un distretto industriale dipende da quanto le abilità e le conoscenze sono diffuse fra i
suoi componenti. Si ritorna qui al tema della diffusione delle informazioni e della
rete informale di relazioni lavorative.
Il fenomeno dell'imprenditorialità limitata, ma diffusa, si può studiare
tenendo d'occhio gli ostacoli all'innovazione forse più facili da individuare rispetto
alle cause scatenanti.
La specializzazione professionale può, da un lato, incentivare l'innovazione,
in quanto permette di concentrare con competenza l'attenzione su specifiche
mansioni, in modo da trovare - per semplice apprendimento dall'esperienza - il
sistema di fare meglio le stesse cose, o fare cose diverse con piccole modifiche dei
mezzi di produzione. D'altro canto, la stessa specializzazione, oltre un certo livello,
può disincentivare l'innovazione, in quanto rende il lavoratore simile all'automa di
una catena di montaggio, o comunque dotato di una visione troppo limitata
dell'orizzonte dei cambiamenti possibili.
Anche la concorrenza interna al distretto gioca un ruolo ambivalente. Infatti,
per quanto essa possa favorire la mobilitazione di energie individuali a favore
dell'atto creativo, un eccesso di competizione fra i membri del distretto industriale
può inibire la collaborazione innovativa, che verrebbe così rimpiazzata da calcoli
individuali opportunistici, scarsamente lungimiranti.
Un altro fattore di freno può essere lo scarso monitoraggio, da parte delle
istituzioni creditizie locali, delle opportunità creative del sistema locale. Al contrario,
un monitoraggio mirato e costante può essere un ottimo fattore d’incentivo. Si tenga
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presente che la natura delle innovazioni qui considerate non richiede necessariamente
imponenti investimenti finanziari e spese di ricerca. Questo è sicuramente un
vantaggio a favore del distretto, ma non implica necessariamente che il credito giochi
un ruolo secondario.
Per concludere sul tema delle innovazioni, si può facilmente osservare come
gli stessi fattori possono essere sia d’ostacolo sia d'incentivo. I due esiti alternativi
dipenderanno da situazioni contingenti e da come nei singoli distretti industriali
queste condizioni interagiscono fra loro. La scarsa possibilità di generalizzazioni su
questo tema deriva anche dalla considerazione che gli incentivi all'innovazione sono
difficilmente misurabili in termini di fondi investiti, ma sono piuttosto legati, ancora
una volta, a elementi imponderabili, capillari e complessi, che ruotano tutti entro la
sfera dell'informalità.
7.2.4 Istituzioni locali
In ogni distretto industriale le istituzioni locali assumono un ruolo
fondamentale nel costruire e riprodurre i fattori di successo e le condizioni per lo
sviluppo e la competitività del sistema locale d’impresa.
Esempi di istituzioni locali sono l'agenzia di sviluppo locale, i centri
tecnologici e le agenzie di diffusione delle innovazioni, i centri di servizi reali, e
naturalmente le istituzioni pubbliche tradizionali quali la scuola, l'università, il
sindacato, l'amministrazione pubblica. Tali istituzioni sono legate all'intervento di
politica industriale, di cui si tratterà in seguito.
Per il momento è sufficiente mettere in rilievo, che il distretto industriale è
tipicamente un’unità economica, che sorge e si sviluppa in gran parte
indipendentemente dalla volontà e dall'intervento delle istituzioni. In certe aree,
soprattutto quelle di più antica tradizione industriale, le istituzioni sembrano essere
state più d’ostacolo che d’aiuto. Al contrario, nelle aree svincolate dal peso delle
lungaggini burocratiche (nella cosiddetta "terza Italia") i distretti sono sorti con più
facilità. Quanto detto non implica, tuttavia, che l'intervento istituzionale sia in
generale d’impedimento. Esso dovrebbe piuttosto essere opportunamente calibrato
alle necessità dei sistemi locali d’impresa, come è effettivamente avvenuto nei luoghi
dove i distretti sono diventati veri e propri casi di studio.
La difficoltà dell'intervento istituzionale è spesso legata all'estrema
mutevolezza, flessibilità e informalità del tessuto socio-produttivo locale, laddove
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l’opportunità e l’utilità di un’azione dell’operatore pubblico sta nell’esigenza di
temperare o superare i limiti intrinseci a questa tipologia di relazioni, che almeno in
potenza, costituiscono fattori di crisi.
I sistemi di piccola impresa possono avere una scarsa percezione complessiva
degli orientamenti del mercato, oppure un basso livello di terziarizzazione rispetto
alle necessità del sistema produttivo. Inoltre, al loro interno, si possono verificare
incoerenze fra le politiche del credito, o le politiche delle Regioni e degli enti locali,
e le esigenze proprie del sistema locale. Infine, i sistemi di piccole imprese, laddove
non vi siano imprese leader (corporate network), corrono il rischio di un eccessiva
polverizzazione e una mancanza di coordinamento. Infatti, al fine di produrre
strategie di lungo periodo per conservare o incrementare il livello di competitività e
sviluppo del distretto, si rende talvolta necessario una sorta di "cervello direzionale"
che il sistema potrebbe non essere in grado di produrre spontaneamente.
7.3 Cause e origine storica dei sistemi locali d’impresa in Italia
A partire dagli anni '70 i distretti industriali sono sorti e cresciuti con una
velocità e una varietà tale da fare dell'Italia un caso d’interesse internazionale per chi
voglia occuparsi di tematiche legate al territorio ed ai sistemi di piccole imprese.
Sull'origine dei sistemi locali d’impresa si possono avanzare diverse
spiegazioni e punti di vista alternativi.
Il differente peso assegnato alle cause alternative si riflette sulla visione
teorica complessiva dello sviluppo dei sistemi locali d’impresa. Chi evidenzia il
rapporto di dipendenza gerarchica tra le grandi imprese ed i sistemi locali d’impresa
tende a sottolineare come l'origine dei distretti industriali italiani sia stata
prevalentemente guidata da cambiamenti strutturali del sistema economico
complessivo, e più specificamente, dalla ristrutturazione produttiva della grande
impresa. Chi, invece, intravede nei distretti un certo grado di autonomia, di capacità
di autosostenere il proprio sviluppo e di raggiungere elevati livelli di competitività,
ricerca cause di tipo endogeno, che mettono in luce la spontaneità con cui i sistemi
locali sono nati e cresciuti anche in ambienti economici per certi aspetti ostili.
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7.3.1 Le trasformazioni nel sistema economico-produttivo
La nascita dei sistemi locali di piccola e media impresa coincide con una fase
di passaggio di natura secolare, da un modello di sviluppo fordista a uno a
specializzazione flessibile, o post-fordista.
Il primo è caratterizzato da un forte accentramento di capitale e lavoro intorno
alla grande fabbrica meccanizzata. Il lavoro prende la forma della catena di
montaggio dei grandi impianti: è dato osservare una netta divisione fra quadri e
operai, mentre la produzione ha per oggetto merci standardizzate destinate ad un
consumo di massa tendenzialmente indifferenziato.
Il sistema post-fordista, invece, sviluppatosi in Giappone (paradigmatico è il
caso della fabbrica automobilistica Toyota) apporta cambiamenti radicali
nell'organizzazione della grande fabbrica e di conseguenza sull'intera organizzazione
delle economie nazionali, tanto da svuotare di rilevanza persino il carattere
prevalentemente nazionale delle economie di epoca fordista. Il nuovo modello
produttivo a specializzazione flessibile è efficacemente riassunto dalle parole "just in
time": soddisfazione della domanda, grazie ad un prodotto differenziato, adeguato
alle eterogenee esigenze dei singoli consumatori e addirittura prodotto sotto
ordinazione. L’esatto opposto della produzione di massa. Questa rivoluzione
copernicana nel sistema produttivo ha comportato alcune trasformazioni
nell'organizzazione della fabbrica, che tanto peso hanno avuto in Italia nella
formazione dei sistemi locali d’impresa.
Anzitutto la grande fabbrica, abbandonata la catena di montaggio, si
organizza in "officine minime", ciascuna delle quali si specializza in una singola fase
del processo produttivo, dotandosi di una "tecnologia frugale" più a portata
dell'operatore con una maggiore capacità di adattamento e di miglioramento. Si
assiste quindi ad un crescente coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni
riguardanti la produzione e nel controllo del flusso produttivo (con la possibilità -
inesistente nella fabbrica fordista - di rallentare il ritmo della produzione per
correggerne i difetti). In terzo luogo, la fabbrica "taylorista" si adopra per garantirsi
un rapporto di fiducia reciproca con i propri lavoratori ed i fornitori. Infine, i
controlli sulla qualità di un prodotto iniziano a comparire all'interno di ogni singola
fase della produzione, non limitandosi al prodotto finale.
La spinta verso una ristrutturazione del sistema produttivo a livello
internazionale prende le mosse dalla crisi petrolifera e da quella del sistema di
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regolazione internazionale sancito dagli accordi di Bretton-Woods. Questi fattori di
crisi si traducono concretamente, per le economie nazionali, in un elevato costo delle
materie prime e in una forte spinta inflazionistica in presenza di recessione
economica (stagflazione).
In Italia un ulteriore fattore di pressione è rappresentato dall’altissimo livello
di sindacalizzazione della forza lavoro, giudicato dai datori di lavoro insostenibile
per le possibilità del sistema produttivo fondato sulla grande impresa di tipo fordista.
Due sono i fattori di svolta che consentono alla grande impresa di uscire dalla
crisi: il decentramento produttivo (anni '70) e l'ammodernamento tecnologico (anni
'80). Il primo fattore crea le condizioni (o alcune delle condizioni) per lo sviluppo dei
sistemi locali d’impresa. Il secondo, a giudizio di alcuni commentatori, riconducendo
il rapporto fra piccola e grande impresa nei ranghi di un rapporto tendenzialmente
gerarchico, sancisce una netta divisione fra i moderni settori trainanti, dominati dalla
grande impresa, e i settori tradizionali, in cui operano i sistemi locali di piccola e
media impresa.
Tornando ai sistemi locali d’impresa, si può osservare che essi, in Italia, sono
figli del decentramento produttivo, che ha consentito di scorporare dalla grande
fabbrica quelle "officine minime" che potevano tecnicamente essere localizzate
all'esterno. Il vantaggio di questa operazione è legato ai requisiti di estrema
flessibilità delle aree non industrializzate e a bassa sindacalizzazione. Tali requisiti,
peraltro, non sono semplicemente riassumibili con la circostanza che i salari orari
sono più contenuti nelle zone a bassa industrializzazione, come all'inizio ci si
limitava ad osservare. Si può, infatti, facilmente constatare che i requisiti, appena
descritti, della fabbrica "toyotista", non sono tanto lontani dalle caratteristiche
proprie dei distretti industriali. Infatti, il grado elevato di fiducia e di collaborazione
dei lavoratori, l'organizzazione del lavoro intorno a singole e autonome parti del
processo produttivo (tipicamente di dimensioni ridotte, in cui la figura dell'operaio
automatizzato viene sostituita da un lavoratore con cognizione di causa e capacità di
intervento sul prodotto) sono tutte caratteristiche comuni sia della moderna fabbrica
sia del distretto industriale. E' questo, con tutta probabilità, uno dei maggiori
elementi di modernità (e di successo) dei distretti industriali italiani.
Al decentramento produttivo ha fatto seguito un'industrializzazione diffusa in
regioni diverse dal triangolo industriale (Torino-Milano-Genova), e in particolare
nell'Italia centrale e del Nord-Est (la cosiddetta "terza Italia", dove si trovano i casi
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più studiati di distretti industriali). Esistono diversi casi di formazione di sistemi
locali d’imprese anche nelle aree non urbane delle regioni di maggiore e più antica
industrializzazione, specialmente Lombardia e Piemonte, così come nelle regioni del
Meridione d'Italia.
Lo sviluppo, di natura periferica, dei distretti industriali, prende nel frattempo
direzioni parzialmente autonome dalla grande impresa. I distretti industriali attingono
progressivamente alle risorse locali, si orientano verso la costruzione di una rete
plurale di clienti e di fornitori, riuscendo infine a competere sui mercati
internazionali. Sulla base, non solo di prezzi e costi di produzione contenuti, in
dipendenza di fattori congiunturali quali la politica valutaria nazionale, ma anche di
prodotti di qualità legati al marchio, al design e alla tecnologia.
Un'altra caratteristica dello sviluppo decentrato dei sistemi locali d’imprese è
la sua differenziazione, non tanto in termini merceologici, quanto in termini
organizzativi e di fasi produttive. A fronte di una divisione territoriale del lavoro
all'interno dello stesso settore, si verificano fenomeni di interregionalizzazione della
produzione in termini merceologici, per cui i settori tradizionali si diffondono in gran
parte delle aree sopra citate.
Lo sviluppo decentrato italiano risulta, in sintesi, estremamente articolato.
Tale circostanza induce a superare le visioni dualistiche e dicotomiche dello sviluppo
economico, venendo meno la possibilità di osservare e contrapporre nettamente
sviluppo e sottosviluppo, regioni arretrate e regioni avanzate.
7.3.2 I fattori endogeni
Gli eventi associati alle trasformazioni economiche, su scala sia nazionale sia
internazionale, possono essere considerati come le cause esogene della formazione
dei sistemi locali d’impresa. Essi sono: la ricerca di mercati del lavoro flessibili, di
mercati fondiari a prezzi bassi, di condizioni di flessibilità generale presenti nelle
aree periferiche; e, soprattutto, le nuove tecnologie in grado di scorporare parte del
ciclo produttivo originariamente accentrato nella grande dimensione.
Resta comunque da determinare in base a quali fattori in certe aree il
decentramento produttivo si sia potuto trasformare in industrializzazione diffusa,
favorendo la crescita dell'attività imprenditoriale e dell'organizzazione di tipo
reticolare tipica dei distretti industriali in modo tanto spontaneo da accompagnare la
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crescita dei sistemi locali d’impresa. Sono stati individuati, a questo riguardo, i
seguenti fattori endogeni alle singole aree territoriali.
Anzitutto la piccola imprenditoria locale sembra legata all'esistenza di
tradizioni specifiche del lavoro, ed in particolare alle attività artigianali, diffuse nel
territorio ancor prima della sua industrializzazione grazie alla presenza di un elevato
numero di lavoratori indipendenti, un certo livello di professionalità, una struttura
sociale sufficientemente mobile.
L'imprenditorialità sembra attribuibile anche all'organizzazione
dell'agricoltura basata sulla piccola proprietà e la mezzadria che, a differenza del
latifondo, determina nei singoli individui un'abitudine al calcolo economico.
Secondo Paci (1980,1982) un fattore endogeno rilevante è la famiglia estesa -
tipica delle regioni agricole della terza Italia - una forma in embrione della futura
piccola impresa, in quanto propensa a garantire una non irrilevante accumulazione di
capitale, prestazioni lavorative organizzate con caratteristiche proto-imprenditoriali,
come il lavoro a domicilio oltre ad una base di protezione contro le congiunture
economiche sfavorevoli (una sorta di ammortizzatore sociale).
Secondo Brusco (1975,1982) un fattore endogeno è più semplicemente la
stessa piccola impresa, in grado, con l'avvento del decentramento produttivo, di
affrancarsi progressivamente dal controllo della grande impresa fino a raggiungere
un certo grado di autonomia, una volta attuate strategie di specializzazione flessibile
e produzioni in "serie corte".
Per Dematteis (1983) infine, un altro fattore esogeno va rintracciato nel forte
insediamento di piccoli centri urbani nelle aree a industrializzazione diffusa: un
capitale ambientale all’interno del quale imprese piccole e medie hanno potuto
nascere e svilupparsi con maggiore facilità, nonché esser maggiormente valorizzate.
7.4 Approcci alternativi nello studio dei sistemi locali di
impresa
I sistemi locali d’imprese sono stati studiati da diversi autori e diverse scuole.
La loro ricerca ha alternativamente evidenziato differenti aspetti, pur non
necessariamente (o meglio, quasi mai) incompatibili fra loro.
Il merito dei primi studi sull'argomento va indubbiamente attribuito ad autori
italiani, i quali durante gli anni '70 si resero conto che la "disubbidienza dei fatti" alla
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teoria economica richiedeva un rovesciamento delle chiavi di lettura teoriche per
osservare il fenomeno dell'industrializzazione diffusa nella terza Italia, non essendo
più interpretabile come una semplice irregolarità o anomalia. In questo paragrafo
verranno esposti i contributi teorici che hanno anticipato e fatto seguito a questo
rovesciamento di prospettiva.
7.4.1 I precedenti teorici
Il lavoro teorico di Alfred Marshall è quello da cui Becattini (1987, b)
esplicitamente prende ispirazione nel formulare la sua lettura dei distretti industriali.
Marshall, pur essendo fra i fondatori della teoria economica neoclassica, in
parallelo, si occupò del fenomeno dei distretti industriali, di cui tuttavia non riuscì a
dare una spiegazione convincente nell’ambito della teoria che lui stesso contribuì ad
elaborare. Mentre nei Principles Marshall si occupa di equilibri parziali con imprese
rappresentative e curve di costo del prodotto, in Industry and Trade egli si libera di
questi "espedienti didascalici", analizzando più da vicino il mondo degli affari e
rilevando come esso sia costituito da gruppi industriali compatti, a metà strada fra
l'agente individuale ed il sistema complessivo, all'interno dei quali risulta
estremamente difficoltoso attribuire un costo di produzione di un bene ad un'unica
impresa.
Muovendo dal concetto di economie (diseconomie) esterne all’impresa, ma
interne all’industria, Marshall giunge a giustificare i rendimenti inizialmente
crescenti e successivamente decrescenti dell'impresa rappresentativa, utilizzando una
forma ad U per la curva del costo medio. Questa strada è stata successivamente
delegittimata, sotto il profilo del rigore analitico, dalla critica di Sraffa nel 1926. È
poi Becattini, a ritenere che in Industry and Trade tale concetto sia utilizzato, in
modo meno formale e più fecondo, per spiegare l'esistenza dei distretti industriali.
Secondo Marshall, in certi settori manifatturieri, è possibile ottenere gli stessi
vantaggi della produzione su larga scala, concentrando in una determinata area un
elevato numero di piccole unità produttive. Maggiore è la concentrazione della
produzione e della popolazione intorno in un unico territorio, maggiore è la
probabilità di concepire idee nuove. Economie e diseconomie esterne all'impresa e
interne all'industria non sono legate semplicemente ai costi tecnici di produzione, ma
piuttosto al collante, costituito da infrastrutture, densità di popolazione, risorse locali
in generale, che unisce imprese diverse in un unico distretto industriale. L'idea
255
marshalliana di economie esterne all'impresa e interne all'industria è all'origine del
concetto, oggi comunemente utilizzato, di economie di agglomerazione.
Successivi passi teorici sono stati compiuti dagli studi sulla segmentazione
del mercato del lavoro, che hanno contribuito a svecchiare una visione deterministica
della società e dell'economia. In particolare, si riconosce che l'offerta di lavoro è
articolata in una pluralità di gruppi, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, legate
al territorio e alla storia ed in grado di condizionare la stessa tecnologia produttiva
utilizzata.
Un altro spunto di riflessione è derivato da un filone della letteratura
economica e sociologica sulle imprese e sui mercati, che fa capo a Simon e
Williamson, dal lato degli economisti, e a Hirschman e Granovetter, dal lato dei
sociologi economici. Questi contributi, di diverso tipo ed origine, pongono l'accento
sulla teoria dell'impresa e del mercato, rilevando come le relazioni fra venditori e
compratori siano in realtà molto più complesse di quanto la teoria della concorrenza,
perfetta o imperfetta, sia in grado di descrivere. Si tratta di relazioni permanenti e
personali, che non possono essere sintetizzate né da un prezzo di equilibrio né da un
contratto esplicito e completo. Impresa e mercato risultano istituzioni complesse, in
cui entrano in gioco elementi tradizionalmente considerati extraeconomici.
Becattini e Bianchi (1987) osservano infine che è intervenuto un generale
cambiamento nel modo di intendere lo sviluppo economico. Alla distinzione
strettamente tecnologica fra settori trainanti e settori trainati si è progressivamente
sostituita una visione più complessa, secondo cui i settori dell'industria di tipo
fordista (siderurgia, petrolchimica, ecc.), comunemente considerati trainanti, mutano
localizzazione geografica e si insediano nei paesi in via di sviluppo, dove l'offerta di
lavoro è a basso costo e bassa qualificazione, mentre i settori comunemente
considerati tradizionali, cioè i settori "trainati" del tessile e dell'abbigliamento,
restano localizzati nelle aree economiche sviluppate e risultano tecnologicamente
rimodernati (e informatizzati).
7.4.2 I teorici del distretto industriale
Nella descrizione dei sistemi locali d’imprese si è adottata fino ad ora la linea
interpretativa dei primi studiosi italiani dei distretti industriali. Ad essi va
riconosciuto il merito di aver costruito una vera e propria chiave di lettura, che ha
assunto il carattere di un paradigma per chi si voglia occupare di sviluppo locale. Da
256
questo momento, però, è opportuno guardare al suddetto approccio come al
contributo di una particolare scuola, che presenta differenze anche rilevanti rispetto a
visioni alternative.
Il concetto di distretto industriale risulta oggi limitante, agli occhi dei suoi
stessi teorizzatori, in quanto eccessivamente specifico e pertanto affiancato da
termini più generali, quali "sistemi locali d’impresa", "sistemi produttivi territoriali",
"modelli locali di sviluppo".
La peculiarità dei teorici del distretto industriale si può forse identificare nella
volontà di fondere fenomeni economici e sociali, che nel distretto industriale
risultano indistinguibili. Questo ingresso di altri campi di studio nella materia
economica spinge gli autori a un costante confronto critico con la teoria economica
accademica o manualistica, da cui risulta una riformulazione e ridefinizione di
concetti quali l'impresa, il mercato, l'industria, la concorrenza, lo scambio, tutti
adattati alle nuove esigenze conoscitive, permeate di conoscenze interdisciplinari,
prevalentemente di tipo sociologico (valga come esempio l’analisi di Dei Ottati
(1987, 1995) sul mercato comunitario come luogo di cooperazione e competizione).
Un'altra caratteristica dell'approccio "distrettualista" è la componente
dinamica. Essa apre una serie di questioni su quanto flessibile sia il concetto di
distretto industriale, e quando in particolare ci si trovi di fronte ad un distretto
industriale propriamente detto, oppure ad un sistema locale di tipo diverso. Nel corso
degli anni '80 e '90, con la crisi del sistema fordista di organizzazione dell’economia
ed il conseguente svuotamento dello stato nazionale, quale luogo principale della
politica e dell'attività economica, è aumentata la consapevolezza dell’estrema varietà
delle realtà produttive locali, alla luce anche dell’intensificarsi del processo di
globalizzazione.
7.4.3 Il modello dell’impresa-rete (o corporate network)
Parzialmente intrecciato con l'approccio distrettualista è il punto di vista degli
economisti italiani d’impresa, che fanno capo alla rivista "Economia e Politica
industriale" diretta da Vaccà. Grande rilevanza è data da questi studiosi al concetto di
rete ed alla sua capacità di creare esternalità. La rete fra unità produttive si costituisce
per mezzo di un linguaggio specializzato, proprio soltanto dei soggetti che ne fanno
parte, ed attraverso di essa le imprese riescono a comunicare, condividere e
propagare le conoscenze.
257
La rete di interdipendenze fra imprese assume lo stesso ruolo chiave che i
distrettualisti assegnano al territorio. Essa può essere considerata anche un tipo di
produzione transnazionale, non risultando necessariamente legata al territorio e alla
cultura locale. Rullani (1989, p. 132) definisce la rete un sistema reversibile e
ubiquitario, in quanto consente la modifica delle scelte produttive e non è soggetto al
vincolo territoriale. Questi requisiti permettono di ridurre l'incertezza che altrimenti
potrebbe inibire la stessa attività produttiva della piccola e media impresa.
La rete, vista in quest'ottica, apre nuove strade nell'analisi del rapporto fra
economia globale ed economia locale. L'impresa, svincolata dal territorio di
appartenenza, è infatti un'impresa transnazionale, ma questa considerazione non
implica una perdita del ruolo del territorio. Il concetto di rete serve a mettere in
rilievo l'estrema varietà e diversità di forme che il sistema industriale può assumere;
è, in altri termini, assente un modello unificatore che confini le possibilità produttive
entro un preciso schema teorico. L'impresa è immersa nell'economia globale, la quale
a sua volta altro non è che un coacervo di economie locali, fra loro interdipendenti.
La globalizzazione, d’altro canto, va vista come un crescente sistema di
interdipendenze. In questa prospettiva, il territorio non risulta assolutamente svuotato
del suo ruolo strategico. Al contrario, l'impresa è immersa nell'ambiente e in un
contesto culturale e spaziale che determina la sua diversità ed il suo vantaggio
competitivo, per cui diventa di estrema rilevanza sapere riprodurre nel tempo le
risorse locali. Il radicamento sul territorio diventa un fattore strategico anche per la
grande impresa multinazionale, che quanto più sarà in grado di utilizzare le diverse
specificità locali in cui opera, tanto più renderà fruttuosi i vantaggi della sua mobilità
territoriale.
Ritornando al concetto centrale di rete, uno dei contributi specifici
dell'approccio in questione consiste nell'individuazione di due "dimensioni
cognitive" che nella rete si incontrano e producono le esternalità: i vantaggi
competitivi e le possibilità di innovazione delle unità produttive che ne fanno parte.
Esse sono la dimensione della conoscenza scientifica, codificata e prodotta dal
motore autopropulsivo e aterritoriale della scienza, e quella della conoscenza tacita o
contestuale, prodotta invece da specifici contesti territoriali. Nella rete, queste due
dimensioni si unificano e interagiscono, favorendo la coesistenza di globale e locale.
Il concetto di rete è pertanto alla base di un’impostazione teorica, che
racchiude al suo interno l'approccio distrettualista, senza negarlo o destituirlo di
258
valore conoscitivo, ma piuttosto cercando di integrarlo in una visione allargata
all'economia globale, alle imprese industriali di ogni dimensione. In questa logica il
ruolo del territorio ne risulterebbe addirittura rafforzato, poiché non è più visto come
un fattore strategico, esclusivo della piccola e media impresa.
Fra gli studiosi del modello di corporate network, ve ne sono però alcuni che
giungono a sottolineare le caratteristiche dell’impresa-rete, che rendono questo
schema ben diverso da quello che ruota intorno al concetto di distretto industriale.
L'enfasi del modello di corporate network è posta sul rapporto di gerarchia esistente
fra imprese. Ad esempio, le imprese Benetton, Stefanel e Carrera del settore tessile
abbigliamento del Veneto sono identificate come tipici casi studio. Si tratta di un
modello che rappresenta un possibile esito evolutivo negativo della dinamica dei
distretti industriali.
Secondo questi autori, l'impresa-rete è un network produttivo che collega una
consistente fascia di piccole imprese - artigiani o terzisti - intorno ad un'impresa
leader di maggiori dimensioni, attraverso un costante e complesso rapporto di
committenza, sub-fornitura, che poggia sulla segmentazione del processo produttivo.
Tuttavia, l'autonomia giuridica dei piccoli imprenditori non coincide con una reale
capacità di operare autonomamente. La figura del piccolo imprenditore pare molto
simile a quella dell'operaio della catena di montaggio, in quanto alle piccole imprese
vengono richieste lavorazioni semplici e di routine e non competenze specifiche. Il
lavoro viene spesso pagato a cottimo, causando intensi ritmi di produzione ed una
graduale selezione delle imprese coinvolte, anche in base a criteri di qualità del
prodotto.
Questo tipo di organizzazione fortemente gerarchizzata ha in comune con il
modello del distretto industriale, oltre alle piccole dimensioni delle imprese locali,
consenso sociale e rapporto quotidiano di scambi informativi e di fiducia reciproca
fra piccole imprese e impresa committente. In altri termini, il binomio cooperazione-
competizione, caratteristico dei distretti industriali, nell'impresa-rete si trasforma in
cooperazione-gerarchia.
La specificità del territorio è connessa ai buoni rapporti informali, che
addolciscono quelli gerarchici; sul piano dei rapporti di produzione effettivi la sola
differenza riscontrabile fra l'impresa-rete e la fabbrica tradizionale appare nel grado
di sindacalizzazione e di flessibilità della forza-lavoro.
259
Quest'ultima considerazione è particolarmente rilevante soprattutto nella
prospettiva di un’analisi del delicato equilibrio fra globale e locale. L'impresa-rete,
infatti, per quanto radicata in un determinato territorio, utilizza i bassi costi di
produzione per competere a livello globale. Ma fino a che punto, ci si può chiedere,
il collante costituito dal sistema della rete locale può disincentivare l'impresa leader a
trasferire la sua produzione nei paesi in via di sviluppo, dove il costo del lavoro è
decisamente più basso ? Il processo di delocalizzazione della produzione nei paesi in
via di sviluppo, che si è particolarmente intensificato nel corso degli anni '90, sembra
segnalare che i legami tra imprese - all’interno del corporate network - sono molto
più deboli che nel distretto industriale, con conseguenti danni per l'economia locale e
per l'occupazione.
7.4.4 Porter e il vantaggio competitivo delle nazioni
Nel 1989 Michael Porter pubblica The Competitive Advantage of Nations, che
diviene uno dei principali testi di riferimento per chi si occupa di tematiche legate al
territorio. Il libro è, da un lato, una trattazione sistematica, che si ripropone
esplicitamente di fondare un nuovo paradigma nell'analisi delle problematiche dello
sviluppo economico e della competizione internazionale fra i paesi industrializzati,
dall'altro, uno studio di casi specifici e illustrativi della trattazione teorica.
L'ambizione di fornire una trattazione sistematica e quasi manualistica i temi
affrontati è probabilmente alla base del successo di questo libro. L'analisi teorica del
territorio e delle specificità locali sembra, tuttavia, piuttosto limitata, più ampio
risulta lo studio di casi specifici (in particolare Porter analizza Italia e Germania).
Una caratteristica peculiare del contributo di Porter è il recupero della dimensione
nazionale, che costituisce l'unità spaziale privilegiata per analizzare i fenomeni
tipicamente legati al territorio.
Il presunto paradigma di Porter presenta sul piano teorico diverse analogie
con gli approcci descritti precedentemente, di dinamicità intrinseca dell'analisi dello
sviluppo industriale. Porter si pone in una prospettiva evoluzionista, in cui, mentre
l'osservazione delle potenzialità di un settore industriale gioca un ruolo rilevante, le
variabili direttamente osservabili o i successi già realizzati passano in secondo piano.
Nel quadro teorico costruito in questa prospettiva, quattro sono le grandezze
economiche dalla cui interazione dipende il vantaggio competitivo di una nazione: (i)
i fattori di produzione, ovvero i livelli di preparazione professionale, e le
260
infrastrutture, sul versante dell'offerta; (ii) la domanda interna del prodotto (o dei
servizi) da parte delle industrie nazionali; (iii) le interdipendenze industriali del
sistema produttivo nazionale con quello internazionale; (iv) le condizioni che in
ambito nazionale determinano la nascita, l'organizzazione e le strategie delle
imprese.
Porter pone l'enfasi della sua analisi sui settori industriali e identifica nelle
nazioni il territorio dove essi possono meglio svilupparsi. Ne risulta che la divisione
internazionale del lavoro è strettamente legata alla struttura settoriale dell'economia
globale. Nel sistema economico globale non sono le nazioni a competere
direttamente fra loro, bensì le imprese. Le nazioni invece competono indirettamente,
identificandosi con specifiche imprese e specifici settori.
L'importanza del territorio emerge quando si approfondiscono le ragioni, che
legano lo sviluppo di un comparto alle condizioni predisposte nell'ambito
dell'economia nazionale. In particolare, in Porter il vantaggio competitivo di un
settore industriale è determinato dalla sua concentrazione geografica. Infatti, soltanto
in un luogo geografico concentrato i quattro fattori sopra elencati interagiscono fra
loro in modo sistemico determinando, come risultante della loro azione combinata,
un ambiente favorevole al suo sviluppo.
Porter individua anche i rischi di un’eccessiva involuzione dei sistemi
nazionali. La liberalizzazione dei mercati, a suo giudizio, consente riduzioni di costo
e una maggiore circolazione delle informazioni e delle conoscenze. Di conseguenza,
le economie nazionali non devono erigersi a protezione delle imprese nazionali
contro la competizione globale, ma piuttosto devono dedicarsi alla costruzione
dell'ambiente favorevole che determini il vantaggio competitivo delle imprese. In
questa proposta di reinvenzione del ruolo della politica nazionale risiede forse il
maggiore contributo di Porter.
Naturalmente la decisione di allargare la scala dimensionale al livello
nazionale non è neutrale per i risultati dell'analisi. Le istituzioni "locali" sono
identificate con le istituzioni nazionali, che includono le strutture di governo e di
regolazione, le università, le grandi istituzioni bancarie e creditizie, i luoghi
dell'accumulazione del sapere scientifico. Sebbene sia innegabile che, in un'ottica
globale, queste specificità nazionali siano anch'esse riconoscibili come risorse locali
e sedimenti storici, pare concreta la prospettiva di smarrire la dimensione territoriale,
261
nell'accezione che essa assume negli approcci precedentemente esposti, in cui il
territorio è visto come fattore di produzione sui generis.
7.4.5 Il GREMI e il "milieu innovateur"
Con l'approccio del GREMI (Groupe de Reserche Européen sur les Milieux
Innovateur), l’attenzione è puntata sulla produzione di innovazioni e non sui
vantaggi competitivi e l'efficienza locale. Secondo gli studiosi di questa scuola, il
ruolo del territorio e del sistema locale (milieu) è caratterizzato dalla circolazione di
informazioni, codici, routine e strategie, che si sovrappongono alla determinazione di
prezzi e quantità da parte del mercato. Anche qui il territorio è visto come una realtà
multidimensionale, un luogo complesso in cui una comunità agisce e in cui sono
compresenti fattori sociali ed economici.
Nella visione del milieu innovateur, le innovazioni scaturiscono da un
continuo contatto fra il milieu e l'esterno. In aggiunta ad un’appropriata integrazione
del reticolo interno al milieu, emerge la necessità di una stabile connessione con il
mondo esterno al sistema locale. Si tratta dunque di tenere in vita due reti, una
territoriale, l'altra aterritoriale, dalla cui interazione si genera il meccanismo
dell'innovazione. La prossimità geografica da sola non è in grado di generare
rilevanti processi dinamici di creatività innovativa, così come non si può immaginare
un network sradicato dal territorio. Il punto di vista degli studiosi del milieu
innovateur si contrappone alle visioni che attribuiscono a fattori strettamente
endogeni la molla dello sviluppo e delle innovazioni nei sistemi locali. Lo sviluppo
"dal basso", se esiste, non è in grado di fare molta strada. Solidità e grado di
integrazione interna dei sistemi locali giocano un ruolo indispensabile.
Obiettivo dei teorici del GREMI è anche l'individuazione di dinamiche,
traiettorie, leggi di movimento dei milieux, prodotte dell'interazione fra reticolo
interno e reticolo esterno, in altre parole fra locale e globale (milieu-reseau). In
questi studi una particolare attenzione è rivolta all'esistenza eventuale o alla nascita e
all'evoluzione di forme di governance o coordinamento delle strategie collettive
interne al milieu.
262
7.4.6 L'approccio californiano
La dimensione spaziale entra anche nell'analisi degli studiosi californiani che,
a partire dagli anni '80, si occupano dei fenomeni di localizzazione industriale.
L'attenzione in questi lavori è posta, più che sul meccanismo dell'innovazione, sulla
tecnologia e i patterns di industrializzazione, con particolare riguardo alle
considerazioni sui processi di diffusione dell'innovazione tecnologica.
Storper (1995) sottolinea che la teoria economica tradizionale considera la
tecnologia come un dato esogeno. Dati i prezzi dei fattori in assenza di rigidità, il
libero gioco delle forze di mercato è in grado di far convergere le decisioni di ogni
singola impresa verso la tecnologia migliore, secondo un rigido criterio di efficienza.
A giudizio di Storper, invece, la realtà produttiva, in quanto immersa nell'incertezza,
è dominata da una pluralità di "mondi di produzione", retti da determinate
convenzioni o routines, per cui una tecnologia si impone sulle altre per ragioni più
complesse del semplice criterio di efficienza. L'incertezza viene concepita come
fattore propulsivo dell'innovazione. All'interno dei "mondi di produzione" vengono
creati i nuovi prodotti e la diversità appare il motore della produzione e della
domanda, e non il risultato di ostacoli o rigidità istituzionali. Le convenzioni e le
routines, essendo in grado di determinare la diversità prendono forma al di fuori dei
meccanismi di mercato, nonché costituendo delle untraded interdependencies
territorialmente determinate, sono alla base dell'interpretazione di Storper sul ruolo
del territorio.
Un altro contributo della scuola californiana riguarda lo studio dei patterns di
localizzazione industriale come processo di natura dinamica, in cui la divisione
(tecnica e sociale) del lavoro, insieme alla disintegrazione verticale del processo
produttivo, genera economie di agglomerazione ed effetti di tipo cumulativo (effetti
Verdoorn) di trasformazione strutturale dell'industria. È dato riscontrare due limiti. Il
primo riguarda il territorio che assume un ruolo passivo in quanto, trasformato in
funzione dei mutamenti tecnologici nei settori industriali, non sembra retroagire su
questi ultimi in nessun modo. Il secondo consiste nella sostanziale adesione ad una
visione deterministica delle dinamiche di sviluppo, descritte come un percorso a
stadi: localizzazione, agglomerazione, dispersione, rigenerazione traslata o
spostamento al centro (Storper e Walzer, 1989).
263
7.4.7 Krugman e la nuova geografia economica
Krugman (1991) ha analizzato più da vicino i problemi della localizzazione
nello spazio, nel tentativo di conciliare linguaggi e campi del sapere che hanno
apparentemente pochi punti di contatto. Il suo lavoro si è tradotto in una
modellizzazione delle decisioni localizzative, tramite l'introduzione di rendimenti
crescenti all'interno di uno schema teorico di matrice neoclassica. Secondo Krugman,
"il fenomeno della concentrazione geografica della produzione è una prova evidente
dell'onnipresente influenza di qualche genere di rendimenti crescenti"(Krugman,
1991; p. 16).
Krugman si ispira a Marshall riconoscegli il merito di avere individuato i
fattori che determinano le economie di agglomerazione a tutt'oggi studiate. Tali
fattori sono: un mercato di lavoratori specializzati, l'approvvigionamento di input
non scambiati sul mercato, gli spillover tecnologici fra le imprese appartenenti ad un
unico territorio. Tuttavia, la sua lettura di Marshall è sostanzialmente diversa da
quella che ha ispirato i teorici dei distretti industriali e forse è solo un riconoscimento
intellettuale. Le economie esterne all'impresa vengono trascurate da Krugman perché
troppo complesse da formalizzare, mentre tutta l'attenzione è rivolta alle economie di
scala interne all'impresa.
I fattori che entrano in gioco nella spiegazione di Krugman dei processi
dinamici di localizzazione sono i rendimenti crescenti, i costi di trasporto e i
movimenti migratori (a questi ultimi è legata la domanda del prodotto industriale). Si
tratta di grandezze quantificabili e utilizzabili in un modello formalizzato. Egli
afferma che da una circostanza sostanzialmente casuale prende l'avvio il processo
dinamico di localizzazione. Tale casualità è una condizione iniziale che si identifica
con un accidente storico. La storia, e quindi anche il territorio in quanto sedimento
storico, entra nell'analisi come condizione iniziale e accidentale.
Il territorio appare svuotato dei significati attribuiti dagli altri autori finora
menzionati, per cui la concentrazione geografica viene spiegata semplicemente in
termini di vantaggi derivanti dai minori costi di trasporto.
7.5 La politica industriale e il ruolo delle istituzioni
Si è visto precedentemente come i distretti industriali siano nati per lo più
spontaneamente, in assenza d’interventi istituzionali mirati a questo scopo.
264
Ciononostante è indubbio che le istituzioni siano in grado di condizionare il contesto
e pertanto le possibilità di successo di un sistema locale di imprese. Nel definire le
opportune misure di politica economica, l’operatore pubblico deve tenere presente la
notevole variabilità dell'assetto produttivo locale, cercando di coniugare le sue
esigenze con la rigidità del sistema burocratico. Peraltro l’estrema mutevolezza degli
assetti locali si accompagna ad una loro notevole diversificazione che non rende
agevole le generalizzazioni, anche a proposito delle proposte di politica industriale.
La politica industriale a livello europeo è una novità recente, tutt’ora in via di
definizione. Va altresì ricordato che fino agli anni più recenti la sede privilegiata di
elaborazione delle misure di politica economica è stata quella nazionale, e per la
politica industriale lo è ancora. Le istituzioni comunitarie attualmente si propongono
di incentivare e possibilmente coordinare le politiche nazionali, senza tuttavia avere
su queste alcun potere vincolante.
Lo strumento più efficace della politica industriale europea sono i Fondi
Strutturali, finanziamenti assegnati a specifici progetti di sviluppo, di carattere
prevalentemente regionale. Le risorse finanziarie a disposizione della CE per queste
misure sono ancora decisamente ridotte rispetto a quelle nazionali. Ciò nonostante,
sembra ormai irreversibile un processo di progressiva delega di autorità da parte
dell’autorità nazionale di politica economica a quella sovranazionale.
In Italia la politica industriale è stata spesso improntata al sostegno
dell’occupazione, ed in questa logica ha adottato misure orientate al sostegno delle
grandi imprese; le piccole hanno goduto solo dei vantaggi indiretti, provenienti dagli
stimoli alla domanda aggregata, soprattutto attraverso la svalutazione del tasso di
cambio, prima dell’ingresso nell’Unione Europea.
La politica fiscale è spesso percepita dalle piccole imprese come
particolarmente vessatoria. Il fenomeno dell'evasione fiscale, ad esempio, è il riflesso
e la causa, in un circolo vizioso difficile da rompere, di una pressione fiscale che la
piccola imprenditoria considera estremamente elevata. Resta tuttavia uno strumento
ancora disponibile a livello nazionale, benché si debba osservare che qualsiasi
misura di politica economica che agisca in modo indifferenziato sul territorio non
incide in modo adeguato sulle differenti problematiche locali, specie in un caso come
quello italiano in cui appaiono particolarmente diversificate.
265
Gli interventi di politica industriale a livello locale sono tendenzialmente
configurabili come "politiche dell'offerta", orientate ad accrescere la competitività
dei sistemi d’imprese agendo su fattori diversi dai costi di produzione.
Esistono diverse strade, percorribili anche congiuntamente, per potenziare la
competitività delle risorse locali: i consorzi per la fornitura di servizi reali alle
imprese, la consulenza finanziaria, la formazione professionale e qualificazione della
forza-lavoro, le scuole per la formazione di dirigenti e imprenditori, le politiche del
credito in favore di un ruolo attivo delle banche locali, le strutture di trasferimento
tecnologico per la diffusione di informazioni ed eventualmente per la promozione di
strategie locali di ricerca e sviluppo. In sintesi, l'accento delle politiche locali va
posto preferibilmente sulle potenzialità innovative di ogni singolo sistema locale e
sulla sua integrazione produttiva interna.
Quanto più le politiche sono in grado di intervenire sul processo di
apprendimento delle strutture produttive, tanto più i distretti industriali riusciranno a
dotarsi di una sufficiente autonomia e di una capacità crescente di autosostenere il
proprio sviluppo. Senza dubbio, tale processo di apprendimento dipende dalle risorse
tecnologiche e informative disponibili, ma anche e soprattutto dalle risorse umane.
La principale arma strategica a favore delle istituzioni locali è il contatto diretto con
gli individui che partecipano attivamente al sistema produttivo locale, il cui
coinvolgimento risulta indispensabile. Altrettanto indispensabile risulta la capacità di
individuare - da parte delle istituzioni locali - sia i punti di forza, sia dei fattori di
debolezza.
Le istituzioni, da un lato, fanno parte del reticolo di comunicazione interna al
sistema locale, dall'altro, consentono uno sguardo e una mediazione con l'esterno, a
livello regionale, nazionale ed internazionale. Alle istituzioni locali compete
generalmente un ruolo di pianificazione strategica e di collegamento fra attori,
problemi e politiche sia interni sia esterni al sistema locale. L’eccessiva
polverizzazione dei soggetti economici e dei decisori all'interno dei distretti
industriali – come già accennato – ha spesso impedito l’espressione di un leader.
I prossimi tre paragrafi sono un tentativo di ricostruzione delle politiche
economiche fino ad oggi progettate in favore delle PMI e dei distretti industriali, a
livello europeo, nazionale e regionale. Delle politiche europee verrà tracciato un
quadro generale, mettendo in rilievo gli aspetti che riguardano esclusivamente le
PMI (par. 5), dato che non esistono politiche europee in favore dei distretti
266
industriali. A livello nazionale, nel corso degli anni ’90, è stato invece concepito un
disegno di politica economica con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo dei distretti,
per cui nel paragrafo 6 si discutono gli incentivi alle PMI e ai distretti, accennando,
infine, nel paragrafo 7 alla normativa regionale ed, in particolare, a quella adottata
dalla Regione Piemonte, in attuazione della normativa nazionale sui distretti
industriali.
La ricostruzione delle iniziative in favore di PMI e distretti corre il rischio di
non essere pienamente esaustiva, per diverse ragioni. In ambito europeo, perché gli
incentivi sono dispersi e ramificati in una lunga catena di voci e sottovoci del
bilancio comunitario. In ambito nazionale, in quanto non esiste un vero e proprio
quadro complessivo di politiche, ma ci si deve orientare in mezzo ad un groviglio
normativo, con il rischio di perdere di vista qualche provvedimento di non secondaria
importanza.
Il fine ultimo di questo sforzo resta comunque quello di fornire una
descrizione sintetica degli orientamenti di fondo delle politiche esistenti,
evidenziando le eventuali interazioni politico-economiche esistenti a livello europeo,
nazionale e regionale.
7.6 La struttura della politica economica della CE con
particolare riferimento alle PMI
Le politiche europee di incentivo alle PMI non si limitano a quelle che
traggono origine da specifiche voci di spesa del bilancio comunitario, essendo
possibile identificare alcune fonti di incentivi indiretti allo sviluppo pur non essendo
sempre esplicitamente nominate.
Anzitutto occorre sottolineare come, nell’ambito delle politiche comunitarie,
non venga recepito né utilizzato il concetto di distretto industriale. Le politiche della
CE, infatti, si riferiscono solo alle PMI, rispetto alle quali, di norma, si punta al
finanziamento di programmi di sviluppo anziché di singoli progetti, non essendovi
peraltro alcuna preclusione a che questi programmi possano coinvolgere gruppi di
imprese territorialmente localizzati.
Nel presente paragrafo verrà delineato il quadro generale degli interventi di
politica economica della CE, cercando di dare maggior peso alle parti che
coinvolgono direttamente o indirettamente la Pmi per cui il sottoparagrafo 1 si
267
occuperà di descrivere le spese del bilancio comunitario; il 2 degli interventi della
CE in termini di normative con particolare riguardo al problema della definizione di
Pmi e il canale di incentivo alle Pmi attraverso gli Aiuti di Stato; nel sottoparagrafo 3
verranno delineate le prospettive di intervento futuro.
7.6.1 Le spese del bilancio comunitario
La struttura della spesa comunitaria si articola in numerose voci e sottovoci.
A parte le spese amministrative di funzionamento, che assorbono il 5 per cento del
bilancio, in ordine di importanza sul bilancio totale, è dato rilevare le spese per:
- la garanzia dei mercati agricoli (46,5 per cento);
- le politiche strutturali (33.1 per cento);
- le politiche interne (5.7 per cento);
- la cooperazione con i Paesi terzi (6.2 per cento).
Non tratteremo qui né della prima né dell’ultima categoria. Si noti soltanto
che l’incidenza della politica agricola, sebbene ancora oggi assorba quasi la metà
delle risorse comunitarie, risulta in progressiva flessione rispetto al 1988, anno in cui
si attestava al 58.4 per cento del bilancio. Le politiche strutturali mostrano invece
un’evoluzione opposta alla precedente, a fronte di un 1988 in cui rappresentavano
solo il 17,9 per cento delle spese.
Politiche strutturali e Fondi strutturali
Le politiche strutturali hanno come obiettivo generale la “coesione economica
e sociale” dei Paesi membri, ovvero la riduzione degli squilibri economici e sociali
esistenti, attraverso la solidarietà dei paesi più favoriti rispetto a quelli più deboli
all’interno della Comunità. La maggior parte di queste politiche sono finanziate
attraverso i Fondi strutturali (FESR, FSE, FEOGA, SFOP, Fondo di Coesione), il cui
intervento è disciplinato dai regolamenti comunitari, secondo logiche di carattere sia
geografico sia tematico.
Sono di carattere geografico i seguenti obiettivi:
- Obiettivo 1: sviluppo e adattamento strutturale delle regioni in ritardo di
sviluppo. Le regioni italiane coinvolte sono tutte quelle del Mezzogiorno.
Gli interventi prevedono il sostegno agli investimenti produttivi, la
268
creazione di infrastrutture e di servizi essenziali per lo sviluppo delle
regioni e delle Pmi.
- Obiettivo 2: riconversione economica della zone in declino industriale. Le
regioni italiane interessate sono: Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia,
Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Valle
d’Aosta, Veneto. Gli interventi previsti riguardano l’investimento in
nuove attività produttive, la costruzione di infrastrutture, la tutela
ambientale e la realizzazione di servizi alle Pmi, con particolare interesse
per la creazione di nuova occupazione.
- Obiettivo 5b: sviluppo e adattamento strutturale delle zone rurali. Le
regioni e province italiane coinvolte sono: Bolzano, Emilia-Romagna,
Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte,
Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto, Trento.
Sono di carattere tematico i seguenti obiettivi:
- Obiettivo 3: lotta alla disoccupazione di lunga durata. Gli incentivi sono
principalmente orientati all’inserimento professionale dei giovani e dei
disoccupati di lunga durata attraverso strutture di formazione e
collocamento.
- Obiettivo 4: formazione e riqualificazione professionale dei lavoratori
delle industrie in trasformazione.
- Obiettivo 5a: adeguamento delle strutture di trasformazione e
commercializzazione dei prodotti dell’agricoltura e della pesca alla
riforma della politica agricola comune.
Le Pmi sono esplicitamente coinvolte nei piani d’intervento per gli obiettivi
di carattere geografico, pur potendo essere interessate anche da quelli di carattere
tematico. Dalla terza conferenza europea dell’artigianato e delle piccole imprese,
tenutasi a Milano il 20 e 21 novembre 1997, si sta progressivamente affermando, in
ambito europeo, l’idea che le Pmi siano una risorsa o un canale decisivo per
fronteggiare il problema della disoccupazione.
Come già anticipato, raramente i Fondi strutturali finanziano singoli progetti;
avendo per lo più ad oggetto programmi di sviluppo, frutto di una concertazione fra
stati membri, regioni, parti sociali e Commissione. I programmi di sviluppo sono di
tre tipi:
269
1. Programmi di iniziativa nazionale (PIN), a loro volta suddivisi in Piani
regionali di sviluppo e Documenti unici di programmazione. Sono
elaborati, proposti e presentati dagli Stati membri e approvati dalla
Commissione dopo processi burocraticamente più o meno articolati di
rifinitura e perfezionamento;
2. Programmi di iniziativa comunitaria (PIC). Vengono elaborati a livello
di Commissione europea sulla base di analisi fornite dai Paesi membri
sui settori critici. Definiscono le aree, le priorità e le modalità tecniche
dell’intervento. Su otto iniziative di questo tipo, lanciate dalla CE per il
periodo 1994-99, una è esplicitamente rivolta a sostenere la
competitività internazionale delle Pmi delle regioni identificate dagli
obiettivi 1, 2, 5b;
3. Azioni innovatrici o Progetti pilota. Si tratta di singoli progetti di
carattere sperimentale finalizzati a preparare nuove politiche.
Politiche interne
Il peso delle politiche interne nel bilancio comunitario complessivo è
decisamente inferiore rispetto a quello dei Fondi strutturali, pur risultando gli
incentivi alle Pmi organizzati in modo più organico.
Le politiche interne sono divise in quattro settori principali: la ricerca, lo
sviluppo delle Pmi, l’ambiente e l’istruzione. Tutti questi interventi toccano, anche se
alcuni solo indirettamente, il mondo delle Pmi, tuttavia qui l’attenzione sarà puntata
su quello in cui le Pmi sono poste in primo piano.
Nel 1989 è stata istituita la Direzione generale XXIII per la “Politica delle
imprese, il commercio, il turismo e l’economia sociale”, deputata a coordinare le
iniziative di politica interna a favore delle Pmi. Il programma di interventi è diviso in
tre sezioni:
1. Sezione partenariato, volta a favorire la cooperazione fra imprese
attraverso sette iniziative:
- Bc-net: rete informatica a carattere commerciale in cui si incontrano
domande e offerte di cooperazione fra Pmi europee e non;
- Bre (Bureau de rapprochement des enterprises): sistema di raccolta di
offerte di collaborazione centralizzate a Bruxelles cui le imprese
hanno accesso diretto;
270
- Europartenariato: manifestazione che si svolge due volte l’anno in una
delle aree identificate dagli obiettivi geografici 1, 2, 5b, con lo scopo
di promuovere lo sviluppo della regione ospite;
- Interprise: finanziamento fino al 50 per cento delle iniziative orientate
a promuovere la cooperazione fra imprese;
- Subfornitura: azioni volte alla diffusione di informazioni, al
miglioramento della trasparenza dei mercati, alla promozione dei
rapporti fra committenti e imprese di subfornitura;
- GEIE (Gruppo europeo di interesse economico): associazione di
persone fisiche e giuridiche senza scopi di lucro, diretta a fornire
servizi vari ai propri membri.
2. Sezione informazione. Si occupa di aprire Eurosportelli in tutto il
territorio europeo, appoggiandosi a istituzioni e organismi locali (enti di
sviluppo regionale, organizzazioni socioprofessionali, camere di
commercio). Gli Eurosportelli (attualmente 214) forniscono informazioni
sulle opportunità offerte dalla CE.
3. Sezione finanze. Ha lo scopo di reperire capitali di rischio per le imprese
di nuova costituzione presso istituti finanziari specializzati, la cui
partecipazione al capitale delle imprese non può superare la soglia del 50
per cento. Vengono anche ammessi a questo finanziamento progetti
transnazionali ad alta tecnologia.
7.6.2 L’azione regolamentativa della Comunità Europea
Oltre che attraverso le spese del bilancio comunitario, la CE agisce
politicamente anche sul piano normativo. È possibile richiamare due tipi di
intervento: la disciplina degli Aiuti di Stato e la definizione di Pmi.
Aiuti di Stato
La disciplina sugli Aiuti di Stato è una tipologia di interventi molto limitata e
indiretta da parte della CE, in grado tuttavia di mantenere una sua influenza sulle
politiche nazionali. L’erogazione di incentivi finanziari avviene a carico dei singoli
stati membri, in base a leggi e normative che limitano la discrezionalità degli stati
membri ai sensi dell’articolo 92 del Trattato di Maastricht. Tale vincolo impedisce
271
l’erogazione di incentivi, fiscali o finanziari, incompatibili con il mercato comune, al
fine di evitare che si creino vantaggi specifici all’impresa o alle imprese interessate,
incidendo sugli scambi fra stati membri.
La disciplina degli Aiuti di Stato consente di inserire deroghe a questo
vincolo, permettendo in questo modo un più ampio margine di manovra rispetto a
quello ammesso dalla legislazione comunitaria.
Come si vedrà, la disciplina degli Aiuti di Stato ha consentito in Italia
l’approvazione di diversi aiuti statali alle imprese ed in particolare alle Pmi:
agevolazioni per il Mezzogiorno e le aree depresse, per la ricerca e lo sviluppo, per la
cooperazione fra imprese. Essa fa sì che la CE intervenga in presenza di vincoli di
bilancio al fine di favorire un certo coordinamento fra le diverse politiche nazionali,
pur in presenza di una considerevole - per quanto decrescente - eterogeneità di
obiettivi da parte dei singoli stati membri rispetto a quelli della CE, oltre che in
termini di strumenti di politica economica utilizzati.
Definizione di piccola e media impresa
Dall’inizio degli anni ’90 si è posta, in ambito europeo, l’esigenza di fissare
opportune convenzioni per la definizione di piccola e media impresa. Si tratta di
un’esigenza pratica di estremo rilievo e politicamente non neutrale, per la stessa
distribuzione dei finanziamenti. Essa risulta legata ad un obiettivo di armonizzazione
e coordinamento delle differenze fra gli stati membri che si riflettono anche sulle
diverse definizioni di Pmi esistenti.
I parametri per la definizione di Pmi sono stati stabiliti per la prima volta con
la Disciplina comunitaria del 20 maggio 1992. Con la Raccomandazione della
Commissione 3 aprile 1996 vengono modificate le modalità per la loro
determinazione e le soglie finanziarie applicate.
Sebbene la Raccomandazione non sia uno strumento giuridico vincolante per
i singoli stati membri con essa si attribuisce legittimità ai comportamenti ad essa
conformi. Con la Raccomandazione del 1996 si raggiunge una vera e propria
armonizzazione delle diverse definizioni esistenti e si allarga la sua applicazione
operativa a diversi ambiti, anziché alla sola disciplina degli Aiuti di Stato, per la
quale era invece esclusivamente concepita la disciplina del 1992. In tutti i nuovi
regimi di aiuto viene oggi applicata la definizione di Pmi della Raccomandazione del
1996, che utilizza i seguenti parametri:
272
1. numero dei dipendenti, misurato in “unità lavorative-anno” (ULA) e
comprendente anche i lavoratori a tempo parziale e stagionali:
piccola impresa: meno di 50,
media impresa: meno di 150;
2. fatturato netto:
piccola impresa: meno di 7 milioni di Ecu,
media impresa: meno di 40 milioni di Ecu;
3. attivo dello Stato patrimoniale:
piccola impresa: meno di 5 milioni di Ecu,
media impresa: meno di 27 milioni di Ecu;
4. partecipazione al capitale da parte di imprese di grandi dimensioni:
piccola impresa: massimo 24,99 per cento,
media impresa: massimo 24,99 per cento.
Le imprese sono considerate piccole o medie se rispettano i parametri 1, 4 e
almeno uno dei parametri 2 e 3.
Vi sono, peraltro, due limiti. In primo luogo, non viene definita la natura
dell’attività di impresa, per la quale si rinvia alle definizioni vigenti nelle singole
legislazioni nazionali, con la conseguenza che non esiste uniformità su ciò che si
intende per impresa, e se, per esempio, i prodotti dell’attività intellettuale vadano o
meno annoverati fra le possibili attività d’impresa.. In secondo luogo, le imprese
artigianali sono escluse dalla definizione, che resta delegata ai singoli stati membri.
7.6.3 Le prospettive future della politica economica
comunitaria
La politica economica comunitaria per il prossimo futuro è dominata da due
orientamenti, parzialmente conflittuali. Da un lato, si auspica e si organizza
l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est europeo, dall’altro lato, prevale una
generale riluttanza degli Stati membri verso nuove politiche comunitarie, che
prevedano la possibilità di ampliare il bilancio comunitario con l’introduzione di
nuove risorse finanziarie.
Il bilancio comunitario resterà, per i prossimi anni, fissato all’1,27 per cento
del Pil comunitario, di cui lo 0,46 per cento viene destinato ai Fondi strutturali; un
273
eventuale aumento delle risorse finanziarie disponibili è quindi legato alla crescita
del Pil comunitario.
Il nuovo periodo di programmazione dei Fondi strutturali va dal 2000 al 2006
ed il loro progetto di riforma è delineato nel documento “Agenda 2000”, presentato il
16 luglio 1997 dalla Commissione europea alla sessione plenaria del Parlamento. Gli
orientamenti della Commissione sulla riforma dei Fondi strutturali consistono in un
accorpamento degli obiettivi esistenti in tre soli obiettivi.
L’obiettivo 1 rimarrebbe tale e quale, mantenendo il suo ruolo prioritario.
Verrebbe tuttavia applicato con maggiore rigore, con qualche conseguenza per
alcune regioni del meridione italiano tra cui il Molise, la Sardegna e forse la Puglia,
escluse dall’obiettivo 1 in quanto il loro Pil supererebbe il 75 per cento della media
europea.
L’obiettivo 2 accorpando anche l’attuale obiettivo 5b, comprenderebbe una
nuova finalità, probabilmente la sola reale novità della riforma disegnata:
l’introduzione di finanziamenti per le aree urbane in condizioni di degrado sociale ed
economico.
Gli obiettivi occupazionali 3 e 4 verrebbero infine unificati in un terzo
obiettivo orizzontale o tematico.
Ai PIC verrà dedicata una quantità di risorse complessivamente inferiore (il 5
per cento dei Fondi anzichè il 9 per cento attuale), ma distribuita su un numero di
progetti inferiore all’attuale, che si ridurrebbero da quattordici a tre: (1) programmi
di cooperazione interregionale e transfrontaliera (Interreg, Regis); (2) programma per
lo sviluppo rurale (Leader); (3) programma per l’occupazione, le risorse umane e le
pari opportunità, con esclusione del progetto specifico di aiuto alle Pmi,
presumibilmente coinvolte nel programma complessivo di intervento per
l’occupazione.
Nel complesso, gli orientamenti di politica economica della CE sembrano
ancora caratterizzati da una linea poco interventista, perché molto attenta alle
esigenze di rigore finanziario sancite con il Trattato di Maastricht.
274
7.7 Lineamenti della politica economica italiana di incentivo
alle Pmi e ai distretti industriali
La politica economica italiana non sembra suscettibile di un’esposizione
schematica e ordinata come quella europea, in quanto è stata in passato oggetto di
diversi mutamenti di indirizzo. Peraltro, l’ambito nazionale è stato, finora, il luogo
primario dell’intervento pubblico in economia, nonostante, da un lato, la crescente
spesa pubblica per interessi negli anni ’80 e, dall’altro, l’opera di risanamento del
bilancio pubblico negli anni ’90 abbiano sicuramente ristretto i margini di manovra
per una politica di sussidio alle Pmi.
Il ruolo dell’Europa acquista rilevanza crescente sul piano del coordinamento
delle politiche e della compatibilità fra politiche nazionali e politiche europee, pur
non arrivando ad essere sufficientemente incisivo, per quanto riguarda i sussidi
finanziari alle Pmi, in quanto le possibilità di spesa della CE restano vincolate
all’1,27 per cento del Pil comunitario.
Nel presente paragrafo verranno delineate alcune caratteristiche della politica
di incentivo alla Pmi in Italia nell’ultimo ventennio (7.1), con particolare attenzione
agli interventi ed al quadro normativo predisposti in favore dei distretti industriali
(7.2).
7.7.1. Principali incentivi finanziari per le Pmi in Italia
La legislazione in favore delle Pmi durante gli anni 80 segue due linee
principali: gli incentivi per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione tecnologica, da un
lato, il credito all’esportazione e alla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo,
dall’altro. Entrambi questi orientamenti, e soprattutto il secondo, sembrano perdere
d’importanza nel corso degli anni 90. Nell’ultimo decennio, infatti, l’attenzione del
legislatore si concentra sul sostegno alle Pmi all’interno del paese ed, in particolare,
nelle aree depresse. Inoltre la legislazione degli anni 90 non si limita ad identificare
le Pmi con l’imprenditoria giovanile o con le cooperative, non ponendosi unicamente
il problema dell’innovazione tecnologica, ma anche quello della cooperazione fra
Pmi e quindi, almeno parzialmente, del loro rapporto col territorio. Gli interventi in
favore delle Pmi vengono, qui di seguito, raggruppati ed esposti per tipologia.
275
Ricerca e sviluppo
Le leggi sugli incentivi per la ricerca e lo sviluppo risalgono agli anni ’80
(leggi 46/82 e 346/88).
Con la legge 46/82 vengono stanziati 1700 miliardi di lire nel biennio 1982-
83 al “Fondo speciale per la ricerca applicata” i cui beneficiari sono imprese
industriali, consorzi fra imprese industriali, enti pubblici economici che svolgono
attività produttiva, società e centri di ricerca. Il Fondo finanzia progetti di ricerca
scientifica e tecnologica applicata di carattere sia privato sia pubblico. Viene
esplicitamente previsto, fra le iniziative finanziabili, il trasferimento alle Pmi “delle
conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali” (Art.3). Inoltre, è
contemplata la concessione di contributi alle Pmi da parte dell’IMI, “a fronte di spese
sostenute per lo svolgimento di ricerche di carattere applicativo” (Art.4). Viene
quindi istituito un “Fondo speciale rotativo per l’innovazione tecnologica” (Art.14).
Con la legge 346/88 viene previsto il finanziamento di programmi
internazionali e comunitari di ricerca applicata di importo superiore a dieci miliardi
di lire. La copertura ammessa (in termini di contributi in conto interessi su mutui
stipulati dall’IMI), può arrivare fino al 40 per cento del costo se i progetti sono
presentati da Pmi o da imprese operanti nel Mezzogiorno, ovvero nel caso in cui
presentino “particolare rilevanza tecnologica anche in materia ambientale ed elevato
rischio industriale”.
Provvedimenti speciali
Le cooperative e l’imprenditoria giovanile sono i destinatari dei
provvedimenti speciali predisposti negli anni ’80.
Con la legge 49/85 viene istituito il Foncoper, fondo per la promozione e lo
sviluppo delle cooperative, dotato di 90 miliardi, 20 dei quali da investire per
l’esercizio finanziario 1984. Le cooperative attingono inoltre ad un fondo speciale a
salvaguardia dei livelli di occupazione.
La legge 44/86 stabilisce misure straordinarie per l’incentivo
all’imprenditoria giovanile nel Mezzogiorno, con priorità: (i) ai progetti che
prevedano la valorizzazione delle “risorse locali”, comprovati da studi di fattibilità;
(ii) alle iniziative ubicate nelle zone a più alto livello di disoccupazione; (iii) alle
cooperative.
276
Negli anni ’90 questa linea di intervento in favore dell’imprenditoria
giovanile è mantenuta (v. Legge 95/95, recante disposizioni urgenti per la ripresa
delle attività imprenditoriali) ed i provvedimenti speciali di incentivo all’economia e
alle Pmi si fanno più articolati.
Ne sono un esempio la legge 317/91 per l’innovazione, lo sviluppo e la
cooperazione delle Pmi e dei distretti industriali; la legge 341/95 con cui si istituisce
la “Cabina di regia nazionale” per l’utilizzazione e il coordinamento dei Fondi
strutturali della CE mediante la promozione di iniziative, il monitoraggio, nonché il
controllo dell’attuazione degli interventi e dei risultati; la legge 598/94, varata al fine
di razionalizzare l’indebitamento delle società per azioni possedute dallo Stato, con
cui viene regolamentato il credito privilegiato alle Pmi, finalizzato a “operazioni di
consolidamento a medio e lungo termine di passività a breve nei confronti del
sistema bancario” e agli “investimenti per l’innovazione tecnologica e la tutela
ambientale” (Art.11); la legge 488/92, sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno,
in favore delle aree depresse del territorio nazionale ed infine la legge 313/93 in
favore delle aree siderurgiche in crisi.
Agevolazioni per il commercio con l’estero
Gli incentivi al commercio estero sono orientati genericamente verso i Paesi
in via di sviluppo negli anni ’80, mentre negli anni ’90 sono principalmente
indirizzati agli scambi con i Paesi dell’Est europeo.
Con la legge 394/81, l’ICE è autorizzato a stipulare convenzioni con aziende
agricole, Pmi, consorzi operanti in paesi al di fuori della CE. A questo fine, vengono
stanziati 50 miliardi per il triennio 1981-83, per finanziamenti a tasso agevolato.
I rapporti con i Paesi in via di sviluppo sono più organicamente disciplinati
dalla legge 49/87, in cui sono previsti anche crediti agevolati per la costituzione di
joint ventures nei paesi extra CE.
Le leggi 100/90 e 212/90 promuovono le joint ventures con i paesi
dell’Europa centrale e orientale. Viene istituita la SIMEST s.p.a. per il sostegno
“finanziario, tecnico-economico e organizzativo di specifiche attività di
investimento”, con preferenze per le Pmi, anche in forma cooperativa. Al comitato
interministeriale per la politica economica estera (CIPES) viene assegnato il compito
di coordinare le iniziative di collaborazione, approvando i relativi programmi
277
intergovernativi, bilaterali o multilaterali. Nella scelta fra progetti alternativi, viene
assegnata una priorità alle iniziative da realizzarsi nell’ambito del coordinamento
della CE e delle altre organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte.
7.7.2 Politiche in favore dei distretti industriali
Un’attenzione particolare va rivolta alla legge 317/91, che prende in
considerazione, come unità produttive di riferimento, i distretti industriali. Sebbene
nell’ambito degli interventi nazionali ed europei, questa legge costituisca un caso
isolato, nulla esclude che essa possa essere considerata un precedente per una futura
politica economica più organica in favore dei sistemi locali d’imprese, anche e
soprattutto in ambito europeo.
I distretti vengono definiti come “aree territoriali locali caratterizzate da
elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra
la presenza delle imprese e la popolazione residente, nonché alla specializzazione
produttiva dell’insieme delle imprese” (Art.36). Partendo da questa definizione,
puramente qualitativa, il legislatore si pone il problema di definire con esattezza che
cosa sia un distretto. La difficoltà consiste nel fatto che i sistemi locali d’imprese
assumono forme diverse fra loro, tanto da rendere inappropriato l’uso generalizzato
dello stesso termine “distretto industriale”, che ormai individua un caso particolare
fra i diversi possibili sistemi locali di imprese (aree di specializzazione produttiva,
distretti, aree sistema, reti di imprese, ecc.).
Il Decreto del Ministero dell’Industria del 21 aprile 1993 individua 5
parametri, che devono essere soddisfatti contemporaneamente, affinché un distretto
industriale sia legalmente riconosciuto, li elenchiamo di seguito:
1) indice di industrializzazione manifatturiera. La quota degli addetti
all’industria nell’area considerata deve essere superiore al 30 per cento
della media nazionale, oppure della media regionale nel caso in cui il
valore calcolato per la regione in questione è inferiore alla media
nazionale (è il caso delle regioni del Mezzogiorno, scarsamente
industrializzate);
2) indice di densità imprenditoriale. La quota di unità locali dell’industria
manifatturiera sulla popolazione totale dell’area deve essere superiore
alla media nazionale (con questo indice si intende garantire una
sufficiente numerosità di imprese nell’area geografica considerata);
278
3) indice di specializzazione produttiva. La quota di occupazione sul totale
degli addetti del settore manifatturiero deve superare il 30 per cento della
media nazionale. Per il calcolo di questo indice è previsto un certo
margine di discrezionalità delle regioni nel ricostruire la filiera
produttiva;
4) indice occupazionale del settore dominante. La quota degli occupati nel
settore dominante sull’occupazione manifatturiera locale deve essere
superiore al 30 per cento (con questo indice vengono favoriti i distretti
mono-settoriali);
5) indice di diffusione delle piccole imprese. La quota degli addetti nelle
piccole imprese sulla quota totale degli occupati nel distretto deve essere
superiore al 50 per cento (con questo indice vengono favoriti i distretti
caratterizzati da una diffusione di piccole imprese).
Questa parametrizzazione difficilmente può consentire di riprodurre in modo
opportuno la reale mappa dei distretti esistenti. A causa della forte disomogeneità dei
sistemi locali di imprese, molti potenziali distretti vengono esclusi per diversi motivi:
o perché includono al loro interno diverse specializzazioni, oppure perché sono
localizzati in centri urbani dove è alta la percentuale delle imprese terziarie, o ancora,
perché la dimensione delle imprese è maggiore di quella prescritta dal criterio legale.
Allo stesso modo, alcune aree che rispettano i parametri legali sono considerate
distretti anche se non ne presentano le caratteristiche tipiche, cioè le connessioni e il
rapporto collaborativo fra le imprese che vi appartengono.
Con la legge 266 del 2 agosto 1997 (legge Bersani) sono stati introdotti
elementi di flessibilità nella definizione di distretto industriale che consentono di
attenuare la rigida applicazione dei criteri basati esclusivamente sui parametri
statistici sopra esposti.
In generale, si può concludere che la rilevanza della legge 317/91 sui distretti
è legata alla novità concettuale introdotta in ambito legislativo. I distretti industriali
vengono riconosciuti per la prima volta come elementi unitari e attori dello sviluppo
locale. Il territorio assume rilevanza nell’intervento politico-economico rispetto al
settore produttivo o ai fattori di produzione, al punto che la natura e la prospettiva
dell’intervento stesso si ritrova modificato nel passaggio da un’ottica di incentivi alle
Pmi a quella degli incentivi ai distretti industriali.
279
Purtroppo sono stati realizzati soltanto pochi interventi concreti, a causa delle
lungaggini burocratiche, da un lato, e della scarsità di fondi, dall’altro.
7.8 La politica della regione Piemonte in favore dei distretti
industriali
La legge 317/91 concede alle regioni la possibilità di finanziare progetti
innovativi di più imprese, definiti sulla base di un contratto di programma fra la
regione in questione ed i consorzi di imprese. Assegna, quindi, alle regioni il compito
di individuare i distretti compatibili con i parametri già visti, defininendo l’oggetto
dei progetti. Il carattere innovativo degli investimenti è considerato prioritario
rispetto al semplice aumento quantitativo della produzione.
Fino ad oggi soltanto tre regioni hanno cercato di sostenere lo sviluppo dei
distretti industriali nel loro territorio. Si tratta di Lombardia, Toscana e Piemonte.
Poiché i provvedimenti legislativi regionali sono in realtà molto simili fra loro, ci
concentreremo su quelli della regione Piemonte. I destinatari delle agevolazioni
previste sono gruppi di imprese medie e piccole fra loro associate e consorziate.
Tre sono i possibili orientamenti dei progetti innovativi di sviluppo
finanziabili:
1) la valorizzazione delle risorse e delle conoscenze umane, tecniche e
produttive già esistenti o potenzialmente reperibili (servizi reali, agenzie,
consorzi);
2) lo sviluppo dell’imprenditoria locale e la qualificazione dei lavoratori, in
particolare di quelli impegnati in attività innovative;
3) la trasformazione e lo sviluppo del territorio, tramite processi di
diversificazione, riconversione delle strutture mature,
reindustrializzazione dei distretti in declino, ecc.
Specificamente, la legge regionale del Piemonte 24/97 prevede i seguenti tre
tipi di intervento:
1) predisposizione di programmi di sviluppo, documenti programmatici di
orientamento ed indirizzo in cui vengono evidenziati gli obiettivi e le
strategie di politica industriale locale da perseguire nel distretto in
considerazione (Art.2), redatti dai Comitati di distretto (cfr. sub 2) in
280
modo da rendere compatibili i progetti regionali con gli strumenti di
politica economica comunitaria e nazionale;
2) costituzione di Comitati di distretto, organismi con funzioni
organizzative e metadirezionali istituiti dalla Giunta Regionale su
iniziativa delle parti sociali e delle istituzioni locali. Il loro compito, oltre
alla redazione del programma di sviluppo, è di tipo consultivo: in
rappresentanza delle imprese del distretto industriale di riferimento,
infatti, il Comitato manifesta il proprio parere in merito ai progetti
innovativi avanzando proprie proposte di politica industriale alla Giunta
regionale;
3) finanziamento dei progetti innovativi di politica industriale concernenti
più imprese aventi ad oggetto, fra gli altri, la creazione di centri di servizi
alle imprese, la promozione di iniziative volte a penetrare i mercati esteri,
la creazione di sportelli informativi sulle normative regionali, nazionali e
comunitarie, il sostegno alla ricerca tecnologica e del design, la
formazione di sistemi di analisi, diagnosi e interventi di qualità e
certificazione dei prodotti, la predisposizione di reti telematiche e
strutture logistiche.
Attualmente non sembra possibile improvvisare alcuna valutazione sugli
effetti di questa legge regionale, in quanto i ritardi e la scarsità dei fondi erogati non
consentono di osservarne l’eventuale portata innovativa. In generale, sembra
ragionevole ritenere che l’effetto della legge in questione sui distretti industriali
piemontesi dipenderà in modo decisivo, oltre che dall’ammontare dei finanziamenti
disponibili, anche da come si configureranno le relazioni fra Giunta regionale e
Comitati di distretto, o fra questi ultimi e le istituzioni locali in senso lato.
Da ultimo merita di essere rilevato il fatto che il Piemonte, fra le regioni
italiane, è quella che presenta un numero di distretti “legali” (che rispettano i
parametri suaccennati) maggiore rispetto a quelli calcolati dal Ceris (25 contro 9).
Dei 25 distretti “legali”, divisi fra 499 comuni piemontesi, 14 sono stati classificati
nel settore tessile-abbigliamento, 8 nel settore meccanico, 2 nel settore alimentare e 1
nelle manifatture varie e oreficeria. Questa differenza fra il criterio legale-statistico e
la conformazione osservabile delle realtà produttive è dovuta sia a casi come quello
del distretto meccanico di Pianezza, che rispetta i parametri pur senza che si siano
instaurati legami di tipo distrettuale fra le imprese che vi fanno parte, sia a casi in cui
281
un unico distretto omogeneo dal punto di vista storico, produttivo e territoriale, come
quello tessile di Biella, viene suddiviso in tanti distretti separati, facenti capo a
diversi sistemi locali del lavoro.
7.9 Conclusione
Alla luce dei numerosi studi teorici sulle problematiche legate ai sistemi
locali di sviluppo, passati in rassegna nella prima parte di questo capitolo, si può
notare come il tentativo di ricostruire il quadro delle politiche economiche
s’interrompe necessariamente sul punto in cui l’interesse del presente lavoro
principalmente si concentra: i distretti industriali. Le politiche in favore dei sistemi
locali d’impresa rappresentano soltanto una minima parte degli interventi in favore
delle Pmi a livello nazionale in quanto vi è un consistente ritardo ed un’incerta
volontà operativa da parte delle istituzioni nel dare attuazione ai suggerimenti che
emergono dai numerosi studi degli ultimi trent’anni sui sistemi locali d’impresa.
Nelle politiche europee, invece, i distretti industriali, non essendo considerati
in modo specifico, beneficiano degli incentivi alle Pmi, che sono prevalentemente
inseriti in programmi d’intervento più ampi e coinvolgono una pluralità di soggetti.
Per questa ragione le politiche della CE sono compatibili con una logica d’incentivi
ai sistemi locali d’imprese, in quanto si prefiggono di raggiungere la cooperazione
fra una pluralità di attori economici e istituzionali.
Per quanto riguarda il coordinamento fra i diversi livelli d’intervento -
comunitario, nazionale e regionale - non si può certo ritenere che le politiche CE
siano oggi pienamente armonizzate con quelle nazionali. Tuttavia, in ambito
nazionale si osserva una crescente attenzione del legislatore verso la normativa
comunitaria, e soprattutto verso la compatibilità di quest’ultima con quella nazionale.
Si può ritenere che proprio quest’ultimo aspetto, ancor più della disciplina degli Aiuti
di Stato, determini il vero e proprio coordinamento fra gli orizzonti di politica
economica nazionale e comunitario.
Da questo quadro, tuttavia, le Pmi (o i distretti) non sembrano uscire
particolarmente avvantaggiate. I margini per una politica in loro favore sono ristretti,
a livello nazionale, da un vincolo prioritario di risanamento del bilancio pubblico e, a
livello comunitario, da un bilancio volutamente atrofico. Per quanto si riconosca che
le Pmi possano essere una considerevole risorsa anche per la lotta contro la
disoccupazione, gli orientamenti di politica economica diversi dall’obiettivo della
282
stabilità dei prezzi e dal postulato del rigore finanziario restano, in Europa come in
Italia, di secondaria importanza.
Il contesto politico e normativo che risulta da questa rassegna mal si accorda
con i suggerimenti di politica economica proposti nell’ambito della letteratura sul
tema dei sistemi locali di sviluppo. Sarebbe auspicabile che le istituzioni locali si
dotassero innanzitutto di strumenti in grado di raggiungere una visione il più
aderente possibile all'assetto del territorio di competenza. Si pone a questo punto il
problema di definire opportunamente i confini di tale territorio, dato che quasi mai la
suddivisione amministrativa in comuni, province e regioni è in grado di aderire alla
suddivisione economica in distretti o aree-sistema. Si pone anche il problema della
ricerca di indicatori sia del capitale umano a disposizione, sia in generale dello stato
dei bisogni e delle possibilità dell'area considerata. Alcuni strumenti analitici sono
stati ideati o adattati all'analisi descrittiva territoriale. Bramanti e Maggioni (1997)
prendono in considerazione alcuni strumenti di analisi, quali i modelli input-output
per lo studio delle connessioni intersettoriali e interregionali; quelli di lock-in per
l'analisi dei vantaggi agglomerativi; i modelli di equilibrio economico generale con
esternalità produttive con riferimento alle esternalità non pecuniarie; quelli ecologici
e di autorganizzazione per lo studio delle relazioni fra dinamiche macroeconomiche e
territoriali; l'analisi reticolare per provvedere un quadro più rigoroso della struttura
reticolare locale col fine di progettare strutture di governo appropriate. Nessuno di
questi è tuttavia in grado di descrivere in maniera appropriata il sistema produttivo
locale.
Sembra allora opportuno puntare l'attenzione sulla forma e sul ruolo che le
istituzioni dovrebbero assumere a livello locale, basandosi in parte su quelle già
esistenti e in parte sulle necessità, ancora parzialmente inespresse, dei sistemi locali
d’impresa. Gli studi in tema di istituzioni e modelli locali di sviluppo sottolineano tre
tipologie di istituzioni: l'agenzia di sviluppo locale, col compito di individuare
strategie innovative per il sistema locale nel complesso e superare il gap fra le sue
potenzialità e le sue effettive realizzazioni; i centri tecnologici e le agenzie di
diffusione delle innovazioni, col fine di concentrare risorse finanziarie, umane e
tecniche per compiere salti tecnologici che le singole imprese non sarebbero in grado
di attuare; centri di servizi reali alle imprese di natura consulenziale, con l’obiettivo
di rendere esplicite le domande latenti di servizi alla produzione, e successivamente
di attuarli, per via diretta o tramite incentivi ai privati.
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Anche questi temi non sembrano essere tenuti in sufficiente considerazione
nel quadro normativo a tutt’oggi esistente. In generale, si può ritenere essenziale il
potenziamento di una "cultura di sistema", cioè una visione condivisa all'interno del
sistema produttivo locale, sull'identità e sulla progettazione delle direzioni di
sviluppo da intraprendere. Creare consenso sociale, coordinamento, coinvolgimento
e collaborazione all'interno del sistema produttivo locale appare in definitiva come
un requisito irrinunciabile per la sua stessa sopravvivenza.