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Capitolo 1 Problemi di macroeconomia Nella macroeconomia si studiano i problemi di un sistema economico a livello aggregato; nell’ambito del corso si evidenziano, in particolare, le cause che possono influenzare l’andamento del reddito, il pieno impiego delle risorse e la determinazione del livello generale dei prezzi. A seconda delle diverse interpretazioni teoriche è possibile ipotizzare interventi diretti a modificare l’andamento previsto e a migliorare le performance del sistema e, possibilmente, la situazione economica degli operatori. 1.1 PIL e tasso di crescita. Il PIL, Prodotto Interno Lordo , misura l’insieme dei beni e servizi finali, prodotti da un sistema economico in un determinato periodo di tempo . Si tratta di una misura di flusso che indica la variazione di valore nel tempo, in genere nell’anno solare; il sistema economico si riferisce ovviamente all’ambito territoriale che può essere più o meno ampio , la regione Calabria – il Mezzogiorno – l’Italia – i paesi dell’Unione Europea etc.; si considerano solo beni e servizi finali per evitare sopravvalutazioni che si potrebbero verificare considerando prodotti che entrano nella produzione di altri beni , come ad es. il frumento la farina e la pasta; si misura in termini di valore cioè di quantità per i relativi prezzi; per evitare che la crescita del PIL nominale, determinata da un eccessivo aumento dei prezzi, possa

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Capitolo 1

Problemi di macroeconomia

Nella macroeconomia si studiano i problemi di un sistema economico a livello aggregato; nell’ambito del corso si evidenziano, in particolare, le cause che possono influenzare l’andamento del reddito, il pieno impiego delle risorse e la determinazione del livello generale dei prezzi. A seconda delle diverse interpretazioni teoriche è possibile ipotizzare interventi diretti a modificare l’andamento previsto e a migliorare le performance del sistema e, possibilmente, la situazione economica degli operatori.

1.1 PIL e tasso di crescita.

Il PIL, Prodotto Interno Lordo , misura l’insieme dei beni e servizi finali, prodotti da un sistema economico in un determinato periodo di tempo . Si tratta di una misura di flusso che indica la variazione di valore nel tempo, in genere nell’anno solare; il sistema economico si riferisce ovviamente all’ambito territoriale che può essere più o meno ampio , la regione Calabria – il Mezzogiorno – l’Italia – i paesi dell’Unione Europea etc.; si considerano solo beni e servizi finali per evitare sopravvalutazioni che si potrebbero verificare considerando prodotti che entrano nella produzione di altri beni , come ad es. il frumento la farina e la pasta; si misura in termini di valore cioè di quantità per i relativi prezzi; per evitare che la crescita del PIL nominale, determinata da un eccessivo aumento dei prezzi, possa

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essere scambiata per una crescita reale della quantità dei beni prodotti, si fa riferimento a serie misurate a prezzi costanti.

1.1.1 Il PIL nel lungo periodo. Il PIL, e specificamente il suo tasso di crescita, è considerato un

indicatore del livello di benessere di un sistema economico, visto che misura un aumento della quantità di beni e servizi a disposizione dei consumatori per soddisfare i loro bisogni. Ad esempio in Italia il PIL reale è aumentato di oltre quattro volte fra il 1960 e il 2001, passando da circa 250.000,00 miliardi di euro a più di un 1.000.000,00 di miliardi di euro; un incremento notevole che dà una misura sintetica, anche se molto approssimativa, della grande trasformazione che il paese ha avuto in questo periodo. Crescita evidenziata dall’aumento di tre volte della produttività del lavoro ( da 15.000 a 45.000 euro) nonostante una consistente contrazione dell’orario di lavoro, e da un analogo aumento del prodotto pro-capite (da 5.000 a 15.000 euro).

Tab.1.1.1 Prodotto Interno Lordo. Italia(Composizione percentuale. Vari Anni)

Settore 1960 1971 2001 2008

Agricoltura Silvicoltura

12,5 6 3 2

Industria e costruzioni

38,6 34 29 27

Servizi e P.A. 48,9 60 68 71

Totale 100 100 100 100

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Ovviamente l’aumento non è solo quantitativo ma è anche qualitativo, pensiamo all’insieme dei beni che oggi esistono e che quarant’anni fa , nel 1960, non esistevano come il personal computer ed internet, ma anche la grande disponibilità di prodotti alimentari, di abitazioni, di servizi sanitari, scolastici etc..

Nel complesso una grande trasformazione del sistema economico che si è attuato in un arco temporale che possiamo chiamare lungo periodo. Questo grande incremento della quantità prodotta si è basato su profonde trasformazioni del sistema produttivo. Per limitarci alla composizione del Pil si può osservare che è sensibilmente cambiato il peso dei diversi settori produttivi, agricoltura industria e servizi. Ancora nel 1960 il 12,50% del prodotto era realizzato dal settore dell’agricoltura, il 38% dal settore industriale, e il 48% dal settore dei servizi e della pubblica amministrazione. Una struttura produttiva in via di trasformazione che ha visto il settore agricolo pesare sempre meno: dal 12,50% nel 1960, al 6% nel 1971, al 3% del Pil nel 2001, al 2% nel 2008. Questo non significa che la produzione del settore agricolo si sia ridotta, al contrario la produzione agricola è cresciuta in valore assoluto così come è aumentato l’insieme delle produzioni degli altri settori , e soddisfa ampiamente le esigenze di alimentazione della popolazione nazionale. Anche il settore industriale pesa sempre meno, la produzione di beni manufatti è andata riducendosi in termini percentuali sulla produzione nazionale, passando dal 38,6% nel 1960 al 34% nel 1971 al 29% nel 2001, al 27% nel 2008, mentre è aumentata la produzione di servizi, che comprende anche la pubblica amministrazione, i servizi bancari e assicurativi, che sono passati dal 48,9% nel 1960 al 60% nel 1971, al 68% nel 2001, al 71% nel 2008. Una grande trasformazione del nostro paese che è passato da una struttura produttiva basata sull’agricoltura, ad una incentrata sull’industria per arrivare infine ad una struttura produttiva essenzialmente di servizi.

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Se in cinquant’anni l’economia italiana ha fatto registrare nel complesso una crescita consistente del PIL, con un’analisi più attenta si possono evidenziare andamenti diversi nei vari periodi. Infatti se, pur nell’ambito dello stesso lungo periodo, si considerano periodi di tempo più brevi si può notare una costante diminuzione dei tassi medi di crescita del PIL sino ad un livello prossimo alla stagnazione. Consideriamo in particolare quattro periodi : il primo 1951 – 1972 rappresenta il periodo della ricostruzione e del boom dell’economia italiana; il secondo 1973 – 1982 rappresenta il periodo della grande crisi internazionale determinata dall’aumento del prezzo del petrolio; il terzo periodo 1983 – 2000 rappresenta un periodo di grande trasformazione nell’economia internazionale con la crescente integrazione dei mercati, la liberalizzazione dei mercati finanziari e monetari, la ricerca di nuovi assetti nel sistema monetario internazionale; l’ultimo periodo 2001 – 2007 si riferisce alla attivazione dell’Unione Economica e Monetaria fra i paesi europei, alla globalizzazione dei mercati e al sorgere della Cina e dell’India come nuove potenze economiche. Nel primo periodo, 1951 – 1972, il tasso medio annuo di crescita è stato del 5,3%; nel periodo 1973 - 1982 ha sempre continuato a crescere ma in misura inferiore pari al 3,2%. Fra il 1983 e il 2000, il tasso di crescita è ulteriormente diminuito e si è collocato in media al 1,6%. Tra il 2001 e il 2008 del tasso di crescita del PIL in Italia è stato in media dello 0,94%. L’incremento del prodotto che è stato particolarmente rilevante nell’arco di quarant’anni, ha fatto registrare in effetti, nel tempo, tassi medi di crescita sempre più bassi. Anzi alcuni autori hanno parlato con riferimento agli anni più recenti, dagli anni '90 in poi, di declino dell’economia italiana, che non avrebbe più la forza di crescere e di tenere il passo con gli altri paesi industriali.Il fatto che il tasso di crescita del PIL in Italia sia andato diminuendo, ha anche delle spiegazioni ovvie, sia con riferimento al periodo che nel confronto con gli altri paesi. Infatti se consideriamo il tasso di crescita medio dal 1951, il primo anno che segna la ripresa dopo la fine della seconda

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guerra mondiale, al 1972 possiamo notare che i tassi di crescita più elevati si sono verificati proprio nei paesi che hanno perso la guerra, il tasso più elevato è quello del Giappone 9,4% e subito dopo quello della Germania 5,7%, l’Italia 5,3%, la Francia 5%, gli Stati uniti 3,9% e il Regno unito il 2,8%.

Come mai questi paesi hanno avuto i tassi d’incremento dal reddito più elevati? Una prima spiegazione è meramente quantitativa. Questi paesi che per motivi bellici hanno subito distruzioni rilevanti ed hanno avuto un crollo dell’attività produttiva sono partiti da zero o da valori negativi del tasso di crescita, di conseguenza un piccolo aumento di produzione ha significato un incremento particolarmente rilevante in termini percentuali; mentre economie come quelle degli Stati Uniti, che alla fine della seconda guerra mondiale erano economie dal punto di vista produttivo non solo integre ma a pieno regime, avevano il problema della riconversione, cioè di passare da una economia di guerra a una economia di pace. Gli Stati Uniti producevano infatti armi, materiale bellico, viveri e mezzi, sostenendo anche lo sforzo bellico dei loro alleati, con un grande impegno

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1951-1972 1973-1982 1983-2000 2001-20080

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6PIL Italia 1951-2008

periodi

tass

i med

i

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produttivo: per essi il problema era quello di tornare ad un’economia di pace senza fare crollare l’attività produttiva.

L’altra spiegazione, che non va dimenticata, è che in questo secondo dopoguerra la scelta economica del paese vincitore, del paese economicamente dominante che erano ovviamente gli Stati Uniti, fu una scelta opposta a quella dei paesi vincitori del primo conflitto mondiale. Nel primo dopoguerra i paesi vincitori imposero alla Germania il pagamento in oro delle sanzioni di guerra, cioè il pagamento delle spese di guerra, contribuendo, da un lato, al depauperamento economico del paese, alla grande inflazione e al sorgere del nazismo in Germania e ponendo , allo stesso tempo, grossi limiti alla riconversione produttiva e alla ripresa dei paesi vincitori. Nel secondo dopoguerra la posizione degli Stati Uniti,invece, fu quella di sostenere il reddito dei paesi che avevano partecipato alla guerra, compresi quelli che l’avevano persa. Si mise in piedi un piano di aiuti internazionali, per quanto riguarda l’Europa il Piano Marshall, che, nella logica delle teorie keynesiane, si basava sui crediti che gli Stati Uniti facevano agli altri paesi per acquistare prodotti americani. Quindi, allo stesso tempo gli Stati Uniti prestavano i fondi e vendevano i prodotti, cioè mettevano a disposizione i mezzi per acquistare i loro prodotti. Questo meccanismo ha permesso agli altri paesi di ricostruire le loro economie e di rimettere in moto l’attività economica, portando ad un periodo di grande crescita per l’economia mondiale, o perlomeno una parte dell’economia mondiale.

Va anche precisato che chi costruisce nuove attività, nuovi impianti, può adottare le tecniche più produttive, i ritrovati e i prodotti più recenti, e quindi può avere tassi di crescita iniziali molto elevati, produttività molto elevata. Questo può contribuire a spiegare il forte incremento del tasso di produzione dell’Italia e degli altri paesi che avevano perso la guerra o che, come la Francia, erano stati territorio di belligeranza.

Negli anni seguenti a partire dal 1973 i tassi di crescita del PIL cominciano a diminuire. In quell’anno si verifica la prima crisi

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petrolifera: il prezzo del petrolio cresce bruscamente mettendo in crisi l’economia dei paesi industriali che utilizzavano, e continuano a utilizzare, il petrolio come materia prima; questi paesi si trovano improvvisamente a pagare una tassa petrolifera, una tassa che va al di fuori del paese verso i paesi produttori. Questi paesi produttori, come l’Arabia Saudita o gli emirati arabi, possono spendere solo una parte di questi fondi per acquistare prodotti dai paesi industriali, perché sono piccoli paesi, con livelli di popolazione poco consistenti, strutture sociali ed economiche poco sviluppate. Questa grande ricchezza, che si trasferisce dai paesi industriali ai paesi produttori di petrolio, non ritorna in termini di domanda di prodotti, ma piuttosto in termini di strumenti finanziari, di capitali che a livello internazionale cominciano a muoversi, a fare prestiti, ad acquistare imprese, cambia la distribuzione della ricchezza e la sua utilizzazione a livello internazionale. La prima reazione dei paesi industriali alla crisi petrolifera è quella di far pagare gli altri, cercando di esportare di più per pagare le importazioni di petrolio; ma non è possibile esportare tutti di più!! Alla fine nessuno riesce a farlo e i prezzi dei prodotti in competizione finiscono con il crollare con danno per tutti. In questo periodo i tassi di crescita del PIL dei paesi industriali diminuiscono rapidamente e arrivano anche per alcuni di essi, fra i quali l’Italia, a valori negativi.

Dopo il secondo shock petrolifero del 1980, la situazione cambia. Negli Stati Uniti c’è la presidenza Reagan, il dollaro è forte, il prezzo del petrolio cala, si cominciano a globalizzare i mercati , si determina una consistente liberalizzazione nel movimento dei capitali. In questo periodo si rimette in moto l’economia americana mentre il tasso di crescita del PIL in Italia si riduce ulteriormente.Negli anni novanta l’andamento dell’economia degli Stati Uniti e del Regno Unito comincia a differenziarsi rispetto a quello dell’economia tedesca, dei paesi europei e del Giappone. Il tasso di crescita degli Stati Uniti segna una media annua del 3,2% e nel Regno unito del 2,7% media annua, mentre in Italia è dell’1,6%, in Germania dell’1,3% e in Giappone dell’1% . In questi anni gli Stati Uniti vivono

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una grande trasformazione legata alla “nuova” economia dell’informazione: l’informatica che agli inizi degli anni 80 era usata principalmente per scopi bellici, viene applicata alla produzione civile, viene utilizzata dalle famiglie. Allo stesso tempo negli Stati Uniti e nel Regno Unito si realizza una forte liberalizzazione dei mercati, e specificamente del mercato del lavoro. I paesi europei, e specificamente l'economia tedesca ( che deve affrontare il costo della riunificazione), e l'economia giapponese fanno registrare invece in questi anni tassi di crescita più bassi. Le spiegazioni del rallentamento nei tassi di crescita sono diverse per i singoli paesi, ma hanno in comune una scarsa flessibilità del mercato del lavoro che, per garantire lo stato sociale, finirebbe con il sacrificare la crescita economica e l'occupazione.In questo contesto di rallentamento dei tassi di crescita del PIL che interessa tutti i paesi dell'Unione, l'Italia si distingue per avere avuto a partire dal 1992 tassi di crescita inferiori alla media europea. In effetti il tasso di crescita dell'economia italiana si presenta inferiore non solo rispetto a quelli di paesi come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, che partendo da livelli di reddito bassi hanno avuto in questi anni grandi incrementi nei tassi di crescita, ma anche nei confronti di paesi come la Germania e la Francia che dopo anni di crisi, sembrano avere imboccato la via della ripresa. L'andamento degli anni novanta dipende innanzitutto dalle scelte e dagli impegni assunti dai singoli paesi europei per aderire all'Unione Economica e Monetaria, che hanno portato all'adozione di politiche restrittive necessarie per rientrare nei parametri di Maastricht. Allo stesso tempo i paesi europei si sono trovati a competere in un mondo globalizzato dove stanno emergendo nuove realtà economiche, come la Cina e l'India, che hanno un costo del lavoro molto minore. In questo contesto le economie più dinamiche competono in termini di produttività, in termini di qualità dei servizi, quindi si spostano in settori all’avanguardia, realizzano grandi innovazioni nei processi produttivi, adottano tecniche nuove per poter competere. L'economia italiana, invece, stenta ad abbandonare i "vecchi" modelli di produzione basati su tecnologie intermedie e bassi

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costi del lavoro e ad inoltrarsi nei nuovi settori produttivi. Da ciò l'ipotesi di un "declino" dell'economia italiana che alcuni economisti hanno sostenuto in questi anni.

1.1.2 Il PIL nel breve periodo. Mentre nel lungo periodo il PIL si presenta nel complesso

crescente, quando consideriamo periodi di tempo più brevi l'andamento economico si presenta molto più articolato: a fasi di ripresa e di boom si susseguono fasi di recessione e di crisi che possono essere più o meno accentuate e avere una durata più o meno ampia. Questo susseguirsi di fasi di espansione e recessione è noto come ciclo economico che viene descritto in modo stilizzato in relazione all’andamento del tasso di crescita (g) :

A) si ha una fase di ripresa quando l’economia inizia a riprendersi dopo una fase di stagnazione e il tasso di crescita , che ha fatto registrare valori negativi, comincia a crescere;B) si determina una fase di boom , o di espansione, quando si verifica un’utilizzazione molto accentuata delle risorse e il sistema si avvicina al pieno impiego. Il tasso di crescita aumenta a tassi crescenti .

Figura 1.1.1 Andamento congiunturale

g g potenziale

C D g effettivo B

A

Tempo

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C) quando le risorse sono pienamente impiegate e il livello di reddito raggiunge il massimo, l’attività produttiva comincia a rallentare e il tasso di crescita aumenta a tassi decrescenti e tende a zero . Siamo in fase di rallentamento: il livello di produzione ha raggiunto l’espansione massima.

D) con la recessione e la crisi il tasso di crescita del PIL diventa negativo: le imprese cominciano a ridurre la produzione e l’utilizzazione delle risorse fermando gli impianti e licenziando lavoratori

Nella realtà le fasi del ciclo economico sono molto diverse per durata e dimensioni. Come si può vedere dalla figura 1 .1.2 il tasso di crescita del PIL in Italia, fra il 1983 e il 2009, presenta un andamento discontinuo con fasi di ampiezza più o meno grande e con tassi di crescita che possono variare sostanzialmente raggiungendo anche livelli negativi. In particolare il tasso di crescita si presenta prossimo allo zero nel 1997 e nel 2002 e negativo nel 1983 e, specialmente, nel 1993 quando la lira fu sottoposta a un forte attacco speculativo. Ma il crollo più rilevante si registra a partire dal 2008, con una caduta prossima al 6%.

Questo andamento fluttuante è l’andamento normale del ciclo economico, che può avere punte di crisi particolarmente rilevanti e avvitarsi su se stesso, come è successo con la grande depressione del 1929. In un contesto di crisi si riduce la produzione, aumenta la disoccupazione e si creano tensioni sociali. Nel boom si possono avere altri tipi di tensione, come un forte aumento del livello generale dei prezzi, l'inflazione, che può generare distorsioni nel funzionamento del sistema dei prezzi e nella distribuzione dei redditi. Gli economisti ritengono che l'andamento del tasso di crescita della produzione, nel breve periodo, dipenda essenzialmente da variazioni nella crescita

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della domanda aggregata, cioè della spesa che gli operatori fanno per acquisire beni e servizi sul mercato. Se infatti si determina un aumento della spesa le imprese saranno indotte ad accrescere la produzione e, quindi , l'impiego delle risorse.

(Figura 1 .1.2)Tasso di crescita del PIL in Italia

Analogamente se si verifica un calo della domanda aggregata le imprese si troveranno con un aumento nella quantità di prodotti invenduti, il c.d. aumento delle scorte, e sono indotte a ridurre l'impiego delle risorse per ridimensionare la produzione in eccesso. Nel breve periodo, quindi, il livello di produzione si muove nella stessa direzione della domanda aggregata. Tuttavia un continuo incremento della domanda aggregata non può portare ad un aumento continuo della produzione: se non si accresce la capacità produttiva del

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sistema, aumentando le risorse impiegate o accrescendo la produttività di quelle esistenti, il sistema economico non sarà in grado di accrescere il prodotto in termini reali oltre un certo limite, definito prodotto potenziale, che indica la capacità massima di produzione realizzabile con l'impiego delle risorse disponibili.Gli economisti distinguono fra crescita effettiva e crescita potenziale indicando, con la prima, il tasso di crescita effettivamente realizzato in un sistema economico e, con la seconda definizione, il tasso di crescita massimo che si può ottenere con il pieno impiego delle risorse esistenti. Se il tasso di crescita effettivo è al di sotto di quello potenziale è chiaro che nel sistema economico vi saranno risorse produttive non utilizzate è sarà, quindi, possibile accrescere il loro impiego con un incremento della domanda aggregata. Al contrario se il tasso di crescita effettivo è uguale al tasso potenziale tutte le risorse produttive saranno impiegate e si potrà accrescere la produzione soltanto accrescendo la capacità produttiva. Un aumento della capacità produttiva dipende da un aumento nella dotazione delle risorse disponibili o da un aumento della loro produttività.Il livello di produzione dipende innanzitutto dallo stock di capitale esistente, cioè dalla quantità di beni ( impianti, macchinari etc. ) che servono a produrre altri beni e servizi.In effetti nelle moderne economie industriali esiste un rapporto abbastanza stabile fra capitale e prodotto ( k = K/Y ): in genere la quantità di capitale necessaria, in media, a produrre una unità di prodotto è pari a 4. Questo vuol dire che occorrono quattro unità di nuovo capitale per ottenere un’unità aggiuntiva di prodotto. Per accrescere il capitale occorre, d’altra parte, destinare una parte del reddito agli investimenti piuttosto che ai consumi; se si dovesse investire il 20% del PIL (i) per accrescere lo stock di capitale si potrebbe avere una crescita percentuale del prodotto finale molto inferiore. Con un rapporto capitale/prodotto (k) pari a 4 si determinerebbe una crescita pari al 5% del PIL e valori di crescita tanto minori quanto maggiore è il rapporto (k) . In simboli

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g = i/k

Ferma restando la produttività del lavoro è chiaro che occorre un aumento di occupazione per accrescere la capacità produttiva. Una volta raggiunto il pieno impiego un aumento di occupazione dipende essenzialmente dall’accrescimento dell’offerta di lavoro che può essere conseguenza di un aumento della popolazione attiva, cioè della popolazione che, avendo i requisiti di età, è disposta a lavorare, come accade ad es. quando anche le donne con figli si presentano sul mercato del lavoro ovvero quando si verificano consistenti afflussi di immigrati. Al contrario un aumento della popolazione totale è ininfluente sull’offerta attuale di lavoro quando è costituita da nuove nascite, mentre può avere effetti negativi quando è determinata da una maggiore longevità.La disponibilità di risorse naturali può avere un’influenza relativa sull’aumento del prodotto potenziale di un paese sviluppato. Il peso molto ridotto della produzione agricola renderebbe, infatti, poco rilevante l’aumento della superficie coltivabile, mentre la scoperta di nuovi giacimenti, ad es. fonti energetiche, può portare ad un incremento del prodotto potenziale sino a quando il tasso di estrazione cresce. Quando il tasso di estrazione raggiunge il livello massimo la crescita economica cessa. In effetti i maggiori incrementi nel tasso di crescita dei paesi sviluppati sono legati sia agli incrementi di produttività del capitale che il progresso tecnico, cioè l’applicazione della ricerca scientifica ai processi produttivi, ha permesso di incorporare nei nuovi beni capitali, sia agli incrementi di produttività del lavoro che l’organizzazione del lavoro più efficiente e lo sviluppo di nuove abilità dei lavoratori, in seguito ai cambiamenti nel settore dell’istruzione e della formazione oltre che al sostanziale miglioramento delle condizioni sanitarie, hanno permesso di realizzare .

L'andamento economico congiunturale è al centro dell'analisi economica di breve periodo: semplificando si possono evidenziare due impostazioni teoriche contrapposte che danno spiegazioni diverse

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sul funzionamento del sistema economico e indicazioni diverse sull'opportunità di intervenire nell'economia di mercato. Un'impostazione ritiene che il mercato non sia in grado di evitare l’andamento ciclico del sistema, che può portare a situazioni di depressione e di crisi o coinvolgere in una spirale inflazionistica, ed è pertanto necessario l'intervento del governo o dell'autorità monetaria per evitare gli eccessi del ciclo economico e garantire una crescita stabile. Per l'altra impostazione, invece, il mercato lasciato a se stesso è in grado di assicurare sempre un equilibrio di pieno impiego mentre le distorsioni del mercato e l'andamento ciclico della produzione dipendono essenzialmente dall'intervento del governo: la migliore ricetta di politica economica è quella di "lasciar fare" al mercato.

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1.2 Disoccupazione e mercato del lavoro

1.2.1 Alcune definizioni.

La disoccupazione è uno dei problemi economici più rilevanti non solo dal punto di vista economico ma anche sociale, per le conseguenze che comporta sul piano personale e collettivo. Occorre innanzi tutto precisare il significato di disoccupazione e delle altre grandezze che interessano il mercato del lavoro. Come si evidenzia nella tabella 1 .2.1 la popolazione totale di un sistema economico, come quello italiano, è suddivisa in popolazione attiva , che rappresenta le persone occupate e quelle in cerca di occupazione, e popolazione non attiva , costituita da quanti per età o per scelta non sono in cerca di occupazione. Di norma nelle economie più avanzate la legislazione a tutela dell’infanzia vieta il lavoro a quanti hanno meno di quindici anni, mentre i sistemi di sicurezza sociale garantiscono la pensione a quanti hanno compiuto sessantacinque anni; per convenzione fa parte della popolazione attiva solo chi ha più di 15 anni . D’altra parte fra le persone che hanno l’età richiesta non tutti vogliono lavorare, ovvero cercano attivamente un lavoro, come ad esempio gli studenti universitari che hanno scelto di approfondire la loro formazione prima di presentarsi sul mercato del lavoro, ovvero i frati e le monache che hanno compiuto una diversa scelta di vita , o ancora quelli che hanno tanti soldi e si possono permettere di non lavorare per vivere. Bisogna tuttavia evidenziare che alcuni non si presentano sul mercato del lavoro perché non trovano lavoro, è la cosiddetta occupazione scoraggiata: la mancanza di opportunità di lavoro riduce l’offerta di lavoro facendo diminuire paradossalmente anche il tasso di disoccupazione. Coloro che formano la popolazione attiva, possono essere occupati o in cerca di occupazione, ovvero persone che pur cercando attivamente un lavoro ed essendo disposte a lavorare al salario di mercato sono disoccupate; sono compresi sia coloro che sono in cerca di prima occupazione che quanti invece, pur avendo già lavorato, stanno cercando una nuova occupazione.

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Si fa poi riferimento a una serie di rapporti, cioè di tassi, indicativi della situazione economica: il tasso di attività, che misura il rapporto fra popolazione attiva e popolazione con più di 15 anni, indica quante persone sarebbero disposte a lavorare sulla popolazione in età da lavoro. Il tasso di occupazione che misura il rapporto fra occupati e popolazione indipendentemente dal fatto che lavorino o siano disoccupati per scelta o per mancanza di opportunità. . Si considera anche il tasso specifico di occupazione che si limita a confrontare occupati e popolazione da 15 a 64 anni. Il tasso di disoccupazione, che misura il rapporto fra disoccupati e popolazione, cioè indica

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Tabella 1.2.1

Popolazione attiva = persone con più di 15 anni che risultano occupate , disoccupate, in cerca di 1^occupazione, momentaneamente impedite a lavorare

Popolazione non attiva = persone con più di 15 anni che non cercano attivamente un lavoro o che sono impedite a lavorare Tasso di occupazione = occupati / popolazione

Tasso specifico di occupazione = occupati 15-64 anni / Popolazione15-64 anni

Tasso di disoccupazione = persone in cerca di lavoro/ popolazione

Tasso di attività = popolazione attiva / popolazione con più di 15 anni

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quante persone non trovano occupazione pur essendo attivamente alla ricerca di un posto di lavoro

Nella Tabella 1.2.2 si evidenzia che il tasso di disoccupazione in Italia ha raggiunto il punto di minimo nel 1963 e si è mantenuto intorno al 4%, che può essere considerato un livello molto basso, sino alla crisi del 1973. Si tratta di un periodo di crescita del sistema economico italiano, quando lo sviluppo industriale ha attirato nelle grandi città del nord milioni di lavoratori che hanno abbandonato le campagne, in specie meridionali, per trovare occupazione nelle fabbriche e nel settore dei servizi del triangolo industriale. Con la crisi petrolifera il tasso di disoccupazione è cominciato ad aumentare e si è attestato al di sopra del 10% fra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta. Dopo una prima fase, nella quale avevano cercato di far fronte alla crescente stagnazione legata all’aumento dei costi delle materie prime, di fronte ad un tasso di inflazione sempre più elevato, i governi avevano dovuto abbandonare le politiche dirette al sostegno dell’occupazione lasciando alle imprese e al mercato il compito di affrontare la crisi. La risposta delle imprese fu legata essenzialmente alla riorganizzazione produttiva che portò ad un ridimensionamento dell’occupazione nelle grandi imprese e a un forte decentramento della produzione verso le piccole imprese o nei paesi con costi del lavoro minori. Con la fine degli anni ottanta il tasso di disoccupazione ritorna per un breve periodo al di sotto del 10% , ma ricomincia a crescere per tutto il decennio in concomitanza al periodo di sensibile stagnazione delle principali economie europee, Germania e Francia in primo luogo, ed alle politiche decisamente deflazionistiche adottate dai governi italiani per abbattere l’inflazione e pilotare il paese nell’Unione Economica e Monetaria.

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Tabella 1.2.2.

. Dalla fine degli anni novanta con l'approvazione di alcune riforme del mercato del lavoro, che hanno accresciuto la flessibilità nella utilizza-zione della forza lavoro, come il lavoro a tempo determinato, i contrat-ti di formazione etc, il tasso di disoccupazione si è ridotto mantenen-dosi attorno all'8% . La crisi attuale si è abbattuta sul mercato del lavo-ro facendo crescere il tasso di disoccupazione oltre il 10% e , special-mente, accrescendo enormemente la precarietà del lavoro.

1.2.2 Mercato del lavoro e disoccupazione nel breve periodo.

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Il mercato del lavoro a livello aggregato si può rappresentare indicando il livello del salario in ordinata e il numero di lavoratori impiegati in ascissa; in genere si fa riferimento al salario reale piuttosto che al salario nominale , visto che ai lavoratori interessa il potere d'acquisto del loro reddito piuttosto che il suo valore nominale. Di norma le imprese concordano con i lavoratori un salario nominale per un determinato periodo di tempo: quando i lavoratori andranno ad acquistare beni e servizi sul mercato per soddisfare i loro bisogni, in relazione all'andamento dei prezzi si renderanno conto se il potere d'acquisto del loro reddito si è mantenuto costante o è diminuito. Dato un certo salario nominale se il livello dei prezzi aumenta il salario reale, cioè il potere d’acquisto, diminuisce e viceversa.

Figura 1.2.1 Equilibrio sul mercato del lavoro W/p

S W1/p W*/p E

D

L1 L* L2

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La domanda di lavoro si presenta decrescente da sinistra verso destra ad indicare che le imprese assumono un maggior numero di lavoratori al diminuire del salario reale. Alle imprese, infatti, non interessa sapere quanto pagano ciascun lavoratore ma quanto viene a costare la singola unità di prodotto, perciò devono ripartire il costo per lavoratore sulle unità di prodotto realizzato. La spesa sostenuta per assumere lavoratori deve essere, quindi, commisurata alla produttività marginale del lavoro: poiché la produttività marginale decresce mano a mano che si assume un maggior numero di lavoratori, siamo nel breve periodo, l’impresa potrà assumere un maggior numero di lavoratori solo se il salario diminuisce.

L’offerta di lavoro ha un andamento crescente ad indicare che i lavoratori sono disposti a lavorare di più solo se il reddito percepito, cioè il salario, aumenta. Dato un vincolo temporale determinato dalla necessità di soddisfare le esigenze primarie (dormire, mangiare etc.) l'offerta di lavoro deriva dalla scelta che gli operatori compiono fra tempo da impegnare in attività lavorativa e tempo da dedicare allo svago ("tempo libero") : il "tempo libero" è piacevole e dà soddisfazione mentre il "lavoro" comporta penosità, sacrifici. Gli operatori sono disposti a lavorare, e a rinunziare al "tempo libero", solo se possono ottenere in cambio un reddito che gli permette di soddisfare i loro bisogni. Quanto maggiore il reddito che si può percepire tanto più grande sarà l’impegno lavorativo. Il concetto è evidente per i lavoratori autonomi, come i professionisti, che possono commisurare la loro attività lavorativa ad un maggiore guadagno; ma anche i lavoratori dipendenti quando accettano il lavoro "straordinario" si dimostrano disponibili a lavorare oltre il "normale" orario se percepiscono una remunerazione maggiore. Ovviamente sull'offerta di lavoro gioca anche una sorta di utilità marginale decrescente: a un certo punto l'operatore considera l'ulteriore incremento di reddito insufficiente a compensarlo per la rinunzia al "tempo libero" e comincia a ridurre l'offerta di lavoro.

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In un mercato di tipo concorrenziale l'incontro fra curva di domanda (D) e curva di offerta (S) determina il salario di equilibrio (W*\p) e il livello di "pieno impiego" della forza lavoro (L*); al salario di equilibrio tutti coloro che sono disposti a lavorare possono trovare occupazione, non lavorano soltanto coloro che richiedono un salario superiore.

I sostenitori del libero mercato (liberisti) ritengono che la flessibilità dei salari sia sempre in grado di assicurare il pieno impiego sul mercato del lavoro; l'esistenza di disoccupazione può essere spiegata solo da rigidità che impediscono la diminuzione dei salario o la flessibilità nell'uso della forza lavoro. Ad esempio si sostiene che un sussidio di disoccupazione elevato possa rappresentare una causa di disoccupazione, perché spingerebbe i lavoratori a scegliere il sussidio di disoccupazione piuttosto che accettare livelli di salario più bassi. Semplificando l'analisi liberista si può dire che la disoccupazione dipenda dalla rigidità dei salari: i salari sono particolarmente elevati, non diminuiscono e quindi sul mercato del lavoro non tutti riescono a trovare occupazione. Se i salari potessero diminuire, se fossero più flessibili, si potrebbe accrescere il livello di occupazione. La rigidità dei salari è imputata alla presenza dei sindacati che si comportano da monopolisti sul mercato del lavoro ed impediscono quella riduzione dei salari che potrebbe portare ad un aumento della domanda di lavoro, da parte delle imprese, e ad una maggiore occupazione. Si tratta di una visione di tipo "liberista" che vede nella "libertà" dei mercati e nella flessibilità dei prezzi la migliore ricetta per il funzionamento del sistema economico.

I critici di questa impostazione, facendo riferimento sia al comportamento dei lavoratori che alle scelte economiche delle imprese, sostengono che nella realtà il mercato del lavoro non funziona come un mercato di concorrenza perfetta e i salari non sono flessibili come può accadere con prodotti perfettamente omogenei. Si ipotizza innanzitutto che il livello di qualificazione dell’impiego possa influenzare la forza contrattuale dei lavoratori, ovvero il loro potere di mercato: è chiaro che tanto più l’attività lavorativa è qualificata tanto

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maggiore è la forza contrattuale del lavoratore, il grande architetto e il manager hanno un contratto personale, il commesso di un supermercato ha un contratto che non è personale ma redatto dalle associazioni di categoria, quindi un contratto generale. Anche le condizioni del mercato, e specificamente i livelli di disoccupazione, possono incidere sul potere di mercato dei lavoratori: la possibilità di trovare con facilità un'altra occupazione fa aumentare la forza contrattuale del lavoratore che può scegliere con tranquillità. Un basso livello di disoccupazione accresce, quindi, il potere contrattuale dei lavoratori che, avendo una maggiore possibilità di scelta, possono ottenere livelli di salario più elevati. D’altra parte, in una situazione di bassa disoccupazione, le imprese hanno difficoltà a trovare lavoratori disponibili e sono perciò disposte a pagare livelli di salario più elevati. L’impostazione liberista è messa in discussione anche da quanti ritengono che le imprese non sono avvantaggiate dalla flessibilità dei salari ma possono avere convenienza a pagare salari che sono superiori al minino. Com'é noto, poiché il costo per unità di prodotto dipende dalla produttività del fattore, le imprese devono considerare il salario pagato a ciascun lavoratore in rapporto alla quantità di prodotto che questi realizza: hanno perciò convenienza economica ad avere i lavoratori più produttivi. La teoria dei salari di efficienza sostiene che uno dei modi per accrescere la produttività del lavoro è quello di pagare salari più elevati, perché il lavoratore che riceve un salario elevato è disponibile a un impegno maggiore; inoltre se le imprese tendono a pagare salari minimi, e quindi a sostituire i lavoratori per portare il livello del salario al minimo, finiscono per determinare una selezione avversa, visto che i lavoratori più efficienti, in grado di trovare facilmente un’occupazione alternativa, se ne andranno e alla fine resteranno quelli che hanno meno voglia di lavorare. D’altra parte per istruire i lavoratori, e quindi determinare una produttività elevata, occorre tempo che rappresenta un costo per le imprese: sostituire lavoratori per pagare salari minori significa perdere capitale umano accumulato, in termini di professionalità, di fiducia e così via. Anche in quest’ottica sono importanti la natura del lavoro e le condizioni di

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disoccupazione esistenti sul mercato del lavoro. E’ evidente che un operaio specializzato e più difficile da sostituire di un operaio generico e pertanto potrà ottenere un salario più elevato. Allo stesso tempo se vi sono livelli di disoccupazione elevata le imprese possono trovare con maggiore facilità lavoratori per un determinato impiego e riescono, pertanto, a pagare salari in media più bassi.

Con una impostazione alternativa a quella liberista, gli economisti keynesiani sostengono che, in una moderna economia di mercato, la causa principale della disoccupazione sia una domanda insufficiente sul mercato dei beni : se nel sistema economico vi è una domanda insufficiente, come succede in periodo di recessione , le imprese non riescono a vendere i loro prodotti, e quindi tendono a diminuire la produzione e, di conseguenza, il livello di occupazione. Questo tipo di disoccupazione è caratteristica delle economie di mercato dove la produzione è finalizzata alla realizzazione di profitti: se le imprese hanno prospettive negative sulla possibilità di vendere i loro prodotti , preferiranno ridurre la produzione e licenziare lavoratori piuttosto che restare con merci invendute e ridurre i prezzi. E' una situazione tipica di economie avanzate dove la disoccupazione non dipende dalla scarsità delle risorse, dalla mancanza di impianti di fabbriche etc., ma si hanno allo stesso tempo fabbriche chiuse e operai disoccupati.

Si può avere disoccupazione anche quando si verifica un eccesso di offerta sul mercato del lavoro. L'aumento nell'offerta di lavoro è in genere legata a fatti eccezionali come ad esempio lo spostamento di popolazione determinato da avvenimenti bellici o da altre cause. Pensiamo alla riunificazione tedesca quando un gran numero di lavoratori della Germania orientale sono stati inseriti nella Repubblica Federale Tedesca determinando un elevato livello di disoccupazione; pensiamo al passaggio della forza lavoro dall’agricoltura, dove costituiva occupazione nascosta, al settore industriale che ha comportato un forte aumento dell’offerta di lavoro, naturalmente limitato nel tempo.

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1.2.3 Disoccupazione di non equilibrio e disoccupazione di equilibrio. Occorre in effetti distinguere fra disoccupazione di non equilibrio e disoccupazione di equilibrio. La disoccupazione di non equilibrio si verifica quando il salario corrente è al di sopra di quello di equilibrio e l’offerta di lavoro supera la domanda: ad esempio nella figura 1.2.1 al livello di salario (W1\p) la quantità di lavoro che richiedono le imprese è L1, mentre la quantità che offrono sul mercato i lavoratori corrisponde a L2 . La quantità L2- L1 rappresenta l’eccesso di offerta sulla domanda di lavoro, cioè il livello di disoccupazione. Gli economisti liberisti ritengono che questa disoccupazione dipenda dal fatto che il salario (W1\p) si mantiene al di sopra del livello di equilibrio, ad esempio, per la presenza dei Sindacati o per altri fattori che determinano una rigidità dei salari. Se i salari fossero flessibili, se i lavoratori accettassero riduzioni dei salari nominali, e quindi di quelli reali, si potrebbe raggiungere una situazione di pieno impiego.

Gli economisti keynesiani, invece, ritengono che questa disoccupazione sia dovuta ad una domanda di prodotti insufficiente a garantire l'occupazione di pieno impiego. Essi ritengono che il livello della domanda aggregata sia in grado di assorbire sul mercato dei beni una quantità di prodotto che può essere realizzata con un livello di occupazione pari ad L1 e che, di conseguenza, le imprese domanderanno una quantità di lavoro, inferiore al pieno impiego L*, e la pagheranno sulla base della loro curva di domanda al salario W1\p.

Nei casi appena esposti si parla di disoccupazione di non equilibrio ad indicare che sul mercato del lavoro al livello corrente del salario vi è un eccesso di offerta sulla domanda. Ma gli economisti ritengono che vi possa essere disoccupazione anche nel caso in cui sul mercato del lavoro vi sia eguaglianza fra domanda ed offerta. Si tratta della disoccupazione di equilibrio come ad esempio quando la disoccupazione è determinata dal progresso tecnico, quando settori produttivi che hanno avuto grande sviluppo nel passato diventano

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obsoleti, superati, perché nuovi metodi di produzione o nuovi prodotti si sono affermati sul mercato.

Figura 1.2.2 Disoccupazione di equilibrio W/p S

S S1

W*/p E E1

L* L1 Lavoro

Con la chiusura di queste attività produttive i lavoratori si trovano disoccupati e incontrano notevoli difficoltà a trovare occupazione nei nuovi settori: la lotta dei minatori inglesi contro la signora Thatcher, il primo ministro inglese detta la Lady di ferro, che ha chiuso le miniere di carbone dopo una lunga vertenza con i sindacati, può essere considerata un esempio di disoccupazione determinata dal progresso tecnico.

Può rientrare in questa tipologia anche la disoccupazione legata alle attività cosiddette stagionali: chi lavora in un centro vacanze lavora nei mesi estivi ma non nei mesi invernali, chi lavora nel settore alberghiero in genere lavora di più nei mesi estivi se è a mare, nei mesi invernali se è in montagna, ma sarà soggetto a periodi di minore

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lavoro. In quest'ambito rientra anche la disoccupazione legata alla struttura produttiva delle diverse regioni: il Mezzogiorno ad es. ha livelli di disoccupazione superiore a quelli di altre zone del paese, e presenta, ancora oggi, fenomeni di emigrazione rilevanti, pure se cambiati nella forma e nei modi .In ogni caso gli economisti ritengono che esista sempre un livello minimo di disoccupazione, la c.d. disoccupazione frizionale, determinata dal fatto che il mercato del lavoro non funziona perfettamente: possono in effetti coesistere operatori che offrono lavoro in un certo settore e imprese che domandano lavoro in altri settori, oppure lavoratori disoccupati al sud e imprese che cercano lavoro nel nord-est, ovvero lavoratori che hanno lasciato posti di lavoro e stanno scegliendo fra varie opportunità di lavoro. In conclusione si può dire che anche se il mercato del lavoro è in equilibrio vi può essere, comunque, un certo livello di disoccupazione più o meno elevata a seconda del paese e della situazione complessiva.

La disoccupazione di equilibrio può essere rappresentata nella figura 1.2.2 considerando due curve di offerta di lavoro: la prima S' indica la popolazione che, avendo i requisiti di età, è disposta a lavorare e si presenta attivamente sul mercato del lavoro; la seconda curva S indica invece coloro che trovano occupazione al salario corrente. La differenza fra L* ed L1 indica il livello di disoccupazione di equilibrio cioè i lavoratori che, pur essendo disposti a lavorare al salario di equilibrio, sono attualmente disoccupati perché il settore dove lavorano è in crisi, ovvero sono impiegati in attività stagionali o, ancora, il cattivo funzionamento del mercato determina difficoltà di incontro fra domanda e offerta.

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1. 3 Inflazione

L’inflazione è un aumento del livello generale dei prezzi, il termine "inflation" rimanda all'idea di gonfiare i prezzi delle merci come i palloncini. Se i prezzi aumentano la stessa unità di moneta può acquistare una minore quantità di prodotti: il valore reale dei redditi nominali diminuisce, il loro potere di acquisto si riduce.

1.3.1 Come si misura l'inflazione ? L’inflazione è misurata in termini di variazione del livello generale

dei prezzi nel tempo, in genere su base annua, utilizzando numeri indici che rappresentano il rapporto fra due valori. Uno di questi numeri indici è il deflatore del PIL che misura il rapporto fra reddito nominale e reddito reale di un sistema economico nello stesso periodo di tempo. Il reddito nominale non è altro che il valore del reddito di un certo anno misurato a prezzi correnti, mentre il reddito reale è il reddito dello stesso anno misurato a prezzi costanti.

Deflatore = PIL nominale \ PIL reale

Pt = pt Yt \p t-1 Yt

Quindi il reddito nominale fa riferimento al livello dei prezzi dell'anno in corso, mentre il reddito reale fa riferimento ai prezzi di un anno base. Ad esempio se consideriamo il livello dei prezzi nel 2000 come anno base, il rapporto fra reddito nominale del 2000 e reddito reale dello stesso anno darà un indice uguale ad 1, dato che le due misure sono uguali. Nel 2001, invece, se si è verificato un aumento del livello generale dei prezzi il rapporto fra il reddito nominale di quell'anno, misurato a prezzi correnti, e il reddito dello stesso anno misurato a prezzi costanti, cioè con i prezzi dell’anno base, risulterà maggiore di 1. Ad esempio un aumento del livello generale dei prezzi del 5% darà un rapporto uguale a 1,05 ad indicare che il tasso di inflazione è stato del 5%; per un tasso d'inflazione del 10%, cioè un aumento del livello

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generale dei prezzi del 10%, il rapporto fra reddito a prezzi correnti e reddito a prezzi costanti darà un deflatore del PIL pari a 1,10. Il deflatore del PIL permette alcune semplici relazioni fra variabili: innanzi tutto abbiamo che il PIL nominale è uguale al PIL reale per il deflatore;

pt Yt = p t-1Yt x Pt

ovvero, in termini di tassi di variazione, il tasso di variazione del PIL nominale è uguale al tasso di variazione del PIL reale più il tasso d’inflazione.Altra misura dell’inflazione che si usa normalmente è l’indice dei prezzi al consumo, che misura la variazione dei prezzi dei beni che una famiglia tipo consuma in un determinato periodo di tempo. Quest'indice misura la capacità di acquisto della famiglia tipo di un determinato sistema economico. I due indici non sono uguali, il deflatore del PIL rappresenta l’insieme del valore di tutti i beni prodotti nel paese, mentre l’indice dei prezzi al consumo si riferisce al valore dei prezzi dei beni consumati dalle famiglie che possono essere sia beni prodotti nel paese che beni di importazione. Anche l’indice dei prezzi al consumo è rappresentato da un valore che misura la variazione dei prezzi dei beni considerati in un determinato periodo di tempo ed è ottenuto dal rapporto fra valore dei prodotti misurato a prezzi correnti e valore degli stessi prodotti misurati a prezzi dell’anno base. Quanto più ci allontaniamo dall’anno base tanto più il consumo delle famiglie tende a essere diverso dai beni che vengono inseriti nel paniere che fa da riferimento: diventa perciò necessario rivedere questi panieri nel tempo e cercare di adeguare il modello di riferimento alla spesa corrente delle famiglie. Basta, ad esempio, pensare alla spesa per la telefonia mobile che oggi rappresenta un valore significativo e che era, invece, inesistente venti anni fa.

1.3.2 L'inflazione in Italia

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L'andamento del tasso d'inflazione di un paese come l'Italia è influenzato non solo da cause interne ma dipende anche dalla situazione internazionale, esterna al paese. E' perciò opportuno accennare al sistema monetario internazionale, cioè ai rapporti monetari e finanziari a livello internazionale. Dal secondo dopoguerra il sistema monetario internazionale si basava sugli accordi firmati a Bretton Woods, una località degli Stati Uniti, che hanno configurato il nuovo sistema dei pagamenti internazionali fondato sul dollaro. Nel sistema di Bretton Woods l’unica valuta legata all’oro era il dollaro, esisteva una parità fissa fra dollaro e oro, mentre le altre valute nazionali si scambiavano con il dollaro ma non si scambiavano con l'oro. Fra le singole valute nazionali e il dollaro esisteva un rapporto di cambio fisso, anche se era consentita una banda di oscillazione, movimenti in più o in meno, del 2,5%, dalle parità centrali. Un’altra caratteristica del sistema di Bretton Woods era il rigido controllo della mobilità dei capitali finanziari, nel senso che non era consentito ai singoli esportare o importare liberamente capitali. Questo sistema si è basato inizialmente sul predominio dell’economia americana e sulla forza del dollaro, che rappresentava il mezzo di pagamento negli scambi internazionali. Con la ripresa degli altri paesi industriali, gli Stati Uniti hanno cominciato ad acquistare dall'estero (importazioni) più beni di quanti non vendevano (esportazioni) creando una quantità di dollari particolarmente elevata per pagare il deficit della loro Bilancia dei Pagamenti. La quantità di dollari che circolava fuori degli Stati Uniti e che era detenuta nelle casseforti delle banche centrali degli altri paesi, è progressivamente aumentata diventando molto superiore alle riserve auree della Riserva Federale. Nessun paese aveva, in effetti, convenienza a chiedere la conversione dei dollari che possedeva con l’oro conservato negli Stati Uniti, per non mettere in crisi il sistema dei pagamenti internazionali, ma è chiaro che già agli inizi degli anni sessanta il sistema di Bretton Woods cominciava a mostrare le prime crepe. Un altro colpo venne, in quegli anni, dalle spese crescenti che gli Stati Uniti furono costretti a sostenere per la guerra del Vietnam: la continua creazione di moneta indeboliva

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progressivamente il potere d'acquisto del dollaro determinando un rilevante processo inflazionistico a livello internazionale. Anche se gli Stati Uniti non hanno mai svalutato ufficialmente il dollaro, le parità stabilite a Bretton Woods cominciarono a modificarsi con l'apprezzamento delle monete "forti", come il marco tedesco, e il deprezzamento di quelle più "deboli", come la sterlina inglese. La crisi del sistema divenne evidente nell'agosto del 1971, quando l'allora Presidente degli Stati Uniti, Robert Nixon, dichiarò l'inconvertibilità del dollaro in oro: il dollaro divenne una moneta "fiduciaria" come tutte le altre e il suo "valore" venne a dipendere esclusivamente dal fatto che fosse accettata sul mercato internazionale.Finchè il sistema di Bretton Woods rimase in vigore anche in Italia l'andamento del livello generale dei prezzi è stato essenzialmente determinato da cause interne. Agli inizi degli anni sessanta il tasso d'inflazione presentava livelli relativamente bassi (2,7% nel 1960) anche se crescenti sino al 1963, quando raggiunse il "picco" del 7,5%; questo andamento può collegarsi alla rapida crescita dell'economia italiana ( il miracolo economico) che porta in quegli anni ad una domanda crescente delle risorse disponibili con conseguenti pressioni inflazionistiche. La Banca Centrale, ritenendo l’economia prossima al "pieno impiego", attuò una politica monetaria restrittiva , la gelata di primavera, tagliando il credito alle imprese e ponendo un freno alla crescita economica: l’inflazione si ridusse velocemente, ritornando già nel 1966 al 2% e raggiungendo il picco minimo dell’1,3% nel 1968. Ma due anni dopo, nel 1970, il tasso d’inflazione crebbe rapidamente sino al 9,8% in risposta alla grande stagione di lotte sindacali del 1969, il c.d. autunno caldo, quando i sindacati, compattando i lavoratori meridionali immigrati con gli altri lavoratori della grande impresa, riuscirono ad ottenere sostanziali miglioramenti nelle condizioni di lavoro e nei livelli salariali. Si trattava chiaramente di un’inflazione da costi determinata dal tentativo delle imprese di scaricare sui prezzi l’aumento del costo del lavoro. Dopo il rallentamento del 1971 e del 1972, l’inflazione ricomincia a crescere ed arriva nel 1973 al 19,4% a seguito dell’aumento improvviso del prezzo del petrolio, lo shock

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petrolifero. L’inflazione non è più determinata da cause interne ma è un avvenimento internazionale accelerato dalla “fine” del sistema di Bretton Woods. A fronte del continuo aumento dei prezzi dei prodotti manufatti espresso in dollari, i paesi produttori di petrolio cercarono di ripristinare il rapporto di scambio con i prodotti industriali e di rivalutare i loro redditi reali aumentando improvvisamente il prezzo del petrolio, che passò da circa $ 7 al barile a $ 40 al barile. Poiché il petrolio rappresenta una fonte di energia primaria utilizzata direttamente ed indirettamente nel processo produttivo dei paesi industriali, l’aumento del prezzo del petrolio rappresenta un aumento netto dei costi di produzione che colpisce tutti i paesi industriali. La prima risposta dei paesi industriali fu quella di cercare di scaricare sugli altri il costo della bolletta petrolifera, producendo di più e cercando di vendere all’estero.

Ma è chiaro che se tutti i paesi industriali vogliono vendere di più hanno difficoltà a trovare acquirenti: infatti i paesi esportatori di petrolio, che divennero i “nuovi ricchi”, non erano paesi con grandi

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sistemi economici, con popolazioni numerose in grado di assorbire i prodotti dei paesi industriali, ma erano piccole economie, come l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi, che non potevano esprimere una domanda di beni di consumo in grado di assorbire la maggiore offerta dei paesi industriali. Alla fine i costi si scaricarono all’interno dei paesi industriali determinando un periodo di elevati tassi di inflazione e allo stesso tempo una riduzione dei tassi di crescita del PIL, che furono in alcuni anni anche negativi. Sono anni di crisi con stagnazione e inflazione, stagflazione, il prodotto si riduce e i prezzi aumentano. Dopo il livello minimo del 12,4%, raggiunto nel 1978, il tasso d’inflazione continuò a crescere sino al 1980 quando, in seguito al secondo shock petrolifero, determinato dalla caduta del governo iraniano filoccidentale, raggiunse il tasso di crescita annuo del 21,1% .Ma ormai la situazione era cambiata: a livello di singoli paesi si erano cominciate ad adottare tecniche di produzione che riducevano il consumo di petrolio, ricorrendo anche a fonti di energia alternative; allo stesso tempo si era abbandonato il tentativo di sostenere i livelli di produzione e di occupazione con politiche fiscali espansive, lasciando crescere sia l’inflazione che la disoccupazione. Anche lo scenario internazionale era cambiato significativamente: negli Stati Uniti il presidente Ronald Reagan, dopo aver tagliato le imposte, rilanciava la spesa pubblica per la realizzazione del c.d. scudo stellare, la realizzazione di missili antimissili ( i patriot) che avrebbero dovuto proteggere il territorio americano dai missili intercontinentali sovietici. Questo aumento delle spese militari ebbe il duplice effetto di rilanciare l’economia e la ricerca negli Stati Uniti e, al tempo stesso di riportare in auge il dollaro che si apprezzò sostanzialmente. Infatti la spesa pubblica in deficit fu finanziata con l’afflusso di capitali dal resto del mondo che, attratti dagli alti tassi d’interesse, cominciarono ad arrivare negli Stati Uniti per sottoscrivere titoli del debito pubblico. Il deficit della Bilancia dei pagamenti degli Satti Uniti divenne cronico ma il dollaro forte permise di rilanciare il sistema monetario internazionale con l’abbandono del sistema dei cambi fissi e con la progressiva liberalizzazione dei mercati delle merci e dei mercati dei capitali.

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Negli anni ottanta con il rilancio dell’economia americana il prezzo del petrolio espresso in dollari diminuì sensibilmente e i tassi d’inflazione si ridussero rapidamente.Per far fronte alla crisi del sistema di Bretton Woods, i paesi aderenti all’Unione Europea avevano cercato di creare un sistema di cambi stabili, ancorato sostanzialmente al marco tedesco, che si era concretizzato nel 1979 nel Sistema Monetario Europeo. Lo SME era un sistema di cambi manovrati attorno a una moneta contabile, lo scudo europeo o ECU, composta dall’insieme delle valute europeo ciascuna con il peso corrispondente al proprio valore. Erano previsti anche in questo sistema tassi di cambio fissi fra le singole valute nazionali e l’ECU, con la possibilità di una banda di oscillazione attorno alle parità centrali. Erano anche previste delle regole che impegnavano i paesi interessati a intervenire per sostenere le parità dei tassi di cambio, ma nella realtà questo sistema si è basato essenzialmente sul marco tedesco, che ha rappresentato la valuta forte, mentre le altre valute nazionali sono state costrette a svalutare progressivamente modificando i tassi di cambio concordati. Le valute più deboli come la lira, compresse fra il marco e il dollaro, si trovavano in una situazione particolarmente delicata che divenne praticamente insostenibile con la liberalizzazione del movimento dei capitali quando, sotto i pesanti attacchi speculativi, la Lira fu costretta nel 1993 ad abbandonare lo SME. Ma già alla fine degli anni ottanta i paesi dell’Unione Europea avevano cominciato ad attrezzarsi per far fronte alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla crescente integrazione dei mercati delle merci, con la firma del Trattato di Maastricht che prevedeva la creazione di una moneta unica . L’adozione di una moneta unica ha obbligato i paesi aderenti ad uniformare i loro sistemi economici adeguando i tassi d’inflazione, i tassi d’interesse, la stabilità del cambio e i livelli della spesa pubblica in deficit e del debito pubblico (i parametri di Maastricht), rinunziando definitivamente alla gestione nazionale della politica monetaria e vincolando le politiche fiscali al Patto di stabilità e di sviluppo. L’adesione all’Unione Economica e Monetaria ha comportato per il

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nostro paese la necessità di scelte severe che hanno, tuttavia, permesso di ancorare il nostro paese ad una moneta stabile nel contesto internazionale ed ottenere una drastica riduzione del tasso d’inflazione e una sostanziale stabilità del tasso di cambio.Non mancano tuttavia coloro che ritengono che la condizione di ristagno dell’Italia sia dovuta oltre che alla sua struttura socioeconomica, anche alla politica monetaria seguita nell’Eurozona, lontana dalle necessità specifiche delle condizioni economiche di base (i cosiddetti “fondamentali”) italiane. Questa politica ha come obiettivo il mantenimento dell’inflazione media dei Paesi dell’UEM sotto il 2% annuo; per raggiungerlo la Banca centrale europea (BCE) muove il tasso di interesse di riferimento in relazione all’inflazione (media dell’UEM) che essa prevede dopo 4-6 trimestri; questa è funzione del reddito potenziale, in pratica del PIL, di 4-6 mesi prima, per cui il tasso di riferimento è variato in funzione del prodotto dell’Eurozona al tempo corrente. Tale politica monetaria è doppiamente restrittiva per l’Italia: in primo luogo perché l’obiettivo del 2% annuo può andare bene per la Germania (che lo ha imposto), che preferisce una crescita del PIL reale bassa a patto che sia accompagnata da un’inflazione altrettanto bassa, ma non per la popolazione italiana, che si ritiene avrebbe bisogno di una crescita del prodotto reale più alta anche se associata ad una modesta inflazione. In secondo luogo perché il livello del tasso di interesse di riferimento è funzione di una crescita del PIL ben superiore a quella dell’Italia. Di qui un tasso più alto di quello che sarebbe conveniente per il Paese, la compressione dei consumi e degli investimenti, e la stagnazione dell’attività economica. L’effetto negativo per l’economia italiana dell’adattamento della politica monetaria della BCE alle preferenze tedesche è evidenziato dalla figura 1.3.2., che riporta le serie dei prezzi al consumo (indici armonizzati), nell’Eurozona e nei suoi quattro Paesi più grandi: l’inflazione della Germania ha un andamento molto basso, ed anche la crescita economica è fievole. In Italia, viceversa, si ha sia bassa crescita ma alta inflazione .

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Tabella 1.3.2 Andamento Tassi d'inflazione nell'Eurozona

Gli altri andamenti in questa figura indicano due fatti del pari interessanti: a) l’inflazione francese è stata sostanzialmente equivalente a quella media dell’UEM, proprio come si è osservato per l’andamento del prodotto; b) la politica monetaria della BCE non è riuscita,invece, a contrastare l’inflazione della Spagna determinata dalla forte crescita economica di quel paese; il grafico indica, infatti, un andamento dei prezzi al consumo del 50% superiore a quello medio dell’UEM (il 30,9% contro il 20,3% di aumento nel periodo fino al terzo trimestre del 2009).

Il sistema monetario internazionale appare agli inizi del nuovo secolo profondamente trasformato: il sistema di cambi fissi è stato sostituito da cambi flessibili, almeno fra le principali valute; i vincoli e i

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controlli ai movimenti dei capitali sono stati smantellati e si può dire che si è realizzata una completa integrazione dei mercati finanziari e una perfetta mobilità nel movimento dei capitali; anche per quanto riguarda le merci si è enormemente accresciuta l'integrazione dei mercati e lo scambio di beni e servizi. Tuttavia il dollaro è rimasto l'unico mezzo di pagamento internazionale, solo parzialmente insediato dall'euro come moneta di riserva internazionale, e gli Stati Uniti sono diventati l'unico paese che può permettersi di pagare, le merci che importa e gli interessi sui finanziamenti che ottiene dal resto del mondo, semplicemente stampando moneta. Questo sistema , basato su principi rigidamente liberisti , è stato messo in discussione dalla grande crisi che, partita dai mercati finanziari, sta interessando in questo periodo l'economia mondiale.

1.3.3 Da cosa dipende l'inflazione?.

Diverse sono le cause che possono mettere in moto un processo inflazionistico. A parte i casi di grandi inflazioni determinate da avvenimenti straordinari, come le guerre o la disgregazione di Stati, l’aumento del livello generale dei prezzi può dipendere da cause legate alle componenti della domanda o da cause legate ai costi di produzione. L’inflazione da domanda si determina quando il sistema economico è sotto pressione e le imprese trovano difficoltà ad adeguare la produzione all’aumento della domanda: rispondono dunque con un aumento dei prezzi. Quanto più il sistema produttivo si avvicina al pieno impiego delle risorse tanto maggiore sarà l’aumento dei prezzi in risposta ad aumenti della spesa. In situazione di pieno impiego delle risorse qualunque aumento di spesa si risolve esclusivamente in un aumento dei prezzi, mentre il reddito reale rimane invariato. Parliamo di aumento della spesa a livello aggregato, cioè spesa per consumi effettuata dalle famiglie, spesa delle imprese per investimenti, spesa del settore pubblico per acquistare beni e servizi sul mercato e domanda estera di prodotti nazionali (esportazioni).

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Figura 1 .3.1 Inflazione da domanda

P

AS

P’ E1

P E

AD1

AD

Y Y1 Y2

Gli economisti liberisti ritengono che, per determinare inflazione, l’incremento di spesa debba essere finanziato con la creazione di nuova moneta altrimenti finirebbe per sostituirsi ad altre spese. L’inflazione sarebbe, perciò, esclusivamente un fenomeno monetario legato essenzialmente all’incremento dell’offerta di moneta L’inflazione si può analizzare in un semplice grafico che rappresenta il mercato delle merci a livello aggregato, cioè l’insieme della domanda e dell’offerta di un sistema economico a livello aggregato; P in ordinata indica il livello generale dei prezzi mentre Y, in ascissa, indica il prodotto aggregato. L’offerta aggregata, che indica l’insieme

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dei beni e servizi prodotti nel sistema economico, può essere rappresentata come una curva crescente (AS), ad indicare una relazione diretta fra quantità offerta e livello generale dei prezzi. L’aumento dei prezzi permette infatti alle imprese di coprire i maggiori costi sostenuti per realizzare la produzione. La domanda aggregata è costituita dalla spesa delle famiglie per beni di consumo, delle imprese per beni di investimento, del governo per beni e servizi pubblici e della spesa del resto del mondo per acquistare prodotti nazionali. La domanda aggregata è rappresentata come una curva decrescente (AD) ad indicare che la spesa complessiva aumenta quando il livello generale dei prezzi diminuisce. Se il livello dei prezzi diminuisce aumenta infatti il potere d’acquisto, il reddito reale, e quindi aumenta la quantità domandata, una specie di effetto reddito. Ancora se i prezzi dei prodotti nazionali diminuiscono diventano più competitivi rispetto ai prodotti esteri, e quindi aumenta la domanda di prodotti nazionali, una specie di effetto sostituzione. Si può considerare anche un effetto determinato dalla quantità di moneta: se i prezzi diminuiscono la quantità di moneta in termini reali cresce e gli operatori sono indotti a disfarsene aumentando le spese. Quando domanda aggregata e offerta aggregata sono uguali si determina il livello di reddito (Y) e il livello generale prezzi ( P) di equilibrio. Un aumento della domanda aggregata da AD a AD1, determinato dalla variazione di una componente autonoma della spesa, comporta un eccesso di domanda (Y2) sull’offerta (Y) e un conseguente aumento dei prezzi. Mano a mano che i prezzi aumentano la domanda aggregata si riduce mentre le imprese cominciano ad accrescere la quantità offerta: alla fine si raggiunge un nuovo equilibrio al livello di produzione Y1 e con un livello dei prezzi pari a P1. La capacità delle imprese di adeguare l’offerta agli incrementi di domanda dipende dall’inclinazione della curva di offerta: quanto più piatta si presenta la curva di offerta aggregata tanto maggiore l’aumento del reddito prodotto e tanto minore l’incremento del livello dei prezzi. Nel caso del reddito di pieno impiego la curva di offerta si presenta verticale ad indicare che le imprese non possono accrescere la quantità prodotta ma

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rispondono agli incrementi di domanda soltanto con aumenti dei prezzi. Con l’inflazione da domanda, quindi, aumenta il livello dei prezzi ma tende ad aumentare anche il livello della produzione, tranne che nel caso di pieno impiego delle risorse, quando la curva di offerta è verticale.

L’inflazione dipende invece dall’offerta quando variano i costi che le imprese devono sostenere per realizzare la produzione. Fra i costi vanno considerati innanzi tutto i salari, cioè il costo del lavoro per unità di prodotto: se i salari aumentano in misura superiore all’incremento della produttività, il costo per unità di prodotto cresce e le imprese dovranno scegliere fra l’aumento dei prezzi e la riduzione dei profitti (Inflazione da salari). La possibilità di scaricare sui prezzi l’aumento dei costi è maggiore se le imprese operano in situazione di controllo dei mercati piuttosto che di concorrenza. Anche quando il costo del lavoro rimane sostanzialmente invariato, le imprese possono accrescere il livello dei prezzi per aumentare i loro profitti. La c.d. inflazione da profitti si verifica quando tutte le imprese possono aumentare i prezzi senza perdere clienti perché si aspettano che anche i concorrenti seguiranno lo stesso comportamento. Si verifica ad esempio quando c’è un’inflazione abbastanza elevata a livello internazionale e le imprese nazionali non temono la concorrenza esterna. Un esempio recente può essere considerato l'aumento dei prezzi che si è verificato con l’introduzione dell’euro: tale aumento non è stato giustificato da una crescita dei costi ma dal fatto che, passando dalla lira all’euro, si è persa familiarità con il numerario, e i produttori hanno approfittato della confusione per aumentare i prezzi a tutti i livelli e, ovviamente, accrescere i loro profitti. Inflazione da costi è anche la cosiddetta inflazione importata che si verifica quando aumenta il costo dei prodotti importati. Perché si determini una crescita del livello generale dei prezzi è necessario che i prodotti importati abbiano un peso consistente sulla produzione nazionale: se aumenta il costo dei chiodi di garofano difficilmente si verifica inflazione in Italia dato che hanno un peso irrilevante nella produzione

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nazionale, al contrario se aumenta il prezzo del petrolio si ha un forte impatto sul livello dei prezzi nazionali, perché il petrolio interessa estensivamente l'attività produttiva e di consumo.

Figura 1.3.2 Inflazione da costi

P

AS1

AS P1 E1

P E

AD

Y2 Y1 Y

La variazione del prezzo dei beni importati può dipendere sia dalla variazione del prezzo di questi prodotti che da un deprezzamento del tasso di cambio fra valuta nazionale e mezzo di pagamento internazionale. Si era determinato un meccanismo perverso che finiva per alimentare l'inflazione: per rendere competitive le esportazioni, e sostenere quindi la domanda aggregata e il livello del reddito, si procedeva alla svalutazione della lira rispetto al dollaro, ma in tal modo cresceva l'esborso per pagare il petrolio e, quindi, i costi di produzione delle imprese che erano costrette a ritoccare verso l'alto i prezzi dei prodotti; con l'aumento dei prezzi diminuiva la competitività

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delle esportazioni e si doveva quindi procedere ad una nuova svalutazione della lira in una spirale sempre più perversa.

Muovendosi da una situazione di equilibrio, determinato dall'incontro fra curva di domanda aggregata AD e curva di offerta aggregata AS in corrispondenza al punto E, l’inflazione da costi è evidenziata da una variazione della curva di offerta verso l’alto e verso sinistra in AS1 in seguito ad un aumento dei costi di produzione per le imprese. Al livello dei prezzi P si determina un eccesso di domanda sull'offerta pari a Y2 Y, il livello dei prezzi comincia ad aumentare con un conseguente aumento dell'offerta mentre la domanda comincia a diminuire. Alla fine si raggiunge una nuova posizione di equilibrio con un livello dei prezzi maggiore P1 e un livello del reddito Y1. Quando l’inflazione è spinta dai costi l’aumento dei prezzi si accompagna quindi con un calo del livello di produzione: come nell’esperienza italiana degli anni 70 quando il tasso d’inflazione, originato dall’aumento del prezzo del petrolio, ha raggiunto livelli straordinariamente elevati, sino al 21%, mentre la produzione è crollata, con valori addirittura negativi. L’inflazione convive con la stagnazione economica e si ha stagflazione.

Altra causa d’inflazione è data dalla diversa produttività fra settori, la cosiddetta inflazione strutturale, ad esempio quando vi è diversa produttività fra settore industriale e settore dei servizi. Nel settore industriale, che è un settore dinamico soggetto alla concorrenza esterna, le imprese hanno necessità di accrescere la produttività con l'introduzione di nuovo capitale o del progresso tecnico , e possono, quindi, pagare maggiori salari senza aumentare i prezzi. Il settore dei servizi, che è protetto dalla concorrenza estera e può avere una utilizzazione del capitale per unità di prodotto molto minore, non ha invece stimoli diretti ad accrescere la produttività che si mantiene relativamente più bassa. I lavoratori del settore dei servizi però cercano di adeguare i propri salari a quelli del settore industriale e, quindi, chiedono e ottengono aumenti dei salari che non possono essere

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compensati con un incremento proporzionale di produttività. Per mantenere i margini di profitto, in risposta all'aumento dei salari, le imprese aumentano i prezzi dei servizi che offrono sul mercato. Questo aumento dei prezzi determina, a sua volta, una riduzione del salario reale dei lavoratori dell'industria che vedranno diminuire il loro potere di acquisto e chiederanno nuovi aumenti salariali. Le imprese del settore industriale risponderanno con aumenti di produttività che permettono di accrescere i salari lasciando stabili i prezzi e, in tal modo, si rimette in moto il meccanismo .

Anche le aspettative che gli operatori si formano sull'andamento futuro dei prezzi possono influenzare l’inflazione. Ipotizziamo che di fronte ad un aumento dei prezzi attuale gli operatori si aspettino che i prezzi continueranno ad aumentare. I consumatori avranno convenienza a comprare di più, ad aumentare la domanda visto che nel futuro si troveranno con prezzi più elevati. I produttori, al contrario, avranno convenienza a contrarre le vendite attuali e a vendere i prodotti nel futuro quando i prezzi saranno più elevati. Il risultato sarà, quindi, un aumento di domanda ed una contrazione dell'offerta che determineranno sul mercato un aumento dei prezzi. Le aspettative di aumento dei prezzi influenzano, quindi, i comportamenti degli operatori sul mercato e finiscono per avverarsi. Se, invece, le aspettative sono di un aumento dei prezzi temporaneo che non continuerà nel futuro, quale comportamento conviene seguire? I consumatori non hanno convenienza a comprare quando i prezzi aumentano ma preferiscono aspettare che si stabilizzino, riducono perciò la domanda; i venditori, invece, hanno convenienza a vendere di più oggi quando i prezzi aumentano, perciò accrescono l’offerta. Con l'aumento dell’offerta e la riduzione della domanda l'incremento dei prezzi si riduce e l'inflazione si ferma confermando le aspettative. L'introduzione delle aspettative ha influenzato significativamente l'analisi dell'inflazione portando a nuovi sviluppi e a significativi cambiamenti nelle proposte di intervento.

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1.3.4. Conseguenze negative dell’inflazione.

Perché l’inflazione è considerata un avvenimento negativo? Se i prezzi di tutti i prodotti e tutti i redditi raddoppiassero nel sistema economico non cambierebbe nulla; l'inflazione si ridurrebbe esclusivamente ad un fatto contabile. Ma l'inflazione è un aumento del livello generale dei prezzi: i prezzi di alcuni prodotti crescono in misura maggiore, i prezzi di altri in misura minore,; di conseguenza i redditi non aumentano tutti allo stesso modo: alcuni crescono altri diminuiscono. Il problema vero è che l'inflazione determina una redistribuzione dei redditi reali casuale e iniqua: chi ha redditi fissi, in economia si dice le vedove e gli orfanelli, non può adeguare le entrate all'aumento dei prezzi e vede diminuire il proprio reddito reale. Chi può aggiustare il proprio reddito all’incremento dei prezzi, può mantenere il suo reddito invariato in termini reali o, come capita, può accrescerlo a danno di altri. Il passaggio dalla lira all’euro teoricamente non doveva cambiare niente perché si trattava semplicemente di un cambiamento di numerario, chiamare la moneta euro piuttosto che lira. Se tutti i prezzi fossero stati espressi in euro rispettando il rapporto di cambio prestabilito, di 1936,27 lire per un euro, non sarebbe cambiato nulla. In realtà chi ha potuto aumentare i prezzi dei propri prodotti, approfittando della scarsa familiarità con la nuova moneta, è riuscito ad accrescere i propri redditi a danno di quanti non lo hanno potuto fare. La redistribuzione dei redditi è meno avvertita quando il sistema economico si trova in una fase di crescita: quando il reddito nazionale cresce, le posizioni relative si muovono nell'ambito di un aumento complessivo, l'inflazione ha un impatto minore perché la posizione di ciascuno migliora in termini assoluti anche se peggiora in termini relativi. Quando, invece, il sistema economico è in una situazione di crisi, i redditi reali diminuiscono o non crescono,la redistribuzione dei redditi determinata dall'inflazione è molto più grave perché ciascuno si rende conto che il suo reddito reale è diminuito non solo in termini relativi ma anche in termini assoluti. In questi anni abbiamo avuto in Italia una percezione molto forte

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dell'aumento dei prezzi anche se il tasso d'inflazione misurato è stato fra il 2,8% e il 3%, valori assolutamente insignificanti rispetto a quelli verificatisi negli anni passati quando il tasso misurato aveva due cifre. Questo forte impatto dell'inflazione probabilmente è legato sia al fatto che l'aumento dei prezzi è stato inatteso sia al fatto che si è verificato in un periodo in cui il reddito complessivo del paese non è cresciuto: si è determinata perciò una sostanziale redistribuzione dei redditi reali con il peggioramento dei livelli di vita molti operatori. Altro effetto negativo dell’inflazione è quello di diffondere incertezza negli scambi. Il mercato infatti può funzionare se gli operatori hanno fiducia nel valore della moneta: sono quindi disposti a ricevere moneta in cambio di merci nella certezza che domani potranno comprare merci per lo stesso valore. Venendo meno la fiducia nella moneta gli scambi cominciano a rallentare, sono necessari meccanismi che garantiscono gli operatori dalla perdita di valore della moneta, come ad esempio le clausole di indicizzazione, e che finiscono con il rendere meno efficiente il sistema di mercato.

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