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Capitolo 1. 1.1 L’interesse astrofisico per le polveri. Sin da quando l’uomo ha iniziato ad osservare il cielo con strumenti più potenti dell’occhio umano, si è accorto della presenza di oggetti differenti dalle stelle; solo con il passare del tempo e con il potenziarsi delle metodologie di osservazione, ha osservato oggetti non stellari sempre più piccoli, passando dai pianeti ad asteroidi di dimensioni di qualche decina di metri. Con lo svilupparsi delle tecniche di spettroscopia stellare si è andati ad investigare sulla composizione chimica delle stelle. Anche se i costituenti principali delle stelle sono l’idrogeno e l’elio, si è notata la presenza di concentrazioni, anche se molto basse, di metalli 1 . Tale scoperta è in seguito stata giustificata tramite una teoria di evoluzione stellare secondo cui, mentre le stelle di prima generazione sono costituite solo da idrogeno ed elio, le stelle di generazione successiva, essendo create da nebulose arricchite di materiali dalla 1 In astrofisica si è soliti definire metalli tutti gli elementi chimici aventi numero atomico superiore a due.

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Capitolo 1.

1.1 L’interesse astrofisico per le polveri.

Sin da quando l’uomo ha iniziato ad osservare il cielo con strumenti più potenti

dell’occhio umano, si è accorto della presenza di oggetti differenti dalle stelle;

solo con il passare del tempo e con il potenziarsi delle metodologie di

osservazione, ha osservato oggetti non stellari sempre più piccoli, passando dai

pianeti ad asteroidi di dimensioni di qualche decina di metri.

Con lo svilupparsi delle tecniche di spettroscopia stellare si è andati ad

investigare sulla composizione chimica delle stelle. Anche se i costituenti

principali delle stelle sono l’idrogeno e l’elio, si è notata la presenza di

concentrazioni, anche se molto basse, di metalli1. Tale scoperta è in seguito stata

giustificata tramite una teoria di evoluzione stellare secondo cui, mentre le stelle

di prima generazione sono costituite solo da idrogeno ed elio, le stelle di

generazione successiva, essendo create da nebulose arricchite di materiali dalla

1 In astrofisica si è soliti definire metalli tutti gli elementi chimici aventi numero atomico

superiore a due.

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Polveri interstellari. 5

prima, hanno un contenuto in metalli non nullo. Questo fu l’avvento della teoria

che vede le stelle come fucine in cui vengono creati gli elementi che danno

origine all’universo come noi lo vediamo.

Nei paragrafi successivi si esploreranno le varie strade che i materiali prodotti

dalle stelle seguono una volta liberati nello spazio e, di conseguenza, i vari

processamenti che subiscono. In particolare si evidenzieranno le caratteristiche

delle polveri planetarie e cometarie, la riproduzione del cui spettro in laboratorio è

uno degli scopi del lavoro di tesi.

1.1.1. Polveri interstellari.

Già Charles-Joseph Messier (1730-1817), autore dell’omonimo catalogo

astronomico, notò, con le osservazioni di oggetti esterni al sistema solare, la

presenza di oggetti estesi. In seguito al progresso della tecnica e della tecnologia

astronomica si è scoperto che un gran numero degli oggetti catalogati da Messier

sono delle galassie, giganteschi ammassi stellari. Un numero considerevole di

oggetti è costituito, però, da nuvole le cui origini coprono una notevole casistica.

Si può distinguere a questo punto due differenti tipi di nebulosità: le nebulose

gassose e le nebulose a riflessione. Così come dice il nome, le prime sono delle

grandi nubi di gas ionizzato, associate a stelle calde che emettono luce visibile

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Polveri interstellari. 6

Figura 1.1. La nebulosa della Tarantola, esempio di nebulosa gassosa. Si tratta di una regione HII, vale a dire una regione costituita da idrogeno ionizzato.

sotto l’azione della radiazione ultravioletta che ricevono dalle stelle. Le nebulose

a riflessione, a causa della presenza di polvere, sostanzialmente diffondono la luce

stellare senza modificare sostanzialmente lo spettro.

Figura 1.2. Classico esempio di nebulosa a riflessione. M57, la nebulosa ad anello in Lyra.

La differenza tra questi due tipi di nebule si capisce facilmente se si pensa che

il mezzo interstellare è costituito essenzialmente da due componenti: il gas e la

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Polveri interstellari. 7

polvere, quest’ultima costituita da microscopiche particelle solide condensatesi

dallo stesso gas interstellare.

Mentre il gas, in seguito all’assorbimento di radiazione UV ionizzante, emette

per ricombinazione un suo caratteristico spettro nella regione ottica, la polvere

deve invece la sua luminosità (sempre nella regione ottica) alla semplice

diffusione della radiazione delle stelle vicine. È quindi immediato pensare che i

fattori che determinano l’apparenza di una nebulosa come ad emissione o a

riflessione saranno il rapporto gas/polvere ed il rapporto tra radiazione UV e

visuale emessa dalle stelle ed ovviamente la geometria del sistema e le distanza

dalle stelle.

In pratica, a causa della forte dipendenza dell’emissione UV di una stella dalla

temperatura, la condizione più importante che deve essere soddisfatta per avere

una nebulosa gassosa intorno ad una stella è che questa sia calda. È ovvio però

che deve esserci anche presenza di mezzo interstellare nelle vicinanze, condizione

questa che viene soddisfatta il più delle volte in prossimità della nascita o della

fine di una stella. La ragione di questa stretta associazione è che le stelle si

formano per condensazione di grandi nubi interstellari e che negli ultimi stadi

della loro evoluzione sono accompagnate da rilevanti perdite di massa.

Ma la materia interstellare non si trova solo nelle nebulose, essa è sparsa

ovunque nello spazio che separa le stelle del disco galattico con concentrazione

diversa da zona a zona e con densità maggiore nelle nebulose.

Si pone allora il problema dello studio di questo materiale sparso nella fascia

del piano galattico. Anche se la massa totale di tale materia osservabile

direttamente, all’interno della Galassia, è inferiore al 10% della massa galattica, la

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Polveri interstellari. 8

sua analisi riveste grande importanza nello studio sulla formazione delle stelle.

Per scoprire la presenza e studiare le caratteristiche della materia interstellare si

indagano gli effetti che essa produce sulla radiazione proveniente da stelle

lontane.

Le polveri interstellari, piccola percentuale della materia interstellare, sono

costituite da minutissimi grani di particelle solide che hanno la proprietà di

diffondere la luce in modo selettivo: per effetto di questo fenomeno di diffusione

ed assorbimento, la luce che proviene da una stella appare ai nostri apparati di

misura tanto più indebolita ed arrossata quanto più la stella è lontana, o più

esattamente quanto maggiore è la quantità di polveri interstellari che ha

attraversato. La misura dell’effetto di arrossamento di una stella è condotta

confrontando l’indice di colore2 osservato con quello previsto in assenza di

arrossamento interstellare.

2 Si definisce indice di colore la differenza tra le magnitudini in diverse bande fotometriche. Le

bande fotometriche più usate in astronomia sono U (λU = 365 µm), B (λB = 440 µm) e V (λV = 548 µm), di conseguenza gli indici di colore più usati sono (B-V) e (U-B).

La determinazione dell’indice di colore di una stella consiste nella misura della

differenza di magnitudine che la stella presenta quando è osservata in due diversi

domini spettrali. Nella sua formulazione più semplice, il problema si risolve

mediante la misura della luminosità di una stella facendo uso di un fotometro

accoppiato a vari filtri di colore diverso. Ora se la radiazione di una stella è

arrossata per effetto delle polveri interstellari, il suo indice di colore appare

maggiore di quello di una stella di pari tipo spettrale e classe di luminosità ma non

arrossata: si dice che la stella presenta un eccesso di colore. È il caso di porre

l’accento sul fatto che un eccesso di colore non indica che la stella presenta troppa

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Polveri planetarie. 9

radiazione alla lunghezza d'onda più grande, ma esprime piuttosto quanta

radiazione alla lunghezza d'onda minore è stata sottratta per effetto

dell’arrossamento interstellare. Il fenomeno globale dell’arrossamento ed

indebolimento della radiazione stellare da parte della materia interstellare prende

il nome di estinzione interstellare. La misura dell’eccesso di colore racchiude

preziose informazioni sia sulla quantità di polveri interposte tra noi e le stelle che

sulla loro natura.

1.1.2. Polveri planetarie.

Così come le stelle anche i sistemi planetari hanno origine dal collasso

gravitazionale di una nebulosa, di conseguenza si viene a creare un forte legame

tra le polveri interstellari e quelle che troviamo sui pianeti. Risulta conveniente

riassumere brevemente come viene a formarsi un sistema planetario, in particolar

modo quello solare, su cui si hanno molte informazioni.

L’ipotesi generalmente accettata è quella della formazione del sistema solare

dalla condensazione di una nube di gas e polveri, che contraendosi e collassando

prese a ruotare con velocità crescente. Nel centro di questa nube primordiale si

accumulò una quantità di materia densa e calda che diede origine al Sole. La

materia esterna coagulò in corpi che, dopo un periodo di assestamento, divennero

pianeti e satelliti. Naturalmente è facile da comprendere che non tutta la polvere

ha subito il processo di coagulazione, una parte di queste polveri è rimasta diffusa

in tutto il sistema solare. La maggior parte di ciò che rimane della nebula che

diede origine al sistema solare si trova al confine di questo ed è nota con il nome

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Polveri planetarie. 10

di nube di Oort, la culla delle comete. Infatti la maggior parte delle comete che

attraversano il nostro sistema planetario vedono la loro genesi in questa nube e

sono di conseguenza cariche delle polveri che diedero origine ai pianeti.

Naturalmente il materiale cometario non ha subito i processamenti di quello

planetario; uno studio comparativo fornirebbe una verifica sperimentale alla teoria

della genesi planetaria.

Tutti i pianeti rocciosi ed i satelliti planetari del sistema solare hanno una

superficie ricoperta da polveri. Queste sono dovute o ad un’azione di corrosione

da parte dell’atmosfera, anche se flebile, del pianeta o ad un’azione di raccolta

gravitazionale del materiale presente lungo l’orbita. Nei giganti gassosi, d’altro

canto la polvere è presente, oltre che sui satelliti, nei caratteristici anelli, quando

Figura 1.3. Neil Armstrong sulla superficie lunare. È ben visibile la polvere che ricopre la superficie.

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Polveri planetarie. 11

sono presenti, e sospesa nell’atmosfera. Tralasciando i giganti gassosi, possiamo

subito fare una distinzione tra polveri in sospensione e polveri al suolo. Anche se

si può trattare dello stesso materiale nei due tipi di polvere si ha una forte

differenza in termini di dimensione del grano e ciò, come vedremo in seguito,

influenza fortemente lo spettro.

Già prima del lancio delle prime sonde esplorative, si è analizzato lo spettro in

riflessione di pianeti, satelliti, comete e asteroidi osservando la luce solare di

ritorno da questi oggetti. In questo modo si è andati a stimare la composizione

media degli oggetti, composizione poi confermata dai prelievi effettuati dalle

missioni Apollo dall’11 al 17 (con esclusione della missione Apollo 13,

Figura 1.4. Vista della superficie di Marte dalla lander camera del Viking.

che non effettuò l’allunaggio per l’esplosione di uno dei serbatoi di ossigeno)

sulla Luna e dagli spettri e dalle immagini prese dalle sonde Mariner (1964-1973)

(Mariner 2 e 10 di Venere, Mariner 4 e 9 di Marte, informazioni raccolte

dall’orbita), Pioneer (1972-73) (Pioneer 10 di Giove, Pioneer 11 di Saturno,

informazioni raccolte dall’orbita; le sonde Pioneer sono state le prime ad

avventurasi nello spazio interstellare), Voyager (1977) (Voyager 1 di Giove,

Saturno e Titano, Voyager 2 Urano, Nettuno, Ariel e Miranda, informazioni

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Polveri planetarie. 12

Figura 1.5. La sonda Voyager 2.

raccolte dall’orbita), Viking (1975) (di Marte, sia il Viking 1 che il 2 raccolsero le

informazioni dalla superficie tramite dei lander) ed altre.

I dati del Mars Pathfinder (1996) confermano la composizione del suolo

marziano e la presenza in atmosfera di grani di polvere di piccole dimensioni,

confermando le informazioni fornite dai lander delle sonde Viking sulla

composizione del suolo marziano, costituito fondamentalmente da ossidi del ferro

e silicati.

Figura 1.6. Vista della superficie di Marte da Mars Pathfinder.

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Polveri planetarie. 13

Lo studio delle polveri planetarie riveste un’importanza fondamentale

nell’ambito della planetologia, ci fornisce informazioni sulla storia geologica del

pianeta, sulla tettonica presente oggi, come nei satelliti galileani, o agli albori

come nel caso di Marte oppure sulla presenza di bacini d’acqua prosciugati. Sono

proprio i bacini ciò che più attira l’attenzione dei ricercatori, infatti la presenza

d’acqua è una conditio sine qua non per la presenza di vita su di un pianeta, anche

solo allo stadio primordiale. La presenza di carbonati sul suolo di un pianeta è un

forte indizio dell’esistenza di bacini prosciugati, infatti i carbonati, sali dell’acido

carbonico, si formano in soluzioni d’acqua e precipitano sul fondale di mari e

laghi e vengono alla luce a causa di forti evaporazioni. Marte, ad esempio,

dovrebbe essere fornito di depositi di carbonati (Marra, 1999), infatti esistono

numerose testimonianze indirette che inducono a ritenere che i carbonati siano

presenti sul pianeta anche se non si sa ancora in che misura. Analizzando rocce

marziane trovate sulla Terra, dette SNC (l’acronimo deriva dalle città Shergotty,

Nakhla e Chassigny, dove furono trovati i primi tre esemplari), lanciate fuori dal

campo gravitazionale del pianeta dall’impatto di una cometa o di un asteroide e

successivamente precipitate sulla Terra, si sono trovate tracce di carbonati

(Gooding et al, 1991; Treiman et al., 1993); in particolare all’interno di tali rocce

sono sicuramente presenti campioni di calcite (CaCO3), dolomite (CaMg(CO3)2) e

magnesite (MgCO3).

La matrice che contiene le tracce di carbonati nelle SNC (Calvin et al, 1999) è

principalmente di tipo basaltico, quindi ricco di minerali ferrosi e silicati.

L’olivina, di cui ci si occuperà in questo lavoro di tesi, è uno dei minerali non

carbonatici che compongono le SNC, (vedi Figura 1.7. in cui il campione

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L’olivina. 14

ALH84001 è proprio una meteorite SNC). Da notare la struttura intorno a 1.0 µm,

che come vedremo nei capitoli successivi è tipica dell’olivina.

Figura 1.7. Spettri in riflessione di un campione di meteorite SNC, composito della parte scura di Marte e del 2CO atmosferico calcolato.

Inoltre è stato suggerito da più fonti che si tratti di una materiale molto diffuso

sulla superficie di Marte (Clark et al., 2000) e, come verrà detto più in dettaglio in

seguito, nelle chiome delle comete.

1.2. L’olivina.

La maggior parte delle rocce terrestri possono essere suddivise in due grandi

gruppi: i carbonati ed i silicati. Mentre le prime, per la loro formazione richiedono

ambienti molto particolari, soluzioni, quasi sempre in acqua, le seconde sfruttano

per lo più attività magmatiche e tettoniche. Nell’ambiente interstellare ed

interplanetario il processamento non segue nessuno degli schemi terrestri, quindi

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I silicati. 15

la genesi di tali materiali non è semplice. Si tratta principalmente di genesi per

impatto, anche se la rate del fenomeno è molto bassa.

Le polveri si possono presentare a loro volta sotto due forme: cristallina ed

amorfa. Il lavoro di tesi riguarderà solo la forma cristallina, mentre per quella

amorfa si rimanda a lavori futuri.

Nei paragrafi successivi si daranno cenni sulla formazione dei silicati, sul

perché si sia scelto, tra i vari silicati disponibili, l’olivina ed alcuni cenni sulla

struttura cristallina di questa e come essa si modifica tramite processamenti, per lo

più termici, a cui può essere sottoposta. Questo fa sì che una volta trovata la

struttura del campione in analisi se ne può anche ricostruire la storia.

1.2.1. I silicati.

L’importanza quantitativa dei silicati è enorme, dato che essi costituiscono il

90% della crosta terrestre. La genesi dei più importanti silicati, i minerali delle

rocce, si identifica ovviamente con quella delle rocce stesse, magmatiche,

metamorfiche e sedimentarie. Senza scendere troppo nel dettaglio si può tracciare

il seguente quadro generico, limitato ai minerali più significativi.

Nel processo magmatico (Andretta, 1957) si possono distinguere vari stadi. Lo

stadio di cristallizzazione ortomagmatico in cui le sostanze volatili come fluoro,

cloro, boro e vapor d’acqua, partecipano molto scarsamente alla cristallizzazione,

perciò si concentrano nel residuo magmatico, aumentando la pressione interna e

mantenendo allo stato fuso il residuo stesso a temperature relativamente basse. Ad

un dato momento precipita anche il residuo magmatico e questa volta partecipano

ampiamente alla cristallizzazione anche i componenti volatili. Questa fase è detta

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I silicati. 16

pegmagmatica. Terminata la cristallizzazione del magma, restano ancora sostanze

volatili che non hanno partecipato alla mineralizzazione pegmagmatica. Questi

gas tendono a salire verso l’alto utilizzando fratture di contrazione della massa

eruttiva già consolidata e quelle delle rocce incastranti. La temperatura varia da

500 °C a 372 °C, temperatura critica dell’acqua, ossia la temperatura oltre la quale

l’acqua passa dallo stato di liquido allo stato di vapore anche ad altissime

pressioni. Le deposizioni avvengono nelle fratture per abbassamento della

temperatura o in fasce, tasche o concentrazioni dovute alla reazione dei convogli

gassosi mineralizzati con le rocce attraversate. Di solito reagiscono vivacemente

con i convogli mineralizzati le rocce carbonate. Questo è lo stadio pneumatolitico.

Quando la temperatura del convoglio mineralizzato proveniente da un magma in

raffreddamento scende al disotto dei 372 °C si hanno soluzioni idrotermali. Le

soluzioni idrotermali depositano minerali in fratture, formando filoni; impregnano

rocce porose e sostituiscono rocce carbonate.

Nello stadio ortomagmatico si formano i tipici minerali delle rocce: olivina,

pirosseni, anfiboli, miche, feldspati, feldispatoidi e quarzo. Nello stadio

pegmagmatico e pneumatolitico, accanto ai su elencati minerali delle rocce, si

possono formare anche meno comuni silicati di elementi più rari, come litio,

fluoro, zirconio, torio uranio ed altri. Nello stadio idrotermale, i tipici minerali

sono le zeoliti, alcuni minerali argillosi, l’apofillite e, per la silice, l’opale ed il

quarzo, quest’ultimo in cristalli generalmente limpidi e talvolta di grandi

dimensioni (Carobbi, 1971).

Nel processo metamorfico regionale si possono formare, oltre ai soliti minerali

delle rocce magmatiche, dei silicati tipici come i granati, il silicato di alluminio

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I silicati. 17

52SiOAl nelle varie modificazioni polimorfiche (cianite, andalusite e sillimanite),

wollastonite, clorite, talco ed altri. Tipici del metamorfismo di contatto sono la

cordierite, la vesuviana e le humiti.

Per il processo sedimentario, nei vari stadi di alterazione, deposizione e

diagenesi3, i tipici materiali sono quelli argillosi di qualsiasi natura, ma si possono

produrre anche altri silicati come alcune zeoliti, alcuni feldispati e, fra le varie

forme di silice, l’opale ed il quarzo.

Nel passato i mineralisti avevano compiuto una classificazione dei silicati

basandosi su alcune caratteristiche fisiche, come la sfaldatura o la forma

cristallina. Tale classificazione non si conciliava, tuttavia, con quella chimica, che

considerava questi minerali come sali di una serie di acidi silicici (orto-, meta-,

di-, tri-, ecc.) in buona parte ipotetici, in quanto solo del primo è stata dimostrata

l’esistenza.

È merito di Machatschki e di Bragg (Cipriani et al, 1988) aver proposto, verso

il 1930, una classificazione basata sul tipo strutturale, cioè sulla forma del tipo di

cella fondamentale che vedeva coinvolto il silicio, unico principio valido per

composti esistenti solo allo stadio cristallino, e in particolare sulle modalità di

concatenamento dei tetraedri 4SiO . Infatti è questo poliedro che ricorre pressoché

costantemente nei silicati, mentre si ha una grande varietà di poliedri M-O.

3 La diagenesi è l’insieme dei fenomeni chimici e fisici che trasformano una roccia dopo la sua

formazione.

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I silicati. 18

Figura 1.8. Cella fondamentale dei nesosilicati, ( ) 44SiO − .

I tetraedri OSi − (vedi Figura 1.8.) possono essere isolati oppure possono

polimerizzarsi, cioè riunirsi ad altri tetraedri in gruppi discreti o ad estensione

indefinita, ma sempre attraverso l’unione di vertici di tetraedri, in quanto l’unione

secondo spigoli o facce è impedita dalla repulsione SiSi − e dai troppo deboli

legami che verrebbe ad esplicare l’ossigeno. È noto solo un caso di unione di

tetraedri per spigoli, nella silice fibrosa, mentre questo collegamento è abbastanza

comune negli ottaedri, per la maggiore distanza SiSi − .

Nei silicati, aventi in genere una struttura complessa, vi è la possibilità di

ampie sostituzioni isomorfe, così che è preferibile descrivere i vari minerali in

termini delle loro strutture, posizioni reticolari che possono essere occupate da

membri di un gruppo isomorfogeneo4 di ioni, piuttosto che darne le composizioni

chimiche, spesso puramente teoriche

4 Un gruppo ismorfogeneo è l’insieme di ioni con raggio ionico simile in modo che possono

sostituirsi in un reticolo cristallino. La differenza di raggio ionico non deve superare il 10÷15%.

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Scelta dell’olivina. 19

Fra i vari ioni presenti nei silicati, un caso particolare è quello dell’alluminio5:

il suo rapporto radiale è prossimo a quello critico di separazione fra la

coordinazione tetraedrica e quella ottaedrica, per tanto può assumere entrambe

giocando un doppio ruolo, in pratica non riconoscibile chimicamente, di

sostituente del silicio e di normale catione. In termini di nomenclatura chimica

possiamo così distinguere gli allumosilicati dai silicati di alluminio.

Nelle strutture complesse, gli ioni che occupano le varie posizioni reticolari

vengono indicati con i simboli AlSiZ ,= in coordinazione tetraedrica,

23 FeMgFeAlY ++= ,,, in coordinazione ottaedrica, CaNaKX ,,= in

coordinazioni varie, ma comunque inferiori a sei.

1.2.2. Scelta dell’olivina.

Osservazioni spettroscopiche su pianeti e su comete hanno messo in evidenza

la presenza di bande tipiche dei silicati, particolarmente nell’infrarosso. Numerosi

sono i lavori presenti in letteratura che vanno ad investigare sulle bande dei silicati

in forma cristallina o amorfa di piccole dimensioni. Come detto in precedenza, i

silicati, specie l’olivina, hanno un’origine fortemente legata alla tettonica

planetaria. Ma questo non è l’unico modo in cui si formano i cristalli dei silicati,

infatti se ne trovano tracce nello spazio interstellare. Ciò è stato messo in risalto

dall’analisi dello spettro della cometa Hale-Bopp (Orofino et al, 2000)ed altre in

cui si sono evidenziati dei picchi nella regione tra 8 e 13 µm tipici dei silicati,

5 Si riporta qui una piccola digressione sull’alluminio poiché oltre ad avere un rapporto radiale di

particolare interesse, presenta una notevole somiglianza con l’olivina quando si trova nella forma

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Scelta dell’olivina. 20

inoltre è stata evidenziata una banda a 11,3 µm che suggerisce la presenza di grani

di olivina cristallina nella cometa di Halley.

Le ricerche effettuate su Marte hanno messo in evidenza che il pianeta ha avuto

una storia geologica e tettonica molto simile a quella terrestre, il che porta alla

formazione di materiali, specie quelli di origine magmatica, simili a quelli presenti

sulla Terra.

Proprio tale similitudine spinge i ricercatori ad analizzare, in laboratorio,

materiali terrestri per poi confrontare gli spettri così ricavati con quelli rilevati

tramite tecniche di remote sensing ed in situ su Marte, ciò che è stato fatto con la

missione Mars Pathfinder, o su altri pianeti che verranno esplorati in futuro6, in

attesa che vengano portati a terra dei materiali prelevati dalla superficie dei

pianeti.

In particolare, su Marte, si sono osservate, tramite i Viking landers che

avevano un range spettrale compreso tra 350 e 1100 nm, dei picchi vicino ai 750

nm, con la pendenza che cambia vicino ai 500 e 600 nm. Si osserva anche una

banda poco profonda centrata vicino agli 860 – 870 nm. Tutte queste strutture

sono attribuite allo ione 3Fe+ . Inoltre nello spettro delle regioni scure si evidenzia

la presenza della banda di assorbimento dello ione 2Fe+ a 1000 nm dovuta alla

presenza di silicati di ferro e magnesio, principalmente pirossene ed olivina.

di allumosilicato.

6 Sono allo studio due missioni per l’esplorazione di Mercurio, Mercury MESSENGER (MErcury Surface, Space ENvironment, GEochemistry and Ranging) e BepiColombo (Cornerstone ESA) che prevede, tra l’altro un’analisi spettroscopica in riflessione della superficie dall’UV al NIR. Ci si aspetta di riscontrare, come suggeriscono i dati del Mariner 10, una presenza elevata di silicati e composti ferrosi.

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Cenni di cristallografia dell’olivina. 21

Huguenin (1987), usando delle tecniche di analisi spettrale basate su derivate di

alto ordine, ha analizzato lo spettro marziano su di un ampio range spettrale in

modo da determinare la composizione della polvere marziana. Egli conclude che

nella polvere marziana è presente dell’olivina idrolizzata e suggerisce come

origine di tale polvere rocce mafiche e ultramafiche7 ricche di olivina.

Poiché il range spettrale del nostro spettrofotometro è compreso tra 200 e 2500

nm, in pratica lo spettro dei Viking landers allargato sia nel NIR che nell’UV, si è

deciso di analizzare lo spettro in riflessione dell’olivina ed in una seconda fase

confrontarlo con quello rilevato. La scelta di utilizzare la spettroscopia in

riflessione deriva dal fatto che i dati sia in remote sensing che presi in situ sono

7 Le rocce ignee, dette anche magmatiche o eruttive, si formano per raffreddamento di una massa

fusa incandescente, con temperature di varie centinaia di gradi, che si origina all’interno della Terra. Una prima grande suddivisione delle rocce ignee, che riflette la loro composizione chimico-mineralogica, e quindi del magma originario, è basata sul colore: le rocce chiare sono dette felsiche, quelle scure mafiche. Quelle chiare sono ricche di quarzo e feldispati(da qui il prefisso fels-), mentre quelle scure sono ricche di anfiboli, pirosseni ed olivina, tutti materiali a base di magnesio e ferro (da qui il prefisso maf-). Si dicono ultramafiche quelle costituite esclusivamente da pirosseni ed olivina.

perlopiù in riflessione poiché è una tecnologia che richiede una minore, in molti

casi nessuna, manipolazione dei campioni da sottoporre all’analisi.

1.2.3. Cenni di cristallografia dell’olivina.

Se il tetraedro OSi − può essere isolato, allora si hanno i nesosilicati (in greco:

silicati ad isole) nei quali il radicale è ( ) 44SiO − (Cipriani et al, 1988). La struttura

è basata su tetraedri isolati 4ZO , dove Z è rappresentato esclusivamente o quasi

da Si : ne risulta una disposizione molto compatta così che i vari minerali

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Cenni di cristallografia dell’olivina. 22

presentano elevati valori di rifrangenza, durezza e densità. Tra nesosilicati

ricordiamo l’olivina, i granati, lo zircone ed altri.

Figura 1.9. Struttura fondamentale del cristallo di olivina.

L’olivina ( ) [ ]42 SiOFeMg, è la soluzione solida completa fra forsterite

42SiOMg e fayalite 42SiOFe (vedi Figura 1.9.) con piccolissime quantità di Ca ,

Mn , Ni (il diagramma di stato è riportato in Figura 1.10.).

Figura 1.10. Diagramma di stato dell’olivina.

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Cenni di cristallografia dell’olivina. 23

La struttura, con simmetria P bnm8, è basata su un impaccamento compattato di

ioni ossigeno pochissimo distorto, con parziale occupazione delle cavità, che

determina tetraedri isolati 4SiO legati a catene di ottaedri ( ) 6OFeMg, . Si

distinguono due posizioni ottaedriche (vedi Figura 1.11.) M1, più piccola, e M2,

più grande, che risultano occupate diversamente in vari composti, tipo olivina, sia

presenti in natura che preparati sinteticamente.

Figura 1.11. Schema strutturale dell’olivina.

Si hanno soluzioni solide complete FeMg − , MnMg − , MnFe − , parziali

MnCa − , FeCa − , limitatissima MgCa − , ciò che comporta in natura

l’esistenza dei seguenti termini estremi: forsterite 2Mg , fayalite 2Fe , tefroite

8 La prima lettera rappresenta la definizione della simmetria per traslazione, ossia del tipo di

reticolo, che si concreta nella scelta della cella elementare standard capace di descriverlo secondo l convenzioni (P sistema triclino, parallelepipedo obliquo con base a forma di parallelogramma; F sistema rombico con tutte le facce centrate). I tre indici successivi individuano gli elementi di simmetria che si riferiscono nell’odine alle direzioni a, b e c.

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2Mn , larnite 2Ca , monticellite CaMg , glaucocroite CaMn , kirchteinite CaFe

(vedi Figura 1.12.).

Figura 1.12. Diagramma composito di composti 42SiOM : a segno marcato l’estensione delle soluzioni.

Le variazioni con la temperatura, la pressione e la composizione chimica

inducono sensibili variazioni nelle dimensioni degli ottaedri mentre i tetraedri

restano rigidi determinando ad un certo punto la non corrispondenza tra questi

poliedri con conseguente demolizione della struttura ed il passaggio ad altre fasi

polimorfe.

In particolare ad elevatissime pressioni la struttura tipo olivina (fase α), già

molto compatta (la densità varia da 3,2 a 4,4 g cm-3), si trasforma in strutture tipo

spinello (fasi β e γ con piccole differenze tra loro) con impaccamento cubico

compatto F d3m, aventi una densità superiore di circa il 10%. Le transizioni, a

1000°, avvengono con pressioni dell’ordine di 100-120 kbar (vedi Figura 1.13.)

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corrispondenti ad una profondità del mantello terrestre di circa 400 km, cioè dove

si riscontra un salto nella velocità delle onde sismiche. Questo induce a ritenere

l’olivina, che per vari motivi si pensa sia il costituente principale del mantello

superiore, si trasformi nelle fasi tipo spinello nel mantello inferiore, caratterizzato

da pressioni più elevate.

Figura 1.13. Trasformazione polimorfa del composto ( ) [ ]42 SiOFeMg, (isoterma a 1000°)

I cristalli mostrano spesso la combinazione dei prismi { }011 e { }120 col

pinacoide9 { }010 . Le sfaldature, buona la { }010 ed accennata quella { }001 ,

sono parallele alle catene di ottaedri 6MO collegate per spigoli e sviluppantesi

9 Facce parallele di un cristallo.

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lungo l’asse c. La durezza è medio-alta (7-6 ½), il colore da giallo verde a verde

oliva (da cui il nome) a giallo bruno, la lucentezza vitrea.

La rifrazione è alta, la birifrangenza media, entrambe crescenti dai termini

fosteritici a quelli ferrosi con passaggio del segno ottico10 da positivo a negativo e

comparsa in sezione sottile di un debole pleocroismo sul giallo.

L’olivina si altera facilmente nel metamorfismo superficiale in serpentino,

clorite e iddingsite (miscela di vari minerali tra cui ematite e goethite).

L’olivina è un importantissimo minerale delle rocce. Costituente essenziale

delle peridotiti, fondamentale in molti gabbri e basalti detti appunto olivinici, e in

rocce feldispatoidi come le basaniti; può essere presente come accessorio in altre

rocce magmatiche come andesiti, trachiti e sieniti. Nelle rocce magmatiche la

composizione oscilla da 95Fo nelle peridotiti a 6080Fo − nei basalti. Forsterite

pura, eventualmente insieme a monticellite, si origina in calcari e dolomie

termometamorfosate per reazione con quarzo, come i proietti dei vulcani laziali e

del Vesuvio. È presente anche in molte meteoriti condriche.

Possiamo suddividere le meteoriti, in base alla loro composizione, in due

classi: meteoriti ferrose (in cui predominano il ferro ed il nichel) e meteoriti

pietrose (con predominanza di silicati). Queste ultime sono le più numerose e tra

queste le condriti carbonacee (così chiamate per l’alto contenuto di sferule di

10 Consideriamo le tre direzioni principali X, Y e Z. Rispetto all’angolo degli assi ottici si potrà

riconoscere una bisettrice acuta ed una bisettrice ottusa, oltre ad una normale ottica, cioè la perpendicolare agli assi ottici. Quest’ultima sarà sempre Y, essendo gli assi ottici giacenti sul piano XZ, ma per le bisettrici potranno darsi due casi: 1) la bisettrice acuta è Z (quindi X è l’ottusa); 2) la bisettrice acuta è X (quindi Z è l’ottusa). Nel primo caso i cristalli si dicono otticamente positivi e nel secondo otticamente negativi.

carbonio; dal greco chòndros, granello) (vedi Figura 1.14.) sono le più vecchie: si

ritiene siano quelle che più si avvicinano alla struttura originale del

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Figura 1.14. Fotomicrografia di un condro in sezione sottile.

materiale primordiale da cui si è formato il sistema solare e poiché non presentano

tracce di successive fusioni potrebbero addirittura essere esemplari di planetesimi.

Le varietà perfettamente trasparenti sono usate come gemme di discreto valore,

in particolare quella giallo-oro va sotto il nome di crisolito.