Branding, estetica ed identità visiva

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Roma, 29/08/2012 Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Branding, estetica ed identità visiva. Il rapporto ambivalente fra arte e marca. “Brand design: Laboratorio di progettazione dell’identità visiva” Prof. Eduardo Salierno Chiara Landi Matricola 1508332

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Roma, 29/08/2012

Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Branding, estetica ed identità visiva. Il rapporto ambivalente fra arte e marca.

“Brand design: Laboratorio di progettazione dell’identità visiva”

Prof. Eduardo Salierno

Chiara LandiMatricola1508332

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INDICE

Introduzionep.3

Capitolo I. Alle origini del rapporto fra arte e brand p.41.1 Le origini di una relazione duratura1.2 I primi studi nel settore

Capitolo II. Andrew Miller: il valore del brand oggi p.62.1 Brand Spirit: critica ed esaltazione della brand equity2.2 Il significato dell’identità visiva nell’esperimento di Miller

Capitolo III. L’arte al servizio della marcap.123.1 L’identità visiva nella costruzione del prodotto finale 3.2 Luci e ombre: esempi dell’ambivalenza del rapporto fra arte e marca.

Capitolo IV. Il capovolgimento del rapportop.194.1 Subvertising e critica alla marca

Capitolo V. Conclusione p.22

Bibliografia

Sitografia

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Introduzione

Obiettivo di questa tesina è l’analisi della relazione fra arte e branding, alla luce delle notevoli influenze generate dal mondo artistico su quello aziendale. Da diversi anni, attraverso la costruzione dell’identità visiva del brand, l’arte è divenuta strumento primario per la creazione della brand awareness e per la nascita di un valore aggiunto destinato a sedimentarsi nella mente del consumatore. L’utilizzo del disegno, della fotografia, della grafica e della pittura (funzionali per la creazione del logo, del packaging e della pubblicità stampata) hanno permesso all’imprenditore di creare un legame emozionale con il consumatore, fondamentale per un forte commitment nei confronti del brand. Superando il mero maquillage, l’arte nel corso degli anni è divenuta quindi una vera e propria maschera costruita sui registri della retorica visiva, utilizzata per dichiarare al mondo l’identità del brand e il ruolo del prodotto finale destinato al consumatore (Bucchetti, 2002). L’assunto base di questo lavoro è la consapevolezza che l’immagine che il consumatore ha del brand, la quale si estrinseca nelle sue scelte di acquisto, sia frutto di un’attività di consumo di segni e di simboli (Baudrillard & Levin, 1972). La creazione e la fruizione di segni e di simboli nasce a partire dall’identità visiva della marca e da come il consumatore la percepisce. Di conseguenza, diventa fondamentale per la marca l’utilizzo dell’arte come mezzo di comunicazione primo e immediato. Partendo dalla riflessione sulle origini del rapporto fra arte e brand, verrà esaminato l’esperimento denominato “Brand Spirit”, realizzato dal fotografo e designer irlandese Andrew Miller su 100 prodotti, e i risultati ottenuti. In seguito saranno approfondite le diverse funzioni attraverso cui l’arte viene applicata e diviene strumento della marca. Infine, attraverso la presentazione e la breve analisi di alcuni esempi, sarà dimostrato come da strumento l’arte possa trasformarsi in un’arma a doppio taglio e diventare controproducente ai fini del branding per il quale era stata impiegata.

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Capitolo I. Alle origini del rapporto fra arte e brand

1.1 Le origini di una relazione duratura

A partire dal 1880, in Italia, iniziarono a svilupparsi i primi segni del dibattito sull’influenza dell’arte sul mondo industriale e in particolare sull’importanza del disegno per coloro che si occupavano di arti applicate. Il Paese a cui si deve fare riferimento per ritrovare le origini di questa relazione è la Gran Bretagna. Nel contesto inglese divenne fondamentale la personalità di Ruskin, noto critico d’arte nell’età vittoriana, il quale, convinto della necessità di un rinnovamento politico e sociale e del superamento della produzione di massa vista come fonte di alienazione per i lavoratori, decise di dare valore alla creatività dell’individuo e all’elemento estetico nella produzione artigianale. Già a partire dal ‘700 in Gran Bretagna alcuni settori industriali, come quello della ceramica, si erano aperti alla collaborazione con numerosi artisti. Il tema del rapporto fra arte e artigianato (e poco dopo fra arte e industria) in quegli anni era molto diffuso; anche in Francia, infatti, si incominciò a parlare di forme d’arte collegate al settore artigianale e di prodotti industriali considerati come pezzi da esposizione. Napoleone III, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, affermò: “I perfezionamenti dell’industria sono strettamente legati a quelli delle Belle Arti … Spetta ufficialmente alla Francia, la cui industria deve tanto alle Belle Arti, assegnar loro nella prossima Esposizione Universale, il posto che esse meritano” (Amari, 2001).Per quanto riguarda il nostro Paese, il dibattito sulla relazione fra arte e mondo industriale si sviluppò a partire dall’Esposizione Universale di Firenze nel 1861. In Italia iniziò a diffondersi la consapevolezza che il gusto estetico fosse un elemento necessario per rendere un prodotto industriale più appetibile e vincente rispetto alla concorrenza. Nel frattempo iniziarono a nascere corsi per disegnatori e cosi per educare a loro volta chi avrebbe dovuto insegnare. Si cercò lentamente e non senza difficoltà di dare valore a una produzione industriale che rifiutasse il concetto di prodotto “standard” e alienante. Una pausa a questa tendenza si realizzò in Italia con l’avvento del futurismo e della dittatura fascista.

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Mentre in Germania la diffusione del Bauhaus e del suo “laboratorio per la stampa e la pubblicità” raccoglieva i suoi frutti, nel nostro Paese il futurismo non riuscì ad avere lo stesso impatto delle innovazioni tedesche, anche se vanno ricordate le sperimentazioni di Balla e Depero nelle arti applicate e l’influenza del futurismo sulla grafica pubblicitaria e la creazione del logo. Inoltre con il fascismo, se da una parte si assistette all’esaltazione dell’arte nelle sue forme più pure e tradizionali, dall’altra venne effettuato una sorta di confinamento delle cosiddette “arti minori” che nei decenni precedenti avevano alimentato il rapporto fra arte e industria (Amari, 2001).Tuttavia, nel dopoguerra, le cose in Italia iniziarono a cambiare. Specialmente al nord, infatti, cominciarono a rinascere le aspettative nei confronti del mondo artistico anche da parte degli industriali. Contemporaneamente, oltre alle teorie diffuse negli ambienti intellettuali e politici riguardanti, cominciarono a sorgere dibattiti sulla nascita di veri e propri musei che potessero appunto mostrare oggetti manifatturieri e artigianali nella loro natura; i musei artistici industriali trovarono ampio sviluppo in tutta Italia verso la fine del ‘900, iniziando a creare quelle che sarebbero state le basi per uno stretto rapporto fra arte e prodotto industriale che ritroviamo ancora oggi. Nel 1986 Andy Warhol realizzò la prima serie di opere commissionate per essere usate nella campagna pubblicitaria di Absolut Vodka. Fra il 1986 e il 2004 la catena svedese continuò la sua collaborazione con numerosi artisti portando alla realizzazione di 850 opere finalizzate al lancio del brand. La nascita del design e lo sviluppo della grafica pubblicitaria, unite alle ricerche degli esperti di marketing per la costruzione di una brand equity efficiente, hanno fatto il resto.

1.2 I primi studi nel settore

Capire quali siano le variabili influenti per la creazione di un valore aggiunto per i consumatori da parte di un brand è di fondamentale importanza. Di conseguenza, numerosi sono gli studi che sono stati condotti nel corso degli anni dagli esperti di marketing e dagli studiosi per migliorare la comprensione di questo concetto. Gran parte della letteratura esistente si concentra su come i consumatori valutino il brand e le categorie di prodotti che una determinata marca decide di provare a vendere con successo (Aaker & Keller, 1990). Tutti questi studi hanno

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dimostrato come l’arte influenzi positivamente la percezione del brand relativa al prodotto da parte del consumatore. Inoltre, alcune ricerche, hanno cercato di capire su cosa si basasse la costruzione di un brand di successo e della sua brand equity (inteso come valore e patrimonio della marca) (Minestroni, 2004). I risultati di queste ricerche effettuate da Aaker e Keller (1990) e da Bottomley e Holden (2001) hanno mostrato che per sua stessa natura, l'arte visiva emana un'aura di cultura, lusso e prestigio (Martorella, 1996); l’identità visiva di un prodotto stimola inoltre la flessibilità, la creatività e l'immaginazione (Dewey, 1989), (Feldman, 1992). Ci aspettiamo, quindi, che quando un marchio sia associato alla sua identità visiva, la presenza dell'arte migliori l'immagine del prodotto a causa della percezione di lusso e porti ad un aumento della considerazione della marca grazie ad una maggiore flessibilità cognitiva. In parole più semplici, l’identità visiva di un prodotto, costruita grazie a un sapiente uso dell’arte nelle sue disparate forme, permette un’ampia categorizzazione e aumenta la capacità del consumatore di integrare le informazioni contenute nell’immagine che ha davanti a sé (che si tratti di un logo, di un packaging etc. non ha importanza) con l’idea del brand sedimentata nella sua mente. Sono diversi, come già accennato in precedenza, gli imprenditori e gli esperti di marketing che riconoscono una forte importanza all'uso delle arti visive per migliorare la propensione al consumo di prodotti e dei brand alle loro spalle. Infatti, l'arte è ampiamente utilizzata nella pubblicità. De Beers, gruppo di imprese che si occupa del rinvenimento e della commercializzazione di diamanti, usa spesso dipinti nelle pubblicità, paragonando i diamanti ad opere d'arte per promuovere l'immagine ed emanare un’aura di lusso e di alta classe. Tuttavia, l'uso di arti visive, sembra essere basato sull'esperienza e sull’imitazione dei competitors, senza una comprensione sistematica dell'influenza che l'arte visiva ha sui marchi e sulle estensioni di marca. Aumentare questa comprensione potrebbe quindi avere notevoli implicazioni manageriali, nonché teoriche.

Capitolo II. Andrew miller: il valore del brand oggi

2.1 “Brand Spirit”: critica ed esaltazione della brand equity

L’esperimento del fotografo irlandese Andew Miller inizia nel 2011 da un’idea: scegliere una lista di prodotti commerciali, del valore al di sotto di

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10 dollari, e dipingerli di bianco. Ogni giorno, per 100 giorni, Andrew Miller ha deciso di fotografare il frutto del suo lavoro e di postarlo sul suo blog di Tumblr coprendo in questo modo ogni segno d’identità e di marca, “debrandizzando” i prodotti e portandoli al loro stato “naturale”. Lo scopo di “Brand Spirit”, questo il nome dato al progetto, non è stato ben definito dall’autore stesso. Egli infatti, in diverse interviste, afferma da una parte di voler sottolineare come lo spirito di un oggetto vada al di là del brand, criticando implicitamente le funzioni della marca nei prodotti industriali; dall’altra sostiene invece che la mancata riconoscibilità di alcuni oggetti, a differenza di altri, e la diminuzione della loro appetibilità nei confronti dello spettatore/consumatore delle fotografie, sia dovuta al valore aggiunto che il brand conferisce al prodotto finale. In ogni caso è un esperimento molto utile per capire come la nostra stessa percezione cambi di fronte ad un prodotto senza alcun segno di marca e di identità visiva. L’oggetto rimane lo stesso, ma siamo noi sempre disposti a pagare quella cifra?Miller afferma che di fronte al bianco, la nostra mente si riposa. Alcune persone ridipingono con la loro mente gli oggetti, altri trovano nuovi significati (Gianatasio, 2012). Alcuni oggetti, secondo i commenti riportati dai followers del blog di Miller sotto le foto, mantengono la loro funzione e significato inalterati. Altri, come ad esempio la carta dei trasporti di un treno, senza alcun colore appaiono a chi osserva privi di significato e senza alcun potenziale utilizzo. Il fotografo sostiene inoltre di voler giocare sul suo blog attraverso gli oggetti fotografati, decidendo accuratamente la sequenza con cui pubblicarli per dare loro ancora nuovi significati.Il 19 luglio 2012 l’esperimento si è concluso.

Qui alcuni esempi degli oggetti dipinti di bianco:

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Andrew Miller, Brandspirit.tumblr.com, 2012

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2.2 Il significato dell’identità visiva nell’esperimento di Miller

L’identità visiva in “Brand Spirit” acquista un ruolo principale. Le fotografie dei diversi oggetti dipinti di bianco e fotografati da Andrew Miller ci mostrano come il significato di brand sia oggi stesso strettamente collegato alla visione estetica del prodotto finale da parte del consumatore. Questa, infatti, insieme a diverse altre principali facoltà, aiuta il potenziale consumatore a creare e, col tempo, a far sedimentare dentro di sé l’idea e il valore di un brand e la fiducia conseguente verso questo.Non è un segreto che la forma, i caratteri e determinati colori siano associati con precisi brand. Senza che ci sia bisogno di parole, vedendo lo “swoosh” sappiamo che si tratta di scarpe Nike e che una M gialla è un chiaro segnale di un Mcdonald’s. Quando dobbiamo rappresentare una marca nella nostra mente, in un disegno o in un gioco su un cellulare (ad esempio nell’applicazione per smartphone “Draw something”), cerchiamo di utilizzare i tratti appena descritti. Sono quindi importanti le domande che ci si pongono davanti guardando l’esperimento di Miller: quanto l’identità visiva incide sul riconoscimento di un brand e quanto questa accresce il suo valore?Per rispondere a queste domande è interessante osservare le fotografie presenti sul blog e dividerle in due fondamentali categorie: la prima comprende gli oggetti di uso quotidiano immediatamente riconoscibili, di cui però è impossibile a prima vista riconoscerne il brand. La seconda categoria comprende invece altri oggetti, utilizzati anche in misura minore dei precedenti, dei quali però è possibile riconoscerne il brand anche senza alcuna traccia dell’identità visiva che lo caratterizza (eccetto ovviamente la forma e il design che non possono essere nascoste da un colore).Un esempio che sintetizza la prima categoria in modo efficace è la foto del rasoio Gillette:

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L’immagine mostra chiaramente di che tipo di oggetto si tratti, tuttavia, pur essendo un oggetto di uso quotidiano, il brand è irriconoscibile.Al contrario un esempio della seconda categoria è rappresentato dal controller Nintendo.

Un oggetto come questo è sicuramente meno utilizzato di un rasoio. Tuttavia, il suo design e le sue forme, pur senza traccia di colore o di marchio, riconducono la mente del consumatore al brand Nintendo.

Gli esempi sopra riportati dimostrano come il design di un oggetto, indipendentemente dal fatto che si tratti di una commodity o di un oggetto di uso occasionale, possano incidere sulla brand awareness molto più di altri fattori. Miller mostra quindi la rilevanza e il valore sostanziale che ha l’identità visiva per una marca e le conseguenze negative o positive che ne discendono. “Brand Spirit” permette di capire che elementi come il design possano influire più di quanto gli stessi creativi riescano ad immaginare

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sul riconoscimento e sul valore stesso del brand. Un altro esempio della seconda categoria di oggetti, oltre al controller Nintendo, può essere considerato il seguente:

Un logo inciso nella plastica a forma di mela e il design quadrato tipico dei vecchi computer della Apple rimangono riconoscibili pur privati dei colori. “Brand Spirit” esprime in conclusione due concetti fondamentali che paiono in contraddizione, ma che rispecchiano il rapporto ambivalente fra arte e brand:

- L’identità di un oggetto non può essere cancellata con una pennellata di bianco, ma essa consiste e resta grazie al design e alla forma dell’oggetto stesso. Di conseguenza l’essenza del prodotto e del suo brand possono rimanere comunque inalterate. (Es. controller Nintendo)

- L’identità visiva di un oggetto può avere una duplice valenza: essere fondamentale per il riconoscimento di un prodotto e quindi per far sì che quel prodotto sia venduto per il valore aggiunto che il brand gli conferisce; essere allo stesso tempo nociva in quanto la sua

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manipolazione o l’eliminazione di alcune sue componenti dal prodotto, come il colore, possono portare alla scomparsa della marca nella mente del consumatore stesso. (Es. rasoio Gillette) Compreremmo mai un caffè al prezzo di 3 sterline se la confezione fosse questa?

(Starbucks)

Per questo motivo si può parlare di doppia valenza e funzione dell’identità visiva, senza però poter cancellare l’effettivo valore che questa assume a livello inconscio nel consumatore e in concreto per l’imprenditore.

Capitolo III. L’arte al servizio della marca

3.1 L’identità visiva nella costruzione del prodotto finale

L’identità visiva di un prodotto, ovvero l’immagine che la marca offre di sé attraverso un sistema complesso di segni e codici – nome, logo, cromatismo, forme etc., è il mezzo con cui il brand comunica all’interno (dipendenti, distributori, ecc.) e all’esterno (consumatori e media) la propria identità e i propri valori (Fabris & Minestroni, 2004).Come è emerso dall’esperimento di Andrew Miller, anche il packaging, il design, la pubblicità e la forma del prodotto e della sua confezione hanno un ruolo di primo livello nella percezione e nel riconoscimento della marca. Tutto questo sottolinea come l’esperienza visiva e sensibile degli

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occhi giochi un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità del brand. Per creare una visual identity di successo occorre servirsi, come in passato ed ora più che mai, della percezione e dell’apprezzamento che il consumatore prova di fronte a quello che egli arriva a considerare un prodotto “artistico”. La confezione di una semplice zuppa (grazie ad Andy Warhol) o il manifesto pubblicitario di una campagna politica (come per Barack Obama) possono infatti diventare essi stessi oggetti d’arte ed essere percepiti come tali dal pubblico. Appare quindi evidente, come affermato in precedenza, che il design o una grafica accattivante di un determinato prodotto possano influire sulla percezione che i consumatori hanno e di conseguenza sul valore della marca che lo produce. Il dibattito su cosa possa essere considerato arte o meno non è inerente all’argomento trattato in questo lavoro. E’importante pensare, infatti, che l’arte è quello che è considerato come tale dagli spettatori e dai consumatori (Dewey, 1989). Nel prodotto finale il risultato dell’utilizzo dell’arte come strumento della marca e la sua traduzione in identità visiva del brand è rintracciabile in alcuni elementi:

Brand nameIl nome di un brand è il suo primo contatto con l’esterno e di conseguenza la base di tutto il piano di comunicazione. Il brand name diventa quindi il segno esterno che trasmette un insieme pieno di significati,simboli e valori, rimandando ad un vero e proprio universo culturale (Fabris & Minestroni, 2004).Per un’azienda è fondamentale scegliere un nome che da una parte possa servire per diversificarsi dal mondo dei competitors posti sullo scaffale accanto, dall’altra che possa in modo efficace richiamare il senso e il valore insito nel prodotto stesso. Un esempio di questo concetto può essere rintracciato nei nomi dei profumi; il nome di un profumo o di un prodotto cosmetico, infatti, tende a richiamare sia i valori della Corporate sia la fragranza e la funzione che il prodotto è chiamato a svolgere nei confronti del consumatore. Egoiste di Chanel fa riferimento sia al brand alle sue spalle sia all’attributo che gli uomini vogliono sentirsi addosso indossando il profumo in questione. Cheap & Chic di Moschino, diversamente da Chanel, richiama invece il lato ludico e divertente del prodotto per una persona che non vuole prendersi troppo sul serio, ma che allo stesso tempo vuole rimanere elegante e raffinata (Fabris & Minestroni, 2004).

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Non va dimenticato che il carattere evocativo del nome di marca deve spesso accordarsi con altre caratteristiche fondamentali: la memorabilità, la differenziazione dalla massa, la semplicità e la carica emotiva.

LogoIl logo, insieme al brand name, è l’elemento principale della visual identity di un prodotto e sintetizza il pensiero di ogni azienda. La grafica di un marchio contiene all’interno elementi culturali, ambientali e psicologici e necessita di un alto livello iconografico che porti alla riconoscibilità del prodotto. Come accennato in precedenza, uno degli esempi più efficaci di loghi di successo è costituito dal baffo della Nike. Questo simbolo ha la capacità di contenere al suo interno tre concetti fondamentali per il successo di un logo: sintesi, interpretazione aperta e universalità. Un altro esempio importante è quello della mela Apple. Un simbolo di peccato e di piacere, un collegamento a New York (la grande mela), ma anche una rottura con le regole dell’epoca.Un logo efficace come quello Apple entra ovunque, in pubblicità. in un museo, nel mondo virtuale. Il logo diventa quindi l’emblema del rapporto fra arte, marca e marketing: un rapporto che ha un Dna commerciale (la marca) e un corpo artistico (per il linguaggio scelto ed il modo di utilizzarlo) (Marziani, 2001).

PackagingL’imballaggio, la confezione, il packaging propriamente detto, costituiscono oggi il contatto diretto fra Corporate, marca e consumatore. Il packaging può essere considerato come uno strumento che permette la traduzione dei valori del brand in forma di identità visiva, ma che, a differenza del logo, aggiunge alla vista la possibilità dell’uso del senso del tatto. La dimensione finale che unisce l’azienda al consumatore acquista quindi una valenza importante mirata ad integrare il contenitore con il suo contenuto. Come afferma Valeria Bucchetti (2002): “L’imballaggio di fronte al quale oggi ci troviamo è un artefatto capace di articolare un linguaggio proprio, per mezzo del quale l’emittente può far comunicare il proprio prodotto e attraverso cui il consumatore effettua le operazioni di identificazione e di decodifica..”.Per fare in modo che un packaging risulti efficace, devono essere presenti almeno cinque precise condizioni:

- Chiarezza

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- Istintività- Esperienza- Innovazione- Funzionalità

(Fabris & Minestroni, 2004).

Grafica pubblicitariaNella grafica pubblicitaria troviamo la massima espressione dell’arte sul brand e sul marketing contemporaneo. Qui il disegno industriale, la fotografia e l’arte del cromatismo si uniscono per dare vita ad un prodotto vitale che trasmetta emozioni e allo stesso tempo il messaggio della campagna pubblicitaria.Per capire meglio la stretta relazione fra arte e pubblicità visiva, può essere utile pensare alla strada urbana come ad un museo a cielo aperto dove le vie diventano luogo d’esposizione. Esposizione di prodotti, di colori, di emozioni. Il mondo dell’arte, grazie alla grafica, si unisce alla pubblicità, a un mondo in cui figure attraenti e slogan invitano il consumatore ad entrare e provare il prodotto pubblicizzato.La grafica pubblicitaria diventa così a sua volta una vera e propria forma d’arte. Per essere efficace però la grafica pubblicitaria deve superare un’importante sfida: riuscire a pubblicizzare un prodotto diverso da se stessa.

3.2 Luci e ombre: esempi dell’ambivalenza del rapporto fra arte e marca

Nel 1962 Andy Warhol, uno dei più famosi esponenti della pop art, realizzò un’opera dal titolo “Campbell’s Soup Cans”. L’immagine rappresentava la ripetizione di 32 lattine di zuppa una affianco all’altro. Il meccanismo utilizzato in questa ormai celebre opera era lo stesso di cui l’autore si era servito per dipingere numerose celebrità fra cui Marilyn Monroe: la ripetizione. Warhol era convinto infatti che la ripetizione ossessiva della stessa immagine portasse all’annientamento del messaggio di cui era portatore l’immagine stessa. Una critica palese alla diffusione dell’advertising e dell’inondazione di immagini pubblicitarie lungo le strade delle città. Nel 1986 Warhol, come accennato nel primo capitolo, venne chiamato a realizzare delle opere appositamente create per la campagna pubblicitaria del marchio Absolut Vodka. Era la prima volta che a un’artista veniva commissionata un’opera da un’azienda e che questa

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venisse realizzata per un preciso scopo commerciale. La campagna fu un successo. Quale esempio migliore di Andy Warhol per rappresentare l’intricato rapporto fra arte e brand? Tornando ai giorni nostri, un interessante caso simbolo dell’influenza riconosciuta all’arte sulla valutazione del brand proviene da una legge promulgata in Australia. A partire dalla fine di quest’anno i pacchetti di sigarette venduti in Australia dovranno avere un packaging standardizzato: saranno tutti rivestiti dallo stesso colore anonimo marroncino chiaro, non presenteranno il nome del brand sulla confezione o colori e frasi che potranno distrarre il consumatore dall’avvertimento statale del rischio alla salute sul pacchetto stesso. Il governo australiano parte dalla convinzione che colori forti e loghi troppo sottolineati possano portare il consumatore ad acquistare il prodotto solo perché affascinati da un contenitore accattivamente e alla moda. Philip Morris e British American Tobacco hanno per altro ammesso che il pacchetto da solo bastasse a diffondere l'immagine della marca. Philip Morris ha infatti dichiarato nel 1992 : “Alcune donne ammettono di comprare  Virginia Slims, Benson and Hedges... quando escono la sera per rispondere al desiderio di apparire più femminili e sofisticate (...) un imballaggio femminile più trendy potrebbe accentuare l'adeguatezza delle nostre marche” (Morris, 1992). Stabilito che il marketing dei pacchetti di sigarette ha un'importanza reale, diversi studi hanno mostrato che un pacchetto di tabacco neutro è percepito dai consumatori come meno attrattivo. L'introduzione di pacchetti di sigarette neutri sopprimerebbe dunque, per le industrie di tabacco, un mezzo chiave della loro strategia di comunicazione (Hammon et al., 2008 ).

Tornando indietro di qualche anno è possibile trovare un nuovo interessante esempio in cui l’arte, collegata alla pubblicità, in questo caso di un “prodotto” politico, abbia raggiunto efficacemente il suo scopo. Nel 2008 Fairey creò il famoso poster per la campagna elettorale di Barack Obama negli Stati Uniti.

Il poster riprende i colori della bandiera americana, il rosso, il blu e il bianco con la scritta “hope”, “progress” e “change”.

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Shepard Fairey, 2008, New York, US. National Portrait Gallery, 2009, New York, US.

Nel 2009 la National Portrait Gallery ha inserito il ritratto di Obama nella sua collezione permanente.Il ritratto di Obama è un esempio lampante di come l’arte possa aiutare la pubblicità e di come allo stesso tempo una forma di pubblicità, in questo caso politica, possa diventare essa stessa una forma d’arte.

Questo non esclude tuttavia la possibilità di essere utilizzata e criticata dagli oppositori. Accennando al subvertising, che verrà più ampiamente trattato nel prossimo capitolo, è interessante fare riferimento a questi due ritratti, parodia dell’opera di Fairey:

Washington post, 18/11/2011 Manifestazione contro Gheddafi, 28/02/201, Chicago,Illinois

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In entrambi i poster il messaggio e la grafica contenute nel ritratto di Obama sono stati capovolti o utilizzati per fini diversi da quelli stabiliti.

A differenza dell’ottimo risultato ottenuto dal ritratto di Obama, spesso l’arte, utilizzata per scopi pubblicitari, può creare dubbi e perplessità sul prodotto reclamizzato. In questo caso si tratta di una forma usata comunemente per la pubblicità stampata, ovvero la fotografia. Da diversi anni Mc Donald’s, leader indiscusso nel settore dei fast food americani, utilizza le foto dei propri prodotti alimentari per suscitare negli spettatori la voglia di acquistarli.Le tecniche di grafica e i software per modificare le immagini vengono in aiuto alle aziende, permettendo di accrescere l’appetibilità del prodotto con piccoli o grandi ritocchini, come visibile da questa immagine che rappresenta a confronto la realtà con la fotografia della pubblicità di un hamburger della catena Mc Donald’s.

Viene a questo punto da chiedersi, quanto si tratta di miglioramento a scopo pubblicitario e quanto si tratta di inganno? Quanto la palese differenza della realtà dalla fotografia incide sulla consapevolezza dei clienti di consumare un prodotto diverso da quello per cui si erano recati nel fast food?

Pare che negli ultimi anni i clienti della catena abbiano cominciato ad inondare l’ufficio marketing Mc Donald’s di domande e lamentale relative alla pubblicità spesso definita “ingannevole”. In questo caso si tratta quindi di un esempio in cui l’arte viene usata a favore del brand ma a discapito della correttezza e lealtà nei confronti del consumatore.

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Capitolo IV. Il capovolgimento del rapporto

4.1 Subvertising e critica alla marca

Con subvertising si intende la pratica di sovvertire e ribaltare i canoni della pubblicità e del branding. Il termine, frutto dell’unione fra subvert + advertising, nel corso degli anni ha acquistato una valenza e un significato sempre più ampio generando numerose riflessioni sul concetto di grafica pubblicitaria e sull’ubiquity della pubblicità cartellonistica. Una grossa fetta di giovani e meno giovani che da più di 10 anni cavalca l’onda del subvertising è quella degli “Adbusters”. Gli Adbusters, dal nome di una rivista canadese che si occupa di nuove pratiche di resistenza al mercato nata sul finire degli anni ‘80, sono dunque i cosiddetti‘distruttori di pubblicità’, perché ne contaminano il senso originario riutilizzandone i loghi, i codici, gli slogan.Il logo, punto di convergenza del valore economico e del valore immaginario, massima concentrazione del valore semiotico della merce, diventa oggetto di un sabotaggio sistematico da parte del movimento dei culture jammer (gruppo che mira alla contestazione dell'invasività dei messaggi pubblicitari). La rivista “Adbusters” può essere considerata una macchina che sforna spoof ad, ovvero parodie della pubblicità e dei loghi delle più grandi multinazionali, ed è, di conseguenza, una palestra ideativa unica al mondo. Nel 1999, “Adbusters” e ad altre sei riviste inglesi, americane e tedesche, hanno pubblicato una versione aggiornata del manifesto di Ken Garland del 1964. Garland, noto pubblicitario inglese che in passato aveva curato la campagna per il disarmo nucleare, dichiarò in questa nuova versione del manifesto, che il lavoro dei graphic designer col tempo era diventato quello di pubblicizzare prodotti di consumo invece di sensibilizzare l'opinione pubblica su temi di carattere sociale (Berardi, Pignatti, & Magagnoli, 2003). Oltre al gruppo facente capo alla rivista “Adbusters”, uno dei protagonisti per eccellenza della critica al consumo e all’invasione della pubblicità esterna è sicuramente Banksy. Il writer invisibile nel corso degli anni ha scelto di dedicarsi all’area più politica dell’arte, trattando di temi sociali e affermando attraverso le sue

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opere la necessità di rimpadronirsi di un contesto pubblico globalizzato dalle pubblicità e dalle multinazionali. Dal 2004 al 2008 Banksy è riuscito a introdurre le sue opere all’interno dei più grandi musei inglesi ed americani, mostrando al mondo i suoi dipinti. Fra i più celebri è possibile ricordare la critica alle due più grandi multinazionali americane: Disney e Mc Donald’s.

Banksy, Napalm, 2004

L’opera, dal titolo “Napalm”, rappresenta in realtà una critica rivolta non solo direttamente alle due multinazionali tramite la presenza di Ronald McDonald e di Mickey Mouse, ma alla società americana in generale e alle sue icone consumistiche. Ponendo al centro dell’immagine la bambina tratta da una celebre fotografia scattata durante l’attacco in Vietnam durante la guerra, l’artista vuole sottolineare i falsi miti della società americana e il contrasto fra i personaggi felici ai lati e la bambina vulnerabile al centro, simboli opposti della stessa nazione.

Oltre al subvertising propriamente detto, possono essere considerate forme di sabotaggio al senso e al significato dei loghi e dei messaggi di un brand anche opere create appositamente per lo scopo di far riflettere o di cambiare l'opinione su un determinato prodotto commerciale. Un esempio che merita spazio è sicuramente quello del fotografo Thomas Czarnecki.

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Con Czarnecki, la fotografia diventa una critica sotterranea ai valori e all’happy ending delle favole rappresentate nei cartoni della Disney.

Thomas Czarnecki, “From enchantment to down”, 2011

Le opere del fotografo francese, raccolte sotto il nome di “From enchantment to down”, rappresentano 15 fra le più famose principesse disney morte in circostanze misteriose. (Bonsai tv, 2011)

Un esempio più classico di come il design possa cambiare la nostra prospettiva sulla percezione di un brand può essere rintracciato negli Honest Logo di Victor Hertz. Il fotografo freelance e graphic designer ha deciso di rivisitare alcuni fra i loghi più famosi secondo la sua personale visione e interpretazione (Ninjamarketing, 2011).

Questi sono alcuni degli esempi:

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(Parodia del logo Playstation)

(Parodia del logo L’Oréal)

Come è reso chiaramente visibile da questi esempi, il branding può decidere di sfruttare l’arte a suo favore, ma deve tenere in conto dei diversi rischi a cui può andare incontro. Molto probabilmente il rapporto fra arte, branding e marketing continuerà e si moltiplicherà nel corso dei prossimi anni, ma allo stesso tempo le critiche e le parodie cercheranno di mostrare giorno dopo giorno come l’arte, per essere definita tale, possa pubblicizzare solo se stessa, non un altro prodotto.

Capitolo V. Conclusione

All'interno di questa breve tesina sono state in principio tracciate le origini del rapporto fra arte e marca. E’ stato così possibile vedere come nell’800 e prima della rivoluzione industriale le forme artistiche classiche, ancora prima dello sviluppo della fotografia e della grafica pubblicitaria, venissero apprezzate e riconosciute come portatrici un surplus per il prodotto artigianale e successivamente industriale. Dopo aver messo in luce questo percorso, in sintesi, si è passati direttamente all'età contemporanea e all'esperimento del fotografo irlandese Miller. Miller,

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indipendentemente dalle conclusioni che possono essere soggettivamente tratte dal suo lavoro, ha messo in luce i molteplici significati e le diverse facce con cui l'identità visiva di un brand e della sua gamma di prodotti si relaziona con il consumatore. E' stato inoltre mostrato come, partendo dal design, tutti gli elementi dell'identità visiva di un prodotto contribuiscano ad aumentare la brand equity e la brand awareness della marca alle sue spalle. Infine, negli ultimi due capitoli della tesina, è stato sottolineato come l'arte al servizio del brand possa in realtà divenire un'arma a doppio taglio e diventare perno della critica al branding e all'advertising selvaggio. Data la brevità del lavoro, si auspica comunque che questa tesina possa servire in futuro da spunto per ulteriori riflessioni sul tema in forma più estesa.

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