BOLLETTINO DI INFORMAZIONE - Corte Costituzionale · A partire dalla rivoluzione francese e fino al...
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FRANCIA
1. Decisione n. 2011-129 QPC del 13 maggio 2011, Sindacato dei funzionari del Senato
Parlamento – Atti interni delle assemblee parlamentari – Sindacabilità da parte del giudice
amministrativo – Limiti – Divieto di impugnazione diretta di atti generali – Asserita
violazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo – Questione prioritaria di
costituzionalità – Necessità di contemperamento tra il diritto al giudice e la separazione dei
poteri – Rigetto.
2. Decisione n. 2011-131 QPC del 20 maggio 2011, S.ra Térésa C. ed altri
Libertà di stampa – Reato di diffamazione – Forme di esonero da responsabilità – C.d.
exceptio veritatis – Impossibilità di avvalersi della stessa per fatti di oltre dieci anni
anteriori – Asserita violazione della libertà di espressione – Questione prioritaria di
costituzionalità – Generalità ed assolutezza del divieto – Sproporzione rispetto all’obiettivo
perseguito dal legislatore – Incostituzionalità.
GERMANIA
1. Ordinanza del 28 aprile 2011 (1 BvR 1409/10)
Previdenza ed assistenza – Pensione complementare – Condizioni per l’ottenimento –
Periodo minimo di aspettativa retribuita – Mancato computo dei periodi di maternità –
Asserita violazione del principio di eguaglianza – Ricorso diretto individuale – Constatata
discriminazione a danno delle lavoratrici madri – Accoglimento.
REGNO UNITO
1. In the matter of an application by Brigid McCaughey and another for Judicial
Review (Northern Ireland) [2011] UKSC 20, del 18 maggio 2011
Diritto alla vita – Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Articolo 2 – Obbligo di
condurre indagini in caso di decesso – Decessi verificatisi anteriormente allo Human Rights
Act 1998 – Non retroattività dell’Act – Giurisprudenza della House of Lords che escludeva
l’applicazione della CEDU ai casi anteriori – Successiva sentenza della Corte di Strasburgo
BOLLETTINO DI INFORMAZIONE
SULL’ATTUALITÀ GIURISPRUDENZIALE STRANIERA
giugno 2011
a cura di C. Bontemps di Sturco, C. Guerrero Picó, S. Pasetto, M. T. Rörig
con il coordinamento di Paolo Passaglia
contrastante – Ricorso avverso indagini su decessi del 1990 non condotte in modo conforme
agli standards imposti dalla CEDU – Corte suprema – Necessità di adeguarsi alla
normativa convenzionale – Superamento del precedente interno – Accoglimento del ricorso.
2. R (on the application of GC) (FC) (Appellant) v The Commissioner of Police of the
Metropolis (Respondent); R (on the application of C) (FC) (Appellant) v The
Commissioner of Police of the Metropolis (Respondent) [2011] UKSC 21, del 18
maggio 2011
Diritto alla riservatezza – Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Articolo 8 –
Prelevamento di reperti biologici di indagati per reati – Indagati che vengano
successivamente assolti – Previsione legislativa che consente la conservazione dei reperti –
Linee-guida a disciplina dell’operato della polizia che prevedono la conservazione in ogni
caso – Decisione della House of Lords che considera tale prassi non illegittima – Successiva
decisione della Corte di Strasburgo che dichiara la prassi contraria alla CEDU – Ricorso
avverso la conservazione dei reperti di due indagati successivamente assolti – Corte
suprema – Superamento della decisione della House of Lords – Interpretazione della
normativa legislativa atta a renderla compatibile con la Convenzione – Dichiarazione di
incompatibilità con la Convenzione delle Linee-guida a disciplina dell’operato della polizia
– Accoglimento del ricorso.
SPAGNA
1. STC 57/2011, del 3 maggio
Parlamento – Congreso de los Diputados – Deputato – Diritto di richiedere informazioni
alle pubbliche amministrazioni – Onere di far conoscere la richiesta al proprio gruppo –
Ufficio di Presidenza del Congreso de los Diputados – Ritenuta necessità di far sottoscrivere
la richiesta al capogruppo – Asserita violazione del diritto alla partecipazione politica del
deputato – Ricorso di amparo – Accoglimento.
2. STC 63/2011, del 16 maggio
Legge autonomica – Castiglia-La Mancha – Disciplina organica del servizio farmaceutico –
Autorizzazione all’apertura di nuove farmacie – Condizione ostativa del superamento dei
sessantacinque anni di età – Asserita violazione del principio di eguaglianza – Ricorso in
via incidentale – Riconosciuta sussistenza di una discriminazione in ragione dell’età –
Illegittimità costituzionale.
3. Presentazione della Memoria del Tribunale costituzionale
4. Notizia sulle dimissioni (non accettate) del Vicepresidente del Tribunale
costituzionale e di due giudici costituzionali
STATI UNITI
1. 563 U. S. ___ (2011), del 23 maggio 2011; No. 09-1233, Brown, Governor of
California, et al. v. Plata et al.
VIII Emendamento – Divieto di pene crudeli – California – Sovraffollamento carcerario –
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Conseguenti carenze medico-sanitarie – Asserita violazione del divieto di pene crudeli –
Duplice class action nei confronti dello Stato – Imposizione dell’obbligo di ridurre il tasso di
sovraffollamento – Impugnazione da parte dello Stato – Correttezza della decisione
impugnata – Respingimento del ricorso.
2. 563 U. S. __ (2011), del 31 maggio 2011; No. 10-98, Ashcroft v. al-Kidd
Libertà personale – Fermo e detenzione di sospettati di terrorismo – Utilizzo, allo scopo,
della legge sui testimoni-chiave – Asserita violazione del IV Emendamento – Ricorso
proposto avverso il Procuratore Generale – Invocazione dell’immunità di cui beneficiano gli
ufficiali federali – Mancata violazione di un diritto soggettivo “chiaramente stabilito” –
Esclusione della responsabilità.
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FRANCIA
a cura di Charlotte Bontemps di Sturco
1. Decisione n. 2011-129 QPC del 13 maggio 2011, Sindacato dei funzionari del
Senato
Parlamento – Atti interni delle assemblee parlamentari – Sindacabilità da
parte del giudice amministrativo – Limiti – Divieto di impugnazione diretta
di atti generali – Asserita violazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale
effettivo – Questione prioritaria di costituzionalità – Necessità di
contemperamento tra il diritto al giudice e la separazione dei poteri –
Rigetto.
Il Consiglio di Stato ha sollevato una questione prioritaria di costituzionalità avente ad oggetto
l’articolo 8 dell’ordinanza n. 58-1100 del 17 novembre 1958, relativa al funzionamento delle
assemblee parlamentari, dove si precisa che i dipendenti delle assemblee parlamentari sono dei
funzionari dello Stato, reclutati tramite concorso, il cui statuto e regime pensionistico sono però
determinati dall’Ufficio di presidenza (Bureau) dell’assemblea. Vi si prevedono, altresì, alcune
ipotesi nelle quali il giudice amministrativo è competente per pronunciarsi sulle controversie
concernenti lo statuto dei dipendenti delle assemblee parlamentari e gli appalti pubblici di cui le
assemblee siano committenti, nonché sulle azioni di responsabilità per danni derivanti dalle
suddette controversie.
Sia il Senato che l’Assemblea nazionale hanno scelto modalità di elezione dei rappresentanti del
personale diverse dalle altre amministrazioni pubbliche. Il sindacato dei funzionari del Senato ha
chiesto l’organizzazione di elezioni secondo le modalità proprie delle altre pubbliche
amministrazioni. Il Segretario generale del Senato ha respinto tale richiesta, facendo leva
sull’articolo 8 precitato. Il sindacato ha quindi contestato la legittimità di questa decisione davanti al
tribunale amministrativo, che ha però rigettato la domanda perché inammissibile. Il sindacato
ricorrente ha impugnato la decisione e la Corte amministrativa di appello di Parigi, investita della
controversia, ha ritenuto sussistere un dubbio di costituzionalità; ha quindi trasmesso la questione al
Consiglio di Stato che l’ha sollevata davanti al Conseil constitutionnel.
A partire dalla rivoluzione francese e fino al 1958, lo statuto del personale delle assemblee
parlamentari non era stato disciplinato dalla legge, bensì dai regolamenti interni delle assemblee, in
ossequio al principio di auto-organizzazione delle Camere1. Alla luce della giurisprudenza
tradizionale, il giudice amministrativo declinava la sua competenza a pronunciarsi su questioni
relative agli organi legislativi dello Stato, anche per gli atti ad essi interni (CE, 15 novembre 1872,
Carrey de Bellemare, n. 45079, Rec. p. 591). Un’unica eccezione a questa incompetenza del giudice
era stata ammessa per garantire i diritti dei terzi (CE, 3 febbraio 1899, Héritiers Joly, n. 87801, Rec.
p. 83, relativamente al pagamento del compenso per prestazioni lavorative).
1 Cfr. regolamento del Bureau dell’Assemblea nazionale del 14 maggio 1963, cit. da CONSEIL
CONSTITUTIONNEL, Commentaire - Décision n. 2011-129 QPC du 13 mai 2011, Syndicat des fonctionnaires du
Sénat (Actes interne des Assemblées parlementaires), in http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-
constitutionnel/root/bank/download/2011129QPCccc_129qpc.pdf, p. 2.
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In seguito al caso Girard del 1957 (nel quale un dirigente di un servizio dell’Assemblea
nazionale era stato oggetto, durante la seconda guerra mondiale, della sanzione dell’epurazione, e
non aveva potuto essere successivamente reintegrato, in ragione dell’incompetenza del giudice
amministrativo a pronunciarsi sugli atti adottati dal Presidente e dai questori dell’Assemblea
nazionale2), è stato adottato l’articolo 8 dell’ordinanza n. 58-1100 del 17 novembre 19583.
Nel nuovo sistema, il giudice amministrativo è quindi competente a pronunciarsi sulle decisioni
relative al personale. Più delicata è la questione degli atti generali in materia (ad esempio, gli statuti
dei dipendenti) adottati dalle assemblee parlamentari: per essi, il Consiglio di Stato si è dichiarato
incompetente in caso di contestazione diretta (CE, 4 luglio 2003, M. Maurice P., n. 254850, che si è
discostato però dalle conclusioni del Commissario di Governo), mentre la competenza è stata
riconosciuta allorché la contestazione sia indiretta, e cioè tramite l’eccezione di illegittimità
sollevata in occasione della contestazione di un provvedimento individuale fondato sull’atto
generale (CE, 16 aprile 2010, Assemblée nazionale, n. 326534).
Nella specie, il sindacato ricorrente lamentava le restrizioni cui sono soggetti i dipendenti delle
assemblee parlamentari ed i loro sindacati per contestare le decisioni diverse da quelle elencate
all’articolo 8 ed in particolare l’assenza di ricorso diretto contro gli atti generali relativi al loro
statuto, con conseguente violazione del diritto ad un rimedio giurisdizionale effettivo garantito
dall’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Il Conseil constitutionnel ha rigettato le doglianze, evidenziando che “le disposizioni di cui
all’articolo 8 […] permettono ad ogni dipendente delle assemblee parlamentari di contestare,
davanti alla giurisdizione amministrativa, ogni decisione individuale lesiva adottata dagli organi
delle assemblee parlamentari; che, in quest’ambito, il dipendente interessato può sia contestare, in
via di eccezione, la legittimità degli atti statutari sui quali si basa l’atto individuale lesivo, sia
avviare un’azione per danni contro lo Stato; che, in questa stessa sede, un’organizzazione sindacale
ha la possibilità di intervenire davanti alla giurisdizione adita”. Il diritto ad un ricorso effettivo
implica, sì, che una decisione possa essere contestata da una persona interessata, ma non implica
anche che una qualunque persona fisica o giuridica – ed un sindacato, nella specie – possa sempre
avere accesso al giudice4. Il Conseil ha poi aggiunto che, “non permettendo a tale organizzazione
[sindacale] di ricorrere direttamente alla giurisdizione amministrativa contro un atto statutario
adottato dagli organi delle assemblee parlamentari, il legislatore ha assicurato una conciliazione che
non è sproporzionata tra il diritto delle persone interessate a proporre un ricorso giurisdizionale
effettivo ed il principio di separazione dei poteri garantito dall’articolo 16 della Costituzione”
(Considérant 4).
Il Conseil ha quindi concluso nel senso della conformità alla Costituzione dell’articolo 8
dell’ordinanza n. 58-1100 del 17 novembre 1958.
Questa decisione si segnala soprattutto perché in essa si precisa il significato dell’articolo 16
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che si pone a fondamento sia del diritto ad
un ricorso effettivo che della separazione dei poteri. In effetti, da quest’ultimo principio, il Conseil
2 CE, Ass. 31 maggio 1957, Sieur Girard, n. 15796-15797, Rec. p. 360.
3 Trattasi di una delle ordinanze adottate in attuazione dell’articolo 92 (oggi abrogato) della Costituzione francese
del 1958 che aveva concesso al Governo, a titolo provvisorio, un potere normativo autonomo di attuazione della
Costituzione nell’immediatezza della sua entrata in vigore.
4 CONSEIL CONSTITUTIONNEL, Commentaire - Décision n. 2011-129 QPC du 13 mai 2011, Syndicat des
fonctionnaires du Sénat (Actes interne des Assemblées parlementaires), cit., p. 10.
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constitutionnel aveva già ricavato il principio di autonomia finanziaria degli organi costituzionali
(decisione n. 2001-456 DC del 27 dicembre 2001, Legge finanziaria 2002); con questa pronuncia, si
è ammesso altresì che una restrizione del diritto ad un giudice in relazione agli atti degli organi
costituzionali è ben possibile, a condizione che non sia assoluta. Posizione, questa, che coincide con
quella fatta propria dal Consiglio di Stato, anche in relazione ad atti del Conseil constitutionnel5.
5 Il Consiglio di Stato ha, infatti, declinato la propria competenza a giudicare ricorsi simili a quello in esame
concernenti il Conseil constitutionnel (ad esempio, in caso di contestazione del regolamento del Conseil sull’accesso al
suo archivio: CE, Ass. 25 ottobre 2002, Brouant). In altre occasioni, la declinatoria della competenza ha riguardato atti
di altri organi costituzionali, che avevano avuto ripercussioni sul Conseil constitutionnel: ad es., la nomina di un
membro del Conseil constitutionnel da parte del Presidente della Repubblica (CE, Ass., 9 aprile 1999, Mme B., n.
195616), il mancato ricorso al Conseil da parte del Presidente della Repubblica (CE, ord. cautelare, 7 novembre 2001,
Tabaka, n. 239761). Da notare è che il Consiglio di Stato si è spesso discostato dalle conclusioni dei commissari di
Governo, orientati a riconoscere la competenza del giudice amministrativo in materia. Cfr. CONSEIL
CONSTITUTIONNEL, Commentaire - Décision n. 2011-129 QPC du 13 mai 2011, Syndicat des fonctionnaires du
Sénat (Actes interne des Assemblées parlementaires), cit., p. 6.
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2. Decisione n. 2011-131 QPC del 20 maggio 2011, S.ra Térésa C. ed altri
Libertà di stampa – Reato di diffamazione – Forme di esonero da
responsabilità – C.d. exceptio veritatis – Impossibilità di avvalersi della
stessa per fatti di oltre dieci anni anteriori – Asserita violazione della
libertà di espressione – Questione prioritaria di costituzionalità –
Generalità ed assolutezza del divieto – Sproporzione rispetto all’obiettivo
perseguito dal legislatore – Incostituzionalità.
Su rinvio della Corte di cassazione, è stata posta una questione prioritaria di costituzionalità al
Conseil constitutionnel a proposito dell’articolo 35, comma 5, della legge del 29 luglio 1881, sulla
libertà della stampa, come modificato dall’ordinanza del 6 maggio 1944, relativa alla repressione
dei delitti di stampa.
Nel diritto francese, si ha diffamazione quando si afferma o si imputa un fatto che lede l’onore ed
il prestigio di una persona o del corpo al quale appartiene (articolo 29 della legge del 29 luglio
1881). La persona accusata di diffamazione può esonerarsi da responsabilità producendo la prova di
quanto affermato. In tre casi, tuttavia, non è possibile esimersi da responsabilità attraverso la prova
della veridicità di quanto affermato (articolo 35): se l’affermazione contestata concerne la vita
privata, se il fatto riferito costituisce un’infrazione penale che è stata oggetto di amnistia, di
prescrizione o di una condanna per la quale è poi intervenuta la revisione o la riabilitazione; se si
riferiscono fatti di oltre dieci anni anteriori6.
Ad essere contestata di fronte al Conseil è stata proprio la limitazione dell’exceptio veritatis ai
fatti risalenti a meno di dieci anni.
La previsione, che – a quanto consta – è tipica del diritto francese, è stata giustificata, nel 1944,
con il diritto all’oblio e l’esigenza di preservare la pace sociale7. La dottrina ha, tuttavia, espresso
vivaci critiche, perché l’eccezione limiterebbe il controllo democratico e colliderebbe con la logica
stessa che anima l’attività di chi professionalmente indaga sul passato.
L’interpretazione della Corte di cassazione di questa norma, poi, è stata molto rigorosa, tanto da
porre un divieto generale ed assoluto, che è stato attenuato solo in riferimento alla buona fede, che
può però essere invocata esclusivamente per fatti di oltre dieci anni anteriori, ed a condizione che
l’imputato dimostri l’esistenza di un fine legittimo, l’assenza di intenzione di nuocere ed una certa
prudenza nell’espressione (ciò che è possibile in ambito scientifico, ma non in quello politico)8.
La Corte EDU ha sanzionato la Francia per questa norma nella sentenza del 17 febbraio 2007,
Mamère c/ France, n. 12697/03, ritenendo che le persone che sono perseguite per le posizioni
espresse su temi di interesse generale devono potersi esonerare da responsabilità dimostrando la
loro buona fede e, per determinati fatti, provando la veracità degli stessi. Le giurisdizioni nazionali
6 La legge n. 2010-1 del 4 gennaio 2010, relativa alla protezione del segreto delle fonti giornalistiche, ha poi
previsto che l’imputato possa produrre elementi provenienti da una violazione del segreto di un’inchiesta, di
un’istruzione o di ogni segreto professionale per accertare la sua buona fede o la veridicità dei fatti ritenuti diffamatori.
7 CONSEIL CONSTITUTIONNEL, Commentaire - Décision n. 2011-131 QPC du 20 mai 2011, Mme Térésa C. ed
altri, in http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/root/bank/download/2011131QPCccc_131qpc.pdf,
p. 2.
8 Sulla giurisprudenza della Corte di cassazione, v., amplius, CONSEIL CONSTITUTIONNEL, Commentaire -
Décision n. 2011-131 QPC du 20 mai 2011, Mme Térésa C. ed altri, cit., p. 9.
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si sono generalmente adeguate a questa decisione; il Tribunale di Parigi ha però ritenuto che
persistesse un certo margine di valutazione da parte del giudice nazionale, donde il rinvio della
questione di costituzionalità alla Corte di cassazione, che ha provveduto a sollevarla di fronte al
Conseil constitutionnel.
Il Conseil, riprendendo quanto espresso nella decisione n. 2009-580 DC del 10 giugno 2009, ha
verificato che la limitazione alla libertà di stampa rispondesse alle tre condizioni di necessità, di
adeguatezza e di proporzione rispetto all’obiettivo proseguito.
Per un verso, ha ritenuto che la norma contestata perseguiva un “obiettivo di interesse generale
di ricerca della pace sociale”; per altro verso, però, ha considerato che il divieto posto riguardava,
indistintamente, tutte le opinioni o gli scritti che risultano da lavori storici o scientifici e tutte le
affermazioni riferite ad eventi il cui richiamo o commento si inseriva in un dibattito pubblico di
interesse generale; “per il suo carattere generale e assoluto, [dunque] questo divieto lede[va] la
libertà di espressione in modo sproporzionato, avendo riguardo al fine perseguito, e […] viola[va]
l’articolo 11 della Dichiarazione del 1789”: il comma 5 dell’articolo 35 della legge del 29 luglio
1881 è quindi stato dichiarato incostituzionale.
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GERMANIA
a cura di Maria Theresia Rörig
1. Ordinanza del 28 aprile 2011 (1 BvR 1409/10)
Previdenza ed assistenza – Pensione complementare – Condizioni per
l’ottenimento – Periodo minimo di aspettativa retribuita – Mancato
computo dei periodi di maternità – Asserita violazione del principio di
eguaglianza – Ricorso diretto individuale – Constatata discriminazione a
danno delle lavoratrici madri – Accoglimento.
Il Tribunale costituzionale federale ha accolto un ricorso diretto promosso da un’impiegata
pubblica cui era stata negata la pensione complementare in ragione del mancato raggiungimento –
dovuto al mancato computo del periodo di maternità – della necessaria anzianità assicurativa.
La VBL (Versorgungsantalt des Bundes und der Länder), l’ente previdenziale per gli impiegati o
funzionari del Bund e dei Länder, prevede per gli impiegati pubblici prestazioni di previdenza
complementare (la pensione di anzianità, la pensione per invalidità e la pensione per i superstiti)
rispetto a quella comune prevista per legge.
Il regolamento di natura privatistica della VBL, nella sua versione in vigore fino al 30 dicembre
2000, prevedeva un diritto alla pensione complementare solamente in capo a chi avesse raggiunto
un periodo di aspettativa pari a 60 mesi in cui fosse stata versata, dal datore di lavoro, una
retribuzione soggetta ad imposta. Poiché l’indennità di maternità non era soggetta ad imposta, i
relativi periodi non venivano computati nel calcolo dei 60 mesi dell’aspettativa pensionistica,
contrariamente a quanto previsto per tutti i periodi di malattia o di infortunio.
La richiesta avanzata dalla ricorrente per ricevere la pensione complementare era stata respinta in
ragione del fatto che la stessa non avesse raggiunto i 60 mesi di aspettativa necessari, ma ne avesse
raggiunti solamente 59. La ricorrente, nel 1988, era stata in maternità (per i tre mesi di assenza
obbligatoria): qualora tale periodo fosse stato computato, la soglia minima richiesta sarebbe stata
raggiunta. A seguito della decisione della VBL, la ricorrente aveva adito senza esito le vie
giudiziarie. Come ultima ratio, aveva presentato ricorso presso il Bundesverfassungsgericht.
Quest’ultimo ha accolto il ricorso, dichiarando che le decisioni assunte dai giudici di merito
avevano violato il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, comma 3, per. 1, della Legge
fondamentale, che sancisce che tutti hanno diritto ad un pari trattamento davanti alla legge, e che
vieta, in particolare, le discriminazioni in ragione del sesso.
Il Tribunale ha evidenziato che, a prescindere dalla sua natura privatistica, il regolamento della
VBL deve essere valutato direttamente alla luce del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3,
comma 1, della Legge fondamentale, poiché la VBL, quale ente previdenziale di diritto pubblico,
esercita una funzione di interesse pubblico.
Secondo i giudici di Karlsruhe, il regolamento in questione, nella parte in cui negava
l’imputazione del periodo di maternità nel calcolo delle aspettative da raggiungere, ledeva, sotto
due profili, il diritto delle lavoratrici madri all’eguaglianza: da un lato, la discriminazione si
produceva in relazione ai colleghi maschi, che non devono obbligatoriamente assentarsi dal posto
di lavoro per il periodo di maternità; dall’altro lato, la discriminazione si rintracciava rispetto agli
impiegati pubblici che si fossero assentati per malattia o infortuni.
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Le disparità di trattamento non apparivano giustificate da motivi imprescindibili. La scelta e
l’obiettivo del legislatore di non assoggettare l’indennità di maternità ad imposta, per evitare che i
datori di lavoro optino contro l’assunzione di donne in età fertile, non deve, tramite regolamenti
come quello della VBL, condurre a conseguenze pregiudizievoli per le lavoratrici madri.
La violazione del principio che vieta la discriminazione in ragione del sesso ha pertanto
condotto, nel caso di specie, a ritenere tutelabile il diritto della ricorrente ad esigere il computo del
periodo di maternità e, conseguentemente, la pensione complementare.
Alla luce di quanto stabilito dal Bundesverfassungsgericht, i giudici di merito dovranno adottare
una nuova decisione.
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REGNO UNITO
a cura di Sarah Pasetto
1. In the matter of an application by Brigid McCaughey and another for Judicial
Review (Northern Ireland) [2011] UKSC 20, del 18 maggio 2011
Diritto alla vita – Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Articolo 2 –
Obbligo di condurre indagini in caso di decesso – Decessi verificatisi
anteriormente allo Human Rights Act 1998 – Non retroattività dell’Act –
Giurisprudenza della House of Lords che escludeva l’applicazione della
CEDU ai casi anteriori – Successiva sentenza della Corte di Strasburgo
contrastante – Ricorso avverso indagini su decessi del 1990 non condotte in
modo conforme agli standards imposti dalla CEDU – Corte suprema –
Necessità di adeguarsi alla normativa convenzionale – Superamento del
precedente interno – Accoglimento del ricorso.
La Corte suprema ha affermato che l’obbligo procedurale posto agli Stati firmatari della CEDU
di indagare con determinate forme su un decesso, derivante dall’articolo 2 della Convenzione,
sussiste anche per le indagini sui decessi avvenuti prima dell’entrata in vigore dello Human Rights
Act 1998, la legge che ha incorporato la CEDU nell’ordinamento britannico. La sentenza ha così
adeguato la prassi britannica a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo, che nella sentenza Šilih c.
Slovenia del 2009 ha evidenziato che l’articolo 2 pone un obbligo procedurale a sé stante, che in
taluni casi può sussistere anche qualora il decesso in questione sia avvenuto prima che lo Stato in
questione abbia ratificato la Convenzione.
I ricorrenti nel caso giunto dinanzi alla Corte suprema britannica erano familiari di due uomini
uccisi con armi da fuoco dall’esercito britannico nel 1990, in ipotesi dando corso alla “shoot and
kill” policy seguita nell’Irlanda del Nord dall’esercito stesso. Per alcuni aspetti, le indagini sulle
morti dovevano ancora essere condotte: da ciò il ricorso, teso ad ottenere una dichiarazione
giudiziaria che imponesse di dar luogo ad una indagine in conformità agli obblighi procedurali
imposti dall’articolo 2. In concreto, una siffatta dichiarazione avrebbe avuto l’effetto di estendere
considerevolmente l’ambito di indagine, che non avrebbe potuto limitarsi alle cause immediate dei
decessi, ma che avrebbe dovuto coprire anche la pianificazione ed il controllo dell’operazione
sfociata nella morte dei due uomini (nella specie, il Coroner – cioè perito medico dello Stato – era a
favore dell’espansione dell’oggetto dell’esame, ma il capo della polizia dell’Irlanda del Nord si era
opposto).
L’articolo 2 CEDU dà luogo ad un obbligo sostanziale sullo Stato di non uccidere, ma anche ad
un obbligo procedurale di effettuare un’indagine efficace sulle circostanze del decesso. Un
individuo può adire la Corte EDU contro il Regno Unito se ritiene di aver subito un danno in tal
senso e la normativa nazionale non prevede alcun risarcimento. Nella fattispecie, la questione
dinanzi alla Corte suprema era quella di accertare se i ricorrenti avessero diritto ad avanzare una
richiesta sulla base dello Human Rights Act 1998. Nella sentenza McKerr del 2004, la House of
Lords aveva affermato che l’obbligo procedurale di indagare su un decesso insorgeva nel momento
del decesso; pertanto, le morti avvenute prima dell’entrata in vigore dello Human Rights Act 1998
non rientravano nel suo ambito di applicazione, non avendo l’Act efficacia retroattiva. Una tale
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posizione, alla luce della sentenza Šilih, era evidentemente da rivedere. La High Court, in primo
grado, e la Court of Appeal dell’Irlanda del Nord avevano affermato di essere vincolate dalla
sentenza McKerr, nonostante la stessa fosse incompatibile con Šilih. Per superare il precedente si
imponeva, quindi, una decisione della Corte suprema.
La maggioranza del collegio della Corte suprema del Regno Unito ha affermato che l’indagine
sui decessi dei due uomini doveva avvenire in conformità all’obbligo procedurale derivante
dall’articolo 2 della CEDU, tenendo ben presente che la CEDU è un documento “vivente”, e la
Corte di Strasburgo ha esteso l’ambito dei diritti sanciti dalla Convenzione in più occasioni: anche
la sentenza Šilih ha rappresentato una evoluzione nell’orientamento della Corte EDU, poiché in un
caso precedente riguardante delle circostanze simili, Moldovan c. Romania, la Corte EDU aveva
affermato che l’applicabilità dell’obbligo procedurale dipendeva dall’applicabilità dell’obbligo
sostanziale consistente nel dovere per lo Stato di non uccidere.
A parere della maggioranza dei Justices, la portata dello Human Rights Act 1998 era da
interpretarsi con riferimento alla volontà del Parlamento britannico che poteva desumersi in merito
all’accettazione dell’evoluzione e dello sviluppo – ad opera della Corte di Strasburgo – dei diritti
riconosciuti dalla CEDU. A tal riguardo, si potevano distinguere due principi: il primo consisteva
nella non-retroattività dello Human Rights Act 1998, principio dichiarato prevalente nella sentenza
sul caso McKerr; il secondo, invece, consisteva nell’opportunità per la normativa inglese di
rispecchiare le disposizioni della CEDU (come interpretate dalla Corte di Strasburgo). Nella
sentenza Šilih, la Corte EDU ha chiarito inequivocabilmente che uno Stato ha l’obbligo di
assicurare la conformità dell’indagine sul decesso agli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2.
Alla luce di tali considerazioni, si poteva affermare che il Parlamento avesse avuto l’intenzione di
istituire un obbligo nazionale di fare in modo che lo Human Rights Act rispecchiasse gli obblighi
internazionali ora imposti in seguito al caso Šilih.
Lord Rodger, dissenziente, ha affermato che la sentenza Šilih non era rilevante nel caso di specie
e che la decisione adottata dalla maggioranza del collegio comportava l’introduzione, nell’Act, di
una norma (quella della sua retroattività) che il Parlamento aveva voluto escludere per motivi di
policy. Lord Hope concordava sul fatto che il diritto nazionale non prevedesse alcun diritto a che
l’indagine sui decessi avvenuti prima dell’entrata in vigore dello Human Rights Act si svolgesse in
conformità all’articolo 2; come la maggioranza dei Justices, comunque, era del parere che, nel caso
in cui lo Stato decidesse di compiere una tale indagine, l’indagine doveva conformarsi all’articolo 2.
2. R (on the application of GC) (FC) (Appellant) v The Commissioner of Police
of the Metropolis (Respondent); R (on the application of C) (FC) (Appellant) v
The Commissioner of Police of the Metropolis (Respondent) [2011] UKSC 21,
del 18 maggio 2011
Diritto alla riservatezza – Convenzione europea dei diritti dell’uomo –
Articolo 8 – Prelevamento di reperti biologici di indagati per reati –
Indagati che vengano successivamente assolti – Previsione legislativa che
consente la conservazione dei reperti – Linee-guida a disciplina
dell’operato della polizia che prevedono la conservazione in ogni caso –
Decisione della House of Lords che considera tale prassi non illegittima –
Successiva decisione della Corte di Strasburgo che dichiara la prassi
contraria alla CEDU – Ricorso avverso la conservazione dei reperti di due
indagati successivamente assolti – Corte suprema – Superamento della
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decisione della House of Lords – Interpretazione della normativa legislativa
atta a renderla compatibile con la Convenzione – Dichiarazione di
incompatibilità con la Convenzione delle Linee-guida a disciplina
dell’operato della polizia – Accoglimento del ricorso.
La Corte suprema ha affermato la contrarietà all’articolo 8, par. 2, CEDU della prassi, seguita
dalla polizia britannica, consistente nella conservazione di campioni biologici o di impronte digitali
prelevati da indagati. Il collegio giudicante era composto dal numero eccezionale di 7 giudici, la
maggioranza dei quali è pervenuta ad una tale decisione.
La section 64 del Police and Criminal Evidence Act 1984 (legge fondamentale di disciplina dei
poteri di polizia nel Regno Unito) dispone che i campioni biologici o le impronte digitali rilevate da
indagati per un reato devono essere distrutti se l’individuo viene poi dichiarato innocente del reato.
Tale obbligo è stato però successivamente sostituito con un potere discrezionale, attraverso
l’introduzione della section 64(1A) in seguito all’emanazione del Justice and Police Act 2001. Così,
i campioni biologici ed impronte digitali “possono essere conservati dopo che sono serviti per gli
scopi per i quali erano stati prelevati”. Tale section è stata anche integrata da linee-guida redatte
dalla Association of Chief Police Officers, le quali hanno stabilito che tali reperti biologici potevano
essere distrutti solamente in casi eccezionali.
La prassi di conservazione operata dalla polizia era stata contestata dinanzi alla House of Lords
(nei casi R (S) v Chief Constable of the South Yorkshire Police e R (Marper) v Chief Constable of
South Yorkshire Police, del 2004). Una maggioranza dei Lords aveva, però, ritenuto che la
conservazione dei reperti non costituiva una violazione dei diritti sanciti dall’articolo 8 CEDU, ed
all’unanimità i Lords avevano affermato che, in ogni caso, la prassi poteva rientrare nelle eccezioni
giustificate dall’articolo 8, par. 2. La Corte EDU si era pronunciata in senso contrario (S and
Marper v United Kingdom, del 2008), affermando che la conservazione a tempo indefinito dei
reperti costituiva un’interferenza non giustificata con i diritti sanciti dall’articolo 8, par. 2. Il
Governo britannico aveva allora reagito imponendo la distruzione dei reperti relativi ai minori di
dieci anni, ed aveva dato luogo ad una consultazione al fine di valutare le riforme opportune. Era
stato così presentato un disegno di legge che, a causa del cambio di governo nel maggio 2010, non è
stato definitivamente approvato. Il Governo attuale è impegnato nella promozione di nuove forme
di adeguamento a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo.
Nella fattispecie concreta, i due ricorrenti erano stati indagati, rispettivamente, per aggressione e
per violenza sessuale, molestie e frode. Ad entrambi gli indagati erano stati prelevati campioni
biologici, erano state rilevate le impronte digitali, ed entrambi gli indagati erano stati fotografati. Al
termine del processo, entrambi erano stati assolti.
Entrambi avevano richiesto la distruzione dei propri reperti biologici in possesso della polizia,
ma tali richieste erano state respinte, in assenza delle circostanze eccezionali richieste dalle linee-
guida sopra ricordate. I richiedenti avevano così intentato un ricorso giurisdizionale, allegando che
la conservazione dei loro dati biologici, alla luce della sentenza della Corte EDU S. and Marper, era
contraria ai propri diritti sanciti dall’articolo 8. La Divisional Court, in primo grado, nel rigettare le
istanze presentate, aveva permesso un c.d. leapfrog appeal, cioè un appello direttamente alla Corte
suprema, senza dover prima ottenere un giudizio di secondo grado presso la Court of Appeal.
La Corte suprema ha accolto i ricorsi promossi dai richiedenti, affermando che le linee-guida
della polizia britannica sono incompatibili con l’articolo 8 della CEDU.
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Era pacifico che la sentenza Marper, della House of Lords, doveva essere superata, e che, alla
luce della sentenza emessa dalla Corte EDU, la conservazione a tempo indeterminato dei reperti dei
ricorrenti costituiva una violazione dell’articolo 8 CEDU. La questione dinanzi alla Corte suprema
era, quindi, quella del modo attraverso il quale conferire alla normativa vigente una interpretazione
che fosse compatibile con le disposizioni della CEDU.
L’obiettivo del legislatore del 2001, unanimemente riconosciuto, nella sostituzione dell’obbligo
di distruzione dei reperti con una mera facoltà in tal senso consisteva nella creazione di una banca
dati al fine di facilitare la lotta contro il crimine. Tuttavia, un tale obiettivo non poteva tradursi in
una volontà, solo presunta, del Parlamento britannico di conservare i reperti a tempo indeterminato.
Piuttosto, il Parlamento aveva semplicemente conferito un potere discrezionale di conservazione dei
reperti alla polizia. Il testo prescriveva che la polizia “poteva” conservare i dati, un lessico che
conferiva, appunto, una possibilità e non un vero e proprio obbligo. Pertanto, non sussisteva alcun
motivo di supporre che il Parlamento avesse inteso che l’obiettivo perseguito tramite la legge fosse
da attuarsi nel modo sproporzionato in cui era stato attuato. Ne discendeva che una lettura della
section 64 (1A) che fosse conforme all’articolo 8 CEDU era, ad avviso della maggioranza del
collegio, certamente possibile.
Per quanto riguarda il rimedio in concreto approntato dalla Corte, alla luce dell’intenzione del
Governo in carica di far entrare in vigore una nuova normativa nel corso di quest’anno, è stato
ritenuto sufficiente rendere semplicemente una dichiarazione dell’illegalità delle linee-guida a
disciplina dell’operato della polizia in quanto incompatibili con la CEDU.
Nel parere dei Lords dissenzienti, l’obiettivo dal Parlamento perseguito nella modifica della
Police and Criminal Evidence Act era quello di assicurare la conservazione a tempo indeterminato
dei campioni biologici prelevati da individui indagati; per questo, la polizia non poteva fare altro se
non conservare, appunto, i reperti. Non era possibile, a loro avviso, interpretare la section 64 (1A)
in conformità alla CEDU, ma, poiché la polizia non poteva effettivamente agire diversamente, i loro
atti dovevano considerarsi leciti alla luce delle disposizioni al riguardo rilevanti dello Human Rights
Act1.
1 Il riferimento va, in particolare, alla section 6 dell’Act, relativa agli atti delle autorità pubbliche. Secondo tale
disposizione,
“(1) è illecito per un’autorità pubblica agire in modo incompatibile con un diritto sancito dalla Convenzione.
(2) Il sottoparagrafo (1) non si applica ad un atto di un’autorità pubblica se
(a) in seguito ad una o più disposizioni di legislazione primaria, l’autorità non poteva agire diversamente, oppure
(b) nel caso sussistano una o più disposizioni di, o create in seguito a, legislazione primaria, che non possono essere
interpretate o attuate in maniera compatibile con i diritti sanciti dalla Convenzione, l’autorità agiva in modo da dare
effetto o vigore alle stesse disposizioni”.
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SPAGNA
a cura di Carmen Guerrero Picó
1. STC 57/2011, del 3 maggio
Parlamento – Congreso de los Diputados – Deputato – Diritto di richiedere
informazioni alle pubbliche amministrazioni – Onere di far conoscere la
richiesta al proprio gruppo – Ufficio di Presidenza del Congreso de los
Diputados – Ritenuta necessità di far sottoscrivere la richiesta al
capogruppo – Asserita violazione del diritto alla partecipazione politica del
deputato – Ricorso di amparo – Accoglimento.
La sala prima del Tribunale costituzionale ha accolto il ricorso di amparo di un (ex) deputato del
gruppo parlamentare socialista alla Camera, nei confronti delle decisioni dell’Ufficio di Presidenza
della Camera (Mesa del Congreso de los Diputados) che avevano dichiarato inammissibile la sua
richiesta di informazione alla Confederazione idrografica del Guadalquivir sull’impatto ambientale
di una diga.
L’Ufficio di Presidenza della Camera aveva respinto l’iniziativa del parlamentare perché non era
stata firmata dal capogruppo, ciò che, ad avviso del ricorrente, non era previsto dal regolamento
della Camera e che, nel limitare indebitamente la sua funzione di parlamentare, violava il suo diritto
alla partecipazione politica in condizioni di uguaglianza (art. 23, comma 2, Cost.).
Secondo l’art. 7 del regolamento della Camera:
1. Ai fini del miglior svolgimento delle proprie funzioni parlamentari, i deputati avranno la
facoltà di ottenere dalle pubbliche amministrazioni i dati, relazioni o documenti in loro
possesso, previa conoscenza [dell’iniziativa] da parte del rispettivo gruppo parlamentare.
2. La richiesta verrà inoltrata, in ogni caso, tramite la Presidenza della Camera e
l’amministrazione destinataria dovrà fornire la documentazione richiesta oppure comunicare
al Presidente della Camera, non oltre il termine di trenta giorni, ed al richiedente, nella
forma che ritenga più appropriata, le ragioni fondate in diritto che lo impediscono.
Secondo la Presidenza della Camera, la prassi parlamentare per cui si richiede che risulti nel
testo dell’iniziativa del deputato la firma del capogruppo (titolare o delegato) è giustificata, in
quanto “la suddetta firma non implica l’autorizzazione o co-assunzione dell’iniziativa da parte del
gruppo parlamentare, ma [è] il modo affidabile [che permette] di accertare la previa conoscenza che
esige il regolamento” (FJ 4), parallelamente a quanto richiesto dall’art. 110 per la presentazione di
emendamenti (FJ 6)1.
Il Tribunale costituzionale ha precisato che, nonostante sia in gioco un diritto individuale del
deputato, l’intervento dell’Ufficio di Presidenza è una esigenza che emerge alla luce della rilevanza
che hanno i gruppi parlamentari nella dinamica parlamentare e della loro necessità di conoscere e
1 Secondo l’art. 110, comma 1, del regolamento, “pubblicato un progetto di legge, i deputati ed i gruppi parlamentari
avranno un termine di quindici giorni per presentarvi emendamenti redatti per iscritto ed indirizzati all’ufficio di
presidenza della commissione. Il testo degli emendamenti dovrà recare la firma del capogruppo del gruppo cui
appartenga il deputato o della persona che lo sostituisca, ai meri fini di conoscenza. L’omissione di questo passaggio
potrà essere sanata prima dell’inizio della discussione in commissione”.
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coordinare le attività dei loro membri. Perciò, se debitamente interpretato, l’art. 7 del regolamento
non limita, di per sé, lo ius in officium del parlamentare (FJ 4). Ciò posto, tuttavia, “l’esercizio
dell’anzidetto diritto individuale dei deputati non può essere oggetto, in seno alla Camera, di un
controllo di opportunità sulla convenienza o meno di far pervenire all’amministrazione la richiesta
di informazione” (FJ 5): sulla scorta di tale principio, il Tribunale costituzionale è giunto alla
conclusione che la prassi dell’Ufficio di Presidenza della Camera ha violato l’art. 23 Cost.
“Gli usi parlamentari [...] hanno costituito tradizionalmente, e lo sono tuttora, un importante
strumento normativo nell’ambito dell’organizzazione e del funzionamento delle Camere [...].
Tuttavia, […] gli usi parlamentari, come le altre norme o risoluzioni interne al parlamento emanate
dagli organi di direzione delle Camere, trovano il loro limite immediato nel regolamento [delle
Camere]; di modo che la prassi parlamentare effettivamente instaurata non può risultare così
restrittiva da impedire od ostacolare sproporzionatamente le facoltà riconosciute ai parlamentari
nell’esercizio delle loro funzioni costituzionalmente garantite […]. Altrimenti detto, gli usi
parlamentari sono efficaci per disciplinare il modo di esercizio delle prerogative parlamentari, ma
non possono restringere il contenuto riconosciuto dalla norma regolamentare” (FJ 7).
Nella fattispecie, l’inammissibilità della richiesta non era dovuta alla mancata integrazione del
requisito posto in via regolamentare, poiché, come aveva riconosciuto lo stesso Ufficio di
Presidenza, il deputato aveva dato notizia dell’iniziativa al proprio gruppo via fax. Per questo
motivo, “l’uso della Camera, benché istituisca una formula oggettivamente idonea per verificare il
requisito regolamentare della previa conoscenza [del gruppo parlamentare], restringe la prerogativa
parlamentare, poiché stabilisce un unico canale per l’adempimento dell’obbligo imposto,
escludendo altri metodi o procedure che potrebbero parimenti soddisfare il dovere di far conoscere
preventivamente l’iniziativa al gruppo parlamentare. Introduce, in definitiva, una restrizione
all’esercizio dell’iniziativa parlamentare che manca di sufficiente giustificazione e che, inoltre,
incide con intensità sulla facoltà prevista nel regolamento, perché la negazione della firma da parte
del capogruppo, per qualsivoglia ragione, impedirebbe l’effettività del diritto riconosciuto al singolo
deputato, con il risultato che verrebbe ad alterarsi il regime previsto dalla norma regolamentare, che
non stabilisce come condizione per avviare l’iniziativa la firma o l’autorizzazione da parte del
gruppo parlamentare […].
“Essendo assente, nel regolamento della Camera, una espressa limitazione posta all’impiego di
altre formule volte a mettere a conoscenza del gruppo parlamentare l’iniziativa del deputato, non
solo si è trascurato il principio di interpretazione più favorevole all’efficacia del diritto
fondamentale, ma, in più, «le decisioni [della Presidenza] hanno optato per l’interpretazione più
lesiva» dello stesso, poiché hanno condotto ad una limitazione della sua efficacia a dispetto
dell’ampio margine che la norma regolamentare offre per accogliere altre opzioni conformi alla
finalità della norma.
“D’altra parte, la possibilità di [giungere ad] un’interpretazione integratrice della norma
regolamentare, motivata dall’effettiva soddisfazione del requisito regolamentare e non
semplicemente dalla procedura seguita per ottenerla, esclude che sia pertinente il ricorso
all’analogia, come sembra sia stato fatto citando il regime previsto per la presentazione di
emendamenti nel procedimento legislativo (art. 110 del regolamento). Dalla lettura della norma
regolamentare non si desume l’esistenza di un «vuoto» di regolamentazione sul modo di
adempimento [dell’obbligo posto], ma, semplicemente, l’accoglimento implicito di un criterio
flessibile quanto alla forma per ottenere la finalità materiale della comunicazione al gruppo. Tale
conclusione non è incompatibile con un’ipotesi in cui, eventualmente, gli organi competenti della
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Camera stabilissero la forma precisa o il canale concreto da seguire per assicurare l’effettività della
comunicazione al gruppo parlamentare e per dimostrare l’adempimento dell’obbligo prescritto
dall’art. 7, comma 1, del regolamento. Ciò nondimeno, tale concretizzazione dovrebbe trovare
giustificazione nel buon governo e nella buona gestione del procedimento e non dovrebbe definirsi
conformemente a formule che facciano dipendere l’inoltro dell’iniziativa da una sorta di
autorizzazione, al deputato titolare del diritto, rilasciata dal destinatario della comunicazione” (FJ
7).
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2. STC 63/2011, del 16 maggio
Legge autonomica – Castiglia-La Mancha – Disciplina organica del
servizio farmaceutico – Autorizzazione all’apertura di nuove farmacie –
Condizione ostativa del superamento dei sessantacinque anni di età –
Asserita violazione del principio di eguaglianza – Ricorso in via incidentale
– Riconosciuta sussistenza di una discriminazione in ragione dell’età –
Illegittimità costituzionale.
Nel ricorso in via incidentale presentato dal Tribunale superiore di giustizia di Castiglia-La
Mancha nei confronti dell’art. 22, comma 6, della legge n. 4/1996, del 26 dicembre, recante
l’ordinamento del servizio farmaceutico in Castilla-La Mancha, la sala seconda del Tribunale
costituzionale si è pronunciata per l’illegittimità della norma, che così recitava: “in alcun caso
possono partecipare al provvedimento di autorizzazione all’apertura di una nuova farmacia i
farmacisti che ne abbiano un’altra nello stesso agglomerato di popolazione o che abbiano più di
sessantacinque anni al momento iniziale del provvedimento”2.
L’inciso oggetto delle doglianze di costituzionalità era quello riferito al divieto di aprire nuove
farmacie ai farmacisti ultrasessantacinquenni. Ad avviso del giudice a quo, la norma violava il
principio di eguaglianza (art. 14 Cost.), recando una discriminazione in ragione dell’età priva di una
giustificazione oggettiva e ragionevole3.
Dalla giurisprudenza costituzionale emerge che l’età è una delle circostanze su cui si proietta il
divieto costituzionale di discriminazione, per cui è illegittimo stabilire un trattamento diverso su
quella base senza rispettare rigorose esigenze di giustificazione e di proporzionalità (FFJJ 3-4).
Nella fattispecie concreta, il Tribunale costituzionale ha dichiarato che non era
costituzionalmente ammissibile il giustificare il divieto contenuto nella norma alla luce del fatto
che, ai sessantacinque anni (età prevista per il pensionamento), la maggioranza degli spagnoli cessa
la propria attività lavorativa e che a partire da quell’età le persone trovano maggiore difficoltà ad
adattarsi alle peculiarità della località in cui si aprirà la nuova farmacia e dei suoi abitanti.
“Naturalmente si possono immaginare altri metodi per contrastare l’incapacità di adattamento che
apoditticamente si nega agli ultrasessantacinquenni, e che non precludano la possibilità di
autorizzare l’apertura di un nuovo esercizio a chi, superando tale età, possiede la capacità di
adattamento che si intende salvaguardare” (FJ 4). Difatti, la proibizione, non solo coinvolgeva gli
ultrasessantacinquenni interessati ad aprire la prima farmacia, ma anche quelli che richiedevano una
nuova autorizzazione per un altro agglomerato di popolazione o quelli che lavoravano in
quell’agglomerato di popolazione, in farmacie di cui non erano i titolari.
2 La legge n. 4/1996 è stata abrogata dalla legge n. 5/2005, del 27 giugno, la cui seconda disposizione transitoria ha
però stabilito che talune disposizioni (tra cui quella oggetto del giudizio di costituzionalità) si sarebbero applicate ai
provvedimenti di autorizzazione iniziati prima dell’entrata in vigore della nuova legge e fino alla loro risoluzione; da
ciò il Tribunale costituzionale ha tratto argomento per negare il venir meno dell’oggetto del ricorso (FJ 2).
3 Art. 14 Cost.: “Gli spagnoli sono uguali di fronte alla legge, senza che prevalga alcuna discriminazione per motivi
di nascita, razza, sesso, religione, opinione e qualsiasi altra condizione o circostanza personale o sociale” (il corsivo è
aggiunto).
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D’altra parte, non si poteva ammettere che la proibizione imposta costituisse una misura di
discriminazione positiva, giustificata e proporzionata, volta a favorire i farmacisti giovani o di
mezza età:
a) L’ampiezza della collettività presumibilmente privilegiata (tutti i professionisti fino ai
sessantacinque anni) permetteva di nutrire seri dubbi sul fatto che effettivamente quello dei minori
di sessantacinque anni fosse un gruppo svantaggiato che necessitasse di una misura di
discriminazione positiva per riequilibrare la sua posizione. Questa misura eccezionale, più che
privilegiare un gruppo meritevole di speciale protezione, marginalizzava di fatto una collettività: i
professionisti ultrasessantacinquenni.
b) Il tentativo di favorire i professionisti infrasessantacinquenni non era realizzato enfatizzando
caratteristiche connesse ai principi di merito e di capacità che informano il sistema di autorizzazioni
di apertura di nuove farmacie, bensì solo escludendo in radice che potessero partecipare a questi
procedimenti persone che non avevano alcun impedimento legale per esercitare la professione oltre
quell’età.
c) Se l’età di sessantacinque anni non è un ostacolo per continuare a esercitare la professione di
farmacista da parte del titolare di una farmacia, il divieto di accesso ad una nuova autorizzazione
per i maggiori di quell’età non era collegata all’interesse pubblico presente nell’ordinamento del
servizio farmaceutico.
3. Presentazione della Memoria del Tribunale costituzionale
Il 27 maggio 2011, il Presidente del Tribunale costituzionale, Pascual Sala Sánchez, ha
presentato la Memoria riguardante l’anno 2010. Di seguito, si riportano alcuni dei dati resi noti4.
4 Le statistiche possono essere consultate integralmente all’indirizzo web
http://www.tribunalconstitucional.es/es/tribunal/estadisticas/Paginas/Estadisticas2010.aspx
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Pronunce
Plenum Sala prima e
sue sezioni (1ª
e 2ª)
Sala seconda e
sue sezioni (3ª e
4ª)
Totale
Sentenze
- accoglimento
- rigetto
- inammissibilità
24
16
8
11
11
7
51
7
8
86
34
23
Totale 48 (+11)5 29 66 (+3) 143 (+14)
Ordinanze 60 68 80 208
Sentenze emesse nei diversi giudizi
Ricorso in via principale 10
Ricorso in via incidentale 40 (+12)
Ricorso di amparo 91 (+2)
Conflitto positivo di attribuzioni 2
Conflitto negativo di attribuzioni -
Conflitto tra organi costituzionali -
Conflitto a difesa dell’autonomia locale -
Impugnazione di disposizioni prive di forza di legge e di
risoluzioni delle Comunità autonome
-
Richieste sulla legittimità di trattati internazionali -
5 Fra parentesi si indicano le cause riunite che sono state decise.
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Quadro comparativo delle sentenze relative al periodo 2006-2010
2006 2007 2008 2009 2010
Plenum 41 35 22 20 48
Sala prima e le sue sezioni (1ª e 2ª) 207 139 95 97 29
Sala seconda e le sue sezioni (3ª e 4ª) 117 91 70 103 66
Totale 365 265 187 220 143
4. Notizia sulle dimissioni (non accettate) del Vicepresidente del Tribunale
costituzionale e di due giudici costituzionali
Il 13 giugno 2011, il vicepresidente del Tribunale costituzionale, Eugeni Gay Montalvo, ed i
giudici costituzionali Elisa Pérez Vera e Javier Delgado Barrio hanno rassegnato le proprie
dimissioni6, nel tentativo di costringere i partiti politici ad accordarsi al fine di nominare i quattro
giudici costituzionali spettanti al Congresso dei deputati, conformemente a quanto stabilito dall’art.
159 Cost. Il loro mandato è scaduto dal novembre 2010 e non è mai stato nominato il sostituto del
giudice Roberto García-Calvo y Montiel, venuto a mancare nel maggio 2008 mentre era ancora in
carica.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, il Presidente del Tribunale costituzionale ha deciso di
non accettare le dimissioni, “tenendo conto che il funzionamento del Tribunale nel suo plenum esige
la presenza di due terzi dei suoi giudici (art. 14 LOTC), dato il volume delle questioni pendenti
sottoposte al suo giudizio, e valutando, principalmente, la sua insostituibile funzione istituzionale
come supremo interprete della Costituzione e garante massimo dei diritti fondamentali e delle
libertà pubbliche, nonché al fine di garantire la continuità e stabilità di questo organo”. Ciò
nonostante, il Presidente ha informato che insisterà nuovamente con il Presidente del Congresso dei
deputati sulla necessità di osservare i termini stabiliti costituzionalmente e legalmente per il rinnovo
dei giudici costituzionali.
Il decreto del Presidente è stato comunicato al Re, al plenum del Tribunale costituzionale ed ai
Presidenti del Governo, del Congresso dei deputati, del Senato e del Consiglio generale del Potere
giudiziario.
6 Il riassunto delle lettere di dimissioni dei tre giudici costituzionali sarà incluso nella rassegna stampa estera del 1°-
15 giugno. Il vicepresidente si è espresso in termini assai duri, facendo notare al Presidente che ha la sensazione di
“formare parte di un tribunale sequestrato”.
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STATI UNITI
a cura di Sarah Pasetto
1. 563 U. S. ___ (2011), del 23 maggio 2011; No. 09-1233, Brown, Governor of
California, et al. v. Plata et al.
VIII Emendamento – Divieto di pene crudeli – California –
Sovraffollamento carcerario – Conseguenti carenze medico-sanitarie –
Asserita violazione del divieto di pene crudeli – Duplice class action nei
confronti dello Stato – Imposizione dell’obbligo di ridurre il tasso di
sovraffollamento – Impugnazione da parte dello Stato – Correttezza della
decisione impugnata – Respingimento del ricorso.
La Corte suprema ha confermato le sentenze emesse nei giudizi di primo e secondo grado,
secondo le quali lo Stato della California, per ovviare alle carenze medico-sanitarie derivanti dal
sovraffollamento delle carceri, avrebbe dovuto ridurre drasticamente il tasso di sovraffollamento,
giungendo alla soglia del 137,5% della capienza massima possibile, onde evitare che la gravità delle
carenze ridondasse in pene crudeli, in violazione dell’VIII Emendamento1 della Costituzione.
Le carceri dello Stato della California sono in grado di ospitare poco meno di 80.000 detenuti,
ma, al momento della decisione impugnata dinanzi alla Corte suprema, la popolazione delle carceri
ammontava a più del doppio di tale cifra. Per mezzo di due class actions promosse a livello
federale, dei gruppi di detenuti hanno contestato le conseguenze asseritamente disumane del
sovraffollamento. La prima class action faceva valere la inadeguatezza delle cure mediche prestate
ai detenuti con gravi malattie mentali; la seconda si fondava sulla asserita violazione dei diritti dei
detenuti sanciti dall’VIII Emendamento, derivante dalle gravi carenze del sistema sanitario
carcerario. Lo Stato della California ha riconosciuto le proprie mancanze nell’ambito della seconda
class action ed ha dato ordine affinché a tale situazione si ponesse fine. A distanza di tre anni,
tuttavia, le mancanze relative al sovraffollamento persistevano; i detenuti hanno così fatto ricorso
alla corte di primo grado, al fine di convocare un collegio di tre giudici, che, secondo le modalità
previste dal Prison Litigation Reform Act del 1995, avesse il potere di imporre riduzioni nella
popolazione carceraria. Il collegio era costituito da due giudici provenienti dalle corti di primo
grado, e da un giudice della corte d’appello del Ninth Circuit.
In seguito ad indagini dettagliate, il collegio ha imposto la riduzione, entro due anni, della
popolazione carceraria fino a raggiungere il 137,5% della capienza massima prevista. Poiché il
collegio ha riconosciuto che la popolazione eccedentaria non poteva essere accolta presso istituti di
nuova costruzione, si è sancito l’obbligo, per lo Stato, di formulare un nuovo piano carcerario volto
a corrispondere all’ordine impartito. Avverso tale provvedimento, lo Stato della California ha
interposto appello direttamente alla Corte suprema federale.
La Corte suprema ha affermato che la riduzione imposta dal collegio di tre giudici era
effettivamente necessaria per rimediare alla violazione dei diritti costituzionali dei carcerati, ed era
conforme alle disposizioni dell’Act sopra menzionato. Le corti hanno il dovere di rimediare alle
1 VIII Emendamento: “Non si dovranno esigere cauzioni eccessivamente onerose, né imporre ammende altrettanto
onerose, né infliggere pene crudeli ed inusuali”.
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violazioni dell’VIII Emendamento derivanti dalla privazione, in seno alle carceri, delle forme di
sussistenza basilari per i detenuti, compresa la predisposizione di cure sanitarie adeguate. Ad avviso
della Corte, il collegio ha osservato pienamente le disposizioni dell’Act relative alla procedura
preliminare rispetto all’emanazione dell’ordine di riduzione, avendo tentato di prospettare rimedi
meno invasivi (come ad esempio il trasferimento di detenuti verso carceri di Stati limitrofi oppure la
costruzione di nuovi centri di detenzione, quest’ultima resa impossibile dal cattivo stato delle
finanze della California), i quali non sarebbero stati però sufficienti ad arginare la violazione delle
norme costituzionali posta in essere dallo Stato; alla California è stato, inoltre, concesso un periodo
di tempo sufficiente per adempiere alle condizioni imposte. Il collegio doveva accertare, per mezzo
di prove inequivocabili e convincenti, che il sovraffollamento era la causa principale della
violazione delle norme costituzionali, e che nessun altro rimedio poteva evitare siffatta violazione.
Nella fattispecie, la convocazione stessa del collegio di tre giudici è stata ragionevole; la decisione
del collegio, circa il rapporto diretto di causalità tra sovraffollamento e violazione delle norme
costituzionali, era giusta, alla luce della documentazione e delle altre prove fornite. Il collegio ha,
inoltre, correttamente vagliato le prove in proprio possesso, e tali prove erano sufficienti per
affermare che nessun altro rimedio poteva porre fine alla violazione. Infine, il collegio ha valutato
adeguatamente tutti i possibili effetti contrari relativi alla riduzione della popolazione carceraria, e
la scadenza di due anni imposta per il completamento della riduzione era ragionevole, anche alla
luce del fatto che lo Stato della California aveva omesso di contestare tale fatto al momento del
processo.
La Corte si è profondamente divisa, con cinque giudici contro quattro, secondo linee
ideologiche. La sentenza principale è stata redatta dal Justice Kennedy, col quale hanno concordato
i Justices Ginsburg, Breyer, Sotomayor e Kagan. Il Justice Scalia ha redatto una opinione
dissenziente, con la quale ha concordato il Justice Thomas; un’ulteriore opinione dissenziente è
stata pronunciata dal Justice Alito, al quale si è aggiunto il Chief Justice Roberts. Le opinioni
dissenzienti si fondavano essenzialmente su timori circa il rilascio di un numero spropositato di
detenuti, che avrebbe comportato un “gioco d’azzardo” sull’incolumità dei cittadini californiani. La
opinion del Justice Scalia era aspramente critica della posizione adottata dalla maggioranza e
dell’ordine di rilascio dei carcerati. A suo avviso, attraverso l’opinion della maggioranza, si è
confermata la legittimità di “quella che è, forse, l’ingiunzione più radicale emanata da una corte
nella storia della Nazione”. La Corte ha esorbitato dai propri poteri costituzionali, avendo emanato
una “ingiunzione sistematica”, senza andare a valutare le singole violazioni costituzionali. La
opinion del Justice Alito ha concluso invece che “la decisione avrebbe condotto ad una macabra
lista di vittime”, evidenziando il fatto che il numero di detenuti che dovevano essere rilasciati in
seguito alla sentenza – circa 46 mila – equivaleva al numero di soldati richiesti per costituire tre
divisioni dell’esercito statunitense.
2. 563 U. S. __ (2011), del 31 maggio 2011; No. 10-98, Ashcroft v. al-Kidd
Libertà personale – Fermo e detenzione di sospettati di terrorismo –
Utilizzo, allo scopo, della legge sui testimoni-chiave – Asserita violazione
del IV Emendamento – Ricorso proposto avverso il Procuratore Generale –
Invocazione dell’immunità di cui beneficiano gli ufficiali federali – Mancata
violazione di un diritto soggettivo “chiaramente stabilito” – Esclusione
della responsabilità.
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La Corte suprema, a maggioranza, ha affermato che la prassi consistente nel fermo e nella
detenzione di individui sospettati di terrorismo in base alla legge sui testimoni-chiave (il c.d. federal
material-witness statute, 18 U. S. C. § 3144) non comportava alcuna violazione della Costituzione
(ed in particolare del IV Emendamento2), anche se il fermo e la detenzione, giustificato sulla base
del diritto oggettivo, era in realtà motivato da finalità altre rispetto a quelle normativamente
previste. La Corte ha così riconosciuto l’immunità giuridica dell’ex-Procuratore Generale, John D.
Ashcroft, pur non escludendo, pro futuro, la possibilità che prassi del genere siano oggetto di
censura in sede giurisdizionale.
Al-Kidd, resistente nel giudizio dinanzi alla Corte suprema, affermava che, in seguito agli
attentati terroristici dell’11 settembre 2001, il Procuratore Generale dell’epoca, Ashcroft, aveva
permesso agli ufficiali del Federal Bureau of Investigations di disporre il fermo e la detenzione di
individui sospettati di terrorismo in base alla legge federale sui testimoni-chiave. Al-Kidd asseriva
inoltre che il proprio fermo era stato fondato su motivazioni di lotta al terrorismo, mentre la
necessaria convalida giudiziale era stata ottenuta in conseguenza di affermazioni non veritiere rese
da parte degli agenti federali, che avevano evocato esigenze di acquisizioni probatorie. Nonostante
il fermo e la detenzione, in effetti, al-Kidd non era mai stato convocato per fornire testimonianze.
Alla luce di queste circostanze, al-Kidd aveva proposto un ricorso, cui Ashcroft si era opposto
invocando l’immunità, totale o parziale, a favore delle cariche dello Stato. In primo grado, la
District Court aveva respinto la prospettazione di Ashcroft; sulla stessa lunghezza d’onda si era
posta la Corte d’appello del Ninth Circuit, la quale aveva anche affermato che il IV Emendamento
vieta i fermi meramente pretestuosi in assenza di elementi che possano far pensare ad un rapporto di
causalità che colleghi il sospettato con l’illecito.
Adita in sede di impugnazione della sentenza d’appello, la Corte suprema federale ha affermato
che il fermo e la detenzione eseguiti in base a ragioni corrispondenti, da un punto di vista oggettivo,
a quanto previsto dal diritto positivo non possono ritenersi incostituzionali, a meno che non si
producano prove delle reali motivazioni indebite che hanno portato alla detenzione dell’individuo.
Ad avviso della maggioranza dei Justices, che ha sottoscritto l’opinion redatta dal Justice Scalia,
la forma di immunità parziale di cui beneficiano gli ufficiali del governo statunitense è da escludersi
solo quando risulti violato un diritto, conferito dalla Costituzione o da legislazione, che sia
“chiaramente stabilito” al momento dello svolgimento della condotta contestata. Inoltre, la
legittimità o meno di un fermo può essere valutata, dalla Corte suprema, solamente dal punto di
vista oggettivo (id est, in relazione alla corrispondenza con quanto previsto nel diritto positivo): i
precedenti giurisprudenziali della stessa Corte hanno dimostrato che essa si è sempre astenuta dallo
svolgere un giudizio sugli elementi soggettivi del fermo (cioè sulle motivazioni reali di chi vi
procede).
Al-Kidd non aveva dedotto l’incostituzionalità, ai sensi del IV Emendamento, dell’uso della
legge sui testimoni-chiave volto ad ottenere la sua detenzione; piuttosto, egli aveva semplicemente
dedotto che Ashcroft avesse compiuto un illecito costituzionale poiché la legge era stata utilizzata
come pretesto per isolare un individuo sospettato di legami con attività terroristiche. Sulla scorta dei
2 “Il diritto dei cittadini a godere della sicurezza per quanto riguarda la loro persona, la loro casa, le loro carte e le
loro cose, contro perquisizioni e sequestri ingiustificati, non potrà essere violato; e nessun mandato giudiziario potrà
essere emesso, se non in base a fondate supposizioni, suffragate da un giuramento o da una dichiarazione sull’onore e
con descrizione specifica del luogo da perquisire, e delle persone da arrestare o delle cose da sequestrare”.
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principi suddetti, la Corte suprema, annullando le precedenti decisioni, ha pertanto dichiarato
destituita di fondamento la richiesta di al-Kidd.
Con riguardo alla possibilità per Ashcroft di invocare l’immunità, la Corte ha applicato la propria
giurisprudenza precedente in materia ed ha dichiarato che non era stata accertata, con sufficiente
chiarezza, alcuna violazione di norme: al momento del fermo di al-Kidd, non era stata infatti resa
alcuna opinion giudiziale che affermasse che il pretesto alla base del fermo potesse rendere
incostituzionale un fermo fondato su motivi oggettivamente ragionevoli.
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