Badiale,Bontempelli - Una Politica Economica Per La Decrescita

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1 Una politica economica per la decrescita di Marino Badiale, Massimo Bontempelli La principale questione che si pone a chi voglia dare spessore concreto al pensiero della decrescita è quella della transizione dalla attuale società della crescita ad una società, appunto, della decrescita. Per prima cosa occorre precisare che ragionando su società della crescita e società della decrescita, si stabilisce una comparazione (che certo è necessaria) tra termini eterogenei. Società della decrescita significa società svincolata dall'obbligo della crescita del prodotto interno lordo, cioè della produzione rivolta al mercato , che è tipico del capitalismo. Ma poiché tutte le società precapitalistiche sono state immuni da questo obbligo alla crescita (il che non significa, ovviamente, che non siano cresciute, in un senso o nell'altro, per periodi più o meno lunghi, come, ad esempio, nei secoli XI, XII e XIII dell'Occidente feudale), l'espressione “società della decrescita” non indica una configurazione definita di rapporti sociali di produzione, cioè (usando il linguaggio marxiano molto appropriato in questo contesto) non indica una formazione sociale specifica. I fautori della decrescita non possono, allora, avere un modello determinato di società, nel senso di cui si è detto, al quale fare rif erimento. La tipica domanda che viene posta a chiunque si opponga all'attuale capitalismo assoluto (dal punto di vista della decrescita, o da altri punti di vista) è sempre: ma voi cosa proponete? Chi sostiene la decresc ita non ha risposta per questo tipo di doma nda, se la risposta richiesta è l'indicazione di un modello determinato e preciso di organizzazione sociale. La decrescita, in riferimento ad una configurazione di rapporti sociali di produzione, può essere definita soltanto in quella maniera logica che le filosofie di Kant e di Hegel hanno chiamato negazione indeterminata. Per capirci con una semplificazione, si tratta della stessa situazione logica che si ottiene negando un qualsiasi termine che indichi un oggetto empirico: così, ad esempio, se l'espressione “leone” indica una specie animale ben determinata, l'espressione “non leone” non indica alcun animale determinato. La decrescita è “non capitalismo”, ma appunto nel senso in cui cavalli, cani, gatti e così via sono “ non leoni”. Il pensiero della decrescita non può che nascere dalla negazione della teleologia capitalistica. La società capitalistica, infatti, è una “società della crescita” in un senso davvero unico nella storia. Non si tratta infatti di una società nella quale si ha, ogni tanto o anche molto spesso, un periodo di crescita, ma piuttosto di una società obbligata alla crescita, una società nella quale i fondamentali meccanismi economici reggono solo se si ha crescita. Ciò dà al pensiero della decrescita una grandissima forza razionale e storica, e gli pone, nello stesso tempo, una formidabile difficoltà di attuazione. La forza del pensiero della decrescita nasce dal fatto che la crescita capitalistica è giunta ad un punto in cui è incompatibile con il mantenimento di un ambiente di vita favorevole alla specie umana e con gli equilibri che garantiscono la coesione sociale delle collettività umane. La difficoltà è che la crescita capitalistica ha comportato l’estensione sempre maggiore degli ambiti sociali soggetti alla legge della valorizzazione del capitale. Per valorizzare il capitale e contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto gli agenti capitalistici devono rimodellare sempre nuovi ambiti sociali sullo stampo del rapporto sociale capitalistico, per cui prima tutti gli ambiti della produzione, e poi anche ambiti sociali come quello dell’educazione, della scienza o dell’assistenza vengono mercificati e ricondotti alla logica aziendale di investimenti profittevoli. Poiché questo processo va avanti da più di duecento anni, la società in cui viviamo è una società nella quale il rapporto sociale capitalistico ha invaso l’intero ambito sociale e modella l’intero vivere collettivo. Ma incidere sul meccanismo della crescita significa destrutturare gli ambiti sociali che su di esso si reggono: e poiché, appunto, esso ormai pervade l’intera società, significa destrutturare l’intera società. Un pensiero della decrescita che voglia essere storicamente serio, deve quindi essere incluso nel progetto di una forza squisitamente politica, ed ha bisogno di pensare, tra i suoi fini, anche quello di rimodellare alcuni

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Una politica economica per la decrescita

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli

La principale questione che si pone a chi voglia dare spessore concreto al pensiero della decrescita è

quella della transizione dalla attuale società della crescita ad una società, appunto, della decrescita.

Per prima cosa occorre precisare che ragionando su società della crescita e società della decrescita,si stabilisce una comparazione (che certo è necessaria) tra termini eterogenei. Società della

decrescita significa società svincolata dall'obbligo della crescita del prodotto interno lordo, cioèdella produzione rivolta al mercato, che è tipico del capitalismo. Ma poiché tutte le società

precapitalistiche sono state immuni da questo obbligo alla crescita (il che non significa, ovviamente,

che non siano cresciute, in un senso o nell'altro, per periodi più o meno lunghi, come, ad esempio,nei secoli XI, XII e XIII dell'Occidente feudale), l'espressione “società della decrescita” non indica

una configurazione definita di rapporti sociali di produzione, cioè (usando il linguaggio marxianomolto appropriato in questo contesto) non indica una formazione sociale specifica. I fautori della

decrescita non possono, allora, avere un modello determinato di società, nel senso di cui si è detto,

al quale fare riferimento. La tipica domanda che viene posta a chiunque si opponga all'attualecapitalismo assoluto (dal punto di vista della decrescita, o da altri punti di vista) è sempre: ma voi

cosa proponete? Chi sostiene la decrescita non ha risposta per questo tipo di domanda, se la

risposta richiesta è l'indicazione di un modello determinato e preciso di organizzazione sociale. Ladecrescita, in riferimento ad una configurazione di rapporti sociali di produzione, può essere

definita soltanto in quella maniera logica che le filosofie di Kant e di Hegel hanno chiamatonegazione indeterminata. Per capirci con una semplificazione, si tratta della stessa situazione logica

che si ottiene negando un qualsiasi termine che indichi un oggetto empirico: così, ad esempio, se

l'espressione “leone” indica una specie animale ben determinata, l'espressione “non leone” nonindica alcun animale determinato. La decrescita è “non capitalismo”, ma appunto nel senso in cui

cavalli, cani, gatti e così via sono “non leoni”. Il pensiero della decrescita non può che nasceredalla negazione della teleologia capitalistica. La società capitalistica, infatti, è una “società della

crescita” in un senso davvero unico nella storia. Non si tratta infatti di una società nella quale si ha,

ogni tanto o anche molto spesso, un periodo di crescita, ma piuttosto di una società obbligata allacrescita, una società nella quale i fondamentali meccanismi economici reggono solo se si ha

crescita. Ciò dà al pensiero della decrescita una grandissima forza razionale e storica, e gli pone,nello stesso tempo, una formidabile difficoltà di attuazione. La forza del pensiero della decrescita

nasce dal fatto che la crescita capitalistica è giunta ad un punto in cui è incompatibile con il

mantenimento di un ambiente di vita favorevole alla specie umana e con gli equilibri chegarantiscono la coesione sociale delle collettività umane. La difficoltà è che la crescita capitalistica

ha comportato l’estensione sempre maggiore degli ambiti sociali soggetti alla legge dellavalorizzazione del capitale. Per valorizzare il capitale e contrastare la caduta tendenziale del saggio

di profitto gli agenti capitalistici devono rimodellare sempre nuovi ambiti sociali sullo stampo del

rapporto sociale capitalistico, per cui prima tutti gli ambiti della produzione, e poi anche ambitisociali come quello dell’educazione, della scienza o dell’assistenza vengono mercificati e ricondotti

alla logica aziendale di investimenti profittevoli. Poiché questo processo va avanti da più diduecento anni, la società in cui viviamo è una società nella quale il rapporto sociale capitalistico ha

invaso l’intero ambito sociale e modella l’intero vivere collettivo. Ma incidere sul meccanismo della

crescita significa destrutturare gli ambiti sociali che su di esso si reggono: e poiché, appunto, esso

ormai pervade l’intera società, significa destrutturare l’intera società. Un pensiero della decrescitache voglia essere storicamente serio, deve quindi essere incluso nel progetto di una forzasquisitamente politica, ed ha bisogno di pensare, tra i suoi fini, anche quello di rimodellare alcuni

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aspetti dello Stato che consentano di fronteggiare le ricadute negative, in alcuni casi devastanti, di

questa destrutturazione. Proviamo allora a delineare alcune delle difficoltà che incontrerà la

transizione ad una società della decrescita, e alcune idee per fronteggiarle. Per questo è necessariaancora una premessa. La transizione non può che partire dalla società che ci è storicamente

presente, quella, cioè, della crescita. Non si può, quindi, pensare di attivare il circolo virtuoso delladecrescita facendo immediatamente leva sui benefici che essa apporta, perché tali benefici possono

prodursi solo in assenza di potenti meccanismi sociali avversi, quali sono quelli operanti nella

società presente. Quali saranno dunque le difficoltà contro le quali si scontrerà un percorso ditransizione alla decrescita, ammettendo che emerga una volontà di avviarlo come volontà politica, e

non come illusione di una diffusione spontanea di nuove tecniche e nuovi comportamenti?La difficoltà principale non sarà la penuria di beni necessari. Nella nostra società consumista e

sprecona esistono molti tipi di produzione che possono essere ridotti, avviando un processo di

decrescita, senza toccare la produzione dei beni fondamentali. Le armi sono l’esempio più ovvio mace ne sono altri. Una produzione alimentare indirizzata al consumo di cibi locali e stagionali farebbe

di molto diminuire le necessità di trasporto e di impacchettamento dei cibi, e tutta una serie di

attività economiche legate a queste sfere potrebbero decrescere senza nessuna incidenza sull’offertadi cibo. Ugualmente una manutenzione degli edifici esistenti, finalizzata al loro riuso, farebbe

decrescere la produzione edilizia senza creare alcuna penuria di case abitabili, ed anziaumentandone la quantità disponibile. La difficoltà economica principale nell’avviare un processo

di decrescita non sarà quindi legata alla penuria di beni: sarà invece legata all’occupazione.All’interno di una società regolata dal meccanismo della valorizzazione del capitale, infatti, la

decrescita in linea di principio ha, rispetto all’occupazione, gli stessi effetti di una recessione.

Quest’ultima affermazione è una conseguenza del tutto logica, e anche banale, dei meccanismi dellanostra società della crescita, e della definizione stessa di decrescita.

Vale però la pena di soffermarsi su di essa e di argomentarla, perché essa è in parte oscurata, proprionegli ambienti intellettuali più vicini al pensiero della decrescita, dall’idea che il problema

occupazionale del quale stiamo parlando possa essere risolto grazie allo sviluppo di una produzione

nata dalla domanda di beni orientati alla salvaguardia dell’ambiente, al risparmio energetico e ingenerale alla conversione in senso ecologico dell’intera società. Ad esempio, la riconversione del

patrimonio abitativo secondo criteri di risparmio energetico creerebbe ovviamente numerosi posti dilavoro. Si tende a pensare che la disoccupazione creata dalle iniziative di decrescita possa essere

riassorbita dai nuovi posti di lavoro creati della riconversione ecologica dell’economia e della

società. In realtà un riassorbimento della disoccupazione creata dal superamento dell'economia dellacrescita può avvenire soltanto attraverso un potenziamento del ruolo e dell'intervento dello Stato

nella sfera economica. Questa impostazione confligge con l'idea, molto diffusa tra i sostenitori delladecrescita, che la decrescita stessa consista in una riduzione congiunta del ruolo dello Stato e del

mercato. Dobbiamo quindi approfondire l’analisi di questa impostazione, e lo faremo nella secondaparte del nostro intervento. Vediamo intanto di argomentare il fatto che, se lasciamo fare aimeccanismi del mercato, la decrescita produce disoccupazione. Ammettiamo che la decrescita

faccia sparire un certo numero di imprese che, vendendo annualmente beni o servizi per un importopari a 100 unità monetarie, impiegano 10 unità di lavoro[1]. Abbiamo allora un problema di

disoccupazione, e speriamo di riassorbirlo grazie a nuove imprese che producano beni e servizi

compatibili con un processo di conversione ecologica della società. Ma quale sarà il volume dellevendite di queste nuove imprese? Se vogliamo che le nuove imprese “ecologiche” impieghino le 10

unità di lavoro, a parità di altre condizioni, anche esse dovranno vendere beni e servizi per 100 unitàmonetarie. Se ci riescono, abbiamo forse risolto i nostri problemi? No, perché in tal caso abbiamo

salvato l’occupazione, abbiamo avviato una conversione ecologica, e questo va benissimo: ma non

c’è stata nessuna decrescita. Tanto era il PIL prima, tanto è adesso. Se vogliamo decrescita, bisognaimmaginare che il volume delle vendite delle nuove imprese sia minore di 100, diciamo 50: ma in

tal caso le nuove imprese potranno occupare solo 5 unità di lavoro, e avremo quindi una

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disoccupazione non riassorbita pari alle restanti 5 unità di lavoro[2].In definitiva, se si esclude un intervento statale e si lascia fare alle leggi del mercato, la conclusione

è univoca: se c’è decrescita c’è disoccupazione, e se c’è una riconversione ecologica che salvil’occupazione vuol dire che non c’è decrescita. Per capire come si possa risolvere questo problema,

occorre riprendere l’elemento di verità che è presente nella tesi che abbiamo testé criticato, quellacioè secondo cui è sufficiente il passaggio ad una produzione riconvertita in senso ecologico.

L’elemento di verità è che esistono grandi esigenze sociali per soddisfare le quali è necessario il

lavoro di tutti i disoccupati che l’inizio di decrescita potrebbe creare. L’elenco di simili esigenzesociali, in un paese come l’Italia, è lunghissimo: c’è bisogno di un grande lavoro di manutenzione di

infrastrutture fondamentali come le ferrovie, c’è bisogno di riqualificare il patrimonio edilizio, inparticolare rendendolo più adeguato in termini di risparmio energetico, c’è bisogno di un riassesto

del territorio da un punto di vista idrogeologico, c’è bisogno di bonificare le aree inquinate dagli

scarichi illegali di rifiuti, c’è bisogno di cambiare radicalmente il ciclo dei rifiuti in modo daeliminare alla radice il problema stesso. E si potrebbe continuare a lungo. Lavoro ce n’è dunque

moltissimo, per soddisfare una serie di bisogni sociali fondamentali. Ma per le ragioni sopra

addotte, il mercato non può offrire il salario per pagare questi lavoratori. D’altra parte, nonpossiamo nemmeno fare affidamento sui meccanismi che sarebbero tipici di una società della

decrescita, dicendo per esempio che i lavoratori potrebbero accontentarsi di lavori a tempo e salarioparziali procurandosi una parte dei beni col loro salario e un’altra parte tramite una rete di scambi

non mercantili. Non possiamo dare questa risposta perché essa presuppone che sia già instauratauna società della decrescita, e questo è appunto ciò che non può essere presupposto nella fase della

transizione. Per capirci, se domani un gruppo di operai viene licenziato perché si chiudono le

fabbriche di armi, o se ne riduce grandemente la produzione, è chiaro che la risposta al loro drammanon può essere quella di farsi l’orto per scambiarne i prodotti con altri, o cose del genere: perché

questa risposta avrebbe un senso all’interno di una società della decrescita già avviata, ma domani

non c’è ancora una società della decrescita, c’è ancora la società della crescita, e dentro la società

delle crescita non esistono ancora i circuiti di scambi non mercantili che renderebbero sensata la

risposta sopra accennata. E’ allora evidente che, se non si può fare affidamento sul mercato, cheanzi in presenza di decrescita genera disoccupazione, né sui circuiti della decrescita, che non si sono

ancora dispiegati, c’è un unico modo nel quale si può riassorbire la disoccupazione creata dalleprime misure “decresciste” di politica economica del periodo della transizione: l’intervento dello

Stato. L’intervento dello Stato è necessario per due motivi: in primo luogo, il passaggio di grandi

gruppi di lavoratori da un tipo di lavoro ad un altro ha ovviamente bisogno di misure giuridiche eamministrative e di strumenti organizzativi che solo lo Stato può fornire, nelle condizioni date. In

secondo luogo, e questo è il punto più importante, se il mercato non fornisce un salario a questilavoratori, esso dovrà essere fornito dallo Stato. In sostanza, la disoccupazione creata dalle prime

misure “decresciste” dovrà essere riassorbita tramite assunzioni statali dei lavoratori disoccupati. LoStato deve provvedere ad organizzare i nuovi lavori in risposta ai bisogni sociali sopra accennati, edeve inoltre provvedere agli stipendi dei nuovi lavoratori. Si pone allora, ovviamente, il problema di

reperire le risorse necessarie per finanziare la nuova occupazione creata dallo Stato. Nel discutere diquesto problema porteremo argomenti sotto qualche aspetto simili ad alcuni di quelli che vengono

proposti all'interno di un'economia dello sviluppo, in particolare in relazione alla crisi economica

attuale. La cosa non deve sorprendere, perché il problema dell'occupazione, nella fase iniziale che èquella della quale stiamo parlando, si pone in relazione a quello dello sviluppo, e perché recessione

e decrescita hanno alcuni (ma solo alcuni!) aspetti in comune, specie se vengono prese inconsiderazioni nell’ottica del senso comune, dominato dall’immaginario della crescita. E’ quindi

inevitabile che certe misure secondo noi necessarie per combattere gli elementi negativi insorgenti

nella transizione ad una società della decrescita possano assomigliare a misure proposte percombattere l’attuale crisi economica. La prima risposta al nostro problema attuale (dove trova lo

Stato le risorse per assumere i disoccupati?) è naturalmente quella dello stampare denaro. Oggi

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l’Italia non lo può fare, perché il nostro paese ha ceduto la propria sovranità monetaria alla BCE,

ma si potrebbe appunto pensare che una precondizione politica per la transizione alla decrescita sia

il recupero della sovranità monetaria e l’uscita dell’Italia dalla zona euro, e forse dall’UnioneEuropea. Purtroppo questo non sarebbe sufficiente. Se anche l’Italia recuperasse la sovranità

monetaria, lo stampare denaro per pagare i salari di nuove, massicce assunzioni statali deidisoccupati creerebbe inflazione. Il nesso tra l'aumento della carta-moneta circolante e lo sviluppo

dell'inflazione non è certo automatico. Keynes, nel suo famosissimo libro Teoria generale

dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, pubblicato nel 1936, ha dimostrato che unamaggiore domanda di beni, attivata da un aumento della quantità di moneta circolante, non crea

inflazione nella misura in cui, nel sistema economico, esistono capacità produttive non utilizzate.Un famoso economista keynesiano, Samuelson, nel suo libro del 1948, Economia, ha però

dimostrato che un aumento della quantità di moneta circolante, in determinate circostanze, può

generare un aumento dei prezzi anche in presenza di capacità produttive non utilizzate. Non c'è quilo spazio per addentrarci in queste questioni di teoria economica, e quindi diciamo in maniera qui

necessariamente dogmatica (che potrà, comunque, essere oggetto di spiegazione successiva) che,

nelle circostanze dell'Italia attuale, e nel contesto dell'attuale situazione economica globale, unasignificativa immissione di liquidità nell'economia italiana genererebbe inflazione. L'inflazione

monetaria non è necessariamente un fenomeno negativo per l'economia reale, che può, in certi casie in una certa misura, tollerarla, e dalla quale può essere stimolata ad aumentare l'occupazione.

Nell'attuale sistema dei cambi, però, l'inflazione genera la svalutazione della moneta del paese incui si sviluppa. Ciò significherebbe, per l'Italia, dover pagare a prezzi molto più cari i beni di

importazione. Anche qui, in una situazione di decrescita già avanzata, il problema non sarebbe

grave, perché una società della decrescita riduce grandemente gli scambi commerciali con l’estero.Ma all’inizio della transizione, in una situazione nella quale l’Italia dipende fortemente dalle

importazioni di energia (per fare solo un esempio), lo scatenamento dell’inflazione avrebbe comeeffetto indiretto un aumento paralizzante dei costi di attività economiche ancora necessarie. Lo

stampare denaro non è quindi la soluzione del problema. Nemmeno lo è il ricorso al debito di Stato:

in generale esso è uno strumento da utilizzare con cautela per i suoi rischi di automoltiplicazione (idebiti pregressi possono essere pagati soltanto con nuovi debiti, il cui costo è maggiore, sia perché

vi si devono aggiungere gli interessi da pagare, sia perché le aliquote di tali interessi crescono alcrescere del debito), e nella situazione attuale delle finanze pubbliche italiane è ovviamente

impossibile pensare ad un ricorso massiccio ad esso. Le risorse aggiuntive potrebbero allora essere

trovate attraverso il prelievo fiscale? Vi è qui un problema evidente: la decrescita è decrescita delPil, e ciò che il fisco preleva è sempre una quota del Pil, per cui se diminuisce questo diminuisce

anche quello, a parità di altre condizioni. Un aumento del prelievo fiscale a Pil decrescente èpossibile solo in due modi: o con l’aumento delle aliquote esistenti, o con uno spostamento del

carico fiscale. Le aliquote dell'imposta sul reddito attualmente vigenti, dopo le controriforme diProdi e di Berlusconi, colpiscono più duramente i redditi bassi che quelli elevati. Un aumento dellealiquote sui redditi più elevati, che le riportasse ai livelli vigenti nell'Italia democristiana, sarebbe

doveroso per ragioni di giustizia, e per rispettare la norma costituzionale che esige la progressivitàdelle imposte, ma non sarebbe risolutivo. Negli ultimi trent'anni sono, infatti, continuamente

aumentate le ricchezze delle classi sociali più elevate, con la creazione di enormi patrimoni nati

spesso dalla speculazione finanziaria. Ciò che occorre è quindi estendere il prelievo fiscale a questipatrimoni, perché soltanto in questo modo si può ripristinare una situazione di giustizia, ribaltando

la redistribuzione dei redditi a favore dei ceti superiori avvenuta negli ultimi trent'anni, e si possonoricavare le risorse necessarie per finanziare la nuova occupazione. Un tale spostamento del carico

fiscale sulle classi più elevate esige due cambiamenti del sistema del prelievo tributario: il

passaggio dalle imposte dirette a quelle indirette e il passaggio dalle imposte sul reddito a quelle sulpatrimonio. Entrambe queste proposte devono essere spiegate, in particolare la prima. In effetti,

storicamente il passaggio dalle imposte indirette a quelle dirette (cioè il passaggio inverso a quello

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che noi proponiamo) ha avuto un indubbio effetto positivo, perché ha permesso in sostanza la

progressività dell’imposizione fiscale. Il fatto di tornare all’imposta indiretta può sembrare un

regresso, e occorre quindi precisare il senso di quanto diciamo. Non stiamo naturalmenteproponendo di tornare alle imposte sui generi di largo consumo e di prima necessità. Ci stiamo

riferendo a imposte che colpiscano merci la cui produzione è da scoraggiare, nell’ottica di unasocietà della decrescita. Così, dovrebbero essere pesantemente tassate tutte le merci di lusso e tutte

quelle merci la cui compravendita è finalizzata a operazioni speculative sui mercati finanziari.

Infine, dovrebbe essere pesantemente tassata la pubblicità. Questo tipo di tassazione avrebbenaturalmente l’effetto di ridurre la produzione dei beni tassati, ma questo sarebbe un effetto

collaterale altamente positivo. Ciò che differenzia una politica economica per la decrescita da unalotta alla recessione è, fra l’altro, proprio il fatto che certe produzioni devono venire scoraggiate e

tendenzialmente abbandonate. Questo ovviamente implica che le entrate di queste imposte sono

destinate a ridursi. Si tratta di entrate che devono essere utilizzate soprattutto per finanziare grandiprogetti di trasformazione dell’economia in senso decrescista. La tassazione delle transazioni

finanziarie risponde a un criterio elementare di giustizia, ma ha un senso soltanto all'interno di una

società della crescita, nella quale il capitale che non trova sbocchi produttivi sufficienti alla suavalorizzazione si sposta sempre più sulla speculazione finanziaria. Ciò risulta chiarissimo dagli

studi compiuti del secolo scorso da un grande economista non adeguatamente apprezzato, HymanMinsky. Egli ha dimostrato come lo sviluppo di una sempre più ampia, articolata e complessa

strumentazione finanziaria, da un lato sia non un semplice artificio, ma una necessità dello sviluppocapitalistico, e, come, però, dall'altro lato, sia l'elemento generativo delle sue crisi sempre più

devastanti[3]. Sulla base di questa analisi si può capire come, nella prospettiva di un'economia

della decrescita, non possa essere accettato lo sviluppo di una finanza sovrapposta all'economiareale, ancorché utilmente tassata, e come, d'altra parte, la scomparsa di tale finanza faccia

precipitare la crisi dell'economia della crescita, e costituisca, quindi, un elemento decisivo perl'avvio della decrescita. Si tratta, in sostanza, di proibire legislativamente tutto il sistema degli

strumenti finanziari derivati e delle operazioni ad alta leva finanziaria. Basterebbe, per una tale

proibizione, ritornare alle legislazioni bancarie e finanziarie esistenti fino alle soglie degli anniNovanta, da cui il cosiddetto sistema bancario ombra è stato esentato con una serie di disposizioni

specifiche (negli Stati Uniti, ad opera dell'amministrazione Clinton). Occorre, poi, come si è detto,un passaggio dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio. Le imposte sul reddito non sono lo

strumento più adatto per trarre risorse dalle classi ricche, perché ormai esistono molti modi per

eluderle col rendere difficile l’accertamento del reddito. E’ vero che esistono pure molti modi peroccultare i patrimoni, ma una tassa sul patrimonio presenta i seguenti vantaggi: in primo luogo,

spesso il patrimonio ha una natura fisica (ville, yacht) che lo rende più difficile da occultare.In secondo luogo, se anche un patrimonio mobile può essere occultato, è comunque più difficile

occultare un grosso patrimonio rispetto a un reddito; infine, una volta individuato un grossopatrimonio, esso non può più sparire da un anno all’altro e ad esso si può quindi ritornare negli annisuccessivi, mentre un reddito, per esempio di un libero professionista o di un imprenditore, può

variare grandemente da un anno all’altro. Un’imposta sul patrimonio, per avere effetti redistributivi,deve essere globale (cioè riguardare tutto il patrimonio) e ordinaria (cioè permanente). Date queste

caratteristiche, l’aliquota può e deve essere molto bassa (non maggiore dell’1 per cento). Sarà

soprattutto questa tassa patrimoniale a finanziare i salari dei nuovi assunti dallo Stato, combattendocosì la disoccupazione indotta dalla decrescita. Un’ultima fonte di entrate per lo Stato, da

indirizzare alle nuove assunzioni, potrà infine venire dalla diminuzione di numerosi capitoli dispesa: le spese militari (in particolare quelle per le missioni militari all’estero), i costi della casta

politica, che devono diminuire tagliando il numero di membri della casta e diminuendone

grandemente gli emolumenti, e soprattutto i costi della corruzione in cui sono coinvolti politici eimprenditori. Passiamo adesso all’ultima questione che affrontiamo in questo scritto. Quale tipo di

occupazione dovrebbe essere organizzata dallo Stato con le risorse recuperate nei modi sopra

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descritti? Qui si vede come la transizione alla decrescita si differenzi dal contrasto alla recessione

tipico delle politiche economiche indirizzate allo sviluppo. Infatti, da un punto di vista di lotta alla

recessione, se si sceglie di adottare una politica “keynesiana” di sostegno statale all’occupazione,non ha molta importanza quale sia l’occupazione che viene finanziata. Dal punto di vista della

decrescita la cosa invece è molto importante. E’ chiaro che bisognerà finanziarie quelle forme dioccupazione che servono a indirizzare la società nella direzione della decrescita. Per far questo,

però, dobbiamo avere un’idea delle trasformazioni economiche attraverso le quali soltanto può

dispiegarsi una società della decrescita. E’ nostra opinione che una società della decrescita possasorgere a partire dall’attuale società della crescita grazie alla creazione di una estesa rete di servizi

sociali pubblici e gratuiti, che sarebbe all’inizio finanziata dallo Stato, nei modi sopra indicati.Il punto fondamentale sta nel fatto che tali servizi sociali diventerebbero parte del reddito reale dei

cittadini, e questo permetterebbe di mantenere relativamente basso il loro reddito monetario. Così,

se ciascuno avesse a disposizione, offerti gratuitamente dallo Stato, servizi come trasporti,assistenza sanitaria, luoghi di ricreazione e svago come palestre e parchi, e così via, non avrebbe

bisogno di incrementare il proprio reddito monetario per pagarsi quei servizi. E poiché una parte

notevole della popolazione sarebbe coinvolta nella produzione di questi servizi, un tale sistema di“Welfare State decrescista” potrebbe venire sempre più attivato da uno scambio non mercantile di

servizi, appunto secondo le idee fondamentali della decrescita. Diventando così un elemento di unaorganizzazione sociale fondata sulla decrescita, questa rete di servizi sociali si inscriverebbe

all’interno di una rete più vasta di scambi non mercantili, riducendo quindi progressivamente lenecessità del finanziamento. I lavori pagati dallo Stato, all’inizio del periodo di transizione,

dovrebbero indirizzare la società in questa direzione. Così una grande opera di manutenzione e

rafforzamento della rete ferroviaria (che andrebbe naturalmente rinazionalizzata) dovrebbe favorireil passaggio dal trasporto privato al trasporto pubblico, mentre una grande lavoro di riadattamento

del patrimonio edilizio, assieme al suo miglioramento in termini di consumi energetici,permetterebbe di offrire a tutti i cittadini case ad elevato risparmio energetico senza ulteriori

consumi di territorio. La produzione automobilistica, per fare un altro esempio, dovrebbe essere

riconvertita alla produzione di mezzi per il trasporto pubblico, che sarebbero poi venduti alleamministrazioni locali: in questo modo non si ha in senso proprio decrescita (si tratta pur sempre

della produzione e della vendita di una merce, l’autobus invece dell’auto, e di lavoratori chevengono pagati con un salario monetario), ma si creano le condizioni per una politica di decrescita

come offerta di trasporto pubblico gratuito in sostituzione del trasporto privato.

Le linee generali che abbiamo fin qui tracciato indicano sono, naturalmente, solo idee generali, cheavrebbero bisogno di essere discusse e articolate. Si potrebbe partire da qui per impostare il

confronto, che noi giudichiamo necessario, fra i teorici della decrescita e gli economisti criticidell’ortodossia neoliberista.

Genova-Pisa, gennaio 2011.

[1] Le unità di misura ovviamente non contano in questo che è un semplice esempio immaginario: 100 unitàmonetarie possono essere 100 mila o cento milioni di euro, 10 unità di lavoro possono essere 10 o 10 milalavoratori.

[2] Tutto questo, come si è detto, vale a parità di altre condizioni, in particolare nell’ipotesi che i due gruppi diimprese presentino la stessa intensità di lavoro. Questa ipotesi può essere falsa in casi specifici, ma a noiinteressano gli effetti macroeconomici, quindi il dato aggregato, e a questo livello ci sembra non ci siano ragioniper pensare che le imprese “ecologiche” presentino una maggiore intensità di lavoro.

[3] Si veda per esempio H.P. Minsky, Keynes e l'instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri 2009 (ed. or. 1975).