Autorità, responsabilità e funzioni della distribuzione...

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1 SOCIETA' ITALIANA DI ECONOMIA AGRARIA XLVI Convegno di Studi “Cambiamenti nel sistema alimentare: nuovi problemi, strategie, politiche” Piacenza, 16-19 settembre 2009 Autorità, responsabilità e funzioni della distribuzione alimentare moderna PIETRO PULINA Università di Sassari Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei Sezione di Economia e Politica Agraria [email protected] BOZZA PROVVISORIA

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SOCIETA' ITALIANA DI ECONOMIA AGRARIA XLVI Convegno di Studi

“Cambiamenti nel sistema alimentare: nuovi problemi, strategie, politiche”

Piacenza, 16-19 settembre 2009

Autorità, responsabilità e funzioni

della distribuzione alimentare moderna

PIETRO PULINA Università di Sassari

Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei Sezione di Economia e Politica Agraria

[email protected]

BOZZA PROVVISORIA

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Nell'affrontare i temi della presente relazione si è partiti dalla valutazione delle

recenti tendenze dei comportamenti di consumo e delle relative motivazioni eco-nomiche, sociali, politiche e culturali che ne determinano gli orientamenti. I model-li di consumo, e quelli relativi ai prodotti alimentari in particolare, si sono frantu-mati in un caleidoscopico paradigma di comportamenti e stili di vita difficilmente classificabili in pochi tratti distintivi, talvolta anche se riferiti ad uno stesso indivi-duo. Tra i 12 trend valoriali comuni identificati nell’ultima indagine Roper Reports sugli stili di vita in 25 paesi spicca tra l’altro proprio l’affermazione dell’individualismo/individualità, intesa come “ricerca di libertà e di autonomia, … elaborazione di un’etica e di un progetto personale, … differenziazione dello stile di vita e dei consumi” (Anselmi, 2009). Tuttavia, alcune regolarità di fondo posso-no essere individuate.

La perdurante stagnazione economica vissuta in questo decennio, esasperata nei connotati dall’attuale crisi e dall’incipiente deflazione, si è accompagnata, da un lato, all’accentuazione del divario tra le condizioni di benessere delle diverse classi sociali e, dall’altro, ad una più attenta valutazione delle scelte da parte dei consu-matori (Confcommercio e Censis, 2009). Le recenti modifiche istituzionali che hanno caratterizzato il mercato del lavoro, con l’affermazione diffusa di relazioni occupazionali a forte carattere di precarietà hanno fatto il resto. Se così, anche per i consumi alimentari, si ritorna a conferire primaria importanza alle variabili reddi-tuali e del prezzo, altri fattori assumono crescente rilievo nella formulazione delle scelte. Tra questi, si ritiene opportuno sottolineare la crescente adozione di com-portamenti virtuosi, efficienti ed etici che riguardano anche l’atto quotidiano dell’alimentazione (Colussi, 2009). In questa nuova prospettiva, il consumatore manifesta una pressante esigenza di rassicurazione da parte del sistema produttivo-distributivo, al quale richiede precise garanzie in merito ai valori comportamentali che lo animano. Se si potesse riassumere in un solo termine tale bisogno, invero complesso, la parola più aderente alla sua natura è senza dubbio “sicurezza”.

Su questo lato, oltre alla già citata crisi economica, un ruolo determinante è svolto dai mezzi di comunicazione, che – anche in campo alimentare – hanno sol-levato, anche quando si è operato nel legittimo ambito delle funzioni informative, l’attenzione della collettività su alcuni aspetti critici della sicurezza personale. Non è un caso che il Censis abbia etichettato il 2008 appena trascorso come “l’anno del-la paura”, a testimonianza del moltiplicarsi delle piccole e medie paure quotidiane, tutte confluite nella “grande paura” della crisi economica (Censis, 2008).

In questo contesto, per la posizione di prossimità, per la diffusione territoriale conseguita, per i volumi di merce movimentati, la distribuzione alimentare diventa senza dubbio l’interlocutore privilegiato del consumatore, che ad essa soprattutto si

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rivolge per trovare rassicurazione in merito alle proprie paure e in essa ripone la propria fiducia per navigare nelle difficili acque dell’attuale crisi. Secondo tale tesi, il dettaglio alimentare, e in particolare la grande distribuzione, avrebbe oggi assun-to dimensioni e competenze organizzative e gestionali tali da renderlo una Authori-

ty nel senso letterale del termine, cioè un'entità alla quale sono affidati poteri deci-sionali, di controllo e sorveglianza in determinati campi. Dunque, la collettività assegnerebbe di fatto alla distribuzione alimentare importanti funzioni sociali, tra cui spiccano quelle relative al contenimento dei prezzi, alla garanzia della qualità dei prodotti, all’informazione del consumatore, alla fornitura di servizi accessori all’atto del consumo, insomma alla salvaguardia ed al miglioramento della qualità della vita. La stessa recente comunicazione della Commissione Europea sui prezzi dei prodotti alimentari in Europa, peraltro, attribuisce al sistema distributivo preci-se responsabilità nel funzionamento della catena di approvvigionamento alimentare (Commissione delle Comunità Europee, 2008).

Anche il sistema produttivo agricolo ed agro-industriale individua la distribu-zione moderna quale tramite privilegiato per la collocazione della propria offerta nei mercati al consumo. Particolare importanza, al riguardo, assumono le politiche di approvvigionamento e di promozione commerciale intraprese dalle principali insegne distributive ai fini della valorizzazione e della tutela delle produzioni locali e delle tipicità territoriali. Il caso italiano, in particolare, appare significativo dal momento che la forte e crescente presenza di insegne straniere nel canale al detta-glio offre motivi di preoccupazione in merito alle opportunità di posizionamento competitivo delle produzioni nazionali nelle nostre stesse tavole (Sicca, 2002).

L’obiettivo della relazione è fare luce sulla natura del ruolo economico, politico, sociale ed istituzionale assunto attualmente dalla moderna distribuzione alimentare al dettaglio. Per far ciò si procederà, innanzitutto, ad una disamina dell’evoluzione recente della distribuzione alimentare nei paesi occidentali. Particolare enfasi sarà dedicata alle tipologie di operatori emergenti ed ai meccanismi relazionali che go-vernano il funzionamento della catena di approvvigionamento alimentare nella fase terminale. Si procederà, poi, alla puntuale definizione delle funzioni sociali svolte dalla componente commerciale della catena di offerta alimentare e si discuterà in-torno alle modalità con cui tali mansioni sono svolte, nonché del relativo grado di efficienza e dell’efficacia conseguite dall’attuale configurazione del sistema distri-butivo alimentare. In particolare, saranno oggetto di valutazione le funzioni calmie-ratici e di garanzia sanitaria e di qualità nei confronti del consumatore, per le quali si procederà alla ricostruzione delle modalità di assolvimento ed alle implicazioni strategiche e politiche generate da tali attività. Il passo finale dell’analisi sarà rivol-to alle implicazioni di equità, di eticità e di responsabilità sociale che derivano alle imprese della grande distribuzione dall'assolvimento di tali funzioni.

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E’ opportuno precisare che, al fine di offrire un quadro analitico coerente e non eccessivamente dispersivo, la presente relazione si concentrerà esclusivamente sul-la Grande Distribuzione e sulla Distribuzione Organizzata, che dominano attual-mente il dettaglio alimentare, e non prenderà in considerazione altre forme distribu-tive moderne, quali quelle che operano nel canale Ho.Re.Ca. e nell’e-commerce, che attraversano una fase storica di rapida evoluzione sia sotto l’aspetto strutturale sia su quello delle relazioni con la catena di offerta e con i consumatori. 1. L’evoluzione del dettaglio alimentare 1.1 Una chiave di lettura competitiva

E’ ormai trascorso quasi un secolo da quando, introducendo nel 1916 la vendita self service nel suo negozio “Piggly Wiggy” di Memphis (Shaw et al., 2004), Cla-rence Saunders gettò le basi per la Rivoluzione Commerciale che avrebbe cambiato la nostra vita di consumatori e cittadini e le relazioni funzionali nel sistema produt-tivo-distributivo agricolo e alimentare. In realtà, occorre attendere il 1930 per vede-re all’opera il primo vero e proprio supermercato, aperto nel Queens a New York dalla King Cullen Grocery Company. Questa ed altre compagnie provvidero, du-rante la Grande Depressione, a soddisfare l’esigenza sociale di accesso al cibo a condizioni di prezzo accettabili. Tale missione veniva svolta attraverso la pratica realizzazione del semplice slogan “Pile it high: sell it low”, ovvero di commercia-lizzazione di alti volumi di prodotto con margini di profitto relativamente bassi, che rappresenta tuttora uno dei cardini gestionali della distribuzione moderna (La-wrence e Burch, 2007).

Da allora, il sistema distributivo alimentare si è sviluppato attraverso un proces-so articolato, diversificato nel tempo e nello spazio, che ha condotto all’attuale condizione che vede un terzo del mercato mondiale sotto il controllo di sole 30 im-prese commerciali al dettaglio (Lawrence, 2004). Non è questa la sede per ripercor-rere nei particolari le fasi che hanno scandito questa progressiva trasformazione del commercio alimentare. Qui ci si limita a schematizzare la successione logica di alcuni momenti di questo processo, al fine di comprendere la natura e la portata dei mutamenti che hanno condotto all’attuale stato dell’assetto strutturale e delle rela-zioni funzionali che caratterizza la distribuzione alimentare moderna.

Seguendo la logica di management sopra esplicitata, che coniuga l’entità degli utili con il volume delle merci veicolate, il dettaglio moderno ha intrapreso fin da subito un percorso caratterizzato dalla crescita dimensionale delle imprese, impe-gnate nel perseguire economie di scala e di scopo tali da garantire i margini di pro-fitto indispensabili per il loro sviluppo. Questa pulsione all’ampliamento del volu-

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me d’affari si è manifestata, sia pure con diverse intensità, per tutta la breve storia del comparto ed è stata, per molto tempo e soprattutto nel secondo dopoguerra, as-secondata dalla crescita delle dimensioni del mercato al consumo, a sua volta in-dotta – attraverso un meccanismo di retroazione reciproca – anche dallo sviluppo stesso della moderna distribuzione al dettaglio.

La storia della distribuzione alimentare moderna è una vicenda di relazioni competitive intessute in diversi contesti e con regole che sono mutate in sincronia con il momento storico e in coerenza con l’ambiente socio-economico ed istituzio-nale in cui si sono giocate. Per quel che riguarda la competizione orizzontale, si è passati da una fase pionieristica in cui la concorrenza era esercitata nei confronti delle forme tradizionali di distribuzione, quali quella del piccolo dettaglio non spe-cializzato esercitato nei negozi di prossimità nonché quella dell’ambulantato, ad uno stadio di maturità nel quale, affermata la supremazia sul piccolo commercio, la competizione si è spostata all’interno della stessa Grande Distribuzione Organizza-ta (GDO) ed ha interessato i rapporti tra le diverse compagnie commerciali (Pasto-re, 2008). A fronte del rallentamento e della progressiva saturazione dei mercati al consumo occidentali, le catene distributive hanno proseguito nella loro fisiologica ricerca delle economie di scala attraverso una serie di acquisizioni e fusioni, da un lato, e di espansione in nuovi mercati esteri, dall’altro, che ha condotto all’attuale concentrazione dell’assetto del commercio alimentare al dettaglio in molti paesi del nord del mondo. Si è passati, in sostanza, attraverso i momenti dell'aggregazione e dell'internazionalizzazione che, talvolta, si sono sovrapposti allorquando era l'im-presa estera ad acquisire ed incorporare diverse insegne nazionali.

La competizione tra le diverse compagnie distributive ha riguardato ed interessa tuttora sia il controllo dei mercati al consumo che l’offerta dei fornitori e si gioca sul piano globale come su quello locale. Per quel che concerne il rapporto con i consumatori, ferma restando la rilevanza della convenienza, le strategie competiti-ve appaiono focalizzate principalmente sulla differenziazione dell’insegna com-merciale e del punto vendita. In questa fase, nell’ambito delle azioni mirate a con-solidare la fedeltà dei clienti - che comprendono tra l’altro i programmi a premi, le private label, l’assetto dei reparti del fresco - un ruolo di importanza crescente vie-ne assunto dalla diversificazione dell’offerta attraverso la proposta di un ampio assortimento di beni (farmaceutici e sanitari, carburanti) e di servizi aggiuntivi (fi-nanziari, logistici, gastronomici, turistici, intrattenimento) di natura ben diversa da quella che caratterizza il core business delle imprese distributive. La cosiddetta convergenza di diverse competenze e interessi sotto il medesimo ombrello com-merciale (Pastore, 2008) rende sempre più complessa la gestione e l’essenza stessa delle imprese al dettaglio, chiamate - da un lato - a inseguire la frantumazione dei modelli di consumo attuali e a soddisfare esigenze quanto mai diversificate per mo-

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tivazioni e possibilità, e - dall’altro - a mediare con una serie di fornitori di beni e servizi di varia natura, capacità e caratura.

Anche per quel che concerne la competizione verticale, le relazioni sono state condizionate dalla necessità di assecondare l’innata pulsione alla crescita dimen-sionale della distribuzione moderna. Così, da una fase in cui l’industria alimentare, già concentrata in molti comparti e dominata da alcune imprese e marchi nazionali o multinazionali (Konefal et al., 2005), deteneva un potere contrattuale dominante anche nei confronti della nascente distribuzione moderna, si è passati progressiva-mente ad un assetto dei rapporti di forza che ha finito spesso per privilegiare il det-taglio organizzato in virtù della prossimità al consumatore e della crescente con-centrazione strutturale del settore (Busch e Bain, 2004). A fronte di questo sposta-mento del potere di mercato, le industrie alimentari hanno investito maggiori risor-se nella comunicazione e nella promozione dei loro marchi allo scopo di contrasta-re la fedeltà all'insegna commerciale inducendo una maggiore brand loyalty (Dob-son et al., 2001).

Nell’attuale fase storica, d’altronde, la distribuzione moderna è tra le promotrici di veri e propri sistemi integrati di offerta, governati da standard e regole comuni, che coinvolgono, a vario titolo e con modalità diverse, i vari attori che concorrono alla formazione ed alla collocazione del prodotto finito1. Questi segnali possono per molti versi essere ritenuti indicativi dell'inserimento di una componente coope-rativa nelle relazioni verticali lungo la catena d’offerta. In ogni caso, tale evoluzio-ne non avrebbe potuto verificarsi senza il supporto delle innovazioni tecnologiche che hanno riguardato la logistica e, soprattutto, l'informazione e la comunicazione. (Bulbarelli e Vinelli, 1998; Henson e Reardon, 2005).

Senza soffermarsi oltre su tale aspetto, sul quale si tornerà più avanti, è suffi-ciente qui rimarcare come l’avvento della Grande Distribuzione Organizzata abbia condotto, da una parte, alla creazione di condizioni non perfettamente concorren-ziali nei mercati alimentari al dettaglio e, dall’altra, abbia contribuito a riorganizza-re l’intero sistema di offerta di diverse categorie merceologiche attraverso il ridi-mensionamento di figure e di sovrastrutture di intermediazione – quali i grossisti ed i mercati annonari - che proliferavano in passato. Con ciò non si intende sancire per questi ultimi la scomparsa o l’esautorazione di fatto dalle funzioni un tempo assol-te, ma si vuole semplicemente sottolinearne il progressivo inglobamento all’interno delle organizzazioni distributive moderne.

1 Si pensi, a titolo di esempio, al Progetto Efficient Consumer Response (ECR), nato negli anni novanta a seguito di un’intesa tra Wal-Mart e Procter & Gamble, e in bre-ve tempo diffusosi in Europa (Mariani e Viganò, 2002).

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1.2 I modelli evolutivi del dettaglio alimentare

La dinamica evolutiva della distribuzione alimentare fin qui descritta è stata tracciata per sommi capi ed in maniera molto schematica a fini esclusivamente e-spositivi. Si sente il dovere di mettere in guardia chi legge dal rischio di aderire ad una visione del fenomeno che, così come appare da questa rassegna, appare quan-tomeno più semplice ed omogenea di quanto in realtà non sia stata. Infatti, le tappe evolutive appena accennate si sono sviluppate in tempi e modalità differenti nei diversi paesi ed hanno portato a condizioni attuali che, pur essendo inquadrabili tutte nel medesimo contesto descritto sopra, risultano decisamente differenziate per assetto strutturale, relazioni istituzionali, modalità funzionali che ne governano il regime.

Negli USA, come si è visto, la modernizzazione del sistema distributivo alimen-tare si è rivelata precocemente: già dai primi anni '50 i supermercati controllavano il 70% dei consumi alimentari domestici. Lo sviluppo del settore trovò una valida sponda nella stessa industria alimentare che, attraverso le innovazioni relative al packaging ed alla standardizzazione delle produzioni, agevolò la movimentazione logistica delle merci e la vendita self service nei punti vendita al dettaglio (Hum-phrey, 1998). Tuttavia, fino ai primi anni '90, la struttura del mercato al dettaglio alimentare non è mai risultata eccessivamente concentrata, se si fa eccezione di alcune insegne che dominavano alcune piazze regionali (Cook, 2001). Una legisla-zione anti-trust restrittiva, rimasta in vigore fino ai primi anni '80, favoriva tale as-setto (Wrigley, 2001). Lo scenario si è sensibilmente modificato nell'ultimo decen-nio del secolo passato con l'irruzione del cosiddetto “modello Wal-Mart”, promos-so dall'omonima insegna commerciale. Tale modello consiste sostanzialmente nella ricerca della massima efficienza delle transazioni attraverso la centralizzazione del-le funzioni di fornitura e distribuzione e la definizione di standard merceologici adatti alla rapida ed efficace circolazioni di informazioni codificate e digitalizzate (Urbanski, 2005). Con questo progetto di coordinamento verticale, Wal-Mart riuscì in breve tempo a realizzare importanti margini di profitto grazie all'eliminazione di intermediazioni inefficienti ed alla minimizzazione delle giacenze delle merci in magazzino, riuscendo nel contempo a collocare i propri assortimenti a prezzi con-correnziali. Il “modello Wal-Mart”, fondato sull'efficienza delle transazioni e sulla circolazione di merci ed informazioni sotto il controllo di un organismo di coordi-namento centralizzato, non può certo definirsi – come si vedrà in seguito – un e-sempio di radicamento dell'impresa nel territorio, ma si configura anzi come para-digma di impresa “distante dal mercato” proprio per via della sua natura prettamen-te delocalizzata, che trova la sua rappresentazione più evidente nella stessa confi-gurazione standardizzata dei punti vendita, che possono definirsi dei veri e propri

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“nonluoghi”, proprio per l'assoluta incoerenza con l'ambiente fisico e socio-economico che li ospita (Augé, 2005). Un simile modello esige, tra le altre caratte-ristiche, che il promotore della SCM possa contare su dimensioni tali da realizzare, oltre all'efficiente controllo delle operazioni secondo una filosofia “lean and me-

an”, anche economie di scala e di scopo tali da assicurare adeguati margini di red-ditività degli investimenti realizzati. Si è così assistito, a partire dagli anni '90, ad un frenetico processo di concentrazione della distribuzione alimentare americana, attraverso fusioni ed acquisizioni, da una parte, e allargamento del business alle piazze estere, dall'altra, che in breve tempo ha fatto sì che oltre il 50% del valore dei consumi alimentari nazionali avvenisse nei supermercati (Schwartz e Lyson, 2007).

In Europa le cose sono andate diversamente e con modalità e tempi differenzia-ti, anche per via dei diversi ambiti istituzionali in cui il dettaglio alimentare si è sviluppato. In Gran Bretagna una normativa marcatamente permissiva nei confron-ti della pianificazione degli insediamenti delle grandi superfici di vendita ha agevo-lato, fin dagli anni '60, una rapida concentrazione del dettaglio alimentare (Raven et al., 1995), attualmente dominato da Tesco, che si assicura oltre un terzo del mer-cato britannico, mentre un altro terzo è appannaggio di altre tre insegne. Caratteri-stici dello scenario del Regno Unito sono la scarsa presenza degli hard discount, la significativa rilevanza delle private label negli assortimenti proposti dalle principa-li catene commerciali e la diversificazione delle stesse gamme offerte, che consen-tono di reperire prodotti di primo prezzo accanto a referenze di prestigio, nonché dei format dei punti vendita, che vanno dall'ipermercato ad una forma assimilabile al negozio self service di vicinato (Harvey et al., 2004). Nonostante la tradizione storica e l'importanza assunta nelle prime fasi dello sviluppo della distribuzione moderna, il movimento cooperativo è attualmente marginale nello scenario britan-nico, in cui acquisisce una quota di mercato inferiore al 5% (Institute of Grocery Distribution, 1997). Il modello dominante nel Regno Unito, dunque, appare quello del “deep engagement”, ovvero dell'integrazione profonda delle imprese del detta-glio sia nei confronti dei fornitori sia rispetto alle specifiche abitudini di consumo alimentare prevalenti nel paese (Harvey, 2002). La già citata massiccia diffusione delle private labels, che riguarda anche i pasti pronti, così come la differenziazione dell'offerta per diverse fasce qualitative e di prezzo consente alle catene distributi-ve, da un lato, di governare direttamente e modificare tempestivamente i processi produttivi realizzati a monte e di accelerare le procedure di innovazione di processo e di prodotto necessarie a cogliere in tempo reale i mutamenti dei modelli di con-sumo alimentare a cui fanno riferimento. Tali peculiarità hanno consentito ad im-prese come Tesco e Sainsbury's di contrastare efficacemente i tentativi di introdu-

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zione nel mercato britannico da parte di Wal-Mart, da un lato, e di Aldi e Lidl, dall'altro.

Sensibilmente diversa appare oggi la situazione in Francia, nonostante quattro imprese commerciali (Leclerc, Carrefour, Intermarché e Auchan) controllino oltre il 50% del mercato alimentare (Planet Retail, 2005). Francese, peraltro, è il princi-pale dettagliante alimentare europeo, Carrefour, che nel mondo è secondo per fattu-rato solo a Wal-Mart. In realtà, così come vedremo in Germania e a differenza del-la Gran Bretagna, i principali dettaglianti sono configurati quali raggruppamenti di imprese che operano attraverso diverse insegne commerciali, spesso con logiche manageriali e soluzioni distributive indipendenti e diversificate (Harvey, 2002). Il grado di concentrazione del dettaglio sopra illustrato indurrebbe dunque a soprav-valutare il potere di mercato dei competitori sia nei confronti dei consumatori che, soprattutto, dei fornitori. Così come in Gran Bretagna, anche le imprese transalpine adottano una strategia di diversificazione dei format dei punti vendita, riservando particolare attenzione, in alcuni casi, alla formula degli hard discount. Significati-vo, al riguardo, è l'ingresso nel paese di Aldi e di altri distributori tedeschi specia-lizzati in questa tipologia di distribuzione, che non è invece riuscita a far breccia nel Regno Unito.

Proprio in Germania si assiste oggi all'affermazione dell'hard discount che, ini-zialmente specializzato nella distribuzione di prodotti confezionati, oggi si assicura oltre il 50% del mercato del fresco (Vorley, 2004). Lo scenario nazionale appare quanto mai diversificato per tipologie di impresa: accanto alla public company Me-tro (di cui gran parte dei titoli di proprietà è concentrata nelle mani di tre azionisti di riferimento) si rilevano consistenti quote di mercato appannaggio delle coopera-tive di acquisto Rewe ed Edeka, mentre i giganti dell'hard discount Lidl e Aldi so-no imprese private non quotate.

Venendo all'Italia, sono note le peculiarità che distinguono struttura e funzio-nalità del dettaglio alimentare rispetto agli altri paesi europei (Pieri e Venturini, 1996). Negozi tradizionali e ambulanti fatturano ancora il 30% del totale alimenta-re (Federdistribuzione, 2009). Tale configurazione deve attribuirsi in misura pres-soché esclusiva allo stato della distribuzione alimentare nelle regioni del Mezzo-giorno d'Italia, in cui la superficie media di supemercati e ipermercati disponibile per mille abitanti si attesta sui 134 mq contro i 222 del nord-centro (IRI-Infoscan, 2008). E' stato calcolato che l'attuale stadio dell'evoluzione strutturale del sistema distributivo alimentare italiano cade con 17 anni di ritardo rispetto alla Germania e di 8 anni rispetto alla media continentale: tale ritardo, se colmato, consentirebbe un contenimento dei costi dell'ordine di 5.600 milioni di euro, pari al 5% dei consumi commercializzabili alimentari (Cermes-Università Bocconi, 2009). Il grado di con-centrazione appare decisamente contenuto, dal momento che i primi 5 distributori

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si assicurano il 56% del confezionato fatturato nei super ed ipermercati, una quota paragonabile alla sola Spagna (57%), ma ben distante alle realtà di Francia (90%), Germania (76%) e Regno Unito (76%) (IRI-Infoscan, 2008). Lo scenario alimenta-re italiano è conteso dal gruppo Coop Italia (14,9% del fatturato alimentare della GDO), che riunisce alcune cooperative di consumatori, da Conad (9,1%), organiz-zazione di cooperative di dettaglianti indipendenti che dal 2004 accoglie come so-cio Rewe Italia del gruppo cooperativo tedesco Rewe, dai gruppi francesi Carrefour (8,9%) e Auchan (8,2%), dall'Unione Volontaria Selex (7,9%) nonché da Esselun-ga (7,1%), che rappresenta il pioniere della distribuzione moderna in Italia (GNLC Nielsen, 2009; Scarpellini, 2007).

Se questa è la condizione strutturale della fase di vendita al dettaglio, quella re-lativa agli approvvigionamenti sembra orientarsi nella direzione di una progressiva centralizzazione della gestione degli ordinativi e delle movimentazioni attraverso la realizzazione di vere e proprie centrali di acquisto che nel loro complesso gestisco-no poco meno della metà delle merci commercializzate dai gruppi distributivi (Fe-derdistribuzione, 2009). Attraverso le centrali d'acquisto le imprese commerciali definiscono i contratti quadro con i principali fornitori e razionalizzano gli aspetti logistici e di magazzino delle merci. La principale centrale d'acquisto è Centrale Italiana, che riunisce gli ordinativi di Coop Italia, Despar, Sigma, Il Gigante e C3; degne di nota sono anche Intermedia, cui fanno riferimento gruppi come Auchan, PAM e Crai, nonché Sicon, di competenza di Conad e dei suoi alleati (Federdistri-buzione, 2009). Le centrali d'acquisto rappresentano un'importante risposta strate-gica delle imprese distributive alle limitate dimensioni d'impresa che ne caratteriz-zano l'assetto strutturale nei confronti dell'industria alimentare.

Tale condizione è da attribuirsi, tra l'altro, al quadro normativo nazionale in ma-teria di distribuzione commerciale che solo di recente ha intrapreso un percorso di progressiva rimozione dei principali vincoli che ostacolavano l'apertura di esercizi commerciali di grandi dimensioni nel territorio nazionale. Questo orientamento si è concretizzato, innanzitutto, con il D.Lgs. n.114 del 31.03.1998 “Riforma della di-sciplina del commercio”, in cui sono accorpate le tabelle merceologiche in sue soli settori (“alimentare” e “non alimentare”), viene soppresso il Registro degli esercen-ti per il commercio, è semplificato il sistema autorizzativo relativo all'apertura, al trasferimento ed all'ampliamento dei punti vendita di medie dimensioni, mentre per la grande distribuzione è prevista una procedura di concessione che coinvolge una conferenza di servizi in cui svolge un ruolo fondamentale il rappresentante della Regione. Il decreto Bersani, così come è più comunemente noto il D. Lgs. 141/98, prevede una programmazione della rete distributiva, affidata alle Regioni, con fini di natura unicamente urbanistica. Ulteriori limiti e prescrizioni per l'esercizio di attività economiche di distribuzione commerciale sono stati rimossi dalla nuova

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legge Bersani (L. n. 248 del 4. 08. 2006). Tra questi, giova segnalare l'abolizione dell'obbligo del rispetto di distanze minime tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio e l'eliminazione dei limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale subre-gionale. Regioni ed enti locali sono stati chiamati ad adeguare le proprie norme alle disposizioni della nuova legge Bersani entro il 1° gennaio 2007. L'attuazione della liberalizzazione commerciale auspicata dalla legge Bersani si è incagliata proprio nella delega alle autorità decentrate dell'applicazione delle norme nazionali: per-mane infatti, in molte Regioni, una politica di programmazione e di contingenta-mento dell'attività di distribuzione commerciale che cristallizza gli assetti concor-renziali esistenti attraverso la definizione a priori di bacini d'utenza (unità territo-riali) e l'uso spesso strumentale di vincoli di carattere urbanistico o paesistico-ambientale (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 2007). 1.3 Concentrazione e potere di mercato

A conclusione della rassegna degli aspetti e dei momenti fondamentali che han-no caratterizzato l'evoluzione recente della distribuzione, si può concludere che nella fase storica attuale, questa gode di una solida posizione competitiva nel con-testo delle relazioni verticali lungo i sistemi agro-alimentari. Tuttavia tale posizio-ne, che non deriva esclusivamente e necessariamente dalla quota di mercato al con-sumo di cui riesce ad ottenere il controllo, appare quanto mai diversificata nelle modalità, nei termini e nei risvolti operativi. Si è potuto constatare, nella stessa analisi, la portata del ruolo ricoperto dalle normative nazionali in materia di com-mercio nella definizione degli assetti assunti dal sistema distributivo agro-alimentare. Ora, è chiaro che tali differenti normative rispecchiano differenze pro-fonde nei contesti istituzionali e, di riflesso, economici, sociali e culturali in cui le imprese distributive hanno dovuto operare. Se pertanto il dettaglio britannico ha potuto contare su una forte concentrazione della popolazione nei centri urbani, sul-la massiccia occupazione della componente femminile, sulla diffusione di mezzi tecnologici – come i forni a micro-onde – che hanno rivoluzionato i modelli di con-sumo domestici, la legislazione commerciale che ne ha governato lo sviluppo si è rivelata coerente con tali nuove esigenze sociali. In altri contesti, come quello ita-liano, la tardiva ed ancora incompiuta liberalizzazione del sistema distributivo ha sancito la persistenza diffusa di interessi particolari, quali quelli del piccolo detta-glio e dell'intermediazione all'ingrosso, che ha potuto esercitare la propria signifi-cativa influenza politica nei confronti del legislatore, anche in virtù della specificità dei modelli di insediamento e di consumo alimentare che, specialmente nel mezzo-giorno, tardano ad allinearsi con quelli continentali (Giacomini e Mancini, 2005). Un ulteriore elemento di differenziazione istituzionale che giunge a condizionare il

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reale potere di mercato del dettaglio in seno alla catena di offerta alimentare è dato dal grado di protezione assicurato dai singoli stati alle produzioni domestiche e dal grado di organizzazione e coordinamento orizzontale conseguito dall'offerta agri-cola locale: si tratta di elementi che, com'è evidente, tendono a ridimensionare il grado di asimmetria del potere di mercato che caratterizza le relazioni contrattuali, anche in presenza di consistenti concentrazioni dei volumi di offerta nella fase al dettaglio (Kjiaernes et al., 2007). A perfezionare la percezione dei rapporti di forza all'interno del sistema agro-alimentare, e in particolare del collocamento della componente al dettaglio, si deve tener presente che spesso le imprese commerciali delegano alcune non secondarie funzioni logistiche ad importanti imprese specia-lizzate esterne, le cui dimensioni ed il cui portafoglio di clienti rendono quanto me-no paritarie le posizioni contrattuali con i committenti. Analogo ragionamento deve essere condotto in relazione ai fornitori di beni (abbigliamento, farmaceutici etc) e servizi (finanziari, consulenza, viaggi etc) che consentono alla grande compagnia distributiva di praticare le strategie di diversificazione e differenziazione funzionali al consolidamento della propria posizione competitiva rispetto alle altre catene. Le imprese della grande distribuzione, in pratica, sono chiamate ad intessere una fitta e complessa rete di relazioni di fornitura di beni e servizi, all'interno della quale di-spongono di capacità contrattuali diversificate. Anche nel caso delle produzioni agricole e alimentari, la posizione delle imprese al dettaglio si colloca all'interno di un ampio spettro di possibilità di condizionamento delle relazioni che si estende in funzione delle caratteristiche specifiche del mercato e del prodotto oggetto della transazione, così come dell'assetto strutturale ed organizzativo che caratterizza la fase produttiva. Si possono citare esempi opposti come quello del Parmigiano Reg-giano e del Grana Padano, per i quali il potere di mercato della GDO risulterebbe alquanto limitato rispetto ai fornitori (Sckokai et al., 2009) o la posizione della Wal-Mart in alcuni mercati locali del lavoro negli USA, che si approssima a quella di monopsonio (Bonanno e Lopez, 2009). 2. Il ruolo odierno della distribuzione alimentare moderna: responsabilità,

autorità e funzioni

2.1 Il potere di mercato della GDO

La breve e schematica disamina appena conclusa ha consentito di cogliere il senso della posizione di forza assunta attualmente, sia pure con modalità ed intensi-tà differenti, dalla distribuzione moderna nell'ambito dell'intero sistema agro-alimentare. A tale proposito, il potere di mercato viene costruito ed esercitato se-condo differenti paradigmi organizzativi che variano all'interno di uno spettro ai

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cui estremi si possono collocare, da un lato, il “modello Wal-Mart”, fondato sulla massimizzazione dell'efficienza delle transazioni e sull'esasperazione della ricerca delle economie di scala, e dall'altro quello del “deep engagement” britannico, che persegue i medesimi obiettivi economici attraverso la via dell'integrazione funzio-nale dei fornitori e dell'adattamento dell'offerta alle specifiche caratteristiche dei diversi segmenti di mercato che intende servire (Harvey, 2004). Appare immedia-tamente comprensibile come il primo modello – del “fornitore distante dal merca-to” - risulti particolarmente efficace nelle strategie di internazionalizzazione, anche se soggetto a fare i conti con forti resistenze locali, mentre il secondo sembra di più difficile realizzazione nei mercati esteri, in quanto richiede ingenti investimenti in conoscenza ed innovazione mirati alle specifiche realtà locali in cui intende intro-durre la propria attività.

Anche in presenza di tali consistenti differenze, e con tutte le distinzioni del ca-so, si può ragionevolmente sostenere che, nella maggior parte dei casi, le relazioni verticali in seno al sistema agro-alimentare sono caratterizzate da un'asimmetria delle capacità di contrattazione a favore dei grandi operatori del dettaglio, i quali si giovano delle loro dimensioni al fine di dettare le condizioni di prezzo e di qualità delle forniture provenienti dai produttori agricoli e dall'industria. Anche quando - come avviene in Italia - l'assetto strutturale non appare organizzato intorno a livelli dimensionali comparabili, in termini di quote di mercato, a quelli di altri paesi, la gestione di buona parte delle forniture avviene attraverso organismi centralizzati – le Centrali d'acquisto appunto – che rivestono il duplice ruolo di massimizzare l'ef-ficienza logistica delle movimentazioni delle merci e di rafforzare la posizione con-trattuale degli acquirenti nei confronti dei principali fornitori. Anche in relazione alle referenze escluse dalla gestione delle supercentrali, come ad esempio accade per frutta e ortaggi, la grande distribuzione preferisce concentrare gli acquisti ri-volgendosi ad Organizzazioni di Produttori, preferibilmente nel caso della frutta, e a grandi operatori dell'intermediazione all'ingrosso, per quel che riguarda gli ortag-gi, con i quali sottoscrive contratti di fornitura duraturi, nei quali appare però in genere escluso il riferimento al prezzo (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 2007). Detto ciò, la natura asimmetrica delle relazioni di forza tra gli ope-ratori della distribuzione ed i rispettivi fornitori appare evidente nei format contrat-tuali che legano le parti. Tali documenti, che definiscono le concrete condizioni di fornitura e durano in genere non più di un anno, vengono redatti al termine di una trattativa che parte dalla definizione del prezzo di listino dei prodotti e riguarda la sua riduzione attraverso una serie di sconti e contributi. Tra gli sconti, si distinguo-no quelli “incondizionati” da quelli “condizionati”, essendo questi ultimi praticati a fronte di prestazioni del distributore, quali ad esempio il raggiungimento di deter-minati obiettivi di fatturato (premi di fine anno) o l'acquisto di una serie minima di

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referenze. Si prevede inoltre l'eventualità di contributi promozionali per iniziative nazionali o locali. Appare evidente che l'interesse dei distributori si concentra sugli sconti “incondizionati” e sulle referenze di maggiore impatto nell'ambito della gamma offerta dal fornitore. Un ulteriore elemento di pressione sui venditori deriva dai listing fee, dei veri e propri diritti di ingresso di nuovi prodotti negli scaffali della distribuzione moderna. Non mancano momenti di collaborazione in corso di contratto, quando alcuni fornitori di particolare importanza sviluppano insieme al distributore un progetto comune di Category Management per la gestione degli assortimenti e per iniziative promozionali mirate (Autorità Garante della Concor-renza e del Mercato, 2007). 2.2 Autorità e potere della moderna distribuzione alimentare

Se dunque la razionalità del sistema agro-alimentare si è spostata progressiva-mente verso le componenti distributive, questo fatto attribuisce ad esse gravi re-sponsabilità nei confronti dei consumatori e della società. I cittadini, infatti, attri-buiscono al sistema produttivo-distributivo precise e svariate funzioni sociali, tutte mirate alla massimizzazione del benessere collettivo. Tra queste, particolare rile-vanza assumono il controllo dei prezzi, che favorisce l'accesso più ampio possibile al bene di merito cibo, la garanzia sanitaria e qualitativa delle derrate, la tutela dell'ambiente e del territorio, la valorizzazione delle produzioni tipiche, locali e nazionali e l'equità e la trasparenza dei processi produttivi e dei protocolli gestiona-li praticati lungo l'intera filiera. E' chiaro che, seppure tali funzioni siano condivise tra produttori agricoli, trasformatori industriali e distribuzione, è a quest'ultima, per la sua collocazione prossimale al momento del consumo e per la posizione spesso dominante assunta nell'ambito delle relazioni verticali, che viene delegata gran par-te della responsabilità relative all'assolvimento di tali ruoli ed alla garanzia del con-seguimento sistematico degli obiettivi ad essi riferiti. Da questo punto di vista, è stato argomentato che la distribuzione alimentare moderna si configura ormai come una vera e propria Authority (Dixon, 2003).

Le imprese della distribuzione moderna, infatti, assumono le funzioni sociali suddette ricoprendo precise responsabilità istituzionali nei confronti dei fornitori e dei consumatori. In particolare, esse assumono decisioni autonome ed intraprendo-no iniziative di governo della filiera attraverso la definizione di standard qualitativi che riguardano i prodotti ed i servizi informativi e logistici scambiati lungo la cate-na d'offerta, del cui avvenuto rispetto provvedono ad assumere l'onere del controllo nonché ad assicurare il funzionamento del connesso sistema di incentivi e sanzioni. Intesa in questa accezione, l'Autorità assunta dalla moderna distribuzione alimenta-re è una prerogativa, costruita nel tempo, che esercita evidentemente la sua influen-za nello scenario economico, sociale e politico dei nostri tempi. Proprio per questo

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motivo, tale ruolo influente è oggetto di valutazione da parte della collettività e di contrasto ad opera di diversi portatori di interesse.

La natura dell'Autorità della moderna distribuzione alimentare ha molteplici ri-svolti e fonti: a questo proposito, facendo riferimento alla nota classificazione we-beriana, sono stati proposti quattro principali fondamenti che inducono a parlare di Autorità tradizionale, Autorità carismatica, Autorità burocratica ed Autorità loca-

le, queste ultime due essendo una specificazione dell'originale Autorità razionale-

legale (Weber, 1922; Dixon, 2003). La base dell'Autorità tradizionale delle forme distributive moderne deriva dalla loro storia, dalla loro presenza dominante ed indi-spensabile negli scenari socio-economici ed urbanistici attuali, nonché dalla repu-tazione di affidabilità acquisita nel tempo. Le insegne commerciali costruiscono e praticano tale forma di autorità attraverso accordi con terze parti autorevoli (orga-nizzazioni professionali, governo), l'offerta gratuita di consigli e informazioni (ri-cette, etichette nutrizionali) e la proposta di offerte promozionali. Gli attributi fon-damentali dell'Autorità carismatica del dettaglio alimentare riconducono all'identi-tà delle insegne costruita in maniera chiara, inequivocabile e distinta attraverso precise e pianificate politiche di comunicazione che coinvolgono l'assortimento dei prodotti, l'ambientazione dell'esperienza di acquisto, la scelta strategica della foca-lizzazione sui prezzi o sui servizi, l'innovatività del pacchetto di beni e servizi of-ferti, il riferimento a testimonial carismatici quali chef, istituzioni governative e non governative. L'Autorità burocratica, dal canto suo, risiede nell'adozione di Co-dici e protocolli valutabili oggettivamente dagli azionisti come dalle organizzazioni dei consumatori. L'applicazione operativa di tale Autorità consiste nella formula-zione di standard autonomi e nell'implementazione di regolamenti proposti da gruppi di produttori. Non meno importante delle altre, specie se si analizza il fe-nomeno nel nostro paese, appare l'Autorità locale. Essa deriva dal posizionamento fisico dei punti vendita, dal condizionamento del paesaggio urbano e delle abitudini d'acquisto e, non ultimo, dalla capacità di garantire occupazione alla manodopera locale. A rafforzare questa forma di Autorità concorrono iniziative specifiche, quali la promozione di prodotti locali o il supporto a iniziative sociali e sportive che con-feriscono particolare visibilità all'insegna in un determinato ambito territoriale (Di-xon, 2003). 2.3 I fondamenti dell'Autorità: fiducia, condizionamento, garanzia

Appare subito chiaro che il fondamento comune a tutte queste forme, come d'al-tronde per l'Autorità nell'accezione generale del termine è la fiducia. In particolare, la delegazione delle funzioni sopra elencate agli operatori del dettaglio alimentare implica l'instaurazione, da un lato, di un rapporto fiduciario con i clienti e, dall'al-tro, la capacità di predisporre a monte un sistema di forniture supportato da un'ar-

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chitettura di contratti che riducano al minimo i costi di transazione e dall'imposta-zione delle relazioni funzionali intorno ad una cultura prettamente fiduciaria. Se, con riferimento a quest'ultimo punto, si tornerà per alcuni aspetti più avanti, dele-gando peraltro ad altre relazioni in calendario in questo Convegno l'approfondi-mento del tema, sembra qui opportuno soffermarsi sull'aspetto relativo alla costru-zione del rapporto fiduciario con la clientela. A questo proposito, si ritiene oppor-tuno distinguere due linee strategiche, che fanno riferimento a due target distinti: il consumatore ed il cittadino.

La fiducia del consumatore nei confronti dell'insegna commerciale è oggetto delle ormai note strategie finalizzate a consolidare la cosiddetta store (o chain) lo-

yalty: tra queste spiccano i “programmi fedeltà”, l'ambientazione dei punti vendita, l'assortimento dei prodotti private label, le specificità ed il layout dei reparti del fresco, i servizi accessori offerti (Clark, 1997). Con specifico riferimento ai pro-grammi fedeltà, è noto il loro duplice scopo di ancorare il cliente alla catena distri-butiva, coinvolgendolo in una relazione di reciprocità di natura psicologica, e di acquisire informazioni dettagliate sulle abitudini di acquisto della clientela, in mo-do da adattare tempestivamente la propria offerta alle esigenze espresse dai diversi segmenti di consumatori individuati. Sono altrettanto note le controindicazioni di tali strategie: tra queste spicca l'eventualità di un comportamento opportunistico dei consumatori, sempre più “sleali” e nomadi tra le diverse insegne (Evans, 1999; Bellizzi e Bristol, 2004; Colussi, 2009). Appare indubitabile, allo stesso modo, che simili strategie, pur essendo vulnerabili nei confronti della singola insegna, contri-buiscono a rafforzare la fedeltà dei consumatori all'istituzione GDO.

Su tale base, peraltro, si fonda il condizionamento delle scelte d'acquisto dei consumatori da parte delle imprese commerciali, specie per quel che riguarda il cosiddetto “acquisto d'impulso”. Questo, infatti, risulta indotto da fattori di diversa natura: tra quelli esogeni si annoverano alcuni elementi contestuali, quali la dispo-nibilità di tempo e di denaro, nonché delle caratteristiche individuali, come la pro-pensione allo stesso acquisto d'impulso ed il piacere generato dall'esperienza d'ac-quisto; endogeni al processo d'acquisto d'impulso appaiono invece i condiziona-menti positivi e negativi e la “navigazione” nel punto vendita (Beatty e Ferrel, 1998). Ciò che è importante, al proposito, è che i dettaglianti possono esercitare un efficace controllo su alcuni di questi fattori: in particolare, un'efficiente ed ordinata disposizione delle merci negli scaffali riduce i tempi di ricerca del bene richiesto dal cliente ed aumenta la disponibilità di tempo a disposizione del consumatore per la permanenza nel punto vendita. Tale permanenza, incentivata peraltro da eventua-li favorevoli condizioni ambientali e da modalità d'interazione interessanti ed ap-paganti con gli operatori e con i prodotti, rende più probabile l'acquisto d'impulso. Allo stesso modo, la calendarizzazione delle promozioni e dei lanci in periodi vici-

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ni alla corresponsione degli emolumenti ai lavoratori dipendenti favorisce l'intensi-ficazione degli acquisti d'impulso, condizionati – come si è visto – dalla disponibi-lità contingente di denaro. Un elemento precursore di tutti questi fattori può essere, peraltro, il legame di fedeltà che avvince il cliente al punto vendita o all'insegna commerciale (Beatty e Ferrel, 1998). Se ne deduce, dunque, un impressionante po-tenziale di condizionamento psicologico delle scelte d'acquisto dei consumatori a disposizione dell'istituzione GDO.

Ben più sottile e di difficile gestione appare il rapporto di fiducia che la mede-sima istituzione è chiamata ad instaurare con il cittadino. Dice bene Zamagni (2006a), quando sostiene che il cittadino - a differenza del consumatore che espri-me passivamente le proprie preferenze tra le alternative proposte dall’offerta - ren-de espliciti i propri bisogni in maniera attiva, indicando non solo le tipologie e i generi di prodotti che intende acquisire, ma anche le modalità tecniche ed organiz-zative ed i valori che ispirano l’intero processo produttivo-distributivo. L’Autorità della distribuzione risiede dunque nella sua capacità di cogliere, e magari anticipa-re, tali istanze sociali, non solo e non tanto ai fini di un efficace posizionamento competitivo, ma soprattutto per integrarsi profondamente e contribuire ad indirizza-re l’ambiente socio-culturale in cui si trova ad operare. Di questi aspetti si discuterà più diffusamente nella parte finale della relazione. Qui è sufficiente constatare co-me la GDO abbia guidato e condizionato gli stili di vita della popolazione, trasfor-mando il processo di acquisto da routine tediosa ad esperienza appagante attraverso una serie di azioni proattive ed adeguamenti ai mutamenti demografici e sociali in atto: prezzi convenienti, servizi accessori, orari di apertura estesi, innovazioni di prodotto (Gardner e Sheppard, 1989). Di recente, poi, le insegne commerciali al dettaglio si sono proposte quali garanti della qualità e della salubrità degli alimenti collocati nei propri scaffali (Flynn et al., 2003). Tale ruolo è stato supportato dalla cooperazione con istituzioni e personalità prestigiose (Dixon e Banwell, 2004; Byrne e Whitehead, 2003) e dalla certificazione di protocolli produttivi rispettosi di principi etici (benessere animale, equi indennizzi ai fattori) (Lindgren e Hingley, 2003).

∝ ∝ ∝

In conclusione della breve disamina condotta, appare evidente come l'evoluzio-ne strutturale e funzionale del sistema agro-alimentare, da un lato, e le strategie di fidelizzazione adottate dagli operatori del dettaglio alimentare, tutte finalizzate alla costruzione di un patrimonio di reputazione e fiducia, dall'altro, abbiano condotto l'istituzione commerciale al conseguimento di una posizione di vera e propria Au-torità che, se conferisce ad essa un significativo ed innegabile potere non solo poli-

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tico ma anche – per dirla sempre con Weber (1922) – anche economico e ideologi-

co, nel contempo le attribuisce precise responsabilità e funzioni sociali. Di seguito si procederà alla discussione intorno alle principali tra tali mansioni. 3. Il controllo dei prezzi 3.1 La recente dinamica dei prezzi dei prodotti alimentari

I prezzi all'origine ed al consumo dei prodotti agricoli e alimentari hanno di re-cente attraversato alcune fasi di innalzamento dei livelli generali che hanno riporta-to al centro dell'attenzione politica e dell'opinione pubblica i meccanismi di merca-to che ne governano le dinamiche. Un esempio di tale rinnovato interesse è l'istitu-zione, presso il Ministero per lo Sviluppo Economico, del Garante per la sorve-glianza dei prezzi – il cosiddetto Mister Prezzi – e l'integrazione delle rilevazioni effettuate dall'Ismea con un Osservatorio sulla trasparenza dei prezzi agricoli pres-so il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, entrambe avvenute contestual-mente all'approvazione della legge finanziaria 2008. Una recente analisi delle di-namiche dei prezzi dei prodotti agro-alimentari in Europa rivela che nel corso del nuovo millennio tali corsi non si sono discostati sensibilmente dal profilo dell'in-flazione (una media del 2% l'anno), anche se in due periodi, rispettivamente a ca-vallo dell'entrata in vigore dell'Euro e nella recente crisi dei mercati delle materie prime, si è assistito a dei veri e propri picchi. La convergente azione di fattori strut-turali e congiunturali ha determinato tale esito: la crescente domanda mondiale di alcuni prodotti ad alto valore aggiunto, l'impennata del prezzo del petrolio, la con-versione di numerose risorse agricole per la produzione di biocarburanti, la ridu-zione delle scorte a seguito della riforma delle politiche agricole, soprattutto ad opera dell'UE, azioni speculative sulle borse merci e sui futures, nonché congiuntu-re agricole negative (Piesse e Thirtle, 2009; Pierangeli e Zezza, 2007). In tale ambi-to, in Italia si sono verificati rincari superiori alla media europea, specie per quel che riguarda carne (+16% tra il 2000 ed il 2006), pesce (+22%), oli e grassi (+22,8%) ed ortaggi (+23%). Il raffronto tra l'evoluzione dei prezzi agricoli e quelli al consumo dei prodotti alimentari rivela una forbice tra i due stadi della filiera da attribuire ad inefficienze e scarsa concorrenzialità nelle fasi intermedie (Pierangeli e Zezza, 2007).

Le rilevazioni più recenti indicano un sensibile raffreddamento dei prezzi agri-coli, come del resto dell'inflazione, giunta addirittura ad azzerarsi nel mese di lu-glio 2009. In particolare, se nel 2008 il rincaro medio dei prodotti alimentari di lar-

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go consumo2 è stato del 6,2%, già nel secondo bimestre del 2009 tale parametro, riferito allo stesso periodo dell'anno precedente, si era portato al 3,3%. Un contri-buto importante a tale raffreddamento è giunto dalla GDO, se è vero che, pur fa-cendo riferimento ad un paniere diverso, il costo della spesa nei reparti alimentari nel corso del 2008 è aumentato mediamente del 4,7% e nel secondo bimestre del 2009 è sceso all'1,7% (Centro Studi Unioncamere, 2009). Queste valutazioni sem-brano contrastare con le argomentazioni addotte in una recentissima analisi, secon-do la quale l'azione della GDO sarebbe da definirsi meglio come “stabilizzatrice”, piuttosto che “calmieratrice”, dei prezzi dei prodotti alimentari, con conseguenti benefici per i consumatori nelle fasi di rialzo nei mercati all'origine, mentre in quelle di calo le ricadute per la clientela sarebbero negative (Banco Popolare, 2009). 3.2 La natura della funzione calmieratrice

La funzione calmieratrice è da ritenersi congenita alla missione della Grande Distribuzione Organizzata. Addirittura, in passato, tale mansione ha avuto valenza politica, allorquando, nel promuovere la diffusione dei modelli di supermercato in Europa ed in Italia negli anni '50, Nelson A. Rockefeller attribuiva a tale forma di commercio un ruolo determinante nelle politiche di sviluppo in chiave anticomuni-sta3 (Scarpellini, 2007). La stessa teoria fondamentale dell'evoluzione del sistema distributivo al dettaglio, la Wheel of Retailing, nella versione originale come nelle diverse integrazioni e variazioni (McNair, 1958; Hollander, 1960; McNair e May, 1978; Brown, 1990), intravede un ciclico rinnovo dell'assetto strutturale del com-parto ad opera di imprese nuove entranti in grado di offrire le merci a prezzi più bassi rispetto a quelle già presenti, costrette dalla concorrenza ad operare il cosid-detto trading up, che ne concentra gli sforzi sulla varietà e sulla qualità dei servizi.

2 Si tratta dei prodotti alimentari confezionati al netto delle carni. 3 «Nel 1956, col comunismo che sembrava guadagnare terreno nell'Europa occi-

dentale, il signor Rockefeller decise che forse lo stesso tipo di impresa che in Venezuela si

era rivelata così di successo nell'abbassare i prezzi dell'alimentare – i supermercati -, po-

tesse essere appropriata anche lì. Egli ritiene che diminuire il prezzo dei prodotti alimenta-

ri sia un po' come aumentare i salari, e che sia «difficile essere comunista con la pancia

piena». Se un'impresa di supermercati Ibec si dimostra di successo, altri supermercati se-

guiranno, portando concorrenza tra gli operatori. Questo obbligherebbe i mercati a fare

pressione sui fornitori perché abbassino i prezzi, costringendo i fornitori e i produttori a

organizzarsi in modo più efficiente, a modernizzarsi ecc. Il risultato finale, come è accadu-

to in America, è innanzitutto un guadagno per il consumatore e, in secondo luogo, un con-

seguente miglioramento complessivo dell'economia generale del paese» (Rac, Microfilm series Ibec 9, rip. e trad. in Scarpellini, 2007)

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E' d'altronde il prezzo a rappresentare la variabile strategica di massima rilevanza adottata dalla grande distribuzione nella competizione inter-type tra le diverse for-me di commercio alimentare. Si distinguono al proposito strategie del tipo HI-LO, che fanno riferimento al ricorso sistematico a campagne promozionali circoscritte a determinate referenze per periodi di tempo limitati, da quelle del tipo Every Day

Low Price (EDLP), in cui la convenienza dell'offerta è generalizzata all'intero as-sortimento dell'insegna (Pellegrini e Viola, 2006).

In quale modo la distribuzione moderna può contribuire al controllo dei prezzi dei generi alimentari? Connaturati alla dimensione degli operatori del dettaglio so-no il conseguimento di economie di scala e di scopo, che consentono di limitare i costi di produzione del servizio distributivo, la capacità di selezionare i fornitori più efficienti attraverso l'esercizio di un consistente potere contrattuale, che circo-scrive la cerchia dei suppliers a quelli in grado di rispettare le condizioni – ed in particolare i prezzi – previste per la transazione. Solo le grandi imprese distributi-ve, inoltre, appaiono in grado di disporre delle infrastrutture e delle tecnologie ade-guate all'implementazione di sistemi logistici efficienti. Si deve peraltro precisare, a tale proposito, che è ormai consolidata la transizione da una fase in cui la logisti-ca era un problema essenzialmente interno all'impresa a quella attuale della Supply

Chain Management (SCM), nella quale le funzioni di movimentazione e gestione delle merci nei magazzini sono delegate ad aziende specializzate, in genere nel set-tore dei trasporti, da cui derivano istruzioni, rivolte ai diversi attori della filiera, frutto di pianificazione ed attuazione condivisa (Oliver e Weber, 1982; Ferrozzi e Shapiro, 2000). Tali attività comuni sono spesso codificate in progetti (quali il già citato ECR) e standard che investono le responsabilità di produttori e distributori predisponendoli ad un'azione di mutua cooperazione (Covino, 2002).

Per quanto possa apparire paradossale per le deviazioni dalle condizioni di con-correnza perfetta generate dal suo avvento, le responsabilità della GDO in materia di controllo dei prezzi sono state di recente esplicitate proprio dalla stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (2007), laddove – riferendosi al mercato dei prodotti ortofrutticoli e dopo aver constatato la necessità di ridurre il numero degli intermediari per via degli eccessivi e ripetuti ricarichi che condizionano i li-velli dei prezzi al consumo e le remunerazioni all'origine - afferma che ...«...La

lunghezza della catena tende a ridursi quanto più organizzati (e concentrati) risul-

tano entrambi gli operatori posti agli estremi della stessa. In particolare, la pro-

babilità di organizzare la filiera distributiva di un prodotto ortofrutticolo in modo

da minimizzare i passaggi distributivi – ovvero attraverso il c.d. acquisto diretto –

dipende criticamente dalla presenza di operatori nella fase della distribuzione

(GDO) e di fenomeni aggregativi organizzati tra i produttori» (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 2007). Uno studio commissionato dalla stessa

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Autorità ha, inoltre, verificato positivamente l'ipotesi di un maggior contenimento generale dei prezzi, ed in particolare dei generi alimentari, nelle regioni (Emilia Romagna, Piemonte, Marche, Campania, Molise, Valle d'Aosta, Lombardia) in cui il processo di liberalizzazione del commercio introdotto dal Decreto Bersani si è rivelato più incisivo. L'interpretazione proposta dagli incaricati dello studio, ancor-ché suscettibile di verifica empirica, associa al processo di liberalizzazione una fase di iniziale instabilità che conduce alla ristrutturazione del comparto, guidata dalla ricerca di economie di scala. Tale ricerca si sostanzierebbe, da un lato, nell'aumen-to degli investimenti e dall'altro, nella riduzione della massa retributiva e reddituale generata dalla riduzione di unità lavorative impiegate nei processi produttivi, ac-compagnata dall'aumento delle retribuzioni unitarie e delle contribuzioni sociali per dipendente. La liberalizzazione commerciale, in altri termini, renderebbe possibile il perseguimento delle economie di scala che riconfigurerebbero il comparto intor-no ad un assetto caratterizzato da un minor numero di punti vendita, superfici e addetti totali e dall'aumento delle dimensioni e delle superfici medie. Tutto ciò, grazie alla crescita della produttività dei fattori e del lavoro in particolare, consenti-rebbe un contenimento dell'inflazione nelle regioni in cui il processo di liberalizza-zione risulta maggiormente compiuto (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 2006).

Su tale linea sembrerebbe attestarsi anche la Commissione Europea, che nella recente Comunicazione sui prezzi dei prodotti alimentari in Europa sostiene: «...Il

settore della vendita al dettaglio è sempre più dominato da grandi dettaglianti di

generi alimentari e da catene transfrontaliere di vendita al dettaglio. Il consolida-

mento può consentire guadagni di efficienza grazie alle economie di scala e di

scopo, in particolare grazie alla riduzione dei costi logistici, il che eserciterebbe

una pressione al ribasso sui prezzi.» (Commissione delle Comunità Europee, 2008). In questa analisi si fa riferimento anche ad un’altra fonte di efficienza, quel-la logistica, che – come si è detto - non è più del tutto interna all’impresa distribu-tiva, ma coinvolge l’intera organizzazione delle catene d’offerta intorno a procedu-re di produzione, confezionamento, consegna e movimentazione che devono neces-sariamente risultare condivise e coerenti. Alla base di tale riorganizzazione del si-stema risiedono le innovazioni tecnologiche e le dotazioni infrastrutturali acquisite in materia di circolazione delle informazioni e delle comunicazioni, grazie alle qua-li le insegne commerciali sono ora in grado di ridurre ai minimi i tempi di giacenza delle merci in magazzino e di rinnovare tempestivamente gli assortimenti presenti negli scaffali di vendita (Ferrozzi e Shapiro, 2000). Appare chiaro che simili risul-tati sono favoriti dalla presenza di una componente distributiva strutturata intorno ad imprese di grandi dimensioni, le uniche a poter sfruttare al massimo i benefici di tale efficienza su grandi volumi di merci e a disporre delle risorse finanziarie da

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investire nella realizzazione del nuovo sistema. Non secondario, inoltre, è il fatto che tali imprese detengono capacità e leadership necessarie alla gestione operativa della catena di fornitura.

Come si è detto poc'anzi, le dimensioni delle imprese distributive e i loro ampi orizzonti operativi consentono di selezionare i fornitori più adatti alle esigenze lo-gistiche e di soddisfazione dei consumatori. In particolare, come è stato sottolinea-to dall'Autorità Garante della Concorrenza, le grandi insegne commerciali predili-gono canali corti e controparti efficienti ed organizzate. Il recente progresso delle tecnologie di trasporto, conservazione e comunicazione ha inoltre ampliato la cer-chia dei fornitori a imprese ed organizzazioni di stanza in regioni e stati distanti dal mercato al consumo (Cesaretti e Green, 2006). Il fenomeno del global sourcing, che sancisce in maniera rappresentativa la globalizzazione dei mercati e la progres-siva liberalizzazione degli scambi internazionali, risponde alla duplice necessità di integrare l'offerta di merci locali, ampliando peraltro il calendario di commercializ-zazione, e di sfruttare al massimo i vantaggi comparati di quei sistemi produttivi in grado di offrire materie prime e beni alimentari a prezzi competitivi (Perito, 2006). Il ricorso a fornitori stranieri, d'altra parte, significa per i dettaglianti far riferimen-to a culture d'impresa diverse e, soprattutto, a valori ed istituzioni consolidate non sempre immediatamente integrabili. Se dunque il global sourcing può determinare ricadute positive sul piano dei costi delle forniture fisiche, queste rischiano di esse-re vanificate dall'insorgere di eventuali costi di transazione commisurati alle condi-zioni di incertezza e dei rischi di comportamenti opportunistici (Allix-Desfataux, 1992). I costi totali di possesso, comprensivi di quelli logistici e di transazione, dipenderanno dunque in maniera decisiva dalle forme contrattuali che governano le relazioni tra le parti (Fraering e Prasad, 1999). Un'analisi condotta sulle politiche di global sourcing adottate da alcune grandi insegne commerciali per i prodotti orto-frutticoli ha evidenziato che, se sul piano teorico è possibile assistere alle diverse forme di governance delle transazioni che spaziano dal mercato alla gerarchia pas-sando per le forme ibride di governo, sul piano operativo si è osservato che, mentre le insegne internazionali ricorrono in buona parte a centrali dedicate ubicate in Spagna, le imprese italiane delegano a intermediari e fornitori l'approvvigionamen-to estero di merci nell'ambito di contratti di fornitura di durata annuale, inducendo questi ultimi a realizzare una sorta di arbitraggio tra merci locali e d'importazione (Perito, 2006). Sulla scelta delle forme di governo delle relazioni verticali al fine della minimizzazione dei costi di transazione si tornerà più avanti nella trattazione. 3.3 Distribuzione alimentare, concentrazione, concorrenza e prezzi

Una posizione critica nei confronti della Comunicazione della Commissione Europea, che aveva connesso la concentrazione della fase al dettaglio con guadagni

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di efficienza tecnica e logistica, è stata assunta dal Parlamento Europeo, la cui re-cente risoluzione sostiene che «...negli Stati membri in cui la concentrazione del

mercato risulta più elevata, esiste un divario maggiore tra prezzo alla produzione

e prezzo al consumo.» (Parlamento Europeo, 2009). La stessa risoluzione auspica un'azione coordinata a livello europeo e nazionale e misure specifiche di contrasto nei confronti di una serie di pratiche di commercializzazione diffuse, quali «... le

vendite sotto costo, le minacce di depennamento dal listino, speciali tasse imposte

dai supermercati per collocare alcune marche di generi alimentari sugli scaffali, i

contributi per l'immissione nel listino e per lo spazio sugli scaffali, gli sconti retro-

attivi su merci già vendute o i contributi di entità ingiustificata per le spese in pub-

blicità, nonché l'insistenza sulla fornitura in esclusiva.» (Parlamento Europeo, 2009).

La GDO, dunque, agirebbe in maniera favorevole al contenimento ed alla stabi-lizzazione dei prezzi grazie alla maggiore efficienza interna, dell'organizzazione che sarebbe in grado di assicurare all'intera catena di offerta e della capacità di ot-tenere sconti consistenti dai fornitori, a condizione che permangano significative condizioni concorrenziali nella fase al dettaglio. D'altra parte, la stessa posizione dominante assunta dalla distribuzione moderna nell'ambito delle relazioni verticali, sarebbe fonte di discriminazione nei confronti dei fornitori e, nel lungo periodo, potrebbe anche innescare meccanismi inflattivi per via della limitata concorrenza orizzontale. In quanto tale, pertanto, la GDO è chiamata ad assumere un ruolo di responsabilità nella razionalizzazione dell'offerta alimentare, limitandone le ineffi-cienze e garantendo nel contempo l'accesso dei cittadini al cibo attraverso il conte-nimento e la stabilizzazione dei prezzi di vendita; allo stesso tempo, essa è tenuta sotto osservazione affinché le condizioni operative delle relazioni verticali e oriz-zontali siano improntate al rispetto delle norme della concorrenza. Come si può comprendere, l'equilibrio efficienza-concorrenza appare quanto meno delicato ed assume per molti versi i connotati di un vero e proprio trade-off. Il superamento di questa dicotomia potrà essere superato, come si vedrà alla fine, solo attraverso l’introduzione della dimensione etica nell’analisi. Qui ci si limita a constatare che nella natura stessa della Grande Distribuzione alimentare dimorano i prerequisiti dell'oligopolio naturale (Ellickson, 2004).

Il fondamento teorico di tale idea risiede nel modello di Sutton (1991), secondo il quale la relazione inversa, già postulata da Bain (1956), tra dimensione di merca-to e concentrazione è confermata per i settori caratterizzati da costi irrecuperabili esogeni, ma non lo è per quelli in cui i sunk costs sono endogeni4. Introducendo

4 La classificazione dei sunk costs identifica come esogeni quelli dettati dalle con-dizioni di ingresso sui mercati, come ad esempio le spese necessarie per entrare in un setto-

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l'impiego degli strumenti analitici della Teoria dei Giochi, Sutton dimostra infatti che all'equilibrio di Cournot-Nash il numero di imprese entranti in un settore carat-terizzato da sunk costs esogeni è direttamente proporzionale alla dimensione del mercato e rivela invece una relazione inversa con i cosiddetti setup costs, ovvero con i costi che ogni impresa deve sostenere per entrare in un'industria attraverso l'acquisto di un singolo impianto che operi ad un livello di scala minima efficiente. Quando invece le imprese investono in costi irrecuperabili di natura endogena, al crescere delle dimensioni di mercato esse vedranno crescere le proprie quote di competenza e, vedendosi incentivate ad effettuare tali investimenti, determineranno un incremento dei costi fissi affondati, dando luogo così ad una struttura meno frammentata (Sutton, 1991). Nel caso della distribuzione alimentare, è stato postu-lato e verificato, almeno negli USA, che nei singoli mercati locali le insegne si con-tendono i consumatori offrendo una maggiore varietà di prodotti in ogni punto vendita. Per far ciò, esse investono in tecnologie di informazione e sistemi logistici proprietari, veri e propri costi affondati endogeni che rappresentano delle barriere all'entrata per nuove imprese. Così, mentre i sunk costs esogeni sono costanti al crescere delle dimensioni del mercato, quelli endogeni risultano crescenti: si spiega così che in questo caso il numero delle imprese non aumenta con il volume com-plessivo del mercato. Accanto a queste imprese oligopolistiche, che competono fra loro sul piano della qualità e della differenziazione dell'offerta, sopravvive una frangia di piccole imprese al dettaglio che trovano spazio in misura proporzionale alle dimensioni del mercato per via della natura esogena dei costi irrecuperabili (Ellickson, 2004).

La concentrazione del settore distributivo appare peraltro auspicabile – come si è detto sopra - dal momento che, così come prescritto dalla teoria del countervai-

ling power (Galbraith, 1952), consentirebbe di controbilanciare il potere di mercato delle grandi industrie manifatturiere. Attraverso tale orientamento strutturale, infat-ti, i dettaglianti sarebbero in grado di imporre ai produttori vantaggiose condizioni di prezzo che potrebbero poi essere trasferite a beneficio dei consumatori. Porter (1976) obietta che tale potere potrebbe essere esercitato solo da dettaglianti in gra-do di attenuare gli effetti delle campagne pubblicitarie promosse dagli industriali al fine di creare la brand loyalty presso i consumatori. A tale proposito, Porter classi-fica i punti vendita in due categorie: convenience, nei quali viene adottata la formu-la self service, e non-convenience, in cui i clienti sono condizionati e assistiti nella scelta da personale addetto. Solo questi ultimi negozianti sarebbero, pertanto, in

re caratterizzato da alte economie di scala, mentre intende per endogeni quelli decisi auto-nomamente dall'impresa per il conseguimento dei propri fini strategici, come sono ad e-sempio le spese in pubblicità o in ricerca e sviluppo (Giorgetti, 1998).

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grado di esercitare un efficace countervailing power nei confronti dei produttori di marca, mentre i supermercati, data la loro natura self service, non sarebbero in gra-do di farlo anche in condizioni strutturali di forte concentrazione.

Venturini (1993), con il suo modello di “concorrenza verticale”, riformula in termini dinamici le osservazioni di Galbraith e assume una posizione alternativa a quella di Porter. Secondo Venturini, infatti, l'offerta di merci marchiate con l'eti-chetta dell'insegna commerciale (le c.d. private labels) potrebbe costituire un po-tente strumento a disposizione dei dettaglianti nel contrastare il potere di mercato dei produttori. Venturini dimostra, a questo proposito, che – a parità di dimensioni di mercato – la concentrazione nel settore industriale si riduce al crescere della quota di mercato appannaggio delle private labels per via del minor ammontare di costi fissi irrecuperabili sostenuti dalle imprese che producono tali merci rispetto a quelli, comprensivi anche di quelli in pubblicità, che gravano sui produttori di beni di marca5.

Quanto poi tale riassetto strutturale si traduca in benessere sociale ed in partico-lare in benefici per il consumatore riguardo ai prezzi di vendita è argomento con-troverso. Sul piano teorico, infatti, è stato postulato che l'introduzione nel mercato di beni a marchio dell'insegna commerciale riduce gli effetti della doppia margina-lizzazione tipici della tarifficazione lineare, con ricadute positive per i profitti dell'intero sistema produttivo-distributivo di cui si avvantaggia in prevalenza o e-sclusivamente il dettagliante, e prezzi al consumo dei beni di marca più bassi (Mills, 1995; Bontems et al., 1999; Scott-Morton e Zettelmeyer, 2004; Bergés-Sennou et al., 2004). Un ulteriore effetto benefico deriverebbe dalla maggior varie-tà di prodotti resa disponibile per il consumatore, il quale si troverebbe di fronte a più ampie possibilità di scelta tra prodotti alternativi di diverse qualità e prezzi. Una voce discordante a tale coro sostiene invece che l'avvento di una private label

potrebbe indurre i produttori industriali a concentrarsi su un preciso target di con-sumatori caratterizzato da domanda inelastica, con conseguente innalzamento dei prezzi delle loro merci di marca (Gabrielsen e Sorgard, 2000). Le verifiche empiri-che, condotte negli USA (Ward et al., 2002), in Francia (Bontemps et al., 2005, 2006), in Norvegia (Gabrielsen et al., 2002), insieme ad altre, sembrano in preva-lenza comprovare quest'ultima ipotesi. Si deve d'altronde riconoscere che le private

labels, oltre ad accentuare il carattere di concorrenzialità nell'ambito delle relazioni verticali, rappresentano un potente strumento di differenziazione orizzontale delle 5 In realtà, Venturini – attraverso un gioco a due stadi del tipo Cournot-Nash – svi-luppa un modello dinamico di Sutton in cui tali condizioni si verificherebbero per quote di mercato appannaggio dei prodotti di marca inferiori al 10%, mentre per frazioni superiori la concentrazione nel settore manifatturiero aumenterebbe con le quote di mercato stesse (Venturini, 1993; Connor et al., 1994).

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diverse insegne commerciali all'atto di praticare le proprie strategie di fidelizzazio-ne dei clienti. In tal modo, il focus della concorrenza orizzontale non sarebbe più concentrato sul fattore prezzo, mentre le imprese della GDO catturerebbero una maggiore frazione delle spese alimentari dei propri clienti, realizzando in comples-so profitti più alti (Sudir e e Takudar, 2004). La redistribuzione dei profitti in seno alle filiere alimentari per effetto dell'introduzione delle private labels potrebbe i-noltre produrre effetti negativi nel lungo periodo per effetto delle minori risorse rese disponibili per la ricerca e sviluppo e per l'innovazione di prodotto da parte delle industrie. Tale propensione sarebbe peraltro mortificata dalla proposta di pro-dotti a marca dell'insegna del tipo “me-too”, vere e proprie imitazioni dei prodotti di marca (Bergès-Sennou et al., 2004). A quest'ultima argomentazione si potrebbe comunque obiettare che maggiori risorse a disposizione del segmento distributivo potrebbero favorire gli investimenti necessari per garantire un adeguato supporto di innovazioni tecnologiche ed organizzative al settore dei servizi commerciali, che coinvolgerebbero la logistica, la circolazione delle informazioni e delle comunica-zioni, la gestione dei punti vendita e quant'altro, a tutto vantaggio del fruitore fina-le. Se dunque le private labels sembrano produrre effetti benefici nel breve perio-do, anche nel caso delle ricadute sui prezzi al consumo dei prodotti alimentari, esse contribuiscono a ridisegnare i sistemi di relazioni verticali nell'ambito delle catene di offerta, con ricadute che meritano valutazioni accurate6.

E’ stato fatto cenno alle ricadute generate dalle private labels, ed in particolare dall’integrazione verticale a monte, sull’efficienza delle transazioni, che derivereb-be dall’allontanamento delle condizioni contrattuali dalla forma lineare e, di conse-guenza, dalle controindicazioni della doppia marginalizzazione delle politiche di prezzo (Spengler, 1950). E’ d’altronde comprensibile che l’accentuazione della natura competitiva delle relazioni tra produzione e dettaglio induca le parti ad in-traprendere strategie miranti a condizionare le transazioni e ad orientarle in dire-zioni diverse dalla semplice ed estemporanea fornitura: sconti, indennità di ingres-so (slotting allowances), vendite in esclusiva, esclusive territoriali, tariffe di fran-

chising, rispetto rigoroso di prezzi di listino concordati o imposti o di soglie mini-me o massime (resale price maintenance) etc. Bene, McCorriston (1994) ebbe mo-do di sottolineare che gli effetti dell’allontanamento dai contratti di fornitura lineari dipendono dalle relazioni strategiche tra i dettaglianti: in particolare, come dimo-

6 Nella valutazione dell’impatto delle private labels sul sistema di relazioni verticali in seno al sistema agro-alimentare, occorre tener presente che, allo stato attuale, esse sem-brano aver accentuato la loro funzione di caratterizzazione dell’immagine dell’insegna at-traverso un’articolazione spesso spinta in diverse linee dedicate (biologico, tipico, alta qua-lità, equo etc) che le rendono sempre più simili, anche per i costi di gestione e di promozio-ne pubblicitaria, ai marchi delle industrie manifatturiere.

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strato da Bonanno e Vickers (1988) e da Shaffer (1991), se le politiche di prezzo sono complementi strategici, allora i prezzi al dettaglio del bene oggetto di fornitu-ra saranno più alti rispetto al caso del contratto lineare, essendo più probabili le collusioni tra i dettaglianti, mentre nel caso di sostituti strategici, in cui la collusio-ne sui listini è esclusa, il risultato finale sarà di una riduzione del prezzo di vendita al consumatore (Vickers, 1985). Pur evitando generalizzazioni, alla luce della teo-ria della wheel of retailing, la prima eventualità – relativa ai complementi strategici - sarebbe da ritenersi più aderente ai mercati maturi, in cui la concorrenza tra retai-

lers è sostanzialmente di tipo intra-type, mentre la seconda potrebbe caratterizzare situazioni evolutive ancora arretrate, in cui prevale la concorrenza di tipo inter-

type7. E’ interessante, a questo proposito, verificare l’ipotesi secondo la quale le

politiche di prezzo adottate dalle insegne commerciali rappresentino comunque un elemento strategico fondamentale anche nella concorrenza intra-type (Galata et al., 1999), il che attenuerebbe i termini della distinzione appena proposta e farebbe propendere per una più probabile e diffusa condizione di strategic substitutes nelle relazioni competitive tra dettaglianti.

In sostanza, anche da questi esempi si deduce che il countervailing power gene-rato dalla concentrazione della componente distributiva si traduce in benefici per i consumatori attraverso prezzi di vendita più bassi solo se permangono nella fase al dettaglio significative condizioni di concorrenza. Dobson e Waterson (1997) hanno specificato che tali condizioni consistono sostanzialmente nella circostanza in cui i servizi offerti dai dettaglianti sono percepiti dai consumatori come stretti sostituti. La controindicazione di tale situazione risiede nella conseguente erosione dei pro-fitti dei fornitori i quali, per prevenire tale inconveniente, potrebbero razionalmente decidere di assicurare la propria offerta in esclusiva ad un solo rivenditore, anche se ciò potrebbe andare contro il pubblico interesse (Dobson e Waterson, 1997). D’altra parte, è stato postulato che la concentrazione nel segmento del dettaglio, anche se consente alle insegne commerciali di ottenere condizioni di fornitura più vantaggiose per via della rottura delle condizioni favorevoli alla collusione tra ven-ditori (Snyder, 1996) e delle minacce di integrazione a monte (Katz, 1987), potreb-be portare ad una riduzione della varietà dei prodotti a disposizione del consumato-re, con conseguenti effetti negativi sul suo benessere, per via della minaccia e della pratica attuazione delle politiche di delisting di alcuni fornitori da parte delle inse-gne commerciali. Tale pratica sarebbe finalizzata ad accentuare la concorrenza tra i

7 Non è un caso che l'avvento della GDO nei paesi in via di sviluppo abbia determi-nato, in generale, una sensibile riduzione dei prezzi al consumo dei generi alimentari. Si vedano al proposito le analisi condotte da Reardon e Hopkins (2006) per il Cile, D'Haese e Van Huylenbroeck (2005) per il Sudafrica e da Neven et al. (2006) per il Kenia.

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fornitori al fine di consolidare il potere di mercato degli acquirenti e di erodere par-te dei surplus generati a monte anche grazie a relazioni contrattuali non lineari (In-derst e Shaffer, 2007).

∝ ∝ ∝

Al termine della breve discussione sulla funzione calmieratrice, appare evidente la natura e la portata delle potenzialità che la moderna distribuzione alimentare è in grado di esprimere, così come risultano altrettanto palesi le controindicazioni ed i rischi sociali che deriverebbero da una delega in bianco agli operatori della distri-buzione. Occorre in particolare concentrare la vigilanza ed incentivare la trasparen-za su due fronti: quello della concorrenza, sul quale l'azione delle Autorità naziona-li e sovranazionali sembra operare in maniera incessante ed intensa, e quello dell'e-quità distributiva, che investe la qualità delle relazioni verticali lungo le catene d'offerta ed all'interno dell'impresa commerciale, su cui appare invece oggettiva-mente più impegnativo predisporre un efficace apparato di garanzia e tutela delle posizioni più deboli. Su questi stessi aspetti convergerà, come vedremo, anche la trattazione della seconda funzione attribuita alla GDO alimentare. 4. Il controllo della qualità e della salubrità degli alimenti 4.1 Qualità e salubrità degli alimenti

E’ stato fatto cenno, in sede introduttiva, alla crescente attenzione e apprensione dei consumatori in materia di salubrità degli alimenti, accentuate dalle recenti crisi e da alcuni scandali che hanno avuto rilevante spazio nell’informazione. Allo stes-so modo, è consolidata la consapevolezza della necessità di fornire alla collettività un’adeguata dotazione di caratteristiche qualitative di varia natura – da quelle or-ganolettiche alla tipicità ed al rispetto dell’ambiente, fino alla tutela della dignità personale e delle condizioni dei lavoratori impiegati nel processo produttivo – che il mercato di per sé non è in grado di garantire. Per far fronte a simili fallimenti si rende pertanto necessario l’intervento pubblico, al quale però si affianca un’azione sempre più incisiva e stringente degli operatori privati, indotti a tutelare il proprio patrimonio di reputazione da eventuali rischi di perdita di credibilità e a differen-ziare la propria offerta sul piano qualitativo rispetto alla concorrenza. La moderna distribuzione alimentare, come si è detto, assolve in quest’ambito una funzione di primo piano, non solo per la diretta interazione con i consumatori, di cui è chiamata a cogliere le esigenze ed a trasmetterle ai propri fornitori in maniera efficace ed efficiente, ma anche per via della posizione di potere e dell’autorità di cui dispone lungo la complessa rete di relazioni contrattuali intessuta con i produttori.

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In questa parte della discussione si sottoporranno a verifica, a partire dai fon-damenti teorici e dai riscontri empirici, le modalità e l’efficacia con cui vengono assolte queste responsabilità e le implicazioni di carattere normativo che ne deriva-no in materia di benessere sociale. E’ opportuno introdurre la discussione con alcu-ni chiarimenti preventivi. Nonostante la salubrità costituisca una dimensione par-ziale e rilevante del più ampio concetto di qualità, e che i risvolti economici, politi-ci e sociali dei fallimenti del mercato relativi alla loro fornitura ottimale abbiano natura e portata ben diverse tra loro, in questa sede i due argomenti sono trattati congiuntamente, in quanto le comuni implicazioni di asimmetria informativa e le conseguenti strutture di governo delle transazioni possono condurre ad efficienti sistemi di controllo di entrambi i tipi di problemi. Nel corso della discussione si dovrà sempre comunque tener presente la distinzione tra sicurezza e qualità che attribuisce alla prima i requisiti di una differenziazione verticale (un prodotto è si-curo o non lo è) ed alla seconda quelli della differenziazione orizzontale (un ali-mento ritenuto di alta qualità da alcuni può essere considerato scadente da altri in-dividui, interessati ad altre caratteristiche del bene). E’ altrettanto evidente che, in termini molto generali, l’interesse dell’azione pubblica sia maggiore nei riguardi degli aspetti legati alla salubrità, rispetto ai quali l’attività di regolamentazione ap-pare particolarmente intensa, mentre i soggetti privati, pur sensibili alle ricadute di eventuali emergenze sanitarie, dovrebbero rivolgere buona parte dei loro sforzi alle caratteristiche qualitative dei prodotti ed alle garanzie che al riguardo sono in grado di offrire al consumatore, specie nell’ambito di una strategia competitiva di diffe-renziazione. Ciò non implica una suddivisione rigida degli interessi e delle funzioni tra pubblico e privato. Ad esempio, il rischio di incorrere in futuro in ritiri del pro-dotto, in sanzioni amministrative o penali, nonché in ridimensionamento del patri-monio di reputazione o di marchio induce le imprese private ad implementare pra-tiche efficaci di controllo e garanzia della food safety (Hobbs, 2006; Martino, 2006). Allo stesso modo, la tutela dei cittadini dal rischio di frodi, l’interesse co-mune dell’efficienza dei sistemi di imprese e la valenza etica di numerosi attributi qualitativi degli alimenti (quali ad esempio l’eco-compatibilità dei processi e la garanzia di adeguate condizioni di lavoro e di remunerazione dei fattori) impongo-no l’interessamento dell’autorità pubblica all’adozione di azioni di regolamenta-zione, controllo e garanzia della qualità dei prodotti agro-alimentari. Come si avrà modo di verificare più tardi, questa commistione di interessi e responsabilità va conducendo il sistema agro-alimentare verso una vera e propria co-regulation pub-blico-privata (Martinez et al., 2007).

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4.2 I meccanismi di coordinamento verticale, le scelte di governo delle transazio-ni e il ruolo della distribuzione

Com’è noto, il mercato non è sempre in grado, autonomamente, di garantire la dotazione ottimale di sicurezza e qualità degli alimenti. Ciò può accadere per due ordini di motivi: il primo è di natura tecnica e si verifica nelle frequenti circostanze in cui i costi di produzione dei beni non sicuri o di qualità inferiore risultano più bassi rispetto a quelli relativi ai prodotti sicuri o di alta qualità (Henson e Traill, 1993); il secondo ordine di fattori alla base del fallimento del mercato risiede nella natura di beni esperienza, fiducia o credenza dei prodotti alimentari, da cui discen-dono condizioni di asimmetria informativa tra le parti della transazione e rischi di comportamenti opportunistici che potrebbero condurre alle note conseguenze e-streme di esclusione dal mercato dei prodotti di buona qualità (Akerlof, 1970; Hobbs, 2006). Ora, è chiaro che le conseguenze di un fallimento di mercato in rela-zione alla garanzia sanitaria degli alimenti non sono nemmeno comparabili a quelle che determinerebbero una dotazione sub-ottimale di qualità, per la quale l’invocazione di un intervento pubblico appare meno pressante. Tuttavia, in en-trambi i casi, l’insorgere di asimmetrie informative ed i rischi di comportamenti opportunistici, soprattutto del tipo della selezione avversa, impone alle imprese di ricercare ex ante sistemi di governo delle transazioni in grado di minimizzarne i costi e l’incertezza (Martino, 2006), mentre rende necessario il ricorso ex post alla verifica - a cura di una delle parti o di un organismo terzo - del rispetto delle condi-zioni pattuite per la fornitura sulla base di standard e protocolli di riferimento (Hobbs, 2006).

La qualità e la salubrità degli alimenti è un risultato che coinvolge le responsa-bilità di tutti gli attori coinvolti, a vario titolo, nel processo produttivo-distributivo. La garanzia del conseguimento sistematico di tale risultato esige pertanto il coordi-namento tra le attività di tutte le organizzazioni interessate attraverso un sistema di regole condivise e codificate in standard, protocolli di produzione e procedure di controllo. A supporto di questo sistema istituzionale, di cui si parlerà diffusamente più avanti, è prevista la realizzazione di una serie di investimenti in capitale fisico e umano che possono derivare da azioni comuni (come appunto la progettazione dei protocolli o la realizzazione di laboratori) oppure da associazione di risorse appar-tenenti ai diversi attori (sistemi di analisi in unità separate e coordinate o sistemi di assicurazione complementari). Si può già intuire come l’efficacia di tali sistemi di controllo riveli una stretta correlazione con la specificità degli investimenti (Marti-no, 2006).

L’assicurazione della qualità e della salubrità degli alimenti prefigura dunque condizioni di interdipendenza tra le figure interessate alla transazione. La natura di esperienza, fiducia o credenza degli attributi qualitativi degli alimenti, e la conse-

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guente asimmetria informativa tra le parti, introduce rischi di comportamenti op-portunistici che crescono al crescere della specificità degli investimenti e richiedo-no più stringenti attività di controllo. Tale controllo, peraltro, risulterà concentrato nelle mani di una sola figura in ragione delle condizioni di incertezza commisurate alla natura degli attributi qualitativi del prodotto e degli investimenti specifici in-trapresi (Ménard, 2004). E’ facile prevedere, alla luce dei rapporti di forza che ca-ratterizzano molte catene di offerta, che tale figura accentratrice sarà spesso rappre-sentata dalla GDO.

A questo punto, occorre verificare quali forme di governo delle transazioni sa-ranno adottate dalla distribuzione per far fronte a questi aspetti. L’obiettivo di tale scelta è rappresentato dalla minimizzazione dei costi di transazione: da quelli di ricerca, che insorgono ex ante all’atto dell’individuazione di partner affidabili e della codificazione delle caratteristiche qualitative del prodotto, a quelli di negozia-

zione, proporzionali al grado di precisione e di credibilità degli standard di riferi-mento, fino a quelli di monitoraggio e di applicazione degli accordi, che si verifi-cano ex post (Hobbs, 2006).

La scelta della forma di governo delle transazioni è condizionata, da un lato, dalle scelte degli agenti in materia di disponibilità delle informazioni e, dall’altro, dalle condizioni dell’ambiente istituzionale. In dettaglio, se gli operatori adottano strategie orientate a caratterizzare la propria posizione attraverso la segnalazione di determinati requisiti qualitativi del prodotto, la loro scelta rende meno onerose le transazioni. Allo stesso modo, l’ambiente istituzionale, costituito dagli approcci di regolazione delle attività condivisi dalle reti d’imprese (Williamson, 1991), come ad esempio i sistemi di certificazione volontaria o obbligatoria, può condurre di per sé alla riduzione dei costi di transazione (Hobbs, 2003). Esso peraltro condiziona la natura degli investimenti necessari all’adattamento, i quali riducono certamente alcuni costi di transazione, quali ad esempio quelli di monitoraggio, ma possono altresì incrementare la specificità delle risorse e l’interdipendenza tra le parti. Ne deriva che, in condizioni di mutua dipendenza molto forti e di sensibile incertezza, le forme di governo delle transazioni assumeranno una configurazione ibrida che si allontanerà da quelle di mercato e si approssimerà alla gerarchia al crescere delle specificità delle risorse impiegate (Martino, 2006). Non sono infrequenti, al propo-sito, i casi di integrazione verticale generati dall’onerosità dei costi di transazione associati alla disciplina ed al controllo delle attività dei committenti: secondo alcu-ni, anzi, è in atto un progressivo spostamento generalizzato della pianificazione delle produzioni dalla responsabilità delle aziende agricole, delegate per contratto, al controllo diretto, per integrazione verticale, da parte di grandi industrie o com-pagnie commerciali (Swinnen e Maertens, 2007). Ciò che qui si intende sottolinea-re è che la particolare natura degli attributi di qualità e salubrità degli alimenti in-

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duce le imprese distributive ad organizzare relazioni di fornitura che presuppongo-no la condivisione con altri agenti di regole, risorse ed obiettivi. Relazioni contrat-tuali, insomma, che prevedono integrazioni a monte più o meno profonde in fun-zione delle tipologie di fornitori, della natura degli attributi qualitativi e dell’ambiente istituzionale di riferimento.

Una simile condizione deve peraltro essere letta in una prospettiva dinamica, in cui i rapporti tra le parti non sono cristallizzate in una cornice programmatoria, così come previsto nel caso di interdipendenza sequenziale

8 (Grandori, 1999), ma prefi-

gura un continuo riadattamento degli schemi di regolazione, dei sistemi di governo e delle risorse investite in funzione dei ripetuti mutamenti che riguardano l’ambiente istituzionale e le scelte degli agenti coinvolti. Se ad esempio, la distri-buzione decide di adottare protocolli di sicurezza più severi, ciò comporta, da un lato, il rinnovamento dell’ambiente istituzionale e, dall’altro, accentua le condizio-ni di incertezza legate all’insorgenza di interventi non prevedibili ed all’insufficienza delle conoscenze necessarie per farvi fronte. Ne deriva la necessità di scambiare informazioni o il trasferimento di know-how dedicato all’innovazione introdotta. Ciò induce a qualificare come reciproche le relazioni di mutua dipen-denza intessute lungo le catene d’offerta (Martino e Perugini, 2006).

L’approccio dei costi di transazione ci consente dunque di cogliere la natura delle relazioni intessute dalla distribuzione moderna nell’ambito della rete d’imprese agro-alimentari ed il ruolo da essa ricoperto nella assicurazione della salubrità e della qualità degli alimenti. Un aspetto fondamentale, al riguardo, è de-finito dall’ambiente istituzionale di riferimento, ed in particolare dalla legislazione nazionale ed internazionale e dai sistemi di regolazione privati che governano il funzionamento delle catene d’offerta. A questo particolare aspetto si ritiene oppor-tuno dedicare specifica attenzione. 4.3 L'ambiente istituzionale di riferimento dell'azione di garanzia

4.3.1 Standard pubblici e privati: motivazioni e implicazioni strategiche, di effi-

cienza ed equità

Il ricorso a standard qualitativi ed a protocolli procedurali di produzione, con-servazione e movimentazione, condivisi lungo l’intera filiera e verificabili in ma-niera oggettiva e poco onerosa, contribuisce a ridurre le condizioni di incertezza ed a limitare i rischi di comportamenti opportunistici, rendendo così meno problema-

8 Grandori (1999) definisce sequenziale l’interdipendenza tra due attività di cui l’output della prima costituisce l’input per la seconda.

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tiche le transazioni. Un ruolo fondamentale, al riguardo, è svolto dall’operatore pubblico allorché provvede a definire un ambiente istituzionale di riferimento chia-ro, efficace e coerente con le istanze sociali di qualità e salubrità.

Da parte loro, anche gli organismi privati provvedono a definire autonomamen-te sistemi di regole, sanzioni e incentivi che integrano i vincoli regolamentari del legislatore. In tali ambiti, le imprese della grande distribuzione hanno svolto un ruolo di primo piano, dal momento che il rischio di incorrere in incidenti relativi alla vendita di prodotti insalubri o di qualità inferiore a quella dichiarata potrebbe determinare effetti devastanti per l'insegna commerciale che vi incorre (Swinnen,

2007). Gli obiettivi che le imprese private si prefiggono nel definire e codificare requisiti di qualità e nell’allestire l’ambiente di governo delle transazioni sono mol-teplici. Innanzitutto, con standard più stringenti e qualificati, gli operatori intendo-no rafforzare le garanzie offerte dalla regolamentazione pubblica o compensarne eventuali deficienze rispetto alle esigenze di qualità e salubrità verificate presso la collettività. In tali circostanze, l’adozione volontaria di norme più severe potrebbe rappresentare una scelta strategica deliberata, qualora si intendesse con esse antici-pare l’approssimarsi di provvedimenti pubblici orientati nella stessa direzione re-strittiva e predisporsi - con i necessari investimenti specifici - al relativo adegua-mento delle strutture e delle competenze, in modo da sfruttare i vantaggi riservati ai first movers. Un secondo ordine di motivazioni riguarda da vicino le norme che disciplinano gli aspetti qualitativi dell’offerta piuttosto che quelli sanitari, ed è fun-zionale al perseguimento delle strategie competitive di differenziazione orizzontale, mirate a consolidare la posizione della catena produttiva-distributiva su dimensioni alternative a quella del prezzo. Un terzo fine che induce le imprese private a dotarsi di standard proprietari e autonomi è quello che le orienta a massimizzare

l’efficienza delle transazioni attraverso la minimizzazione dei relativi costi. Gli standard proprietari, infatti, rappresentano il codice attraverso il quale le imprese appartenenti alla medesima catena di offerta dialogano tra loro, sfruttando i van-taggi offerti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Sistemi di codifica ed infrastrutture specifici, qualora si rivelassero più efficienti sul piano operativo della logistica e della definizione degli aspetti contrattuali, potrebbero generare considerevoli vantaggi economici per i proprietari e per i loro committen-ti. L’adozione di standard qualitativi comporta, d’altra parte, altre implicazioni.

L’adesione ad una catena di offerta governata da un preciso sistema di regole, pubbliche e private, può comportare per l’impresa oneri di adeguamento legati alla realizzazione di investimenti specifici in capitale fisico e umano che si configure-rebbero come costi irrecuperabili. Tali oneri agirebbero a guisa di barriere all’entrata e sarebbero fonte di discriminazione nei confronti di determinate cate-gorie di aziende, operatori e territori che non disporrebbero delle risorse e delle

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competenze necessarie per intraprendere tale percorso di adattamento (Dolan e Humphrey, 2000; Garcia Martinez e Poole, 2004). D’altra parte, occorre riconosce-re che l’introduzione di queste innovazioni istituzionali potrebbe rappresentare un’occasione storica di affrancamento definitivo dall’arretratezza per molti sistemi di produzione deboli, i quali possono cogliere, attraverso mirati investimenti e gli eventuali incentivi finanziari e strumentali che potrebbero supportarli, le opportuni-tà offerte dall’accesso a mercati lucrativi e dall’ammodernamento delle tecniche produttive e gestionali (Jaffee e Henson, 2005). Comunque la si guardi, la garanzia della qualità e della salubrità degli alimenti diviene strumento di potere nelle mani della distribuzione che, se in grado di esercitarlo, potrebbe consolidare la propria posizione nel contesto competitivo delle relazioni verticali lungo la catena di offer-ta (Swinnen e Maertens, 2007).

Un’ulteriore complicazione, di non poco conto, deriva dall’intensificazione de-gli scambi commerciali internazionali e dall’eterogeneità degli standard e delle normative nazionali e regionali di produzione e commercio che governano i diversi sistemi di offerta che intendono interagire. Tralasciando la discussione intorno al ruolo della WTO nella garanzia della liberalizzazione degli scambi e al rischio di configurare tali standard e norme nazionali come vere e proprie barriere non tarif-farie (OECD, 2003), che esula dai compiti della presente relazione, si ritiene qui sufficiente ricordare quanto prima sostenuto a proposito del global sourcing e delle oggettive difficoltà che tali sistemi di regole fanno insorgere nelle relazioni inter-nazionali delle imprese distributive. A questo proposito, la stessa globalizzazione dei mercati, con l’insorgere di tali difficoltà, ha indotto gli operatori privati e gli amministratori pubblici a sviluppare standard internazionali con l’obiettivo di defi-nire ambienti istituzionali comuni per il governo delle transazioni (Wilson e Albio-la, 2003). In quest’ambito, un ruolo promotore della formazione di catene d’offerta internazionali agglomerate intorno a sistemi di regole comuni è stato svolto proprio dalla GDO, particolarmente interessata all’abbattimento dei costi di transazione delle forniture di provenienza estera (Swinnen, 2007). 4.3.2 Evoluzione e attualità delle regolamentazioni sanitarie e di qualità

La tradizione storica attribuisce alla responsabilità dello Stato la predisposizione delle condizioni istituzionali necessarie a garantire la salubrità e la qualità degli alimenti. Tralasciando i dettagli tecnici e giuridici del profilo evolutivo della rego-lamentazione pubblica in materia di sanità e qualità alimentare, si riepilogano di seguito alcuni passi importanti della storia recente in materia. Nel 1963, la FAO e la WHO fondarono la Commissione del Codex Alimentarius, con il fine di fornire molteplici garanzie: salute dei consumatori, equità dell'organizzazione del com-mercio internazionale e coordinamento degli standard alimentari. Il Codex Alimen-

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tarius, attraverso l'azione della WTO e degli Accordi sull'applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS), condiziona in maniera vincolante la legislazione a-limentare dell'Unione Europea e dei suoi stati membri. In ambito europeo, in parti-colare, la normativa di riferimento della sicurezza alimentare è rappresentata dal Reg. (CE) n. 178/2002 ( la cosiddetta “General Food Law”), nel quale, oltre a defi-nire alcuni principi di ordine giuridico, sono codificati i procedimenti di garanzia della food safety attraverso un approccio integrato di filiera. Un aspetto importante della norma è l'introduzione dell'obbligo della tracciabilità, che impone a tutte le imprese la registrazione dei flussi di merci e dei relativi contenuti dai fornitori e verso gli acquirenti. A supporto di tale azione regolatrice è stata istituita l'European

Food Safety Authority (EFSA) ed un sistema di allerta da attivare in caso di emer-genze sanitarie. Il “pacchetto igiene”, costituito dai Regg. (CE) nn. 852, 853, 854 e 882/2004 e dalla Dir. 41/2004/CE, dal canto suo, rende obbligatoria l'applicazione delle procedure di autocontrollo HACCP per tutte le imprese agro-alimentari.

La progressiva definizione del sistema di regolamentazione pubblico, espressio-ne delle tensioni della collettività verso una maggiore garanzia sanitaria e qualitati-va degli alimenti, ha contribuito a cadenzare i ritmi di sviluppo degli standard pri-vati e dei relativi protocolli di verifica e valutazione delle conformità. In particola-re, è ritenuto importante al riguardo il Food Safety Act, promulgato in Gran Breta-gna nel 1990, con il quale veniva introdotto il principio della due diligence, secon-do il quale la responsabilità dei singoli attori della catena di offerta non si ferma alla sola fase in cui la merce passa sotto il proprio controllo, ma devono preoccu-parsi anche di assicurare la qualità del cibo proveniente dai fornitori a monte. A seguito di questa normativa, le principali catene distributive del Regno Unito, fino ad allora preoccupate di definire standard privati necessari a gestire le relazioni interne alla filiera in funzione dei propri obiettivi di mercato e dell'esposizione del-le responsabilità (Fulponi, 2005), reagirono con innovazioni istituzionali incisive attraverso la formulazione e l'attuazione di procedure di controllo dei fornitori ad opera delle stesse strutture da esse predisposte. Tale tendenza si consolidò con la già citata attivazione del sistema di allerta comunitario, che condusse le imprese della moderna distribuzione ad implementare standard di sicurezza proprietari (Henson, 2008).

Allo stato attuale sono attivi numerosi sistemi privati di assicurazione della qua-lità, differenti per natura, scopi, oggetto della garanzia e tipologie di attori coinvol-ti. Secondo una recente classificazione (Spiller e Schulze, 2008) occorre distingue-re i sistemi di controllo all'entrata, ancora rilevanti sul piano pratico, ma di impor-tanza ormai limitata soprattutto dopo l'avvento della dovuta diligenza, da quelli che includono la verifica dei processi produttivi e delle relative strutture organizzative. La responsabilità del controllo, in quest'ultimo caso, può essere a carico del cliente

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(second party audit) oppure di un terzo indipendente (third party audit). La verifica interna alla filiera caratterizza le supply chains governate da un'impresa dominante e fanno riferimento, in genere a sistemi proprietari, miranti a differenziare l'offerta della rete di operatori, che devono comunque rivelarsi compatibili con quelli impo-sti dall'assicurazione delle strutture logistiche e dagli standard delle tecnologie dell'informazione (codici a barre etc).

Un discorso a parte meritano i sistemi di certificazione curati da terze parti, che presuppongono, da un lato, la scelta condivisa delle norme di qualità da sottoporre a verifica e, dall'altro, la predisposizione di un sistema di accreditamento delle ter-ze parti indipendenti. I vantaggi derivanti dall'adozione di questi sistemi sono mol-teplici. Innanzitutto, la verifica neutrale assicura l'indipendenza economica delle imprese sottoposte a controllo; inoltre consente di limitare gli investimenti specifici necessari alla predisposizione di sistemi proprietari di assicurazione della qualità; infine, la diffusa notorietà dei contenuti della garanzia certificata da enti accreditati consente alle imprese di adottare strategie di segnalazione dei requisiti qualitativi della propria merce presso i clienti grazie all'apposizione di apposite etichette od il rilascio di certificati di conformità da parte dell'ente terzo.

I sistemi di qualità oggetto di certificazione possono essere classificati sulla ba-se delle tipologie di figure istituzionali che li hanno predisposti (Spiller e Schulze, 2008). Si possono così individuare sistemi pubblici di certificazione, predisposti dallo Stato ed organizzati talvolta dallo stesso ed in altri casi da operatori privati. Tra i sistemi privati, si citano innanzitutto quelli predisposti dagli istituti di norma-

lizzazione: è il caso delle norme ISO, che riguardano i sistemi di gestione delle im-prese e delle filiere e che si propongono, data la vastità delle competenze, di prov-vedere a rendere compatibili le diverse norme che regolano la food safety. Questi sistemi sono da ritenere distinti rispetto a quelli promossi e applicati autonoma-mente dagli stessi certificatori, che agiscono dunque senza un accreditamento e-sterno, come nel caso dell'European food Safety Inspection Service (EFSIS) che interessa il canale catering. Si osservano inoltre i sistemi integrati di settore per l'assicurazione della qualità, che consistono nella condivisione di standard minimi per tutti gli stadi della catena di offerta, come avviene nel caso del Qualitaet und

Sicherheit (QS). Un terzo modello di certificazione fa riferimento alla promozione da parte di stakeholders esterni al settore, quali organizzazioni per lo sviluppo eco-nomico nel caso dei Fairtrade labels. Infine, ma non ultimi, si citano i sistemi di certificazione orientati al cliente, che per la maggior parte sono stati promossi dalle imprese distributive. Tra questi, i più importanti sono lo standard del British Retail

Consortium (BRC) e l'International Food Standard (IFS) che assicurano i marchi commerciali, ed il GlobalGap, che certifica il rispetto di standard tecnici e di norme sociali da parte delle aziende agricole.

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∝ ∝ ∝

Questa breve rassegna induce a formulare alcune considerazioni. Innanzitutto, appare evidente l'assoluta insufficienza della sola azione pubblica a garanzia della qualità e della salubrità degli alimenti e la conseguente necessità di integrare tale regolamentazione con sistemi di codificazione, organizzazione, produzione e con-trollo da parte degli operatori privati, ed in particolare di quelli della GDO. Questi ultimi, più delle autorità statali, sembrano in grado di disporre delle risorse e degli incentivi necessari per predisporre standard e protocolli efficienti ed attendibili. Tuttavia, come si è visto, tali accorgimenti - se si fa eccezione per quelli (come il BRC e l'IFS) che prevedono standard minimi e tutelano l'utilizzatore con la trac-ciabilità - predispongono alla scelta di forme di governo ibride se non addirittura alla soluzione gerarchica. Ciò può anche rappresentare una condizione auspicabile dalla collettività, ma allo stesso tempo può costituire elemento di discriminazione ed emarginazione di componenti deboli e di rafforzamento delle condizioni di a-simmetria nella distribuzione del potere e delle rendite lungo la catena di offerta.

Dunque, siccome già in sede introduttiva si è chiarito in quale misura gli inte-ressi sociali divergono da quelli degli operatori privati, delegare in maniera esclu-siva a questi ultimi la responsabilità della garanzia della salubrità e della qualità degli alimenti è una scelta da considerarsi rischiosa, anche perché la combinazione delle pressioni generate dai costi delle attività di controllo e certificazione con la tentazione di adottare convenienti sistemi di garanzia nei quali è minima la proba-bilità di rilevare difetti di conformità introduce seri elementi di fallimento. Dal momento che la storia insegna che importanti innovazioni istituzionali sono state promosse dai privati a seguito dell'approvazione di nuove misure legislative in ma-teria di qualità e sicurezza alimentare, appare chiara la necessità di una cornice isti-tuzionale cogente, predisposta dall'autorità pubblica, fatta di misure rigorose, san-zioni severe, procedure amministrative di autorizzazione e autocontrollo più snelle ed efficaci (Spiller e Schulze, 2008). Una precisa ed efficiente divisione del lavoro tra pubblico e privato, insomma, nella quale assume primaria importanza la puntua-le assegnazione delle responsabilità e delle competenze alle due categorie di sog-getti. Questa co-regulation, in termini sostanziali, vedrebbe il soggetto pubblico preoccuparsi di garantire una soglia minima di garanzia di qualità e salubrità per la tutela dei cittadini, mentre i privati, ed in particolare la GDO, dovrebbero provve-dere ad innalzare tale soglia sulla spinta della pressione competitiva orizzontale e verticale, nella logica di perseguire il vantaggio della prima mossa (Green e Perito, 2008). Si tratta di una condizione che potrebbe comportare numerosi vantaggi eco-nomici, in quanto è da ritenersi in grado di conseguire migliori livelli di garanzia a

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costi inferiori. D'altra parte, numerosi fattori concorrono ad ostacolarne una diffusa adozione: innanzitutto, è difficile definire politiche di sicurezza alimentare che si propongano di conseguire allo stesso tempo benefici pubblici e privati, anche per-ché molto spesso l'attenzione si concentra sul lato dei costi; inoltre, la co-

regulation non mette al riparo da pericoli di iniquità nel governo delle transazioni (Garcia Martinez et al., 2007). Il continuo rinnovamento delle condizioni economi-che e sociali ed il conseguente susseguirsi di innovazioni istituzionali induce ad attendere un nuovo shock sanitario per verificare in termini compiuti l'efficacia dell'attuale sistema di garanzie alimentari ed i meccanismi di adattamento che sa-ranno predisposti dall'autorità pubblica e dalle imprese distributive. Tra i vari a-spetti, occorrerà sottoporre ad attenta osservazione le motivazioni di fondo ed i va-lori che guideranno tali scelte.

Ciò ci conduce all'ultima parte della discussione, che verte intorno al ruolo so-ciale della moderna distribuzione alimentare. Pur riconoscendo la validità interpre-tativa dei paradigmi analitici fin qui impiegati, una disamina di tale tema che non approfondisce le implicazioni di carattere etico che governano l'agire economico delle imprese non può essere considerata compiuta. E' questo l'aspetto che sarà discusso, per sommi capi, nella parte finale dello scritto. 5. Etica, ambiente e responsabilità sociale

Prima di passare alle argomentazioni conclusive della relazione, si propone un breve cenno in merito alla percezione presso i consumatori dell’efficacia e dell’efficienza dimostrate dalla GDO nell’assolvimento delle proprie funzioni so-ciali. A tale proposito, si fa riferimento ai risultati di una recente rilevazione con-dotta in Italia (Lazzati et al., 2007). Innanzitutto, viene riconosciuto alla distribu-zione moderna un impegno apprezzabile negli ambiti della qualità del servizio, dell’organizzazione degli ambienti di vendita e dell’ampiezza della gamma, mentre un giudizio sostanzialmente critico è risultato prevalente nei confronti della difesa del potere d’acquisto e della tutela dei piccoli produttori locali. Se dunque la GDO risulta efficace per le funzioni che si è data sulla pressione della concorrenza oriz-zontale – livello dei servizi ed entertainment nell’esperienza di acquisto – non sembra essersi impegnata in misura sufficiente per quel che riguarda le funzioni che coinvolgono anche la sfera etica. In realtà, una lettura articolata delle valuta-zioni rivela una attenta e rigorosa suddivisione dei compiti tra i diversi format di vendita: se così agli ipermercati è dato atto dell'impegno profuso nel creare am-bienti di vendita piacevoli ed offrire gamme sufficientemente ampie, i supermercati si distinguono per il livello del servizio offerto, nonché per la tutela degli alimenti di provenienza locale o nazionale. I discount, da parte loro, detengono il primato

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nella lotta all’inflazione ed alla difesa del potere d’acquisto, anche se risultati lu-singhieri al riguardo sono stati riconosciuti anche ai supermercati (Lazzati et al., 2007). Il quadro, come appare evidente, è quanto mai complesso e stimolante per gli operatori della distribuzione e per la ricerca.

Il tema dell’autorità e delle responsabilità della distribuzione alimentare mo-derna è stato qui trattato con particolare riguardo alle funzioni di controllo dei prezzi e di garanzia della salubrità e della qualità del cibo. Tali mansioni, come si è potuto notare, sono strettamente interrelate: entrambe infatti fanno riferimento, da un lato, agli aspetti tecnici ed alle competenze diffuse lungo la catena di offerta e, dall’altro, alle capacità organizzative dei sistemi di relazioni interni alla filiera ed alle soluzioni di governo delle transazioni adottate al proposito. Si è anche osserva-to che il grande dettaglio alimentare è chiamato ad assolvere sia la funzione cal-mieratrice che quella di garanzia della qualità, pur nella consapevolezza della diffi-coltà di giungere ad una sintesi efficace tra questi obiettivi.

La responsabilità della Grande Distribuzione in quest’ambito è da ricondurre a diversi ordini di fattori, sui quali essa fonda la propria autorità. Il primo è rappre-sentato dalle relazioni con i fornitori - rispetto ai quali gode di un controllo più di-retto ed efficace nei confronti del mercato finale - nonché della subalternità a cui in genere riduce gran parte dei committenti. Un secondo fattore riguarda la prossimità

ai consumatori, che consente agli operatori commerciali di percepirne ed interpre-tarne bisogni ed aspettative per via diretta. Il terzo elemento che converge nell’affidamento della responsabilità di tali funzioni al segmento terminale della filiera agroalimentare risiede nelle sue capacità di integrarsi con il territorio in cui opera, il che rende agevole la promozione di iniziative specificamente dedicate al contesto locale di riferimento e di condividere valori e saperi con la collettività dei residenti (Pepe, 2003). L’adozione e la diffusione di sistemi di garanzia della qua-lità e dell’accertamento delle responsabilità, quali sono ad esempio i protocolli di rintracciabilità, consentono peraltro al dettaglio alimentare – proprio per la sua col-locazione finale del processo produttivo-distributivo – di avere una visione com-piuta, equilibrata e consapevole del funzionamento e dell’organizzazione della rete di imprese in cui si è calata e da cui può dunque pretendere ottimizzazione e coor-dinamento delle singole attività (Pepe, 2003).

L’analisi svolta ha anche messo in evidenza alcune controindicazioni di una simile presa di potere e responsabilità a carico della distribuzione moderna, tra le quali si segnalano le seguenti:

- innanzitutto si rileva il pericolo di escludere dalle opportunità offerte dalla fornitura di mercati lucrativi ampie categorie di operatori economici e di territori, chiamati a pagare prezzi onerosi e spesso insostenibili per l’ingresso in tali mercati;

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- tali discriminazioni possono avvenire peraltro anche a carico dei consuma-tori, nel momento in cui livelli di qualità nutrizionale accettabili vengono assicurati solo dietro adeguata compensazione da parte dei clienti, il che e-scluderebbe fasce di popolazione più o meno ampie dall’accesso ad equili-brati e sani regimi alimentari (Mardsen et al., 2000);

- si è osservato inoltre che la complessità delle relazioni e dei meccanismi organizzativi predisposti dalla distribuzione per il governo delle transazioni lungo la filiera non mette del tutto al riparo i consumatori da rischi di com-portamenti speculativi ed opportunistici e quindi a risultati non ottimali in termini di prezzi e qualità;

- è stato infine sollevato il problema dell’impatto ambientale della grande di-stribuzione, sia attraverso l’incentivazione di tecniche produttive non com-patibili con l’ecosistema sia per mezzo della promozione di flussi di merci lungo ampie rotte commerciali (food miles), che richiedono un copioso im-piego di combustibili fossili a basso valore venale, ma che comportano alti costi sociali (Lang e Barling, 2007).

Se dunque la qualità del cibo non fa solo riferimento alle sue caratteristiche in-trinseche, ma ingloba anche i principi ed i valori che ne hanno determinato la pro-duzione, l’assolvimento delle funzioni affidate alla GDO necessita di un’attenta valutazione sul piano dell’equità. Inoltre, nella misura i cui tale parametro contem-pla anche gli interessi, le aspettative e le opportunità delle future generazioni, l’azione dell’operatore distributivo finisce con il confrontarsi con la controversa questione della sostenibilità dello sviluppo.

La rivoluzione commerciale, attraverso la standardizzazione dei prodotti, le e-conomie di scala e logistiche e l’abbattimento dei costi di transazione, ha favorito e assecondato l’avvento e l’affermazione della “società low cost”, protesa ad aumen-tare i volumi di beni e servizi consumati a prezzi sempre più bassi (Goggi e Nar-duzzi, 2006). Questa tendenza rivela, tra l’altro, che nei mercati le relazioni di po-tere si vanno progressivamente distribuendo a favore del consumatore, il quale ha modo così di riaffermare la sua sovranità. Ora, appare evidente che tale modello di «totalitarismo consumistico», per quanto affermato e per alcuni versi condivisibile, non sembra sostenibile nel lungo periodo, né sul piano sociale, tanto meno su quel-lo ambientale. Esso, per di più, dà luogo a drammatici conflitti di interesse intra-personali: ogni individuo, infatti, pur volendo pagare a basso costo le merci acqui-state, esige che le proprie prestazioni, fornite per realizzare e rendere disponibili le stesse merci, siano compensate adeguatamente (Zamagni, 2006a).

Tali conflitti sono espliciti nel complesso e frammentato quadro dei modelli di consumo odierni, a cui si è fatto cenno proprio all’inizio della presente relazione. Se infatti il consumatore preme per la disponibilità di maggiori volumi e varietà di

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beni e servizi, allo stesso modo afferma con crescente vigore la necessità di risolve-re tali conflitti. Un consumatore, insomma, “socialmente responsabile” (Zamagni, 2006b), accanto al quale si va affermando una nuova classe imprenditoriale, che ingloba tra le sue finalità anche quelle di ordine etico. Ciò ci conduce alla necessità di ampliare il quadro interpretativo delle scelte individuali, sociali e d’impresa at-traverso l’inquadramento del modello utilitaristico - egoista e quantitativo - in una dimensione etica, che si connota per la valenza qualitativa ed inserisce nell’analisi i valori dell’altruismo, della gratuità e della reciprocità (Segrè, 2007).

Senza entrare nel merito della questione in maniera approfondita, e rimandando alla copiosa letteratura sull’argomento, qui ci si limita a formulare alcune conside-razioni relative al tema della relazione. Se dunque una crescente consapevolezza collettiva si esprime attraverso pressioni significative, facendo leva sulla sovranità appena riaffermata, sono le istituzioni pubbliche ed il sistema produttivo-distributivo, e nella fattispecie il dettaglio alimentare, a doversi far carico del pro-blema.

Dal lato della domanda, segnali importanti al riguardo derivano dallo sviluppo dei mercati dei prodotti del commercio equo e solidale, delle produzioni biologi-che, dei prodotti della tradizione locale, nonché dalle iniziative di boicottaggio di merci realizzate in evidente contrasto con i principi dell’etica e dell’equità sopra ricordati.

Per quel che riguarda l’offerta, invece, le imprese si sono attivate intraprenden-do iniziative di varia natura. Tra queste si segnalano, ad esempio, la partecipazione ed il sostegno a progetti e fondi di solidarietà anche attraverso la costituzione di apposite Fondazioni. Il passo più significativo, però, è rappresentato dall'adozione di strumenti atti alla gestione, valutazione e certificazione della Responsabilità So-ciale d’Impresa (Corporate Social Responsibility, CSR) (Freeman, 1984). Con que-sta locuzione ci si riferisce all’integrazione di obiettivi di carattere etico all’interno della visione strategica dell’impresa, in modo da definire una gestione efficace del-le molteplici questioni di rilevanza morale e sociale nell'organizzazione interna e nelle relazioni con gli stakeholders. In tal modo la cultura d’impresa si arricchisce di una dimensione morale che, seppure non le sia mai stata del tutto estranea9, vie-ne ora formulata attraverso norme che permeano la stessa missione imprenditoriale.

9 Non è questa la sede per una discussione approfondita delle relazioni tra morale e cultura d'impresa. Si sottolinea soltanto come la “mano invisibile” di Adam Smith presup-ponesse l'assenza di obblighi morali per l'impresa, nella misura in cui sono in vigore le condizioni di concorrenza perfetta che impongono il solo obbligo di massimizzare i profitti. Tale obbligo, secondo Friedman (1962), diventa morale, se espressione di un agire inten-zionale e libero, in quanto consente il funzionamento efficace del mercato.

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L'opportunità di una simile innovazione istituzionale deriva dalla consapevolez-za di agire in un tessuto sociale complesso, in cui numerosi e disparati interessi convergono sull'attività imprenditoriale. La teoria degli stakeholders (Freeman, 1984) getta una nuova luce sulla natura dell'impresa e ne ridefinisce valori e criteri gestionali. L'impresa, secondo questa visione, trova la sua legittimazione nel mo-mento in cui la discrezionalità sulla scelta degli obiettivi e delle azioni conseguenti, che risulta a a carico di chi detiene il diritto di decisione residuale (ciò che chia-miamo autorità), si accompagna all'assolvimento dei doveri fiduciari, affidati alla stessa figura dai portatori d'interesse. In altri termini, se la proprietà ha il diritto di esercitare la propria discrezionalità nelle proprie decisioni, allo scopo di tutelare gli investimenti fatti, essa deve nel contempo riconoscere che il suo operare condizio-na numerosi interessi legittimi. I portatori di tali interessi, non essendo in grado di prendere decisioni al riguardo, delegano all'impresa le scelte degli obiettivi e delle azioni, conferendole così l'autorità di assumerle. Tale delega implica un principio di responsabilità in capo all'impresa, di cui questa deve rispondere ai fiducianti al fine di evitare i rischi di abuso di autorità. L'impresa, insomma, è chiamata a ri-spondere ad un codice morale condiviso e verificabile che garantisce l'assolvimen-to delle funzioni ad essa delegate. L'interesse dell'impresa nel fornire agli stakehol-

ders tutti gli strumenti necessari a verificare la correttezza delle sue azioni risiede nel rischio di compromettere il patrimonio fiduciario accumulato nell'ambito della fitta rete di relazioni intraprese nel complesso tessuto economico e sociale in cui opera. Nel caso di relazioni con i fornitori ed i dipendenti, la perdita di fiducia po-trebbe rendere inefficaci i sistemi di incentivi che le governano, mentre sono facil-mente intuibili le conseguenze di una simile eventualità nelle relazioni con la clien-tela, le istituzioni pubbliche ed i cittadini. La CSR , in questo senso, coniuga effi-cienza ed equità e dà un nuovo senso all'agire dell'impresa (Sacconi, 2005).

Gli strumenti di cui l'impresa può dotarsi per gestire, valutare e certificare la propria CSR sono molteplici. Si va, infatti, dall'adozione di un Codice Etico, che definisce le responsabilità morali e sociali di ogni figura che partecipa all'azione imprenditoriale, e si passa per la redazione di un Bilancio Sociale, cioè il rendicon-to delle quantità e qualità che caratterizzano le relazioni tra l'impresa ed i gruppi di riferimento rappresentativi dell'intera collettività, fino a giungere alla stesura di un Bilancio Ambientale, in cui si provvede a descrivere in maniera dettagliata il rap-porto tra l'impresa e l'ambiente. Oltre a questi strumenti, occorre segnalare l'esi-stenza di norme e standard internazionali, tra cui il più importante è senz'altro SA 8000, che riguarda il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. SA 8000 è uno standard particolarmente flessibile, che può essere impiegato indiffe-rentemente nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo, nelle piccole

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come nelle grandi imprese, nelle istituzioni pubbliche e in quelle private. La certi-ficazione di conformità alle norme SA 8000, curata da organismi terzi accreditati, è uno strumento relativamente diffuso in Italia (66 aziende), paese che vanta il mag-gior numero di imprese certificate, oltre che in Cina (47), Brasile (41) e India (32).

La distribuzione intravede nella dimensione etica dei consumi e dei comporta-menti un'occasione appetibile per perseguire, attraverso la comunicazione di scelte gestionali e di assortimento dettate da simili valori, un'efficace strategia competiti-va di differenziazione. Per questo motivo si assiste all'intrapresa di ingenti investi-menti dedicati a tale innovazione istituzionale, a cui le compagnie dedicano apposi-te Divisioni da affidare in gestione a figure professionali dotate di competenze spe-cifiche (Pepe, 2003). Nella consapevolezza di affrontare costi in buona parte irre-cuperabili, le imprese commerciali erigono, anche in questo caso, consistenti bar-riere all'entrata che limitano le condizioni di competitività nell'arena del dettaglio alimentare. Anche l'innovazione della CSR genera, pertanto, ricadute controverse ed assume valenza strategica per l'impresa. Ciò non deve essere necessariamente considerato un aspetto negativo: anche una visione utilitaristica della CSR, che la concepisce come una leva di marketing finalizzata a garantire un adeguato ritorno d'immagine, può comunque contribuire a modificare struttura e funzionalità del sistema economico verso forme e soluzioni comunque più eque e sostenibili (Bru-ni, 2006; Segré, 2007). Se inoltre si paventa l'uso strumentale della ethics

management, intravedendo in essa il rafforzamento delle radici da cui scaturisce lo stesso opportunismo che dovrebbe invece scongiurare (Zamagni, 2006a) occorre d'altra parte notare che le regole della CSR non dovrebbero essere redatte dai manager, ma frutto di un'ampia e circostanziata consultazione con i portatori d'inte-resse a cui si deve dar conto. In tale ambito, un ruolo fondamentale nella tutela e nell'espressione di tali interessi dovrà essere svolto dall'autorità pubblica, che sarà chiamata ad incentivare l'impiego sistematico di tali strumenti di trasparenza e co-municazione ed allestire una cornice di regolamentazione di riferimento che possa favorire il funzionamento operativo dei sistemi di certificazione.

Al termine della discussione, resta ancora in piedi l'interrogativo di fondo che ha animato la presente relazione: possiamo fidarci della distribuzione alimentare moderna? Indubbiamente essa ha dato ampia dimostrazione di capacità ed econo-mie che hanno contribuito al miglioramento del benessere delle popolazioni che ha servito, soprattutto sul piano del controllo dei prezzi e della garanzia della qualità e della salubrità degli alimenti. D'altra parte, non si può evitare di considerare che nell'ultimo quindicennio, cioè da quando la GDO ha preso il sopravvento nella lotta di potere all'interno della filiera agro-alimentare, sembrano essersi accentuate le disparità riguardanti le condizioni di povertà e fame, la qualità e salubrità dei regi-mi alimentari, lo stato dell'ambiente e dei sistemi agricoli territoriali (McMichael e

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Friedmann, 2007). Se alle compagnie commerciali non può certo essere addebitata per intero la responsabilità di tali sperequazioni, alle quali esse hanno comunque dato il loro contributo, non si può negare che tali imprese sono parte integrante ed espressione rappresentativa di un sistema capitalistico che le recenti crisi finanzia-rie e alimentari sembrano aver messo in seria discussione. Senza entrare nel merito di un tema che va ben al di là dei modesti limiti della presente nota, si concorda con chi ritiene che «il capitalismo ha i secoli contati» (Ruffolo, 2008): il modello capitalistico, fondato sull'hybris della crescita illimitata, si trova per la prima di fronte alla némesis dell'insostenibilità fisica (ed ecologica), sociale e finanziaria. Ciò non di meno, qualunque sia l'esito di questa crisi, è difficile credere che la sua soluzione potrà fare a meno della forza creativa, della libertà e dell'intraprendenza della cultura imprenditoriale, alla quale occorrerà assicurare degli spazi di mercato in cui liberare le proprie energie propulsive. Il presidente del gruppo Carrefour so-stiene che «… le imprese della distribuzione dovranno prendere in considerazione

i mutamenti intervenuti nella società, integrando una dimensione etica nella loro

strategia, altrimenti i rischi saranno molto elevati e si finirà per pagarlo caro in

futuro» (Bernard, 2003 trad. e cit. da Pepe, 2003). Probabilmente, già in questa fase storica, la consapevolezza del carico di una responsabilità sociale rappresenta un germe di una trasfigurazione virtuosa, un'espressione della capacità innata degli “animal spirits” di governare e progettare il proprio ambiente e proiettarsi, con ot-timismo, coraggio e determinazione, verso nuovi orizzonti.

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