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368 ottobre dicembre 2015 Un matrimonio sfortunato Derrida e l’architettura a cura di Petar Bojanic ´ e Damiano Cantone Premessa 3 MATERIALI 1 Peter Eisenman Derrida raddoppiato 11 Bernard Tschumi Derrida: un alleato e un ami 15 Renato Rizzi “We won” 19 Mark Cousins Giocare con le parole 30 Catherine Ingraham La A maiuscola e la a minuscola dell’architettura 36 Petar Bojanic ´ Pensare l’architettura/disciplinare l’architettura 49 Raoul Kirchmayr L’arte dell’espacement 62 Francesco Vitale La casa in decostruzione. Derrida e la legge dell’oikos 88 Dario Gentili Spazi di aspettativa 105 Damiano Cantone Un compito colossale. Note per un dialogo tra filosofia e architettura 120 Luca Taddio L’affermazione metastabile dell’architettura 131 Marcello Barison Affermazione senza posizione. Per un discorso decostruttivo sull’architettura 146 Carlo Deregibus Storie di ordinaria decostruzione. La controfirma dell’architettura 159 Gerrit Wegener Margini dell’architettura. Derrida e l’architettonica dell’architettura 175 Andrea Canclini Contrappunto al Parc de La Villette 183 MATERIALI 2 Jacques Derrida “Ecco una proposta per il nostro Choral Work…” Lettera a Peter Eisenman (1986) 202 Nota bibliografica. Derrida sull’architettura 205

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fascicolo 368/2015 di aut aut dal titolo "Un matrimonio sfortunato. Derrida e l'architettura"

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368ottobredicembre 2015

Un matrimonio sfortunato Derrida e l’architetturaa cura di Petar Bojanic e Damiano Cantone

Premessa 3

MATERIALI 1Peter Eisenman Derrida raddoppiato 11Bernard Tschumi Derrida: un alleato e un ami 15Renato Rizzi “We won” 19Mark Cousins Giocare con le parole 30Catherine Ingraham La A maiuscola

e la a minuscola dell’architettura 36

Petar Bojanic Pensare l’architettura/disciplinare l’architettura 49

Raoul Kirchmayr L’arte dell’espacement 62Francesco Vitale La casa in decostruzione.

Derrida e la legge dell’oikos 88Dario Gentili Spazi di aspettativa 105Damiano Cantone Un compito colossale. Note

per un dialogo tra filosofia e architettura 120Luca Taddio L’affermazione metastabile

dell’architettura 131Marcello Barison Affermazione senza

posizione. Per un discorso decostruttivo sull’architettura 146

Carlo Deregibus Storie di ordinaria decostruzione. La controfirma dell’architettura 159

Gerrit Wegener Margini dell’architettura. Derrida e l’architettonica dell’architettura 175

Andrea Canclini Contrappunto al Parc de La Villette 183

MATERIALI 2Jacques Derrida “Ecco una proposta per il nostro

Choral Work…” Lettera a Peter Eisenman (1986) 202

Nota bibliografica. Derrida sull’architettura 205

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Finito di stampare nel novembre 2015

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3aut aut, 368, 2015, 3-9

Premessa

L’espressione “un matrimonio sfortuna-to” è di Jacques Derrida, e descrive ab-bastanza bene la sua tormentata storia

d’amore con gli architetti. Non c’è alcuna intenzione irriverente nel trattare in questo modo gli intrecci che hanno unito il lavo-ro di alcuni architetti di fama internazionale, in primis Eisenman, Tschumi e Libeskind, e quello del filosofo francese: al contrario, seguire questa metafora ci permette di sottolineare la complessi-tà e l’intensità della loro non breve relazione. Come tutti i matri-moni falliti, anche questo racconta una storia di aspettative delu-se, fraintendimenti, occasioni mancate e convivenze faticose.

Tutti elementi che sono emersi retrospettivamente e in modo chiaro in un convegno tenutosi a Belgrado nell’ottobre del 2012, intitolato Architecture of Deconstruction. The Specter of Jacques Derrida, organizzato da Petar Bojanic e Vladan Djokic, a cui ha partecipato un buon numero di coloro che avevano vissuto da protagonisti quel periodo. Alcuni testi del convegno sono rac-colti in questo fascicolo di “aut aut”, nella sezione Materiali 1, e portano la firma di Peter Eisenman, Bernard Tschumi, Renato Rizzi, Mark Cousins e Catherine Ingraham.

La cifra comune a tutti gli interventi è quella di riconoscere il contributo che l’architettura contemporanea ha ricevuto da Der-rida, a qualche anno dalla sua scomparsa, e al contempo di ri-vendicare l’autonomia e l’autosufficienza teorica della disciplina, sebbene ciascuno degli autori lo faccia con una diversa sfuma-

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tura. Se da una parte Eisenman rimprovera a Derrida il fatto di non concepire una pratica decostruttiva al di fuori della filoso-fia, dall’altra Tschumi gli attribuisce il merito di aver reso più po-rosi i confini dell’architettura e Cousins sottolinea il fatto che c’è un’analogia tra come la decostruzione ha operato sul linguaggio filosofico e come le operazioni di tanti architetti hanno trasfor-mato le pratiche più scontate all’interno del loro lavoro. Ingra-ham ripercorre la ricezione di Derrida e degli altri discorsi extra-disciplinari (psicoanalisi, post-strutturalismo) da parte dell’archi-tettura negli anni ottanta e novanta, per mostrare come essi ab-biano apportato delle modifiche sostanziali e importanti non so-lo al modo in cui gli architetti concepiscono la loro disciplina, ma anche a come percepiscono se stessi. Il testo di Rizzi si con-centra invece sull’analisi dell’idea di decostruzione di Eisenman, il quale elabora a suo modo il concetto derridiano, in partico-lare in una prospettiva theologica di derivazione ebraica. Seb-bene in parte denegata, secondo Rizzi, “la genesi del linguaggio eisenmaniano segue passo passo la genesi della narrazione theo-logico-simbolica ebraica”.

Eppure, quando nel 1985 Bernard Tschumi vince il concorso per la realizzazione del Parc de La Villette a Parigi e chiama Der-rida a collaborarvi, le premesse per un rapporto solido e duratu-ro ci sono tutte. L’idea dell’architetto svizzero era quella di affi-dare la realizzazione di alcune parti del progetto (alcuni giardini) a figure di indubbio spessore intellettuale ma prive di una spe-cifica preparazione in campo architettonico. Derrida venne co-sì “gettato nell’architettura” e cominciò un dialogo con alcuni degli architetti più importanti della fine del secolo scorso. Non venne scelto a caso come interlocutore privilegiato: le sue rifles-sioni sullo spazio, sui margini e sulle soglie, sulle strutture del linguaggio e sull’aspetto di costruzione dei testi attirarono natu-ralmente l’attenzione degli architetti più aperti ai cambiamenti della loro disciplina, che condividevano l’affermazione di Tschu-mi, il quale ammise di aver trovato in Derrida un alleato che lo aveva aiutato nella sua “ricerca di una lettura ‘differente’ dell’ar-chitettura”.

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Partendo dal pretesto del giardino per il parco, Derrida e Eisenman cominciarono dunque una fitta serie di incontri e di scambi epistolari. La questione posta da Derrida era la chora, lo spazio sul quale, nel Timeo di Platone, interviene il Demiur-go. Sarà questo il nome scelto per intitolare il giardino del Parc de La Villette, poi tramutato da Eisenman in Chora(l). Derrida propose – e disegnò – una sorta di setaccio che avrebbe dovu-to essere posto in modo obliquo rispetto al terreno, oggetto che nel progetto definitivo diventò una sorta di lira. Per problemi di budget il giardino non venne mai realizzato, ma restarono i di-segni e il fitto scambio di lettere tra gli architetti e il filosofo, a testimoniare l’esistenza di un dialogo ormai in atto.1 Inoltre, al-la fine del progetto, Derrida scrisse il testo Point de folie – main-tenant l’architecture, che costituì l’introduzione all’intero lavoro sul parco.2

Il punto di maggiore intensità di questo rapporto è sicura-mente rappresentato dalla mostra che Philip Johnson e Mark Wigley organizzarono nel 1988 al MoMA di New York, intitolata Deconstructivist Architecture, che presentava per la prima volta una serie di opere di noti architetti (Frank O. Gehry, Daniel Li-beskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e il gruppo Coop Himmelb(l)au), che si ispiravano al pensiero della decostruzione. Questa parola entrava così ufficial-mente a far parte del vocabolario della teoria dell’architettura, e Derrida divenne per qualche anno il riferimento filosofico privi-legiato.

Già dall’anno successivo, tuttavia, alcune crepe cominciaro-no a mostrarsi all’interno della coppia. Invitato in ottobre a una conferenza a Irvine dal titolo Postmodernism and beyond: Archi-tecture as a critical art in contemporary culture, cui sarebbe stato presente anche Eisenman, Derrida non vi partecipò, e mandò in-

1. Le lettere sono raccolte in J. Kipnis, T. Leeser (a cura di), Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, Architectural Association, London 1991; Monacelli Press, New York 19972.

2. J. Derrida, “Point de folie – maintenant l’architecture” (1986), in Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II, pp. 107-125.

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vece un intervento registrato su cassetta nel quale venivano poste agli architetti numerose domande e sollevate alcune critiche sul modo in cui avevano declinato i termini di “vuoto” e “assenza”.

Queste critiche furono accolte tuttavia in modo costruttivo dagli architetti, e negli anni successivi la partecipazione di Der-rida al dibattito teorico dell’architettura fu più vivo che mai. Tra i suoi numerosi interventi pubblici ricordiamo la partecipazione nel 1991 al Berlin Stadtforum, il forum pubblico che riunì intel-lettuali di tutta Europa per ripensare la capitale tedesca all’indo-mani della caduta del Muro, e l’intervento, nello stesso anno, al-la prima delle ANY-conferences, Anyone, a Los Angeles. Si tratta-va di un ciclo di dieci convegni organizzato dal gruppo di archi-tetti newyorkese ANYcorporation, guidato da Eisenman, da svol-gersi ogni anno in una città differente e che ebbe lo scopo di fare il punto sulla ricerca in architettura. L’anno successivo Der-rida fu addirittura incaricato di tenere la conferenza inaugura-le di Anywhere, ma proprio in questa occasione cominciò a ma-nifestare la sua insofferenza per il modo in cui gli architetti di-mostravano interesse per la filosofia. Nella conferenza, intitola-ta Faxtestura, infatti, raccontò di come gli editori di “L.A. Archi-tect” si fossero rivolti a lui per avere un fax di cinquanta parole nel quale si spiegasse “come L.A. deve essere ricostruita”.3

Gerrit Wegener, nel saggio qui pubblicato, ricostruisce il qua-dro in cui Derrida fece l’affermazione da cui prende il titolo il fa-scicolo di “aut aut”: si rese conto che gli architetti si aspettavano da lui semplicemente un plus di teoria, di filosofia, qualcosa che potessero tradurre in pratica nel loro fare. Vedevano in lui il teo-rico, colui che sarebbe stato capace di fornire una visione che avrebbe portato un po’ di aria nuova all’interno delle asfittiche visioni tradizionali in architettura. Lo stesso rapporto tra Der-rida e Eisenman risentì di questo paradosso, poiché l’architet-to tentava di corrispondere alla presunta astrazione del pensiero del filosofo, mentre quest’ultimo si interessava di elementi tecni-

3. J. Derrida, “Faxtestura” (1992), in Adesso l’architettura, trad. di F. Vitale e H. Scelza, Scheiwiller, Milano 2008, p. 351.

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ci e concreti. Come ricorda Andrea Canclini nella sua puntuale ricostruzione della loro collaborazione, lo stesso Eisenman, l’an-no successivo, ammise: “[Derrida] mi ha detto cose che mi han-no riempito di orrore: ‘Come può esserci un giardino senza pian-te?’ ‘Dove sono gli alberi?’ ‘Dove sono le panchine per far sede-re le persone?’. Questo è ciò che i filosofi vogliono, vogliono sa-pere dove sono le panchine”.

La pubblicazione nel 1997 del celebre volume Chora L Works, che riunisce tutto il materiale prodotto dalla collaborazione tra i due, anziché costituire una tappa di un processo ormai avviato, diventò il capitolo conclusivo di un dialogo forse mai comincia-to. L’attrazione reciproca era svanita, rimaneva la stima per i ri-spettivi lavori. Nella sezione Materiali 2 riportiamo una lettera di Derrida indirizzata a Eisenman tratta proprio da questo libro.

Ora è venuto il momento di interrogarsi sul lascito di questa vicenda, e su quali basi possa riprendere un dialogo tra architet-tura e filosofia che negli ultimi tempi è stato quanto meno inter-mittente. Petar Bojanic, nel suo intervento, inquadra la questione dal punto di vista della necessità problematica di proporre una disciplinarizzazione dell’architettura. La disciplina è il contrario di una chiusura che esclude: anzi – è l’invito di Bojanic – gli ar-chitetti stessi dovrebbero fare propria la dimensione filosofica, problematizzare la loro pratica di pensiero, senza rifiutare la teo-ria come fosse qualcosa che non ha molto a che fare con il loro mestiere. Lavorando in questa direzione, Raoul Kirchmayr rileg-ge le opere di Derrida utilizzando due concetti-attrattori: quel-lo di “nuovo illuminismo” e quello di “spettralità”. Utilizzandoli in ambito urbanistico, per esempio, possiamo far emergere sno-di inediti della coppia visibile e invisibile all’interno della proget-tazione, della gestione e della teorizzazione delle città contem-poranee: “In questa prospettiva la decostruzione, che nasce co-me una strategia testuale nel campo filosofico e letterario, offre così degli strumenti di analisi del complesso reticolo di funzioni, segni, strutture che compongono la città moderna studiata come testo (visibile) prodotto da una configurazione dinamica di for-ze (invisibili)”. Sulla stessa linea si muove il saggio di Francesco

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Vitale – curatore dell’edizione italiana del volume che raccoglie buona parte degli scritti di Derrida sull’architettura –, dedica-to al tema dell’oikos. Secondo Vitale, che parte proprio da Point de folie – maintenant l’architecture, si tratta di recuperare “il ri-ferimento all’abitare greco quale matrice mitico-religiosa del vin-colo che lega architettura e metafisica”. Lo spazio greco – quel-lo dell’acropoli e dell’agorà – in dialogo con la gestione contem-poranea dello “spazio di aspettativa” è il tema dell’intervento di Dario Gentili. In particolare, la posta in gioco è quella del vuo-to, a partire dal confronto tra Derrida e Libeskind a proposito del Museo ebraico di Berlino. Per Gentili, lo “spazio vuoto” è “la concezione architettonica da cui partire per cominciare a ri-pensare i termini, le categorie e i dispositivi con cui concepiamo e organizziamo lo spazio”.

I rapporti tra architettura e filosofia nel lavoro di Derrida so-no oggetto anche della riflessione di Damiano Cantone: il sag-gio affronta le questioni della misura e del limite attraverso la ca-tegoria estetica del colossale, della quale il filosofo francese of-fre un’efficace articolazione teoretica. La riflessione filosofica sul rapporto tra decostruzione e architettura viene sviluppata da Marcello Barison, che mostra come all’origine del fallimento del rapporto con gli architetti ci sia l’approccio eminentemente anti-architettonico di Derrida, il quale propone di ripensare la disci-plina sulla base di un’“affermazione senza posizione”. Il caratte-re affermativo dell’architettura è un presupposto anche del sag-gio di Luca Taddio che, a partire dal concetto di incompetenza di Derrida, tematizza la natura metastabile dell’opera architet-tonica. In essa infatti si assommano saperi e professionalità ete-rogenei, mai definitivamente padroneggiabili, che però trovano una loro configurazione formale definita – il modo in cui l’ar-chitettura si afferma – all’interno di un’opera destinata a dura-re, seppure all’interno di un contesto di stabilità relativa. Infine Carlo Deregibus, architetto, osserva che “Derrida si era in fon-do sottratto al ruolo di guru che gli si voleva affidare. Ma pro-prio per questo è diventato presto preda degli affamati architetti: affamati di legittimazione, nel vuoto postmoderno delle perdute

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teorie”. La domanda viene qui dunque rivolta all’altro lato della coppia: Deregibus si chiede come l’architettura possa riprende-re il filo del dialogo con la filosofia proprio a partire da Derrida, e fare in modo che la decostruzione in architettura diventi una fondamentale questione teorica e non un mero fatto stilistico.

È forse venuto il momento, allora, di lasciarsi alle spalle l’a-maro commento di Derrida sulla fine del suo matrimonio con l’architettura, e riscoprire invece quella forza di attrazione che li ha fatti avvicinare. Chissà che non sia possibile, per architet-ti e filosofi, farsi carico dell’eredità di questo dibattito e magari riprenderlo là dove si era interrotto, con meno ambizioni certa-mente, ma anche con più consapevolezza dei limiti e degli obiet-tivi. [P.B., D.C.]

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Materiali 1

Pubblichiamo qui alcuni degli interventi presen-tati al convegno Architecture of Deconstruction. The Specter of Jacques Derrida, organizzato da Petar Bojanic e Vladan Djokic (Belgrado, 25-27 ottobre 2012).

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Derrida raddoppiato

PETER EISENMAN

Il racconto del mistero è la quintessenza della letteratura moderna. Per questo motivo è sta-to oggetto di numerose interpretazioni, pro-

venienti specialmente da ambiti esterni alla letteratura stessa. Uno dei misteri discussi più a fondo riguarda La lettera rubata di Ed-gar Allan Poe. Il racconto fa parte della trilogia di Auguste Du-pin, un parigino che ha perso la sua ricchezza e risolve casi intri-cati usando la logica del senso comune. Il racconto diventa teatro di un incontro tra Jacques Lacan e Jacques Derrida. Lacan tiene il suo Seminario sulla “Lettera rubata” nel 1955 e dieci anni dopo decide di usare questo saggio come introduzione al primo volu-me dei suoi Scritti. Prendendo questo seminario come punto di ri-ferimento, Derrida critica il progetto di Lacan in un saggio intito-lato Il fattore della verità, pubblicato in “Graphesis”, la rivista di French Studies di Yale nel 1975. Questo “scambio” tra Derrida e Lacan è molto utile a creare un contesto analogico facilmente tra-sferibile all’architettura.

Nello specifico, il racconto di Poe riguarda una lettera ruba-ta, il suo facsimile e tre personaggi, ciascuno dei quali interessato

L’ingegnoso è sempre fantastico e l’autentico immaginario sempre analitico.E.A. Poe, I delitti della Rue Morgue (1841)

Peter Eisenman, membro dei Five Architects, direttore dell’Institute for Architecture and Urban Studies e fondatore della rivista “Oppositions”, ha insegnato a Cambridge, Prince-ton, Harvard, Cooper Union e, attualmente, a Yale. È uno dei maggiori architetti viventi e fondamentale figura per i suoi contributi teorici. Ha ricevuto dall’Istituto americano de-gli architetti il National Honor Award nel 1991 per la sede della Koizumi Sangyo a Tokyo e nel 1993 per il Wexner Center di Columbus, Ohio. La sua ultima opera: Memorial dell’O-locausto a Berlino.

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Derrida: un alleato e un ami

BERNARD TSCHUMI

Molto è stato detto sul rapporto tra ar-chitettura e decostruzione. Ma la pre-matura scomparsa di Jacques Derrida

nell’ottobre del 2004 ci fornisce l’occasione per discutere anco-ra di alcune cose – o, in verità, di una sola. Forse l’incontro tra architettura e decostruzione è stato un modo, per gli architet-ti, per cercare alleati nelle altre discipline. A quanti si trovavano a disagio con i dogmi semplicistici e si sentivano spinti a mette-re in questione le convinzioni indiscusse che regnavano all’inter-no dell’architettura, il filosofo e il suo pensiero intricato offriro-no l’aiuto di un amico e di un alleato intellettuale.

Quando incontrai Derrida per la prima volta – era il 1983 o il 1984 – mi ero appena aggiudicato il progetto per il Parc de La Villette e, tra gli attacchi provenienti dai modernisti duri a morire e dagli storicisti redivivi, trovai l’attenzione dei media ma uno scarso supporto concettuale tra i teorici dell’architettu-ra dell’epoca. Non solo mi sono sentito come uno straniero nel-la loro terra di affermazioni dogmatiche, ma mi ero convinto che le questioni poste dal progetto erano al cuore di alcune temati-che con le quali l’architettura doveva confrontarsi. Nello speci-

Bernard Tschumi è tra i maggiori interpreti del decostruttivismo e uno dei punti di riferi-mento dell’architettura contemporanea. Il suo linguaggio eclettico, ispirato al costruttivi-smo russo, è reso attuale da personali interpretazioni di tematiche della contemporaneità. Tra le sue opere: il Parc de La Villette di Parigi (1985) e il Centro multifunzionale Zénith a Rouen (1998-2000).

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19aut aut, 368, 2015, 19-29

“We won”

RENATO RIZZI

Originariamente questa lettera era indi-rizzata agli studenti della Facoltà di ar-chitettura dell’Università di Belgrado.

Per tre giorni consecutivi, dal 25 al 27 ottobre 2012, avevano gremito la sala del Metropol Palace Hotel per seguire la confe-renza organizzata da Vladan Djokic e Petar Bojanic1 Architectu-re of Deconstruction: The Specter of Jacques Derrida. Il tutto sa-rebbe stato inscritto nella più normale consuetudine, tra celebra-zione e commemorazione, se a un certo punto il nostro “timpa-no” (mémoire di Derrida) non fosse stato perforato da due bre-vi sillabe. All’improvviso, nel mezzo del suo discorso, Jeff Kipnis (forse tra i critici più aderenti al pensiero di Eisenman) fece ri-suonare un improvviso quanto inspiegabile “we won”.

La prima immediata reazione fu di scambiare quel suono per

Renato Rizzi insegna Progettazione architettonica allo IUAV di Venezia. Architetto e teorico, ha realizzato la Casa d’arte futurista Depero a Rovereto e ha completato il teatro shakespea-riano di Danzica. Dal 1984 al 1992 ha collaborato a New York con Peter Eisenman. Di quel periodo: il Parc de La Villette di Parigi, la nuova sede del Monte dei Paschi a Siena, l’Opera House a Tokyo e ultimamente, nel 2008, la Torre della Ricerca a Padova. Tra le ultime pub-blicazioni: La muraglia ebraica (2009), John Hejduk. Incarnatio (2010), L’inscalfibile (2011) e Il Daimon di architettura (3 voll., 2014).

1. La conferenza di Belgrado, Architecture of Deconstruction. The Specter of Jacques Derrida, è stata organizzata da Vladan Djokic (preside della Facoltà di architettura) e Petar Bojanic (direttore dell’Istituto di filosofia e teoria sociale) e si è svolta dal 25 al 27 ottobre 2012. Hanno partecipato: Bernard Tschumi, Catherine Ingraham, Chris Younès, France-sco Vitale, Jeffrey Kipnis, Ljiljana Blagojevic, Mark Cousins, Mark Wigley, Maurizio Ferra-ris, Peter Eisenman, Renato Rizzi, Zoran Lazovic, Marguerite Derrida.

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un tuono. Due colpi sparati in aria, cupi ma innocui. Invece, quelle doppie iniziali, WW, una dopo l’altra, reagivano come una miccia. Fulminee le conseguenze di quell’affermazione. L’intera impalcatura teorica del “decostruzionismo”2 (in architettura) ve-niva fatta esplodere. Venticinque anni di predominio culturale (dalla mostra al MoMA del 1988 alla conferenza di Belgrado del 2012) ridotti a brandelli. Ovvero: prima il potere, poi il sapere. L’immagine di una nuda phoné aveva saturato lo spazio dell’au-la come quello delle nostre menti. Una nuvola di frammenti flut-tuava nel vuoto della parola (e del senso) come nella scena finale di Zabriskie point di Antonioni.

In realtà, il colpo inferto dal sintagma di Kipnis fu così poten-te e reattivo per un’altra ragione molto precisa. Il contraccolpo fu tanto più forte proprio perché rimbalzava sulla stessa incudi-ne “theologica”3 predisposta da Peter Eisenman parecchi anni pri-ma: (Mis)reading between the Lines.4 E qui siamo giunti nel secon-do tempo della nostra lettera (dove i ruoli si invertono: il mitten-te “architettura”, il destinatario “noi”). L’intervista di trent’anni fa apparteneva a tutt’altro orizzonte semantico-trascendente rispet-to al “we won” del 2012. Più che una dichiarazione era un’annun-ciazione, unica nel suo genere per sincerità e chiarezza. Eisenman tracciava i punti epistemici o il fulcro metafisico della propria “theoria”: uscire dalla tradizione dominante dell’architettura gre-co-cristiana a favore di un linguaggio per una “theologia ebraica”.

Ora, quegli estremi temporali, passando da una diacronia (2012-1985) a una sincronia (messi in parallelo), producevano una tensione “theologica” difficilmente controllabile. Inevita-bile lo scoccare della scintilla. A meno che quella dichiarazio-ne di “vittoria” non volesse nascondere a oltranza un indicibile. La confessione di un delitto perfetto (dell’ateologico sul teologi-

2. Decostruzione: per quanto possibile, il suo significato è sempre rivolto all’ambito dell’architettura (“Deconstruction”) per sottrarlo all’ampiezza di senso acquisita in ambito filosofico.

3. “Theologico”: nulla a che vedere con il significato tradizionale attribuito al teologico nell’ambito delle religioni. Esso indica piuttosto la parola più nobile dell’estetico, la dimensione indominabile, inscalfibile, immanifesta dell’apparire.

4. L’intervista uscì su “Blueprint” nel febbraio 1985.

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co), le cui tracce sarebbero state accuratamente occultate (da Ei-senman) nel cuore stesso della “decostruzione”. L’unico indizio certo rimaneva la declinazione del verbo win al passato, il quale indicava la direzione da prendere, a meno che non fosse un ulte-riore depistaggio sintattico.

Muoversi allora nel campo minato della “decostruzione” im-plica una certa cautela logica rispetto a: una metafisica della dis-soluzione; una “theologia” della dissimulazione; una mitologia dell’astrazione. Le cinque lettere che compongono il fonema ini-ziale (we won) vengono assunte come altrettante tracce da deci-frare – un’ipotesi, o una tattica comunque, per tentare di com-prendere le contraddizioni (post)ontologiche e (pre)theologi-che delle iconologie che sono in gioco non solo nel linguaggio dell’architettura della “decostruzione” (eisenmaniana), ma so-prattutto nella nostra inconsapevolezza nei confronti del sapere:

Il paradosso dell’attualitàIl paradosso della presenzaIl paradosso del linguaggioIl paradosso dell’individualitàIl paradosso eisenmaniano

1. Il paradosso dell’attualità. Il pensiero “decostruttivo” assume l’attualità (il tempo della nostra esistenza) come dato di fatto. Essa diventa il luogo acritico e incontestabile del nostro agire. Tutti i saperi vi precipitano dentro in maniera indifferenziata, senza di-stinzione alcuna, anche se la loro storia è piena di rotture, arresti, inversioni e ripartenze. Tutto si dissolve nel magma della cultura contemporanea (già anticipato oltre un secolo fa da Marx: “All that is solid melts into air”). Nulla sfugge alla sua influenza, alla sua forza dissolutiva. Condizione pregiudiziale che coinvolge l’intero pensiero decostruttivo, il quale però non dice nulla sulla natura di quelle potenze dissolutive. Per due ragioni principali:

a) il pensiero “decostruttivo” ignora la struttura ontologico-epistemica del paradigma contemporaneo: l’isolamento domi-nante tecnico-scientifico;

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30 aut aut, 368, 2015, 30-35

Giocare con le parole

MARK COUSINS

Vi deluderò, visto che non mi occuperò dei rapporti tra Derrida e l’architettura, un po’ perché non ho mai capito fino in

fondo in cosa consistessero. Voglio parlare di qualcosa che vie-ne prima, che non appartiene né alla teoria né all’architettura, ma che riguarda qualcosa di cui forse entrambe hanno bisogno. Voglio presentare Derrida non come uno spettro, ma come qual-cuno di familiare che è separato da noi soltanto dalla morte. In questo intervento mi concentrerò su qualcosa di molto semplice: perché negli anni ottanta e novanta gli studenti di architettura hanno letto Derrida con molto piacere ma con scarsa compren-sione filosofica o finanche accademica? Se fossero stati obbligati a rispondere a domande d’esame sulla decostruzione, che in ve-rità cominciò ad affermarsi nei tardi anni ottanta, sarebbero sta-ti perduti. (“Spieghi il concetto di différance in Derrida” o “Qual è il ruolo del fallogocentrismo nel tardo capitalismo?”) Non sa-rebbero stati in grado di rispondere, anche se sono propenso a credere che nemmeno Derrida avrebbe saputo farlo. La pesante cappa della decostruzione depositata sul pavimento accademico (non oso dire sul suolo [ground]) non costituiva l’interesse spe-

Mark Cousins è direttore del Dipartimento di storia e teoria presso l’Architectural Asso-ciation e guest professor alla Southeastern University di Nanjing. È inoltre membro fonda-tore della London Consortium Graduate School, membro dell’Arts Council of England, dell’Architecture Panel e del Visual Arts Panel e visiting professor alla Graduate School of Architecture Planning and Preservation della Columbia University.

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cifico degli studenti in questione. A dire la verità, non credo che fosse necessario che avessero una risposta alla domanda sul per-ché leggevano Derrida e ne provavano piacere.

Cos’è questa lettura che non è filosofica, se con questo inten-diamo la sua traduzione in una serie di proposizione intellegi-bili? Che piacere può venire mai dai testi di Derrida, che fanno resistenza a ogni “seria” interpretazione [reading]? Si potrebbe cominciare a trovare una risposta nella domanda che i suoi de-trattori, specialmente negli Stati Uniti, cominciarono a utilizza-re contro di lui. Faceva sul serio o stava solo giocando con le pa-role? Questa distinzione tra l’essere seri e il giocare con le parole è antichissima, ed è stata sempre usata per tenere al di fuori dei confini della filosofia sia il gioco che le parole, avendo la filosofia a che fare con dei problemi reali ed essendo essa in grado di di-stinguere immediatamente un problema reale da un gioco di pa-role. E questo senza ammettere l’eventualità che proprio giocare con le parole potesse costituire un modo di mettere in questione quei confini.

Proviamo a immaginarci ora gli studenti mentre leggevano questi giochi di parole. Forse, in questo caso, il fatto che gli stu-denti fossero studenti di architettura spiega perché consideras-sero il giocare con le parole come qualcosa che genera gli stes-si effetti prodotti dall’arte o dall’architettura. Voglio immaginare questo momento ancor più nel dettaglio. Giocare con le parole può implicare doppi sensi oppure un significato non chiaramen-te definito. Nel primo caso e nei termini di Saussure abbiamo un significante sorprendentemente collegato a più di un significato. Affermiamo dunque che “un gioco di parole” implica in defini-tiva una temporanea e imprevista priorità del significante. Tutt’a un tratto ci rendiamo conto che rimanda a qualcos’altro oltre il suo significato convenzionale. L’effetto è spesso considerato co-mico e mostra una scena ridicola, della quale ridiamo.

Altri potrebbero notare che il doppio senso e simili denotano semplicemente la fragilità del significato, ma io preferisco foca-lizzarmi su cosa fa un doppio senso. Il corso normale del linguag-gio ha continuamente bisogno di prendere le distanze dall’insta-

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La A maiuscola e la a minuscola dell’architettura

CATHERINE INGRAHAM

Il termine evento in Heidegger significa sia un’appropriazione (accade nel nostro tem-po e riguarda la nostra cultura) sia un’e-

spropriazione (non sappiamo quel che significa per lungo tem-po, se non per sempre). Dal mio punto di vista, appropriazione ed espropriazione sono concetti correlati, dal momento che sto lavorando sul nesso che collega l’architettura alla proprietà. Le strutture-evento di Bernard Tschumi – la sua intelligente rico-struzione dell’evento nei due aspetti dell’architettonico e dell’ar-chitetturale – rendono bene il paradosso di essere all’interno (avere) e all’esterno (non avere) di cose ed esperienze allo stes-so tempo. È il corrispettivo architetturale dell’alternativa tra par-ticella e onda nella fisica quantistica. Sia le strutture-evento sia la fisica quantistica sono state oggetto di numerose discussioni con Derrida, nelle quali venivano usate le espressioni architettu-ra con la a minuscola e Architettura con la A maiuscola. La pri-ma era riferita all’architettura in senso ampio (disseminata), la seconda all’architettura in quanto metafisica della presenza. La necessità di distinguerle ogni volta era parte della loro forza. An-che se adesso pensiamo che il discorso post-strutturalista abbia

Catherine Ingraham è Professor of Architecture presso il Pratt Institute di New York. È autrice di Architecture, Animal, Human: The Asymmetrical Condition (2006), Architecture and the Burdens of Linearity (1998), ed è stata co-curatrice di Restructuring Architectural Theory (1986). Dal 1991 al 1998, Ingraham ha diretto, con Michael Hays e Alicia Kennedy, la rivista “Assemblage: A Critical Journal of Architecture and Design Culture”.

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raggiunto un limite ben chiaro, sia nella pratica sia nella cultura, a partire dai tardi anni novanta – dato che era diventato claustro-fobico e impraticabile – esso ha dato forma a un intero continen-te di lavoro innovativo nel nostro campo.

È interessante notare come la maggior parte di coloro che so-no stati più coinvolti dalla filosofia post-strutturalista in architet-tura hanno avuto, da un lato, una qualche formazione filosofi-ca, storica o teorica, e dall’altro sono stati estremamente interes-sati alla psicoanalisi. Peter Eisenman, Jeff Kipnis, Mark Wigley, Mark Cousins, Joan Copjec e molti altri, fra cui io stessa, hanno considerato la psicoanalisi come una potente matrice attraverso la quale venivano filtrate tutte le relazioni con gli oggetti. Capo-volgeva la relazione soggetto-oggetto ed era implicata in ogni re-altà con cui avessimo a che fare nella nostra disciplina e nella no-stra pratica. Bisogna aggiungere che la decostruzione non è mai stata una qualche forma di distruzione letterale. Il presupposto estetico secondo il quale le strutture architettoniche devono es-sere a pezzi o in decadenza per essere considerate “decostrutti-ve” è sempre stata una sciocchezza. I ritratti cristallizzati, stiliz-zati delle attività dinamiche ed entropiche sono atti architettoni-ci inevitabilmente grotteschi, anche se talvolta potenti.

Vivere con o senza la metafisica della presenzaIn realtà, la difficoltà di agire all’interno di una forma di analisi der-ridiana – a partire dalla nostra storia e dal nostro punto di vista – è stata, per un po’ di tempo, il principale problema dell’architettura. L’architettura ha cominciato a rifiutare il progetto di Derrida quasi immediatamente – prima ancora di sapere come sarebbe continuato – fino quasi al punto di ridicolizzare la sua incapacità di compren-derla. Peter Eisenman ha più volte sottolineato la convenzionalità di Derrida nell’approccio all’architettura: per esempio, aveva detto che sarebbe stato bello avere delle panchine nel Parc de La Villette e si chiedeva perché gli architetti non le avessero previste. A suonare incredibilmente ingenui e grossolani sono tuttavia oggi non i com-menti di Derrida, bensì quelli di Eisenman. E se la versione della decostruzione di Eisenman si è rivelata estremamente influente, è

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stato perché egli non ha mai perso di vista quello che gli architetti volevano imparare da questo movimento. Eisenman, in un certo senso, per gran parte della sua carriera, è stato un portavoce per-suasivo dell’inconscio dell’architettura. Inseguire Derrida sul suo stesso terreno è stato un gioco autoreferenziale e un monito agli architetti affinché non si facessero prendere per sciocchi quando si occupavano di filosofia.

La mostra Deconstructivist Architecture al MoMA nel 1988, per quanto disomogenea, è stata un momento di riflessione e ri-definizione della nostra disciplina, che ha cominciato a fare pro-prie e a discutere una serie di idee che, come gran parte delle idee in architettura, richiedevano una traduzione in quello che siamo soliti chiamare, in qualità di redattori della rivista “Assem-blage”, “lo strettamente architettonico”. Il linguaggio autono-mo promesso alla nostra disciplina e pratica (da Colin Rowe fra gli altri) – e che noi abbiamo tenuto in vita come un sacro fuo-co dentro e al di là della modernità – ha prodotto una forma di immunizzazione che agisce come un vaccino contro ogni contri-buto dall’esterno. Siamo una disciplina e una pratica che si sen-te vulnerabile a ogni colpo e attacco scagliati dalle pratiche arti-stiche e intellettuali che dichiarano di aver a che fare con la real- tà (un concetto che, da quando ho cominciato a lavorare sul sog-getto della proprietà, non metto più fra virgolette). Sentiamo il bisogno, dunque, di proteggere il terreno dell’architettura da ogni tentativo di espanderlo o mescolarlo con un’altra disciplina. È letteralmente una battaglia identitaria: l’intera disciplina è sta-ta infatti storicamente costituita attorno all’ibridazione e alla na-turalizzazione delle idee che sono arrivate all’architettura dall’e-sterno. È stato un bene, perché abbiamo sviluppato un ricco vo-cabolario di resistenza e sopravvivenza; ma è stato anche un male perché questo discorso survivalista ci ha imprigionati. Per usare un altro vecchio gergo dell’architettura – quello dell’apocalisse e dei manifesti –, penso che questo discorso ci abbia messi in se-rio pericolo di scomparire in quanto attori credibili della cultu-ra. Ci sono ormai solo pochi critici, un paio di teorici, uno o due architetti ancora attivi che vogliono portare l’architettura a un li-

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Pensare l’architettura/disciplinare l’architettura

PETAR BOJANIC

Se dovessi spiegare esattamente qual è il mio compito di filosofo che coordina tesi di laurea in architettura e che insegna filo-

sofia agli studenti del dottorato e del master di architettura (Fi-losofia architetturale) dovrei prendere in considerazione in pri-mo luogo le motivazioni e le aspettative di coloro che vi parteci-pano e successivamente il loro ruolo o, più in generale, quello di chi tematizza l’oggetto dell’architettura o “l’oggetto architettoni-co”. Mi sembra che, in qualità di filosofo (una parola da non sot-tovalutare), io venga invitato nei dipartimenti di architettura non certo ad analizzare testi filosofici in quanto tali (prendo in esa-me esclusivamente frammenti che hanno a che fare con questioni che possano essere importanti per gli architetti), bensì a concen-trarmi su termini, testi o movimenti che appartengono al campo disciplinare dell’architettura stessa. Il mio ruolo non è nemme-no quello di spiegare agli architetti perché l’architettura sia im-portante per me, per un filosofo e per la filosofia. Onestamente non credo che gli architetti troverebbero interessante il modo in

Petar Bojanic è direttore dell’Institute for Philosophy and Social Theory (Belgrado) e del Centre for Advances Studies (Fiume). I suoi interessi di ricerca sono rivolti alla filosofia del diritto, alla filosofia ebraica e alla filosofia della guerra. Ha insegnato all’Università di Cornell (USA), Aberdeen (UK) e Belgrado (Serbia). Tra le sue pubblicazioni: Violence. The Reason of State and the Figures of Sovereignty (2007), Provocatio. Vocatif, Ius, Revolution (2008), Homeopathy: Horror Autotoxicus: On Violence and Hypochondria: Kant, Hegel, Ro-senzweig, Levinas, Derrida (2009), Violenza e messianismo (2014).

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cui Kant o Cartesio usano la parola “architettura” e il motivo per cui le metafore dell’edificare e del costruire sono importanti per un sistema filosofico e una teoria dell’argomentazione. Semplice-mente, vengo invitato nei dipartimenti di architettura per ispira-re i partecipanti o gli studenti e per spingerli a tematizzare il loro fare architettura, i loro concetti, le loro abilità, le loro esperienze e la loro idea di architettura.

In quanto filosofo che non sa nulla o quasi di tale disciplina e che trae la propria legittimazione solo dalla collaborazione che ha in corso con Peter Eisenman e dal fatto di aver avuto un men-tore famoso che, pur insistendo sul fatto di non saper nulla di ar-chitettura, ne ha tuttavia scritto con accanimento, sarei davvero scontato e banale se affermassi che io “penso l’architettura” nella misura in cui gli architetti sono in qualche modo incapaci di con-centrarsi o di focalizzarsi a sufficienza sui loro sforzi e sul loro impegno. Posso anzi ribadire che il titolo di questo testo è com-pletamente arbitrario e irrilevante e che quello che ritengo di es-sere chiamato a fare quando rifletto o scrivo sull’architettura è reso al meglio dall’espressione “filosofia architetturale”.1

Cosa si aspettano dunque da un filosofo e dalla filosofia nel dipartimento di architettura?

I drammatici cambiamenti che, durante la seconda parte del XX secolo, sono intervenuti nella sfera delle idee, l’apparire di una miriade di nuovi concetti e concezioni così come l’improv-visa trasformazione che ha interessato la formazione degli archi-tetti e le scuole di architettura (ci si aspetta che gli architetti e gli studenti di architettura scrivano, spieghino e giustifichino me-ticolosamente quello che stanno facendo, che pubblichino testi

1. Il titolo “Pensare l’architettura” è in verità la traduzione dell’espressione tedesca “Architektur Denken” coniata da Jörg Gleiter e Ludger Schwarte (cfr. Architektur und Philosophie, Transcript, Berlin 2015). “Filosofia architetturale” è un’espressione oggi abbastanza comune, ma apparve per la prima volta nel volume Philosophy & Architecture (“Journal of Philosophy and the Visual Arts”, 6, 1995), curato da Andrew Benjamin, e sembra la si debba a Peter Eisenman. È una filosofia che appartiene agli architetti o una filosofia che è collegata agli architetti, e non una “filosofia dell’architettura” (Philosophie der Architektur) o una “filosofia per architetti”. “La filosofia architetturale” presuppone che ci sia una storia filosofica dell’architettura e che questa storia sia il vero e proprio “materiale dell’architettura” (Aldo Rossi).

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accademici sulla loro attività, che analizzino il lavoro degli altri architetti, che producano complicate ed estese tesi di dottorato ecc.)2 hanno generato in architettura un bisogno latente di teoria o di filosofia, al punto che si può parlare di una svolta verso la teoria o verso la filosofia in architettura. Il compito del filosofo è a questo riguardo triplice: risvegliare il filosofo latente nell’archi-tetto (o meglio riconoscere l’architetto-filosofo) in modo da ren-derlo meglio capace di tematizzare il proprio lavoro o quello che fa insieme ad altri architetti; produrre, costruire e decostruire as-sieme agli architetti un sistema (un registro, un ordine, un proto-collo) di concetti che in futuro saranno autenticamente architet-tonici, ovvero aprire la possibilità di un linguaggio dell’architet-tura o di una terminologia eminentemente architettonica; disci-plinare o istituzionalizzare l’architettura (essere un architetto si-gnifica essere un fatto sociale), supportando l’essenziale progetto di autonomia dell’architetto e dell’architettura.

Il “compito del filosofo” (ma non il compito della filosofia vi-sto che quest’ultima non si trova esclusivamente nello “spazio del filosofo”) potrebbe essere forse il titolo migliore del mio contri-buto, e potrebbe evidentemente implicare alcuni nuovi modi di comprendere l’istituzione o la contro-istituzione dell’architettura. A rigore, l’intervento del filosofo non è per l’architetto o per l’ar-chitettura necessario, perché un pensiero filosofico è già presen-te nella storia dell’architettura o addirittura nell’architetto stesso. Esiste un ordine ideale o assoluto dei concetti autenticamente ar-chitettonici, benché sia chiaro a tutti che sarebbe un’affermazione piuttosto complicata da difendere a causa della difficoltà con la quale la riflessione sull’architettura, da Vitruvio a oggi, si è sem-pre scontrata: quella di far sì che l’architetto divenga consapevole del proprio genere, del proprio gergo o della propria conoscenza

2. Prima era molto diverso: “Alcuni dei migliori storici dell’architettura anglosassone, come Colin Rowe e Kenneth Frampton, non hanno un PhD; Anthony Vidler si è addottorato a 63 anni”. La recente domanda di Bernard Tschumi è ancora valida: “La prima questione da risolvere era quella di immaginare chi avrebbe potuto insegnare a questi studenti di PhD”. Cfr. E. Lengereau (a cura di), Architecture et construction des savoirs. Quelle recherche doctorale?, Éditions Recherches, Paris 2008, p. 215.

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L’arte dell’espacement

RAOUL KIRCHMAYR

1. Architettura e “nuovo illuminismo”Il tema di un illuminismo alla misura della nostra epoca accomuna diversi autori contemporanei, tra i quali Jacques Derrida occupa una posizione di rilievo. Tra la fine del secolo e i primi anni del se-colo nuovo, si è infatti pronunciato con sempre maggior frequenza a favore dei “Lumi a venire”,1 rivendicando, per la decostruzione, l’eredità di una tradizione critica alla quale essa fa appello e nel solco della quale essa si iscrive in nome della ragione, di un “razionalismo incondizionale” come istanza d’apertura verso una “democrazia a venire”.2 Per brevità chiamiamo “critica” questa tradizione, di cui la decostruzione riprende e riattualizza alcuni gesti teorici complessi e plurali, che appartengono tanto alle istanze dell’illuminismo quanto a quelle della critica marxista, in particolare a ciò che nel marxismo assume la forma dell’analisi delle sovrastrutture, pur discostandosi da essa e senza mai identificarvisi. Senza questi due riferimenti – che non sono i soli e ai quali la decostruzione non può certo essere ridotta – sarebbe difficile comprendere l’approccio impiegato da Derrida per avvicinarsi al campo dell’architettura, per entrare in rapporto con essa da estraneo e da “incompetente”, secondo un approccio ingenuo senza ingenuità,3 e per trovare in essa “una possibilità del pensiero”.4

1. Cfr. J. Derrida, “Il mondo dei Lumi a venire”, in Stati canaglia (2003), trad. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 167-224.

2. Ivi, p. 203.3. Cfr. Id., “Jacques Derrida. Invito alla discussione” (1992), in Adesso l’architettura,

trad. di F. Vitale e H. Scelza, Scheiwiller, Milano 2008, pp. 162-163 e 171. 4. Id., “Labirinto e archi-testura” (1984), in Adesso l’architettura, cit., p. 82.

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Per certi versi, il lavoro di messa in tensione reciproca dei di-scorsi della filosofia e dell’architettura – che si è soprattutto con-centrato sul progetto del Parc de La Villette (1983), ma non si è affatto limitato a esso, come testimonia ampiamente il numero di interventi dedicati da Derrida all’architettura – si è legato fin dall’inizio a un’istanza “razionalistica”, “costruttivistica” e “illu-ministica” che spesso è sfuggita ai commentatori dell’opera di Derrida, in particolar modo nel periodo in cui la discussione sul postmoderno, nel corso degli anni ottanta, ha preso il centro del-la scena filosofica.

Per ritrovare il motivo neo-illuministico nel rapporto tra de-costruzione e architettura possiamo assumere come punto di partenza un luogo testuale come la Discussione con Christopher Norris,5 dove Derrida, dopo essersi dichiarato “‘a favore’ dell’il-luminismo”, sviluppa il suo discorso indicando quale compito della decostruzione l’esigenza non solo di analizzare la tradizione dei Lumi, ma di operare in vista di un “nuovo illuminismo”. Un punto notevole del dialogo può essere riconosciuto quando Der-rida afferma che la decostruzione è un polilogo, un’impresa a più voci in grado di mettere in crisi il discorso metafisico come mo-nologo, secondo una linea di sviluppo del suo pensiero che risale a La voce e il fenomeno.

Dunque talvolta è in nome, diciamo, di un nuovo illuminismo che decostruisco un illuminismo costituito. E questo esige delle strategie molto complesse; esige che si lascino parlare molte voci… Non c’è nulla di monologico, nessun monologo – ecco perché la responsabilità, per la decostruzione, non è mai indi-viduale o questione di una sola, auto-investitasi voce autoriale. È sempre una molteplicità di voci, di gesti… Puoi prenderla come una regola: ogni volta che la decostruzione parla con una sola voce è sbagliato, non è più “decostruzione”. […]Ma senza dubbio oggi le conseguenze politiche, ideologiche

5. Id., “Conversazione con Christopher Norris” (1989), in Adesso l’architettura, cit., pp. 129-150.

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dell’illuminismo sono ancora tra noi – e ancora esigono di es-sere interrogate. Quindi c’è bisogno senz’altro di un “nuovo” illuminismo, che potrebbe voler dire decostruzione nella sua forma più attiva e produttiva, e non di quello che abbiamo ere-ditato sotto il nome di Aufklärung, critique, siècle des lumières e così via.6

Da questo passo si possono desumere almeno due punti. Il primo riguarda la necessità che il discorso filosofico si apra ad altre istanze perché solo così esso può incarnare lo spirito dei Lumi a venire. Se non c’è decostruzione senza molteplicità di voci e di gesti, la lacerazione del monologo filosofico sull’architettura deve permet-tere una nuova tessitura del discorso. Il filo del rigore concettuale si intreccia con un’eterogeneità che, rendendo spurio il discorso della filosofia, contemporaneamente lo apre a una differenza non solamente asserita, bensì praticata.

L’ospitalità del pensiero verso l’eterogeneo, con cui la filoso-fia è destituita dal suo ruolo canonico e fondante, corrisponde a quel “fare luogo” che Derrida considera come la capacità più importante dell’architettura come decostruzione. Si tratta del-la pratica di una dislocazione dell’architettura che la destabiliz-za nel rapporto alla sua stessa tradizione. Rifacendosi al lavoro di Peter Eisenman, Derrida scrive che “questa destabilizzazione non è nient’altro che una destabilizzazione dell’architettura stes-sa nei suoi principi, nelle sue fondazioni, della sua storia, del suo concetto più fondante”.7 L’operazione di dislocazione che carat-terizza il gesto della decostruzione in filosofia ha una portata che chiama in causa il senso dell’architettura. Da qui il secondo pun-to, che può essere condensato in un’asserzione di ordine genera-le: la decostruzione, quando affronta l’architettura come sapere e come pratica, si presenta una volta di più non nella veste del me-todo bensì in quella di uno stile di pensiero che mette a repenta-

6. Ivi, p. 149.7. Cfr. Id., “[Sequenza 2 – Scena 2]” (1985), in Adesso l’architettura, cit., p. 186; cfr.

anche ivi, p. 193.

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La casa in decostruzione. Derrida e la legge dell’oikos

FRANCESCO VITALE

In Point de folie – maintenant l’architecture Derrida definisce l’architettura quale “ulti-ma fortezza della metafisica”.1 In un altro te-

sto dello stesso periodo, Derrida precisa: “L’architettura rappre-senta la fortezza della metafisica della presenza”.2

In The Law of the Oikos ho cercato di dimostrare che una certa esperienza greca dell’abitare condiziona tanto l’istituzione dell’architettura quanto la costruzione della metafisica della pre-senza in Platone.3 La posta in gioco in Chora – il testo che Derri-da propone quale base per la collaborazione con Eisenman per il progetto del Parc de La Villette a Parigi – sarebbe dunque il vin-

Francesco Vitale insegna Storia delle dottrine estetiche presso l’Università di Salerno. Ha dedicato a Jacques Derrida numerosi articoli, pubblicati in Italia e all’estero, oltre ai volu-mi Spettrografie (2008) e L’avvenire della decostruzione (2011). Di Derrida ha inoltre cura-to l’edizione italiana di Economimesis (2005) e la prima raccolta degli scritti dedicati all’ar-chitettura: Adesso l’architettura (2008).

1. J. Derrida, “Point de folie – maintenant l’architecture”, in B. Tschumi, La case vide. La Villette, Architectural Association, London 1986; ripreso in J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre II, Galilée, Paris 1987, p. 482. Esistono tre traduzioni italiane di questo saggio, le prime due raccolte in due diverse antologie: in P. Panza (a cura di), Estetica dell’architettura, Guerini, Milano 1996 e in E. Rocca (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008. La terza in J. Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro (2002), trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II. Di seguito la traduzione dei passi citati dall’edizione del 1987 è sempre mia.

2. J. Derrida, P. Eisenman, “[Sequenza 2 – Scena 2]” (1985), in J. Derrida, Adesso l’architettura, trad. a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, p. 186.

3. Cfr. F. Vitale, The Law of the Oikos. Jacques Derrida and the Deconstruction of the Dwelling, “Serbian Architectural Journal”, 1, 2013. Questo numero raccoglie alcuni degli interventi al convegno internazionale Architecture of Deconstruction. The Specter of Jacques Derrida, tenutosi a Belgrado (25-27 ottobre 2012).

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colo che lega l’identità di un individuo e di una comunità a un territorio inteso quale origine e fondamento stabile di tale iden-tità.4 Questa concezione è particolarmente viva nell’Atene dell’e-tà arcaica e mantiene il suo valore anche in quella classica. Atene infatti è l’unica polis greca che si fonda sul mito dell’autoctonia.5 In The Law of the Oikos ho cercato di dimostrare che per Derri-da l’autoctonia – mito dalla funzione politico-religiosa – organiz-za la struttura stessa del Timeo di Platone, una volta riconosciuto il ruolo di questo dialogo nel trittico incompiuto del quale avreb-be dovuto far parte con il Crizia e l’Ermocrate. In quest’ordine, il Timeo doveva rendere conto della necessità cosmico-ontologica che avrebbe legittimato la superiorità ateniese rispetto a tutti gli

4. Cfr. J. Derrida, Salvo il nome (1993), trad. di F. Garritano, Jaca Book, Milano 1997. Per la lettura di questo testo nell’ambito della collaborazione con Eisenman, cfr. J. Kipnis, T. Leeser (a cura di), Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, Architectural Association, London 1991. La mia lettura si basa sul seminario inedito dal quale Derrida estrae il testo pubblicato: Nationalité et nationalisme philosophiques: mythos, logos, topos, 1985-1986, Derrida Archives, IMEC, Caen.

5. Il mito: Erittonio è il figlio di Efesto e Gea, la terra. Efesto aveva ottenuto in sposa Atena ma questa gli sfuggì sul talamo nuziale e così il suo seme, mancato l’obiettivo, finì sulla terra fecondandola. La tradizione consacrò Erittonio quale re di Atene, padre del genos ateniese, che per questo si considerava l’unico popolo greco “veramente” autoctono. Protettore dell’Acropoli di Atene, fondatore del tempio dedicato ad Atena sulla stessa Acropoli, a lui si attribuiva anche l’istituzione delle feste Panatenee. Il mito dell’autoctonia nel corso del V secolo ebbe una funzione ideologica fondamentale a sostegno dell’identità ateniese e della sua superiorità rispetto agli altri popoli greci: identità pura da ogni contaminazione con l’altro, con lo straniero ma anche con l’elemento femminile. Rimuovendo così la realtà storica: alla fine del VI secolo, infatti, il riformatore Clistene aveva organizzato la democrazia integrando nelle tribù civiche stranieri e meteci. In particolare vi ricorreranno ancora, pur su fronti avversi, Pericle e Platone per giustificare la democrazia quale regime di Atene, fondando l’uguaglianza politica (Isonomia) sull’uguaglianza di natura derivata dall’origine eroica della stirpe (Eugenia). Si tenga presente che uno dei motivi, se non quello decisivo di Politiche dell’amicizia, la cui prima stesura risale al 1986, è la decostruzione del legame che, fin dall’origine, vincola la democrazia all’autoctonia, al radicamento dell’uguaglianza politica in un’uguaglianza di natura etnico-territoriale. Nicole Loraux, allieva di Vernant ma non a caso legata a Derrida, ha dedicato opere fondamentali al tema dell’autoctonia ateniese quale paradigma identitario fondato sull’esclusione dell’altro. In particolare: N. Loraux, Les enfants d’Athéna. Idées athéniennes sur la citoyenneté et la division des sexes, Maspero, Paris 1981; Id., L’invention d’Athénes. Histoire de l’horaison funèbre dans la cité classique, Mouton/Éd. de l’EHESS, Paris-La Haye 1981; Id., Nati dalla Terra. Mito e politica ad Atene (1996), trad. a cura di L. Faranda, Meltemi, Roma 1996. Derrida da parte sua si riferisce costantemente al lavoro di Nicole Loraux nel seminario dedicato a Chora e in Politiche dell’amicizia.

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altri popoli e quindi anche il progetto platonico di una sua rifon-dazione su queste basi.

Qui vorrei provare ad approfondire la questione della “legge dell’oikos” nella quale, in Point de folie, Derrida individua il vin-colo che lega architettura e metafisica. Seguendo due linee che dovrebbero rivelarsi convergenti, da un lato intendo esplicita-re ulteriormente il riferimento all’abitare greco in Point de folie quale matrice mitico-religiosa del vincolo che lega architettura e metafisica. Dall’altro, rilevando le tracce di questo riferimento alla “legge dell’oikos” nelle prime opere di Derrida, vorrei dimo-strare che si tratta di un luogo decisivo per l’impresa decostrut-tiva nella sua portata più generale. Entrambi i percorsi – questa la mia ipotesi – dovrebbero portare a Platone, attraverso il quale questo vincolo diventa stabile fondamento della cultura occiden-tale, una specie di spettro che ancora aleggia in tutte le rivendi-cazioni identitarie locali e localizzanti.

La fortezza in decostruzioneIn Point de folie Derrida indica, sia pure laconicamente, i tratti che fissano l’architettura a una serie o costellazione di valori fra loro solidali. Tratti di origine storica ma così radicati da restare immutabili per il tempo a venire:

Attraverso tutte le mutazioni dell’architettura, delle invarianti restano. Un’assiomatica attraversa impassibile, imperturbabi-le, tutta la storia dell’architettura. Un’assiomatica, vale a dire un insieme organizzato di valutazioni fondamentali e sempre presupposte. Questa gerarchia si è fissata nella pietra, informa ormai tutto lo spazio sociale. Quali sono queste invarianti? Ne distinguerò quattro, la carta un po’ artificiale di quattro tratti, diciamo piuttosto di quattro punti.6

Le quattro articolazioni, attraverso le quali è possibile cogliere l’in-varianza di quest’assiomatica nel suo stesso dispiegarsi storico, rin-

6. J. Derrida, “Point de folie”, cit., p. 480.

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Spazi di aspettativa

DARIO GENTILI

1. Spazio di esperienza e orizzonte di aspettativaOgni epoca ha prodotto la propria idea di futuro. Si ascolta sem-pre più spesso che oggi non c’è più futuro, che abbiamo perso il futuro. Ma di quale idea di futuro si tratta? L’idea del futuro in quanto tempo radicalmente diverso, che viene dopo il presente e in discontinuità con esso, è tipicamente moderna. Prima della modernità, il futuro rappresentava una prognosi che era il presente a pronunciare sulla scorta del passato. Nella concezione circolare del tempo dell’Antichità, infatti, il futuro così come noi lo pensiamo – come un tempo che porta con sé il nuovo – era inconcepibile. È solo con l’affermarsi della modernità che il futuro, in quanto tempo irriducibile all’esperienza ereditata dal passato, entra nella storia occidentale e ne rappresenta il punto di fuga. Anzi, è proprio l’introduzione nella storia dell’idea di futuro il tratto peculiare della modernità: è infatti il futuro a rendere da allora in poi ogni epoca, in quanto “tempo nuovo”, di per sé moderna.

Con la modernità, per usare i termini di Reinhart Koselleck, il margine tra “spazio di esperienza” e “orizzonte di aspettativa” si è progressivamente allargato a vantaggio del secondo termine – il fu-turo.1 Questa idea di futuro produce un’accelerazione del tempo

Dario Gentili svolge attività di ricerca in filosofia presso università e istituzioni in Italia e all’estero. È autore delle monografie: Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin (2002); Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida (2009); Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (2012).

1. “La mia tesi è che nell’età moderna la differenza fra esperienza e aspettativa aumen-ta progressivamente; o, più esattamente, che l’età moderna può essere concepita come un tempo nuovo solo da quando le aspettative si sono progressivamente allontanate da tutte

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per approssimare le aspettative che il presente ha nel suo orizzonte. La freccia del tempo trova nel “progresso” il suo motore. Progres-so che era inconcepibile fino alla modernità; per esempio, nel Me-dioevo il progresso implicava l’approssimarsi della fine del mondo intesa come “fine della storia”. Ma la delusione seguita al non avve-rarsi delle profezie escatologiche ha tolto l’ipoteca con cui la pro-gnosi del presente gravava sul futuro e ne ha liberato l’orizzonte di aspettativa: lo spazio dell’esperienza – lo spazio del presente – è di-ventato troppo angusto e limitato per l’accelerazione del tempo che le tecnologie cominciavano a produrre con una velocità inimmagi-nabile in passato. L’orizzonte di aspettativa della modernità diventa indefinito e infinito per poter comprendere quanto non è anticipa-bile nel presente. Fin qui, più o meno, Koselleck.

Anche la concezione dell’utopia cambia nella modernità: non è più un concetto spaziale, ma diventa temporale, e finisce per coin-cidere con il futuro e la sua dimensione puramente temporale, che “non ha luogo”, che non ha uno spazio circoscritto di esperienza, o almeno non ancora. Gli immaginari utopici occidentali potevano a volte essere allarmanti, per quanto erano contrassegnati da uno sviluppo tecnologico disumanizzante; eppure, la svolta in direzione di un futuro migliore è per il presente sempre possibile, è cioè sem-pre possibile ampliare l’orizzonte di aspettativa perché compren-da diverse alternative. Sebbene questo non sia il migliore dei mon-di possibile, può pur sempre diventarlo: c’è sempre un’alternativa.

Il mondo occidentale ha avuto un futuro – un tempo per pro-gredire, migliorare – finché ha potuto presentarsi come il miglior mondo possibile, finché si è potuto “contrapporre” a un “altro” mondo. Quest’altro mondo, nel Novecento, è stato rappresenta-to dal blocco comunista. Dopo il 1989, l’idea del futuro in quan-to tempo della perfettibilità che si oppone alla “staticità” dell’al-tro mondo ha perso sempre più quella efficacia politica che ave-va portato il “sole dell’avvenire” a splendere nel suo orizzonte e, pertanto, aveva permesso di vincere la Guerra fredda.

le esperienze fatte finora”, R. Koselleck, “‘Spazio di esperienza’ e ‘orizzonte di aspettativa’: due categorie storiche” (1975), in Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, trad. di A.M. Solmi, Clueb, Bologna 2007, p. 309.

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Infine, è stato il mercato globale a unire definitivamente il mondo. E, tuttavia, quella che si apriva nella prima fase della globalizzazione si è rivelata ben presto non essere affatto l’epo-ca della “fine della storia”,2 quanto piuttosto una nuova fase sto-rica, una nuova configurazione della storia, dove il rapporto tra “spazio di esperienza” e “orizzonte di aspettativa” si va artico-lando diversamente rispetto alla modernità.

Che cosa accade, dunque, oggi, nei nostri tempi poveri di fu-turo e, perciò, postmoderni? L’accelerazione moderna del tem-po ha ridotto il futuro al presente. Se nell’Antichità era il passa-to a ridurre il presente alla sua ripetizione, oggi è il presente ad aver ridotto il futuro alla sua ripetizione. Invertendo i termini di Koselleck, si potrebbe sostenere che la nostra epoca configura il presente come uno “spazio di aspettativa” – che tuttavia, aven-do colmato fino a consumarlo lo scarto tra esperienza e aspetta-tiva, è senza un orizzonte.3 Lo stesso Koselleck ha valutato l’ipo-tesi di poter parlare di “spazio di aspettativa”, tuttavia l’ha esclu-sa con la motivazione che “la presenza del passato è diversa dalla presenza del futuro”.4 Ma è proprio lo spunto che fornisce Ko-selleck – la plausibilità seppur vaga di uno “spazio di aspettati-va” – che qui vorrei sviluppare. Infatti, la nostra epoca, successi-va a quella in cui scriveva Koselleck, sembra essere caratterizzata proprio dalla “presenza del futuro”, dal venir meno di quel “li-mite assoluto” che intercorre tra esperienza e aspettativa. Questa nostra è infatti l’epoca – l’epoca riconducibile alla ragione neoli-

2. Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), trad. di D. Ceni, Riz-zoli, Milano 1992.

3. “L’orizzonte si riferisce a quella linea dietro la quale si schiude, in futuro, un nuovo spazio di esperienza, che peraltro non è ancora visibile. Nonostante la possibilità di pro-gnosi, l’accessibilità del futuro incontra un limite assoluto, poiché non è passibile di espe-rienza”, R. Koselleck, “‘Spazio di esperienza’ e ‘orizzonte di aspettativa’: due categorie sto-riche”, cit., p. 306.

4. “Come è noto il tempo può essere espresso solo con metafore spaziali, ma evidente-mente è più chiaro parlare di ‘spazio di esperienza’ e di ‘orizzonte di aspettativa’ che, vice-versa, di ‘orizzonte di esperienza’ e ‘spazio di aspettativa’, sebbene anche queste espressio-ni conservino il loro senso. Ciò che importa qui è mostrare che la presenza del passato è di-versa dalla presenza del futuro. [La] metafora dell’orizzonte di aspettativa è più precisa di quella dello spazio di aspettativa”, ivi, pp. 305-306.

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Un compito colossale. Note per un dialogo tra filosofia e architettura

DAMIANO CANTONE

Un pensiero architettonico intesse in fi-ligrana tutto il lavoro di Derrida. Per quanto questo sia particolarmente evi-

dente rispetto al tema della decostruzione, termine chiave del-la sua filosofia che è stato spesso frainteso, si può affermare che tutte le operazioni di pensiero di Derrida abbiano a che fare con l’architettura, sia dal punto di vista delle scelte lessicali che delle elaborazioni teoriche generate. È facile osservare che questo, al-meno in parte, è vero per qualunque filosofo nella misura in cui ambisce a costruire un sistema di pensiero, a smontare gli edifi-ci teorici preesistenti o a dare forma a una struttura concettua-le. Ma lo è solo in modo strumentale: quello che importa è il contenuto del sistema stesso, il modo in cui funziona ed è arti-colato. A Derrida invece interessa mettere in questione la stes-sa idea di sistema, di edificio teorico, di costruzione di un testo. Non c’è una vera e propria teoria estetica dell’architettura, nes-suna idea regolativa o analisi storico-filosofica del ruolo dell’ar-chitettura. Parlando di pensiero architettonico, intende un mo-do del pensiero, così come lo è la filosofia, la pittura, la poesia, la scienza. Tutti questi modi si intrecciano nel lavoro di Derrida, sebbene non tutti abbiano la stessa importanza: il pensiero archi-tettonico e quello filosofico a volte si sovrappongono fino all’in-discernibilità, sebbene egli sia sempre molto preciso nell’anali-si e nella dissezione dei piani. Non si tratta di usare metafore o esempi tratti da uno o dall’altro ambito per corroborare un’ar-

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gomentazione filosofica che li egemonizza. Derrida paragona il lavoro del suo pensiero a quello di un virus, che “fa deragliare un meccanismo di tipo comunicazionale, la sua codificazione e decodificazione”.1

Potremmo essere tentati, in via preliminare, di riassumere questo rapporto in uno slogan: l’architettura è un tipo di testo, e ogni testo possiede una sua architettura. Questo doppio lega-me implica da una parte che un edificio, un oggetto di design, un giardino ecc. possano venir letti come esempi di applicazio-ne di un linguaggio disciplinare e dall’altra che una strategia ar-chitettonica sia sempre in atto (e dunque sia sempre revocabile) all’interno di ogni costruzione linguistica. Il filosofo e l’architetto si trovano perciò alle prese con problemi simili, anche se su ver-santi differenti. E le linee disciplinari che ne istituiscono i sape-ri e i poteri non cessano di intrecciarsi e sovrapporsi, in una serie di rimandi concettuali, metaforici, analogici e di pratiche di pen-siero (la costruzione di un testo, la lettura di uno spazio), renden-do necessaria e complessa una qualsivoglia forma di comunica-zione tra i due ambiti.

Con ogni probabilità è questo che – almeno in prima istan-za – affascina l’architetto Peter Eisenman, che insieme a Ber-nard Tschumi nel 1985 lo coinvolge nel progetto della costruzio-ne del Parc de La Villette a Parigi. Egli trova delle risonanze tra il lavoro che sta compiendo all’interno dell’architettura e quel-lo che Derrida porta avanti dall’interno della filosofia. Considera l’architettura come un sistema di segni, che però, a differenza di quelli linguistici, a suo vedere, non sono arbitrari. Infatti, “il di-venire-immotivato del segno, che è parte della nozione di scrit-tura, è una questione problematica rispetto ai segni architettoni-ci, perché questi hanno essenzialmente una funzione, sono sem-pre motivati e sempre presenti”.2 Il suo progetto è dunque quel-lo di mettere in questione il lessico e la pratica dell’architettura,

1. J. Derrida, “Le arti spaziali. Un’intervista con Jacques Derrida” (1990), in Adesso l’architettura, trad. di F. Vitale e H. Scelza, Scheiwiller, Milano 2008, p. 37.

2. Id., “A proposito della scrittura. Jacques Derrida e Peter Eisenman” (1993), in Adesso l’architettura, cit., p. 221.

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così come sono stati tramandati dalla tradizione e si sono conso-lidati nell’istituzionalizzazione della disciplina. Pensa che l’archi-tettura, in quanto linguaggio espressivo, sia anche una forma di scrittura, e determini uno spazio dell’iscrizione, della distribu-zione spaziale dei segni. Questo non significa creare delle sem-plici narrazioni architettoniche: ogni edificio lo fa, raccontando della propria motivazione storica e sociale, del rapporto tra la sua forma e la sua funzione, dell’idea di uomo o Dio o anima-le che veicola, dei desideri e delle speranze cui è chiamato a ri-spondere. A Eisenman interessa piuttosto interrogare i generi di queste narrazioni, alzare il livello di guardia nei confronti della loro supposta naturalità e neutralità. Basti pensare per esempio alla natura fortemente antropocentrica dell’architettura, che ha acriticamente accolto la dimensione del corpo umano come uni-tà di misura fondamentale per il proprio fare. Cosa accadrebbe se questo fondamento dell’architettura venisse intaccato? Si trat-terebbe non di proporre delle variazioni a partire da una scala supposta naturale (casa, teatro, grattacielo), ma di destabilizzare l’ordine di grandezza che l’architettura dà per scontato, attraver-so un processo che Eisenman chiama scaling.3

Derrida, dal canto suo, non è interessato a fare una filosofia dell’architettura, né a fornire agli architetti un supplemento di teoria che possa servire loro a livello professionale. Gli interessa piuttosto il funzionamento della dimensione “architetturale”4 del pensiero, ovvero lo specifico teorico dell’architettura. L’architet-tura non è ascrivibile al campo della rappresentazione (la con-crezione di un’idea nello spazio) ma piuttosto dell’affermazione, dell’apertura di una possibilità. Non una tecnica, o una serie di precetti tesi alla costruzione di opere, ma un superamento del-la coppia teoria-prassi (o forse meglio un arretramento rispetto a essa): “Probabilmente c’è già un pensiero che sarebbe proprio al

3. Per un analisi di questo procedimento, si veda il saggio “L’Inizio, la Fine e ancora l’Inizio”, in P. Eisenman, La fine del classico (1986), trad. di R. Rizzi e D. Toldo, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 151-164.

4. J. Derrida, “Labirinto e archi-testura” (1984), in Adesso l’architettura, cit., p. 82.

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L’affermazione metastabile dell’architettura

LUCA TADDIO

Il valore della stabilitàA partire dalle nozioni derridiane di “incompetenza” e “scon-finamento” intendiamo rileggere il senso dell’architettura come “affermazione”. Derrida rivolge il proprio sguardo ai presupposti metafisici della “costruzione” per mettere in luce il funzionamen-to di questa “stabile presenza”: l’architettura. Ciò che è privo di fondamento diventa necessariamente qualcosa di instabile: l’equi-librio si rompe venendo meno il permanere della “cosa” nel tempo, la sua stabilità è temporalmente determinata. L’architettura non consiste unicamente in una tecnica di costruzione. Si affermano delle forme nel tempo; nel loro permanere significano qualcosa di più della loro “presenza”: esprimono delle “prassi” e dei “valori”. Possiamo apprezzare esteticamente una chiesa quando intendiamo il significato che quel luogo possiede per coloro che ne fruiscono: bisogna saper interpretare le forme dell’architettura per poterla comprendere.

Ogni gesto architettonico afferma il tempo e i modi dell’abi-tare. Il valore delle cose si lega al tempo e alla durata che sca-turiscono dalla nostra volontà di affermare qualcosa di stabile in opposizione alla potenza annientatrice del divenire. Heideg-ger ci ha mostrato come il nostro essere “mortali” ci ponga in una condizione di progettualità esistenziale temporalmente lega-

Luca Taddio insegna Estetica presso la Facoltà di architettura dell’Università di Ferrara. Ha pubblicato: Fenomenologia eretica (2011), L’affermazione dell’architettura (2011, con Damiano Cantone), Global Revolution (2012), I due misteri (2012), Verso un nuovo reali-smo (2013). È direttore editoriale della casa editrice Mimesis.

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ta all’approssimarsi della morte. Lo “stare” nel tempo delle “co-se” si afferma all’interno di un processo: non si tratta di determi-nare l’essenza della cosa, la sua causa, che cosa la determini, ma di comprendere come essa si affermi nella sua stabilità. Si tratta di pensare intorno alla cosa più che la cosa stessa: la relazione tra l’attrattore e la propria tendenza a stabilizzarsi nel tempo all’in-terno di un sistema dinamico. In questo senso l’isolamento del-la cosa è sempre relativo, è sempre un’affermazione astratta in quanto essa non è mai qualcosa di separato dalle forze che attra-versano il suo perimetro.

Il concetto di “trascendenza” è un’astrazione, un presuppo-sto metafisico atto a stabilire la verità in contrapposizione al di-venire: è un’affermazione assolutamente stabile, un’idea perfet-ta, in grado di “stare” eternamente al di fuori del tempo. Il tra-monto degli eterni collima col venir meno della possibilità stes-sa di erigere, secondo un fondamento stabile, l’edificio della me-tafisica: di affermare una divina trascendenza. Il postmoderno è il risultato dell’infrangersi del sogno della metafisica di fonda-re un sapere assoluto.1 Come ci ha indicato Platone nella Repub-blica, a fondamento dell’arte vi è un “modello di trascendenza”. Ogni artista deve imitare l’Idea per portare alla presenza l’ope-ra che intende realizzare. L’epoca contemporanea si caratteriz-za per l’impossibilità di affermare un fondamento assolutamente stabile. Ciò non toglie che tale “assolutezza” possa essere sosti-tuita da un relativismo metastabile in cui la verità “sta”, si affer-ma nel tempo entro un dato sistema di riferimento.2 Il senso di questa metastabilità intreccia scienza e filosofia; tuttavia, sino a quando la scienza non si riaffermerà in chiave filosofica, il senso del nostro abitare rimarrà privo di fondamento, chiuso all’inter-no di specialismi incapaci di recuperare la relazione col “sogget-to”: “La scienza” – scrive Merleau-Ponty in apertura a L’occhio e lo spirito – “manipola le cose e rinuncia ad abitarle”.

1. La stessa fondazione greca dell’ἐπιστήμη è intesa da Emanuele Severino come lo stare della verità rispetto al divenire. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995.

2. Cfr. L. Taddio, Verso un nuovo realismo, Jouvence, Milano 2013.

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Tra architettura e filosofia: incompetenza e sconfinamento

L’architettura è un luogo che consente di interrogarci sul senso del nostro abitare. Possiamo farlo a partire da Derrida, dalla sua collaborazione con Eisenman iniziata a metà degli anni ottanta. Da questi incontri, dalle differenze reciproche e dalle strategie messe in atto da Derrida emergono diversi spunti teorici che ci permettono di rileggere la relazione tra architettura e filosofia.

In un incontro tenutosi alla Columbia University nel 1992, Derrida si dichiara “incompetente” rispetto all’architettura e poi aggiunge ironicamente che, forse, lo è anche rispetto alla filoso-fia, ma in modo diverso.3 Egli agisce criticamente sul concetto di “architetto”: sull’identità che definisce i confini della professione e i suoi relativi campi di competenza al fine di rendere visibili i meccanismi sottostanti al processo di identificazione. Che tipo di sapere, di competenze e di agire professionale caratterizza l’ar-chitettura? L’incompetenza evocata da Derrida è accompagnata da uno “sconfinamento” da parte dell’architetto in una moltepli-cità di saperi: questi concetti definiscono lo spazio che ospita il pensare in architettura.

Il concetto di “affermazione” rappresenta il punto di incontro tra la dimensione architettonica e quella filosofica.4 Non vi è da un lato l’architetto che “fa” e dall’altro il filosofo che “pensa”, vi dev’essere invece una presa di coscienza del “piano immanen-te” al fare-progettante proprio dell’architetto. È nell’opera che si inscrive un sapere intrinseco al produrre stesso. Possiamo dire che così come il pittore pensa per immagini anche l’architetto pensa attraverso le forme proprie al suo “fare”. L’opera è il frut-to di un’affermazione complessa: rappresenta una sintesi di di-versi saperi. Lo stesso potrebbe dirsi per il regista o per il diret-tore d’orchestra: si tratta allora di comprendere se vi è un modo specifico dell’architettura di affermarsi. Questo spazio di discor-

3. Cfr. J. Derrida, “Jacques Derrida. Invito alla discussione” (1992), in Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, pp. 162-163.

4. Cfr. D. Cantone, L. Taddio, L’affermazione dell’architettura, Mimesis, Milano-Udine 2012. Cfr. J. Derrida, “Jacques Derrida. Invito alla discussione”, cit., p. 158.

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Affermazione senza posizione. Per un discorso decostruttivo sull’architettura

MARCELLO BARISON

Non va taciuto, almeno come avvertenza preliminare, che, a parte alcuni passag-gi, peraltro molto circoscritti, nel suo

discorso sull’architettura Derrida evita quasi del tutto qualsia-si confronto diretto con lo specifico della pratica architettonica. Detto più espressamente: tranne qualche minimo riferimento di dettaglio, il suo interesse verte pressoché sempre sui presuppo-sti dell’architettura, nel tentativo, in linea con l’impianto genera-le della decostruzione, di ripensare il momento architettonico al di là – e al di qua – del suo costituirsi come mera affermazione di presenza.

A titolo di esemplificazione e per contrasto si consideri il “metodo” degli studi deleuziani sul cinema. Il tentativo è chia-ro: confrontarsi in modo diretto con le strutture analitiche me-diante le quali questo o quel film pensano (ovviamente modellan-do un proprio linguaggio, che si articola in immagini-movimento e immagini-tempo ma non in concetti). Non c’è, nel pensatore di Le pli, alcun interesse a proporre un discorso generale sullo sta-tuto metafisico del cinema indipendentemente dai film. Vicever-

Né architettura né anarchitettura: transarchitettura. Che fa i conti con l’evento.J. Derrida

Marcello Barison insegna alla University of Chicago. Tra i suoi principali interessi figurano la filosofia tedesca del Novecento, il pensiero post-strutturalista francese e l’estetica. Alle possibili convergenze tra prassi filosofica, arte e letteratura contemporanee ha dedicato al-cuni contributi apparsi sia in Italia che all’estero. È autore di La Costituzione metafisica del mondo (2009), Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio (2011), e dei saggi Eterotopie. Gropius – Heidegger – Scharoun (2010) e Seynsgeschichte und Erdgeschich-te. Zwischen Heidegger und Jünger (2010).

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sa, in Derrida è proprio questo ciò che accade: una volta esibi-to il paradigma metafisico che soggiace all’architettura nella sua forma “classica”, cioè in quanto occupazione e irrigidimento del “costruito” come istanza di presenza, la pratica decostruzionista deve intervenire come quello specifico gesto destrutturante ca-pace appunto di frammentare e liberare dalla rigida autorità del proprio fondamento l’emersione della res ædificatoria. È nell’am-bito di questo tentativo – preliminare e generale a un tempo – che Derrida riconosce come particolarmente prossime le propo-ste avanzate da Eisenman, Tschumi e Libeskind.

Si comincerà quindi (I) col descrivere quale sia la critica mossa da Derrida all’architettura intesa come sapere della costruzione, ossia in quanto complesso monumentale iscritto in una logica di permanenza. Dopodiché bisognerà vedere in che modo tale cri-tica venga declinata in base al paradigma decostruzionista – qua-le sia quindi, nello specifico, il rapporto tra decostruzione e archi-tettura. (II) Bisognerà successivamente chiedere se, a tutti gli ef-fetti, un’architettura decostruzionista sia di fatto possibile: se non si cada, cioè, in palese contraddizione qualora ci si pronunci a fa-vore di un’architettura che voglia del tutto emanciparsi dal gesto costruttivo: è davvero possibile un’architettura senza costruzione?

I. Il termine de-costruzione rimanda immediatamente – cioè senza alcuna mediazione dialettica – al suo opposto, ossia a una costru-zione contro la quale sarebbe appunto orientata la sua “attività”. È osservazione piuttosto banale, ma che permette fin da subito di comprendere come una relazione tra architettura e decostruzione sia già di per sé inclusa nel concetto stesso di quest’ultima in quan-to “pratica” espressamente anti-architettonica. Si capisce allora perché, secondo Derrida, “l’architettura non [sia] una disciplina circoscritta”.1 Si ha infatti architettura ogniqualvolta un sapere sintatticamente organizzato pervenga a determinazione. Laddove agisca un intento sistematico – ossia nell’architettonica in quanto

1. J. Derrida, “Jacques Derrida. Invito alla discussione” (1992), in Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, p. 163.

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“arte dei sistemi, come dice Kant”2 – e ovunque vi sia pretesa di coerenza logica, sostanzialità oggettiva, forma istituzionale, confor-mazione a un canone tradizionale – e, in generale, consistenza come categoria anche tangibile (“per consistenza intendo anche la durata, la durezza, la sussistenza monumentale, minerale o lignea”).3

È in questa luce che va inteso l’inciso derridiano in cui, ri-dislocando la Geworfenheit heideggeriana, si afferma che “sin dal principio siamo gettati, cioè, viviamo nella situazione di es-sere gettati nello spazio dell’architettura”.4 Architettura, quin-di, è struttura originaria. Non appena sia in atto un principio di articolazione dell’intero; non appena, cioè, il fondo insondabi-le e unitario del principio si produca nella differenza da sé dando luogo a una configurazione di elementi interconnessi perché pa-ratatticamente o ipotatticamente dislocati, è già operante qualco-sa come un’architettura.

Ora, la différance – quale incessante movimento di erosio-ne dilazione rinvio dissolvenza – è proprio ciò che, non come concetto ma come operatore meontologico, agisce affinché nes-suno degli elementi in cui il principio si articola e si istanzia – nemmeno, per la verità, il principio stesso – possa mai porsi co-me determinato, cioè come stazionario, metafisicamente identi-co a se stesso e dunque riconoscibile, attingibile e fruibile come un’entità data dacché immancabilmente presente. La différan-ce è cioè un “antiprincipio” la cui mossa consiste anzitutto nella demolizione di ogni possibile sintassi architettonica stazionaria. Se il sapere metafisico consiste sempre e comunque in un’ar-chitettonica del fondamento e del sistema di relazioni elementa-ri che esso immediatamente5 o mediatamente6 implica, allora la

2. Id., “Point de folie – maintenant l’architecture” (1986), in Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II, p. 109.

3. Ivi, p. 113.4. Id., “Jacques Derrida. Invito alla discussione”, cit., p. 161.5. Si pensi, per esempio, all’architettura sostanza-attributi-modi in Spinoza o alla

coappartenenza originaria, pensata su base temporale, tra essere ed esserci nel “primo” Heidegger.

6. Ci si riferisce per esempio al rapporto tra essere, essenza e concetto nella Logica hegeliana.

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Storie di ordinaria decostruzione. La controfirma dell’architettura

CARLO DEREGIBUS

1. Lupi e agnelliLa storia del rapporto tra Jacques Derrida e l’architettura, e tra l’architettura e la decostruzione, sfuma ormai nella leggenda. Da un lato, attraverso la chiamata di Bernard Tschumi, che nel 1985 coinvolge il filosofo nel progetto del parigino Parc de La Villette,1 e la successiva collaborazione tra il filosofo e Peter Eisenman, culminata nel libro Chora L Works,2 e dall’altro, con l’Internatio-nal Symposium on Deconstruction, organizzato alla Tate Gallery di Londra nel 1988, e la mostra dello stesso anno al MoMA di New York, sapientemente orchestrata da Philip Johnson e Mark Wigley,3 è nata l’unica vera corrente architettonica degli ultimi tre

Carlo Deregibus è architetto e dottore di ricerca in Architettura e progettazione edilizia. I suoi lavori teorici legano in un sottile fil rouge teorie e pratiche del progetto, pensiero fe-nomenologico e temi contemporanei come la non-standard architecture. Nel 2008 ha ri-cevuto dallo IASS l’Hangai Prize per il suo lavoro sulle strutture sperimentali; nel 2011 ha vinto il concorso “Carlo Scarpa: uno sguardo contemporaneo”; ha pubblicato articoli su “Construction History”, “Journal of the IASS”, “aut aut”, “Il Giornale dell’Architettura” e contributi in monografie in Italia e all’estero.

1. Derrida scriverà la presentazione del progetto, “Point de folie – maintenant l’archi-tecture” (in B. Tschumi, La case vide. La Villette 1985, Architectural Association, London 1986; poi in J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 477-493).

2. J. Kipnis, T. Leeser (a cura di), Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, Architectural Associated Press, London 1991. Un libro quantomeno inusuale, anche per gli architetti, che rivoluzionò la comunicazione architettonica ispirando un nuovo tipo di pubblicazione, in cui la forma diventa contenuto e modalità di lettura: si pensi per esem-pio al di poco successivo S,M,L,XL, di Rem Koolhaas e Bruce Mau (Monacelli Press, New York 1995).

3. La mostra, chiamata “Deconstructivist Architecture”, riuniva progetti di autori di-versi (Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhass, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e Coop Himme(l)blau), uniti da un’affine sensibilità, si noti, estetica.

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decenni. Una nascita accompagnata da dibattiti e polemiche che perdurano ancora oggi.

Eppure, è raro che gli architetti abbiano un’idea precisa – o anche solo una qualunque idea – riguardo alla decostruzione. Questo in parte è certamente dovuto all’innegabile difficoltà di lettura che i testi derridiani impongono: una difficoltà pronta-mente ripresa dagli architetti “decostruttivisti”, che nei loro te-sti amano le espressioni ellittiche, il tono esoterico, l’esaltazione quasi mistica di supposte emergenze e profetiche visioni. D’altra parte, però, questa diffusa ignoranza è riconducibile anche allo sviluppo relativamente limitato che la decostruzione ha avuto in campo architettonico: le tesi decostruttiviste sono rimaste legate ai discorsi derridiani, a quei dialoghi esemplari ma forzatamente limitati. Pochi, fulgidi anni di sperimentalismo, poi il nulla.4

Anzi, l’iniziale complessità, il fascino rivoluzionario e potenzial-mente pervasivo del pensiero derridiano è stato ridotto a un bre-viario di poche righe, fatto di tesi messianiche e asserzioni che si vogliono inconfutabili. Se è diventato comune riferirsi alle “trac-ce” nel progettare, magari usandole per giustificare orientamenti e giaciture non scontate, allo stesso tempo quello decostruttivista – e va marcato il passaggio da decostruzione a decostruttivismo – è diventato lo stile per eccellenza delle “archi-star”: cioè, in altre pa-role, di chi fa edifici strambi perché può farlo, e si legittima come artista cui tutto è concesso. Così, la decostruzione è stata da un la-to sminuita a vago riferimento concettuale da riciclare a piacimen-to, e dall’altro trasformata nello stile più elitario e snob.

Derrida era forse consapevole di questo rischio: perché altri-menti prestarsi alla difficile pratica del confronto diretto, inve-ce che del saggio compiuto? Perché evidenziare la propria “in-competenza” così spesso, se non per evitare la manifesta tenden-

4. Tanto che, se i testi sulla decostruzione sono ben presenti in ogni raccolta teorica di carattere storico, in opere come The Metapolis Dictionary of Advanced Architecture (a cu-ra di M. Gausa, V. Guallart, W. Müller, F. Soriano, F. Porras, J. Morales, ACTAR, Barcelo-na 2003), “dizionario” che raccoglie una lunga lista di lemmi operativamente fondamentali per l’architettura contemporanea, non esiste riferimento né alla decostruzione né a Derri-da: evidentemente, già nel 2003 gli autori li consideravano temi superati, passati, privi del-la forza o degli spunti necessari a ulteriori sviluppi.

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za alla semplificazione dei progettisti? Seppure invocato come deus ex machina, Derrida si era in fondo sottratto al ruolo di gu-ru che gli si voleva affidare. Ma proprio per questo è diventato presto preda degli affamati architetti: affamati di legittimazione, nel vuoto postmoderno delle perdute teorie.

2. L’Architettura e le architettureDiversi sono gli aspetti della decostruzione che sono rimasti oscuri, ma le ripetute dichiarazioni di incompetenza derridiane risuona-no come un monito a non considerare definitive neppure quelle preliminari esplorazioni. O meglio, come un invito a decostruirle: partendo magari dall’ambito in cui si sono sviluppate.

Derrida vedeva con favore lo sviluppo delle “scritture di architettura”,5 del loro crescente mercato, della loro autonomia, del loro peso nell’accademia. E infatti i dialoghi avvenivano in questo tipo di consessi: convegni, mostre, riviste. L’unico pro-blema è che la quasi totalità di quanto viene costruito sul piane-ta ignora completamente questi consessi: altri sono i soggetti che operano, ovunque. Si apre allora una questione che è quasi una scelta di campo: cosa è l’architettura? È quella materia accade-mica su cui i dotti si interrogano, o il costruito che ci circonda – o potrebbe circondarci? E, di conseguenza, chi fa l’architettu-ra? Quell’élite culturalmente elevata, che evita gli incarichi meno prestigiosi e aspira agli onori della Storia – o almeno della crona-ca; o piuttosto quei milioni di variegati soggetti progettanti che producono il mondo?

È una scelta insidiosa: perché oppone un’idea di architettura fatta di singolarità e Opere d’arte a una fatta di edifici e di pezzi di città. Un’opposizione solitamente ridotta alla distanza tra ar-chitettura (laudativamente intesa) e edilizia (dispregiativamente intesa), ma che in effetti potrebbe e forse dovrebbe essere inter-pretata come differenza tra Architettura e architetture: attraverso cioè il dualismo tra straordinario e ordinario, vera coppia oppo-

5. J. Derrida, “A proposito della scrittura” (1993), in Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, trad. di H. Scelza e F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, p. 223.

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Margini dell’architettura. Derrida e l’architettonica dell’architettura

GERRIT WEGENER

Nella primavera del 1985 Jacques Der-rida venne “gettato nell’architettura”1 da Bernard Tschumi: Tschumi chiamò

Derrida, “l’architettura chiamò la filosofia”2 e la filosofia rispose. Derrida cominciò la collaborazione con Peter Eisenman grazie al coinvolgimento nel progetto di Tschumi per il Parc de La Villet-te di Parigi. Tra la metà degli anni ottanta e i primi anni novanta incontrò molti architetti d’avanguardia e partecipò a un paio di dibattiti sull’architettura e l’urbanistica. La sua ultima apparizio-ne in pubblico sull’architettura e la pianificazione urbana ebbe luogo in Giappone, a Yufuin, nel 1992. Durante questo secondo convegno ANY,3 denominato Anywhere, si ritrovò assieme a Pe-ter Eisenman, Daniel Libeskind e qualche altro architetto. Per Derrida questa fu la fine di un “matrimonio sfortunato”.4 Retro-spettivamente, ebbe l’impressione di non essere stato capito. An-

Gerrit Wegener, architetto e storico dell’arte. La sua ricerca presso la Technical Univer-sity di Berlino verte sulla scrittura e sull’architettura nell’opera di Jacques Derrida. Altri progetti di ricerca riguardano il rapporto tra filosofia, architettura e teoria. Da architetto è coinvolto nella ricostruzione e nel restauro di edifici storici, inclusa la Neue Nationalgale-rie di Mies van der Rohe a Berlino.

1. J. Derrida, “Jacques Derrida. Invito alla discussione” (1992), in Adesso l’architettura, trad. di F. Vitale e H. Scelza, Scheiwiller, Milano 2008, p. 153.

2. Ibidem.3. Si tratta di una serie di dieci incontri annuali organizzati dal gruppo newyorkese

Anycorporation fondato da Peter Eisenman. [N.d.T.]4. J. Derrida, Déconstruction philosophie, déconstruction architecture, IMEC, Fonds

Jacques Derrida, A1.3/04.

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che se fin dall’inizio aveva dichiarato di non avere alcun titolo né competenza in architettura, è giunto probabilmente il momen-to oggi di riesaminare il suo pensiero sull’architettura. Rifletten-do sull’architettura da una posizione esterna, ha affrontato l’ar-gomento partendo dai suoi margini.

Derrida si è sentito “gettato nell’architettura […] piuttosto che nello spazio architetturale”.5 Cominciò a lavorare con gli ar-chitetti per la prima volta nel 1985, ma era consapevole dell’im-portanza dell’architettura che circonda tutti noi e in particola-re di quella che, in modo ben più importante, abita il linguag-gio. Anche se l’architettura non è mai diventata il campo di inda-gine principale di Derrida, il suo interesse per l’architettura può venir rintracciato fin dai suoi primi testi. Fu la sua riflessione sul linguaggio che lo portò a occuparsi di architettura. Ha mostra-to che l’architettura è spesso più di una semplice metafora: con-siderando l’architettura come una metonimia, ha scoperto che a volte c’è più architettura in una poesia che in un edificio.6 Sullo sfondo dei suoi primi lavori sull’architettura intesa come “la me-tonimia più potente”,7 interpretò il proprio ruolo nel rapporto con Eisenman come quello di chi pone le domande, offrendo un contributo all’architettura senza fare architettura. Eisenman ac-cettò questo ruolo: dal suo punto di vista, “le domande di Derri-da sembravano disegnare una cornice provocatoria per il pensie-ro dell’architettura”.8

Costruendo una cornice di pensiero mediante la posizione di domande da un punto di vista esterno all’architettura ma interno allo spazio architetturale, Derrida sembrerebbe non averne mai varcato la soglia [the margin of architecture itself]. Eppure, para-frasando il titolo di uno dei suoi libri più importanti, è proprio sui margini dell’architettura che tutto si gioca.9

5. Id., “Jacques Derrida. Invito alla discussione”, cit., p. 153.6. Id., “A proposito della scrittura. Jacques Derrida e Peter Eisenman” (1993), in

Adesso l’architettura, cit., pp. 219-242.7. Id., “Maintenant l’architecture” (1986), in Adesso l’architettura, cit., p. 121.8. P. Eisenman, Post/EL Cards: A Reply to Jacques Derrida, “Assemblage”, 12, 1990,

pp. 14-17.9. J. Derrida, Margini della filosofia (1967), trad. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997.

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Per cominciare ad analizzare più da vicino questa cornice dob-biamo chiederci come si definisce un margine e che cosa invece un margine definisce. Da una parte, il margine può venire inter-pretato come il limite esterno di qualcosa e, in fin dei conti, co-me un confine; dall’altra, diventa il punto di partenza, una porta aperta per comprendere il funzionamento interno di un sistema. Proprio dal margine si può avere la vista migliore di qualcosa.

Il margine diventa uno dei centri su cui si focalizza l’atten-zione di Derrida. A proposito della possibilità della dissoluzione dell’architettura, Derrida dichiarò di amare le “parole forti” che cominciano, soprattutto, con de- o dis-.10 Nel campo dell’archi-tettura questo amore venne portato a un livello più alto. Tschu-mi stesso scrisse un saggio intitolato Disjunctions.11 Eisenman in-trodusse i termini discontinuità, ricorsività e autosomiglianza co-me principi fondamentali dello scaling con l’obiettivo di sbaraz-zarsi della fissazione antropocentrica dell’architettura.12 Coop Himmelb(l)au coltivò il sogno di un’“architettura aperta” in un “mondo esausto”,13 e scrisse The Future of Splendid Desolation (1978) e The Dissipation of Our Bodies in the City (1988). Daniel Libeskind illustrò il suo progetto per il Museo ebraico di Berli-no in quanto costituito “da due linee spezzate” che “diventano autonome”,14 e dichiarò anche che “l’architettura ha raggiunto la sua fine”.15

Derrida conosceva e aveva rapporti personali con tutti gli ar-chitetti citati. Gli erano stati tutti presentati nel 1988 da Mark

10. Id., “Point de folie – maintenant l’architecture” (1986), in Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II, p. 121.

11. B. Tschumi, Disjunctions, “Perspecta”, 23, 1987, pp. 108-109.12. P. Eisenman, “Moving arrows, eros and others errors”, in AA.VV., Precis 6: The

Culture of Fragments. Notes on the Question of Order in a Pluralistic World, Columbia University, New York 1987, pp. 139-144.

13. Himmelb(l)au, “Das Fassen von Architectur in Worte”, in G. Kähler (a cura di), Dekonstruktion? Dekonstruktivismus? Aufbruch ins Chaos oder neues Bild der Welt?, Braunschweig, Wiesbaden 1990, pp. 105-109.

14. D. Libeskind, Between the Lines: Extension to the Berlin Museum, with the Jewish Museum, “Assemblage”, 12, 1990, p. 49.

15. Id., “The pilgrimage of absolute architecture”, in Countersign, Rizzoli International, London 1991, p. 38.

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Contrappunto al Parc de La Villette

ANDREA CANCLINI

Nonostante la definizione negativa che si trova in Lettre à un ami japonais, in cui Derrida precisa che “comunque,

e nonostante le apparenze, la decostruzione non è né una ana-lisi né una critica”,1 che la “decostruzione non è un metodo e non può essere trasformata in metodo”2 e che “bisognerebbe an-che precisare che la decostruzione non è neanche un atto o una operazione”,3 specialmente nella disciplina architettonica il de-costruzionismo ha subìto le sorti di un “-ismo” vero e proprio, a volte nella forma della strumentalizzazione più che per il suo contenuto formale o per la sua portata teorica, avendo tale ter-mine definito una corrente di poetica progettuale ed essendo sta-to utilizzato per descrivere il lavoro di architetti anche molto di-versi tra loro, privilegiando gli esiti formali e i riferimenti alla lin-guistica più che il processo progettuale.

Ciò risulta evidente dall’elenco dei sette architetti invitati a partecipare all’esposizione Deconstructivist Architecture, organiz-zata da Philip Johnson e Mark Wigley e tenutasi dal 23 giugno al 30 agosto 1988 presso il Museum of Modern Art di New York,

Andrea Canclini, laureato in Architettura al Politecnico di Milano e in Filosofia all’Univer-sità di Perugia, attualmente sta terminando il dottorato di ricerca al Politecnico di Torino. Ha partecipato a convegni e pubblicato in Italia e all’estero.

1. J. Derrida, “Lettera a un amico giapponese”, in Psyché. Invenzioni dell’altro (2002), trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II, p. 10.

2. Ivi, p. 11.3. Ibidem.

Perché siamo ossessionati dalle esperienze folgoranti di Artaud, Genet, Bataille o Mallarmé? […] Perché queste eccezioni sono al tempo stesso delle saette, che illuminano il campo da cui si sono eccettuate.J. Derrida, Artaud et ses doubles

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per indicare l’uscita dal pastiche storicista del postmoderno, pur nelle difficoltà di darne una definizione. Anche se è vero che tut-ti i progetti in mostra sono accomunati da una sorta di supera-mento delle modalità della composizione classica, dai riferimenti di natura storica e dal tentativo di giocare con opposizioni di ti-po formale. Qualche mese prima, la Tate Gallery di Londra ave-va organizzato il primo International Symposium on Deconstruc-tion, in cui oltre alle sezioni sulle varie arti visive, una parte ve-niva dedicata all’architettura e un’altra alle questioni filosofiche; essa darà vita al numero speciale di “Architectural Design”4 inti-tolato Deconstruction in Architecture, curato da Charles Jencks.

Rapidamente, così, il dibattito architettonico inizia a conside-rare il decostruttivismo come nuovo argomento. È lo stesso Der-rida a chiarire come la decostruzione rifiuti di essere definita en-tro un “-ismo”: “Estranea al postmodernismo e al decostruzioni-smo, la decostruzione anzi serve a mettere in questione la stessa logica che presiede alla formazione degli ‘ismi’ e dei ‘post’”.5 E ancor più precisamente: “La decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discor-so, un atto o una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo oggi […]. La decostruzione è l’evento”.6 La stessa posizione sarà assunta anche da Peter Eisenman, che rifiuterà sempre di essere considerato un architetto decostruttivista, il fondatore del deco-struttivismo, un appartenente a un gruppo seppur eterogeneo di progettisti decostruttivisti.

Rifiutando ogni percorso a ritroso dal significante al significa-to, come immanente apertura della presenza a sé, Derrida ritiene che non esista nessuna presenza originaria che viene alla realtà contaminandosi e/o materializzandosi nel corpo del significan-te. Spazio di iscrizione, lo definisce Derrida in De la grammatolo-gie, dove precisa: “Occorre pensare ora che la scrittura è a un sol

4. Cfr. “Architectural Design”, vol. 58, 1988.5. G. Leghissa, “Derrida e la questione della radicalità”, in J. Derrida, Come non essere

postmoderni: post, neo e altri ismi (1990), a cura di G. Leghissa, trad. di G. Santamaria, Medusa, Milano 2002, p. 7.

6. Ivi, p. 45.

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tempo più esterna alla parola non essendo la sua ‘immagine’ o il suo ‘simbolo’, e più interna alla parola che è già in se stessa una scrittura”.7

Anche la disciplina dell’architettura, quindi, non richiedereb-be nessuna identificazione precedente o un’ermeneutica che ne faccia elemento di un discorso; l’architettura non muove da un momento precedente, da un disegno in qualche modo a priori, un metafisico o mitico prima. È piuttosto un gesto che inventa le sue possibilità di senso nel qui-e-ora, possibilità di senso tutte immanenti ai nessi e ai riferimenti che lo informano nel suo ac-cadere. Le sue possibilità di senso sono eccentriche rispetto alle codificazioni tradizionali: questo movimento di uscita dai canoni nasce dalla necessità di un allontanamento dalle costrizioni me-tafisiche in cui l’architettura si trova per sua costituzione, estra-nea ai codici, ai repertori, alle accondiscendenze rispetto al gu-sto. Essa si produce fuori dal racconto: si articola fuori dal di-scorso, non accade nella relazione husserliana “significato-voce- scrittura” (che nella disciplina architettonica si determina secon-do la modalità “presenza-figura-uso”). Il progetto segna un acca-dere, l’oggetto architettonico si pone in tutto il suo essere even-to materiale, è topologia dell’evento, crea senza alcuna relazione gli effetti immanenti legati al suo accadere senza che siano asse-gnati ad alcunché di precedente, costituisce l’evento-monumen-to della sua stessa modalità di essere nello spazio, con le sue ne-cessità materiali: restaura il carattere originario e mai ripetitivo del segno.

Qui sta un primo punto di sostanziale diversità tra Derrida e Eisenman: per il filosofo la decostruzione è una disciplina che non si esercita mai sugli oggetti, tantomeno sui testi, ma opera una chiarificazione sulla natura già da sempre decostruita dei te-sti, in cui l’idea di progresso non trova luogo, mentre l’architet-to compie sugli oggetti architettonici un nuovo modo della dislo-cazione.

7. J. Derrida, Della grammatologia (1967), a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1998, p. 72.

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Materiali 2

Riportiamo qui la riproduzione fotografica della lettera che Derrida scrisse a Peter Eisenman il 30 maggio 1986 e che contiene il disegno – tracciato da Derrida stesso – del “setaccio” di cui parla Platone nel Timeo, oggetto poi delle rielaborazioni di Eisenman per il progetto del giardino pensato (e mai realizzato) per il Parc de La Villette. La lettera è contenuta in J. Kipnis, T. Leeser (a cura di), Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, Monacelli Press, New York 1997, pp. 182-185. La traduzione italiana, che pubblichiamo di seguito, è ripresa da Psyché. Invenzioni dell’altro, trad. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, vol. II, pp. 134-136.

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“Ecco una proposta per il nostro Choral Work…” Lettera a Peter Eisenman (1986)

JACQUES DERRIDA

30 maggio 1986Mio caro Peter,

ecco una proposta per il nostro Choral Work. Non so se me-rita di essere considerata. Quando ci vedremo potremo parlarne più nel dettaglio. Rischio questa improvvisazione qui, in un aero-porto e nell’aereo che mi riporta a Parigi (manoscritto annesso), dopo averne accennato a Thomas l’altra sera a cena (a proposito, grazie per il cofanetto di Moving Arrows… è meraviglioso, dav-vero toccante, un bellissimo regalo).

Lei si ricorderà che cosa avevamo pensato insieme a Yale: che per finire io “scriva”, se così si può dire, senza una parola, un pez-zo eterogeneo, senza origine né destinazione apparente, come un frammento venuto, senza più far segno verso alcuna totalità (per-duta o promessa), a rompere il cerchio della riappropriazione, la triade dei tre siti o dei tre tempi (Eisenman-Derrida, Tschumi, La Villette), in breve, la totalizzazione, la configurazione ancora trop-po storica, quale si offrirebbe a una decifrazione generale. E tutta-via ho pensato che, senza dare alcuna certezza al riguardo, qualche metonimia staccata, enigmatica, ribelle alla storia dei tre siti e an-che al palinsesto, dovrebbe “richiamare”, casualmente [par chan-ce], se la si incontrasse, qualche cosa – la più incomprensibile – di chora. Per me, oggi, la più enigmatica, quella che resiste e provoca di più, nella lettura che cerco di fare del Timeo, è, come avrò mo-do di riparlarle, l’allusione alla figura del setaccio (plókanon, arne-se o corda intrecciata, 52e), alla chora come setaccio (sieve, sift, mi piace anche questa parola inglese). C’è, nel Timeo, una allusione

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Nota bibliografica. Derrida sull’architettura

1985Deconstruction in America: An Interview with Jacques Derrida

(con J. Creech, P. Kamuf, J. Todd, Miami, aprile 1984), “Criti-cal Exchange”, 17, pp. 1-33; trad. di A. Carosso, “La decostru-zione in America: intervista a Jacques Derrida”, in A. Carosso (a cura di), Decostruzione e\è America. Un reader critico, Tirre-nia, Torino 1994.

1986“Point de folie – maintenant l’architecture”, in B. Tschumi, La

case vide. La Villette 1985, The Architectural Association, London, pp. 4-19; ripreso in AA files, 12, The Architectural Association, London, pp. 65-75; poi in Psyché. Inventions de l’autre, vol. II, Galilée, Paris 1987; trad. di. R. Balzarotti, Psy-ché. Invenzioni dell’altro, vol. II, Jaca Book, Milano 2009, pp. 107-125.

Architetture ove il desiderio può abitare (intervista con E. Meyer, Parigi, febbraio 1984), “Domus”, 671, pp. 17-24.

“L’aphorisme à contretemps”, in D. Mesguich et al., Roméo et Ju-liette. Le livre. Gervais Robin d’après William Shakespeare, Pa-piers, Paris, pp. 24-39; poi in Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., “L’aforisma in contrattempo”, pp. 153-169.

“[Séquence 2 – Scène 2]” (conversazione con P. Eisenman in occasione della presentazione del progetto Roméo et Juliette per la III Biennale internazionale di architettura, 8 novembre 1985), “Cahiers du CCI”, 1 (numero monografico: Architecture: