Attualità lacaniana n. 12/2010 - slp-cf.it · Dalla divisione alla scissione, di Fabio Galimberti...
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ATTUALITÀ LACANIANA
rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
#12/2010 Il corpo fuori posto
at tualità l ac anianarivista dell a Scuol a L acaniana di Psicoanalisi
#12/2010 Il corpo fuori posto
La vasta configurazione del disagio connesso alla nostra
organizzazione sociale propone spesso alla psicoanalisi scenari
spaesanti nei quali trova con difficoltà le condizioni
essenziali della sua azione. Essa constata l’emergenza di un
corpo fuori posto, irreperibile dove i linguaggi convenzionali
suggeriscono di cercarlo, propenso invece ad apparire dove
non lo accoglie, né una parola che lo legittimi, né uno spazio
in cui esso non appaia abusivo. Autolesionismo, anoressia,
bulimia, debilità, segregazione, alludono ad un corpo perduto
o posseduto solo attraverso immaginazioni che di fatto lo
disarticolano come nel caso estremo della schizofrenia.
Apriamo il numero con una sezione che assume “ il corpo
fuori posto” come tema centrale secondo varie prospettive,
ma il lettore avvertirà che tale traccia accomuna anche
molti altri contributi presenti nella rivista.
sommarion. 12 /2010
L’agalma della Scuola, di Paola Francesconi� 7
parte i – il corpo fuori posto
La disarticolazione del corpo nella schizofrenia, di Maurizio Mazzotti� 11
Debilità, o il potere dell’ immaginario, di Nicola Purgato� 21
Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza � 53del soggetto, di Giovanna Di Giovanni
Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. � 61Anoressia e silenzio de lalingua, di Giuliana Grando
Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi, di Edy Marruchi� 71
parte ii – dalla parte dell’inconscio, torino 2010
Dalla divisione alla scissione, di Fabio Galimberti� 113
L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore, di Alide Tassinari� 121
Lessico famigliare e inconscio, di Vicente Palomera� 127
Il “Che vuoi?” nella mia analisi, di Raffaele Calabria� 135
parte iii – approssimazioni al reale
Il tempo nella cura, di Carlo Viganò� 143
Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? � 155di Carmelo Licitra Rosa
parte iv – testimonianze di passe
L’uomo retto, di Sergio Caretto� 173
parte v – new lacanian school, ginevra 2010
Il timone e il femminile, di Gil Caroz� 189Figlia, madre e donna nel XXI secolo, di Pierre-Gilles Gueguen� 195
parte vi – emergenze lacaniane
Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere, � 203di Stefania FerrandoPolitica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi � 217e politica, di Nicolò FazioniComplessità e Psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni � 237di possibilità della prassi di cura, di Giuseppa Rociola
parte vii – letture
Maurizio Mazzotti, Prospettive di psicoanalisi lacaniana, � 273Borla, Roma 2009, di Carmelo Licitra Rosa
Chiara Cretella e Alessandro Russo (a cura di), � 277Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale, CLUEB, Bologna 2009, di Alide Tassinari
Matteo Bonazzi, Scrivere la contingenza. � 283Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan, Edizioni ETS, Pisa 2009, di Adone Brandalise
attualità lacanianarivista della Scuola Lacaniana di PsicoanalisiVia Daverio, 7 – 20122 Milano
direttorePaola FrancesconiVia Agnesi, 3 – 40138 Bologna
comitato scientificoMaria Bolgiani, Emilia Cece, Domenico Cosenza, Carmelo Licitra Rosa, Céline Menghi, Alberto Turolla
redazioneErminia Macola (coordinatrice), Matteo Bonazzi, Fedra Bucelli, Silvia Morrone, Caterina Paderni, Elda Perelli, Alide Tassinari
progetto graficoGrafCo3
impaginazioneinsolitiignoti
I testi devono essere inviati a Paola Francesconi [email protected]
L’immagine di Hans Bellmer che appare in copertina può essere protetta da copyright, vi siamo grati se ci avvertite.
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attualità lacaniana n. 12/2010
l’agalma della scuola
di Paola Francesconi
La Scuola, per noi lacaniani, non è un elenco di praticanti, che, in sé e per sé, non contiene, come ogni elenco, nulla di agalmatico. L’agalma è l’effetto di un’operazione che accoglie una domanda, ma mette al lavoro il desiderio che vi corre sotto, fino a produrre quella sorta di metafora dell’amore che è il transfert di lavoro. Il transfert immaginario, che può partire dalla domanda di un’appartenenza, diventa transfert di lavoro che cerca nella Scuola, proprio in virtù della sua esistenza, una trasfor-mazione del particolare di ciascuno in universale. Jacques-Alain Miller ci ha insegnato a riconoscere nella passe la modalità della Scuola di met-tere a disposizione degli altri il nucleo più profondo e intimo dell’elabo-razione di una psicoanalisi personale, contribuendo così, come egli dice, al bene comune. Questo è un versante, ed è un modo di intendere il transfert di lavoro in atto.L’agalma, il bene comune, di cui la Scuola è il contenente, e su cui essa veglia affinché non subisca il declino “naturale” a palea, è la psicoanalisi stessa. Questo non vuol dire che la Scuola sia l’unico modo di intendere la psicoanalisi, essa non ne è il sinonimo, ma il luogo di “cura”, questo sì. La Scuola è il mezzo per farla crescere, per spingere altri, anche al di fuori del proprio insieme, a interessarsene, a lavorare per la sua esisten-za. La Scuola è lo strumento di obiezione a che la psicoanalisi diventi palea, a che il bene comune diventi godimento solitario e in cortocircu-ito rispetto al legame di parola.L’altro versante in cui intendere il transfert di lavoro in atto è la promo-zione dello scritto, su cui Lacan ha messo sempre l’accento, già a livello del suo Atto di Fondazione dell’Ecole Freudienne. Lo scritto è un modo di mettere in forma un sapere e, successivamente, di metterlo a dispo-
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sizione della comunità, è un altro modo di trasformare il particolare di ciascuno in universale. Lacan ha promosso gli scritti, al punto da inti-tolare così la sua pubblicazione per eccellenza, mettendo, in tal modo, l’accento sullo scritto in quanto parte di un insieme, e non insieme esso stesso, come può esserlo un manuale o un testo monografico. Scilicet, la rivista che egli fondò, inaugurò una forma di scrittura plurale, dove non contava l’autore, ma la cosa particolare che ciascuno metteva lì a disposizione della ricerca, ed era quello il vero nome della sua pro-duzione. Se tale suggerimento, indubbiamente radicale, non ha avuto poi un seguito, è forse perché può essere sembrato eccessivo castigare così il principio di autore, in un’epoca in cui la nominazione ha una sua rilevanza. Tuttavia, noi possiamo conservarne la logica, quella di promuovere studi e lavori fino a che possano arrivare allo scritto, come modalità per dare impulso alla psicoanalisi.Attualità Lacaniana cerca, da questo numero, di ritrovare il filo di que-sta logica, ora che si fa sempre più necessario operare al servizio di una agalmatizzazione della psicoanalisi, per resistere alla sua degradazione contemporanea. Nello scritto, ciascuno mette il proprio particolare al vaglio del lettore nell’intento che ciò possa contribuire ad apportare il proprio grano all’universale. Abbiamo chiesto contributi non solo ad appartenenti alla Scuola, ma anche ad esterni ad essa, attendendo anche da coloro che vi scrivono, pur non essendo della Scuola, il controllo su ciò che si produce in essa. È qui che l’universale della Scuola non è un tutto, in quanto accoglie e si rivolge, nella propria produzione, anche a non analisti, anche a chi, a diverso titolo, è mosso da interesse per la psicoanalisi come moderno agalma, come sapere non esclusivo, non chiuso in sé, non autoreferenziato, ma in giacenza per essere trasforma-to in bene comune.
il corpo fuori posto
parte prima
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attualità lacaniana n. 12/2010
La disarticolazione del corpo nella schizofrenia
la disarticolazione del corponella schizofrenia
di Maurizio Mazzotti * 1
Che ne è del corpo in un soggetto schizofrenico? La teorizzazione di Lacan, in par-ticolare la sua elaborazione dell’oggetto a, permette di collocare al giusto posto le parole del soggetto schizofrenico fino a coglierne “ l’ ironia suprema che sottolinea l’ impostura del discorso”. Wolfson e Schreber testimoniano qui dei diversi effetti del mancato inserimento del corpo nel discorso e delle strategie messe in atto per arginare il devastante godimento dell’Altro.
Parole chiave: schizofrenia, oggetto a, impostura del discorso
la schizofrenia: il corpo disinserito dal discorso
La questione clinica del corpo rappresenta il tema peculiare della schi-zofrenia, già dal tempo in cui Kraepelin, che non parlava di schizofre-nia ma di dementia praecox, riteneva che la sindrome da influenzamento corporeo fosse uno dei tratti differenziali di questa entità morbosa, da escludere nella paranoia in cui il soggetto non si sente riguardato nel suo corpo o negli organi del suo corpo.Lacan ha anch’egli sottolineato questo tratto schizofrenico quando ne situa una preclusione specifica. Il soggetto schizofrenico, egli dice, non riesce a servirsi dell’ausilio offerto dalla struttura del discorso. È
* Maurizio Mazzotti è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Bologna; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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una preclusione che, possiamo dire, disinserisce il corpo schizofrenico dal discorso. Quest’ultimo si centra attorno alla “produzione” dell’og-getto a ad opera del significante, cioè attorno all’estrazione dal corpo dell’oggetto più di godere, alla sua messa “fuori corpo” e contempora-neamente al suo coordinamento al sembiante fallico. Come ha precisato Jacques-Alain Miller il “fuori corpo” 1 va inteso nel senso di “fuori da” ma ciononostante legato al corpo. È la posizione dell’oggetto in una zona di exsistenza che Lacan individuava parlando della libido-organo, in cui l’oggetto non è completamente esterno al corpo, non è alla deriva senza più alcun legame con il corpo.Il discorso estrae l’oggetto dal corpo e lo situa in questa zona di exsi-stenza. In tal modo il discorso ritaglia sul corpo le zone erogene che strutturano il godimento pulsionale attorno all’oggetto separato, con-temporaneamente all’operazione in cui la simbolizzazione separa il sem-biante fallico dall’organo del corpo, facendolo diventare l’organo “fuori corpo” per definizione, cioè investito della significazione generale di castrazione che permea ogni rapporto con l’oggetto corporeo.Nella dottrina lacaniana la schizofrenia non trova un ausilio in questa complessa regolazione del rapporto tra l’oggetto e il corpo ad opera del discorso, regolazione tipicizzata attorno alla significazione di castrazio-ne del sembiante fallico.Nella schizofrenia, al suo posto, troviamo invece il formicolare enig-matico di una “generalizzazione” 2 dell’essere fuori corpo degli organi, come se, in mancanza della separazione iniziale prodotta dal discorso, gli organi del corpo tendessero ad assumere tutti questa dimensione di organo staccato dal corpo e senza collegamento alcuno alla significa-zione fallica. La mancata operatività simbolica del discorso produce la moltiplicazione indiscriminata degli organi. Nella schizofrenia, anche fenomenologicamente, ci troviamo confrontati alla generalizzazione
1. J.-A. Miller, “L’invenzione psicotica”, in La Psicoanalisi, n. 36, Astrolabio, Roma 2004, p. 17.2. Ibidem, p. 15.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 13
della dimensione “fuori corpo” in cui vengono coinvolti indiscrimina-tamente tutti gli organi, come se essi fossero calamitati in questa zona di exstimità e la conseguenza è che questa generalizzazione fuori corpo degli organi induce un impoverimento libidico e del sentimento vitale dell’immagine corporea, come dimostra l’incidenza dell’immagine del corpo cadavere, pura forma mortificata che Lacan ha chiamato regres-sione topica allo stadio dello specchio 3.
la macchinizzazione schizofrenica: una supplenza al disinserimento del corpo dal discorso
In tal senso più che un “corpo senza organi”, secondo la molto citata espressione di Deleuze e Guattari 4, quello dello schizofrenico è un “corpo senza discorso” 5. Kraepelin con un’analogia diceva che è come un’orchestra senza direttore, emblema di un corpo affetto da un disin-serimento entropico dal punto di capitone del significante padrone che avrebbe reso possibile applicare la griglia linguistica del discorso come supporto della simbolizzazione del corpo e dei suoi organi. Al posto di questa simbolizzazione troviamo invece la produzione della cosiddetta fenomenologia clinica della macchina influenzante, la cui elaborazio-ne ha storicamente contrassegnato l’implicazione psicoanalitica nello stesso concetto di schizofrenia. La macchinizzazione schizofrenica del corpo supplisce in modo delirante al disinserimento del corpo e dei suoi organi dall’azione strutturante del significante padrone. È un ampio ventaglio di fenomeni che vanno dalle trasformazioni più assurde degli organi all’innesto nel corpo di giunture, leve, cardini, tubi, fili allo scopo di stabilire un allacciamento degli organi al corpo, di farli stare
3. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 564.4. G. Deleuze e F. Guattari, L’Antiedipo, Einaudi, Torino 1975.5. J.-A. Miller, “Schizofrenia e paranoia”, in La Psicoanalisi, n. 25, Astrolabio, Roma 1999, p. 36.
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collegati acuendone però il tratto di pervasività e di influenzamento esteriore che rende infernale il rapporto con il corpo macchinizzato.Questo specifico disinserimento schizofrenico è tuttavia qualcosa di ben diverso dall’estensione contemporanea del corpo macchina attra-verso i mezzi più disparati, non ultimi i gadgets di raffinata tecnologia, offerti come oggetti più di godere dall’attuale economia del godimento che spinge verso la realizzazione di un ampliamento sempre maggiore dell’idea di potenza vitale e sessuale del corpo, ampliamento che, non a caso, affascina il soggetto nevrotico per l’uso che ne può fare nel suo fantasma fallico come strumento del godimento.Nel capitolo XI 6 delle sue “Memorie” Schreber descrive minuziosamen-te le trasformazioni a cui sono andati incontro gli organi del suo corpo. Egli inizia col descrivere la trasformazione del suo corpo in quello di una donna di cui ha oramai acquisito la certezza che l’ordine del mondo la richieda e a lui non resti altra scelta che conciliarsi con questa idea. È la soluzione che consentirà a Schreber di non restare fissato all’im-magine del “cadavere lebbroso che conduce un cadavere lebbroso”, dal momento che, come ha precisato Lacan, è in quanto donna che manca a tutti gli uomini che egli potrà riposizionarsi nella neometafora fallica che gli assicura un’identificazione con il suo essere di vivente, che nello sviluppo delirante assurgerà a generatore di una nuova umanità.Questo è il capitolo in cui è Schreber “schizo” che parla. Qui non c’è organo del corpo di cui Schreber non descriva la trasformazione, le parti sessuali, i polmoni, le costole, lo stomaco, la laringe, l’esofago, il midollo spinale, le ossa, i muscoli delle palpebre e avanti così, nella sua “disana-tomia” schizofrenica. Per ciascuna trasformazione c’è un miracolo divino che ne è la causa. In particolare la testa è sottoposta ad uno dei miracoli più “abominevoli” il “miracolo per allacciare la testa”, in cui i “piccoli diavoli con una specie di manovella a vite manovrata appositamente schiacciavano la mia testa come fa un torchio in modo che la mia testa
6. D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974, p. 166.
Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 15
assumeva di tanto in tanto una forma prolungata quasi come una pera”. 7 Ritroviamo qui esattamente gli elementi del macchinismo influenzante, manovelle e viti per “allacciare”, cioè nella supplenza delirante di un collegamento, ma ne vediamo altresì il limite nella risultante della “testa a pera”, particolare in cui si sigla il tratto umiliante e derisorio di questa operazione e che consegna il corpo ad una decadenza solo parzialmente limitata dalla successiva trasformazione in donna.Tausk citava il caso di una giovane donna 8 schizofrenica che sviluppava la sindrome di influenzamento attorno ad una macchina elettrica, coi suoi fili, i suoi collegamenti, ma soprattutto con la pervasività delle sue emissioni elettromagnetiche, e questa macchina, diceva la paziente, aveva la stessa forma del suo corpo, a parte qualche piccola differenza. Non è l’immagine del corpo che trasmette l’idea della vita del corpo, ma l’immagine del corpo del tutto esteriorizzato nella macchina per influenzare, è la macchinizzazione del corpo in quanto “fuori corpo” esso stesso, i cui organi hanno funzioni non previste da alcun discorso che simbolizzi queste stesse funzioni, se non funzioni di godimento pervasivo e nocivo.
wolfson “schizo”
Nel caso di Louis Wolfson, il malato schizofrenico, come egli stesso si definisce, il disinserimento del corpo e dei suoi organi dal discorso è contrassegnato radicalmente da una perturbazione della stessa struttura di bordo con cui si è fissata fin dall’inizio la pervasività della voce della madre, penetrante nelle sue orecchie con le parole della lingua inglese.È noto, dal primo fenomenale libro di Wolfson, Le schizo et le langues 9,
7. Ibidem, p. 176.8. V. Tausk, “Sulla genesi della ‘macchina influenzante’ nella schizofrenia”, in Scritti psicoanali-tici, Astrolabio, Roma 1979, p. 158.9. L. Wolfson, Le schizo et les langues, Gallimard, Paris 1970.
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scritto direttamente in lingua francese, come Wolfson fosse impegnato in un’incessante lavoro di traduzione omofonica delle parole delle lin-gua inglese in altre lingue, dal francese al russo, passando per il tedesco e così via. Wolfson è in collegamento permanente, via radio, via dizio-nari, con il pluralismo delle lingue del cosmopolitismo newyorkese. È collegato allo sciame delle lingue. Egli lavora questo sciame de lelingue attraverso un’incessante traduzione omofonica che gli consenta di poter ritrovare in primis il suono e in subordine il senso della lingua materna trasposto però in un’altra lingua, che possa ripararlo e separarlo dalla voce della madre, dall’“unisono” che la voce inglese della madre fa risuonare nel suo corpo come fosse esso stesso un’ampia cassa di riso-nanza del godimento invasivo di quest’ultima.Questo lavoro di traduzione è, fondamentalmente, decostruzionista, come la schizofrenia è sempre decostruzionista al livello di quella che Jakobson avrebbe chiamato “the sound shape” 10, l’ossatura fonica, della lingua. Infatti si tratta di un lavoro che va sempre ad intaccare l’identi-tà fonatoria stessa della lingua materna, fino al punto che in certi casi questa identità è del tutto dissolta. Per esempio, uno dei procedimenti principali messi in atto da Wolfson è lo smembramento della parola inglese in una moltiplicazione di frammenti o fonetici o di parole di altre lingue, con il conseguente sparpagliamento dell’ossatura fonica della lingua. A volte questo procedimento può essere più semplice a volte diventa difficile quando, come è stato notato da Deleuze 11, la traduzione omofonica incontra, non a caso, una difficoltà al livello dell’articolazione delle consonanti, al livello del nucleo più resistente dell’ossatura fonica della parola, e ciò obbliga Wolfson ad un lavoro enorme dove al posto di una sola parola inglese in cui sono presenti un certo numero di consonanti troviamo un vero e proprio sciame di paro-le di altre lingue o di frammenti omofonici di altre lingue, e qui andia-
10. R. Jakobson, La charpante phonique du language, Minuit, Paris 1980.11. G. Deleuze, “Schizologie”, in L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 6.
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mo verso la dissoluzione. Il risultato di questa “traduzione” è spesso grottesco e segna anche il limite della formazione di questa “neolingua” inventata da Wolfson, il limite del suo uso nella misura in cui è qui che si mostra come sia solo Wolfson, e nessun altro, a conoscere le regole di trasformazione e la grammatica di questa nuova lingua. Ciononostante questa traduzione è ciò che gli consente di stendere uno sciame signifi-cante a mo’ di barriera che crei anche un bordo di salvaguardia del suo corpo, con cui ripararsi, separarsi dal godimento dell’Altro materno che mira a trasformarne gli organi in un unico tubo beante.
l’organo tubo
Wolfson ci dice infatti che la madre sembrava
riempirsi di una gioia macabra quando coglieva l’opportunità di iniettare le parole che uscivano dalla sua bocca nelle orecchie del proprio figlio, suo unico possesso come lei gli diceva, sembrando dunque felice di far vibrare il timpano di questo unico possesso e di conseguenza gli ossicini del suo orecchio medio all’unisono esatto con le corde vocali di lei 12.
Nel corpo di Wolfson si destruttura il bordo di separazione degli organi del suo corpo a favore di un “unisono”, di un neorgano che risuona del solo godimento dell’Altro materno, a cui si riduce la sua stessa funzione di organo, e che si estende dalla bocca della madre all’orecchio medio del soggetto, senza soluzione di continuità.Ritroviamo la stessa dimensione di continuità di un organo senza bordo separatore laddove Wolfson parla espressamente dell’organo genitale femminile: “il vero organo sessuale femminile gli sembrava essere più che la vagina un tubo in gomma pronto ad essere inserito dalla mano
12. L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 183, (traduzione nostra).
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di una donna nell’ultimo segmento dell’intestino, del suo intestino”. 13 È dunque un organo tubo che, anche qui, collega due orifizi, due buchi, dalla vagina della donna all’intestino del soggetto, due aperture che non danno possibilità di arginare la perfusione del godimento dell’Altro.Wolfson infatti associa a questa immagine dell’organo tubo quella mac-chinizzata “degli irrigatori dell’orificio posteriore del canale alimentare, del trattamento medico, un po’ troppo vigoroso del clistere, ‘lavage’, som-ministrato da un’infermiera” 14 e come questa immagine di perfusione ha a che fare con il più antico dei suoi ricordi infantili. Un giorno di estate la madre chiamò un’infermiera che gli infilò un termometro nell’ano per provargli la temperatura rettale. Questo atto era stato provocato da un’ingiunzione della stessa che “imperiosamente” aveva detto al piccolo paziente, con il suo fare incantatorio abituale “Girati!” (“Retourne-toi !”) 15, vera e propria ingiunzione sotto la cui spinta tutto il suo corpo diventa organo beante e macchinizzato del godimento dell’Altro in una fissazione che si sviluppa attorno alle visioni del “lavage”, del clistere.
un’ironia suprema
Queste visioni le ritroviamo amplificate e contrassegnate nettamente dal tratto di mortificazione nel secondo libro, Ma mère musicienne est morte 16, scritto dopo la morte della madre per mesotelioma addominale, la cui causa Wolfson, secondo il suo macchinismo corporeo, attribuisce alle emissioni del “tubo” catodico del televisore, l’“assassino diretto” di fronte al quale la madre trascorreva gran parte del suo tempo. La malat-tia che colpisce mortalmente la madre crea in Wolfson le condizioni di una regressione all’immagine del suo corpo cadavere, “che trascino da
13. Ibidem, p. 116.14. Ibidem.15. Ibidem, p. 117.16. L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, Navarin, Paris 1984.
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una stanza all’altra della casa” in un contesto in cui tutta l’umanità è “una grande ammalata.” “Come dice il papa G. Paolo II, l’umanità è una grande malata. Siamo d’accordo e il trattamento elettivo è l’eutana-sia planetaria completa e definitiva” 17. La malattia corporea della madre lo spinge alla generalizzazione del corpo cadavere e con essa alla radica-lizzazione del disinserimento del corpo dal legame sociale. L’unica solu-zione alla pervasività dei godimenti che infiltrano senza sosta gli organi beanti, impossibili da chiudere, a partire dall’orecchio, per passare alla bocca e giungere all’ano, l’unica soluzione che egli vede è la desertifica-zione di questo godimento non solo dal suo corpo ma da tutti i corpi. È il corpo completamento disinserito dal pianeta del vivente.Come strumento di questa soluzione interviene, in continuità con il già nefasto “telecolore Magnavox”, la più devastatrice e mortifera macchina per influenzare:
ben contrariamente che sopprimere le bombe nucleari se ne dovrebbero fabbricare molte di più, di più grandi, radiottive e utilizzarle per rendere impossibile ogni vita su questo pianeta infernale [ ] Checché ne dicano gli idioti antinucleari [ ] la sola vera pace è quella del cimitero, il cimitero planetario! 18
Al contrario di Schreber, che trova una soluzione conciliata e vitale nella trasformazione nel corpo sessuato de La donna che manca agli uomini, per Wolfson la pace è nella cadaverizzazione generalizzata dei corpi, raggiunta attraverso un’opera colossale di lavaggio radioattivo termonucleare, opera di desertificazione separatrice dall’unisono del godimento dell’Altro che perfonde l’organo tubo, a cui si riduce il suo stesso corpo con i suoi organi senza bordo, che non possono chiudersi e che infernalizzano il suo rapporto al corpo.
17. Ibidem, p. 22, (traduzione nostra).18. Ibidem, p. 200.
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Lacan nelle ultime righe della Questione preliminare accosta la teodi-cea di Schreber al dire dell’ “esperienza interiore”: “Dio è una p ( )” 19 in cui Schreber ritrova in sé una parziale giustificazione del vivente. In Wolfson questa giustificazione appare preclusa. Egli giunge infatti, avendolo deciso, non a caso, di dirlo in ebraico, alla formula: “Dio è la bomba!” 20, in cui la stessa pulsione di morte si fa principio separatore.Qui affiora l’ironia suprema dello “studente schizofrenico”, l’ironia che investe direttamente il dire della lingua del Nome-del-Padre, l’ironia che sottolinea l’impostura del discorso a cui lo schizofrenico si rifiuta di identificarsi.
19. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., p. 579.20. L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, cit., p. 170.
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Debilità, o il potere dell’immaginario
debilità, o il potere dell’immaginario
di Nicola Purgato *
La debilità, o oligofrenia, non è un concetto molto frequentato dalla psico-analisi. Eppure Lacan ne parla a più riprese lungo il suo insegnamento e in diversi modi. Ma, a differenza di una concezione deficitaria – prevalente tanto ieri quanto oggi –, egli la situa in rapporto ai quattro discorsi e al campo dell’Altro, dandone una concezione che, anziché appoggiarsi sul deficit, svela un “troppo” che incaglia il meccanismo che sta alla base del simbolico: l’artico-lazione significante.
Parole chiave: debilità, ritardo mentale, olofrase
1. la debilità mentale
La debilità mentale non è mai stata una condizione dell’essere che abbia appassionato gli psicoanalisti, forse perché quando un debile varca la soglia dello studio di un analista costui “viene subito messo alla prova” 1. Si tratta di una prova che giunge da più fronti: da parte dei genitori, pronti ad attendersi il miracolo o rassegnati all’incontro con l’ennesimo specialista (senza mettere in conto il possibile boicottamento di fronte ai primi cambiamenti); da parte dal paziente, spesso noioso e poco loquace in quanto abituato ad essere solo un “oggetto” docile e buono nelle mani dell’Altro; da parte dell’analista stesso, toccato da un
* Nicola Purgato è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regio-ne Veneto; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.1. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 63.
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senso di impotenza nel confrontarsi con qualcuno che “impersona la morte e la negazione nella propria condotta e nei propri discorsi” 2.Questo interesse marginale della psicoanalisi per la debilità, che trova un riscontro anche nel limitato numero di pubblicazioni, ancor più esiguo se si eccettuano i testi in cui la debilità è presentata in quanto associata ad altri quadri clinici (psicosi, autismo…), ha avuto un duplice effetto:– lasciare questo campo alla prepotenza delle neuroscienze che fanno del danno organico il perno esclusivo della loro interpretazione;– ridurre la problematica a semplice handicap investendo esclusivamente sulla riabilitazione secondo modelli legati alle terapie cognitivo-com-portamentali.Infatti, concepire la debilità come deficit contribuisce solo a isolare il soggetto nella sua lacuna e trovare i mezzi per colmare il più possibile questo handicap. “Cercando una causa precisa della debolezza mentale, neghiamo che essa possa avere un senso, cioè una storia, o che essa cor-risponda a una situazione” 3.Occorre quindi sgomberare il campo da un certo pregiudizio, ormai automatico, che vede nella debilità solo l’effetto di un danno organico e che non lascerebbe posto alcuno al discorso psicoanalitico.L’American Association on Intellectual and Developmental Disabilities (AAIDD) nell’undicesima edizione del suo Manuale (2010) così defi-nisce il ritardo mentale: “La disabilità intellettuale è caratterizzata da significative limitazioni sia nel funzionamento mentale che nel com-portamento adattivo manifestate nelle abilità concettuali, sociali e di adattamento pratico. Questa disabilità insorge prima dei 18 anni” 4.Rispetto alla causa di tale “disabilità intellettuale” la stessa AAIDD che fino al 2002 affermava che il 40-50% dei casi di ritardo mentale non
2. Ibidem, p. 68.3. Ibidem, p. 62.4. American Association on Intellectual Developmental Disabilities, Intellectual Disability. Definition, classification and systems of supports, 11th edition, Washington 2010, p. 5, (tradu-zione nostra).
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aveva una causa precisa, oggi “grazie” all’introduzione di una diagnosi multifattoriale che comprende quattro gruppi di fattori di rischio (bio-medici, sociali, comportamentali ed educativi) “la categoria di Disabi-lità Intellettuale dovuta a cause sconosciute è eliminata” 5. Facile modo di risolvere l’impasse della clinica: se i buoi non entrano nella stalla, si allarga la stalla! Rimane tuttavia evidente, anche nella recente edizione del Manuale e contro una certa vulgata alquanto diffusa, che i fattori biologici o genetici non riescono a spiegare tale patologia se non in una percentuale ridotta, sicuramente “inferiore al 50% dei casi” 6.Si tratta allora di provare a fornire una lettura psicoanalitica di questa problematica spesso causata da lesioni organiche o associata a partico-lari disturbi (autismo, paralisi cerebrale, sindrome di down, sindrome fetale alcolica, sindrome da X fragile), ma frequentemente presente anche in assenza di tutto ciò. Nei primi casi si tratta di comprendere il funzionamento mentale
in una situazione in cui l’organismo risulta letteralmente devastato da lesioni percettive, sensoriali, motorie, linguistiche e di definire come l’essere vivente che nasce in una condizione così sfavorevole a causa di un danno organico possa affrancarsi in qualche modo da esso per costituirsi come soggetto, riscattandosi dal peso dell’organismo violato ed umaniz-zarsi nella dimensione del desiderio e dell’inconscio 7;
nei secondi di capire “cosa c’è di perturbato al livello del linguaggio che, esprimendosi per vie traverse, fissa il soggetto nello statuto sociale che gli è stato conferito e la madre nel ruolo che essa stessa si è data” 8.Da questo punto di vista lo studio della debilità riporta a quanto già Freud ricordava nel Compendio di psicoanalisi, ossia che “di ciò che
5. Ibidem, p. 68.6. Ibidem, p. 59.7. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, Franco Angeli, Milano 2008, p. 13.8. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 38.
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chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note due cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema ner-voso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza […]. Tutto ciò che sta in mezzo fra queste due cose ci è sconosciuto” 9. Nel corso degli anni tra questi due campi si è scavato un abisso e, nonostante il lodevole ten-tativo di alcuni di far accoppiare “l’orso polare con una balena” 10, ossia neuroscienze e psicoanalisi, sembra che gli orsi si siano così tanto impe-gnati da far sembrare le balene delle mummie. Eppure, il processo di soggettivazione dell’essere umano non può essere compreso ricorrendo esclusivamente allo studio del fenomeno anatomo-fisiologico, né intera-mente spiegato mediante l’appello a teorie che si basano sulla univoca considerazione del substrato organico. I casi in cui il ritardo mentale è solo associato a determinate patologie o – ancora di più – quelli in cui non vi è traccia alcuna di lesione e la cui origine non è identificabile, denunciano la riduttività di un approccio puramente neurologico o biologistico. La psicoanalisi può dire oggi una parola contro questo riduzionismo, ricordando con Lacan di “Una questione preliminare” “che la condizione del soggetto S (nevrosi o psicosi) dipende da ciò che si svolge nell’Altro A. Ciò che vi si svolge è articolato come un discorso (l’inconscio è il discorso dell’Altro) la cui sintassi Freud ha cercato di definire” 11. Sappiamo che il discorso fondamentale è quello del padrone, così come Lacan lo formalizza ne Il rovescio della psicoa-nalisi, infatti, la verità ultima di questo discorso – come ribadirà nel seminario Les non-dupes errent – non è niente altro che la produzione del soggetto stesso 12. Con questa “formula” Lacan cerca, innanzitutto, di matematizzare il concetto freudiano di identificazione, in cui il ruolo
9. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 572.10. F. Ansermet e P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 15.11. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 545.12. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXI, Les non-dupes errent, 1973-1974, (inedito) lezione del 12 febbraio 1974, (traduzione nostra).
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dell’Altro è fondamentale nella strutturazione del soggetto. Nel discorso del padrone infatti l’ è “un marchio preciso in grado di assorbire il soggetto […] e quando il soggetto è assorbito dal suo marchio non si distingue da esso”. 13
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Nel discorso del padrone, equivalente per Lacan al discorso dell’incon-scio, il soggetto è sempre identificato.
Il soggetto è sempre identificato nell’Altro. Questo può valere fino al discorso universale. È da qui che pesca o viene pescato, agganciato da un significante padrone. Ad agganciarlo è quello che è detto, quello che si dice, quello che si dice in famiglia, questo piccolo pezzo di particolare. È da lì che gioca la funzione eminente nell’inconscio sotto forma di parole che vi marchiano 14.
E se un soggetto non è ben installato in questo discorso? Nel seminario Ou pire del 1972 Lacan afferma che il debile si caratterizza proprio per-ché oscilla tra due discorsi.
Chiamo debilità il fatto che un essere, un essere parlante, non sia solida-mente installato in un discorso. In questo consiste il pregio del debile. Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un po’ à côté de la plaque (fuori strada, fuori misura, fuori luogo), ossia di oscillare tra due discorsi. Per essere solidamente installati come soggetto bisogna attenersi a uno oppure sapere ciò che si fa 15.
13. J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, in La Psicoanalisi, n. 43-44, 2008, p. 12.14. Ibidem, p. 14.15. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, (inedito), lezione del 12 marzo 1972, (traduzione nostra).
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2. cosa definisce la debilità?
La nozione di debilità è stata per lungo tempo tra le più chiare e solide della psichiatria dal momento che si pensava fosse di natura congenita o sopravvenisse nei primi due anni di vita a causa di un trauma o di una infezione. Inizialmente – per la precisione – si parlava di idioti! Nel 1846 Édouard Seguin sostiene che l’idiozia è una infermità del sistema nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutte o parte degli organi e delle facoltà del bambino all’azione regolatrice della sua volontà, libe-randolo ai suoi istinti e sottraendolo al mondo morale. L’idiota tipo è un individuo che non sa nulla, non può nulla e non vuole nulla 16.È a Dupré che, estendendo al mentale una qualifica fino ad allora riser-vata al fisico (dal latino de habilis), si deve l’introduzione nel 1909 del termine “debilità mentale” 17. Bisognerà, invece, attendere Alfred Binet e Théodore Simon, durante la scolarizzazione di massa al tempo della III Repubblica, per avere uno strumento in grado di misurare l’intelli-genza e – di conseguenza – individuare i “debili mentali” diffondendo-ne così il concetto 18.Lacan, psichiatra e psicoanalista, si scosta da questa impostazione basa-ta su una definizione deficitaria della debilità mentale, per farne una “malattia fondamentale del soggetto rispetto al sapere” 19, un “rapporto particolare dell’essere senza il sapere” 20. In effetti il soggetto debile si colloca nei confronti del sapere in un evidente rapporto di esteriorità, in
16. E. Seguin, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots, Baillière, Paris 1846, p. 107.17. E. Dupré, “Débilité mentale et débilité motrice associées”, in Revue Neurologique, n. 20, 1910, pp. 54-56.18. Si tratta della cosiddetta “Scala Binet-Simon” costituita da una cinquantina di item rappre-sentativi di età comprese dai 3 ai 15 anni. L’insieme degli item superati con successo forniva la misura dell’età mentale del soggetto la quale veniva confrontata con la sua età cronologica, resti-tuendo così un profilo di normalità, ritardo o precocità. Il debile mentale presentava un ritardo di due anni se ne aveva meno di 9 o un ritardo di tre se ne aveva più di nove; non superava mai – tuttavia – il livello mentale tipico dei 10 anni.19. P. Bruno, “À coté de la plaque, sur la débilité mentale”, in Ornicar?, n. 37, 1986, p. 39, (tra-duzione nostra).20. E. Laurent, “La jouissance du débile”, in Analytica, n. 51, 1987, p. 91, (traduzione nostra).
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cui domina il non comprendere niente o poco. E, tuttavia, costui non si situa, al contrario del soggetto psicotico, fuori discorso.Nell’insegnamento di Lacan sono stati da tempo identificati due diver-si usi del termine debilità. Prima del 1969 viene adoperato nel senso classico della clinica psichiatrica, per indicare un quadro clinico parti-colare; successivamente è introdotto, invece, per definire il rapporto di chiunque con il sapere: si tratta qui della debilità che colpisce tutti e da cui lui stesso afferma di non essere esente.Nella lezione del seminario RSI del 10 dicembre 1974 afferma:
Se l’essere parlante si trova destinato alla debilità, è a causa dell’immaginario. Questa nozione, in effetti, non ha altra origine che nel riferimento al corpo. E il minimo presupposto che il corpo comporta è questo: ciò che l’essere par-lante si rappresenta non è altro che il riflesso del proprio organismo 21.
Qui la caratteristica principale della debilità sta nel fatto che l’essere par-lante pensi l’universo a partire dal riflesso del proprio corpo, il macro-cosmo a partire dal micro, ossia la propria immagine metro e misura di tutte le cose. Il debile si appoggia così all’immagine che lo cattura e vi si fissa, mettendo al posto dell’ideale la verità dell’Uno del suo corpo.
Non è perché il soggetto si mette al posto di una verità che dice il vero. È piuttosto perché egli si identifica a questo posto che egli non è intelligente, che egli non può sopportare di leggere tra le righe il tranello dell’Altro. Sapere ciò che si dice, è sapere che tutto ciò che è detto non ha che senso fallico e come riferimento l’oggetto. Per leggere tra le righe, bisogna sop-portare di sospendere la supposizione del riflesso del corpo. È questo il reale impossibile da sopportare per il soggetto debile 22.
21. J. Lacan, Le Séminare, Livre XXII, R.S.I., 1974-75, in Ornicar?, n. 2, 1975, p. 91, (traduzione nostra).22. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.
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Questa nozione di debilità verrà ripresa anche nel 1977, nel seminario L’ insaputo che una svista sa va alla morra, quando afferma che “l’uomo non se la cava molto bene in questa faccenda del sapere. È la sua debo-lezza mentale, né io faccio eccezione perché ho a che fare con lo stesso materiale di tutti, con il materiale di cui siamo dimora. Con questo materiale non ci si sa fare” 23.Per Lacan – sulla scorta della parola latina intelligere – l’intelligenza è la capacità di leggere tra le righe, andando al di là del senso, perché al di là del senso c’è qualcosa attorno a cui il discorso gira 24. Così, a colui che legge tra le righe, Lacan contrappone colui che oscilla tra due discorsi. Pierre Bruno, che a lungo si è interessato di questo tema, afferma che “la debilità mentale, in quanto colpisce chiunque, segna in un modo particolare alcuni, che si fanno notare per una tenace resistenza, talvolta geniale contro tutto ciò che potrebbe contrastare la veracità dell’Altro” 25.Nel testo “Una questione preliminare” Lacan illustrando lo schema R presenta uno sdoppiamento all’interno del campo dell’Altro, formato da P (o luogo della Legge in cui si colloca la funzione paterna, l’azio-ne del Nome-del-Padre) e M (“significante dell’oggetto primordiale”, Altro della simbolizzazione primordiale fondata sull’alternanza pre-senza/assenza) 26.Ebbene, la debilità si pone direttamente in rapporto con quanto acca-de nel campo dell’Altro, formato sia da M che da P, alla cui “veracità” il debile si consacra interamente. Vedremo che Lacan, come Mannoni, collega sempre la debilità a quanto si svolge nel discorso dell’Altro, nella fattispecie quello genitoriale.
23. J. Lacan, “Il Seminario di Jacques Lacan (1976-77): L’insaputo che una svista sa va alla morra”, in Ornicar?, 4, 1979, p. 24.24. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXII, R.S.I., 1974-75, cit., p. 92.25. P. Bruno, “A cotè de la plaque, sur la débilité mentale”, cit., p. 39.26. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., p. 549.
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3. i riferimenti di lacan alla debilità
3.0 il seminario ii. l’io nella teoria di freud (1954‑1955)
Troviamo in questo seminario un primo riferimento alla debilità. Si tratta solo di un accenno ma richiama quanto poi dirà nel 1974 in RSI.
Sono molto importanti i modelli. Non che ciò voglia dire qualcosa – non vuole dire niente. Ma noi siamo fatti così – è la nostra debolezza animale – abbiamo bisogno di immagini. E, in mancanza di immagini, capita che dei simboli non vengano alla luce. In generale, (però) è piuttosto la deficienza simbolica che è grave 27.
Infatti, in questo seminario Lacan sostiene che la struttura fondamen-tale della nostra esperienza è di ordine immaginario, così come l’io e la stessa coscienza. Al contempo, occorre, però, mantenere un certo
27. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, Einaudi, Torino 2006, p. 103.
R
S
I
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dualismo salvaguardando quella che Lacan chiama l’ “autonomia del simbolico” 28, posizione a cui Freud si è sempre tenuto ma che i suoi allievi hanno rapidamente abbandonato per tornare ad una posizione confusa e naturalistica dell’uomo che ha finito con il mettere in secon-do piano l’inconscio.
3.1 i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)
Un successivo riferimento risale al 1964 quando nel seminario I quat-tro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan presenta il concetto di alienazione significante che “condanna – se il termine condannato non suscita obiezioni da parte vostra – il soggetto ad apparire in quella divisione che ho appena articolato sufficientemente, dicendo che, se esso appare da un lato come senso, prodotto dal significante, dall’altro appare come afanisi” 29.
L’essere( il soggetto )
Ilnon senso
Il senso( l’Altro )
La dimensione di precedenza logica secondo cui “l’Altro per il soggetto [è] il luogo della sua causa” 30 appare qui in primo piano. Non è più il
28. Ibidem, p. 45.29. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 2003, p. 206.30. J. Lacan, “Posizione dell’inconscio”, in Scritti, cit., vol. II, p. 844.
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soggetto che si aliena nell’immagine speculare, quanto piuttosto l’Altro che il soggetto incontra già lì in una esteriorità irriducibile, che deter-mina l’essere del soggetto. L’alienazione, in quanto attiene alla struttura binaria del significante, illustra la funzione “letale” che questo esercita sul soggetto e l’esistenza di un ordine sovraindividuale – com’è appunto quello simbolico – che precede la dimensione dell’alienazione immagi-naria dello stadio delle specchio.Si tratta dell’Altro che Lacan scrive con la lettera maiuscola per indi-carne il suo statuto simbolico, irriducibile rispetto all’altro inteso come simile, immagine speculare, altro io, e quindi depsicologizzato fino a coincidere con le leggi stesse della cultura e del linguaggio, ossia un ordine sovraindividuale che determina, soggiogandolo, l’essere dell’uo-mo. In quest’ottica, il concetto lacaniano di alienazione è diverso sia da quello elaborato dalla filosofia dialettico illuminista, sia da quello impiegato nella psicoanalisi post-freudiana.In questo contesto Lacan arriva a
formulare che, quando non c’è intervallo tra e , quando la prima coppia di significanti si solidifica, si olofrasizza, abbiamo il modello di tutta una serie di casi, anche se, in ciascuno il soggetto non occupa lo stesso posto. Per esempio, è nella misura in cui il bambino, il bambino debile, prende il posto di questa S, rispetto a quel qualcosa a cui la madre lo riduce, a non essere più che il supporto del suo desiderio in un termine oscuro, che si introduce nell’educazione del debile la dimensione psicotica. È precisa-mente ciò che la nostra collega Maud Mannoni, in un libro appena uscito e di cui vi raccomando la lettura, tenta di indicare […] È sicuramente di qualcosa dello stesso ordine che si tratta nella psicosi. Questa solidità, questa presa in massa della catena significante primitiva è ciò che proibisce quell’apertura dialettica che si manifesta nel fenomeno della credenza 31.
31. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit., p. 233.
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0. s, s', s'', s''', … a, a', a'', a''', …
0. s, s', s'', s''', … = serie dei sensi a, a', a'', a''', … = serie delle identificazioni
Lo schema che Lacan qui presenta è effettivamente “un po’ oscuro” 32 ma se lo si legge a partire dalla polarità che in questo momento caratterizza il suo insegnamento, ossia la duplicità tra soggetto determinato dallo scivolamento significante e soggetto del godimento 33, si può intravve-dere un’anticipazione dei quattro discorsi (1969-70), in particolare del discorso del padrone. Ciò che qui conta segnalare è che Lacan lega i due significanti e a tre termini che concernono il soggetto: la X, la serie dei sensi e la serie delle identificazioni.Questo mathème riprende quindi la bipolarità tra il soggetto del signi-ficante (rappresentato dallo zero in quanto scivola continuamente sotto la catena significante consentendo però la costituzione della serie dei sensi) e il soggetto del godimento (in quanto a partire da i(a) si determi-na il rapporto del soggetto con il godimento dell’Altro – come succes-sivamente indicherà la formula del fantasma – producendo una serie di identificazioni). Lacan pone così la debilità dal lato di queste identifica-zioni che hanno attinenza con il soggetto del godimento.Dal momento che Lacan cita la Mannoni, vale la pena di riportare un passo significativo del suo libro:
Il bambino ritardato e sua madre formano un corpo unico. Il desiderio dell’uno si confonde con quello dell’Altro, tanto che i due sembrano vivere
32. E. Laurent, “La psychose chez l’enfant dans l’enseignement de Jacques Lacan”, in Quarto, n. 9, 1982, p. 7.33. J. Lacan, “Préface à la traduction des Mémoires de Schreber”, in Le Cahier pour l’Analyse, n. 5, 1966.
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la stessa storia. […] Rammentiamo prima di tutto di cosa è fatto questo rapporto fantasmatico.Per la madre, vera o adottiva, esiste un primo stadio, prossimo al sogno, in cui essa aspira ad avere “un figlio”; questo figlio è inizialmente una specie di evocazione allucinatoria di qualcosa della propria infanzia che è andato perduto.Quando questo figlio così ardentemente desiderato arriva, cioè quando la richiesta si realizza, la madre va incontro alla prima delusione: eccola dunque questa creatura di carne, ma eccola anche separata da lei; mentre a livello inconscio la madre sognava una specie di fusione.A partire da questo momento, con questo figlio da lei separato la madre ten-terà di ricostruire il suo sogno. A questo figlio di carne si sovrappone un’im-magine fantasmatica che ha il compito di ridurre la delusione fondamentale della madre (delusione che ha una sua storia nell’infanzia stessa della madre).Si stabilisce così tra madre e figlio una situazione fittizia in quanto il figlio, nella sua materialità, riveste sempre per la madre il significato di qualche altra cosa. […] Molto viene quindi richiesto al figlio. […] Il figlio diventa a sua insaputa il supporto di qualcosa di essenziale per la madre, donde il fondamentale malinteso tra madre e figlio. Il figlio, destinato a colmare la mancanza d’essere della madre, non ha altro significato che quello di esistere per lei e non per sé. […] A sua insaputa, il figlio è come “rapito” nel desiderio della madre 34.
Tuttavia, a questa tesi Lacan risponde proprio nel seminario undice-simo, sottolineando che ciò che fa Uno tra i due non è il corpo, ma l’olofrase, meccanismo che è posto come punto di partenza per una serie clinica che include psicosi, fenomeni psicosomatici e debilità 35. Va comunque precisato che in questo passaggio la debilità non coincide tout court con la psicosi, ma la dimensione psicotica si introduce nella
34. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., pp. 70, 76-77.35. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit., p. 233.
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misura in cui il bambino occupa un certo posto: quello che nello sche-ma del seminario nono sopra riportato è in basso a destra 36.L’essere umano entra nell’universo del senso, quindi nella dimensione della condivisione, dello scambio e del legame sociale attraverso l’in-gresso in quel discorso che trova già lì quando nasce. Si tratta di un discorso che si costituisce come un campo ben definito che è quello del discorso familiare, sociale, culturale, etnico che Lacan definisce come ciò a cui il soggetto non ha accesso se non come assoggettato.
Ebbene io affermo che il bambino si abbozza come assoggetto. È un assog-getto perché si sperimenta e si sente innanzitutto come profondamente assoggettato al capriccio di ciò da cui dipende, anche se questo capriccio è un capriccio articolato 37. […] Dunque, è nella misura in cui il bambino assume in primo luogo il desiderio della madre – e l’assume in una manie-ra in qualche modo grossolana, nella realtà del discorso – che è disposto a iscriversi al posto della metonimia della madre, vale a dire a diventare ciò che l’altro giorno ho chiamato il suo assoggetto 38.
È quindi nel desiderio dell’Altro che il soggetto “per un’anteriorità logica ad ogni risveglio del significato, trova il suo posto significante” 39, cioè assume una posizione precisa all’interno della rete familiare e sociale, strutturando così una rappresentazione di sé stesso nel mondo che, a sua volta, diviene per il soggetto stesso rappresentabile e conoscibile.L’olofrase è “il nome dato da Lacan all’assenza della dimensione di metafora” 40, quindi si presta bene a rappresentare la situazione in cui i rapporti del soggetto con il significante (e quindi con la realtà da esso
36. E. Laurent, “La psychose chez l’enfant dans l’enseignement de Jacques Lacan”, cit., p. 7.37. J. Lacan, Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’ inconscio, 1957-1958, Einaudi, Torino 2004, p. 191.38. Ibidem, p. 204.39. J. Lacan, “La significazione del fallo”, in Scritti, cit., vol. II, p. 687.40. A. Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, in Ornicar?, n. 42-43, 1987, p. 66, (traduzione nostra).
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mediata) non sono dialetizzabili. Dal punto di vista linguistico si tratta di una frase composta da una sola parola ma che – tuttavia – contiene la struttura minimale di una frase intera, come l’imperativo “Vieni”, “Aiuto”, “Pane”… Lacan ne parla per la prima volta nel seminario primo quando, a proposito della teoria dell’Amore primario di Balint, ribadisce che non vi è passaggio automatico tra l’immaginario e il simbolico, o tra l’intelligenza animale ed il linguaggio umano (alcuni linguisti avevano visto nell’olofrase il passaggio tra il grido dell’animale ed il primo significante umano!).
Pensare è sostituire agli elefanti la parola elefante e al sole un tondo. Vi rende-te conto che tra quella cosa che fenomenologicamente è il sole […] e un tondo vi è un abisso. Il sole in quanto è designato da un tondo non vale niente. Non vale se non in quanto questo tondo è messo in relazione con altre formalizza-zioni, che insieme a quella costituiscono la totalità simbolica, in cui ha il suo posto. […] Il simbolo vale solo se lo si organizza in un mondo di simboli 41.
La parola in quest’ottica non rimpiazza la cosa, ma la fonda, la rende pre-sente su un fondo di assenza, la trasforma. Essa ha degli effetti sulla realtà.
L’importante è che questo piccolo animale umano sia capace di servirsi della funzione simbolica grazie alla quale possiamo fare entrare qui gli elefanti qualunque sia la strettezza della porta. Tutto parte dalla possi-bilità di nominare, che è contemporaneamente distruzione della cosa e passaggio dalla cosa al piano simbolico, grazie a cui s’installa il registro propriamente umano 42.
L’olofrase è il paradigma dell’unità della frase nella misura in cui codice e messaggio si trovano uniti. Nell’olofrase il soggetto costituisce con il
41. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, Einaudi, Torino 1978, p. 278.42. Ibidem, p. 270.
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significante un monolito, anzi il soggetto si riduce a questo grido (“Pane”, “Aiuto”…) che l’identifica alla situazione, alla folla, alla sommossa e non ha bisogno di nominarsi: l’olofrase lo nomina sufficientemente.L’olofrase è – secondo la definizione che ce ne dà Lacan – la solidifi-cazione dei due significanti -. Sappiamo, infatti, che ne servono almeno due perché uno solo () non può rappresentare sé stesso se non grazie ad un altro (). Tra il primo significante e il secondo non c’è coincidenza, ma intervallo che permette la dimensione della metafora (un significante viene al posto di un altro significante) o della metoni-mia (spostamento tra diversi significanti). Non ci può essere metafora o metonimia nell’olofrase perché un significante non può sostituirne un’altro in quanto occupano lo stesso posto. La prima coppia dei signi-ficanti, inoltre, è quella che determina la divisione soggettiva, facendo entrare in gioco il soggetto come mancanza, ma se nell’olofrase la cop-pia - non ha intervallo, è olofrasata, allora il rapporto del soggetto con la propria mancanza si trova modificato.
Il soggetto non appare più come mancanza ma come monolito, in cui la significazione è uguale al messaggio enunciato. La mancanza di inter-vallo tra - significa che il desiderio dell’Altro non appare al soggetto nella mancanza in cui sarebbe interrogabile e non lascia al soggetto alcu-na chance di modellarvi il proprio desiderio. Mancando così la dimensio-ne del desiderio nell’Altro rimane solo il godimento di cui il soggetto non può che ridursi ad essere l’oggetto. L’olofrase diventa in questo modo una nozione strutturale, come quella di metafora e metonimia, ma “situata fuori dal campo discorsivo” 43, cioè “al limite, alla periferia” 44 del simbo-
43. Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, cit., p. 69.44. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 279.
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lico, in quella “zona intermedia, ambigua tra il Simbolico e l’ Immagina-rio” 45. È per questo che essa si presta bene a spiegare, dal punto di vista strutturale, il caso della debilità. Ricordiamo che nel seminario primo Lacan aveva detto che l’olofrase si riferisce a quelle situazioni “in cui il soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro” 46.
È qui che il soggetto debile non essendo fuori discorso come nella psicosi, pur tuttavia oscilla tra i discorsi senza entravi del tutto. Il soggetto debile, infatti, nel tenersi ad opportuna distanza dal comprendere in cosa consista questo termine oscuro che ne condiziona il destino, evita la possibilità di fare chiarezza sulla sua collocazione mantenendosi, viceversa, in quell’at-mosfera di incertezza, di nebulosità e di vaghezza che caratterizza la sua posizione nel mondo; fluttuante ma congelato nella specularizzazione immaginaria con la madre. 47
3.2 l’atto psicoanalitico (1968)
Riferendosi al concetto di atto psicoanalitico, Lacan rivendica il carat-tere inedito di questa formulazione posta dal lato dello psicoanalista. L’atto analitico, infatti, entra in gioco all’inizio di ogni analisi, renden-do possibile “il lavoro dell’analizzante” 48 facendo ritornare al soggetto la propria domanda in forma invertita. Solo in questo modo l’analizzante coglie qualcosa della propria responsabilità rispetto all’enigma che la sua domanda o la sua lamentela cela ed inizia il lavoro analitico vero e proprio. “Cominciare l’analisi è un atto; esso non è dal lato dell’analiz-zante ma dal lato dell’analista” 49. L’atto quindi è dalla parte dell’Altro e
45. Ibidem, p. 268.46. Ibidem, p. 279.47. F. Lolli, Percorsi minori, cit., p. 32.48. J. Lacan, Il Seminario. Libro XV, L’atto analitico, (inedito) lezione del 31 gennaio 1968, (traduzione nostra).49. Ibidem, lezione del 10 gennaio 1968, (traduzione nostra).
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gli effetti sono dal lato dell’analizzante. È in questo contesto che Lacan evoca la debilità. “Certamente, capita, come è stato dimostrato in posti molto buoni, che i bambini scivolino nella debolezza mentale per l’azio-ne degli adulti” 50.
3.3 due note sul bambino (1969)
Il testo “Due note sul bambino” è una lettera scritta da Lacan all’amica Madame Aubry, pioniera nell’aiuto all’infanzia, che cercava di inventa-re forme nuove di sostegno per i bambini in difficoltà. Dopo aver parla-to del sintomo del bambino come “verità della coppia familiare”, Lacan passa al punto di maggior interesse per quanto attiene al nostro tema:
L’articolazione si riduce di molto quando il sintomo che giunge a dominare è di pertinenza della soggettività della madre. In questo caso il bambino è inte-ressato direttamente in quanto correlativo di un fantasma. La distanza tra l’identificazione con l’ideale dell’io e la parte presa dal desiderio della madre, se non ha alcuna mediazione (quella che assicura normalmente la funzione del padre) lascia il bambino aperto a ogni presa fantasmatica. Egli diventa “l’oggetto” della madre, e non ha altra funzione che di rivelare la verità di questo oggetto. Il bambino realizza la presenza di ciò che Jacques Lacan desi-gna come l’oggetto a nel fantasma. Egli satura, sostituendosi a quest’oggetto, il modo di mancanza in cui si specifica il desiderio (della madre), qualunque ne sia la struttura particolare: nevrotica, perversa o psicotica 51.
Se è vero che ogni bambino piccolo in quanto infans necessita di cure e quindi di essere oggetto di queste, se è vero che – freudianamente – ogni bambino in quanto tale partecipa del fantasma della madre (essere il fallo
50. Ibidem, lezione del 21 febbraio 1968, (traduzione nostra).51. J. Lacan, “Due note sul bambino”, in La Psicoanalisi, n. 1, 1987, pp. 22-23.
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che le manca), è altrettanto vero – secondo Lacan – che se il bambino è vissuto unicamente come correlativo del fantasma materno, anziché esse-re considerato un soggetto desiderante incarna l’oggetto a della madre.Si tratta ancora una volta di far dipendere la sorte del soggetto da quan-to si svolge nel campo dell’Altro, qui ben collocato tra la prevalenza del fantasma materno e l’esclusione della funzione del terzo.
3.4 da un altro all’altro (1968‑69)
Nella lezione del 12 febbraio, tornando sulla questione della debilità, Lacan “rinvia alla chiave di lettura apportata senza fare tanto strepito dalla nostra cara Maud Mannoni […]. Si tratta del rapporto che i debili mentali intrattengono con la configurazione che ci interessa, che evi-dentemente ci brucia, a noi analisti, a livello della verità” 52.Mannoni si esprime così a proposito della verità e della menzogna:
Bisogna liberare la parola del soggetto dalla menzogna nella quale è imprigionata. L’analista deve poter andare al di là del linguaggio oggetti-vante, anonimo, per condurre il paziente “al linguaggio del suo desiderio” (Lacan). È attraverso una menzogna che si può ritrovare la verità. […] Il bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile, che per lui significa la propria morte. […] Bisognerà far capire ai genitori, in rapporto alla loro stessa storia, la genesi delle difficoltà del figlio, senza calcare sui sentimenti di colpa, valorizzando i genitori nel loro ruolo di genitori, il bambino nella sua condizione di soggetto, pur lasciando intrav-vedere i malintesi 53.
Lacan, inoltre, in questa lezione del 1969 evoca il fatto che qualcosa
52. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVI, D’un Autre à l’autre, 1968-1969, Seuil, Paris 2006, p. 174.53. M. Mannoni, Il bambino ritardato, cit., pp. 91, 99, 169.
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“nella debilità mentale si mette a fluttuare”, termine che riprenderà – come abbiamo già accennato – nel 1972.
3.5 ou pire (1972)
Qualche anno dopo Lacan pronuncia la frase che abbiamo già incontra-to ma ora che vale la pena riprendere.
Chiamo debilità il fatto che un essere, un essere parlante, non sia solida-mente installato in un discorso. In questo consiste il pregio del debile. Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un po’ à côté de la plaque (fuori strada), ossia di oscillare tra due discorsi. Per essere solidamente installati come soggetto bisogna attenersi a uno oppure sapere ciò che si fa 54.
Il debile oscilla quindi tra due discorsi. Nella teoria lacaniana ne cono-sciamo quattro che rappresentano “l’articolazione significante, ovvero quell’apparecchio la cui sola presenza o il cui statuto esistente domina e governa tutto ciò che può eventualmente nascere da parole. Sono discor-si senza la parola, la quale viene solo dopo a trovarvi sistemazione” 55. Nel funzionamento di questo apparecchio ci sono due termini fondamentali per comprendere la questione della debilità: il sapere e la verità. Il primo, , è uno dei quattro termini; la verità è uno dei quattro posti (in basso a destra). In rapporto al godimento la verità è sorella del godimento 56, mentre il sapere (l’articolazione simbolica) è solo mezzo di godimento 57.Eric Laurent sottolinea bene che il paradosso del debile è di premu-nirsi dal sapere identificandosi ad un posto nel quale, tuttavia, non è
54. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, cit., lezione del 12 marzo 1972, (traduzione nostra).55. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001, p. 208.56. Ibidem, p. 288.57. Ibidem, p. 57, 94.
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solidamente fissato 58. Potremmo usare, a questo proposito, l’immagine del fanatico religioso: installato nel posto della verità, coincide con essa financo alla morte, ma proprio per questa coincidenza è escluso dal sapere che, invece, è articolato, aperto, mobile e, proprio per questo, in grado di sorprendere. Non a caso Lacan ci insegna che “succhiare il latte della verità è allettante ma tossico” 59 in quanto da un lato seduce, ma dall’altro addormenta, ragion per cui bisogna stare allerta perché è lì “per fregarci”. Anche il sapere è pericoloso quando, anziché presentarsi come articolazione che gira attorno ad un vuoto, tende a presentarsi come una totalità chiusa.
L’idea che il sapere possa fare totalità […] lo si sa da molto tempo. L’idea immaginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appog-gia sulla buona forma del soddisfacimento, su ciò che, al limite, diviene sferico, è sempre stata utilizzata in politica dal partito del predicozzo. Che c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiu-sura del soddisfacimento? La collusione di questa immagine con l’idea di soddisfacimento, ecco contro cosa dobbiamo lottare 60.
È solo nel discorso dell’analista che il sapere occupa il posto della verità e produce certi effetti, perché qui il sapere si apre e “parla da solo, ecco l’inconscio” 61.
▲ L’analista, che occupa il posto di a, è lì “per far sì che l’analizzante sappia tutto quel che non sa pur sapendolo. L’inconscio è questo” 62. Sapere e veri-tà, tuttavia, ponendosi sul registro del senso, proteggono dal reale, mentre
58. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.59. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 231.60. Ibidem, p. 29.61. Ibidem, p. 82.62. Ibidem, p. 138.
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l’esperienza analitica ha di mira proprio “trovare il reale […] dove più che essere il soggetto a trovarlo è il reale che lo trova, lo raggiunge” 63. Ma pro-prio perché il discorso analitico possa articolarsi in questo modo, occorre essere nel discorso del padrone, altro nome del discorso dell’inconscio.
Per essere nel discorso dell’inconscio bisogna essere stati afferrati nel discorso universale, e che questo discorso universale sia calato su di voi, a battezzarvi, a transustantivificarvi attraverso un significante padrone. Se non è accaduto così, se qualcosa è fallito in questa cattura iniziale, se il significante-padrone è stato agganciato male, di traverso, allora non si è nel discorso dell’inconscio 64.
Se non si è ben ancorati al significante padrone, uno dei possibili destini è fluttuare ed essere così nella debilità. Peter Walleghem decli-na alcune modalità di questo fluttuare, ondeggiare, oscillare tra due discorsi facendo riferimento ad alcuni casi clinici 65:– un lasciarsi cullare dalle onde dei significanti senza veramente dire qualcosa, senza rappresentarsi mai come soggetto;– un ripetere continuamente le stesse parole o le stesse frasi, come se si girasse intorno ai diversi discorsi senza mai installarsi veramente in uno;– un continuo galleggiamento tra possibili verità: ogni enunciazione rappresenta una nuova verità senza che se ne assuma mai una in parti-colare o si sviluppi un atteggiamento critico.
3.6 lo stordito (1972)
Lacan ad un certo punto di questo testo affronta il tema della sessua-lità femminile e ironizza su come alcuni autori classici, tra cui Karen
63. J.-A. Miller, “L’esperienza del reale nella cura analitica”, in La Psicoanalisi, n. 25, 1999, p. 205.64. J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, cit., p. 20.65. P. Walleghem, “Le débile et son discours. Quelques réflexions cliniques”, in Les Feuillets di Courtil, n. 6 1997, pp. 113-121.
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Horney, Helene Deutsch ed Ernest Jones, abbiano trattato la questione. A partire da questa constatazione, con una certa vena ironica, desume “che la sottigliezza logica non esclude la debolezza di mente che, come dimostra una donna della mia scuola, risulta dal dire parentale anziché da un’ottusità nativa” 66.Si tratta dei casi presentati nel libro della Mannoni, dove – ad esempio – si fa riferimento al semplice fatto che più il bambino sente dire che non è capace di fare certe cose, tanto più sarà incapace di farle.
La via che conduce al significato della debolezza mentale passa per la strada dei genitori. Solo chiarendo a livello dei genitori la posizione che il bambino occupa nei loro fantasmi, si arriva ad ottenere quel distacco che permetterà in seguito l’analisi del debole mentale 67.
4. la formazione del concetto e la costruzione della realtà
Siamo partiti dalla definizione dell’AAIDD per introdurci nel campo della debilità, tuttavia se tentiamo di precisare la natura del nucleo di fondo, incistato nella sua immutabilità, a fronte della variabilità feno-menica dell’insufficienza mentale, troviamo che esso si coagula intorno a quello che potremo definire un difettoso funzionamento del sistema simbolico, a motivo di una predominanza del registro immaginario che non permette la formazione del concetto che “è ciò che fa sì che la cosa sia là, pur non essendoci” 68.Occorre, tuttavia, sottolineare – in quest’epoca in cui il cognitivo la fa da padrone su tutto – che per la psicoanalisi il simbolico
66. J. Lacan, “Lo stordito”, in Scilicet 1/4, Feltrinelli, Milano 1977, p. 363.67. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 67.68. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 298.
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non va confuso con il cognitivo, non va ridotto o sovrapposto all’intel-lettivo. Il cognitivo e l’intellettivo, nell’ottica psicoanalitica, possono svilupparsi nel soggetto a condizione che egli sia ben installato nel sistema simbolico; dunque l’acquisizione di capacità intellettive è uno degli esiti della primordiale iscrizione del soggetto nell’universo simbolico, uno degli effetti possibili di un suo adeguato posizionamento nel mondo che lo acco-glie. Se il bambino non incontra questa possibilità di includersi nell’uni-verso significante, le conseguenze sono quelle che Spitz ha ben messo in luce nelle sue fondamentali osservazioni sui bambini ospedalizzati e istitu-zionalizzati; il bambino sviluppa una serie di sintomi tra cui, di particolare interesse, quello che Spitz definisce inibizione intellettiva 69.
Per Lacan, infatti, la parte essenziale dell’esperienza umana, “l’esperien-za del soggetto nel vero senso della parola, quella che fa sì che il sogget-to esista, si colloca a livello del sorgere del simbolico […] l’apparizione di una dimensione completamente differente da quella del reale” 70.Come aveva già detto nel seminario primo “il linguaggio non è conce-pibile altrimenti che come un reticolo, una rete sull’insieme delle cose, sulla totalità del reale: esso inscrive sul piano del reale quell’altro piano, che qui chiamiamo il piano simbolico” 71.Il linguaggio è, in quest’ottica, una sorta di mantello che copre il mondo delle cose – il reale – ed è nel linguaggio che l’essere vivente diventa essere umano. La sua umanizzazione passa attraverso questo fondamentale snodo che è l’ingresso nell’universo simbolico. Il signifi-cante è, infatti, il medium attraverso cui il soggetto può rapportarsi al mondo assicurando quella giusta distanza dal mondo che rende pratica-bile il mondo stesso.Nel seminario settimo Lacan sottolinea spesso la necessità di una giusta distanza da Das Ding, come luogo mitico di origine da cui proveniamo.
69. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 37.70. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 252.71. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.
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Ciò che troviamo nella legge dell’incesto si situa come tale a livello del rapporto inconscio con Das Ding, la Cosa. Il desiderio per la madre non può essere soddisfatto perché sarebbe la fine, il termine, l’abolizione di tutto l’universo della domanda, che è quel che struttura più profonda-mente l’inconscio nell’uomo. È proprio in quanto la funzione del princi-pio del piacere è di far sì che l’uomo cerchi sempre ciò che deve ritrovare ma che non può certo raggiungere, che l’essenziale sta proprio qui, in questa molla, in questo rapporto che si chiama la legge dell’interdizione dell’incesto. […] Questo ci porta ad interrogare il senso dei dieci coman-damenti in quanto essi sono legati nel modo più profondo a ciò che regola la distanza tra il soggetto e Das Ding, in quanto tale distanza è appunto la condizione della parola 72.
In fin dei conti fin dal seminario secondo il simbolico è descritto come “una successione di assenze e di presenze, o piuttosto della presenza su un fondo di assenza, dell’assenza costituita dal fatto che una presenza possa esistere. Non c’è assenza nel reale. C’è assenza se suggerite che può esserci una presenza dove non ce n’è. Io propongo di situare nell’in principio la parola in quanto crea l’opposizione, il contrasto” 73. A partire da questo presupposto può sostenere che è solo dal momento in cui l’og-getto può essere nominato, “che la sua presenza può essere evocata come dimensione originaria, distinta dalla realtà. La nominazione – dice Lacan – è evocazione della presenza, e sostegno della presenza nell’assenza” 74.La nominazione dell’oggetto, infatti, dona all’oggetto stesso un valore trans-oggettuale: l’oggetto può esistere o può essere evocato anche se non è presente. In tal modo l’oggetto si svincola dal rapporto imma-ginario ed esiste al di là di esso, ed al contempo, si svincola pure dalla dimensione temporale, dalla necessità della presenza. È per questo che
72. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi, Torino 1994, pp. 83, 86.73. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., pp. 358-359.74. Ibidem, pp. 294-295.
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Lacan può dire che “il nome è il tempo dell’oggetto” 75. L’intelligenza, intesa come capacità di problem solving, è in ultima analisi un saperci fare con l’assenza dell’oggetto (il proprio corpo in primis !). La distanza dall’oggetto è posta così all’origine dell’evoluzione del pensiero, dal momento che solo l’assenza dell’oggetto consente la messa in atto di quei pensieri di ricerca ed invenzione che sono alla base della umaniz-zazione. Il simbolico opera, infatti, come una sorta di gigantesca rete che raccoglie l’intera massa dei dati dell’esperienza promuovendone una trasformazione significante. “Vi do una definizione possibile della sog-gettività, formulandola come sistema organizzato di simboli, che tende a coprire la totalità di un’esperienza, ad animarla, a darle un senso” 76.Si costituisce così quel “campo simbolico che non è in semplice rap-porto di successione col dominio immaginario” 77 ma dimensione che permette di orientarsi nel mondo e nello spazio.
5. la costruzione del “debile”
Per quanto sia evidente il duplice uso del termine debilità lungo l’inse-gnamento di Lacan, tale scansione anziché complicarne la concezione la illumina. Ci sono infatti due fili che con spessore e grana diversa si intrec-ciano nello snodarsi del percorso. Da un lato, una certa “carenza simbo-lica” presente a partire dal seminario primo nei termini di “deficienza simbolica” fino al seminario diciannovesimo nell’immagine del non esse-re “solidamente installati in un discorso”; dall’altro, il potere di cattura dell’immaginario che porta con sé il rischio della debilità. Ogni volta che Lacan evoca qualcosa del registro immaginario mette in guardia da que-sto rischio, come quando afferma che “l’immagine può condurre ad un
75. Ibidem, p. 195.76. Ibidem, p. 195, p. 49.77. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 276.
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notevole rincitrullimento” 78 o che “il sentito come mentale, il sentimenta-le, è debile, perché per qualche verso sempre riducibile all’immaginario” 79.Come quindi intrecciare questi due fili? Ci pare stia proprio in questo particolare annodamento la differenza tra psicosi e debilità. Nella psi-cosi il simbolico è “saltato” per definizione e le conseguenze di ciò sono l’assenza di questa “rete che copre il reale” 80 o di questo “sistema orga-nizzato di simboli, che tende a coprire la totalità di un’esperienza” 81, ma anche una libertà e capacità inventiva che solo nella psicosi possiamo trovare. Infatti, è proprio quando manca il Nome-del-Padre “che si apre la dimensione inventiva del sintomo. Noi non domandiamo alcun pri-vilegio per il Nome-del-Padre”. Infatti, lo psicotico, “a differenza degli altri uomini, non ha una maschera: è lucido, non ha dei sembianti per supportarsi rispetto al reale, non ha i sembianti di tutti. Lui i propri sembianti deve fabbricarseli. […] Vediamo che per i soggetti che sono sprovvisti dei sembianti di tutti è necessaria la creazione del proprio sembiante” 82. Certo, la creazione psicotica si staglia sullo sfondo della forclusione e, come Jacques-Alain Miller ha scritto, l’oggetto d’arte viene proprio a supplire alla forclusione del Nome-del-Padre 83.
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Così il sinthomo nella sua equivalenza al Nome-del-Padre non è più riconducibile esclusivamente all’articolazione simbolica o al suo valore di Legge, ma al suo valore di “apparato”, “cardine”, “annodamento” che consente di articolare in maniera inedita il significante al godimento 84.
78. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, 1970-1971, Einaudi, Torino 2010, p. 20.79. J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo, 1975-1976, Astrolabio, Roma 2006, p. 35.80. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.81. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 195, p. 49.82. J.-A. Miller (a cura di), Il sintomo psicotico. Conversazione di Roma, Astrolabio, Roma 2001, p. 214.83. J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, in La Psicoanalisi, n. 9, 1991, p. 149.84. Cfr. IRMA, La conversazione di Archachon, Astrolabio, Roma 1999, pp. 123-27, 141-43, 223-26.
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È il reale a permettere di snodare effettivamente ciò in cui il sintomo consiste, cioè un nodo di significanti. Qui annodare e snodare non sono metafore, ma vanno presi come quei nodi che si costruiscono realmente facendo catena della materia significante. Queste catene infatti non sono di senso, non sono di sens ma di jous-sens, da scrivere come volete confor-memente all’equivoco che costituisce la legge del significante 85.
Per Lacan, Joyce ha avuto il privilegio di “testimoniare” la possibilità che il sinthomo – come nodo e “cosa più singolare di ogni indivi-duo” 86 –, offre nel supplire alla mancanza dell’Altro, al difetto fonda-mentale della struttura. Attraverso la scrittura, Joyce è riuscito a farsi un nome, che costituisce per lui una “compensazione della carenza pater-na” e, attraverso l’arte, una supplenza alla sua “tenuta fallica debole” 87. La sua opera come sinthome rappresenta quel quarto anello che viene ad annodare gli altri registri altrimenti disgiunti, impedendo allo scrittore di giungere allo scatenamento della psicosi. La creazione artistica, infat-ti, rappresenta una delle modalità privilegiate attraverso cui è possibile non solo arrivare a una stabilizzazione post-scatenamento, ma anche a operare una supplenza evitando radicalmente lo scatenamento 88.Nella debilità, invece, il simbolico non è del tutto saltato, vi è una “deficienza simbolica” 89 che riduce il potere del simbolico di fare da medium nei confronti della realtà e – al contempo – lascia il campo aperto al dominio del registro dell’immaginario, i cui effetti sono evi-denti nella clinica della debilità.Si tratta allora di capire “cosa c’è di perturbato a livello del linguaggio”, come si chiedeva Mannoni nel suo libro. Ebbene, è proprio all’interno del discorso familiare che occorre andare a verificare il posto che il
85. J. Lacan, “Televisione”, in Radiofonia, Televisione, Torino, Einaudi, 1982, p. 74.86. J. Lacan, “Joyce il sintomo”, La Psicoanalisi, 23, n. 1998, p. 18.87. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXIII, Le sinthome, 1975-76, Ornicar?, n. 6, 1976, p. 6, (tra-duzione nostra).88. J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, cit., p. 149-50.89. J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 103.
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bambino debile occupa, perché molto spesso è quello di essere “il pegno vivente di una menzogna a livello della coppia parentale” 90. Il bambino rimane così incastrato a difendere una verità, preferendo fluttuare tra gli elementi che la costituiscono, piuttosto che affrontarne o tradirne i segreti. Si tratta di una verità che lo seduce, per quanto possa essere triste o drammatica, urlata o colta tra i silenzi del non detto, presen-tandosi sempre, come i riferimenti all’immagine del corpo riflesso o al “sapere chiuso” suggeriscono, con quella buona forma che costituisce una “trappola” 91 ed un inganno, quello stesso (microcosmo/macroco-smo) evocato da Lacan proprio per spiegare la posizione del debile 92.
Il bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile, che per lui significa la propria morte. […] Che si tratti di desiderio di morte trasformato in amore sublime, nel caso di un bambino molto grave o di un rifiuto materno che conferisce a un bambino leggermente deficiente l’aspet-to di un ritardato grave perché si sente in diritto di esistere solo facendo il morto; che si tratti del dramma esistente tra i genitori e i loro ascendenti, dramma che crea in loro il panico appena si trovano a loro volta nei panni di genitori; o che si tratti di un incidente mortale nel quale il bambino ha creduto di essere coinvolto 93.
In tutti i casi la funzione del bambino è di proteggere i genitori a prezzo di una fissità che come l’olofrase “si riferisce a situazioni limite, in cui il soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro… in questa zona intermedia, ambigua, tra il simbolico e l’immaginario” 94.Altro che sempre più spesso non è solo la madre, ma la coppia geni-toriale all’interno della quale la funzione del terzo anziché mettere in
90. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 69.91. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’Angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 275.92. Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro IX, L’ identificazione, 1961-1962, (inedito), lezione del 13 dicembre 1961, (traduzione nostra).93. M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 99.94. J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., pp. 279, 269.
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moto il discorso del padrone, contribuisce a sigillare questo pezzo di verità come un tutto solo, nome che dopo il seminario undicesimo Lacan dà all’olofrase.Si tratta quindi di un sapere ridotto all’osso che viene ad occupare il posto della verità, ma non come dovrebbe essere nel discorso dell’ana-lista, bensì come chiusura radicale all’inconscio e ad ogni altro sapere. Gli basta quello che sa! Potremmo qui evocare qualcosa dell’ordine del “significante immaginario” che Lacan introduce a proposito del fallo. Ci pare di poter dire che ciò che il bambino debile capta nel discorso familiare ha una struttura significante (fosse anche un’immagine o una scena dal momento che quando “l’immagine è resa unica può essere significantizzata” 95) che funziona nel registro immaginario e che ha un’articolazione piuttosto povera.“Il debile, bambino o adulto, si identifica deliberatamente a un signifi-cante passe-partout che, come risposta, anticipa ogni domanda. Questa risposta equivale ad un nome proprio – è un’olofrase – e questa blocca l’equivoco significante della lingua che, altrimenti, obbligherebbe il soggetto a prendere posizione in rapporto al desiderio” 96. Questo signi-ficante passe-partout, il debile lo preleva dal discorso familiare, solo che anziché venirne marcato in modo tale da entrare nell’articolazione che produrrebbe il soggetto, resta ancorato a questo significante e fluttua. Fluttuare non significa andare avanti, cosa che invece attiene al discor-so del padrone il cui scopo è “che la cosa funzioni” 97, ma rimanere incagliati tra qualcosa che, pur lasciando un minimo di lasco, non ne permette un pieno movimento. Come quando, la barca fissata tra due ormeggi, fluttua sulle acque leggermente mosse senza prendere il largo.Nella debilità abbiamo questo tutto solo, l’Uno della fascinazione
95. J.-A. Miller, “L’immagine regina”, in Delucidazioni su Lacan, Antigone, Torino 2008, p. 396; Cfr. J.-A. Miller, “Silet”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, p. 234: “l’immagine può benissimo avere funzione di significante”.96. A. Di Ciaccia, “Lacan et l’intelligence”, in Preliminaire, n. 5, 1993, p. 100.97. J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 20.
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immaginaria, che non apre all’ideale, ma richiude sull’immagine del pro-prio corpo o sulla bella forma di un sapere chiuso e sferico. “L’Uno del debile – infatti – non è l’Uno dello psicotico a causa dell’immaginario” 98.Anche il reale del sesso rimane chiuso in questo circuito e non diventa né traumatico (il debile generalmente non conosce angoscia), né causa di interrogazione sull’origine, sulla vita e sulla morte come Freud pensa-va, tanto da arrivare ad ipotizzare un parallelismo tra precocità sessuale e precocità intellettuale 99. Anzi, nella debilità il corpo stesso si fa carico di questa verità monolitica ed anziché aprire all’interrogazione si mostra nella sua realtà sessuata attraverso l’esibizione masturbatoria, ovverosia il “godimento dell’idiota” 100.
L’adesione rigida e inflessibile ad una significazione diviene l’identità inva-riabile del soggetto stesso. La persona con ritardo mentale appare come marchiata da un tratto incancellabile e irrinunciabile che la rende identica a se stessa nel tempo e nello spazio, fuori dal ciclo delle mutazioni e delle trasformazioni che, generalmente, caratterizzano un percorso di ricerca personale. […] Troviamo un eccesso di identità congelata in una significa-zione univoca, una fissazione del soggetto che aderisce ad una sorta di sigla che lo contrassegnerà in maniera definitiva. Non c’è posto per l’incertezza, per l’interrogazione, per il dubbio. In questi casi viene in primo piano l’aspetto monolitico della struttura, la corrispondenza puntuale tra l’essere e l’identità, la coincidenza assoluta tra il soggetto e la significazione scelta che non lascia spazio a vissuti di titubanza 101.
Non sarà possibile aprire questo “sapere chiuso”, questo tutto solo, questo “significante passe-partout” se non liberando la parola del sog-
98. E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 92.99. Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1970, vol. IV, p. 544; S. Freud, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1972, vol. V, pp. 458-459.100. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 80.101. F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 51.
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getto dalla menzogna nella quale è imprigionata, menzogna che oggi sempre più si gioca a livello della coppia genitoriale.Non è un caso che molti bambini o adolescenti che si presentano oggi come debili siano l’effetto di certi tipi di separazioni o che – più in generale – in una società dominata dall’immaginario, la debilità sia – come già Lacan aveva detto – la normalità.
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Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del sog-getto
inibizione allo studio, anoressia, suicidiocome tentativi di esistenza del soggetto * 1
di Giovanna Di Giovanni ** 2
Nel campo dell’età evolutiva si richiede sempre più spesso agli “esperti” un inter-vento per le “nuove forme del sintomo” del disagio giovanile. L’ inibizione allo stu-dio, le forme di anoressia, il suicidio tentato o raggiunto sono presi in esame, ana-lizzati al microscopio fenomenologico e comportamentale, nel tentativo di isolare il “male” del ragazzo. L’Altro familiare, educativo, sociale respinge ogni implica-zione e non vuole accorgersi che al fondamento del disagio possa esserci un rifiuto degli oggetti di consumo già pronti, della via già tracciata, che al giovane sono presentati come soluzioni di vita “normale” a cui non resta che adeguarsi. Quello che invece il ragazzo chiede con il rifiuto – talora fino alla morte – è che l’Altro prenda atto della sua esistenza come soggetto irripetibile, singolare nell’emergere del desiderio e nella ricerca degli oggetti di soddisfazione.
Parole chiave: disagio giovanile, inibizione allo studio, anoressia, suicidio
Per chi si trova ad operare nel campo dell’età evolutiva e con le diverse istituzioni che si occupano degli adolescenti e dei giovani, la richiesta di intervento per queste che sono state dette “nuove forme del sintomo”
* Intervento tenuto nel corso di una tavola rotonda con genitori, insegnanti, ragazzi di Scuole Superiori sulle “Manifestazioni attuali del disagio giovanile”, dicembre 2008.** Giovanna Di Giovanni è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Milano; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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è sempre più frequente e pressante, talvolta connotata da una sorta di disperazione, quasi di rabbia o di sfida più che da un desiderio di aiuto a capire, e comunque di urgenza: vediamo dunque cos’ha da dire, e soprattutto da proporre o da fare, e in fretta, “l’esperto”.Questa è infatti una parola-chiave della nostra epoca scientifica, che sempre più suddivide e rende oggetto l’individuo per stupirsi poi che questo manifesti in qualche forma di rifiuto il suo essere irriducibile ad ogni classificazione.Si è detto “nuove forme del sintomo”, anche se sempre le forme del sin-tomo sono prese dall’attualità del sociale di ogni epoca, dal Medio Evo, quando alcune donne apparivano in comunicazione con un misterioso al di là e per questa comunicazione terrorizzante venivano bruciate sul rogo, fino all’800, quando invece svenimenti e paralisi mostravano un appello pur indiretto, ma verso un interlocutore più umano.Quindi possiamo dire piuttosto forme del sintomo nuove in quanto attuali. Occorre allora interrogarsi su questa nostra attualità del sociale, nella quale il giovane viene ad immettersi, e sul ruolo degli adulti con cui ha a che fare.Due elementi ci sembrano da notare: la conquista tecnologica e la dif-fusione della cosiddetta “comunicazione di massa” che, lungi dall’essere una comunicazione per cui l’individuo è chiamato in causa a dare una risposta, a prendere una posizione, è pura trasmissione che non cerca replica ma solo passiva adesione. Correlativa a questo è la difficoltà di reale comunicazione intersoggettiva, per cui i fenomeni di identifica-zione immaginaria di gruppo si accrescono enormemente. Vi è inoltre un isolamento crescente della famiglia, che sempre più appare come un fortino assediato, un luogo di difesa ad oltranza invece che di addestra-mento e passaggio ad un sociale più ampio, come Freud auspicava.Negli adulti spesso la paura predomina sulla fiducia, la chiusura sulla curiosità e l’interesse, per stupirsi poi se il giovane non riesce a trovare il coraggio di immettersi tra gli altri. Spesso anche l’istituzione scolastica non corregge, ma anzi rinforza questa visione. Di fronte alle problema-
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tiche nuove che il rapido mutare sociale presenta anzitutto nella popo-lazione giovanile e scolastica, capita che gli adulti intorno si ritraggano nel paragone e nel rimpianto del passato.Si chiudono allora in un altro fortino contrapposto a quello familiare, nella guerra di posizione sulla colpa da attribuire gli uni agli altri, che tanto spesso oppone l’istituzione scolastica a quella familiare. Il ragazzo resta in mezzo, oggetto del contendere degli adulti e non soggetto per le cui difficoltà essere in ansia o chiedere un aiuto. Vi è poi la caduta di ruoli definiti a cui fare riferimento, che – prima ancora del giovane – mette in crisi l’adulto. Questo secondo aspetto infatti può significare certo maggior libertà, ma suscita anche grande paura. Tipico infatti della nostra attualità è reclamare la libertà più ampia ma insieme, fug-girne l’aspetto correlativo della responsabilità. Il non definito, non a priori delimitato, chiama infatti in causa il soggetto e suscita inevitabil-mente angoscia.È comunque nel mondo sociale dell’adulto che l’adolescente e il giovane si immettono. Anche il bambino, certo, vive nel mondo sociale, ma in un modo mediato dai genitori e dagli adulti. Con la pubertà, con lo sviluppo sessuale questa mediazione viene a cadere. C’è un reale del corpo che non può essere affidato ad alcuno. E insieme c’è una realtà esterna, di rela-zione che si presenta altrettanto improvvisamente diversa: i genitori, la famiglia non sono più assoluti e intoccabili, ma simili o inferiori agli altri adulti, in un conflitto che pone il giovane tra appartenenza e distacco.Non vi sono più certezze di alcun genere. Tutto l’assetto pulsionale e affettivo che fino all’adolescenza può avere retto è rimesso in discussio-ne e richiede un nuovo aggiustamento, perché l’ individuo possa assu-mere una sua identità personale e sociale. Il legame con l’altro familiare e la separazione necessaria per esistere come individui sono di nuovo in questione, diversamente che nell’infanzia e richiedono nuove risposte e anche più complesse, che chiamino in causa, oltre la famiglia, organi-smi sociali come la scuola, le istituzioni sanitarie, i gruppi di pari.L’adolescenza si configura quindi come una situazione a rischio, nel
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senso del rischio di non riuscire a passare all’età adulta, di rimanere invi-schiati nell’inconsapevole immagine di una impossibile pienezza infan-tile, rischio di rifiuto dell’ esistere nei suoi diversi aspetti: di conoscenza per quanto riguarda lo studio, di definizione fisica, per il corpo con il cibo, di relazione fra gli altri per la morte sfidata o apertamente cercata.Inibizione allo studio, anoressia, tentati suicidi, aperti o mascherati, a cui si possono aggiungere le diverse forme di devianza giovanile. Forme del sintomo, del disagio di vivere diverse ma accomunate dall’elemento del ritiro, della chiusura, del rifiuto dell’Altro. Il sog-getto rifiuta il sapere, il cibo, il modo di vita che l’Altro gli presenta. Il desiderio, unica molla dell’esistenza, sembra rivolto solamente al “no”, al rifiuto fino alla morte. Qualcosa ne impedisce la circolazione e fissa il soggetto in una sfida comunque mortale. Più l’Altro familiare e sociale si accanisce sul sintomo, più l’individuo esaspera il suo com-portamento come per indicare che la questione non è lì ma altrove, in uno spazio che non si è aperto per il discorso, per il desiderio, che non può essere se non singolare e irripetibile e che può nascere solo dalla mancanza accettata e riconosciuta.Posizione di sfida quindi anzitutto ad un ambiente sociale che propo-ne soluzioni già pronte, oggetti che colmano ogni mancanza per una norma codificata e che vuole ignorare la solitudine e l’angoscia che accompagnano il percorso della vita umana.Infatti, la domanda di genitori, insegnanti e degli adulti intorno è spesso: – ma cosa vuole ancora da me, da noi? gli abbiamo dato tutto il possibile, perché non se ne accomoda e ringrazia?La risposta paradossale di chi rifiuta è appunto questa: – perché il sog-getto nella relazione con se stesso e con gli altri non può vivere se non nell’impossibilità di colmarsi della mancanza squisitamente singolare e dell’accettazione di questa come molla per il desiderio individuale, irripetibile, solitario. L’adolescente, il giovane nel loro affacciarsi alla vita sociale più vasta ripropongono all’adulto le questioni di fondo dell’esistere, spesso accantonate e che perciò stesso spaventano, ma che
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comunque più sono ignorate e respinte e più si ripresentano nel reale del corpo e del sociale.“Non è questo che voglio”, dice con l’atto autolesivo il soggetto, non il tuo sapere o cibo o modello di vita già pronto ma, caso mai, voglio vedere la tua personale implicazione, il tuo personale impegno e desi-derio nel rapporto con me e con gli altri intorno perché anch’io possa trovare il coraggio di desiderare e di vivere. Discorso senza parole, ma che ancor più chiede una risposta personale dell’altro, lo sfida sul terre-no dell’atto, che è sempre personale e irripetibile 1.Proprio questo angoscia le persone intorno all’adolescente, la dimen-sione di sfida e di richiamo oltre ogni ruolo codificato di genitore, insegnante, medico, educatore, chiamati in causa invece solo per il proprio desiderio verso quel soggetto non uniformabile alla generalità, al gruppo, alla massa.È vero che c’è un’ambivalenza anche del soggetto adolescente, che vuole richiamare per sé un’attenzione unica e irripetibile ma anche rifugge dall’altro aspetto della soggettività, che è appunto l’assunzione della responsabilità e la solitudine che ciò comporta. Per questo, più che le parole, il ragazzo guarda al modo di porsi, di essere degli adulti per coglierne le contraddizioni, la paura, il rifiuto, l’isolamento, l’esclusione del diverso sotto le apparenze di accettazione, gli aspetti più profondi di timore oltre le parole comuni di incoraggiamento.Il giovane, di fronte a questo evitamento degli adulti, fugge a sua volta e s’innesca un circolo non facile da rompere. Perché di risposte non adeguate e di modelli di identificazione alienanti il soggetto ne ha già incontrati e lo manifesta nel rifiuto di apprendere, di nutrirsi, di vivere che sono appunto l’involucro formale, sintomatico, apparentemente simile in tutti i casi, ma nella problematica profonda diversi per ciascu-no. Spesso gli adulti intorno si fermano a questa apparenza, alla forma
1. J. Lacan, “Prefazione al Risveglio di primavera”, in La Psicoanalisi, n. 7, Astrolabio, Roma, 1990; con particolare attenzione al personaggio dell’uomo mascherato.
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del sintomo, incolpando il gruppo dei coetanei, i modelli estetici e di vita correnti, ma si ritraggono di fronte alla necessità di provare a com-prendere il singolo nel suo personale disagio, nel suo ostacolo a vivere in relazione con se stesso e con gli altri. Ognuno infatti, pur nella diffu-sione della forma sintomatica, ha un suo modo di relazione con l’Altro che non tollera generalizzazioni rassicuranti. Ogni ostacolo all’appren-dimento, al nutrirsi, al vivere è singolare e richiede strategie particolari per poter dare un aiuto a passare dall’atto alla parola, dal rifiuto all’ac-cettazione ad entrare nel mondo simbolico del discorso e del desiderio.Anche la psicologia come scienza a cui ci si rivolge per un’ultima spie-gazione viene messa in scacco in quanto sapere già pronto. Sicuramente non bastano i discorsi e gli appelli, come mostrano le lamentele degli adulti intorno e anche il fallire di molta psicologia. Qui è chiamata in causa anzitutto la dimensione dell’essere, di fronte a chi si mostra solo nell’agito e non ha ancora trovato la via per una parola che lo rappre-senti nel campo dell’Altro simbolico della relazione.In un recente convegno sui minori in difficoltà e a rischio, tutti gli intervenuti (giudici, assistenti sociali, psicologi, educatori) si sono trova-ti concordi nell’indicare come possibili vie di relazione con i giovani in difficoltà non tanto e subito la dimensione della cura in specialistica e scientifica, ma piuttosto quella della vita, ad es. cambiamenti di ottica e di metodo per la scuola, luoghi di aggregazione guidata, esperienze di vita diverse con gli educatori, in cui il soggetto possa mettersi a sua volta diversamente alla prova e tentare di rompere la ripetitività e il blocco che lo immobilizzano mortalmente, per arrivare poi ad interro-garsi su se stesso.L’analista stesso, in queste situazioni, è chiamato ad aiutare con la sua particolare ottica anzitutto gli adulti intorno al ragazzo, a contenerne l’angoscia, perché si apra uno spazio per il discorso, oltre il disturbo, la malattia.Quindi, forme nuove del sintomo, nel senso che nessuno degli adulti intorno può rifarsi a modelli di relazione e di intervento già codificati,
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ma deve accettare di inventare i suoi modi di essere e di manifestare il desiderio, se vuole che l’ adolescente si interroghi sul proprio.Responsabilità della struttura sociale familiare, scolastica, educativa, non perché i giovani non abbiano anch’essi la loro nel disagio in cui si trovano, ma semplicemente perché gli adulti vengono prima nel tempo, sono più avanti nel cammino della vita. Questo dà loro una responsa-bilità non più grande di quella del ragazzo, perché l’atto del soggetto è etico in ogni epoca dell’esistenza, ma diversa per posizione. Il ruolo dell’adulto infatti non è comunque pari a quello del giovane, come a volte viene invece presentato in modo ingannevole per tutti, di amico o compagno invece che di genitore o educatore. L’adolescente infatti rende presente più del bambino agli adulti lo scarto generazionale e fa intravedere la morte. L’ingannevole parità è il segno dell’orrore suscitato dal trascorrere della vita e insieme il tentativo di negarla. Ma questo fal-sifica ulteriormente il discorso ed è in questa confusione che il ragazzo spesso non riesce a trovare nessun modo per una parola sua con cui esi-stere e paradossalmente ricerca questa esistenza soggettiva nelle forme appunto estreme e mortali del rifiuto.
Il passaggio all’atto è dal lato del soggetto in quanto questo appare can-cellato in modo estremo dalla barra. Il momento del passaggio all’atto è quello del massimo imbarazzo del soggetto. È allora che, da dove si trova – ovvero dal luogo della scena in cui soltanto può mantenersi nel suo sta-tuto di soggetto, come soggetto fondamentalmente storicizzato – esso si precipita e cade fuori della scena 2.
Chiamarsi fuori dal campo dell’Altro infatti, anche con la morte tentata o raggiunta, può essere talora l’estremo atto di vita del soggetto.
2. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 125.
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Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. Anoressia e silenzio de lalingua
volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento.anoressia e silenzio de lalingua
di Giuliana Grando * 1
I sopravissuti dei campi di concentramento mostrano tutti gli effetti del trau-ma sul corpo e sul linguaggio. Uno degli effetti del trauma è il mutismo che la lingua incontra perché incapace di dire il reale. Nel campo di concentramen-to, infatti, il corpo e il linguaggio si riducono al resto che Lacan ha chiamato l’oggetto a. Questa è la tesi di Anne-Lise Stern deportata ad Auschwitz-Birke-nau. Nel testo viene esaminata la ricchezza de lalingua, la prima lallazione del bambino che congiunge il corpo al linguaggio, non destinata alla comu-nicazione, per giungere a dire che la lingua che viene colpita nel trauma è lalingua orginaria. Il trauma de lalingua è infine confrontato ad alcuni casi di anoressia restrittiva, in cui non si rileva il rifiuto, ma una non avvenuta trasmissione de lalingua.
Parole chiave: campo di concentramento, trauma, oggetto a, Anne-Lise Stern, lalingua, anoressia
premessa
La mia riflessione parte da un esame degli effetti prodotti sulla lingua dal trauma, considerando il mutismo che essa incontra nei genocidi,
* Giuliana Grando è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Veneto; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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come la Shoah, testimoniati dai sopravissuti dai campi di concentra-mento, dalle deportazioni e dalle pulizie etniche, per considerare infine la relazione tra l’anoressia e lalingua.Una possibilità di ricerca mi è data da Anne-Lise Stern, una collega psicoanalista lacaniana, sopravissuta alla deportazione ad Auschwitz-Birkenau e dalla lettura del suo testo che si intitola:Il sapere deportato 1.
anna‑lise stern e la deportazione
Anne-Lise Stern è nata a Berlino, passa la sua infanzia a Mannheim. Il padre è medico psichiatra e esercita la medicina sociale all’interno dell’Ospedale locale: entrambi i genitori sono ebrei, militano nel Parti-to Socialista Tedesco e conoscono l’opera e la pratica clinica di Freud. Il padre viene perseguitato dal nazismo ma riesce a fuggire e a riparare in Francia, a Nizza. Anne-Lise in quel momento ha 12 anni. A 22 anni la giovane vive a Parigi, con documenti falsi, ma viene scoperta e denunciata in quanto ebrea e deportata a Auschwitz-Birkenau. È il maggio 1944.Nell’aprile 1945 Anne-Lise viene liberata e ritorna in Francia dai geni-tori: la madre prende due quaderni di scuola, uno per sé e uno per la figlia e, pagina dopo pagina, testo a fronte, traduce in tedesco quello che la figlia scrive in francese sulla sua deportazione.La scrittura nella lingua non materna, il francese, permette in quel momento a Anne-Lise di passare per una lingua Altra e di iniziare il lavoro freudiano di ricordare, ripetere e rielaborare. Anne-Lise riporta nel suo testo, che sarà anche la sua analisi, ma solo quella con Jacques Lacan, non con gli analisti precedenti, a ridarle la sua lingua materna, il tedesco.
1. A.-L. Stern, Le Savoir Deporté, Seuil, Paris 2004.
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“Io ci tengo al mio tedesco di Lacan, anche se il tedesco è la lingua materna che non ho mai cessato di parlare in certe condizioni. Lui me l’ha restituita 2”.Anne-Lise rileva in questo modo che ad essere colpita nel trauma è la lingua materna, che ha dovuto essere riportata in vita, dopo il trauma, attraverso l’analisi che ha ridato alla lingua un nuovo sembiante.Nel caso di Anne-Lise la lingua del torturatore era la sua stessa lingua materna, ma dalle testimonianze che ho letto e anche da quelle che ho ascoltato da sopravissuti dei campi di concentramento argentini e di Sebrenika, la lingua materna diventa perturbante, sia nei casi in cui essa sia la stessa lingua del torturatore, che nei casi in cui non sia la stessa del torturatore, perché essa viene a contenere, un ulteriore indicibile, rispetto all’indicibile strutturale, che è il resto del reale di “godimento” contenuto nella lingua e che non viene assorbito da alcuna significazio-ne simbolica, a cui va a sommarsi il reale del trauma.
l’oggetto a e il campo di concentramento
Nei campi di concentramento, nei sequestri di massa, i deportati vengono spogliati di tutto, fino ad essere rappresentati da un numero che viene marchiato sul loro corpo: i significanti vengono sostituiti da significanti afonetici, tatuaggi, graffiti, numeri e sigle.Durante la sua analisi Anne-Lise decide di diventare ana-liste e di por-tare il suo “sapere deportato” dal campo di concentramento, nei luoghi dove più si incontra il rapporto del corpo con il reale: All’Ospedale Marmottan per i tossicodipendenti e all’Ospedale des Enfants Malades di Parigi, sotto la guida di Jeanny Aubry.
2. Ibidem, p. 183.
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In un articolo dove Anne-Lise si riferisce al campo di concentramento ma, anche al suo campo di lavoro, scrive:
per noi, è essere stati separati dai nostri amori, dalle nostre madri e dai nostri padri, e, poi, in un istante, da tutto ciò che sta al posto dell’oggetto: foto, lettere, bijoux, chignons, vestiti, scarpe, capelli […] per noi c’era stata data una intimità con ciò che Lacan aveva circoscritto, isolato come ogget-to a. Il solo oggetto che ci restava era questo corpo che era noi: l’oggetto a viene direttamente da Auschwitz 3.
Lacan stesso è colpito dal mutismo dal 40 al 44 e quando riprende a scrivere nel 45 scrive “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipa-ta” 4, nella cui premessa sottolinea, che le date 44-45 sono date “signifi-canti per molti”, e aggiunge: “Possa questo scritto riecheggiare con una nota giusta fra il prima e il poi, in cui lo collochiamo in questa raccolta, anche se dimostra che il poi faceva anticamera perché il prima potesse prendere posto” 5.L’après coup, a cui Lacan si riferisce con “il prima e il poi”, è ciò che del prima si precipita, a posteriori, nell’istante del trauma.Nei tre tempi del trauma. il 1° Tempo, è il tempo dell’ “effrazione”, l’istante del vedere, vale a dire il tempo in cui il trauma buca il simboli-co e l’indicibile si presentifica; il 2° Tempo è il tempo del comprendere, ed è il tempo in cui nel buco del reale aperto dal trauma si precipita ciò che viene “prima” e che riguarda il soggetto, vale a dire il suo modo di godere legato al fantasma; il 3° Tempo è il tempo di concludere, cioè il tempo dell’uscita dal trauma attraverso una logica che include il trau-ma, ma che prevede una risposta soggettiva aldilà della ripetizione.
3. A.-L. Stern, “Quarante-et-un, 18 juin, chiffrage-contage en pèdiatrie”, in La Lettre Mensuelle, n. 18, École de la cause Freudienne, Paris aprile 1988.4. J. Lacan, “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 192.5. Ibidem.
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per una linguistica della vita
Nel seminario ventesimo, Ancora, Lacan mette a punto un passaggio teorico che lo porta dalla linguistica alla linguisteria attraversando anche una costruzione che chiama lalingua, che non è semplicemente la lingua materna, ma tutte le emissioni sonore della bambina e del bambino, le prime lallazioni che costituiscono il campo fertile su cui il linguaggio si istituisce.Lacan precisa che “lalingua serve a tutt’altre cose che alla comunica-zione” 6 e interrogandosi sull’, il significante padrone, nel contesto de lalingua, Lacan lo definisce “uno sciame significante, uno sciame ronzante” […] che assicura l’unità della copulazione del soggetto con il sapere […]. L’Uno incarnato ne lalingua è qualcosa che resta indeciso tra il fonema, la parola, la frase, o tutto il pensiero” 7.Jacques Alain Miller, riprendendo la costruzione di Lacan, scrive che lalingua “comporta una dimensione […] diacronica, essendo essen-zialmente alluvionale. È formata dai depositi che si accumulano per i malintesi e le invenzioni linguistiche di ciascuno” 8.Nel VI paradigma del godimento, J.-A. Miller riprende il concetto di lalingua e di godimento Uno, e scrive che: “Blablabla vuol dire esatta-mente che, considerata nella prospettiva del godimento, la parola non mira al riconoscimento, alla comprensione, ma è solo una modalità di godimento Uno. C’è il corpo che parla. C’è un corpo che gode in diffe-renti modi. Il luogo del godimento è sempre lo stesso, il corpo” 9.Per Jean-Claude Milner lalingua è “una moltitudine di arborescenze pullulanti cui il soggetto aggancia il suo desiderio, tanto che può sce-gliere qualsiasi nodo perché faccia segno” 10.
6. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 138.7. Ibidem, p. 144.8. J.-A. Miller, “Il Monologo dell’apparola”, in La Psicoanalisi, n. 20, Astrolabio, p. 27.9. J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001, p. 39.10. J.-C. Milner, L’amore della lingua, Spirali, Milano 1980, p. 104.
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Per la sua dimensione di “sciame ronzante”, nel suo essere “diacronica alluvionale” o “una moltitudine di arborescenze pullulanti”, sottratta alla pura comunicazione, lalingua può unire il corpo al linguaggio, e diventare il modo in cui il godimento diventa trasmissibile, in altri termini il modo in cui “una linguistica della vita” diventi trasmissibile.
la deportazione
I compagni di viaggio di Anne-Lise Stern all’inizio cantano i canti nelle loro lingue materne, in yiddish, in ebraico, in francese. Quando arrivano al campo trovano scritte ancora piene di speranza sui muri, sui letti di legno: ritornerò, ci rivedremo, ti amo… esortazioni e preghiere in tedesco, in ebraico, in francese.Poi tutto va verso il mutismo.La scrittrice armena Antonia Aslan racconta che la zia Henrietta, sopravissuta al genocidio degli Armeni del 1915, era una creatura della diaspora e non aveva una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa la sua, l’armeno, in modo legnoso, innaturale, come una straniera: in tutte faceva sbagli e non volle mai raccontare la sua storia” 11.Paul Celan, il poeta e traduttore ebraico, ci dà una testimonianza sul destino della lingua nel trauma quando scrive che “accessibile, vicina e non perduta rimase al centro di tutte le perdite soltanto la lingua. Lei, la lingua, rimase, non perduta, sì. Malgrado tutto. Ma essa ha dovuto attraversare le sue proprie assenze di risposta, attraversare un terribile mutismo, attraversare le mille tenebre portatrici di morte” 12.Nel campo i sopravissuti sembrano subire la mutilazione della parte affettiva della lingua, di quella parte che ha un suono, una materialità, un godimento che passa attraverso il corpo.
11. J. e V. Altounian, Ricordare per dimenticare, Saggine, Pomezia 2007.12. P. Celan, Le Meridien et Autres Proses, Seuil, Paris 2002, p. 56.
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Potremmo perfino definire lalingua come l’oggetto transizionale per eccellenza, il condensatore del legame perduto con il materno, che rende possibile la celebrazione della perdita della Cosa materna, in un modo del tutto singolare e creativo, per cui ognuno inventa la propria lalingua.
l’universalizzazione dei soggetti
Nel seminario undicesimo, Lacan fa un riferimento all’olocausto, al dramma del nazismo, e scrive che “l’ignoranza, l’indifferenza, il disto-gliere lo sguardo, possono spiegare sotto quale velo questo mistero resti ancora nascosto”. Occorre, per Lacan, “volgere uno sguardo coraggioso da parte di chiunque ne sia capace, senza soccombere al fascino del sacrificio in se stesso” 13.Nella “Proposta del 9 ottobre del 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, Lacan mette in correlazione la perdita della dialettica edipica, il declino della legge, con l’universalizzazione dei soggetti che procede dalla scienza, di cui il campo di concentramento ha mostrato l’evidenza e il nazismo si è mostrato il precursore.Scrive Lacan:
ciò che abbiamo visto emergere (dal campo di concentramento), con nostro orrore, rappresenta la reazione di precursori riguardo a ciò che andrà sviluppandosi […] a opera della scienza e segnatamente dell’univer-salizzazione che essa introduce qui. Il nostro avvenire basato sui mercati comuni troverà la sua bilancia con una sempre più dura estensione dei processi di segregazione 14.
13. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 2003, p. 270.14. J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, in Scilicet ¼, Feltrinelli, Milano 1977, p. 32.
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La logica segregativa la ritroviamo anche in quelle logiche di cura attua-li che considerano il soggetto umano, un oggetto da classificare, valu-tare, manipolare, contabilizzare, che vanno verso o fanno il verso alla logica segregativa a-fallica, di cui l’attuale civiltà ci mostra numerose declinazioni.
anoressia e trasmissione de lalingua
È stata la clinica dell’anoressia a suggerirmi una ricerca sul trauma e, conseguentemente, su lalingua nel suo aspetto traumatico e segregativo, specialmente in pazienti con scarso attaccamento al cibo.Mi sono trovata a isolare un gruppo di anoressiche che presentavano un carattere particolare in alcuni tratti comuni per cui sembra, che gusto, cibo e convivialità non siano stati iscritti nel luogo dell’Altro.Ho notato che queste donne hanno assunto il cibo finché la madre le ha nutrite e che, quando si sono trovate da sole a gestire il rapporto con il nutrimento e non c’era più la madre a mettere la porzione sul piatto, non sapevano più quale fosse la giusta porzione, quanto si può man-giare e non si può mangiare, perdendo gradatamente la dimensione del rapporto con il cibo. Qui il significante si trova ad essere slegato dalla Cosa, per cui il cibo è un resto, un oggetto immasticabile e incomme-stibile, essendo il significante ciò che rende commestibile La Cosa.Si tratta di figlie non nutrite – alimentate solo secondo il dettame della scienza dell’alimentazione, all’interno di una “conoscenza” educativa pseudo-scientifica, in grado di trasmettere un linguaggio, ma senza il sapere e il sapore de lalingua.Trovo che, in questi casi, non ci sia stata una trasmissione di godimen-to da parte del corpo materno, che a sua volta non l’ha ricevuto dalla propria madre: non ci sia stata quindi trasmissione de lalingua per generazioni.Il silenzio de lalingua, in questi casi, sarebbe ascrivibile ad un trauma
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che ha colpito le sorgenti della vita e che sia mancata la trasmissione de lalingua e di una linguistica della vita fin dall’origine.Non si tratta, in questi casi, del rifiuto anoressico, ma dell’effetto olofrasizzante della segregazione e dell’universalizzazione dei soggetti che troviamo nella categoria dei Nuovi Sintomi, per cui da non si “diparte uno sciame ronzante”, ma il mutismo de lalingua, che porta il soggetto dal lato del godimento mortifero della pulsione di morte.
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Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi
oralità e disturbi alimentariin psicoanalisi
di Edy Marruchi * 1
In queste pagine vengono indagati i concetti di “pulsione orale” e “oggetto orale” nel tentativo di comprendere come l’oralità sia implicata nella formazione del sintomo alimentare. A tal fine insieme ad Abraham ci si interroga su come l’erotismo orale influisca nella formazione del carattere. Con Freud, Abraham, Klein e Winnicot vengono messi al lavoro i concetti di “Incorporazione” e “Identificazione” mentre con Lacan viene studiato il “Complesso di Svezzamento” e le sue implicazioni nell’ in-sorgenza del disturbo alimentare. A partire dai riferimenti offerti da Freud e Lacan sul tema dell’anoressia si prosegue attraverso gli studi di altri autori che prendendo spunto dall’ insegnamento di Miller hanno messo al lavoro la loro esperienza clinica.
Parole chiave: pulsione orale, oggetto orale, erotismo orale, incorporazione, identificazione, anoressia, bulimia
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi Freud scrive che
la pulsione si differenzia [dall’istinto e dallo stimolo] per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta
* Edy Marruchi è psicoterapeuta. L’articolo è tratto dal suo lavoro di tesi di specializzazione in psicoterapia presso l’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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la pulsione diviene psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come un certo ammontare di energia, che preme verso una determinata direzio-ne. Da questo premere le deriva il nome di pulsione 1.
Per Freud “la pulsione appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentate psichico degli stimoli che traggo-no origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea” 2.La concezione freudiana della pulsione emerge dalla descrizione della sessualità umana. La nozione di pulsione resta per Freud sempre duali-sta: il primo dualismo proposto è quello tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io o di autoconservazione.La pulsione sessuale è una spinta interna che si riferisce ad un campo più vasto di quello dell’attività sessuale. Freud la vede operare prima come pulsione parziale legata alle singole zone erogene e poi, attraverso un’evoluzione, sotto il primato della genitalità. L’aspetto psichico di questa pulsione è designato col termine di libido che costituisce un polo del conflitto psichico ed oggetto privilegiato della rimozione.La pulsione di autoconservazione è una funzione legata alle funzioni somatiche necessarie alla conservazione della vita dell’individuo, come ad esempio la fame. Questo dualismo è presente secondo Freud, già alle origini della sessualità in quanto la pulsione sessuale si distacca dalle funzioni di autoconservazione su cui prima si appoggiava.Il dualismo pulsionale introdotto da Freud in Al di là del principio di piacere contrappone, invece, le pulsioni di vita alle pulsioni di morte e modifica la funzione e la collocazione delle pulsioni nel conflitto. In questa seconda formulazione della teoria la pulsione sessuale e quella di autoconservazione vengono unificate essendo entrambe assimilate alle
1. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, (1932), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2003, vol. XI, p. 205.2. S. Freud, Metapsicologia (1915), in Opere, cit., vol. VIII, p. 17.
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pulsioni di vita o Eros e contrapposta alle pulsioni di morte o Thanatos.Nella prima edizione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud introduce la nozione di pulsione parziale. La concezione freudiana dell’oggetto della pulsione si è formata nei Tre saggi sulla teoria sessuale a partire dall’analisi delle pulsioni sessuali.In quanto correlato alla pulsione, l’oggetto è ciò in cui e con cui essa cerca di raggiungere la sua meta, cioè un certo tipo di soddisfacimento. Può trattarsi di una persona o di un oggetto parziale, di un oggetto reale o di un oggetto fantasmatico.L’oggetto come mezzo contingente del soddisfacimento è l’elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento. Questa contingenza dell’oggetto non significa che qualsiasi oggetto possa soddisfare la pulsione, bensì che l’oggetto della pulsione è determinato dalla storia, soprattutto infantile di ciascuno.Possiamo riconoscere tre posizioni fondamentali in Freud rispetto all’og-getto 3:Nel testo del 1905, Tre saggi sulla teoria sessuale, l’oggetto è un surroga-to essendo sempre sostitutivo di qualcos’altro. Quando, ci dice Freud, l’adolescente scopre la bellezza del baciare le labbra che bacia, l’oggetto che trova è il surrogato del seno, che in quanto tale è sempre perduto.C’è un’articolazione fondamentale in Freud: l’oggetto della pulsione (orale in questo caso) è un surrogato dell’oggetto perduto. L’oggetto perduto è dunque barrato. La pulsione costruisce dei surrogati dell’og-getto perduto.Nello scritto del 1915 Pulsioni e loro destini Freud definisce variabile l’oggetto pulsionale. Afferma che è “la parte più variabile” del mon-taggio pulsionale. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può essere altresì una parte del corpo del soggetto. Può venire mutato infi-
3. M. Recalcati, Il trattamento dell’anoressia-bulimia nel piccolo gruppo monosintomatico, a cura di F. Galimberti, Unipress, Padova 1998.
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nite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua esistenza. A questo spostamento della pulsione spettano funzioni importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfaci-mento di più pulsioni, producendo ciò che Adler chiama “un intreccio pulsionale”. La bulimia mette in risalto questo aspetto: l’oggetto è asso-lutamente variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”. Lacan esprime questo concetto della variabilità dell’oggetto dicendo che “il desiderio è una metonimia”. Il desiderio è un continuo rilancio da un oggetto all’altro e in questo senso è una metonimia.Nel testo Lutto e melanconia, Freud afferma che l’oggetto è “insosti-tuibile”. Questa teoria sembra inconciliabile con la prima, nella quale l’oggetto è definito “variabile”. A partire dal fenomeno clinico della melanconia, Freud scopre che in essa c’è l’identificazione del soggetto con l’oggetto perduto. Questo oggetto non si lascia sostituire.Queste teorie freudiane sono alla base dell’idea di Lacan che il soggetto si diriga, non verso un oggetto qualsiasi, ma verso il vuoto, verso l’og-getto niente. Lacan nel seminario undicesimo, I quattro concetti fonda-mentali della psicoanalisi, afferma che la pulsione che afferra il proprio oggetto apprende che non è così che essa si soddisfa. Nessun oggetto può soddisfare la pulsione “Anche se rimpinzaste la bocca – bocca che si apre nel registro della pulsione – non è del cibo che essa si soddisfa ma, come si dice, del piacere della bocca” 4. Proprio per questo, ci dice Lacan, nell’esperienza analitica, la pulsione orale si incontra alla fine, in una situazione in cui “essa non fa altro che ordinare il menù” 5. Lacan ripren-de l’esempio della bocca che si bacia da sé. La definisce una bocca cucita 6 dove nell’analisi si può riconoscere, in certi silenzi, l’istanza pura della pulsione orale che si richiude sulla propria soddisfazione. L’oggetto su cui la pulsione si richiude, ci dice Lacan, in realtà non è un vuoto occupabi-
4. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della Psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 2003, p. 163.5. Ibidem, p. 163.6. Ibidem, p. 174.
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le, per riprendere Freud, da qualsiasi oggetto di cui possiamo conoscere l’istanza solo sotto forma dell’oggetto a. L’oggetto a non è l’origine della pulsione orale e non è introdotto a titolo di nutrimento primitivo, ma è introdotto dal fatto che nessun nutrimento soddisferà mai la pulsione orale, se non contornando l’oggetto eternamente mancante.A questo riguardo mi sembra interessante l’esempio di Erika, una giova-ne donna bulimica. Durante lo svolgimento del programma terapeutico per abuso di droga e alcool che sta compiendo all’interno di una comu-nità di recupero, a Erika viene richiesto di dipingere il proprio ritratto.
Osservando questo disegno risulta chiaro che per Erika la separazione dall’Altro materno non si è realizzata. Le due donne sono praticamente identiche: entrambe senza bocca, mani e seno. Prive cioè di quelle parti attraverso le quali avvengono i primi contatti tra madre e figlio. Si può pertanto ipotizzare in Erika un disturbo dell’oralità.Significativo è anche il racconto di un ricordo legato al padre. Parla di un episodio in cui l’uomo, scherzando, le dava dei baci ambigui. Erika
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era adolescente e ricorda di aver provato un forte imbarazzo. Si sentiva sporca. Alla scena aveva assistito la madre, la quale non sembrava tur-bata. Esprime il dubbio di essere stata lei a fraintendere l’atteggiamento del padre e teme di aver considerato come sporca una semplice manife-stazione d’affetto.Erika non riesce simbolicamente a collocare questi atteggiamenti pater-ni a causa della sua relazione enigmatica con l’aspetto orale.La difficoltà che Erika ha a livello dell’oralità prende la via del disturbo alimentare quando aveva 13 anni. Ricorda che in quel periodo provava un forte astio per la madre. Una sera mentre la madre portava in tavola un vassoio di tagliatelle al ragù fu attanagliata dal forte odore. Era una sensazione insopportabile, quasi una morsa che la faceva impazzire e sentire in trappola. Vomitò tutta la sera. Da quel momento iniziarono i suoi problemi col cibo: vomita più volte al giorno. Ecco che l’oggetto orale, insostenibile, deve essere espulso sul piano reale. Nel rifiuto di Erika verso il cibo saporito preparato dalla madre possiamo riconoscere il timore di Erika di essere risucchiata dal desiderio materno che deve esse-re assolutamente rifiutato. Definisce infatti la madre come “una donna che succhia parecchio”. Secondo Erika per poter essere amata dalla madre avrebbe dovuto annientarsi, rinunciare alla propria identità e far coincidere i propri desideri con i suoi. Afferma che la sabbia del disegno è la madre. Nel disegno c’è un forte odore di sabbia polverosa che soffoca e toglie il respiro e ingloba in sé ogni cosa: sentimenti, bisogni, volontà. Odia la madre ma teme che muoia perché ha paura di scomparire con lei.Lacan specifica che cos’è la pulsione orale:
Si parla di fantasmi di divorazione, di farsi poppare. Tutti sanno, in effetti, che è proprio questo, confinante con tutte le risonanza del masochismo, il termine altrificato della pulsione orale. […] Dato che ci riferiamo al pop-pante e al seno, e che l’allattamento è la suzione, diciamo che la pulsione orale è il farsi succhiare, è il vampiro. Questo ci illumina, d’altro canto, su ciò che è quell’oggetto singolare che io mi sforzo di scollare nella vostra
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mente dalla metafora del nutrimento, cioè il seno. Il seno pure è qualcosa di appiccicato. Che succhia. Che cosa succhia? L’organismo della madre. In questo modo, è sufficientemente indicato, a questo livello, qual è la rivendicazione, da parte del soggetto, di qualcosa che è separato da lui, ma che gli appartiene e di cui si tratta che si completi 7.
Secondo Karl Abraham la suzione costituisce l’elemento principale dell’erotismo orale:
La suzione o il ciucciare, che si presenta già nel poppante e viene prosegui-ta fin negli anni della maturità o può mantenersi per tutta la vita, consiste in un contatto di succhiamento aritmicamente ripetuto con la bocca (le labbra), nel quale lo scopo dell’assunzione di cibo è escluso. Una parte delle labbra, la lingua, un qualsiasi altro punto della pelle – persino l’alluce – vengono presi per oggetto sul quale si esegue il succhiamento. […] Il suc-chiare con delizia è collegato a un completo assorbimento dell’attenzione, e produce o l’assopimento o anche una reazione motoria […] 8.
Freud continua affermando che, in questo contesto, la pulsione sessuale è autoerotica e si soddisfa sul proprio corpo. Inizialmente il soddisfaci-mento della zona erotica era associato al soddisfacimento del bisogno di nutrizione. Il bisogno di ripetere il soddisfacimento sessuale viene necessariamente diviso dal bisogno dell’assunzione di cibo quando spuntano i denti e il nutrimento non viene più esclusivamente succhia-to ma masticato. Il bambino per succhiare non si serve di un oggetto estraneo, bensì di un punto della propria pelle. Questo perché per lui è più comodo e lo rende indipendente dal mondo esterno che egli non è ancora capace di dominare. Tutto ciò permette che si crei una seconda zona erogena, anche se di minor importanza.
7. Ibidem, p. 190.8. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, in Opere, cit., vol. IV.
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K. Abraham 9 afferma che, oltre alla fonte anale un’altra fonte originaria per la formazione del carattere è l’erotismo orale.Abraham ricorda che una gran parte dell’investimento libidico della bocca, proprio della prima infanzia, rimane utilizzabile nella vita suc-cessiva. Le porzioni orali della sessualità infantile non hanno perciò bisogno di essere assorbite nella stessa misura di quelle anali nella for-mazione di carattere o nella sublimazione.Durante la prima infanzia è presente un intenso piacere connesso all’attività del succhiare, piacere non esclusivamente legato ai processi di nutrizione ma legato all’importanza della bocca come zona eroge-na. Questa forma primitiva di soddisfacimento del piacere non viene mai del tutto superata dall’individuo ma continua ad esistere, anche se mascherata, per tutta la sua vita. Lo sviluppo fisico e psichico del bambino implica tuttavia una rinuncia sempre più ampia al piacere di succhiare. Queste progressive rinunce possono avvenire solo a partire da uno scambio. Il processo di dentizione ad esempio permette di perdere buona parte del piacere di succhiare in cambio del piacere di mordere. In questo periodo si stabiliscono relazioni ambivalenti del bambino verso oggetti esterni. Queste relazioni saranno condizionate dal piacere di succhiare e di mordere.In questo stesso periodo il piacere di succhiare inizia una specie di pere-grinazione. Quasi contemporaneamente allo svezzamento del bambino dall’assunzione del cibo mediante suzione ha luogo la sua assuefazione alla pulizia del corpo.Un’elaborazione ben riuscita dell’erotismo orale rappresenta il primo e più importante presupposto di un comportamento futuro normale, dal punto di vista sociale e sessuale. Molteplici sono però le possibilità di un disturbo di questo importante momento dello sviluppo.Abraham continua sostenendo che il periodo della suzione può essere
9. K. Abraham, Studi psicoanalitici sulla formazione del carattere, 1925, in Opere, Bollati Borin-ghieri, Torino 1997, vol. I.
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per il bambino particolarmente ricco di dispiacere e povero di piacere. Questo dipenderà dalle particolari condizioni della nutrizione.In altri casi lo stesso periodo può essere invece ricco di piacere. Quello che ne risulta alla fine è una accentuata difficoltà nello svezzamento del bambino.Sia che il bambino in questo primo periodo della vita sia stato forza-tamente privato del piacere, sia che sia stato viziato con una quantità eccessiva di piacere, l’effetto in entrambi i casi è lo stesso: il bambino si distacca dallo stadio della suzione in condizioni più difficili del normale.Dal momento che il suo bisogno di piacere, per difetto o per eccesso, è troppo esigente, il desiderio di piacere del bambino si precipita con particolare intensità sulle possibilità di piacere dello stadio successivo. Il pericolo in cui incorre è quello di restare deluso e di reagire a questa delusione con una tendenza rafforzata alla regressione al primo stadio.In questi bambini è particolarmente accentuato il piacere di mordere. L’inizio della formazione del carattere si compie in un bambino di questo tipo nel segno di un’ambivalenza fortemente accentuata. Può succede-re che un bambino che si trova nello stadio dove il cibo viene assunto mordendo e masticando abbia occasione di vedere un altro bambino che succhia. In questo caso l’invidia può assumere un particolare incremen-to. Possiamo riconoscere questi tratti nel travestitismo o nell’avidità di possedere, specialmente in forma di parsimonia anormale e di avarizia. Questi tratti che, continua Abraham, appartengono ai fenomeni clinici del carattere anale “si edificano così sulle macerie di un erotismo orale danneggiato nel suo sviluppo” 10. Pertanto possiamo affermare che l’eroti-smo orale fornisce dei contributi direttamente alla formazione del carat-tere. In certi casi tutta la formazione del carattere è sotto l’influsso orale.Alcuni individui, quelli viziati nel periodo dell’allattamento, sono domi-nati dall’aspettativa che sia sempre presente una persona buona da cui ricevere il necessario per vivere (sostituto della madre). Questo atteggia-
10. Ibidem.
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mento li conduce all’inattività. Possiamo incontrare persone pervase da una grave serietà che sfocia addirittura in pessimismo, questo tratto è in gran parte originato dalla delusione dei desideri orali legati alla prima infanzia. In queste persone troviamo un atteggiamento sempre appren-sivo nei confronti della vita a cui si associa anche l’inclinazione a “darsi pena” per qualunque cosa e a rendere più difficili del necessario anche gli eventi più semplici dell’esistenza. L’influenza di tale formazione del carattere che ha le sue radici nell’erotismo orale, precisa Abraham 11, si rileva in tutto il comportamento sociale dell’individuo ed è presente anche nella scelta della professione, delle simpatie e dei passatempi.Nel comportamento sociale di persone che non riescono a liberarsi dagli effetti posteriori di un insoddisfacente periodo di allattamento troviamo la tendenza a pretendere sempre qualche cosa, sia nella forma del chiedere sia nella forma dell’esigere. “Il modo in cui manifestano i loro desideri ha in sé qualcosa del succhiare insistente; non si lasciano distogliere né dalla realtà dei fatti, né da obiezioni razionali, ma conti-nuano a incalzare e insistere. Essi tendono ad attaccarsi agli altri come sanguisughe” 12. In alcune persone incontriamo tratti di carattere che dobbiamo ricondurre a uno spostamento peculiare della sfera orale. L’intenso desiderio di procurarsi soddisfacimento attraverso la suzione si è trasformato in loro nel bisogno di dare attraverso la bocca. Troviamo pertanto un impulso continuo a comunicare con gli altri per via orale. Da ciò deriva un impulso ostinato a parlare. In tali casi le relazioni più importanti vengono effettuate attraverso “la scarica orale” 13.Anche nelle formazioni del carattere derivate dallo stadio sadico-orale il parlare assume la rappresentanza di altri impulsi rimossi.Da queste osservazioni Abraham suggerisce che si possono cogliere quali varietà e differenze esistono nell’ambito della formazione del carattere orale. Le differenze più importanti dipendono dal fatto che
11. Ibidem.12. Ibidem.13. Ibidem.
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una manifestazione di carattere si sia sviluppata sulla base del primo stadio orale o del secondo, se sia dunque l’espressione di una tendenza inconscia al succhiare o al mordere.
Le manifestazioni del desiderio e dell’aspirazione più intensi derivano dallo stadio orale primario; appena necessario ricordare che non dobbiamo in alcun modo trascurare la partecipazione di altre fonti pulsionali. Le tendenze di desiderio che derivano da quel primo stadio sono però ancora libere dall’azione distruttiva dell’oggetto che è propria dei moti pulsionali dello stadio seguente 14.
Come tratto di carattere orale si trova spesso la generosità. In essa la persona oralmente soddisfatta si identifica con la madre che dà. Nello stadio sadico-orale invece, invidia, rancore e gelosia rendono impossibi-le un tale comportamento.Secondo Abraham anche nel comportamento sociale esistono significative differenze a seconda dello stadio evolutivo della libido dal quale deriva la formazione del carattere. I primi si mostrano sereni e socievoli mentre coloro che si sono fissati allo stadio sadico-orale risultano ostili e mordaci.Le persone con carattere orale sono aperte al nuovo.
In molte persone troviamo, accanto ai tratti orali di carattere descritti, altre manifestazioni psicologiche, che dobbiamo derivare dalle medesime fonti pulsionali. Si tratta in parte d’impulsi che si sono sottratti ad ogni trasformazione sociale. Sono da ricordare in particolare l’avidità del cibo patologicamente accresciuta e la tendenza alle più diverse perversioni orali 15.
Abraham sottolinea l’importanza dell’integrazione di impulsi provenien-ti da zone erogene diverse per raggiungere dei risultati il più possibile
14. Ibidem.15. Ibidem.
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favorevoli. Afferma che la pratica psicoanalitica permette di conoscere le conseguenze di una integrazione poco riuscita. Alcune persone, per esempio, fanno subito uscire dalla loro bocca ciò che hanno appena assunto e tendono a vomitare il cibo che hanno appena ingerito. Sono persone che hanno una estrema impazienza nevrotica; nella loro forma-zione di carattere manca una combinazione favorevole di impulsi orali che spingono in avanti e di impulsi anali rallentanti.Freud considera la fase orale come la prima organizzazione pre-genitale della libido che si forma nei primissimi mesi di vita del bambino e dura approssimativamente fino al secondo anno di età. Questa fase è carat-terizzata, da una parte, dall’attività della suzione, fonte di piacere, e dall’altra, dall’introiezione, cioè dall’impossessamento dell’oggetto attra-verso l’introduzione orale (incorporazione). Incorporando gli oggetti il bambino si unisce ad essi e con essi si identifica. La comunione magica di “diventare la stessa sostanza” è operata dall’atto del mangiare.Per questa ragione la fase orale è chiamata da Freud anche “cannibalica”.K. Abraham distingue due stadi della fase orale: uno di tendenza recet-tivo-passiva, anteriore all’eruzione dei denti, nel quale non vi è alcun oggetto, ma solo il piacere di succhiare; l’altro, posteriore alla denti-zione, che si esprime mordendo gli oggetti e manifestando elementi di aggressività o sadismo orale.L’incorporazione, intesa come introduzione e conservazione, reale o fantasmatica di un oggetto nel proprio corpo è tipica della fase orale.Freud 16 attribuisce all’incorporazione tre significati:
1 procurarsi un piacere facendo penetrare un oggetto in se stessi2 distruggere l’oggetto3 assimilare le qualità dell’oggetto conservandolo dentro di sé.
M. Klein 17 ha visto nel secondo aspetto il tratto tipico della fase sadico-
16. S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920, in Opere, cit., vol. IX.17. M. Klein, “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi” (1935), in Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri. Torino 1997.
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anale, mentre Abraham 18 ha colto la relazione tra l’incorporazione e il cannibalismo dei primitivi.Cannibalismo inteso in riferimento alla fase orale dello sviluppo libidico e più specificamente alla componente sadica presente in tale fase dove si assiste al desiderio di incorporazione dell’oggetto amato che verrà sosti-tuito, nel corso dell’evoluzione psicosessuale, dall’identificazione.L’incorporazione, o introiezione, rappresenta una forma di identifica-zione primaria analoga a quella che caratterizza il cannibalismo dei primitivi motivato, secondo Freud, dalla credenza che “assimilando in sé, mediante ingestione, parti del corpo di qualcuno, ci si impadronisse anche delle qualità che a costui erano proprie” 19.Lo stesso significato di appropriazione viene attribuito da Freud al “pasto totemico” compiuto agli albori della storia dell’uomo, quando i figli si allearono fra loro e dopo aver ucciso il padre che interdiceva loro l’uso delle donne del clan, lo divorarono.K. Abraham suddividendo la fase orale in due sottofasi:– di suzione, caratterizzata dalla fusione di libido e aggressività– di morsicamentoattribuisce l’oggetto cannibalico solo alla seconda, dove distingue un cannibalismo parziale da un cannibalismo totale. Quest’ultimo “senza alcuna limitazione” è possibile solo sulla base di un narcisismo illimi-tato. In questo stadio è tenuto in considerazione soltanto il desiderio di piacere del soggetto mentre l’interesse dell’oggetto non viene considera-to bensì esso viene distrutto senza alcuno scrupolo. Lo stadio del canni-balismo parziale pur portando ancora in sé i segni della sua origine dal cannibalismo totale ne differisce in modo radicale.Per la Klein invece questo concetto è impiegato nell’area della patolo-gia depressiva, dove la pulsione cannibalica, se è eccessiva è causa della melanconia.
18. K. Abraham Vedute psicoanalitiche su alcune caratteristiche del pensiero infantile, 1923 in Opere, cit., vol. I.19. S. Freud, Totem e tabù, 1912-13, in Opere, cit., vol. VII, p. 88.
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L’incorporazione è il prototipo dell’identificazione o almeno di determi-nate modalità identificatorie in cui il processo mentale è vissuto e simbo-lizzato come una operazione somatica (ingerire, divorare, conservare den-tro sé…) ed è incidente per la strutturazione del funzionamento psichico.In generale, in tutti i casi in cui vi sono problemi di identità, questi sono connessi con un disturbato rapporto oggettuale, dovuto alle alterazioni dei processi identificatori così che i quadri clinici che ne conseguono sono dipendenti dalla gravità e precocità dei fenomeni che intervengono nell’alterazione di questi processi.Nell’esperienza psichica del soggetto il cibo assume un significato sim-bolico in cui la funzione, non essendo solo quella di nutrimento, è anche quella di essere il primo oggetto che riceve dall’altro, è il primo dono e il primo segno di riconoscimento della sua esistenza come soggetto.Tutte le teorizzazioni psicoanalitiche, a partire da Freud (1936), hanno riservato un posto centrale alla dimensione del cibo e del nutrimento. Nella fase orale di sviluppo il bambino entra inizialmente in contatto con il mondo attraverso la bocca, fonte di nutrimento e di eccitazio-ne, ma è anche la prima fase di sviluppo basata sul rapporto primario nutritivo e di accudimento con la madre, fonte di soddisfacimento dei bisogni e del piacere sessuale legato alla sensorialità alimentare.Per Winnicot (1969) la madre trasmetterebbe il suo amore al lattante non solo nutrendolo e accompagnando l’allattamento con gesti e parole affettuose ma anche attraverso i contatti corporei che si stabiliscono tra madre e figlio. Sarebbero questi contatti che permetterebbero al lattan-te di formare una specie di “membrana di delimitazione” sovrapponibi-le all’epidermide ed è in questo modo che si formerebbe la percezione della propria identità e il concetto di esterno e interno. Affinché questo processo avvenga in modo corretto è necessario anche che l’offerta materna sia adeguata alle richieste del bambino. Quanto più vasta sarà stata l’area delle risposte appropriate alle svariate espressioni delle sue necessità e dei suoi impulsi tanto più il bambino sarà in grado di dif-ferenziare e identificare le sue esperienze fisiche da altre sensazioni. La
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mancanza di risposte congrue alle sue necessità priva il bambino, che si sviluppa, delle basi essenziali su cui costruire la propria “identità fisica” e la consapevolezza percettiva e concettuale delle proprie funzioni.L’attività orale rappresenta una forma primitiva di conoscenza e di rap-porto con il mondo esterno e l’affettività legata alle prime esperienze alimentari può influire sul comportamento alimentare molto più delle caratteristiche dell’alimento. Il comportamento alimentare è quindi il risultato di influenze precoci che però possono avere effetti duraturi non soltanto sul comportamento psichico ma anche sulle caratteristiche ana-tomo-fisiologiche dell’adulto. L’importanza che viene attribuita al cibo può avvenire perché esso è deviato dalla sua origine naturale attraverso la manipolazione gastronomica e grazie all’iniziale dimensione relazionale con l’altro assume la funzione di oggetto pulsionale introducendo nel campo del soddisfacimento del bisogno un “soddisfacimento pulsionale”.Il soddisfacimento pulsionale non coincide con il soddisfacimento del bisogno naturale in quanto la pulsione domanda non tanto il soddisfa-cimento del bisogno, per esempio di mangiare, ma il soddisfacimento libico dell’oralità come zona erogena investita dall’azione pulsionale.La pulsione è un movimento che cerca di scavare nell’Altro un vuoto, affinché si apra una mancanza nella quale il soggetto possa iscriversi. Questo è il cannibalismo della pulsione orale.Un attaccamento particolarmente forte della pulsione al suo oggetto viene messo in rilievo come “fissazione” della pulsione. La fissazione si produce spesso in periodi remotissimi dello sviluppo pulsionale e pone fine alla mobilità della pulsione opponendosi vigorosamente al suo stac-carsi dall’oggetto. Da questa e da altre definizioni di Freud è possibile dedurre che l’impiego della parola “oggetto” avviene seguendo due serie contrapposte, nelle quali si raggruppano i vari significati: la prima serie distingue tra oggetto esterno, sia nel senso che appartenga al mondo esterno, sia che si riferisca ad una parte del corpo del bambino vissuta come esterna, e oggetto interno che è la rappresentazione dell’oggetto a cui il soggetto reagisce come di fronte all’oggetto esterno da cui è deriva-
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to mediante introiezione. La seconda serie distingue tra oggetto parziale che è tanto una parte del corpo (seno, feci, pene) quanto un suo equi-valente simbolico (oggetto parziale può essere anche una persona nella sua totalità, come la madre, ma visualizzata come se fosse un oggetto che esiste solo per soddisfare i propri bisogni); e oggetto totale che è la persona con cui il soggetto entra in rapporto, percependola come altro da sé, con cui è possibile instaurare una relazione psicologica. All’og-getto parziale fanno riferimento le pulsioni parziali, ossia le pulsioni in cerca ciascuna della propria soddisfazione perché ancora devono trovare un centro intorno a cui organizzarsi. Tale centro è la genitalità, per cui pulsioni e oggetti parziali si riferiscono alle fasi pregenitali.Freud ha messo in evidenza gli spostamenti che si stabiliscono tra i vari oggetti parziali come nella sequenza bambino-pene-feci-denaro-dono, o come nel caso della donna che passa dal desiderio del pene al desiderio dell’uomo, con la possibilità di una regressione dall’uomo al pene come oggetto del suo desiderio, o le fissazioni ad un oggetto, dette anche “costanza d’oggetto”, come nel caso del feticismo e in tutti quei casi in cui il soggetto rifiuta i sostituti di un oggetto familiare.Rientrano nel gruppo di oggetti legati all’affettività i correlati dell’amore e dell’odio che caratterizzano la relazione tra una persona totale o istan-za dell’io e un’altra persona, entità o ideale o percepito come oggetto totale. Tali oggetti si incontrano quando si è raggiunta la fase genitale, e con essi il soggetto ha un rapporto non più biologico ma propriamente psicologico. Alla scelta oggettuale, che riconosce l’altro nella sua alterità e non solo come strumento di soddisfazione dei propri bisogni, si per-viene dopo aver superato lo stadio narcisistico che assume come oggetto d’amore il proprio corpo. Questo stadio, scrive Freud, consiste nel fatto che l’individuo nel corso del suo sviluppo, mentre unifica le pulsioni ses-suali già agenti autoeroticamente al fine di procurarsi un oggetto d’amo-re, assume anzitutto se stesso, vale a dire il proprio corpo come oggetto d’amore, prima di passare alla scelta oggettuale di una persona estranea.Con l’espressione “relazione oggettuale” si sottolinea l’originarietà della
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relazione rispetto all’individuo considerato nel suo isolamento. La rela-zione non si limita ad indicare il modo con cui il soggetto costituisce i suoi oggetti, ma anche il modo in cui questi agiscono su di lui. Tale è la posizione di M. Klein secondo la quale gli oggetti proiettati e intro-iettati esercitano un’azione persecutoria o rassicurante sul soggetto. Le relazioni oggettuali si riferiscono in psicoanalisi ai momenti evolutivi come la relazione oggettuale orale, anale, fallica; in psicopatologia alle forme di estraniazione come, ad esempio, la relazione oggettuale melan-conica o maniacale.Il concetto di “scissione dell’oggetto” è stato introdotto dalla Klein secondo la quale l’oggetto verso cui convergono le pulsioni erotiche e distruttive è scisso in “oggetto buono” e “oggetto cattivo” che subiscono destini diversi nel gioco delle proiezioni e introiezioni. La scissione è un primitivo meccanismo di difesa contro l’angoscia e si riferisce nella posizione schizoparanoide a oggetti parziali, e in quella depressiva all’oggetto totale. Per l’effetto dell’introiezione degli oggetti, anche l’Io viene scisso in “buono” e “cattivo”.Winnicot introduce il concetto di “oggetto transizionale” per indicare un oggetto materiale, per esempio il lembo della coperta o il pupazzo, che il bambino tra i 4 e i 12 mesi tiene presso di sé per addormentarsi. Fenomeno normale che consente al bambino di passare dalla prima relazione con la madre alla relazione oggettuale. L’oggetto transizionale, pur costituendo un momento di passaggio verso la percezione di un oggetto nettamente separato dal soggetto, non perde la sua funzione nel periodo successivo, dove riappare specialmente in occasione di fasi depressive. Secondo Winnicot, l’oggetto transizionale appartiene a quel campo intermedio dell’esperienza che è il campo dell’illusione i cui contenuti non sono riconducibili né alla realtà interna né esterna. Essa costituisce la parte più importante dell’esperienza del bambino e il suo protrarsi nell’età adulta alla base della successiva vita immaginativa.Per quanto riguarda l’anoressia-bulimia a partire da Freud e Lacan fino ad arrivare ad Abraham e Klein vediamo emergere due paradigmi fon-
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damentali: quello della discontinuità fra le strutture cliniche e quello della continuità di tali strutture.Lo sviluppo post-freudiano della psicoanalisi nel campo della clinica ha imboccato la via del continuismo di nevrosi e psicosi cancellando il rigore della differenza tra le strutture sostenuto da Freud. L’effetto nella clinica dell’anoressia e della bulimia è ridurre la psicosi ad una sorta di nucleo interno arcaico del soggetto come arresto di un passaggio evo-lutivo normale. Si pensi alla posizione schizoparanoide teorizzata dalla Klein alla base delle psicosi. È da questo presupposto storico-teorico che si può ipotizzare l’anoressia come una specie di psicosi localizzata, di regressione soggettiva a modalità primitive di funzionamento psichico.Nell’insegnamento di Freud e di Lacan è mantenuta come essenziale la discontinuità strutturale di nevrosi e psicosi. La nevrosi indica una posizione del soggetto sostenuta dalla rimozione come simbolizzazio-ne originaria che produce come effetto nel soggetto una perdita di godimento dal corpo e una pulsionalizzazione del corpo stesso. Nella psicosi la posizione del soggetto appare invece condizionata da un fal-limento dell’azione originaria della rimozione. Questo fallimento della simbolizzazione edipica lascia il soggetto in balia di un godimento non localizzato. È ciò che Lacan denomina forclusione del Nome-del-Padre. Il suo effetto è che il soggetto è oggetto reale del godimento dell’Altro. A partire da questa prospettiva possiamo considerare che esistano ano-ressie e bulimie nevrotiche e psicotiche.Nei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud correla l’anoressia all’isteria intendendola come sintomo di conversione, manifestazione sintomatica dovuta alla rimozione dell’erotismo orale.Nell’anoressia è una fissazione all’erotismo orale, dunque un’erotizza-zione della zona erogena bucco-labiale, che determina una rimozione dell’appetito. Il disgusto anoressico-isterico è così indice ad un tempo della fissazione e della rimozione della pulsione orale. L’anoressia iste-rica lotta contro la pulsione, punta a disgiungere desiderio e soddisfa-cimento, mira a salvare la purezza del proprio desiderio non inquinato
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dall’orrore della pulsione, che trova il suo punto di fissazione nell’orali-tà. Il “no” al cibo è un “no” che il soggetto dice per smarcarsi sia dalla propria pulsionalità che dal godimento dell’altro. Il binomio pulsione-godimento viene sacrificato in nome del desiderio da preservare: man-care all’Altro per essere desiderata, amata.Il rifiuto come la bramosia irrefrenabile per l’oggetto cibo hanno in questo quadro una medesima radice. Il rifiuto del cibo e il vuoto ricrea-to al termine delle abbuffate bulimiche costituiscono il perno del circu-ito pulsionale in atto nell’anoressia isterica.Nei tre saggi Freud avanza la tesi della sostituibilità dell’oggetto della pulsione e dell’esistenza di due distinti tipi di soddisfacimento: uno legato all’ordine biologico-naturale-istintuale, l’altro non riducibile ad esso e delimitante il campo pulsionale in quanto tale.Sia il rifiuto anoressico che la ricerca del vuoto enfatizzano, in questa pro-spettiva, la purezza dell’attività pulsionale che, non potendosi mai soddi-sfare attraverso l’incontro con un oggetto, si rianima di volta in volta proprio nella ripetizione dell’incontro con il vuoto causato dalla perdita. Così mentre con la scelta anoressica il soggetto punta a raggiungere il soddisfacimento solamente nell’affermazione pura del desiderio, con la scelta bulimica il soggetto cerca di staccarsi dal godimento in eccesso della divorazione, attraverso il vomito, per raggiungere il desiderio.Nella Minuta G Freud considera l’anoressia come un parallelo nevrotico della melanconia.
La nevrosi alimentare parallela alla melanconia è l’anoressia. La ben nota anorexia nervosa delle ragazze mi sembra essere (da osservazioni accu-rate) una melanconia che si verifica ove la sessualità non è sviluppata. La paziente asseriva che non mangiava semplicemente perché non aveva appetito, e per nessun’altra ragione. Perdita di appetito: in termini sessuali, perdita di libido 20.
20. S. Freud, Minuta G, in Opere, cit., p. 30.
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In questa stessa opera è reperibile anche una seconda matrice che Freud rinviene all’origine dell’anoressia: quella melanconica. Anoressia come paradigma della posizione melanconica. “Così non sarebbe inopportu-no partire dall’idea che la melanconia consiste nel lutto per la perdita della libido” 21. Pertanto possiamo constatare che Freud divide l’ano-ressia melanconica, fondata sulla perdita di libido nella vita pulsionale, dall’anoressia isterica, basata sul meccanismo della difesa-disgusto. Freud sottolinea la distinzione tra “dimensione del lutto” e “lavoro del lutto”.Nell’anoressia il lutto per l’oggetto perduto annienta la possibilità stessa di un lavoro del lutto.Nell’anoressia troviamo una fissazione enigmatica all’oggetto perduto. Fissazione che dapprima spinge Freud, come abbiamo visto, ad avan-zare l’ipotesi di una perdita tout court della libido e che, in un secondo tempo, in Lutto e melanconia, lo condurrà a teorizzare l’identificazione all’oggetto perduto come una sorta di spostamento della libido (dall’og-getto all’io) che produce l’effetto melanconico vero e proprio come estensione dell’ombra dell’oggetto sull’io.Nell’anoressia troviamo sia il rifiuto come scudo del desiderio rispetto alla domanda dell’Altro, che la riduzione del desiderio stesso a rifiuto, ovvero rifiuto del desiderio.Possiamo considerare la prima oscillazione come l’oscillazione isterica dell’anoressia e la seconda come l’oscillazione melanconica. Nell’oscil-lazione melanconica dell’anoressia, il desiderio come rifiuto, si verifica una degradazione del desiderio a rifiuto. Il soggetto non domanda più nulla. Il desiderio viene rifiutato e si annulla nel godimento puro della pulsione di morte.Questo tema è ripreso da Freud in Lutto e melanconia. In questo testo, come ho anticipato, Freud considera la posizione anoressica come feno-meno che può accompagnare alcune gravi forme di melanconia. “L’Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibali-
21. Ibidem, p. 30.
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ca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melan-conia” 22. L’ostinato rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia è qui inteso da Freud alla luce del cannibalismo che carat-terizza la fase orale, in cui la meta sessuale consiste nell’incorporazione e in cui l’Io vorrebbe incorporare l’oggetto per distruggerlo.Nella melanconia, a differenza che nel lutto in cui il mondo si svuota dell’investimento libidico, è l’Io stesso ad essere svuotato. Questo impo-verimento dell’Io è causato dall’incapacità di elaborare la perdita d’og-getto, la quale invece di generare il lavoro del lutto produce un’identifi-cazione dell’Io con l’oggetto perduto di modo che l’ombra dell’oggetto cade sull’Io, come dice Freud.
La libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì ripor-tata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti viene ad essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione 23.
In questa declinazione l’anoressia incarna realmente il rifiuto della castrazione: il soggetto anoressico, osso-scarto, rifiuto, permane in uno stato di identificazione mortificante con l’oggetto perduto. L’identi-ficazione idealizzante nell’anoressia o il ciclo abbuffata-vomito nella bulimia possono articolarsi come vere e proprie compensazioni del Nome-del-Padre forcluso: nella posizione anoressica, erigendo una sorta di barriera tra il soggetto e l’Altro persecutore in modo da rendere così
22. S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere, cit., vol. VIII, p. 109.23. Ibidem, p. 108.
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possibile la tenuta di un’unità immaginaria dell’io. In quella bulimi-ca invece, mantenendo a distanza l’oggetto a, attraverso il vomito, in modo da preservare la sua esteriorità rispetto alla posizione del soggetto.Paola Francesconi 24 ci invita a riflettere sulla mutazione dell’incidenza della pulsione orale dai tempi di Freud ad oggi. Sottolinea che nes-suno penserebbe di diagnosticare l’introiezione cannibalica del Padre primigenio del mito freudiano Totem e Tabù come passaggio all’atto bulimico. L’introiezione cannibalica del padre non era espressione di disfunzione pulsionale, ma movimento di appropriazione delle insegne ideali dell’Altro. Mangiare il padre è la più antica versione mitica di modalità di legame con l’oggetto idealizzato. Con questo atto si aboli-sce la distanza tra sé e l’oggetto idealizzato per garantirsene la presenza dentro di sé. Freud afferma che “l’Io assimila i tratti dell’oggetto amato, diventa un po’ come lui” 25.Questa è la nascita della civiltà: catturare in sé l’oggetto per esserne tra-sformati. L’incorporazione garanzia di identità, di assunzione simbolica di un ideale solo nell’uomo. L’introiezione cannibalica degli attributi paterni non assicura però un’identità alla donna come tale. Il mito di Totem e tabù non è adatto a rendere conto della posizione femminile. Quello che possiamo evincere da queste riflessioni è che se da un lato in Freud troviamo che esiste un registro della pulsione orale sublimabile in identificazione, è altrettanto vero che nella donna l’oralità non è inte-ramente simbolizzabile. Non è un caso che le patologie della pulsione orale colpiscano soprattutto le donne. Il dissidio tra pulsione e Ideale è in germe nella posizione femminile. Paola Francesconi 26 ci propone un confronto tra il mitico Convivio di Totem e tabù e quello descritto nel testo L’ultima cena: anoressia e bulimia 27. (Il Convivio dell’Ultima Cena viene utilizzato da Massimo Recalcati come metafora della rottura del
24. P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, 1997, Astro-labio, Roma.25. S. Freud, Totem e tabù, in Opere, cit., pp. 293-298.26. P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, cit..27. M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondatori, Milano 1997.
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patto con l’Altro). Nel primo la pulsione orale sacrifica l’oggetto orale e si soddisfa di un oggetto trasformato simbolicamente. Nel secondo abbiamo il cibo simbolizzato, trasformato dalla cucina dell’Altro e inve-stito di valore simbolico. L’anoressia e la bulimia dicono di no a questo oggetto simbolizzato: la prima rifiutandolo e la seconda facendolo regredire a oggetto reale. Nelle anoressie e bulimie la pulsione orale è diventata veicolo privilegiato di un dissenso nuovo con l’Ideale.Lacan ci insegna a leggere ogni disturbo come modo di rapportarsi con l’Altro simbolico. Qual è l’Altro dell’anoressia e bulimia? Francesconi in questo testo mette in risalto come questo Altro sia un “Altro divorante” che emerge con una consistenza nuova a partire dai moderni disagi dell’oralità. Nel fenomeno anoressico e bulimico non reperiamo un appello al padre ma piuttosto una sfida a un padre che non ha niente da offrire, che può solo assistere al corpo che va alla deriva di un godi-mento fuori dalla sua legislazione. Nella bulimia la sfida si traduce nello spettacolo offerto di un corpo degradato a sacco, a pattumiera colma di cibo. Nell’anoressia la sfida si traduce nella presentazione di un corpo ridotto a sacco vuoto, a ideale cadaverico.Una delle funzioni determinanti del Padre simbolico è quella di addo-mesticare l’Altro materno, di introdurre una legge nel suo desiderio. L’Altro materno, che il bambino elegge a supporto dei propri oggetti pulsionali, viene trasformato dal Padre in Altro castrato, mancante del fallo e orientato a cercarlo nel Padre. Il Padre separa il bambino dall’Al-tro pulsionale e fa di questo un Altro desiderante il fallo. Rotto il patto con l’Altro paterno, in conseguenza anche della caduta ideale del Padre come testimonia il nostro moderno disagio della civiltà, l’anoressia e la bulimia installano al suo posto l’Altro materno nella forma dell’Altro divorante. Un Altro che non fornisce più identificazioni. Ciò che non è simbolizzabile della pulsione orale fornisce il supporto a un modo di essere non più inquadrato da un’identificazione ideale, ma ridotto a un modo di godimento. L’obiezione radicale al patto con l’Altro, nelle patologie da disfunzione della pulsione orale, comporta due possibilità:
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l’anoressia, che si soddisfa confinando l’Altro divorante nell’insoddi-sfazione facendosi osso immangiabile, dunque separandosi da esso e la bulimia, che si aliena nell’Altro divorante abolendone l’alterità.Geneviève Morel 28 ci presenta i casi di due giovani donne bulimiche. Essi mostrano che i sembianti fallici non bastano a coprire il campo della femminilità. Questo tema è stato introdotto da Lacan con il con-cetto di non-tutto. Queste due donne interpretano il non-tutto della femminilità non con la mascherata ma con la mostruosità del godimen-to di una donna, nella linea delle antenate materne. In entrambi i casi infatti l’enunciato non rimosso circa la mostruosità materna (sacrificare e rinnegare la propria bambina e fare della figlia il proprio assassino) è un significato materno direttamente connesso al sintomo bulimico. Ma questo significato rinvia alla significazione infinita del godimento materno non regolato dalla legge. La loro soluzione consiste nel con-densare la parte non fallica del godimento femminile con la divorazione presa a prestito dalla “madre insoddisfatta” 29 e precipitare metaforica-mente il risultato nel sintomo bulimico.I primi riferimenti di Lacan all’anoressia sono reperibili nello scritto del 1938 intitolato: I Complessi Familiari nella formazione dell’ individuo.Ne I Complessi familiari Jacques Lacan sottolinea come il complesso di svezzamento, il più primitivo dello sviluppo psichico, sia interamente dominato da fattori culturali e quindi radicalmente diverso dall’istin-to. Il complesso di svezzamento fissa nello psichismo la relazione di nutrimento nella modalità parassitaria imposta dai bisogni della prima infanzia dell’uomo.Il complesso di svezzamento rappresenta secondo Lacan la forma pri-mordiale dell’imago materna e fonda i sentimenti più arcaici e più sta-bili che legano l’individuo alla famiglia.
28. G. Morel, “Sui sintomi e sulla femminilità: bulimia e femminilità”, in La Psicoanalisi, n. 22, cit..29. J. Lacan, Il Seminario IV, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1957, Einaudi, Torino 1996, cap. IV pag. 71-73.
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Anche se il complesso di svezzamento rappresenta nello psichismo la funzione biologica della lattazione non può essere considerato un istinto in quanto condizionato da una regolazione culturale.L’anoressia si presenta qui come uno degli effetti (accanto a tossicomanie orali e nevrosi gastriche) dello svezzamento come “trauma psichico”. “In effetti lo svezzamento, per via di una qualunque delle contingenze operative che esso comporta, è spesso un trauma psichico i cui effetti individuali, anoressie mentali, tossicomanie per vie orali, nevrosi gastri-che, rivelano le proprie cause alla psicoanalisi” 30. Pertanto il rifiuto dello svezzamento rivelerebbe la fissazione del soggetto sull’oggetto orale pri-mario rappresentato dalla forma primordiale dell’imago materna.L’anoressia rende manifesta una fissazione sull’originaria imago mater-na e una regressione nostalgica del soggetto che si realizza attraverso la patologia anoressica, verso la fusione con il mitico oggetto del godimento primario. L’anoressia si presenta in linea con l’avvelenamento lento delle tossicomanie orali e con i digiuni delle nevrosi gastriche, come una pato-logia dell’oralità primaria segnata da una spinta fusionale irresistibile al recupero dell’esperienza di godimento pieno dell’origine e da una inclina-zione autodistruttiva che ne fa una delle forme di suicidio non violento. “L’analisi di questi casi mostra che nel suo abbandono alla morte il sog-getto cerca di ritrovare l’imago della madre” 31. L’imago materna si tra-sforma dunque da “salutare all’origine” a “fattore di morte” poiché resiste e lavora contro lo sviluppo psicogenetico del soggetto.Avvicinandosi al quadro melanconico proposto da Freud l’anoressia è qui connotata da un fondamentale “appetito di morte” marcando così il carattere regressivo-fusionale del quadro patologico a scapito del carattere dialettico-separativo. Al centro dell’anoressia viene evidenziata una fissa-zione orale, proprio come sottolineato da Freud nel parallelismo che fa tra melanconia e anoressia. Nella declinazione melanconica, infatti, il rifiuto
30. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’ individuo, 1938, Seuil, Paris 2001.31. Ibidem.
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del desiderio precipita il soggetto in un godimento larvale e parassitario. In una fissazione di godimento che si scrive direttamente nel corpo. La fusione con l’Altro, con il comando superegoico dell’Altro, trionfa. Il soggetto si riduce ad oggetto. È qui in gioco il rifiuto del significante come tale nel tentativo di fare esistere un godimento dell’essere puro. Il muro del linguaggio svuota il soggetto di godimento, stacca l’oggetto a dal corpo, introduce il principio normativo della castrazione. L’anoressia nella versione psicotico-melanconica, è esattamente il rifiuto totale di questa alienazione significante, della perdita dell’oggetto, del distacco dalla Cosa. C’è identificazione a Das Ding. Il desiderio non è barrato dalla funzione paterna, pertanto assistiamo al dominio di un Altro supe-regoico che Selvini Palazzoli definisce “Matriarcato superegoico”.Freud, nella sua Minuta G sostiene, come abbiamo visto, che l’anores-sia nervosa è “una melanconia che si verifica ove la sessualità non si è ancora sviluppata” e che “la perdita di appetito” è “perdita di libido”. Quello che è in gioco in questo riferimento è una spinta paradossale del soggetto a ritrovare l’imago della madre anche a prezzo di un suo abbandono alla morte messo in atto per sottrarsi all’ineludibile della scissione. L’anoressia sarebbe dunque sulla linea dell’imago materna, un tentativo di ritrovare una totalità dell’essere.Dal testo I Complessi Familiari sembra emergere in Lacan il quadro di un paradigma psicogenetico-regressivo dell’anoressia. L’anoressia viene infatti inquadrata nel contesto della civiltà contemporanea, caratterizza-ta da un “declino sociale dell’imago paterna” e in una cornice familiare all’interno della quale l’anoressica sviluppa con la madre una relazione non mediata efficacemente dal riferimento alla funzione dell’Edipo e caratterizzata dal predominio del Complesso di Svezzamento che la condanna a “ripetere all’infinito lo sforzo del distacco dalla madre”.Lacan, nello scritto su “La significazione del fallo” fa riferimento a tre diverse categorie: bisogno, domanda e desiderio.Il bisogno definisce uno stato di urgenza, di pressione fisiologica. Il suo soddisfacimento implica un’azione specifica, fissata geneticamente e
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rivolta verso un oggetto. Così il bisogno alimentare si estingue provviso-riamente solo con l’azione specifica dello sfamarsi attraverso il consumo del cibo. Ma, come già per Freud, per Lacan il bisogno deve, nel campo delle relazioni umane, articolarsi in una domanda per essere soddisfatto.La domanda è una sorta di strettoia in cui il bisogno, per così dire, è obbligato a passare. La domanda precisa la dipendenza del soggetto dal campo dell’Altro. Essa è l’articolazione, attraverso il significante, del bisogno come messaggio rivolto all’Altro come appello all’Altro.Diversa è la struttura del desiderio. Il desiderio è irriducibile sia al biso-gno che alla domanda. Lacan afferma che il desiderio “è al di là della domanda” 32, il desiderio è una sorta di residuo interno alla domanda. Il fondo della domanda è il desiderio. Nella domanda che il bambino rivolge alla madre non chiede solamente di essere soddisfatto nei suoi bisogni. Il bambino domanda la presenza dell’Altro, domanda di essere amato, desiderato dall’Altro, poiché il desiderio dell’Altro è proprio ciò che, al di là della soddisfazione della domanda, particolarizza il bambi-no, lo fa sentire unico per l’Altro, insostituibile. È esattamente questo che in fondo il bambino chiede: che l’Altro gli doni la sua particolarità. Il desiderio non può dunque esaurirsi in nessuna domanda specifica. Il desiderio come desiderio dell’Altro è desiderio del desiderio dell’Altro non è desiderio di qualcosa.In questo senso il desiderio, più che a una soddisfazione, è legato ad una mancanza, giustamente indicata da Lacan non come mancanza contingente di qualcosa, ma come mancanza strutturale, come “man-canza ad essere”.Per Lacan proprio la figura dell’anoressia mentale è la figura clinica che meglio illumina questa differenziazione strutturale tra bisogno, doman-da e desiderio. L’anoressica, infatti, sceglie il niente, decide di mangiare niente, perché in questo modo reagisce ad un Altro materno che ha confuso il registro del desiderio con quello del bisogno e alla domanda
32. J. Lacan, “La significazione del fallo” (1966), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II.
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del bambino sa solo rispondere col cibo. Per scollare nuovamente il desiderio dal bisogno l’anoressica deve allora negarsi come soggetto che ha bisogno di qualcosa. La sua scelta del niente punta infatti a preserva-re il desiderio, sacrificando per questo la soddisfazione dei suoi bisogni.Ne “La direzione della cura” Lacan afferma che “Il desiderio è ciò che si manifesta nell’intervallo scavato dalla domanda aldiquà di se stessa in quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la mancanza ad essere insieme all’invocazione a riceverne il complemento dell’Altro, posto che l’Altro, luogo della parola, è anche il luogo di que-sta mancanza” 33.“In tal modo ciò che all’Altro è dato di colmare, e che è proprio ciò che non ha perché anche a lui l’essere manca, è ciò che si chiama amore, ma anche odio e ignoranza”. “La soddisfazione del bisogno appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […]” 34.Nel seminario su La relazione d’oggetto, per Lacan l’anoressia diventa un modo di imporre all’Altro la differenza tra bisogno e desiderio.
Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non c’è. Quando c’è, l’oggetto si manifesta essenzialmente solo come segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento. È proprio lì per essere respinto, essendo questo niente. Questo gioco simbo-lico ha quindi un carattere fondamentalmente deludente. Ecco l’articola-zione essenziale a partire da cui il soddisfacimento si situa e prende senso. […]. Il bambino riduce ciò che è deludente nel gioco simbolico tramite la presa orale dell’oggetto reale di soddisfacimento, per esempio il seno. Ciò che lo addormenta in questo soddisfacimento è proprio la delusione, la frustrazione, il rifiuto che a volte ha provato. […]. È il fondo della rela-zione del soggetto con la coppia presenza-assenza, […], il bambino riduce nel soddisfacimento l’insoddisfazione fondamentale di questa relazione.
33. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., vol. II, p. 623.34. Ibidem, p. 623.
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Addormenta il gioco nella presa orale. Soffoca ciò che riguarda la relazio-ne fondamentalmente simbolica. […]. È così che l’oralità diventa ciò che. Essendo una modalità istintuale della fame, è portatrice di una libido con-servatrice del corpo proprio, ma non è solo questo. […]. È libido in senso proprio e libido sessuale. […]. Dal momento che entra nella dialettica della frustrazione […] l’oggetto reale non ha alcun bisogno di essere specificato. Anche se non è il seno della madre, non per questo perderà il valore del suo posto nella dialettica sessuale da cui dipende l’erotizzazione della zona orale. Non è l’oggetto a svolgere il ruolo essenziale, ma il fatto che l’attività ha preso una funzione erotizzata sul piano del desiderio, il quale si articola nell’ordine simbolico 35.
Lacan continua facendo notare che queste considerazioni mettono in evidenza la possibilità che per svolgere lo stesso ruolo non ci sia più alcun oggetto reale. Si tratta solo di ciò che dà luogo a un soddisfaci-mento sostitutivo della saturazione simbolica: “Solo questo può spiegare la vera funzione di un sintomo come quello dell’anoressia mentale. Vi ho già detto che l’anoressia mentale non è non mangiare ma non man-giare niente” 36. Lacan insiste sul “mangiare niente” in quanto “niente” è qualcosa che esiste su un piano simbolico. Il bambino mangia niente, che è una cosa diversa da una negazione dell’attività. “Questo punto è indispensabile per capire la fenomenologia dell’anoressia mentale” 37. “Di questa assenza gustata come tale, si serve nei confronti di ciò che ha di fronte, ossia la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, la fa dipendere da lui” 38.In questo contesto ciò che è messo in rilievo è la funzione dell’appello. Poiché quel che è invocato può essere respinto, l’appello risulta fonda-tore dell’ordine simbolico nell’alternanza che inaugura. La vera natura
35. J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957, cit., pp. 197-199.36. Ibidem, p. 199.37. Ibidem.38. Ibidem.
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dell’appello, in quanto ha di mira l’amore, si fa intendere quando l’og-getto non è presente, cioè niente in quanto oggetto di soddisfacimento e, invece, segno mancato del dono d’amore. Quando invece l’oggetto è presente è lì per essere rifiutato in quanto è niente in termini di soddi-sfacimento. La domanda d’amore del bambino risulta talvolta schiaccia-ta sull’attività del succhiare, ma starà soltanto ingannando la sua delu-sione. In quest’opera Lacan evidenzia una dialettica della frustrazione a partire da un doppio registro: frustrazione nell’amore e nel godimento. È perché si subisce una frustrazione sul piano dell’amore che ci si getta sul registro della soddisfazione, come sostituto dell’amore. Il soggetto cerca una soddisfazione alla frustrazione d’amore con un oggetto reale, un oggetto accessibile, oggetto cibo come parte dell’oggetto d’amore, suo rappresentante.
Ogni volta che vi è frustrazione d’amore, questa si compensa con il soddi-sfacimento del bisogno. Nella misura in cui la madre manca al bambino che la chiama, lui si attacca al suo seno e questo seno diventa la cosa più significativa. Finché lo ha in bocca e se ne soddisfa, da un lato il bambi-no non può essere separato dalla madre, dall’altro tutto questo lo lascia nutrito, riposato e soddisfatto. Il soddisfacimento del bisogno è qui la compensazione della frustrazione d’amore, e allo stesso tempo comincia, direi quasi, a diventare il suo alibi 39.
È proprio a partire da questa frustrazione sul piano della soddisfazione che l’oggetto da reale diventa simbolico. A partire da ciò può funzio-nare come segno d’amore. La soddisfazione del bisogno è sospesa di fronte alla domanda di un oggetto divenuto segno nell’esigenza d’amo-re. La privazione interna a questo movimento dialettico introduce alla scelta anoressica come manovra che punta alla produzione di questo segno d’amore che si rivolge ad un Altro che lo nega. Che l’Altro, per
39. Ibidem, pag. 188.
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soddisfare, dia non quello che ha ma quello che non ha, è quel niente di soddisfazione in cui il soggetto può rinvenire la marca dell’amore. L’oggetto si trasforma non appena diviene segno nell’esigenza d’amore. È proprio questa attività a giocare un ruolo determinante. L’attività di suzione diviene un’attività simbolica, attività che ha preso una funzione erotizzata sul piano del desiderio, che si ordina nell’ordine simbolico. Questa supremazia dell’attività sull’oggetto arriva ad annullare l’oggetto nel registro del reale, che diventa “niente da mangiare”. Questo niente esiste, come abbiamo visto, sul piano simbolico. Mangiare niente è diverso da una negazione di attività, niente è al fondo di ogni doman-da d’amore con cui il bambino rovescia la relazione di dipendenza; la madre ora dipende dal suo desiderio per lui. Il “niente” dell’anoressia ha un valore simbolico. Questo è ribadito da Lacan anche quando parla del piccolo Hans. Lacan fa un confronto tra la paura relativa all’assenza paterna e il niente dell’anoressia. Afferma che questa assenza va intesa come il “niente” in gioco nell’anoressia.
Il carattere irreale della paura in questione è appunto manifestato, se sap-piamo vederlo, tramite la sua forma – la paura di un’assenza, voglio dire di questo oggetto, appena designato. Il piccolo Hans ha paura della sua assenza, da intendere come vi dico che bisogna intendere nell’anoressia mentale – non già che il bambino non mangia, ma che mangia niente. Qui il piccolo Hans ha paura dell’assenza del padre, assenza che è lì e che egli incomincia a simbolizzare 40.
La tesi di Lacan in questo quadro è che l’anoressica si nutre di niente dove il niente assume il valore di significante dell’irriducibilità del desi-derio del soggetto alla presa con l’onnipotenza dell’Altro materno. Il niente di cui l’anoressica si nutre incarna la strutturale metonimia del desiderio umano nella sua inesauribilità.
40. Ibidem, pag. 377.
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Ne “La direzione della cura e i principi del suo potere” Lacan assume l’anoressia come esempio dell’irriducibilità strutturale del desiderio al registro del bisogno. La manovra in atto nel rifiuto anoressico del cibo portato alle estreme conseguenze del rischio di morte viene intesa da Lacan come operazione attiva del soggetto per mantenersi vivo presso l’Altro come soggetto desiderante, anche a rischio della propria morte come organismo affetto dai bisogni: “La soddisfazione del bisogno appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […]. Perché l’essere del linguaggio è il non essere degli oggetti” 41.L’anoressia mette in rilievo una confusione fondamentale in atto presso l’Altro genitoriale che soggetto punta inconsciamente a smascherare e correggere. “Ma il bambino non si addormenta sempre così nel seno dell’essere, soprattutto se l’Altro, […] al posto di ciò che non ha lo rim-pinza della pappa asfissiante di ciò che ha, cioè confonde le sue cure con il dono del suo amore” 42.I genitori rispondono al soggetto somministrandogli accuratamente le cure e gli oggetti del bisogno, ma restano ciechi davanti alla doman-da fondamentale che anima il suo desiderio che è domanda d’amore. Domanda di un dono che non sia oggetto di soddisfacimento ma segno dell’amore dell’Altro per il soggetto. Lacan mette in risalto il rapporto stretto che l’anoressica tesse tra il desiderio e il rifiuto: “È il bambino nutrito con più amore a rifiutare il nutrimento e orchestrare il suo rifiuto come un desiderio” 43. È dunque attraverso il rifiuto anoressico che il desiderio può sopravvivere all’attentato della domanda dell’Altro. Perché ci sia segno d’amore occorre che l’Altro non riempia il soggetto somministrandogli la “pappa asfissiante” di ciò che ha, ma piuttosto gli offra ciò che non ha, la propria mancanza, cioè il proprio amore. In questa prospettiva l’anoressica orchestra “il suo rifiuto come un desiderio”, ossia fa funzionare il rifiuto come una domanda inconscia e
41. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., p. 623.42. Ibidem, pag. 623.43. Ibidem, pag. 624.
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silenziosa che interpella l’Altro per ottenere il segno dell’amore, la testi-monianza del suo desiderio per lei. Il corpo magro è un corpo che non si soddisfa dell’oggetto del bisogno per mantenersi vivo per l’Altro come oggetto di desiderio.Nell’anoressia isterica la funzione di rifiuto non si riduce tuttavia a radicalizzare la differenza tra desiderio e bisogno. Il rifiuto rivela l’irri-ducibilità del desiderio al campo della domanda. Il desiderio, infatti, è al di qua e al di là della domanda. Il desiderio, come afferma Lacan, è “la metonimia della mancanza ad essere” 44.Dewanbrechies-La Sagna 45 chiama “anoressia vera” quella che Lacan, in questo seminario chiama “anoressia […] in rapporto al mentale” 46.Afferma che l’anoressia mentale vera non è una clinica del fallo ma una clinica dell’oggetto. Così l’anoressica rifiutando l’oggetto cibo in nome del segno d’amore che attende dall’Altro, si fa essa stessa oggetto d’an-goscia per l’Altro ponendosi come un oggetto impossibile da nutrire. Questa posizione di oggetto la mette fuori discorso. Non si tratta del fuori discorso della psicosi, ma del rapporto con l’oggetto.Nel seminario del 1964, I quattro concetti fondamentali della psicoana-lisi, Lacan parla dell’anoressia del bambino come incarnazione di una domanda disperata e muta rivolta dal soggetto ai suoi genitori per veri-ficarne l’amore per lui.Il soggetto attende dall’Altro genitoriale una risposta che funzioni come segno d’amore, come parola che dà un posto insostituibile al soggetto nel desiderio dell’Altro.Così Pierre Naveau descrive come il sintomo bulimico della sua pazien-te Clia viene al posto di un “impossibile a dire” 47. La tesi che sostiene è che il sintomo della sua paziente, la bulimia, sia in rapporto al dire:
44. Ibidem, p. 618.45. C. Dewambrechies-La Sagna, “L’anoressia vera della ragazza”, in Attualità Lacaniana, n. 5, 2006, FrancoAngeli.46. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.47. P. Caveau, “L’angoisse dans l’anorexie feminine”, in La Cause freudienne, n. 59, Navarin.
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“dire niente e dire troppo”. Così la bulimia di Clia è legata alla parola di sua madre e di suo padre mettendo l’accento sul fatto che lei non ha niente da dire sul loro conto; e, afferma Pierre Naveau, sta proprio qui il nodo della questione.In Lacan il riferimento all’anoressia passa anche attraverso la pulsione orale. Negli Scritti 48 Lacan propone l’esempio del paziente di Kris e dell’interpretazione di quest’ultimo. Proprio in seguito alla sua interpre-tazione “Non rubi niente” la pulsione orale emerge nell’acting out delle “cervella fresche”. Sempre negli Scritti, Lacan afferma: “Ciò che impor-ta non è il fatto che il suo paziente non ruba, ma che non… Nessun non: che egli ruba niente. […] ciò che gli fa credere di rubare […] che possa venirgli in mente un’idea sua” 49.Secondo Lacan ciò che veramente interessa al paziente è di continuare a mantenere il niente su cui vive l’idea come puntualizza E. Laurent 50 nel suo articolo sull’anoressia. Questo niente su cui vive l’idea altro non è che il posto del desiderio. Lacan aggiunge “Lei Kris tratta il paziente come un ossessionato, ma lui Le tende la mano col suo fantasma di commestibile: per darLe l’occasione di avere un quarto d’ora di anticipo sulla nosologia della sua epoca con la diagnosi: Anoressia Mentale” 51.Dewanbrechies-La Sagna 52 osserva che è molto interessante che il caso elevato da Lacan alla dignità di “anoressia mentale”, come “avversio-ne del paziente per ciò che egli pensa”, sia un uomo. Ciò permette di collocare l’anoressia come un rifiuto, non della femminilità, come comunemente si dice, ma come “un rifiuto simbolicamente motivato” del “desiderio di cui vive l’idea” 53, cioè come un rifiuto del desiderio. Dewanbrechies-La Sagna afferma che la sua paziente, Catherine, non
48. J. Lacan, “Risposta al commento di Jean Hyppolite”, in Scritti, cit., vol. I, p. 389.49. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 595.50. E. Laurent, “Sull’anoressia”, in La Psicoanalisi, n. 15, 1994, Astrolabio, Roma.51. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., pag. 596.52. C. Dewambrechies- La Sagna, “Un caso di tossicomania del niente”, in La Psicoanalisi, n. 22, Astrolabio, 1997, Roma.53. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.
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ha idea di poter avere un proprio desiderio, un desiderio che sia il suo. Quando si sorprende a mangiare, ella preferisce pensare che desidera rubare piuttosto che desiderare di mangiare. Vale a dire che nei suoi primi passi verso il desiderio dell’Altro, pensa di commettere una frode e di non pagarne il prezzo. Pensa che il desiderio è quello del furto, il che è una versione del desiderio dell’Altro, che corrisponde alla rivela-zione di un punto della struttura. L’interpretazione fatta a Catherine “Cosa ruba?” risponde ad una struttura strettamente inversa rispetto all’interpretazione di Kris. “Quali ricette?” ricorda alla paziente che si esclude che si consumi un qualcosa di reale nell’analisi e che ciò di cui si tratta è ridare il suo giusto posto al desiderio.Dewanbrechies-La Sagna ricorda che negli anni settanta (seminario ventunesimo, 9 aprile 1974) Lacan affronta un punto di differenza radi-cale tra anoressia e isteria. Questo punto riguarda le rispettive posizioni nei confronti del sapere. L’anoressica suppone all’Altro un desiderio di sapere. Non gli suppone un sapere ma un desiderio di sapere. L’anores-sica è talmente preoccupata di sapere se mangia che, per scoraggiare questo desiderio di sapere, mangia niente. L’analista deve vigilare per non sovrapporre sulla propria persona il desiderio dell’analista e il sog-getto supposto sapere, perché l’anoressica ritrova allora la supposizione di un Altro che desidera sapere. È nel separare il desiderio dal sapere, desupponendo il sapere, vale a dire quel che fa l’interpretazione, che c’è una possibilità di azione.Carole Dewambrechies-La Sagna 54 riprende questo tema partendo dall’esempio del paziente di Kris per mettere in risalto il rapporto che intercorre tra l’oggetto e il sapere. In questo testo afferma che “il sapere è una versione del desiderio dell’Altro”.Nel seminario Il Transfert, troviamo un altro riferimento sull’anoressia 55.Lacan sostiene che ogni domanda tende a strutturarsi in modo da
54. C. Dewambrechies-P. Lasagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, in La Cause freudien-ne, n. 68, Navarin.55. J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, 1960-1961, Einaudi, Torino 2006.
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evocare nell’Altro una risposta rovesciata, così alla domanda di essere nutrito risponde la domanda di lasciarsi nutrire. È dal confronto di queste domanda “che nascono tutte queste discordanze, di cui la più immaginata è quella del rifiuto di lasciarsi nutrire nell’anoressia detta, a più o meno giusto titolo, mentale” 56.Un desiderio rifiuta di sparire come desiderio per il fatto di essere soddisfatto come domanda. La domanda orale ha del resto, aggiunge Lacan, un altro significato da quello di soddisfare la fame. È domanda sessuale, cannibalismo, come afferma Freud e il cannibalismo ha un senso sessuale. La libido è un surplus che rende vana ogni soddisfazione del bisogno là dove si colloca.Aggiunge: “Non è che all’interno della domanda dell’Altro che si costitu-isce come riflesso la fame del soggetto. L’Altro non è solo fame, ma fame articolata, fame che domanda. E il soggetto è aperto a divenire oggetto, ma, se posso dire, di una fame che sceglie. La transizione è fatta dalla fame all’erotismo attraverso la via di quel che ho chiamato preferenza” 57.I concetti di “preferenza” e di “fame che sceglie” rimandano alla que-stione di un desiderio interessato all’oggetto particolare, al registro della scelta.Per il soggetto anoressico non c’è fame che sceglie i suoi oggetti ma la scelta radicale della fame come via di emancipazione radicale nei confronti dell’oggetto. Nella sponda bulimica invece una spinta pulsio-nale acefala sommerge la scelta d’oggetto per affermarsi come fame non scelta che ruota attorno alla potenza bruta dell’oggetto. Da una parte la scelta della fame per la salvaguardia del desiderio, dall’altra la fame che travolge ogni scelta. L’oggetto andrà ad assumere il niente e il par-ticolare, ponendosi come causa del desiderio, al di qua della sostanziale equivalenza degli oggetti della catena.
56. C. Dewanbrechies-La Sagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, cit., p. 239, (traduzione nostra).57. Ibidem, p. 255, (traduzione nostra).
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Con Domenico Cosenza 58 possiamo riassumere i riferimenti essenziali di Lacan all’anoressia nel seminario undicesimo, I quattro concetti fon-damentali della psicoanalisi, in quattro nodi essenziali:
1 L’anoressia e il niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento nel tempo della separazione
2 Il bambino anoressico mangia il niente3 Il “mangiare niente” anoressico e l’oggetto dello svezzamento fun-
zionano come privazione al livello della castrazione4 L’anoressica, il fantasma della propria sparizione e la questione
che incarna nell’enigma del desiderio dell’Altro parentale: – Può perdermi?
Il riferimento al niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento nel tempo della separazione si situa al centro della dialettica di alienazione/separazione entro cui si costituisce il soggetto e mette in luce il passag-gio decisivo in gioco nel tempo della separazione. La costituzione del soggetto presuppone la separazione dell’oggetto a come organo, che diviene simbolo del fallo in quanto mancante −, ossia della castra-zione del soggetto stesso. Lacan afferma che “a livello orale, il niente, in quanto ciò da cui il soggetto si è svezzato non è più niente per lui. Nell’anoressia mentale, ciò che il bambino mangia è il niente. Capite per questa via come l’oggetto dello svezzamento possa venire a funzio-nare a livello della castrazione come privazione” 59. Per Lacan lo svezza-mento è un’operazione attiva del soggetto in via di costituzione e non qualcosa che subisce.Nel seminario undicesimo pertanto, Lacan indica la natura separativa e separabile dell’oggetto. Afferma che occorre che l’oggetto a sia un oggetto e che abbia un qualche rapporto con la mancanza.Abbiamo un niente come oggetto che per la sua natura separabile è messo in grado di svolgere una funzione separatrice. È questo niente di
58. D. Cosenza, Il muro dell’anoressia, Astrolabio, 2008 Roma.59. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..
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reale come poppata che si stacca sia dall’Altro che ne è a sua volta priva-to, sia dal soggetto grazie all’intervento del Nome-del-Padre.Questa privazione può soddisfarsi nell’oggetto “niente”. Il mangiare niente del bambino anoressico mostra l’irriducibilità dell’oggetto a al campo del significante, incarnato da un godimento invisibile e innomi-nabile se non attraverso il significante “niente”.Lacan espone l’operazione compiuta dal bambino anoressico rispetto al niente come oggetto a nel tempo logico della separazione. Dinanzi alla perdita dell’oggetto orale per l’effetto dello svezzamento e all’apertura al piano strutturale della castrazione −, l’operazione anoressica consiste in una manovra antiseparativa in cui, attraverso il rifiuto di mangiare cibo, l’oggetto niente viene trattenuto nella bocca vuota e positivizzato come godimento reale in atto. Il soggetto anoressico non si separa fino in fondo dall’oggetto niente, trattenendo il godimento primario nella bocca. Volendosi sottrarre agli effetti dell’alienazione significante sul godimento che abita il corpo pulsionale, pur di trattenere il pieno godi-mento dell’oggetto primario del soddisfacimento, l’anoressica perde così la possibilità di un recupero di godimento a livello della fallicizzazione del corpo pulsionale come corpo iscritto nella dialettica del desiderio e nella significazione fallica.L’isterica afferma la privazione dell’oggetto, ne produce la caduta per mantenere la presenza di un puro soggetto del desiderio, perché sussista sulla scena, come vero protagonista, il desiderio insoddisfatto. L’anores-sia appare, in questo contesto, come dimostrazione di quella parte di sé che l’articolazione significante non può esplicitare. L’anoressia diventa allora una via di radicalizzazione della posizione isterica. L’anoressica però, che pure parte come l’isterica, per salvaguardare il desiderio, ne perde in realtà l’accesso. Il suo desiderio appare deificato, schiacciato di fronte al godimento. Di qui gli effetti di ricaduta nel reale del suo corpo: amenorrea nella donna, riduzione al minimo delle forme sessuali del corpo, prevalere di una forma entropica e inerziale del desiderio primario che Lacan chiama ne I Complessi familiari “desiderio della
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larva” e situato tra la vita e la morte. Sempre nel seminario undicesimo Lacan ripropone il tratto melanconico dell’anoressia. “Il fantasma della sua morte, della sua scomparsa è il primo oggetto che il soggetto deve mettere in gioco in questa dialettica, e di fatto lo mette. Lo sappiamo da mille fatti, non fosse che nell’anoressia mentale” 60. Desiderio morti-fero che in “Funzione e campo” chiamava “desiderio di morte” e che ne I complessi familiari definiva “appetito di morte”. In questo seminario a partire dal richiamo all’anoressia Lacan mette in luce due punti fonda-mentali del suo insegnamento: l’irriducibilità della funzione simbolica del desiderio al piano del bisogno e della domanda, come emerge ne “La direzione della cura” e l’irriducibilità della funzione del godimento come reale e dell’oggetto a come causa di desiderio all’ordine simbolico dell’Altro significante.In questo lavoro ho tentato di indagare come l’oralità sia implicata nella formazione del sintomo alimentare e come questo ne venga condizionato.È interessante notare come il disturbo alimentare possa essere una faccia dell’oggetto orale utilizzata dal soggetto come modalità di sepa-razione dal godimento cattivo della madre. Il caso di Erika ne è un esempio: come ci mostra bene la sua bulimia l’oggetto è assolutamente variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”.La zona erogena è in rapporto alla pulsione parziale: la bocca è ciò che mette il limite, che rifiuta, che rimane senza parole. Nel disegno di Erika la bocca è una bocca cucita, inesistente. Il vomito è l’effetto d’angoscia di sputare fuori l’oggetto che entrando nella pulsione diviene insostenibile. Erika ci mostra molto bene come agisce la spinta pulsio-nale. Ogni tentativo di sublimazione per non restare nella degradazione dell’oggetto orale sembra fallire lasciandola in balia del desiderio soffo-cante della madre. Fino a che punto l’Altro è distruttivo?La madre non è la madre del dono bensì la madre cattiva, la madre persecutoria. La madre è un Altro persecutorio ma anche un Altro che
60. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..
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non parla pertanto in parte indecifrabile. Vediamo qui come la Metafo-ra Paterna descritta da Lacan non è sufficiente a significare il desiderio della madre né la Funzione Paterna è adeguata a trattarne il godimento. La parola del padre non sembra assumere simbolicamente la forma della metafora, non occupa il posto del “paletto” che divarica le fauci materne, ed ecco apparire il vomito come tentativo di trattamento del godimento della madre.La parola della madre non permette al padre di istituirsi come metafora anzi lo colloca come prolungamento del godimento mortifero materno. I baci del padre non possono essere significati e divengono sporchi e ambigui.Nel seminario L’Angoscia Lacan ci parla dell’oggetto d’angoscia e della separazione. Erika è l’altra faccia della medaglia di sua madre, nono-stante l’odio non può separarsi da lei pena la sua stessa scomparsa. Nel disegno appare infatti una stella nera, un’ombra, un buco nero dal quale Erika potrebbe venire risucchiata da un momento all’altro.
dall a parte dell’inconscio, torino 2010
parte seconda
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Dalla divisione alla scissione
dalla divisione alla scissione
di Fabio Galimberti *1
A partire dal titolo del Convegno “Dalla parte dell’ inconscio”, l’autore del testo pone due questioni: qual è la parte dell’ inconscio quando il soggetto stesso è fatto di più parti? Quale ruolo gioca la verità inconscia nel mostrare il reale della par-tizione del soggetto?
Parole chiave: inconscio, verità, partizione del soggetto
“Niente gli è più dissimile di se stesso” (D. Diderot, Il nipote di Rameau)
la divisione
Alcune nozioni psicoanalitiche sono ormai penetrate nel sapere gene-rale, quasi fanno parte del senso comune. Eppure capita, in seduta, di ascoltare affermazioni che smentiscono questa penetrazione, come ad esempio la seguente di un paziente che vedo da qualche anno: “Dottore, non avrei mai pensato venendo qui di scoprire di avere un desiderio per mia madre!”. Al suo ha fatto seguito il mio stupore nell’ascoltare questa frase, pronunciata da un uomo di trentacinque anni, laureato e di cul-tura media. Mi sono domandato: ma la psicoanalisi ha ancora queste
* Fabio Galimberti è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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scoperte in serbo? Ha ancora la possibilità di simili effetti di sorpresa sul soggetto?Sappiamo che c’è una separazione tra sapere e verità. Anzi che il sapere è un buon modo per non saperne niente della verità. Lo constatiamo nelle nostre analisi, soprattutto in quelle di chi si forma come analista e ha una frequentazione assidua con la teoria analitica. In queste stesse analisi il soggetto scopre sulla propria pelle l’abc della dottrina in modo inaspettato: aveva sotto il naso la verità, ma non ne sentiva l’odore.La verità, però, se mantiene un effetto di sorpresa non ha sempre un potere di risoluzione. Per il mio paziente, infatti, questa “rivelazione” non ha nel tempo risolto un sintomo che ne affligge la vita amorosa e sessuale, che rimane scissa in due direzioni opposte. Il lavoro analitico non ha intaccato una modalità permanente di godimento che si esprime nella nota forma maschile di degradazione della vita amorosa: là dove il soggetto ama non desidera, là dove desidera non ama. Il paziente dice chiaramente che vorrebbe trovare una donna che gli dia “il 100% di soddisfazione affettiva e il 100% di soddisfazione sessuale”. In termini lacaniani diremmo che vuole trovare La donna, quella capace di riu-nire “la corrente di tenerezza” e “la corrente sessuale” che sono invece divergenti. Secondo Miller, Freud era convinto, quanto il mio paziente, che questa donna esistesse. Convinto teoricamente, perché nella vita non ne ha mai incontrata una che gli consentisse di far convergere le due diverse correnti. Eppure Freud non faceva dipendere solo dall’in-contro giusto la possibilità di questa convergenza. Perché pensava che fosse necessario per chi volesse diventare “libero e perciò felice nella vita amorosa” superare “il rispetto dinanzi alla donna” e abituarsi “all’idea dell’incesto con la madre o la sorella” 1. Era convinto fosse necessario da parte del soggetto il raggiungimento di questa consapevolezza e di questa accettazione.
1. S. Freud, Sulla più comune degradazione della vita amorosa, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1994, vol. VI, p. 427.
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la spaltung
Lacan ha riletto la frattura libidica nelle due correnti nei termini della divergenza tra desiderio e domanda. E riteneva che la loro scissione non fosse ricomponibile. Per parlarne ha spesso fatto riferimento all’articolo “La scissione dell’Io nel processo di difesa” che ha sempre visto come il lascito testamentario di Freud. Ogni volta che lo cita aggiunge che Freud l’ha scritto appena prima che la penna gli cadesse di mano. In effetti è una nota del 1938, incompleta, che è stata pubblicata soltan-to postuma. Ma perché Lacan dà tanta importanza a questo testo? Lì Freud avanza l’idea che in un soggetto possano coesistere due atteggia-menti contrapposti di fronte alla scoperta capitale della vita soggettiva: la castrazione. Non si tratta di due reazioni sentimentali differenti, non si tratta dell’ambivalenza affettiva. È un’ovvietà analitica e non solo analitica che un soggetto possa provare sentimenti contrastanti di fron-te ad una stessa esperienza. Qui si tratta di due giudizi diversi, di un “sì” e di un “no” detti alla castrazione, che sono pronunciati dallo stesso soggetto. “Come è possibile?” domanda Freud. È possibile – risponde – solo a condizione che l’Io si scinda. Si scinda in un Io che riconosce la castrazione e in un Io che la rifiuta. Così – scrive – le “due impostazioni coesistono per tutta la vita una accanto all’altra, senza mai influenzarsi a vicenda” 2. È questo “senza mai influenzarsi a vicenda” che è cruciale. Perché la conseguenza è che la scissione, la Spaltung, rimarrà definitiva e che davvero uno stesso soggetto conterrà in sé due Io: è – dice Freud – “una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più”. L’Io stesso è spaccato, tagliato in due. Ma questa non è forse la condizione della psicosi e più esattamente di quella schizofrenica? Freud lo riconosce, ma è costretto ad ammettere, con la sua caratteristica sottomissione ai dati della clini-ca, che questa condizione vale anche per la nevrosi. Che cosa distingue allora la scissione dell’Io nell’uno e nell’altro caso?
2. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, p. 630.
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la stoffa dell’io
Per rispondere torniamo alla descrizione freudiana dei due Io. Uno, quello che riconosce la castrazione e sottosta alla minaccia superegoi-ca, rinuncia alla soddisfazione. In termini lacaniani si colloca dal lato del desiderio contro il godimento. È il soggetto articolato nella catena significante che cercherà di ritrovarsi nel campo dell’Altro. Con tutte le vicissitudini e le impasses che questo comporta. L’altro Io, quello che rinnega la castrazione, non rinuncia alla soddisfazione pulsionale e gode. Sceglie il godimento contro il desiderio. Ha trovato l’oggetto del suo soddisfacimento perché – scrive Freud – “come sostituto al pene che manca alla donna si è creato un feticcio” 3. Ha trovato l’oggetto a. Dunque, con la scissione dell’Io, abbiamo da una parte il soggetto bar-rato ( ) e dall’altra l’oggetto a. Già in questa riformulazione tramite i matemi lacaniani risulta evidente che la nevrosi si differenzia dalla psicosi perché articola ed a nel fantasma. La scissione dell’Io non è superata nemmeno nella nevrosi, ma è affrontata con lo strumento del fantasma. Il fantasma è il modo in cui il soggetto cerca di ricomporre la frattura dell’Io. È per questo che Lacan lo definisce “la stoffa dell’Io”. È la stoffa con cui il soggetto cerca di rammendare lo strappo originario.
presenza
Ma è possibile ricucire questo strappo? Questa è la follia egoica. Già Freud in quella nota metteva in questione la presunta attività di sintesi dell’Io. Ma è Lacan che ha avuto le parole più dure contro l’idea di una funzione unificante dell’Io. L’unità egoica è un miraggio, è “la malattia mentale dell’uomo”, come ha detto nel seminario primo. E come ha ribadito nel “Discorso sulla causalità psichica” “il rischio della follia si
3. S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa, in Opere, cit., vol. XI, p. 559.
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misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo impegna ad un tempo la sua verità e il suo essere” 4.Allora perché il piccolo altro, ossia l’immagine, esercita sul soggetto questo potere di fascinazione? Perché nell’unificazione immaginaria il soggetto aspira a ritrovarsi. Ed è quel che gli risuona seduttivo anche negli inviti odierni del mercato e della cultura a ritrovare se stesso. Ma il soggetto non si trova da nessuna parte. Il soggetto è un’assenza. Non ha ubicazione precisa, è ciò che scivola nella catena significante, che si posi-ziona sempre in modo spostato, dislocato nelle formazioni dell’inconscio.Il fantasma, invece, questo delirio privato, lo fissa in una presenza, gli assegna un posto stabile in uno scenario. “Nel fantasma il soggetto è lì” 5 scrive Miller ed è per questo che ha l’illusione di potersi ritrovare. Ma anche l’oggetto è lì. Anzi è proprio il raccordo permanente e simul-taneo di soggetto ed oggetto che sorregge l’inganno fantasmatico. Per-ché tramite il fantasma è come se il soggetto potesse dire “io” mentre gode dell’oggetto ed è come se potesse smentire la natura acefala della pulsione facendosene padrone. Il fantasma è il sostegno di ogni aspira-zione del soggetto al recupero di sé, di ogni anelito al proprio riscatto, al ritorno allo status quo ante, al ripristino di una felicità perduta, al restauro di un’essenza mai esistita.
ubiquità
Il godimento però è un’effrazione dell’immagine o, per dirlo con Bataille, è una distruzione della forma, una violenza fatta all’identità. Il godimento è ostacolo al riconoscimento. Riconduce il soggetto alla sua frattura originaria. Mostra il limite della soluzione fantasmatica. Così come il lavoro analitico che mira a ridurre la consistenza narcisistica,
4. J. Lacan, “Discorso sulla causalità psichica”, in Scritti, Einaudi, Torino 1994, p. 170.5. J.-A. Miller, “Sintomo e fantasma”, in Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997, p. 108.
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a separare il soggetto dalle identificazioni che ne hanno impegnato la verità e l’essere. È ciò che chiamiamo attraversamento del fantasma. Al termine del quale ritroviamo non il soggetto identificabile, non il sé, ma la scissione che lo taglia in due. Lacan nel Seminario XVII indica che questa scissione è il reale del soggetto. Il reale come impossibile, perché la scissione fa sì che il soggetto si trovi contemporaneamente in due posti differenti, il che appunto è impossibile, cioè reale. Questo trovarsi in due posti differenti non è un ritrovamento, ma la perdita definitiva della propria individualità. Stare dalla parte dell’inconscio significa anche procedere in questa direzione. Procedere nella direzione di questa incrinatura narcisistica, perché il soggetto ne abbia abbastanza del suo non volerne sapere niente.C’è un modo poetico per dire questa discordia di fondo che segna il soggetto. È il modo di Elias Canetti, che scrive quanto segue su un’in-tuizione infantile divenuta più chiara nella maturità.
Allora non sapevo ancora che cosa è la vastità, eppure lo intuivo: il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito, e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chia-marlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che […] è la vera gloria della natura umana 6.
Tornando al paziente di cui ho parlato risulta evidente questo: che non è l’oggetto, ossia il partner, la donna, che deve sapere riunire le due cor-renti libidiche che frazionano il soggetto. Forse è così che si può inten-dere quel passo un po’ imbarazzante di Freud, quando invita a perdere il rispetto dinanzi alla donna. Forse è un’esortazione a non credere all’esistenza de La donna. Ma, se non è nell’oggetto che si deve cercare una soluzione, la domanda allora diventa un’altra. Il soggetto sarà capa-
6. E. Canetti, La lingua salvata, Adelphi, Milano 1991, p. 217.
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ce di questa vastità? Il soggetto sarà quell’ambito in cui l’inconciliabile verrà accolto, in cui l’impossibile avrà ospitalità? Credo che questa sia una scommessa dell’analisi.
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L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore
l’amore… l’analizzante…un lavoro d’amore
di Alide Tassinari *
La questione dei rapporti tra i sessi nasce a partire da un apparire. I due sessi bio-logici sono iscritti nel registro del sembiante: l’uno appare come un uomo, l’altra come una donna. Gli esseri umani, in quanto parlanti, hanno a che fare con la mancanza strutturale ad essere.
Parole chiave: rapporti tra i sessi, sembiante, apparire, mancanza ad essere
Il Soggetto, barrato dal linguaggio, soggetto dell’Inconscio, quindi in perdita di godimento, manca d’essere. Le identificazioni che il Soggetto preleva dall’Altro sono una risposta a questo non essere. Sono abiti che si incarnano nel corpo, infatti l’io (maiuscolo?) si presentifica attraver-so l’immagine del corpo come prodotto da questo processo inconscio. Ma ciò che l’io si dice di essere non trova riscontro nell’inconscio. La mancanza ad essere spinge al desiderio, l’oggetto a è causa di questo desiderio di completarsi da parte di chi manca, è l’oggetto che “[…] sembra dare il supporto dell’essere” 1. Ma la vera natura dell’oggetto a, non è né di struttura né di sostanza, è un sembiante d’essere, cioè “[…] è della medesima stoffa, della medesima trama di quella di sembiante” 2.Il maschile e il femminile sono due metafore messe in forma, attraverso
* Alide Tassinari è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regio-ne Emilia Romagna; è Membro della SLP e Membro dell’AMP, lavora a Cesena.1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 94.2. J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, n. 14, Astrolabio, Roma 1987, p. 133.
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i registri dell’essere e dell’avere; ciò porta a proteggere ciò che si ha e a mascherare ciò che non si è. Questo è l’antecedente e il presupposto per i giochi dell’amore e del desiderio che fanno del rapporto tra i sessi la commedia giocosa e tragica che vela il non c’è rapporto sessuale, vela l’impossibile rapporto matematico tra i sessi. Il + e il − non sono artico-labili e non c’è operazione possibile tra questi due operatori. Alla man-canza d’essere, rivestita dai tratti di appartenenza sessuale, si affianca l’impossibilità, del non c’è rapporto sessuale. I due sessi sono ripartiti, non dai sembianti d’essere, ma dalle diverse modalità di godimento: dal lato uomo il godimento dell’uno, godimento misurabile, suscitato da un tratto, da un nonnulla che una donna ha, da ciò che lei incarna, diven-tando così sintomo dell’uomo; dal lato donna vi è una ripartizione dei godimenti: un godimento fallico (come quello dal lato uomo) e il godi-mento Altro, aperto, infinito; entrambi i godimenti sono resi possibili dall’amore con la sua faccia di ravage, di devastazione e di rapimento.Una donna, che si colloca dal lato destro delle formule della sessua-zione, è errante, ricerca una nominazione possibile: l’amore le fornisce questa possibilità. Ciò che esiste per una donna è l’amore, in quanto essa lo cerca e lo domanda.Spesso le donne confidano che se viene loro a mancare l’amore nulla ha più senso. L’amore può essere un nome per una donna: è l’amante e l’amata. Può rivestire la figura della borghese, di una madame Bovary che si sacrifica lanciandosi sotto il simbolo della tecnica maschile tesa verso l’ideale di un mondo nuovo e più veloce. Oppure essere la figura tragica della folle innamorata, che abbandonata uccide, oltre a se stessa, i figli avuti dall’uomo amato. Ma fuori dalla tragedia e dal romanzo, nella maggior parte dei casi, l’amore può funzionare come elemento stabiliz-zatore del suo rapporto col mondo, in quanto fa da bordo al godimento fuori senso, poiché le permette di mettere in atto una nominazione. Solo l’amore limita probabilmente l’illimitato del godimento non fallico e dà consistenza all’impossibile che la donna incarna, anche per se stessa.La domanda d’amore di una donna è amplificata e senza limite perché
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domanda quel niente in cui l’amore consiste: nell’esserci per l’Altro, va alla ricerca del segno d’amore, del dono offerto come segno dell’amore. Lacan dice che godere del corpo dell’Altro non è un segno dell’amore. Una donna questo lo sa e prende il desiderio di un uomo come un semblant non come il segno dell’amore che è sempre Altro. A lei non interessa l’oggetto ma il segno. Nella sua saggezza sa che non è mai quello. Il niente dell’oggetto e il niente dell’amore rispecchiati uno nell’altro. Nella clinica è l’oggetto niente di cui l’anoressia si nutre e il troppo d’oggetto dell’ancora di cui la bulimia testimonia, a giocarsi nella domanda d’amore verso l’Altro.Ma fuori dalla clinica, nel mondo, le donne, una per una, hanno un certo rapporto con l’amore. Un rapporto in cui la nostalgia si intreccia sia con la delusione del non aver avuto abbastanza sia con la virata verso un padre che ha fatto di un’altra donna l’oggetto del suo desiderio.La prima delusione non viene sanata: ciò che non le è stato dato non ha un controvalore anzi viene raddoppiato dal non c’è trasmissione possibi-le tra madre e figlia, se non attraverso il linguaggio che la dice femmina. Ma essere biologicamente femmina non dice della femminilità, almeno per la psicoanalisi. Stella, una figlia che non riesce a fare il taglio dei lunghi capelli, curati dalla propria madre, madre lei stessa e giovane donna obesa, cerca incessantemente nella cura analitica di scoprire chi è una donna, la risposta in un sogno in cui a un uomo viene tagliata la testa: una donna è un uomo senza testa, e lei alla sua testa ci tiene! Commenterà: “A volte penso di essere un uomo in un corpo di donna”. Per lei l’impossibile viene ad essere significato da un altro sogno: lei attraversa un centro benessere per soli uomini, è alla ricerca di due borse, una verde militare e una bianca di pelle: “Una borsa che non è da me” commenterà. Cerca in tutte le stanze, trova quella militare, quella bianca la vede su una sedia dentro a una bacheca. Il sogno termina sull’impos-sibilità di prendere quella borsa perché non sa come aprire la bacheca.Neanche la maternità significa la femminilità, tra madre e donna c’è uno iato, la donna è collocata nel lato della mancanza, la madre in
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quello dell’avere in quando ha, per dirsi tale, un figlio. Dal punto di vista della psicologia, i tratti psicologici attribuiti alle donne, che fanno parte della loro identità, possono essere indifferentemente l’uno e il con-trario dell’altro: la strega, la fata, la borghese, la passionaria; c’è per le donne nel simbolico la possibilità di una congiunzione tra gli opposti; al contrario, per gli uomini, c’è la tendenza alla disgiunzione, che sot-tende una certa omologazione che porta ad avere un tratto o l’altro. Un modo questo di rivestire la tendenza all’ideale propria dell’uomo.Una donna può avere un utilizzo dei semblant molto più libero, perché pur servendosene non ci crede fino in fondo, rimane sempre un po’ più soggetto. Soggetta a ciò che è sconosciuto a lei stessa, non avendo nessun significante che la dica tutta. Il posto vuoto, la barra sul grande Altro la interroga e la mette nella condizione di una ricerca di potersi dire, dirsi tutta. Per l’isterica questo sapere che non c’è è collocato nell’altra donna; per una donna che abbia trovato un certo saperci fare con la mancanza, ciò viene a collocarsi nell’altra che lei è per se stessa. È qui che si colloca l’amore, l’amore per una donna nell’incontro con l’Al-tro, pur incontrando un altro; tentativo non mai riuscito di far esistere la possibilità di un rapporto impossibile tra i sessi.Nel suo incontro con un altro che ama, lei deve poter rivestire la posi-zione di oggetto del desiderio. Non è una posizione facile perché per una donna il sesso, paradossalmente anche nella nostra società così liberata dalla sessuofobia e con una spinta al godimento ad ogni costo, non è di facile approccio. Lei che è il sesso per antonomasia, lei che non è un secondo sesso ma il sesso, a lei servono le parole, la significazione dell’amore per poter accedere a quella posizione che la metta nella con-dizione di godere fallicamente e di accedere al godimento femminile, a quel sovrappiù che le viene anche se non sa dirne.L’amore come supplenza mai del tutto compiuta la espone all’incontro con il sesso, l’altro da sé ma anche l’Altra che lei rappresenta per se stes-sa. È questo incontro che Cinzia rifiuta. Cinzia soffre di una gelosia che non la lascia vivere: è gelosa dell’uomo che ora sta con lei, è convinta
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contro ogni evidenza che lui la tradisce con un’altra. Nel labirinto costi-tuito dalla sua vita amorosa questo è la prima volta che è gelosa di un uomo, prima erano gli uomini che ha avuto ad essere gelosi di lei. Rac-conta che dopo tre gravidanze il suo seno, in seguito all’allattamento, era sparito; il secondo marito Luigi, padre della sua terza figlia, non la cercava sessualmente da anni ma era un marito responsabile e un padre affettuoso, al contrario del primo marito che era brutale. Chiede alla chirurgia estetica per avere ciò che le manca: un bel seno così da piacer-si un po’ di più. Luigi è contrario ma alla fine accetta. Nella loro quoti-dianità lui andava frettolosamente al lavoro, ma dopo l’operazione, ogni giorno prima di uscire le dava castamente un bacio su ogni seno fino a che una mattina, vedendola a seno nudo, è preso dal desiderio ma lei lo rifiuta. Dopo poco tempo lo lascia. In seduta esclama: Di questo seno nuovo lui non ha goduto, era il seno non me che desiderava.Le donne vivono la mancanza di significazione del chi è una donna, una donna oscilla come una funambola sul filo teso sopra al vuoto scavato tra lei e l’altra se stessa che incontra nel godimento così detto femmini-le, di cui non sa e non può dire, anche se con l’apporto dell’amore sup-posto a un uomo, che fa da relais, ritrova nella contiguità del suo corpo ciò che le mistiche hanno trovato in rapporto all’Altro esistente come essenza. Se l’amore non ha oggetto, ognuno dei partner nell’amore dona ciò che non ha proprio perché mira all’essere, all’essere dell’altro.Nel farsi semblant di oggetto di un uomo, una donna domanda amore e, nello stesso tempo, chiede che non sia solo l’oggetto a rispondere. Nel trasporto amoroso, si fa oggetto del desiderio dell’altro. Si fa oggetto senza crederci troppo, senza identificarvisi e ritrova in questa operazio-ne la possibilità di un incontro con l’Altro godimento e con l’Altra da se stessa. Incontro in cui il rapimento, il ravage silenzioso della pulsione di morte e della sparizione del soggetto rimandano ad Altro ancora.C’è in una donna il far semblant d’oggetto. Lei è l’oggetto per lui ma senza crederci troppo, si riveste dell’oggetto. In questo sta la dissimme-tria dei sessi. Le donne amano l’amore, sono affette dal narcisismo del
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narcisismo, amano essere amate si, ma per loro stesse! Una donna vuole essere amata per se stessa in quanto una, diversa da ogni altra e non per ciò che ha e ciò che mostra. Anche se ha molto e mostra di avere molto.Il legame d’amore si crea, nonostante i paradossi, le ambiguità, le con-traddizioni che ognuno dei partner rappresenta. Un legame tra i part-ner si realizza nel percorso accidentato dell’amore, tramite la disidenti-ficazione dall’oggetto e accettare di occupare la posizione di sembiante.La relazione amorosa è la traccia del modo con cui ognuno testimonia di come, attraverso il sintomo e l’amore, ha dato risposta al non c’è rapporto sessuale. L’amore è dare ciò che manca e ciò che manca deriva dal proprio rapporto con la castrazione simbolica, per l’uno e per l’Altro sesso. È sulla traccia dell’esilio che si innesta la parola d’amore, la poesia, la lettera.La posizione femminile divisione tra il riferimento al godimento fallico, proprio del campo della significazione e quindi fuori corpo, e il godi-mento Altro, illimitato, supplementare che è del corpo, non legato ad alcun sembiante, vale a dire non causato da un oggetto. Doppia divisio-ne: come soggetto in quanto essere parlante e come l’Altro che ha a che fare con un godimento fuori senso.Fra l’uomo e la donna il muro che conviene è quello che trasformato dalle parole diviene amore. Ma spesso è lei che ama, l’amore per un uomo è solo abbozzato, è ingombrato da ciò che ha. Solo se è un poeta, può avvicinarsi all’amore perché come lo apostrofa Lou Andreas Salomè è femmina. L’amore è un lavoro d’amore per superare la fondamentale dissimmetria che è una dissimmetria dei godimenti ma è responsabilità di ogni soggetto dove collocarsi al di là degli attributi che si hanno. L’analisi portata al suo estremo limite testimonia sostanzialmente di questo impossibile a dirsi. Il lavoro analitico come partitura musicale che l’analizzante cerca incessantemente di completare perché manca un accordo, una frase musicale che se ci fosse la completerebbe. È la frase mancante che cerca ininterrottamente fino a che si rende conto che manca strutturalmente! L’analizzante così da amato può accedere, grazie al Desiderio dell’Analista, alla funzione dell’amante.
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Lessico famigliare e inconscio
lessico famigliare e inconscio
di Vicente Palomera *
In questo testo l’autore ci conduce nella questione del “ familiare” così come Lacan l’ ha elaborata in quanto luogo di iscrizione del soggetto in relazione con un Altro che lo ha preceduto. Diversamente dalle teorie dell’attaccamento e dal considerare il familiare come “ impronta naturale”, l’autore richiama il neologismo lalingua. Attraverso di esso Lacan designa la traccia che la parola lascia nell’ inconscio nella nostra relazione originaria con il “ lessico familiare” in quanto separata dalla struttura del linguaggio e della comunicazione.
Parole chiave: familiare, lessico familiare, lalingua, inconscio
Fin dagli inizi la clinica psicoanalitica ha mostrato incessantemente il legame tra sintomo, inconscio e storia famigliare. Appena il nevrotico inizia a lamentarsi dei suoi sintomi, passa a lamentarsi dei suoi genitori, rivelando ciò che non funzionava nella loro relazione di coppia.J. Lacan lo sottolinea dicendo che: “l’analizzante parlando si concentra sempre di più su qualcosa che da sempre si oppone alla polis, ovvero, sulla sua famiglia. L’inerzia che fa sì che un soggetto parli soltanto di papà e mamma è un tema assai curioso”. 1
* Vicente Palomera, A.E., membro ELP, AME. Dottorato di Psicoanalisi all’Università di Parigi VIII, Docente della Sezione Clinica di Barcellona.1. J. Lacan, “Conférences Américaines”, in Scilicet, Seuil, Paris 1976, n. 6/7, p. 44. “L’analysant (si l’analyse, ça fonctionne, ça avance) en vient à parler d’une façon de plus en plus centrée, cen-trée sur quelque chose qui depuis toujours s’oppose à la polis (au sens de cité), c’est à savoir sur sa famille particulière. L’inertie qui fait qu’un sujet ne parle que de papa ou de maman est quand même une curieuse affaire. A dire n’importe quoi, il est curieux que cette pente se suive, que ça fasse, ça finisse par faire comme l’eau, par faire rivière, rivière de retour à ce par quoi ont tient à sa famille, c’est à dire par l’enfance”.
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Questo “curioso tema” cui allude Lacan rimanda al fatto che l’analiz-zante, parlando di una famiglia particolare, parla fondamentalmente del luogo d’iscrizione delle origini della sua vita in una storia, cioè, della sua esistenza soggettiva legata a un Altro che lo precede. In questo modo uno entra sempre nell’esperienza dell’inconscio, si analizza come figlio, non come padre.L’inerzia che fa sì che un soggetto non faccia che parlare di papà e mamma non è condizionata, come sostenne uno psicoanalista, da un attaccamento che fissa i vincoli che uniscono le successive generazioni in tutte le specie animali, in particolar modo nei mammiferi, un attac-camento che dovrebbe stare alla base del rapporto tra i membri della famiglia umana. Questa teoria dell’attaccamento, molto diffusa tra gli etologi, cercava di capire come hanno inizio le condotte programmate nella famiglia naturale cortocircuitando il sapere inconscio, un sapere strettamente annodato con il materiale del linguaggio.Se ciò che interessa è capire come si iscrive e si colloca nella famiglia particolare di ciascuno questa struttura dell’inconscio, niente di meglio, in questa bella città di Torino, che evocare il libro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, nel quale si mostra come si inscrive l’essere parlante nella trama famigliare e come si trasmette nell’inconscio come vocabo-lario. Lei lo chiamò “lessico famigliare”.
Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro
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latino, […] testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità famigliare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà – egregio signor Lippman – e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Fini-tela con questa storia! L’ ho sentita già tante di quelle volte!” 2.
Vediamo come Natalia Ginzburg non localizzi l’attaccamento famigliare in nessuna specie di impronta naturale, ma – come indicherà Lacan in una conferenza a Ginevra – in una specie di crivello che uno attraversa, “nel quale l’acqua del linguaggio lascia qualcosa dietro di se, dei detriti con cui uno potrà giocare” 3. Effettivamente, l’espressione “lessico fami-gliare” ha vaste risonanze in ciò che Lacan comincia a sviluppare a par-tire dal 1973: lalingua. Lacan precisò, nel 1970, che aveva scelto questo neologismo lalingua, in una sola parola, “per designare ciò che è affar nostro, di ognuno, lalingua cosiddetta materna, e non a caso così detta” 4.Lalingua è una parola più adatta di altre per collocare la struttura stessa dell’inconscio. Jacques-Alain Miller la spiegò a partire da un ricordo infantile di un altro grande scrittore, Michel Leiris 5. Fece notare un ricordo che Leiris evoca, in un’età in cui non era stato ancora iniziato alla lettura e alla scrittura, cioè, quando le parole potevano essere da lui colte solo nella loro forma sonora, quindi udite. Leiris scrive che in quell’età aveva a che fare con strane figure. Tra altre, ricorda un verso che cantava sua sorella e proveniva dal duo di Manon Lescaut intitolato “Adieu, notre petite table” e spiega come lei cantasse i versi pronunciando coscienziosamente la e muta che separa le due t di petit(e)table. Ciò che
2. N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963 e 2010, p. 22.3. J. Lacan, “Conférence à Genève sur le symptôme”, Le Bloc-Notes de la psychanalyse, n. 5, Paris 1985, p. 11.4. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino 1983, p. 138.5. Cfr., J.-A. Miller, La fuite du sens, Corso del 1995, inedito.
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restava come ritaglio di quel verso era tetable. Ciò che si isolava – in quello che udiva – era la e della te de petitetable. 6 “La sillaba te – conti-nua Leiris – cominciò a prendere consistenza attaccandosi al sostantivo table: essa aveva cambiato la nostra tavola (table) in tetable o in totable”. 7 Leiris spiega poi come tetable o totable sarebbe diventato per lui un nome per battezzare qualunque oggetto: una stalla, un quadro, un totem, un lavandino in cui usciva acqua potabile, ecc., ecc., cioè tutte le vocali che gli venivano in testa in quel momento per etichettare qualcosa di indefi-nito o del quale l’unica cosa che sapeva era che era un oggetto 8.Lalingua è qualcosa che si costruisce come il tetable di Leiris, cioè come qualcosa che è il risultato degli equivoci prodotti dal linguaggio. Lalingua è in definitiva la parola quando è separata dalla struttura del linguaggio e della comunicazione, è un termine che serve a designare ciò che rimane in ciascuno di noi, della nostra relazione con la lingua materna, nell’età in cui non sappiamo ancora né leggere, né scrivere, quando ci troviamo, in modo specifico, confrontati con quella dimensione di equivoci propria del linguaggio. Diciamo che i significanti de lalingua si forgiano a partire da vincoli che non rispondono all’ordine del lessico. Lalingua è un effetto degli imbrogli e delle trame delle assonanze, dei tagli singolari, dove la frase più banale può trasformarsi nella cosa più oscura. 9
Lacan presenta in questo modo l’inconscio come un sapere indelebile depositato ne lalingua, un sapere che si presenta come un’impronta, un’iscrizione, una traccia, una scrittura di ciò che fu la nostra relazione originaria con il “lessico famigliare”. Tuttavia, cosa fa che questo si fissi ed eternizzi in modo indelebile, cosa fa che, come scrive acutamente Natalia Ginzburg, “sopravviva nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque e dalla corrosione del tempo” 10?
6. M. Leiris, Biffures, Gallimard, Paris 1948 e 1975, p. 13.7. Ibidem.8. M. Leiris, Biffures, cit., p. 21.9. M. Leiris, Biffures, cit., p. 13.10. N. Ginzburg, Lessico famigliare, cit., p. 22.
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Lacan annota due ragioni: la prima concerne il carattere enigmatico dei significanti in gioco. Il significante di lalingua presenta un carattere enigmatico perché è isolato dalla catena significante, non articolato con gli altri significanti, separato da qualunque valore di significazione. È un significante separato dal suo significato, che funziona come una lettera, questa è la ragione per cui può rimanere incomprensibile ed enigmatico. Il sapere depositato ne lalingua è un sapere costituito da una serie di significanti isolati, cioè lettere che il soggetto non sa cosa vogliano dire. Già Freud aveva osservato l’importanza di questo feno-meno nel sottolineare come il bambino si trovi spesso di fronte a espe-rienze che rimarranno incomprese, conservando il ricordo di cose udite, stampate nella sua memoria, mentre gli sfugge il senso.La seconda ragione, che spiega perché questo sapere inconscio si fisserà in modo indelebile, è che questi significanti da soli (), incarnati ne lalingua, fisseranno qualcosa del godimento del corpo nell’istante stesso in cui il soggetto fa l’esperienza di un impossibile. Sono significanti separati ( ( ( ( )))) che hanno un valore di godimento perché si sono collocati nel corpo quando il soggetto ha fatto un incontro con ciò che resta fuori senso: esperienza di un impossibile che concerne questo godimento. Lacan insiste effettivamente sulla dimensione dell’impossi-bile. Il sapere dell’inconscio è un deposito, “un sedimento che si produ-ce in ciascuno quando inizia ad avvicinarsi a questa relazione sessuale alla quale però non giungerà mai” 11.Lacan articola la realtà sessuale, per un verso, cioè l’esperienza del godi-mento che fa il soggetto, e l’impossibile, per un altro verso, col quale il soggetto si confronta nel tentativo illusorio di raggiungere questo rapporto sessuale. L’idea è che questa coalescenza o saldatura che inter-viene tra la realtà sessuale e il linguaggio corrisponda all’incontro che il soggetto fa inevitabilmente con questo impossibile, con questo buco
11. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXI, Le non-dupes errent, 1973-1974, inedito, lezione del 12 febbraio 1974.
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nel sapere che concerne il godimento, con questo fuori senso nel sapere, rivelato in qualche modo nel momento stesso in cui sorge il godimento. Lacan definisce come reale questa assenza di rapporto sessuale, questo buco nel sapere. Ecco la cosa traumatica, il buco (trou) nel sapere, ragio-ne per cui Lacan trasforma il traumatismo in troumatisme.Questo è il nuovo modo di pensare l’inconscio che Lacan ci propone: l’inconscio è fatto de lalingua, è costituito da una serie di significanti isolati che fissano punte di godimento, con la particolarità che non pro-ducono significazione e rimangono incomprensibili al soggetto.Questo sapere inconscio che è giunto a depositarsi nel lessico famigliare, ne lalingua, come un tratto, una scrittura, è un sapere per il quale non c’è “nessun soggetto che lo sappia”. È un sapere indelebile, dice Lacan e, allo stesso tempo, non soggettivato. Detto altrimenti: a proposito di ciò che lo concerne in quanto ha di più intimo, il soggetto non può dire nulla. È un sapere che rimane in attesa, che, da questo punto di vista, ha la stessa struttura di un fenomeno elementare. L’inconscio parla piuttosto con un “semi-dire” enigmatico, un dire a metà che introduce qualcosa di discordante nella famiglia.La famiglia che il nevrotico porta nel suo inconscio, il suo “lessico famigliare”, è una specie di famiglia-fiction (Lacan la chiamò “mito individuale”). Questa famiglia che si inventa con l’intreccio tra il Sim-bolico e l’Immaginario, come la trama di un fantasma, serve per dare supporto e schermo al reale indicibile de lalangue, reale che fa buco nel sapere ed è la “maledizione sul sesso” inerente alla sessualità umana. A questo punto, la cosa straordinaria è che Lacan arrivi a indicare che la “produzione di un corpo nuovo di parlante è l’effetto della trasmissione di un malinteso” e che “il corpo non fa la sua apparizione nel reale se non malinteso”. 12
Quindi, contro la idea di Rank del trauma della nascita, Lacan preci-sa che “essere umano vuol dire nascere malinteso”. Leggiamo meglio
12. J. Lacan, “Le malentendu”, (10 giugno 1980), in Ornicar? nn. 22/23, 1981.
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quello che ha detto: “Non dico che il verbo è creatore, dico che il verbo è inconscio, ovvero, malinteso” e aggiunge: “La prodezza della psico-analisi è sfruttare il malinteso con, alla fine, una rivelazione che è di fantasma”. Farsi umano è allora “nascere malinteso” 13.Poi, senza soluzione di continuità, Lacan prosegue:
dobbiamo essere in questo caso radicali: il vostro corpo è il frutto della discendenza e buona parte della vostra disgrazia proviene dal fatto che nuotava in pieno nel malinteso… nuotava per il semplice fatto che par-lavaessere testardamente. […] È ciò che vi è stato trasmesso nel darvi la vita, come si suol dire. Ereditate questo… il malinteso poiché fin da prima di questo bel regalo, fate parte della balbuzie dei vostri ascendenti. Non occorre che balbettiate voi stessi, già da prima ciò che vi sostiene a titolo di inconscio radica lì […] nascere desiderato o no fa lo stesso, dato che si tratta del parlessere 14.
Vediamo allora come l’inconscio veicoli la trasmissione, nella famiglia, di questo malinteso del verbo che parla dicendo a metà e non sapendo quello che dice. L’inconscio è il “libretto” che fa del caso un destino. L’inconscio come parlessere sembra suddiviso – come Giuseppe e Lidia, i genitori del romanzo di Natalia Ginzburg – tra due parlanti, che non parlano la stessa lingua, due che quando parlano non si ascoltano; due che alla fine non si capiscono. Due che complottano per la riproduzio-ne, però di un malinteso realizzato che i loro corpi trasferiranno nella cosiddetta “riproduzione”.In fin dei conti, far nascere un bambino è voler scongiurare l’impossi-bile del rapporto tra i godimenti, è ciò di fronte a cui il testo di Natalia Ginzburg ci pone, ovvero, che il “lessico famigliare” abita questo iato irriducibile nel dialogo impossibile tra i sessi. Lacan sottolineava che ciò
13. Ibidem.14. Ibidem.
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che c’è è il malinteso, ed è il malinteso che fa sì che gli uni e gli altri continuino ancora a parlare, insieme, ma separati nel loro dire.E l’amore che ruolo ha in tutto ciò? È fondamentale, l’amore è proprio ciò che può fare in modo che tutto questo sia sopportabile.
(Traduzione di Erminia Macola)
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attualità lacaniana n. 12/2010
Il “Che vuoi?” nella mia analisi
il “che vuoi?” nella mia analisi
di Raffaele Calabria *
L’autore ripercorre in breve il proprio percorso psicoanalitico per giungere al momento in cui il “Che vuoi?” apre le porte ad un nuovo rapporto con il proprio inconscio, permettendo il definitivo installarsi della regola fondamentale analitica. Il desiderio, nel suo slancio vivificante in opposizione ad un godimento mortifero, conduce il soggetto verso la domanda di passe che sigilla il suo legame con la Scuola.
Parole chiave: analisi, desiderio, inconscio, passe, “Che vuoi?”
Un po’ rassicurato dalle mie riflessioni, mi rannicchio, rimango immobile, pronuncio l’evocazione con voce nitida e ferma e, calcando i suoni, scan-disco per tre volte e a brevi intervalli Belzebù. Un brivido mi corse lungo le vene, i capelli mi si drizzarono in testa. Avevo appena finito che davanti a me, in alto, sulla volta, si spalanca una finestra. Dalla breccia sgorga un torrente di luce più abbagliante del mattino, e fa capolino una testa di cammello orrenda sia per dimensioni che per forma. Soprattutto aveva orecchie smisurate. L’odioso fantasma apre la bocca e, in un tono che ben si addice a tutta l’apparizione, mi risponde: “Che vuoi?”. Ogni volta, ogni cavità dei dintorni risuona a più non posso del terribile “Che vuoi?”. Non saprei descrivere la mia situazione; non potrei dire chi diede manforte al mio coraggio e m’impedì di venire meno davanti a quella visione, al rumo-re più terrificante ancora che mi echeggiava nelle orecchie 1.
* Raffaele Calabria è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freu-diano per la clinica, la terapia e la scienza.1. J. Cazotte , Il diavolo innamorato, Donzelli Editore, Roma 2005.
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È questo il passo da dove Lacan ha tratto la famosa formulazione del Che vuoi?, cavatappi che stura l’effervescenza del desiderio e che condu-ce la struttura del grafo “verso la sua forma completa”. Di questa stura nella mia analisi, del suo gorgoglio e del suo sfogo, vorrei dare una pic-cola e breve testimonianza.
io so quello che vuoi…
Il percorso con lo Psicodramma Freudiano, durato circa 8 anni, mi aveva lasciato con alcune questioni irrisolte, tra cui: una certa aggres-sività, che permeava ogni mia relazione amicale ed affettiva, ed una insopportabile condizione di gelosia che marchiava il mio essere come escluso e bandito da ogni possibile godimento, sentito come interdetto e ad esclusivo appannaggio degli altri. Avevo sì guadagnato un certo spazio vitale tra gli uomini ma rimanevo segregato nella mia gabbia, abbarbicato alle sbarre della mia finestra a guardare in solitario livore l’illusoria libertà di movimento degli altri.In queste condizioni inizio la mia analisi, non sapendo dove mi avrebbe condotto ma deciso a venir fuori da una condizione soggettiva inso-stenibile. Una decisione che mi offriva al contempo la certezza circa il sapere ciò che il mio analista voleva. Non saprei dire in realtà cosa lui volesse, ma questa certezza era anche il fulcro e la spinta del mio parla-re: eravamo sulla stessa barca, confidavo sulla sua capacità di timoniere, ma lo tenevo d’occhio guardando a vista ove mi conduceva.
… tanto ti frego.
Già, lo guardavo a vista, lo tenevo sotto mira ben attento a fregarlo ad ogni occasione propizia. Non poteva sgarrare, non doveva cedere sulla decisione iniziale; tutto doveva procedere con una perfezione irreprensibile.
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Da dove proveniva la mia certezza su ciò che lui voleva? Credo di non sbagliare se faccio risalire il tutto alla mia credenza di certezza sul desi-derio di mia madre. Questa me lo aveva fatto intendere in tutti i modi che io, il secondo di tre figli, ero quello prediletto, il suo bambino, il suo amore da mangiare, il predestinato alla fama e alla gloria della famiglia. Eppure, l’avevo tradita per ben due volte: dapprima non seguendo le orme di mio zio arcivescovo (di cui porto scolpite le insegne di nomina-zione), poi non diventando quel medico che tanto l’avrebbe inorgoglita.Dunque, l’affidarmi al mio analista nascondeva una feroce trappola, l’avrei tradito al primo passo falso, rivelando così a me stesso il para-dosso della mia domanda isterica: so che voglio guarire, ma quello che tu (analista) non sai è che incomprensibilmente e colpevolmente non voglio guarire. In questo modo avrei reso vano ogni desiderio su di me, mantenendo intatta la mia condizione nevrotica: trastullo per l’Altro, reso però insoddisfatto attraverso i miei inganni seduttivi e tradimenti. Era questo il nocciolo della mia certezza, rendere vano ogni tentativo dell’Altro, tentativo che io stesso avevo alimentato.
che vuoi?
È sulla questione paterna che si realizzerà quel viraggio fondamentale che mi condurrà ad incontrare il terribile Che vuoi? E qual era la colpa che attribuivo a mio padre, al punto da renderlo il responsabile per eccellenza della mia nevrosi? Quella di aver smesso di desiderare; quella di essersi ritirato dalla vita sociale e lavorativa (in realtà un ictus lo aveva menomato nella deambulazione e nel linguaggio) e di essere diventato sia lo zimbello che la più grande preoccupazione di mia madre. Per anni ho disprezzato, con ripugnante cattiveria, l’immagine degradata dei suoi ultimi anni di vita, confrontandola con quella gioviale e bonaccio-na, pur se tremenda, degli anni della mia infanzia. Nonostante il disprezzo però, la passione per quest’uomo è stata quanto
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di più intenso e profondo io abbia mai provato. Negli anni ero diven-tato persino uguale in tutto e per tutto a lui. Ricordo che mia sorella, tempo fa, rimase inorridita e spaventata da quanto avessi fatto proprie le sembianze di nostro padre!Durante il lento e faticoso scardinamento di questa impalcatura identi-ficatoria scopro finalmente la mia posizione nei suoi confronti e il lega-me amoroso che tanto mi aveva tenuto stretto a lui. Ed è in coincidenza di questa scoperta che diabolicamente mi si affaccia, come un lampo a ciel sereno e in una formulazione e tonalità tutta nuova, il Che vuoi? così tanto segretamente agognato in analisi.
che voglio?
Questa scoperta ha degli effetti immediati: mi scalza definitivamente dalla posizione di certezza, nella quale a tratti continuavo ancora a col-locarmi, svela la funzione ortopedizzante che il padre aveva avuto fino a quel momento per me, mi apre le porte ad un nuovo rapporto con l’in-conscio palesando un sottile, profondo ma tremendamente accattivante interrogativo sul desiderio dell’Altro.E il Che vuoi? si sdoppia inesorabilmente in due tronconi: Che vuole da me, come effetto della frantumazione della certezza con tutta la por-tata castratrice del non-sapere e, soprattutto, Che voglio, come nuova e sorprendente apertura sul mio desiderio. Ed è così che mi si rivela la vecchia da sempre, per me, enigmatica formula lacaniana : il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro. In un rapporto di sospensione della verità data come assodata circa il che vuole l’Altro da me, si sgretola la mia sicumera e sorge un’ineffabile domanda su cosa voglio io.Il nuovo è ormai all’orizzonte e, pacificato dal radicale svanimento di un coriaceo velo depressivo, mi inoltro in sconosciute frontiere di confine. Innanzitutto una strana rabbia nei confronti di mia madre di cui mal sopporto, per la prima volta, persino la voce. Poi un inedito
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sguardo sulla mia passione immaginaria, causa e fondamento del prin-cipio paranoico della conoscenza umana, passione che mi ha spinto a farmi non solo oggetto dell’Altro ma soprattutto a fare ciecamente degli oggetti dell’altro l’unica realtà di desiderio.Infine, nel luogo dell’analisi, dopo un certo periodo di tempo duran-te il quale la mia parola faceva timido capolino tra silenzi carichi di angosciosa attesa che qualcosa del mio pensiero prendesse forma, il mio dire si rivela fluente, caotico, illogico, intrecciato da significanti che sembrano sorgere dal nulla, e svela nuovi percorsi che si affastellano con insospettabile vigore. Non so cosa dico ma sono preso costantemente dall’effetto di quel che dico. Incappo così in quella sovradeterminazio-ne significante di cui il sogno è la massima espressione. Prima di ogni seduta penso: chissà cosa dirò oggi? Per poi trovarmi meravigliato delle novità emerse dal gioco delle libere associazioni. È il definitivo instau-rarsi della regola analitica fondamentale, che conoscevo da sempre, ma che solo ora assaporo nella sua succulenta fragranza.
avrò il coraggio del mio desiderio?
È questa la domanda che mi si pone nella contemporaneità. Codardo ed infingardo da sempre, mi tengo al di qua di ogni atto e, al riparo delle mie incertezze acquisite, scavo la mia nicchia preferendo il dormi-re allo stare svegli, nel soporifero caldo dell’Altro.Ma, mi chiedo, di quale desiderio si tratta? E poi, desiderio di cosa? Non so rispondere alla prima questione. Della seconda invece, sin dall’inizio, ho ben chiaro il responso. Ho desiderio di verità sulla mia origine, sulla mia originalità, sulla particolarità che mi caratterizza, sull’unicità che mi contraddistingue, sul reale in gioco nel sintomo che mi marchia. Forse il coraggio impiegato finora è ben poca cosa rispetto a quello che sarà necessario per compiere un atto che testimoni del mio pezzo unico nella più completa solitudine.
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Cazotte nell’epilogo del suo racconto così giustifica l’assenza di una conclusione compiuta del testo:
… a 25 anni, sfogliando l’edizione completa delle opere del Tasso, ci imbattemmo in un volume che conteneva la spiegazione delle allegorie racchiuse ne La Gerusalemme Liberata. Ci guardammo bene dall’aprirlo. Eravamo amanti appassionati di Armida, di Erminia, di Clorinda; sarem-mo stati privati di troppo piacevoli chimere, se quelle principesse fossero state ridotte a null’altro che semplici emblemi.
Al contrario, io metaforicamente voglio tenere aperto sia il libro della Gerusalemme Liberata, per non privarmi delle effimere ma piacevoli chimere, sia quello delle spiegazioni delle allegorie. Perché penso che ambedue rappresentino il libro del mio inconscio, il luogo delle mie invenzioni, la sorgente della mia rigenerante creatività, la bussola della mia vita. Ma tutto si rivela eccessivamente aperto, senza confini; tutto troppo libero, senza limiti. Il desiderio richiede invece una legge, fonda-mento di ogni scelta che trovi nell’inconscio la sua radice sinthomatica e di legame. Ed è per questo che desidero fare la passe.
approssimazioni al reale
parte terza
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attualità lacaniana n. 12/2010
Il tempo nella cura
il tempo nella cura *
di Carlo Viganò **
Viene avanzata l’ ipotesi che si possa andare oltre l’affermazione di Freud secondo la quale della tecnica di una cura possiamo dire solo le mosse di partenza e di conclusione, come per una partita di scacchi. L’ introduzione della categoria del Reale da parte di Lacan ci permette di isolare oltre all’ inizio e alla fine, delle scansioni interne al processo della cura. Queste scansioni si possono sintetizzare in quello che Lacan definisce atto analitico. Esso è l’evento di un cambiamento soggettivo, legato al prodursi di una sincronia che taglia la durata della cura come effetto di reale. Il taglio sincronico trasforma il tempo-durata in uno spazio topologico che permette di scrivere degli eventi della cura: interruzioni, scansioni del discorso, cicli. Questi eventi toccano la forma del godimento e quindi della vita come rapporto con il corpo.
Parole chiave: tempo, discorso, atto, cambiamento
Miller con il suo intervento a Milano (1993 1) “L’uscita dall’analisi”, inaugurò una ricerca sul tempo nel processo analitico, che ne interro-ga in modo nuovo la conclusione, non solo in modo finalistico, come passaggio dalla posizione dell’analizzante a quella dell’analista, ma mettendone in questione il valore nell’esperienza della cura come tale,
* Intervento al Seminario AMP di Milano del 19 dicembre 2009.** Carlo Viganò è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Milano; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.1. J.-A. Miller, “L’uscita d’analisi: sue congiunture d’innesco in Freud”, in Agalma, n. 9, Milano 1993.
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cioè quello di un reale che ne può causare l’arresto. Per questo egli fece l’ipotesi che vi fosse una simmetria con il momento di avvio.Egli, quindi, considerò le cure freudiane prendendole nel loro versante “indifferenziato”, senza però adottare un metodo sociologico, nello stile, ad esempio, di una ricerca fatta da C. Viviani nel 1975 sul “vis-suto” e sui “perché” di ventotto interruzioni di analisi 2, ma secondo i modi di una corretta ricerca clinica, che va al di là delle idee ricevute 3. Per questo egli scelse di accostare le scansioni temporali, inizio e arre-sto, a quella della “congiuntura di scatenamento” della psicosi.Analizzando la struttura della psicosi nel seminario terzo, Lacan intro-dusse nella clinica psicoanalitica la dimensione logica del tempo, sov-vertendo la logica nosografica dello “sguardo clinico”. Si tratta di un punto cruciale della ricerca di quella “causalità psichica”, che guida il ritorno a Freud di J. Lacan, perché a questo punto lo psichico si libera da ogni riferimento fenomenologico alla comprensione, per accogliere l’indeterminismo che connota la causalità soggettiva.Nell’incontro precedente del nostro Seminario, E. Laurent ha svilup-pata in modo dettagliato questa congiuntura, attraverso il quadrato 4 che mostra l’articolazione tra simbolico e immaginario, la dialettica
2. C. Viviani, Psicanalisi interrotta, Sugarco, Milano 1975.3. Riprendiamo qui l’espressione di Flaubert, come fa Lacan nel seminario undicesimo, per criticare il metodo codificato dalla ricerca clinica, che consiste nell’applicarvi i modelli della ricerca sociologica, la cosiddetta “validazione empirica” della cura. Si rende calcolabile la scelta singolare del soggetto mediante la statistica: la logica congetturale che presiede alla politica del sintomo cede a quella dell’epidemiologia, che piace di più agli amministratori. Il danno è enor-me: in nome di un sembiante di scienza (il calcolo) si perde proprio l’aggancio con la scienza, cioè il calcolo al limite del godimento soggettivo (oggetto a).4. Lo schema L:
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del simbolico come innovativa rispetto a quella filosofica di Hegel: il simbolico come rottura della simmetria speculare io-tu e irruzione “reale” dell’atto di parola. Esso produce il luogo dell’Altro, con l’effetto di rompere il “muro del linguaggio”, l’asse immaginario che ostacolava la relazione del soggetto con l’Altro.Rispetto all’interrogazione sul tempo della cura come durata, que-sta scansione si è dimostrata significativa per indicare un elemento dinamico all’opera nella cura analitica nei più diversi momenti del suo svolgersi: all’inizio, nell’interpretazione “efficace”, nell’interru-zione, nella fine. La costante di questa dinamica, se si considerano i casi clinici di Freud, viene indicata da Miller come un’operazione del desiderio dello stesso Freud. Miller ne dà una lettura: Freud non vuole far fare un altro giro al desiderio del paziente, perché nella sua ricerca è maggiormente interessato al guadagno di sapere ottenuto, che alla prosecuzione della cura:– in Dora, quando non vuol prendere atto della caduta dell’identifica-
zione con il signor K (sogno della morte del padre e della chiamata della madre).
– nella giovane omosessuale, quando il passaggio all’atto lo fa desistere dalla cura, invece che portare la paziente ad elaborarlo come atto di separazione.
– nell’uomo dei topi, quando accondiscende al desiderio autodistruttivo del paziente: partire volontario per il fronte.
– nel piccolo Hans, quando si accontenta della costruzione del fanta-sma come uscita dall’angoscia.
– nell’uomo dei lupi, quando, dopo avere solo “ricostruito” il fantasma, il paziente viene affidato ad un altro analista perché lo faccia assume-re dal soggetto in un atto sintomatico 5.
Miller osservava che questi interventi del desiderio di Freud giocaro-no come “sottrazioni di desiderio” dell’analizzante e che, in quanto
5. J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 284.
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tali, essi provocarono un arresto della cura. Questo ci suggerisce una possibile aggiunta al titolo generale del nostro Seminario, che ricalca quello del Convegno della NLS: “When the [talking] cure stops”. Essa preciserebbe che il fenomeno temporale nella cura va posto in relazione con l’atto di parola.Ciò che si arresta nelle cure di Freud è il discorso, quando viene a mancare il partner nel transfert, con un intervento che è di stop and go, per la ricerca clinica, ma che può avere effetti soggettivi nel paziente che non sono di fine analisi, ma di interruzione.Nella cura della parola, infatti, il processo assume una temporalità complessa, dove l’atto di parola produce contingenze di scatenamento del sintomo che possono essere di inizio, di scansione interna, di rot-tura, di fine anticipata, ecc. Per questo la strategia della parola si deve affidare ad una politica del sapere 6 , affinché l’azione del Simbolico sull’Immaginario segua la sequenza SIR: simbolizzare l’immaginario del reale 7. Nella conferenza i tre registri venivano ancora articolati in una catena di inferenze duali, di un registro sull’altro. Solo con l’elabo-razione dei discorsi l’annodamento dei tre registri sostituirà la catena dei cicli duali e permetterà, quindi, di scrivere la politica analitica del sintomo. Senza di quella un arresto non sarebbe logicamente differen-ziabile da una “interruzione”, appunto di tipo strategico 8.
6. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 585.7. Questo era il programma scientifico che Lacan propose nella conferenza “Il Simbolico, l’im-maginario e il reale” tenuta nel 1953, quando uscì con molti altri dalla Societé Psychanalitique de Paris.8. L’indistinzione tra politica e strategia ha permesso di pensare a politiche, del tutto imma-ginarie, per trattare il sintomo attraverso una sua delimitazione “focale”, dette “analisi breve”. Mi sembra più chiara la logica di chi afferma di limitarsi alla strategia per definire il limite temporale di una cura e rinuncia alla politica analitica del sintomo, come fa Nardone con la sua “psicoterapia strategica breve”.
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il rovesciamento
Il rovesciamento da SIR a RSI, risponde ad un progresso nella politica della cura, cioè all’esigenza di regolarne gli arresti a partire da quel reale che la parola genera. Precisiamo subito che non si tratta di un cambiamen-to di programma, da quello della Conferenza SIR, a quello della religione: realizzare il simbolico dell’immagine (che è il progetto della mistica).Andando “al di là dell’Edipo” 9, Lacan fonda la cura analitica su un pri-mato del reale che rivela la vera radice dell’esperienza, cioè la rimozione primaria come dato della struttura soggettiva. Lo mostra bene l’anno-damento dei tre registri in un Uno che possa fare frontiera verso il reale della pulsione di morte, l’intreccio “borromeico”:
SR
I
Possiamo capire allora che l’effetto di “rovescio” è puramente discorsi-vo ed è connesso alla politica dell’analista, che, pur scrivendo il nodo iniziando dal Reale, lo mantiene in una forma levogira, cioè con R che incide su S. Nella religione invece esso è destrogiro, con S che incide
9. Così J.-A. Miller intitola la seconda parte del seminario diciassettesimo dove Lacan formula il discorso dell’analista come il punto di ancoraggio al reale del soggetto che potrebbe sganciare il discorso dal primato del simbolico. Introduce cioè il soggetto dell’inconscio in una logica intui-zionista che colloca il soggetto della scienza (discorso del padrone) come il suo rovescio.
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su R. Il discorso dell’analista corrisponde ad un progresso nella politica della cura, che tiene conto dell’esigenza di regolarne gli arresti a partire da quel reale che la parola (e quindi il discorso della scienza) genera.L’algoritmo dei discorsi permette di mostrare questo rovesciamento: il resto che si produce nel discorso dei sembianti viene a sua volta messo nel posto del sembiante: la resistenza diventa la molla del transfert.
→ rovescio di → ▲ ▲
Non possiamo svilupparlo in questa sede, ma il discorso dell’analista, ponendo il resto reale di godimento del discorso dialettico, quello del Padrone con il suo derivato contemporaneo dell’Università, al posto del sembiante, crea un legame transferale con il sinthòmo, quarto anello di un annodamento che la cura potrà rendere borromeico, cioè in grado di fare da bordo al godimento.Nelle cure la funzione della parola può trasformarsi in atto 10 tramite il desiderio dell’analista che riguarda le “manifestazioni residue”, di cui parlava Freud in Analisi finita e infinita e che dunque, come osser-vava Miller, non sono residui della cura, ma del fatto che in essa si parli o meglio “che si dica”, che cioè al di là dell’enunciato si produca dell’enunciazione. In altri termini l’interpretazione del detto (SIR) punta al senso del sintomo, mentre l’atto tratta il godimento che il dire deposita ne lalingua, al di là del senso (inconscio reale 11).
quando il discorso non sarebbe del sembiante
L’algoritmo che può mettere in relazione l’enunciazione con la proces-sualità temporale della cura e con le posizioni che il soggetto vi può
10. In termini anglosassoni: da speach act a change.11. J.-A. Miller, “L’inconscio reale”, in La Psicoanalisi, n. 42, Roma 2007, pp. 112-172.
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prendere, è quello dei discorsi e dei passaggi di discorso. Essi possono mostrare i rilanci che il desiderio dell’analista può o non può fare di questi resti che la parola del paziente produce in una cura sotto transfert.Si tratta di uno sviluppo del quadrato della parola e del muro del linguag-gio, creato da Lacan per potere elaborare il tempo in cui la parola nella cura arriva, grazie al transfert, a scalfire il godimento del senso (comune) e quindi a sottrarre l’Altro ad un ancoraggio archetipico alla dea ragione (o alla sragione psicotica). Questo permette di sostituire all’asse immagi-nario a-a’, il resto di reale che l’immaginario ha raccolto e che resiste alla dialettica significante: a. È l’oggetto niente, che, anche quando nel sinto-mo contemporaneo non riceve la luce dell’Ideale (fantasma), può essere sottratto alla feticizzazione dalla pragmatica dell’analista.Vorrei illustrare questo rovesciamento utilizzando un commento del discorso dell’analista che Lacan fece in una “improvvisazione”. È nel suo giro americano, credo presso il MIT, dove mette in evidenza il desi-derio dell’analista quando si fa sembiante dello scarto della parola (il suo “silenzio”) nella cura (vedi Figura 1 a pag. page 150).Di fronte a ciò che il soggetto non dice l’analista può incarnare il sem-biante di scarto (a) e intervenire a livello del soggetto, grazie non ad un “rapporto di comprensione”, ma ad una supposizione di comprensione (la linea tratteggiata) che si produce come effetto a cascata dal suo dire (i vettori che portano ad a).È a questo punto che interviene il desiderio dell’analista: o questo sapere detto a metà mette in evidenza “ciò che il soggetto non dice” e quindi produce arresto del discorso dei sembianti (figura in alto), oppure esso fornisce un nuovo nome () a ciò che l’inconscio produce e questo fa continuare la cura grazie ad un cambiamento del (o nel) discorso. In un caso il soggetto è condizionato da ciò che enuncia (arresto del discorso) e nell’altro da ciò che non dice (avvio della cura).Questa struttura discorsiva rende ragione dei cicli della cura della paro-la in funzione del tempo logico del discorso. L’analisi è un tempo del parlessere che ritaglia la durata non solo della seduta, ma anche della
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cura, conferendo un valore specifico ad ogni sua scansione: inizio, arre-sto, interruzione, ripresa di tranche.
In questa logica tra inizio e fine si producono una serie di rovesciamenti successivi, dal sintomo al fantasma… e ritorno, meglio: ad una nuova scrittura del sintomo e così via. Sulla ri-scrittura del sintomo si sono arrestate le analisi di Freud, tranne quella dell’uomo dei lupi, dove un nuovo analista ha dato un altro nome al sintomo. Oggi diremmo: dalla nominazione della lettera di godimento (sinthòmo) al sintomo come supplenza del N-d-P.Nel seminario ventesimo, Lacan inserisce questo rovesciamento nel tempo logico dell’apologo dei tre prigionieri. È molto utile per mostrare come l’oggetto a, in quanto manifestazione residua di una cura, sia la
ce qu’il énonce
ce qu’il ne dit pas
savoir inconscient
ce que l’inconscient produit, plus de jouir
parlêtre
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chiave di volta del tempo per concludere un’analisi o un ciclo nell’ana-lisi. Egli lo scrive: Uno + a, dove quest’ultimo, che Miller riconduce alle “manifestazioni residue”, “tetizza la funzione della fretta”. Il tempo logi-co cioè apporta alla cura come situazione di intersoggettività “qualcosa di salutare”, mostra come ciascuno dei tre interviene nella relazione “solo in qualità di quell’oggetto a che egli è, sotto lo sguardo degli altri” 12.Gli arresti delle cure, allora, pongono la questione dei tre prigionieri, che in realtà sono due più a. “Questo due più a, nel punto di a, si ridu-ce, non agli altri due, ma a Uno più a”. Lacan ricorre a queste funzioni per “rappresentare l’inadeguatezza del rapporto dell’Uno con l’Altro”. Quando la cura si arresta è di questa inadeguatezza che si tratta e dell’insufficienza nel “punto di a” di un sembiante che inneschi la fun-zione della fretta, cioè del sembiante che incarna il desiderio dell’anali-sta. When I care stops, the cure start.
un caso
Illustrerò questo passaggio con uno stralcio di caso clinico. Una donna quarantenne, scrittrice e docente universitaria, che ha fatto 10 anni di analisi junghiana per la depressione, poi 4 di analisi lacaniana per disturbi alimentari, viene da me perché ormai dipendente dalle “canne”. Non intende tornare dal secondo analista perché questi le dice che lei ora ha la scrittura che la sostiene e che prima o poi si stuferà di fumare hashish. La ascolto e la invito ad andare anche al CAD per un supporto medico. Smette subito di fumare la “sostanza”, ma, per poter arrivare a scrivere, riprende con le sigarette, intanto racconta di una vita spesa a ricercare la verità maschile 13 e a sfuggire la seduzione paterna. Una volta, è passato poco più di un mese, faccio la “voce grossa” perché,
12. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 48.13. Il titolo del suo primo romanzo, che ha già avuto due ristampe, suona: “Non è come lui dice”.
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per rifiutare il farmaco che gli propone il medico del CAD, gli dice che sono io ad essere contrario. Reagisco quindi all’uso del mio nome, che mi rivela come lei collochi il luogo della mia enunciazione secondo una sua costruzione narrativa dell’Altro (lo psicoanalista che è contrario all’uso del farmaco), che le serve per rifiutare l’Altro. La volta successiva mi comunica che il mio rimprovero ha fatto crollare l’immagine che aveva di me e che vuole arrestare l’analisi: “sono già 15 anni che faccio analisi…”. Le propongo di prendersi una pausa e che intanto io aspetto che mi richiami, dal momento che sono certo che lei possa stare meglio e che quindi desidero che arrivi a fare un’analisi.Mi richiamerà una settimana dopo per dirmi che la sua stima nei miei confronti non è mutata. Sta male, è angosciata, si è accorta che a volte fa la voce della bambina, come io avevo osservato. Nella cura il posto dell’Altro che l’accudiva si è trasformato nell’Uno angosciante, però lei ha potuto relazionarsi di nuovo con me grazie alla stima, forse potrà avere accesso all’essere per la via dell’amore (stima). L’arresto ha avuto una funzione di tempo logico che ha scatenato un momento di cambia-mento nel discorso: si stupisce di parlare per la prima volta della madre non come vittima di suo padre o comunque come quella che “non parla”, ma della propria esperienza di ravage nel rapporto con la madre (che, già dai tempi del telefono fisso, non è mai riuscita a stare più di due ore senza verificare dove lei si trovasse). Mi aspetto di poter lavorare su questo oggetto primario della sua dipendenza.In conclusione possiamo dire che l’analisi è un processo e come tale si può arrestare, ma il suo procedere non è lineare. Essa è il processo del cambiamento. Di che cosa? Non dei sembianti che il godimento prende per il soggetto, ma della scelta che quest’ultimo può fare di un discorso che non sarebbe del sembiante. Perciò è sufficiente, ma non necessario, che l’uscita sia simmetrica all’entrata. L’uscita non è che l’après-coup dell’entrata e per questo non può obbedire ad un giudizio sintetico a priori (la diagnosi). Essa può solo essere l’oggetto di una costruzione.Entrata ed uscita non implicano uno spazio chiuso, definito da un
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interno ed un esterno, ma uno spazio reso infinito dal buco dell’Un-corpo 14, dell’incorporeo che mantiene in vita il parlessere. Il buco come organo incorporeo si rivela dunque essere l’erede della funzione fallica. Di qui l’infinito dei cicli della cura e il finito della passe.
14. Neologismo creato da Lacan, che usa l’ “Un” nella funzione di negazione che esso assume quando viene usato come suffisso in tedesco.
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Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante?
esiste un discorso che non sarebbe del sembiante?
di Carmelo Licitra Rosa *1
Il testo si propone di reperire la tessitura di fondo dell’ultimo capitolo del semina-rio diciottesimo. Di un discorso che non sarebbe del sembiante di Lacan, capitolo in cui va a confluire tutta la complessa elaborazione dei capitoli precedenti. Si vuole dimostrare come dallo studio di questo capitolo si possa estrarre la risposta – affermativa – a quella domanda rimasta in sospeso, che costituisce il titolo del Seminario. Questa risposta scaturisce da un’esplicazione straordinaria e avvin-cente del “non c’ è rapporto sessuale”, esplicazione che assume come perno la logica del , congiunta con una illuminante rivisitazione della clinica dell’ isteria.
Parole chiave: non c’ è rapporto sessuale, nome e fallo, uccisione del padre
1. c’è almeno un discorso che non è del sembiante
Come ben sappiamo, i discorsi isolati da Lacan sono quattro: Discorso del Padrone, Discorso dell’Isterico, Discorso dell’Analista, Discorso dell’Uni-versità. L’ordine in cui si susseguono, che è poi quello in cui li abbiamo elencati, ha soltanto una giustificazione storica – precisa Lacan – quella riconducibile in ultima analisi alla cronologia della loro comparsa.Hanno in comune una proprietà: il posto che organizza ciascuno di essi – detto posto dell’agente o posto del padrone – è anche quello che potrebbe essere chiamato posto del sembiante. Sottolineiamo che si
* Carmelo Licitra è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Roma; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.
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stanno considerando i posti, e non gli elementi, che invece – come è noto – possono scivolare in questi posti, attraverso una rotazione di un quarto di giro della rigida catena in cui sono montati, configurando ogni volta un tipo particolare di discorso. Ma ritorniamo al fatto che il posto del padrone, che abbiamo detto strutturare ciascuno dei quattro discorsi, sia un posto di sembiante: se così è, la diretta conseguenza è che ognuno dei quattro discorsi è dell’ordine del sembiante.Ciò detto, s’impone spontanea una domanda: se il discorso psicoana-litico condivide questa proprietà comune ai quattro discorsi, perché mai e in forza di che cosa esso dovrebbe essere un discorso privilegiato? In altre parole, se il discorso psicoanalitico è anch’esso un discorso dell’ordine del sembiante, perché mai dovrebbe godere di uno statuto privilegiato? Lacan, senza punto smentire l’eccezione che il discorso psi-coanalitico rappresenta, afferma che il suo privilegio discende dal fatto di articolare un certo sapere, capace di illuminare l’articolazione – il giunto potremmo dire – tra verità e sapere inerente a ciascun discorso 1.E tuttavia, dopo questa prima parziale conclusione – con la quale abbiamo escluso che il discorso analitico, malgrado l’eccezione che esso costituisce, potesse non godere della proprietà generale del discorso di essere dell’ordine del sembiante – rimane aperto l’interrogativo di Lacan che campeggia nel titolo del seminario, così che dobbiamo conti-nuare a investigare, ad esplorare la possibilità che esista un discorso che non sia dell’ordine del sembiante. Ebbene, se questa possibilità sussiste, allora è chiaro che un tale ipotetico discorso, presunto affrancarsi dalla caratteristica, comune a tutti, del sembiante, dovrebbe necessariamente essere un quinto discorso, un discorso cioè non riconducibile a nessuno dei quattro classicamente delineati. In effetti è proprio quello che Lacan insinua nel capitolo finale del seminario, in un modo discreto, quasi impercettibile. Infatti, alla pagina 156 Lacan parla di un discorso che
1. Cfr J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino 2010, p. 153.
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non sarebbe e che non è nel sembiante. Questo discorso è, come egli espressamente asserisce, il discorso del nevrotico. Tale discorso sarebbe capace di dire una verità. Lacan afferma alla pagina 154 che bisogna essere grati ai nevrotici, isterici o ossessivi che siano, proprio per la spe-ciale occasione che essi ci offrono – sì, proprio loro, i malati, gli infer-mi, rigettati spesso ai margini della vita sociale – di attingere ad una verità così importante. Con questa verità, che i nevrotici rivelano, siamo nel solco di quella verità che costituisce il nerbo dell’enunciazione freu-diana, ma che appartiene anche al retaggio più genuino della tradizione religiosa giudaico-cristiana.
2. il discorso del nevrotico enuncia una verità speciale
In che modo il discorso del nevrotico avrebbe questa proprietà di palesare questa verità? Evidentemente attraverso i sintomi, con cui questo discorso parla. Già da alcuni anni Lacan aveva fatto di Marx il vero inventore del sintomo: Marx precede Freud nella concezione del sintomo. La nozione di sintomo infatti sovverte la concezione tradizionale della conoscenza, giunta al suo culmine con la cogitazione hegeliana (pur nell’originalità di quest’ultima di palesare uno slittamento incessante fra sapere e verità), portando in primo piano lo scandalo di una conoscenza come parados-salmente contrassegnata da disconoscimento e ignoranza. Esemplare a tal riguardo è l’analisi marxiana del feticcio, inteso come sembiante intorno a cui ruota una certa organizzazione del sistema capitalistico.C’è da aggiungere che la verità, in questo seminario, presenta una caratteristica peculiare, in cui consiste tutta la novità della sua ripresa. La verità è stata senza dubbio uno dei concetti cardinali degli esordi dell’insegnamento di Lacan; qui la ritroviamo con un accento partico-lare, ovvero la sua proprietà di rivestire, di avviluppare il reale, il reale del godimento. Sotto la verità della denuncia marxiana del feticcio, ad esempio, si nasconde il plusvalore – fa notare Lacan. Questa solidarietà
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tra la verità e il reale che essa ricopre, spiega come mai la denuncia di tale verità non sia sufficiente per abbattere, a sradicare il discorso capi-talistico; come mai tale discorso prosperi, anzi quasi si consolidi, grazie alla denuncia marxiana, che piuttosto sembrerebbe assicurarlo nei suoi fondamenti; e come mai il cosiddetto proletario, in quanto anch’esso verità situata a ricoprire questo nocciolo duro di reale, appaia come un misero residuo di entificazione umanistica.Dunque, riprendendo il filo del nostro discorso, il nevrotico sarebbe dentro ad un discorso, sarebbe portatore di un discorso specialmente idoneo a svelare la verità nascosta dietro il sembiante. In tal modo il nevrotico si troverebbe ipso facto ad animare una certa dialettica tra sembiante e verità, dialettica che si situa allo stesso livello del cosiddet-to rapporto sessuale. In altri termini, è la tensione singolare di questo discorso del nevrotico, in grado di divaricare verità e sembiante, che situa il nevrotico stesso in una zona estremamente contigua, limitrofa a quella del rapporto sessuale. In questo modo, seguendo Lacan alla pagi-na 156, si potrebbe parlare di “discorso del nevrotico”, con ciò volendo indicare un certo sapere in grado di enunciare la seguente verità: “non c’è rapporto sessuale”.Ebbene, questo discorso del nevrotico sarebbe esattamente quell’unico discorso a non essere dell’ordine del sembiante: esso appare come una sorta di limite verso cui è proiettato il discorso, ogni discorso, allorché esso è chiamato a confrontarsi con la spinosa questione del rapporto sessuale. In altre parole, questo quinto discorso – discorso del nevrotico – sarebbe il discorso limite sotteso a tutti e quattro i discorsi strutturati; e proprio in questo farebbe eccezione, in questo si potrebbe dire che non è dell’ordine del sembiante.Questo limite si ritaglia, si delinea, diventa riconoscibile in uno scacco della logica, della logica che governa ciascuno dei quattro discorsi. E poiché ogni logica si regge sulla scrittura, questo scacco della logica dovremo poterlo reperire in qualche modo a livello di uno scacco della scrittura. È esattamente quello che verifichiamo. Lo scacco della scrit-
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tura diventa palese nelle cosiddette formule della sessuazione. Come dice Lacan alla pagina 136, le due barre di negazione poste sopra i simboli del quantificatore universale e del quantificatore esistenziale, di per sé non sono da scrivere, non sono scrivibili; e dunque il fatto di scrivere delle formule che di per sé non sono scrivibili è l’indice del paradosso stridente che esse incarnano. Tale paradosso è in qualche modo necessitato dal fatto di aver voluto piegare la logica, la logica in quanto scrivibile, a catturare la verità, la quale in quanto tale è inconci-liabile con la formalizzazione logica: se si vuole immettere la verità nella formalizzazione, il prezzo che immancabilmente si paga è il sorgere di un paradosso in seno alla formalizzazione che si sta costruendo. Lacan dice chiaramente che queste due barre che si scrivono pur non potendo essere scritte (dunque questo paradosso) costituisce ciò che è “capace di rispondere al sembiante del godimento sessuale” 2, dove il sembiante del godimento sessuale altro non è che la verità, come delucidato in un passaggio immediatamente precedente del testo di Lacan: il paradosso delle formule della sessuazione è dunque il prezzo che si paga per non aver arretrato dinanzi alla formalizzazione dell’informalizzabile, cioè della verità.
3. discorso del nevrotico e miti psicoanalitici
Lacan costruisce ora una coppia in cui abbina da una parte il discorso del nevrotico (dentro cui comprendiamo tutti gli elementi finora arti-colati: non del sembiante, limite del non c’è rapporto sessuale, scacco della logica, paradossi della scrittura) e dall’altra il discorso freudiano, prima forma del discorso dello psicoanalista, con i suoi miti, apposita-mente forgiati – soggiunge Lacan – in risposta all’ascolto del discorso del nevrotico. In effetti, all’origine della psicoanalisi c’è il dispiega-
2. Ibidem, p. 136.
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mento del discorso del nevrotico da un lato e Freud dall’altro, che lo ascolta pazientemente: che ascolta e risponde. E la risposta di Freud è precisamente la fabbricazione di alcuni miti, i quali nel loro insieme costituiscono il primo abbozzo del discorso dello psicoanalista. Lacan distingue questi miti in due categorie: miti dettati direttamente dal nevrotico (si tratta del complesso di Edipo, e il nevrotico che detta è l’isterico) e miti forgiati come per far eco alla parola del nevrotico (si tratta di Totem e Tabù, e il nevrotico che parla è l’ossessivo e, perché no!, Freud stesso).
4. tre livelli
Per entrare nel merito dello schema che Lacan ci propone nel capitolo X – il capitolo conclusivo del seminario diciottesimo – potrebbe essere agevole costruire tre livelli successivi. Questi tre livelli non sono repe-ribili direttamente nel seminario: costituiscono il mio contributo alla delucidazione del testo.Il primo livello, basale, sarebbe quello in cui il non rapporto sessuale è in qualche modo sopportabile, sostenibile ed emendabile grazie alla funzione operativa della castrazione. Ci spieghiamo meglio. Forse l’eccessiva insistenza sull’espressione non rapporto sessuale ci ha fatto perdere di vista che per Lacan c’è un reale residuale di questo rapporto sessuale. Ciò è del resto estremamente congruente con un punto classi-co della dottrina lacaniana: l’impossibile circoscrive un reale. In questo caso l’impossibile del rapporto sessuale circoscrive il reale del rapporto sessuale: ciò che è impossibile è l’articolazione a livello del discorso, ma da questo impossibile risulta un reale. Se non si può parlare di rapporto sessuale – aveva detto prima Lacan alla pagina 121 – si potrà quanto meno parlare, proprio in considerazione di questo reale del rapporto coniugato con l’impossibile del rapporto, di rapporto “sessuato”. Sem-pre sulla stessa linea, richiamo un passaggio di pagina 139 in cui Lacan
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parla chiaramente di un discorso che “instaura” il rapporto sessuale.Tale rapporto sessuale, instaurato da un certo discorso, non ha un corrispettivo nel campo della verità; il che induce a rettificare un po’ il modo di intendere la caratteristica di sembiante di questo discorso: se esso è del sembiante – come di certo lo è – non è perché rinvia ad una qualche verità (il binomio sembiante/verità è una costante) ma perché schiude la via a dei godimenti che sono solo la parodia del godimento effettivo, condannato a rimanere estraneo. All’inizio del capitolo IX Lacan aveva infatti definito l’uomo e la donna come fatti di discorso, come a dire che c’è un discorso che li può legare come uomo e donna, salvo che la loro intesa non può instaurarsi se non tacendo, giacché è proprio del discorso, rigorosamente parlando, di essere un discorso senza parole: da qui il sorriso, il sorriso delle statue arcaiche, a suggella-re il raggiungimento di tale intesa.Ebbene, “un rapporto sessuale, così come si dà in una qualunque realizzazione, si sostiene, si basa precisamente su quella composizione tra il godimento e il sembiante che si chiama castrazione” 3. È molto importante fissare bene questo punto di partenza: potremo così vedere stagliarsi davanti a noi una figura elementare in cui appaia la beanza del non rapporto, con inserito al suo interno un elemento, in cui possiamo far consistere la castrazione (sorta di lega fra sembiante e godimento, a cui è riportabile la lettera di Lituraterra, da differenziare severamente dalla lettera della logica), grazie a cui il reale del rapporto sessuale può essere abbordato. Vale la pena di ricordare che questa lettera, secondo Lacan, non è un’iscrizione, ma piuttosto il risultato della dissoluzione del sembiante. Essa è un osso di cui il linguaggio sarebbe la carne. La scrittura, non il linguaggio, forma l’osso di tutti quei godimenti che, per il tramite del discorso, si schiudono all’essere parlante: anche dunque di quei godimenti che non hanno linguaggio, come il godimento sessuale.Lacan, riallacciandosi ai fatti a lui contemporanei dello sbarco sulla
3. Ibidem, p. 156.
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luna, differenzia due modi di rapportarsi alla luna. Uno, il modo tra-dizionale, prescientifico, consiste nella contemplazione della luna, che sempre ha ispirato poeti e artisti: possiamo dire che questa posizione è quella riconducibile all’uso del simbolo fallico nel rapportarsi al godi-mento. Lacan, ricordando di aver visto in un museo giapponese un uomo imbalsamato e con lo sguardo trasognato rivolto alla luna, ne fa il prototipo di questa modalità fallica.L’altro modo è quello che solo la scienza permette: non più contemplarla, ma addirittura osare mettere il piede sulla luna, arrivare a lasciare un’im-pronta sul suo suolo. Certo, per poterlo fare, bisogna munirsi di scafan-dri, di un qualche mezzo (cioè non lo si può fare in maniera diretta), ma rimane che la traccia del piede sulla luna è la realizzazione del significan-te S(). La lettera dunque. A margine, Lacan ricorda che l’astronomia equatoriale è stata per i cinesi un ostacolo all’avvento del discorso scien-tifico, e dunque un ostacolo a spostarsi dal fallo alla lettera.Su questo sfondo, che è per Lacan il modo ordinario di far fronte al non rapporto sessuale (la castrazione come unico rimedio al non rapporto sessuale), vediamo profilarsi il dramma del nevrotico, dramma che è al tempo stesso una tensione, una forzatura, che proietta il discorso da lui tenuto all’orizzonte limite dei quattro discorsi e ne fa un’eccezione, per l’appunto un discorso non dell’ordine del sembiante. La parola chiave per accedere a questo secondo livello si trova sempre a pagina 156 del seminario ed è: “timore”, “evitamento”. Precisamente il nevrotico è qualcuno che cerca in tutti i modi di evitare, di schivare la castrazione; Lacan aggiunge che ciò dipende dal fatto che il soggetto della nevrosi si presume in qualche modo inadatto alla castrazione. Il contrappeso fata-le di tale evitamento è una sorta di insistente intrusione di questa stessa castrazione schivata, come per rimbalzo. E così la castrazione evitata si tramuta in qualche modo nel fantasma di una castrazione che incom-be dappertutto. È per questo che il nevrotico, che da un lato sfugge alla castrazione, è anche colui che dall’altro si presta elettivamente a rivelarla, in quanto ne è per così dire assediato, ingombrato. Come
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dice Lacan, la letteratura analitica attesta abbondantemente, sotto ogni forma e modalità, della ricorrenza della tematica della castrazione: e in questo certamente si vede che questa castrazione è come obbligata, ma anche che il nevrotico è sottilmente compiacente nei confronti di essa. Questa castrazione evitata equivale dunque a una sorta di riapertura della beanza, così da rendere più acuta e cocente la denuncia del non rapporto sessuale: in altre parole, il venir meno della castrazione come rimedio non può che far risorgere in modo più puro e bruciante quello iato che la castrazione è deputata a rendere sopportabile.Dunque il nevrotico è un paladino della verità del non rapporto ses-suale, nella stessa misura in cui è qualcuno che ha votato la sua vita a scansare la castrazione, quella castrazione che avrebbe potuto pacificar-lo rispetto al non rapporto sessuale.D’altra parte però la zona critica del non rapporto sessuale, una volta allontanato l’elemento della castrazione, non rimane soltanto occupa-ta dal reale del rapporto sessuale. Lateralmente, proprio a ridosso dei confini di ciascuno dei due fronti (maschile e femminile) del discorso, è reperibile l’elemento . Infatti , nei capitoli precedenti, era già stato elaborato da Lacan come un simbolo, non come l’immagine di un organo, ma come quel simbolo terzo – terzo ma non mediatore, si pre-cisa – a cui può essere riconducibile, riportabile, il godimento di ciascu-na delle due metà che mirano a incontrarsi, in quanto messo in impasse dal non rapporto sessuale. In qualche modo sussume in sé il godi-mento sempre inadeguato, insufficiente, inadatto, in cui va ad arenarsi, a schiantarsi miseramente la traiettoria del rapporto sessuale. Ebbene, questo godimento inadatto, col suo simbolo , può diventare esso stes-so un elemento terzo; ovviamente un elemento terzo non appropriato, un simbolo che non è il simbolo del reale del rapporto sessuale, ma il simbolo del godimento sistematicamente insufficiente in cui il non rap-porto sessuale ha potuto incontrare la sua ennesima, deludente verifica.Alle pagine 137-138 Lacan spiega perché questo simbolo venga prescelto come sembiante del godimento, sembiante denunciato dalla verità pura.
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Questo simbolo è presunto condensare il sapere supposto alla fecondità e come tale è adorato nei misteri antichi nella figura di un sembiante d’organo; al tempo stesso esso ha qualcosa di acefalo, in quanto il godi-mento sessuale non può essere subordinato alla scelta dell’uomo e della donna come portatori di un certo genotipo: al massimo è il fenotipo che sovrintende al loro incontro. Inoltre Lacan spiega come mai esso si pre-sti a designare il posto del godimento sessuale, all’interno del discorso, sotto forma di un buco: questo buco deriva da uno sbarramento, da una resistenza invincibile di tale godimento a farsi riassorbire nel discorso, o se si vuole da una resistenza di tale godimento a essere commutato in un elemento del discorso, cosicché in corrispondenza di tale godimento refrattario, al livello del discorso non può che ritagliarsi una lacuna.Ora, come già dicevamo, è proprio su questo che si addensano e con-vergono i fantasmi di intrusione della castrazione, come contrappeso necessario dell’evitamento ostinato perseguito dal nevrotico.Al tempo stesso, se il nevrotico dà voce alla verità del non rapporto sessuale, e se per farlo ha bisogno di appoggiarsi su come elemento cruciale di quel discorso che è capace di annunciare tale verità, allora è grazie al nevrotico che noi possiamo dire che non è il simbolo del godimento sessuale, che non è il simbolo del godimento insito nel reale del rapporto sessuale, essendo nient’altro che il simbolo del godimento deficitario, del godimento del fallimento del rapporto ses-suale. Ora, di questa disgiunzione tra e siamo precisamente debito-ri all’isterico – puntualizza Lacan.Siamo così in grado di accedere al terzo livello dello schema puramente didattico che abbiamo elaborato per situare la soluzione propria del nevrotico. Sì, perché il livello precedente costituisce una soluzione evi-dentemente instabile, che Lacan qualifica con l’aggettivo indecidibile: l’indecidibile caratterizza il rapporto sessuale in quanto non esiste 4.
4. Poco sopra Lacan aveva detto che non si poteva concludere se questa beanza del rapporto ses-suale era la conseguenza del fatto che l’essere umano è parlante, oppure la conseguenza del fatto che tale rapporto non è parlabile.
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Rimane il fatto che il nevrotico effettivamente risolve questa condizio-ne di sospensione con delle costruzioni con cui si augura di poter tam-ponare tale beanza. Queste costruzioni sono precisamente i sintomi, o meglio, qualsivoglia tipo di discorso in quanto suscettibile di fungere da sintomo 5, da cui ci si attende una soluzione artificiosa al non rappor-to sessuale.
5. la soluzione isterica
Vediamo adesso in concreto come appare nel caso dell’isterica questo Sintomo/Discorso che ella costruisce per far fronte al non rapporto sessuale, e su cui si sostiene nella sua esistenza. Il perno della manovra isterica è rappresentata da come elemento a disposizione del discor-so, di cui ella si appropria, e da come punto di mira che il discorso dovrebbe raggiungere perché possa esserci rapporto sessuale. Detto con la massima semplicità possibile, per afferrare effettivamente questa occorrerebbe che in qualche modo l’elemento simbolico atto a desi-gnarla fosse in grado di rispondere, di emettere una risposta all’appello: perché – come altrove ribadito da Lacan – è nella parola che può darsi qualcosa del rapporto sessuale.Ora, precisamente l’isterica chiama a designare , salvo poi consta-tare l’impotenza di , designatore di , a rinviare una risposta da quel posto di designatore in cui lo ha installato: ciò equivale a istituirlo come designatore ultimo e al contempo a sancirne l’impotenza come designa-tore ultimo. Questa manovra non è astratta ma si incarna, si incarna nel partner, il quale è precisamente colui che è identificato a questo . Ne deriva che il partner, identificato a , è quindi identificato a un elemento del discorso che, se ha la prerogativa di designare questo godi-mento nel rapporto sessuale, al tempo stesso è destinato a rivelare lo
5. È da notare: = discorso.
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scacco di non poter dire la parola ultima che questa funzione richiede-rebbe per essere davvero tale. dunque, per quanto significante specia-le, fallisce nella sua funzione di designatore ultimo del godimento, ed è in questo che l’isterica arriva a disgiungere e , suggerendoci così le formule della sessuazione. Ma questo scacco è anche lo scacco del partner posto sotto , partner sul quale l’isterica ha deviato la castra-zione che ella ha voluto a tutti i costi scansare: si tratta in definitiva in questa castrazione dell’impossibilità a designare il godimento ultimo. Si annodano così: 1) evitamento della castrazione che viene ribaltato sul partner, 2) denuncia del non rapporto sessuale attraverso ≠ e 3) sintomo isterico, che abbraccia nel complesso tutta questa manovra. Inoltre deve essere chiaro che tutto questo artificio è dovuto al fatto che il nevrotico, l’isterico in tal caso, è qualcuno che non rinuncia alla verità, come Lacan dice alla pagina 142, qualcuno che non rinuncia alla verità nemmeno a proposito del non rapporto sessuale, che come tale esorbita dal campo della verità 6. Pertanto l’isterico è qualcuno che riprende forzatamente sul piano della verità una questione che di per sé non può entrare nel campo della verità, non può cioè essere impostata secondo le coordinate della verità, perché il campo della verità è ad essa eterogeneo; d’altronde, farla entrare nel campo della verità vuol dire anche sottometterla al dominio della parola, dato che la parola ha rap-porto con la verità: la verità parla … 7
Lacan non articola tutto ciò in modo esplicito. Bisogna estrarlo attra-verso una paziente ricostruzione che passa attraverso la coppia Conno-tazione/Denotazione, la coppia Sinn/Bedeutung di Frege – al cui riguar-da Lacan sottolinea il superamento che questi ha fatto di Leibniz – e infine il nominatum di Carnap. Si tratta per Lacan di dimostrare che la Bedeutung di Frege, il designatore ultimo a cui è riducibile, non è
6. Impossibile ≠ Verità.7. Questo anche se parlare – nota Lacan – comporta una divisione irrimediabile fra godimento e sembiante giacché la verità è godere a far sembiante oppure alternativamente far sembiante di godere. Questa oscillazione è la nuova versione del semi-dire della verità.
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identificabile con il nominatum di Carnap. Quest’ultimo ha a che fare col nome, la cui proprietà, come Lacan ha dimostrato nei capitoli pre-cedenti, è appunto quella di rispondere all’appello.Il nome è tale in quanto il nominato risponde all’appello, mentre un designatore in nessun modo può rispondere all’appello.Ora, è precisamente questa la forzatura a cui si abbandona l’isterica: fare del designatore un nome, con la conseguenza di votare questo desi-gnatore allo scacco inevitabile. Il nome infatti è qualcosa di più di un designatore, perché appunto risponde, mentre il designatore non rispon-de. Prendere come nome significa dunque destinare allo scacco, e destinare quindi il partner, in cui si incarna, allo scacco. È in questo che si può cogliere in che senso la castrazione è riversata sul partner. Il fine ultimo di tutta questa manovra, in cui precisamente riconosciamo il senso dell’espressione sopra adoperata limite del discorso, è la dimo-strazione della verità del non rapporto sessuale. L’isterico dunque fa del fallo un Nome-del-Padre, il che vuol dire anche, inversamente, che il Nome-del-Padre è in qualche modo una creazione dell’isterico: e in effetti, forse il modo migliore per inquadrare questo Nome-del-Padre è di vederlo come un prodotto, un del discorso analitico. Il padre è dunque un referenziale: del resto non si analizza mai qualcuno in quan-to padre, ricorda Lacan. In ultima analisi, il padre è il depositario, il detentore ultimo se si vuole, di questa x irraggiungibile.
6. che cos’è il mito?
Per completare la nostra disamina, Lacan ci indica come al livello del mito, del mito forgiato dall’isterico, siano chiaramente reperibili le trac-ce inequivocabili di questa castrazione rifiutata. Si tratta solo di leggere bene le componenti di questo mito. La genialità di Lacan è di istituire un legame tra elementi molto eterogenei e distanti l’uno dall’altro.La prima componente del mito che Lacan mette in rapporto con la
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castrazione rifiutata è l’uccisione del padre. Riguardo a questo assassi-nio bisogna che non ci sfugga che esso è sempre già dato, mai rappre-sentato sulla scena della tragedia.La seconda componente, che mette in valore una sorta di struttura-zione matematica del mito, è la contabilità come supporto della gene-alogia e del posto della paternità nella successione delle generazioni. I padri sono sempre indicati da un numero, come è ben evidente nelle dinastie. Lì dove c’è un padre, lì dove vige un’organizzazione fondata sull’ordine patriarcale, è sempre necessario contare, la qual cosa non è invece preminente nelle società matriarcali. Ora, per contare, come ha dimostrato Peano con i suoi famosi cinque postulati 8 che fondano l’aritmetica, è necessario un elemento base, lo zero. Uno dei cinque postulati di Peano è che zero è un numero. Il colpo di genio di Lacan è di collegare l’assassinio del padre con lo zero di Peano. Come l’assas-sinio paterno è all’origine del mito, così lo zero di Peano è all’origine della numerazione, ivi compresa la numerazione necessaria per indicare la successione delle generazioni, la numerazione che assegna un posto al padre. Entrambe le cose, l’assassinio paterno e lo zero di Peano, sono da mettere in rapporto col rifiuto della castrazione: il padre è il frutto del rifiuto della castrazione.C’è un terzo elemento che Lacan fa giocare qui, e cioè la torsione della funzione di come papludun, ovvero la torsione di in una logica dell’eccezione. A margine va detto che bisogna differenziare il touthom-me dalla serie: au moins un, homminzin, un en peluce. Infatti, come dice Lacan, anche se il ha un rapporto con la castrazione, non è certo nelle formule della sessuazione che questo rapporto risulta desumibile, dato che piuttosto in queste formule il è in rapporto con l’ecce-
8. Gli assiomi di Peano sono un gruppo di assiomi ideati dal matematico Giuseppe Peano al fine di definire assiomaticamente l’insieme dei numeri naturali. Essi sono: 1. Esiste un numero natu-rale, 0; 2. Ogni numero naturale ha un numero naturale successore immediato; 3. Numeri diversi hanno successori immediati diversi; 4. 0 non è il successore immediato di alcun numero naturale; 5. Ogni insieme di numeri naturali che contenga lo 0 e il successore immediato di ogni proprio elemento coincide con l’intero insieme dei numeri naturali (assioma dell’ induzione matematica).
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zione, cioè con il campo degli eletti, di coloro che sono esentati, che sono immuni dalla castrazione. È anche per questo che il monoteismo appare a Lacan come il tentativo di forgiare un padre a misura di questa logica del papludun 9.Vale la pena di sottolineare che questa funzione del ha a che fare col godimento e che va differenziata da un’altra funzione che esso gioca parimenti in rapporto col desiderio. Quanto al godimento, il problema femminile non è né il touthomme, che essa alla stregua di un maschio è in grado di immaginarizzare (dunque il problema non è l’identifica-zione maschile di cui si sa che l’isterica è perfettamente capace), e nem-meno il problema è costituito dal fallo di cui ella si considera castrata, poiché il godimento fallico ella lo ha dalla sua parte. Il problema per la donna sorge nel momento in cui essa si dovesse interessare al rapporto sessuale. È allora che ella deve interessarsi al fallo come elemento terzo; e non può interessarvisi se non in rapporto all’uomo, di cui però non è affatto sicuro che ve ne sia almeno uno. Ecco perché tutta la sua politica sarà volta verso questo almeno uno, di cui si tratterà di verificare e di assicurare l’esistenza.Tutto ciò ha ripercussioni inevitabili per quanto riguarda il versante della verità. Come si legge alla pagina 143, l’isterica, paladina della verità, custodisce un sapere ferreo sulla verità del suo godimento, sapere che è il seguente: l’Altro idoneo a causare questo godimento è il fallo, cioè un sembiante. Da qui non solo il rivendicarlo, il reclamarlo, ovve-ro la sua spasmodica ricerca dell’almeno uno; non solo lo scacco che riserva al padrone, rigettandolo nel sapere (si vedano tutte le gustose considerazioni di Lacan sul teatro, sulla festa di carità, sulla clinica lussureggiante, associate all’amore della verità proprio dell’isteria); ma
9. E del resto ci sono delle tracce che conservano questo marchio di fabbricazione squisitamente femminile del monoteismo, reperibili nel fatto che Akhenaton, che è il prototipo di monoteismo, è anche una divinità profondamente effeminata, e in più coronata da tutta una serie di raggi provvisti di piccole mani in procinto di solleticare numerosi bambini, tutti rassomiglianti tra di loro come dei fratelli, o forse ancor più come delle sorelle – precisa Lacan.
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anche gli sviluppi logici e le loro ripercussioni sul piano del desiderio. A tal riguardo, metteremo in evidenza che nelle formule della sessuazione compare due volte la , pur non trattandosi della stessa . La prima, quella associata al quantificatore è un’incognita, la seconda, quella associata alla funzione fallica, è una variabile. L’isterica, facendo del suo essere un papludun, si situa nel posto dell’incognita, che è invariabile, rispetto alla quale articolare tutte le possibili variabili, ovvero tutte le possibili variazioni situazionali. Il tutto allo scopo di poter dire: non è di ogni donna che si può dire che ella sia funzione del fallo. Il suo auspicio è sicuramente che questo si potesse arrivare a dire di ogni donna, ma non ci si arriva. In altre parole, il suo desiderio di isterica è che tale funzione si potesse enunciare di ogni donna, ma appunto que-sto desiderio rimane insoddisfatto perché non si può dire di ogni donna che ella sia funzione del fallo. Non si può dire di ogni donna, cosicché alla fine una donna ne risulta, che tuttavia non è l’isterica in persona. Questi brevi cenni basteranno ad evocare la potenza logica implicata nella manovra isterica.
testimonianze di passe
parte quarta
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L’uomo retto
l’uomo retto
di Sergio Caretto *1
Il testo è la testimonianza di un’analisi giunta al suo termine e messa in forma gra-zie a quell’esperienza particolare che Lacan pone a fondamento della sua Scuola: la passe. Analogamente ad un setaccio che estrae le pepite portandole alla luce del sole, l’analisi ha qui consentito al soggetto di isolare quei significanti fondamentali che ne orientavano la vita e che portavano la traccia di quegli oggetti a cui il soggetto ancorava tenacemente il suo godimento. L’uomo retto, significante inscritto nel suo nome proprio, diveniva al contempo simbolo di una dimensione ideale del padre, quella della rettitudine, e del suo rovescio, il retto inteso come luogo del corpo in cui fare defluire lo scarto anale. Il percorso analitico in fondo consentiva al soggetto di operare quel passaggio dal padre ideale al padre come scarto reale, fino ad arrivare a sputare l’oggetto che egli stesso era stato nel fantasma che si era costruito.
Parole chiave: Padre Ideale, oggetto anale, fantasma, voce, amore, aggressività, corpo, sintomo, inibizione, vestito, super io
Aveva 21 anni quando varcò per la prima volta la soglia dello studio di colei che, di li a poco, sarebbe diventata la sua analista per i successivi 22 anni. Due tratti, a lui non estranei, contribuirono ad orientare la scelta dell’analista: il rigore e la passione con cui ella affrontava la let-tura dei testi freudiani all’interno di un seminario di psicoanalisi e il tono della voce acuto. In occasione dell’incontro, il giovane, nel timore
* Sergio Caretto, A.E., iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regione Piemonte; è Membro della SLP e Membro dell’AMP; Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza, insegna all’Università di Torino.
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di vedere rifiutata la sua domanda, si era portato con sé le dispense del seminario dell’anno precedente al fine di rispondere alle eventuali domande dell’analista. Di fatto, appena entrato nello studio, la sua attenzione si concentrò sul prezioso tappeto che l’arredava e che avreb-be dovuto calpestare per arrivare a prendere posto sulla sedia; per un istante, il pensiero che le sue scarpe potessero essere sporche di cacca e lasciare tracce sul tappeto, ne avevano inibito il passo.
la domanda
Due difficoltà contribuirono a fare precipitare la sua domanda d’analisi. Allievo brillante all’università aveva sostenuto in tempo record tutti gli esami del biennio per dimostrare al padre e a sé stesso di essere all’altez-za degli studi intrapresi, studi che si ponevano in rottura col percorso scolastico precedente di tipo tecnico scientifico, scelto più per seguire le orme del padre ingegnere che per interesse o passione personali. Per accedere alla specializzazione in psicologia dell’età evolutiva non gli restava ora che passare una “semplice” prova di inglese nella quale inve-ce veniva ripetutamente bocciato. Curioso inciampo tenuto conto che la madre, da sempre, aveva dedicato il suo tempo ad insegnare proprio la lingua inglese ai bambini delle scuole elementari così come ai suoi tre figli, la maggiore dei quali laureata in lingue. Di fronte all’angoscia nel vedere allontanarsi il momento in cui si sarebbe potuto formare alla cura dei bambini in difficoltà e abbandonati dall’Altro, Ergi non trova-va altra risorsa che tornare, a fianco di sua madre, a studiare e ripetere quella lingua a lui interdetta. Nello stesso periodo il giovane aveva ini-ziato a svolgere un lavoro educativo con bambini e adolescenti psicotici; il senso di impotenza di fronte al muro dell’autismo e lo scarto che incontrava tra la teoria che andava studiando e la sua applicazione pra-tica, l’avevano portato a rimettere radicalmente in discussione gli studi intrapresi. Dunque l’impasse nella teoria lo allontanava dal riconosci-
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mento di una pratica così come l’impotenza provata nella pratica rimet-teva in discussione la teoria che avrebbe dovuto illuminarla.
l’uomo Retto
Sorpreso nel vedere accolta la sua domanda si poneva ora il problema di come pagare l’analisi, tenuto conto che l’analista aveva all’incirca raddoppiato la cifra da lui proposta per le sedute nonché il numero delle stesse. Ciò che Ergi aveva tralasciato di dire all’analista era che, il mese prima, suo padre aveva smesso di lavorare, chiudendosi in uno stato di grande sofferenza all’interno delle mura domestiche. Al rientro dal lavoro dove aveva per anni ricoperto importanti ruoli dirigenziali, il padre si presenterà una sera ai famigliari dicendo: “Non mi hanno licenziato, mi hanno retrocesso (retro-cesso) ed io non accetto!”. Da uomo Retto qual era agli occhi del figlio a uomo retro-cesso, ovvero caduto come un resto anale che, dal retro, si deposita nel cesso. Con-frontata a questa improvvisa caduta del marito, la madre di Ergi si avvicinava ora al figlio domandandogli aiuto affinché questi, dati anche gli studi intrapresi, si occupasse di risollevare il padre dalla depressione. Il sintomo inibitorio legato alla lingua inglese che impediva al giovane di proseguire gli studi e abilitarsi nel trattamento dei bambini in dif-ficoltà, di fatto consentiva al soggetto di tenersi, non senza angoscia, saldamente ancorato al materno e, al contempo, di mantenere una distanza dal padre, primo tra tutti i bambini abbandonati. Infatti il padre, proveniente da una famiglia numerosa, povera e segnata dal lutto di tre fratelli, era stato costretto all’età di 10 anni a recarsi in un col-legio in cui aveva poi proseguito diligentemente i suoi studi. Prima di trovare riparo dalla guerra che incombeva sulla sua città, il padre aveva conosciuto colei che sarebbe poi divenuta sua moglie e che, figlia di un panettiere, offriva al bambino magro e denutrito il pane e i dolci della panetteria di famiglia.
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“Tu sei come il nonno!” diceva ad Ergi la madre indicandogli una foto sul comodino che lo ritraeva, all’età di un anno, in braccio al nonno che, di li a qualche mese, sarebbe morto improvvisamente di ictus mentre era intento a mangiare una ciliegia rimasta serrata nella bocca come una perla nella conchiglia. Gran lavoratore ammirato dalla figlia ed esempio per il nipote che ne portava il nome, il nonno era colui che non tratteneva niente di ciò che guadagnava in quanto era dedito aiutare gli amici più in difficoltà. Il nonno e il padre di Ergi facevano dunque parte di coloro che, come ricordava la madre in un proverbio, “Lanciano denaro in cielo e vedono ricadere merda” a differenza di quanti invece “Lanciano la merda e si trovano pieni di denaro”. Sulla scia di non fare mancare niente all’Altro Ergi, fin dalla più tenera età, era solito recarsi in un orfanotrofio con la madre per lasciare ai bam-bini meno fortunati i suoi giocattoli e i risparmi che aveva accumulato facendo delle buone azioni. “L’uomo Retto” diveniva pertanto l’ideale che Ergi prelevava sul padre e sul nonno materno, figure che indirizza-vano l’amore e le lamentele della madre e che si alimentava del discorso religioso che orientava la sua formazione primaria svolta in un convento gestito da suore dove, sulla porta d’entrata, era scritto l’adagio “Gli ulti-mi saranno i primi”. Occorreva dunque farsi ultimo prestandosi a non fare mancare niente all’Altro al fine di divenire primo nella mancanza e brillare così agli occhi della madre. Retto, era anche ciò che era inscrit-to nel suo cognome Ca-retto dove ca, nel dialetto piemontese, vuole dire casa; dunque la casa del retto. Lungo questo ideale di rettitudine Ergi traeva le identificazioni falliche che lo sostenevano nella relazione con l’altro, col quale non mancava di ingaggiare una rivalità senza pari ogni qualvolta la mancanza, la macchia, faceva, suo malgrado, capolino sulla scena. Confrontato al desiderio dell’Altro, l’altro veniva ad assu-mere le sembianze di padre cattivo e ingrato, riducibile a sguardo che giudica e rifiuta, e dal quale occorreva pertanto prendere le distanze. Ben presto lo stesso campo analitico divenne luogo in cui esercitare questa competizione con l’analista. Un sogno: Ergi in un grande anfi-
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teatro partecipa alle psichiadi (olimpiadi di psicoanalisi) rivaleggiando con la sua analista, con Jacques-Alain Miller, Laurent e altri. Di fronte all’ultimo ostacolo, in preda ad un crampo, Ergi si arresta per fare pas-sare il rivale, cosa che puntualmente gli capitava nelle gare di corsa alle quali da giovane partecipava arrivando immancabilmente secondo dopo essersi fatto superare nel rettilineo finale. “Non è detto che se supera suo padre costui debba necessariamente morire!”, disse l’analista svelan-do al giovane il desiderio di morte che, all’orizzonte, sosteneva tutta la competizione col padre e, al contempo, tutti i suoi sforzi per puntellare l’ideale di rettitudine a cui si aggrappava tenacemente.
l’uomo retto
Retto era sì il sembiante di purezza ideale ma, al contempo, segnalava bene il luogo del corpo, l’intestino retto, adibito a fare passare lo scarto anale pronto per l’espulsione. Anche qui, come per i soldi, si trattava di non trattenere niente, pena il fatto che i vermicelli, di cui la madre aveva la fobia, avrebbero potuto intaccare la purezza di quell’oscuro resto. D’altronde la madre non perdeva occasione per sottolineare il primato del figlio rispetto agli altri fratelli, nel raggiungere il controllo degli sfinteri e nel fare il suo dono là dove era domandato. Altre volte ricordava in pubblico e divertita quel giorno in cui il figlio era stato da lei trovato nel box, seduto sul vasetto, tutto imbrattato di cacca e con in bocca un grissino appena intinto. “Fare la cacca per mia madre” così l’analista aveva concluso una seduta limitandosi a ripetere le parole di Ergi il quale, peraltro, faticava non poco nel duro compito dell’asso-ciazione libera, non fosse che per il fatto che questa regola minava una delle regole d’oro dell’uomo Retto trasmessagli dal padre: “Prima di parlare occorre contare almeno fino a 10 meglio fino a 20 ottimo fino a 30”. Uscito dalla seduta gli fu chiaro come un lampo: “Aveva passato tutta la sua vita a farsi cacca per l’Altro materno, sotto lo sguardo atten-
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to del padre”. Dal lavoro analitico Ergi estraeva infatti un ricordo in cui la cacca fatta per la madre veniva successivamente messa sotto lo sguar-do attento del padre che, con una grossa lente d’ingrandimento da lui gelosamente custodita, ne verificava la purezza e l’assenza di vermicelli. Questa pratica si intensificò all’età di sei anni, momento in cui il fratel-lo minore venne ricoverato in fin di vita per meningite; nell’attesa del medico la madre aveva fatto un enorme clistere al figlio, atto a suo dire miracoloso grazie al fatto di averne liberato l’intestino retto dove avreb-be potuto risiedere la causa della malattia. Al di là di un vetrata che lo separava dal fratello posto in isolamento per il rischio di contagio, Ergi fece il suo voto a Dio: “Se mio fratello si salva gli do tutto quello che ho, compresa la bicicletta, e mi dedicherò ai bambini malati”. Il fratel-lo uscì dall’ospedale e Ergi iniziò ad entrarci per importanti problemi d’asma che lo conducevano fin sull’orlo dell’asfissia e che si protrassero fino all’adolescenza. Inoltre, per un certo tempo nella vita del piccolo, trovarono posto rituali ossessivi legati al lavaggio e alla preghiera per arginare la paura del contagio. Di quella paura, da adulto, rimase una certa reticenza ad avere contatti troppo fisici con l’altro nonché una certa insofferenza per le situazioni gruppali.Che il padre avesse un approccio scientifico a quell’oggetto che Ergi andava via via isolando nella sua analisi, lo testimonia un altro ricordo che l’analisi portava alla luce in cui il figlio, incuriosito, vede il padre con una potente pistola ad aria calda passare ore ed ore nel tentativo di ridurre e estinguere la cacca lasciata dal cane nel cortile. La conclusione del bizzarro esperimento era che sarebbe stata solamente questione di tempo ma che, idealmente, Il resto si sarebbe potuto riassorbire comple-tamente, scomparendo. Analogamente, Ergi e alcuni amici si erano un giorno divertiti a fare scoppiare una merda per strada con un petardo, un po’come vengono fatte brillare le mine nelle cave. Ciò che rende-va divertente il tutto era che si vedeva saltare la merda per aria e, per evitare di sporcarsi il vestito, occorreva allontanarsi correndo il più in fretta possibile. Aimè, il proverbio materno si dimostrava essere fallace
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in quanto, lanciando la merda per aria, non pioveva comunque denaro! “Fare la cacca per l’Altro”, rivelava ad Ergi come sotto le vesti dell’amo-re ideale rivolto all’Altro, alla cui domanda offriva diligentemente il proprio obolo al quale era primariamente identificato, dimorava di fatto l’odio, espresso nell’attentato al vestito dell’altro che si rivelava essere nient’altro che il suo stesso vestito.
la caduta del vestito dell’analista
Due sogni condurranno Ergi, a distanza di 10 anni dall’inizio della sua analisi, a domandare la passe all’entrata della Scuola. Il primo è composto di due scene e prende spunto dall’avere visto l’analista, quel giorno, prendere il suo stesso treno per recarsi ad un appuntamento di scuola. – Il treno, prima dell’arrivo in stazione, si ferma. Il soggetto si accorge che manca il macchinista. Angosciato scende di corsa dal vagone e il suo sguardo, dopo avere visto in lontananza l’arrivo, si fissa sull’immondizia presente davanti ai binari. La scena cambia. Il soggetto è ora di fronte alla tazza di un water dove, in superficie, vede una perla di cacca che non riesce a defluire nello scarico nonostante i ripetuti ten-tativi di tirare l’acqua. Orientata dal pensiero di una possibile soluzione, la mano si allunga, prende la perla di cacca e la porta alla bocca nel tentativo di ridurla digrignando i denti. – Fantastico! Disse l’analista chiudendo lì la seduta. Questo sogno ne preannunciava un secondo che veniva a suggellare una svolta nella cura. –Il soggetto entra in una baita di montagna molto povera e semplice dove vive l’analista ormai vecchia, taciturna e vestita di un solo saio. I due sono soli e devono dirigersi verso la cucina attraversando, coi loro corpi disposti fianco a fianco, un passaggio molto stretto. Il corpo si contorce sfiorando quello dell’analista mentre lo sguardo del soggetto è catturato, a lato, da un bellissimo vestito da sera lasciato cadere per terra. Giunto in cucina il soggetto fa per sedersi al tavolo dell’analista e condividere con lei la
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gustosa zuppa che era intenta a mangiare. Costei tuttavia gli fa inten-dere che non avrebbe potuto mangiare la stessa minestra, indicando all’ospite una grossa pentola fumante contenente dei resti che ancora occorreva cucinare. Il soggetto prende pertanto il mestolo e si mette a girare quegli scarti che galleggiavano in superficie. Le associazioni del sogno condussero ad un piatto piemontese molto rinomato e amato dal padre, la finanziera, fatto di tutte le interiora di animali cotte a fuoco lento. “Finanziera” richiamava al contempo le finanze, precisando ulteriormente il nesso tra lo scarto e il denaro. Terminata la seduta, al momento di congedarsi, Ergi fa per dare la mano all’analista e questi si accartoccia al suolo come un abito dismesso. “Oh my goodness!” esclamò col cuore in gola il soggetto. My goodness! era un’esclamazione della madre corrispondente all’esclamazione italiana Madonna! o Mio Dio! Cadeva così, d’un sol colpo, l’identificazione all’ideale paterno di cui Ergi aveva rivestito l’analista, lasciando emergere un appello al materno e l’apertura ad una nuova e silenziosa partita in cui all’analizzante non rimaneva altra scelta che cucinare quel resto di corpo. Che sorpresa inspiegabile e insopportabile: abbonato fino a quel momento all’oggetto anale, sogni e associazioni conducevano ora all’oralità.Nello stesso periodo cadde il vestito dell’amore ideale: la moglie, dopo tre anni di matrimonio, congedò Ergi perché insoddisfatta del loro rapporto di coppia. Disperazione, vuoto di senso, vertigine e angoscia. Eppure Ergi aveva seguito anche qui le orme del padre sposandosi alla sua stessa età e con gli studi ancora in corso e portando all’altare la donna che era stata la sua animatrice in parrocchia e con la quale aveva consumato le sue prime esperienze amorose. Fare l’uomo Retto condu-ceva il soggetto, ancora una volta, all’espulsione. Gli ci volle tempo per cogliere come un amore concepito sull’ideale non poteva che svuotarsi in breve tempo del desiderio, rendendolo un legame ripetitivo e privo di vita. Sorprendenti furono le associazioni che, a partire dal colore di un abito, contribuirono a fare cogliere le contingenze della scelta amorosa. L’aveva rivista di ritorno da un viaggio nell’Europa dell’est vestita di un
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abito viola. Anche il padre, quando Ergi era piccolo, si recava con fre-quenza in quel paese portando ogni volta dei doni alla moglie e ai figli. Un giorno aveva regalato alla moglie una preziosa matrioska viola, il cui uso era stato interdetto ai figli per il pericolo che ne ingerissero parte del contenuto. Il piccolo riuscì un giorno ad appropriarsi della desi-derabile matrioska viola perdendo però la più piccola delle bamboline contenute all’interno e andando così incontro ai severi rimproveri del padre. Peraltro la madre, per compiacere il marito che amava il viola, indossava sovente abiti di quel colore, non senza tuttavia lamentare il fatto che quello stesso colore era anche quello dei paramenti sacri indos-sati a lutto. È da notare che la donna che Ergi ritrovava e che avrebbe successivamente sposato era segnata dal lutto di un fratello morto in un incidente stradale, incidente analogo a quello capitato alla sorella del padre di Ergi. Il viola pertanto condensava amore e morte, divenendo per Ergi scintilla dell’incontro.
ergi!
L’ideale dell’uomo Retto era in fondo un impossibile tentativo di evitare l’incontro con la dimensione pulsionale del corpo, corpo che trovava nel pensiero la sua rigida armatura. L’analisi, costringendo il soggetto a pas-sare attraverso la parola fino a ritrovarsi nel dire, riapriva ora l’incontro con la vita del corpo e con un’angoscia inedita, meno localizzabile nel sintomo ossessivo a lui caro. Il lavoro analitico si rivelava essere sempre meno ricerca appassionata di una verità da decifrare e l’analista non era più convocato nella funzione di interprete. L’intensità dello sguardo, il tono della voce e la sua stretta di mano modulavano e scandivano ora una presenza silenziosa, corporea dell’analista il quale era chiamato a sostenere un soggetto confrontato ad una fragilità a lui sconosciuta, disorientato dal fatto di non reperirsi più in alcuna immagine. – In un sogno il soggetto è nudo, col corpo imbrattato di cacca, intento a
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lavarsi seduto sul bordo di una vasca con al suo fianco l’analista che non dice una parola ma accompagna con uno sguardo discreto quel rituale. Nonostante la vergogna il soggetto accoglie quella presenza familiare ma al tempo stesso estranea che attende la sua uscita. – Non era più ora lo sguardo paterno giudicante bensì quello della madre che Ergi ritrovava nel ricordo di quando, all’età di 10 anni, l’aveva sostenuto in un medesi-mo rituale per un’improvvisa evacuazione di cui si era molto vergognato. Occorreva pertanto staccare dal corpo quel vestito di merda che il sog-getto si era fabbricato per rispondere all’enigma del desiderio dell’Altro. Ergi, soprannome che era risultato della caduta della prima e ultima lettera del suo nome inscritto su una maglietta regalatagli dalla madre al suo ritorno da un viaggio in America, si rivaleva al contempo l’impera-tivo superegoico ERGI! al quale il soggetto si sottometteva per sostenere la figura di un Altro non toccato dalla mancanza. ERGI! l’uomo Retto!
finché morte non ci separi
Non sapere più cosa cercare, non vedere più un termine alla propria analisi, non riuscire più a dominare quegli eventi di corpo che faceva-no la loro inattesa comparsa come quando il soggetto venne ricoverato per un accesso d’asma in occasione della nascita della sua prima figlia. Odiava l’analista per averlo condotto in quelle sabbie mobili che ne risucchiavano il corpo, ma allo stesso tempo non riusciva a pensare ad una separazione dallo stesso, se non del tipo “finché morte non ci separi!”. Ovviamente, essendo lei più vecchia, sarebbe toccato prima a lei. Puntuale era giunto l’intervento dell’analista: “Non crederà mica di accomodarsi nell’attesa!”. Il significate attesa richiamava peraltro un fantasma di gravidanza che l’analisi aveva portato alla luce in cui il soggetto, identificato alla madre ricoverata in ospedale per la nascita del fratellino, aveva temuto di essere rimasto lui stesso incinta in seguito ad un gioco fatto col cuginetto. Questo incedere faticoso di fatto si
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accompagnava a cambiamenti significativi nella propria vita, tra i quali una nuova relazione amorosa dalla quale nasceranno in breve tempo due figlie e l’essere chiamato ad insegnare all’Università. L’angoscia che prima era causa di inibizione adesso diveniva la molla dell’atto.
sputare l’oggetto
Due sogni lo condurranno alla conclusione della sua analisi. –Il sog-getto, in una giungla, deve superare una serie di prove. Si accorge di essere solo, non ci sono altri concorrenti. Superati una serie di ostacoli giunge di fronte ad una spessa tavola di legno scuro dove sono presenti tre buchi con altrettanti oggetti che li tappano. Lo sguardo del soggetto si concentra sul buco centrale otturato da un oggetto vivo, che ha le sembianze di una scimmietta di peluche e al contempo di un bimbo piccolo che lo guarda. Ad un tratto l’oggetto cade al di là dell’asse di legno che lo supportava, lasciando lo sguardo del soggetto di fronte ad un buco. Un’angoscia invade il sognatore che tuttavia trova la forza di oltrepassare l’asse per andare al di là. Con sua sorpresa, vede il pupazzo allontanarsi e si accorge che stavano girando un film, che tutto quel percorso era stata una finzione. Pur accorgendosi che la gente che stava lavorando non era lì ad ascoltarlo dice sgomento: “Potevate anche dir-melo che era tutta una finta!”. La scena cambia: il soggetto è ora su una sedia con la bocca aperta. Una mano che non sa dire se è la propria o quella dell’Altro, si infila nella bocca e fa per estrarre qualcosa. Il sog-getto piange, si dimena, resiste fino allo sfinimento, fin quando sputa con forza in quella mano estranea una perla di cacca. L’angoscia e le lacrime lo svegliano violentemente. –Corre dall’analista ma, al momento di raccontare il secondo frammento del sogno, il soggetto sperimenta la medesima resistenza provata quella notte: piange e si dimena sul lettino non riuscendo, fino all’ultimo, a fare fuoriuscire la voce. Il soggetto è come sparito. Riuscito in questa
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impresa disumana e dopo avere aggiunto, con amarezza, “Che discorso di merda!” si alza scosso e agitato. L’analista lo guarda dritto negli occhi gonfi e dice: “Non mi resta che prendere atto di ciò. Le domando solo di tornare ancora una volta a dire il legame tra lo sguardo e la cacca”. Le lacrime continuano a scendere, sconvolto prende l’agenda ma, nonostante cerchi affannosamente, non riesce a trovare un posto vuoto per segnare un nuovo e forse ultimo appuntamento; decide dunque di andare via e che avrebbe chiamato l’analista successivamente. Un sogno giunto a distanza di tre settimane da quell’incontro traumatico gli dava ora la forza di tornare in seduta. – Il soggetto è a casa dell’analista per una festa. Pur essendoci persone della scuola tra gli invitati, si rende conto che è solo. Vede dei tappeti preziosi che, con sua sorpresa, sono appesi anche alle pareti e al soffitto. Sorpreso dal vedere che l’analista sta allontanandosi lasciando vuota la sua casa, il soggetto gli va incon-tro ricevendo da lui un dono, si tratta di un oggetto, una specie di mappa elettronica utile per orientarsi. Preso questo oggetto tra le mani il soggetto dice di non avere tuttavia il programma per poterlo leggere. L’analista è però già uscito e lui è lì, ora senza angoscia, in quella casa, la casa dell’analista, vuota. – Nelle associazioni il programma risultava il programma paterno non fosse che per le competenze del padre in informatica. L’analista lo congedò così: “Ora può servirsi del padre pur facendone a meno”.
liberare la voce assente
Pur provando un sentimento di certezza a lui tendenzialmente estraneo legato al fatto che una conclusione era precipitata, il soggetto dovette correre a fare la passe per formalizzare qualcosa circa quell’uscita e ren-derla atto. Il peluche vivo richiamava un bambolotto di scimmia che la madre, in ospedale, aveva regalato al figlio di 4 anni in occasione della nascita del fratellino. L’equivalenza simbolica bambino nato – bambino
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abbandonato – bambino malato – oggetto anale, nella loro connessione con lo sguardo erano lì a tappare il buco nell’Altro e a dare una consi-stenza identificatoria al soggetto. Peraltro l’asse di legno scuro era l’asse di ciliegio, legno usato dal padre per fare i mobili di famiglia. Dunque occorreva oltrepassare l’asse paterno ideale per intravedere il carattere di sembianza della costruzione dell’Altro e degli oggetti che ne avevano suturato la faglia. Il ciliegio tuttavia non poteva non richiamare il frut-to, la ciliegia, rimasta serrata nella bocca del nonno paterno al momen-to della sua morte. Le ciliegie erano anche il frutto che Ergi raccoglieva con destrezza nel suo giardino per poi venderle e ricavarne dei soldi. La cosa particolare era che tale frutto andava raccolto prima della festivi-tà di San Giovanni (patrono della sua città) per evitare che le ciliegie sviluppassero al loro interno il vermicello. Peraltro Giovanni è anche il nome del padre di Ergi. Occorreva tenersi al di qua dell’ideale paterno, Ergere la purezza dell’uomo Retto, per evitare di incontrare l’ impurità dell’uomo retto. Il detto materno “Tu sei come il nonno!” lasciava ora intravedere al soggetto, per un istante, l’identificazione all’immagine mortifera del nonno morto con la ciliegia in bocca. Sulla via dei ver-micelli, l’oggetto orale ciliegia si spostava sull’oggetto cacca andando a tappare la bocca del soggetto e fissandolo ad un’immagine ideale morti-fera. La perla si associava alla berla, nome piemontese dello sterco delle pecore simile, per colore e forma arrotondata, alle pastiglie di liquirizia preferite dal padre. Sputare con forza quel resto che era stato nel suo fantasma, gli consentiva ora, a sua insaputa, di liberare la voce assente.
new l acanian school , ginevr a 2010
parte quinta
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Il timone e il femminile
il timone e il femminile *1
di Gil Caroz **
Le diverse modalità con cui si può assumere la responsabilità di governare, di stare al timone, dipendono dal rapporto di un soggetto con l’ inconscio. Dal lato uomo significa procedere con la barra rigidamente puntata sulla rotta predefinita, come il sultano Shariar che rinsavisce solo grazie ai racconti incompiuti di Sherazade. Dal lato donna, c’ è il rischio di andare del tutto fuori rotta, come nel racconto biblico della regina Ester. È possibile una dialettica tra le due logiche? Ma oggi non è più un problema di governance, la politica sta cedendo il posto alla gestione delle cifre che “si basa sulla forclusione dell’ inconscio” e non ammette differenze: c’ è la possi-bilità inquietante che la scienza e lo scientismo passino al timone. Per farvi fronte Gil Caroz propone alla psicoanalisi il ruolo di “reintrodurre la logica femminile nelle considerazioni scientifiche”, più adatta a fronteggiare, caso per caso, le nuove esigenze del reale, ad adattare la rotta alle imprevedibili sorprese della “ fortuna”.
Parole chiave: logica maschile e femminile, inconscio, scienza
Propongo di pensare il modo che può avere un soggetto di stare al timone a partire dal suo rapporto con il discorso del padrone, vale a dire con l’inconscio. Questo ci porta a distinguere due logiche, una maschile e una femminile. Dal lato dell’uomo, a cui piace reggere la barra – si tratta di una specie particolare – ci si aspetta che lo faccia a
* Relazione introduttiva al Convegno della NLS, Ginevra 2010.** Gil Caroz è psicoanalista e esercita la sua attività a Bruxelles. È Presidente dell’EuroFedera-zione di Psicoanalisi, Membro dell’École de la Cause Freudienne e della New Lacanian School, Membro onorario della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. È Docente della Sezione Clinica dell’Istituto del Campo Freudiano a Bruxelles.
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partire dal suo aggancio all’ e al fallo. Egli ci crede, si crede lì e appli-ca al suo modo di stare al timone il metro della regola fallica: una sola legge per tutti, salvo eccezioni.In un mondo in cui il padre si è fatto timido, governare solo a partire dalla logica maschile equivale a condannarsi allo scacco. Il padrone contemporaneo non gode del rispetto che un tempo si nutriva nei con-fronti di colui che era pronto a mettere in gioco la propria vita. L’ che dava un peso alla sua parola ha perso forza. Anzi, il dovere del padrone contemporaneo converge piuttosto con quello dello schiavo. Deve sot-tomettersi alla volontà del popolo e ai suoi giudizi. Il godimento fallico non incoraggia questo genere di dialettica. Il fallo, dice Lacan, è una obiezione di coscienza al servizio da rendere all’altro 1. È autoerotico, implica cioè l’esigenza che le cose si facciano “a modo mio e solo a modo mio” per poter concludere il prima possibile perché bisogna che continui a circolare.Poiché una donna ha un legame con il fallo e con la trama significante, il suo rapporto con l’inconscio non è estraneo all’uomo. L’uomo vi si riconosce in quanto è una posizione che si regola su di lui. “È da dove la vede l’uomo, e nient’altro che da lì, dice Lacan, che la cara donna può avere un inconscio” 2. Nonostante abbia un rapporto con il fallo, una donna non agisce in modo simmetrico all’uomo. Locatrice, più che proprietaria, del fallo, essa non ha niente da perdere ed è dunque meno incline all’esitazione. Gli esempi si moltiplicano da qualche decennio a questa parte. “Più uomo di così, si diceva di Golda Meïr, non si può”. Eppure questa sua posizione maschile lasciava trasparire altre cose: un rapporto piuttosto blando con il sembiante fallico e una facilità a sepa-rarsene a favore dell’atto per ciò che questo ha di più autentico.Lo si nota anche nel rapporto del femminile con la legge in quanto uni-versale. Jacques-Alain Miller ha già sottolineato la tendenza femminile a
1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino, 1975, p. 8.2. Ibidem, p. 98.
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umanizzare la legge 3. Di fronte a ciò che non va, una donna preferisce rivolgersi al giudice, soggetto supposto saper interpretare la legge per adat-tarla al caso particolare, piuttosto che alla legge ordinaria e senza pietà.Se l’azione di governare si misura a partire dall’abilità ad affrontare un reale senza legge che Machiavelli definiva “fortuna”, la logica femminile del trattamento del godimento a partire dal caso per caso è senza dubbio molto più appropriata del principio di una legge per tutti. Nessuna legge prestabilita può essere applicabile a tutti gli eventi del reale.Ma il rapporto di una donna con il significante della mancanza nell’Al-tro ci conduce in un altro terreno. In questa zona inaccessibile al signi-ficante, una donna non ha rapporto con l’inconscio in quanto struttu-rato come un linguaggio ma con il buco nel simbolico di cui l’ombelico del sogno è un esempio parlante.Qui non si tratta più semplicemente di una umanizzazione della legge o di un rapporto più blando con il sembiante. In questo caso la logica femminile è motivata da un punto senza legge, o meglio, in altre parole, dalla legge del capriccio. I miti ci sono d’aiuto per parlare degli orrori che questo punto può implicare. Evocherò quello della regina Ester, moglie ebrea del re Assuero ai tempi dell’esilio da Babilonia. Ester riesce a smascherare il complotto del ministro Haman che voleva massacrare gli ebrei del regno. Il re cede sull’ infatti affida il suo anello regale a Ester e allo zio Mardocheo affinché redigano, a loro piacimento, un decreto a nome del re e lo firmino con il suo sigillo. Come conseguen-za, Haman, i suoi dieci figli e qualche migliaia di nemici degli ebrei nel regno, vengono uccisi. Dopo che tale vendetta ha avuto luogo, per Ester i conti non sono ancora chiusi. Quando il re le rivolge un “che cosa vuoi ancora?”, lei risponde : “Beh, riprendiamo domani”. Affascinato da Ester, Assuero non ha nulla da obiettare alla sua richiesta. Egli cede sul limite fallico aprendo così la strada ad una vendetta senza limite. Que-sta in ogni caso è l’interpretazione del regista israeliano Amos Gitaï, in
3. J.-A., Miller, “Teoria di Torino sul soggetto della Scuola”, in Appunti, n. 78, novembre 2000.
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un film dedicato ad Ester. I saggi del talmud discutono senza fine ten-tando di capire se Assuero era un imbecille o un furbo 4. Comunque sia, il racconto biblico del suo legame con Vashti, la prima moglie, mostra chiaramente la sua difficoltà con le donne.Oggi il silenzio del padre è diventato un fenomeno generalizzato, ma non per cedere il mondo al principio femminile quanto piuttosto per cederlo alla scienza e allo scientismo che l’accompagna. Da qualche anno a questa parte, ci inquieta vedere il riassorbimento del politico nell’amministrativo, la gestione che viene a sostituire la governance. Questa mutazione dell’Altro, accompagnata dalla contemplazione delle cifre, non ammette la differenza nemmeno tra uomo e donna. Essendo negata l’assenza di significante nell’inconscio per dire la donna, ognuno conta per Uno. Di conseguenza, se le due logiche per dirigere il timone si regolano sul rapporto dell’uomo e di una donna con l’inconscio, la gestione basata solo sulle cifre si sostiene sulla forclusione dell’inconscio.Parafrasando Lacan, propongo che il ruolo della psicoanalisi oggi possa essere quello di “reintrodurre la logica femminile nelle considerazio-ni scientifiche”. Questo implica una certa tolleranza al capriccio. La psicoanalisi qui è machiavellica nell’accezione positiva del termine. Un principe che non modifica la sua azione per adattarla alle novità e alle sorprese che la “fortuna” gli riserva, è condannato a fallire. Tutto sommato, per far fronte alla fortuna, è meglio essere, quando occorre, imprevedibile quanto il reale.Basandosi su una logica maschile un tale modo di governare sembra capriccioso. Una visione politica fissa e stabile, sempre la stessa, non è che un fantasma maschile. Il principio maschile insorge quando i dirigenti politici danno prova di una qualche inconsistenza. Il maschile cerca la buona soluzione, il buon orientamento valido una volta per tutte. Ci crede. Il principio femminile, al contrario, è tollerante all’in-consistenza perché, rispetto al significante, è l’inconsistenza stessa.
4. Talmud di Babilonia, Trattato Meghilla.
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In questa prospettiva, nella vita politica di una comunità le “crisi” sono il nome che si dà ai momenti in cui una politica si adatta alle nuove esigenze del reale. Non è facile introdurre un nuovo ordine perché, dice Machiavelli, “lo introduttore ha per nimico tutti quegli che delli ordini vecchi fanno bene e ha tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbero bene” 5. Per cui le crisi, molto spesso dolorose, sono altrettanto spesso fruttuose.Reintrodurre la logica femminile nel mondo contemporaneo significa far sì che il padrone, senza abbandonare l’, si lasci interpellare dal prin-cipio femminile e soprattutto da ciò che questo tenta di far esistere per mezzo della parola. Possiamo fare riferimento a un altro mito che ci sia da guida su questo punto. Restiamo in Persia, il paese della regina Ester, per ricordare la storia che fa da cornice ai racconti delle Mille e una notte. Il sultano Shahriar, cornuto, decide di vendicarsi uccidendo ogni mattina la donna che ha sposato il giorno prima. Sherazade riesce a mettere fine a questa procedura omicida raccontando ogni sera una storia incompiuta che apre sul vuoto del significante mancante. Questa che lei lascia in sospeso, alimenta il desiderio del sultano e la mette al riparo dall’esecu-zione. Shahriar finisce con l’abbandonare il suo progetto. Paradossalmen-te, la sua apertura verso l’illimitato della parola al di là del fallo, fa da limite all’accumulo fallico di una vendetta ripetitiva e mortifera.È possibile una dialettica tra le due logiche, maschile e femminile? Si può cogliere qualcosa di questo al di là del fallo a partire da una logica maschile? Ancorato al suo godimento autistico, l’uomo può stare solo sul bordo dei limiti fallici, tendere l’orecchio e cercare di ascoltare quel-lo che succede dall’altra parte, nella zona del pastout che per lui rimane ermetica. Non è facile per un uomo essere tollerante verso quanto ascol-terà dietro a questa porta. L’inconsistenza che vi si ascolta può facilmen-te essere vissuta come una debolezza del super-io o dell’ideale, come un
5. N. Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1995, cap. VI.18, p. 35. (Colui che l’ introduce ha come nemici tutti coloro che traggono vantaggio dal vecchio ordine e come tiepidi difensori tutti coloro che potrebbero trarre vantaggio dal nuovo).
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godimento cattivo a cui quasi sempre il discorso del padrone risponde con l’ingiuria. La formula di Freud era senza dubbio molto appropriata quando diceva che il super-io delle donne non sarà mai tanto “imper-sonale” 6 quanto quello degli uomini che obbedisce a ideali universali. Lacan non dice nulla di diverso quando elabora la sua logica del pastout.Questo non toglie che se l’uomo a cui piace stare al timone fa un’anali-si, forse un giorno avrà un lampo d’intuizione: ciò che gli è più intolle-rabile, più estraneo, è anche ciò che ha di più intimo. Allora saprà che anche lui ha un piede, e a volte entrambi i piedi, nell’Altro godimento. Che anche lui, in certi casi, può trovarsi nelle scarpe di una donna. Allora potrà allentare un po’ la presa sulla barra, non solo per abbordare uno a uno gli eventi della fortuna ma anche per dare un nome nuovo ai suoi capricci. Perché la fortuna, dice Machiavelli, è donna 7.
(Traduzione di Giuliana Zani)
6. S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925), in Opere, Bollati Boringhieri, 1989, vol. X, p. 216.7. N. Machiavelli, Il Principe, cit., cap. XXV, p. 167.
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attualità lacaniana n. 12/2010
Figlia, madre e donna nel XXI secolo
figlia, madre e donnanel xxi secolo *1
di Pierre-Gilles Gueguen **2
Da un lato il discorso del femminismo oggi non ha più alcuna presa, dall’altro il discorso moralista fa scomparire la donna a favore della Madre. La civiltà contem-poranea inoltre, spingerebbe la donna a un’ identificazione isterica all’uomo. Risal-ta così ancor più l’originalità della psicoanalisi lacaniana che riconosce alla posi-zione femminile un ruolo creativo e sovversivo in contrasto con la spinta all’unisex e la negazione delle differenze. Posizione che necessariamente deve essere declinata una per una, facendo così del non-tutto la possibilità per ognuna di dirne qualcosa.
Parole chiave: figlia, madre, donna, spinta unisex
Se per Freud quello che vuole la donna è una questione, per Lacan è il godimento femminile che deve essere interrogato, non tanto ciò che una donna vuole ma ciò di cui essa gode nel supplemento al godimento del fallo. Tuttavia, come sappiamo, la risposta giunge alle soglie del semi-dire solo una per una, perché della sostanza godente reale non si può dire niente direttamente, la si può solo approcciare per mezzo dei sembianti, degli eventi di corpo e della messa in funzione dell’inconscio autorizzata dall’analisi.
* Relazione introduttiva al Convegno della NLS, “Figlia, madre e donna nel XXI secolo”, Gine-vra 2010.** Pierre-Gilles Gueguen è psicoanalista e esercita la sua attività a Parigi e a Rennes.È analista Membro dell’École de la Cause Freudienne, Membro della New Lacanian School, già Presidente della New Lacanian School. È Maître de Conférences presso il Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università Parigi VIII.
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Tra i sembianti lacaniani c’è La Donna con la barra sul La: vuol dire che nessuna donna può incarnare quel tutto che sarebbe La Donna. Vuole dire anche che ognuna detiene una verità parziale su che cos’è una donna. E allora come si fa a tenere un Congresso sul tema “Figlia, madre e donna” senza, cosa che Lacan dà per certa quando si parla di loro, diffamarle? Ma qui si tratta proprio di un esame caso per caso, ne parleremo solo una per una.Diciamo subito che i tre termini del titolo di questo Congresso sono già tre facce della femminilità, tre facce che dividono profondamente l’essere femminile. Freud l’aveva già ben delineato nella sua Lezione 33 sulla femminilità facendo notare che la bambina, al contrario del bambino, deve distaccarsi dalla madre fin dall’infanzia. Secondo Freud, questo doloroso cambiamento d’oggetto è all’origine di molti sintomi successivi e dell’angoscia nella bambina, più dell’angoscia di castrazione che concer-ne piuttosto il bambino. È certamente anche il motivo per cui Simone de Beauvoir, a dispetto del suo femminismo, diceva che donna non si nasce.Se dunque il XX è stato il secolo del femminismo e delle sue istanze, il XXI è forse il secolo in cui le istanze del femminismo non suscitano più entusiasmo, il secolo in cui, con riferimento al titolo di un’opera ame-ricana del 1991 della giornalista premio Pulitzer Susan Faludi, domina il Backlash, l’onda reazionaria contro le conquiste del femminismo. Un recente saggio di Elisabeth Badinter che elenca alla rinfusa tutte le minacce alle conquiste delle femministe in particolare “post ‘68” è sulla stessa linea.È vero, certamente. Scommetterei però che il successo di vendite di questo saggio è dovuto più al suo titolo che non al suo contenuto: Madre e Donna, il conflitto.Si tratta in effetti del conflitto che la psicoanalisi antecedente a Lacan non è stata in grado di ridurre, Freud l’ha interpretato puntando tutto sul diventare madre (che già in sé è una divisione) e sulla sparizione della donna desiderante. I filosofi, i sociologi e i saggisti del XXI secolo sanno interpretarlo solo in termini di lotta di potere neo-hegeliana tra i sessi.
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Questo mette ancor più in risalto l’originalità della lettura che ne fa la psicoanalisi, quella insegnata da Lacan. La via della psicoanalisi lacaniana non conduce dal lato dell’entusiasmo del femminismo con-quistatore che, come ogni entusiasmo, è soggetto al disincanto e ancor meno dal lato del moralismo che cerca sempre di ricondurre la donna alla madre (combattendo contro l’IVG, ad esempio – l’incredibile movimento “pro life” negli USA – o contro le tecniche di procreazione assistita in nome della legge divina o di quella della natura, che è la stessa cosa). Ai due termini di questo conflitto se ne aggiunge un terzo, l’amore della bambina per il padre che Freud aveva chiamato timore dell’abbandono e che Lacan ricondurrà a una forma di solitudine che è il partner di ogni donna. Solitudine sulla quale l’amore getta un ponte significante che comporta delle soddisfazioni ma anche delle insidie perché l’amore è una forma di godimento che non può dirsi, non più di quello del corpo. Lacan lo riconduce all’anima (la cui etimologia desi-gna un soffio di vento).La posizione femminile però, per il rapporto privilegiato che le donne hanno con il sembiante, non ha niente a che fare con un presunto “eterno femminino”. È ben ancorata al suo tempo e ai costumi. Così le parole conclusive di Lacan in “Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile” valorizzano il ruolo civilizzatore dell’eros dell’omosessualità femminile, incarnato ad un certo momento dal movimento delle Preziose, in opposizione all’entropia sociale del comunitarismo verso cui tenderebbe l’omosessualità maschile. Detto altrimenti, le donne per il fatto che non si lasciano rinchiudere in un insieme chiuso e per il loro rapporto più incredulo rispetto al sapere sta-bilito, sarebbero portatrici di creazione e sovversione: tutto il contrario dell’idea che le donne sarebbero poco dotate per la creazione artistica, ad esempio. Senza dubbio è da ricondurre al fatto che una donna prefe-risce ciò che Lacan chiama il “narcisismo del desiderio” in opposizione al narcisismo dell’ego.Egli indica anche che “l’istanza sociale della donna sarebbe trascendente
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all’ordine del contratto che il lavoro fa propagare”. Infatti il lavoro pre-suppone la prevedibilità la quale implica il contratto, il consenso delle volontà, il modello della norma, non tollera l’eccezione. Presuppone un altro identico a sé stesso, perlomeno nell’espressione della sua volontà che crede irremovibile. Una donna, per il fatto di essere più vicina all’Altro che non esiste, è anche più realista, più pronta ad affrontare il non cono-sciuto al quale il contratto tenta di fare barriera. La si dice incostante, la si diffama: è invece al corrente dell’inconsistenza dell’Altro.Però questo realismo non mette le donne al riparo dalle sorprese e il paradosso è che il non avere niente da perdere le può condurre sulla strada della perdita e su quella altrettanto inarrestabile della passio-ne, dell’amore fino al ravage, fino all’oblio di sé. Spesso è proprio in queste frontiere che lo psicoanalista le incontra, sui bordi più o meno immediati degli abissi della distruzione dell’altro (la rabbia femminile) o di sé stessa (che Lacan ha inizialmente designato come privazione). A questo proposito Lacan ha parlato di follia femminile, un’altra parola per designare una forma di libertà delle donne rispetto ai limiti. Egli la distingue con precisione dalla follia clinica, presente anch’essa in sog-getti femminili psicotici, ne avremo degli esempi.In effetti le donne, se non sono psicotiche, hanno un rapporto con il godimento fallico. Grazie a questo rapporto con il sembiante fallico il loro godimento trova i suoi limiti.Tuttavia la civilizzazione, con la sua spinta all’unisex in particolare tra-mite la legge che regola il lavoro ma anche attraverso l’egualitarismo che questa diffonde e il rapporto speculare che instaura tra i sessi, accentua e fissa questo rapporto con il fallo presente nelle donne, sia per identi-ficazione isterica all’uomo, sia per l’accentuarsi del dominio della donna madre all’interno della cellula familiare. Lacan vi fa riferimento quando dice che il soggetto moderno non ha più tanto un rapporto con il Nome-del-Padre quanto piuttosto con un “essere nominato a…” materno.La civiltà contemporanea spingerebbe dunque le donne all’isteria anche se questo sintomo è sparito dal DSM. In compenso la psicoanalisi
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offre la speranza a ogni donna, una per una, di disfarsi di questo peso e di poter dare al suo essere di donna uno spazio in cui si coniughi il rapporto del suo godimento con il sembiante fallico grazie a un lega-me d’amore con un uomo e a un accesso più moderato al godimento supplementare, pacificato dalla parola d’amore. C’è – diceva tempo fa Jacques-Alain Miller – un modo giusto e uno sbagliato di capire quello che Lacan ha chiamato il “non-tutto” femminile: “ci si immagina – diceva – che il non-tutto… si definisca rispetto alla ‘logica del tutto’ che introdurrebbe il ‘questo manca’… Mentre il non-tutto vuol dire che c’è una dimensione in cui è in gioco qualcos’altro che non la mancanza e ciò che la tappa” 1.Con il nostro convegno verificheremo i presupposti di questa introdu-zione. Auguro a tutti buon lavoro.
(Traduzione di Giuliana Zani)
1. J.-A. Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, n. 13, 1993.
emergenze l acaniane
parte sesta
203
attualità lacaniana n. 12/2010
Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere
che ci fa qui la psicoanalisi?povertà, miseria, maniere *1
di Stefania Ferrando **2
In questo testo incrocio due linee di interrogazione: la prima si rivolge al modo in cui la psicoanalisi, un sapere e una pratica ben più giovane della filosofia, sa col-locarsi nel nostro presente in cui la parola “crisi” non smette di tornare; la seconda guarda a che cosa può significare rapportarsi in modo creativo alla povertà, e come fare spazio al desiderio – spazio che la psicoanalisi vuole difendere – consenta di distinguere tra la povertà e la miseria.Luogo di incrocio delle due piste è il concetto di “maniere”.
Parole chiave: miseria, maniere, povertà, pensiero della differenza sessuale, niente, politica
I. Vorrei partire da una questione che, in modo un po’ sbrigativo, ha preso la forma di un “che ci fa qui la psicanalisi?”. È una domanda che nasce da uno stupore, che mi interroga quando penso che la psicoanali-si ha una storia così recente, quella di una pratica che, a un certo punto, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, è nata. Quel che colpisce così profondamente è il contrasto fra la presa che riesce ad avere su ciò che ci capita, la potenza teorica che mette in campo, gli orientamenti che riesce a fornire, le parole che riesce a trovare, e questo suo venire
* Questo testo è stato originariamente pensato per uno degli incontri organizzati a Padova dai dottori Alberto Turolla, Nicola Purgato ed Erminia Macola, che ringrazio insieme agli altri partecipanti alle discussioni.** Stefania Ferrando è dottoranda di filosofia all’Università di Padova e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.
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alla luce così prossimo a noi. “Ma perché prima certe cose non sono state viste? Perché ora?”: questa è la domanda che affiora. Per qualcuno che, come me, si dedica alla filosofia vi è, in un tale contrasto, qualcosa di sorprendente: la filosofia non si accompagna facilmente all’idea di una nascita, di una pratica che a un certo punto compare e che resta segnata in sé dai modi in cui è praticata e dalle esigenze e contingenze che l’hanno portata ad essere quello che è. E quanto più la filosofia vive l’illusione di potersi esaurire nei propri contenuti, tanto più manca la possibilità di interrogare il suo rapporto con la circostanza in cui è emersa, e in cui di volta in volta viene riattivata.Per questo, ancora di più, lo stupore nei confronti della posizione tutta diversa della psicanalisi si ravviva. A questo stupore può essere data una forma più strutturata disciplinarmente, quella della domanda che la tradizione classica della sociologia francese (penso al filo che lega Dur-kheim, Mauss e Dumont soprattutto) porrebbe: perché una certa prati-ca emerge in una certa società? Quali valori e disequilibri di quest’ulti-ma intercetta? Quali giochi consente di tenere aperti, quali, invece, di scompigliare rinnovandoli? Cioè, quale dinamismo, quale movimento, specifico è capace di produrre nella società in cui è nata?Si tratta di domande che fanno un altro giro attorno alla psicoanalisi, che non è immediatamente quello della domanda singolare che, uno per uno, le si può rivolgere quando si intraprende un’analisi. Ma queste diverse questioni, quelle che uno sguardo sociologico può porre, non sembrano tuttavia estranee: se da un lato è vero che la psicanalisi “non prende l’uomo in massa – come osserva Miller – ma uno per uno, lo ritira dalla scena pubblica, lo sottomette a un’esperienza singolare” 1, dall’altro lato un tale lavoro – che polemicamente e ironicamente Mil-ler descrive nell’intervista appena citata come un immenso lavoro di “educazione privata” – si raccorda a un “progetto” che investe i modi di
1. Jacques-Alain Miller, “Lacan et la politique”, in Cités, Psychanalyse et politique, n. 16, 2003, p. 106, (traduzione nostra).
Stefania Ferrando | Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere | 205
vita della società (per Freud era il progetto di un Illuminismo psicoana-litico, osserva Miller), si intreccia a certi modi d’essere, a certe maniere, che in quella società vivono e chiedono di essere tenute in vita.In rapporto a quest’ultima osservazione, la riflessione sociologica, ci consente di osservare anche un altro lato della questione: se qualcosa è nato, e ha una storia, non solo, evidentemente, non è lì da sempre, ma, anche, non ci è garantito per sempre: la sua fragilità ci interroga, per-ché la sua vita dipende, in qualche modo, da noi, dalle maniere e dalle forme di vita che intesseremo e che gli offriranno, o meno, un ambiente in cui potrà vivere. Il dibattito in corso sui destini della psicoanalisi, in rapporto all’efficienza e alla scientificità delle psicoterapie mi pare mostrare bene il punto in questione. Curiosamente, anche la filosofia è sottoposta a un rischio di sé in qualche modo simile, ma, per quel che ricordavo poco sopra, è meno pronta a capirlo, e a rischiare se stessa per trovare nuove pratiche con cui sottrarsi al crollo di ciò che non riesce più a stare in pari con quanto accade. E in qualche modo le prove cui sono sottoposte entrambe, psicanalisi e filosofia, hanno a che fare con il tema di cui tratteremo, quello della povertà.Anzi, è proprio a partire dalla questione della povertà, che si potrà declinare la questione della sociologia francese a proposito della psico-analisi: quali giochi consente di tenere aperti? Che movimento innesca nella società? Quali forme di vita, quali maniere, quali disposizioni soggettive al contempo richiede e produce?
II. Alcuni mesi fa ho frequentato la scuola di scrittura pensante organizzata da Luisa Muraro e Clara Jourdan presso la Libreria delle donne di Mila-no. Il tema della scuola era la povertà, come risorsa della scrittura. Parto di qui perché è in quel contesto che ho cominciato a mettere a fuoco la questione della povertà. Per accostarla, mi sembra necessario introdurre una duplice distinzione: quella tra povertà e miseria, e quella tra povertà materiale, o esteriore, e povertà simbolica, o interiore, o morale. Incon-triamo questa seconda distinzione già all’inizio della predica di Meister
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Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum” (Beati i poveri nello spirito perché loro è il regno dei cieli):
Ci sono due specie di povertà. C’è una povertà esteriore che è buona ed è altamente apprezzabile nell’uomo che la esercita volontariamente per amore di Nostro Signore Gesù Cristo, poiché egli stesso l’ha esercitata sulla terra. Di questa povertà non voglio ora dire di più. Ma c’è un’altra povertà, una povertà interiore, quella che ci fanno capire le parole di Nostro Signore quando dice: “Beati sono i poveri in spirito” 2.
La predica di Eckhart è tutta un lavoro di differenziazione di questa seconda povertà, interiore, dall’altra, esteriore, e dalle forme di povertà che, pur apparendo interiori, di fatto ancora permangono nell’esterio-rità, cioè nella scissione, nella distinzione tra Dio e le sue creature. Di fronte ai percorsi arditi e inattesi che la predica così dischiude, dob-biamo, però, riconoscere che la prospettiva da cui noi, oggi, possiamo accostare tale differenza è diversa: se nel testo di Eckhart si tratta di problematizzare il riferimento ad una povertà materiale che era vista e predicata come una virtù, per noi il tentativo di distinguerle scaturisce dallo sforzo di avere a che fare con una povertà che da un lato, tra angosce e paure, viene continuamente rimasticata negli articoli di gior-nale, nei programmi televisivi che parlano della crisi economica e delle sue conseguenze e che, dall’altro, continua a restare in qualche modo ritirata dal gioco, non simbolizzabile al di là di quel continuo ripetitivo chiacchierarne (Luisa Muraro, ad esempio, ci faceva osservare che nel nostro orizzonte marcato dall’imperativo del successo, i poveri non posso più vestirsi da poveri, e che con fatica si dice, non in astratto, ma nelle concretezze della vita – come uscire a mangiare una pizza o andare al cinema – di essere poveri).
2. Maestro Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum”, in Tratta-ti e Prediche, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 365.
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III. È per avere a che fare con questa povertà che la distinzione tra povertà interiore ed esteriore, e quella, che la incrocia, tra povertà e miseria, diventa, per noi, urgente, e sensata. Per provare a chiarire in quale direzione ci si muova facendo riferimento a una povertà interiore, bisogna prima dire qualcosa su quella tra povertà e miseria.A questo proposito, faccio riferimento a un testo del 2003, dell’iraniano Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria 3. La tesi del testo è che questo movimento, dalla povertà alla miseria, non è categorizzabile come un passaggio da uno stato di indigenza in cui l’essenziale è comun-que garantito a uno nel quale anche il necessario vitale manca – come invece si tende a fare quando si auspica un incremento della produzio-ne per far fronte alla mancanza del minimo vitale nei paesi africani o dell’est asiatico. Poiché la prospettiva di un incremento produttivo non è considerata dall’autore risolutiva nemmeno degli stati di povertà totale, egli cerca di articolare diversamente la differenza tra miseria e povertà, peraltro a suo dire presente nella maggior parte delle lingue 4: la povertà diventa miseria quando non è più capace di avere un’economia sua pro-pria, cioè di avere un suo proprio ordine e movimento con cui riesce ad avere a che fare con ciò che manca. La povertà ha una sua economia, un suo ordine simbolico, che dà un posto alla mancanza, a ciò di cui si è poveri. La miseria no. Per questo è scavata dal desiderio di avere, e per questo è imbruttente 5. Come scrive Illich, citato da Rahnema,
nella povertà tradizionale le persone potevano sempre fare affidamento sul fatto che c’era sempre una brandina culturale su cui posarsi […] Tutto ciò non ha più significato. I reietti di oggi non sono né barboni, né mendican-
3. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria (Quand la misère chasse la pauvreté – 2003), trad .it. di C. Testi, Einaudi, Torino 2005.4. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 242.5. Anche in questo caso, mentre il testo può permettersi, per la posizione e la storia di chi lo scrive, di tenere un tale discorso anche riguardo a condizioni di povertà estreme, io, invece, qui, lo farò solo giocare rispetto alla questione della povertà – del ritorno e dello spettro della povertà dopo la crisi – che ci tocca qui, in Occidente, o forse qui in Europa, o in una parte di essa.
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ti, ma vittime dei bisogni loro attribuiti da certi “mezzani della povertà”. Sono scivolati giù oltre la linea della povertà e ogni anno che passa dimi-nuiscono le loro possibilità di risalire nuovamente sopra la linea e soddisfa-re i bisogni che ora loro stessi si attribuiscono 6.
Oltre la linea della povertà c’è la miseria, dove nessuna brandina cul-turale consente un appoggio. E allora resta solo la corsa per rimontare la china e recuperare quel che manca. E quel che manca ci si presenta come quel che manca perché lo si è perso, per una nostra mancanza e responsabilità, perché non si è lavorato abbastanza, perché non si sono sfruttate abbastanza le risorse, le capacità e le possibilità disponibili.E così i mendicanti non hanno più posto. Foucault lo mostra in Sor-vegliare e punire 7: nei piccoli ma profondi movimenti che attraversano il XVIII secolo, il mendicante, o il vagabondo, non è più chi forma la propria vita su una povertà e una mancanza che hanno ancora un valore simbolico, ma diventa un pericolo per la tenuta della società, una minaccia per la proprietà. E, in prigione, trova giustamente il discipli-namento che lo rende compatibile con la società, che incanala le sue energie e lo mette al lavoro. È tutto un capovolgimento di prospettiva che si gioca attorno alla figura di chi porta in giro la sua povertà. Come osserva Miller in “Segno dell’amore” prima di intrecciare le figure del mendicante e dell’analista, oggi “questi mendicanti sono dei disoccupa-ti. È piuttosto difficile ritrovare l’eminente valore che il mendicante ha avuto nella storia, prima che il lavoro diventasse un valore essenziale e entrasse nel Super-Io” e prosegue poi chiarendo:
oggi si trattano male le bocche inutili, che si dedicano a presentificare il buco, il buco che ha dei diritti su di voi, voi che avete, voi che siete rim-
6. Ivan Illich, “Bisogni”, in W. Sachs (a cura di), Il dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998, p. 76, citato in Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 235.7. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Surveiller et Punir. Naissance de la prison – 1975), trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, 1993.
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pinzati. È un invito a decompletarvi. Per uno spiacevole viraggio, sono diventati dei fannulloni […] nella storia del nostro bell’Occidente non si è pensato altro che a metterli al lavoro, i fannulloni, che a estrarre la loro forza lavoro per la produzione. È quanto ha permesso di farne dei disoccu-pati, perché gli altri lavorino ancora di più, del resto, e per molto meno. È l’uso del disoccupato 8.
IV. Per ritrovare il valore di questa antica figura del mendicante, occorre riconoscere che là vi era la possibilità di riconoscere e praticare, secondo l’indicazione di Miller, “un supplemento di niente”, un niente che “viene in sovrappiù” 9 perché solo così, quando viene in sovrappiù, il niente ha valore. Per questo non basta una trasformazione simbolica frettolosa, una rivalutazione attuale dell’indigenza, un richiamo all’es-senziale, alla decrescita. In questi inviti manca quel di più di niente che ci fa davvero operare una trasformazione. Bisogna trovare un posto per la tristezza della donna che non sa se tingersi i capelli grigi per rispar-miare: certo è una strada difficile, perché dall’altro lato c’è lo spettro di una legittimazione del consumo, eppure il richiamo all’essenzialità non dice tutto. Manca il niente che viene in sovrappiù. In un recente intervento al Seminario di Diotima 10, Annarosa Buttarelli proponeva di pensare, come sfida alla riflessione economica attuale, una solidarie-tà tra l’essenziale, da un lato, e il lusso, il superfluo, quel che viene in aggiunta, un quasi niente di maniere e gusto, dall’altro, come modo per sorpassare la logora e infruttuosa coppia di opposti “utile-inutile”. C’è dell’essenziale e c’è del lusso, e in qualche modo i due si richiamano più di quanto la questione dell’utilità possa farci immaginare. Forse la dire-zione che cerco di suggerire qui non si discosta molto da quella che, con questa indicazione, lei tracciava.
8. J.-A. Miller, “Il segno dell’amore”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, pp. 29-30.9. Cfr. ibidem, p. 29.10. Seminario di Diotima 2010, “Il disorientamento è la nostra prova”, incontro dell’8 ottobre con Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, “Appunti per un’economia del soprammercato”.
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E in qualche modo la povertà interiore si allaccia a questo supplemento di niente, al surplus di niente che nel rapporto tra essenziale e lusso appare, e che nella figura del mendicante ci è dato di intravvedere.Ed è di qui che passa la posta in gioco del problema di saper avere a che fare con ciò che manca, cioè di ripercorrere al contrario il cammino che, dalla povertà, con la sua economia interna ed equilibrio, ha portato alla miseria. E questo supplemento di niente, questa povertà capace di riordinarsi attorno a ciò che manca, non sono guadagnabili in leggi e codici che trasformino lo stato attuale. Non è questione di una riforma politica, nel senso comune del termine, che trasformi le istituzioni e gli equilibri di forze. Quel che si richiede, infatti, è una trasformazione dei soggetti, che possa collocarsi sullo stesso piano della trasformazione antropologica che il liberalismo ha operato (quella che, per dirlo con una formula, ha plasmato il cosiddetto homo oeconomicus) e che ha portato Foucault a tentare un’analisi del liberalismo non come teoria economica, ma come modo di governo, cioè come modo in cui i soggetti vengono costituiti, come insieme di pratiche, credenze, aspettative che orienta le loro possibilità di azione, che li struttura nel loro modo di essere 11.Anche Rahnema ne parla, mettendo in luce le modalità di costruzione sociale dell’invidia e la frattura nella percezione dei bisogni; ma un aspetto soprattutto della sua analisi è interessante mettere in luce:
l’individuo atomizzato delle società moderne punta unicamente sul valore materiale per proteggersi dalle brutte sorprese della vita, poiché dipende sempre più da un ambiente che l’ha privato di tutti i legami sociali di cui godevano i sui antenati” 12. A che cosa si chiede ciò che manca? Da dove si crede che possa arrivare la risposta a un bisogno o a quel che accade e che
11. Cfr. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979) (Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979 – 2004, édition établie sous la dir. de F. Ewald e A. Fontana par M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris), trad. it., di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.12. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., pp. XI-XII.
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ci mostra scoperti? Non più dai rapporti sociali, non più dall’Altro. E così tanto nella gestione dei figli o degli anziani, quanto nel rapporto al sapere: a chi chiedo quel che non so e da quale autorità mi aspetto qualcosa per quel che non ho? È la questione che Google fa emergere e che Hebe Tizio sottoli-neava così lucidamente in una conferenza a Padova di alcuni anni fa 13.
È rispetto a ciò che occorre lavorare se si cerca un’elaborazione diversa della questione della povertà. È una nuova forma di vita che va intes-suta, sono diverse maniere che vanno recuperate, inventate, praticate. È qualcosa che non si presenta con la solidità e compattezza di una rifor-ma politica, ma che è un quasi niente grazie a cui si ha a che fare diver-samente con ciò che si è, con ciò che ci accade e con ciò che ci manca.Rahnema osserva che chi riesce a fare questo spostamento, e per questo non è preso nelle maglie della miseria, è chi non lascia indebolire il pro-prio centro di gravità, il proprio “tempio interiore”, così lo chiama, che si alimenta dall’interno e non a partire dalle esigenze di un sistema di cui si è parte 14. Trattando di questa risorsa del soggetto, che ci mette già in qualche modo sulla strada della povertà di spirito, l’autore è portato a una considerazione che, nella sua paradossalità, chiede un di più di riflessione: in questo diverso rapporto a sé e in un certo diverso modo di costituirsi come soggetti si può trovare il guizzo per poter fare a meno anche del necessario 15. Ora, tutta la questione sta nel pensare quel che consente un tale scarto, quel che permette di ritesse un altro ordine simbolico, quel che, come un polo di gravità, attrae e orienta spostando il soggetto da una dinamica di consumo di sé nel consumo delle cose.
V. In un modo che pare paradossale, la possibilità di scartare da un tale consumo di sé passa per una certa libertà da sé, una libertà dall’ingom-
13. Conversazioni introduttive organizzate dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (Segreteria di Padova), incontro del 1 maggio 2008 con Hebe Tizio, “L’enigma dell’adolescenza”.14. Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 238.15. Ibidem, p. 243.
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bro dell’io. È di lì che passa la possibilità di imparare a saperci fare con ciò che manca, di non intenderlo come un vuoto da colmare, ma come qualcosa da mettere al lavoro. Alla scuola di scrittura pensante una parte degli esercizi era rivolta a questo: imparare a non dire “io” nei testi che componevamo, e questo non per guadagnare un’oggettività neutra, ma anzi per essere sé diversamente, nella non coincidenza con sé, in cui non si butta via niente perché niente è comparato con un’immagine che non si è realizzata, ma tutto può essere messo all’opera per farci qualco-sa, come risorsa e invenzione. Ad esempio, se nella scrittura il modello di riferimento chiede di purificarsi dagli strascichi del dialetto, vi sono autori, come Luigi Meneghello 16, che, di quegli strascichi, e di quel difetto rispetto alla lingua pura, hanno fatto una risorsa espressiva, li hanno mobilitati in un lavoro senza bloccarsi nella percezione di un’in-sufficienza. Si intercetta così quel di più che sta attorno a ciò che manca e che si vede e che si libera nelle sue energie a patto di accettare che qualcosa manchi e che non possa essere saturato, né messo in pari con le preoccupazioni dell’Io. Questo movimento paradossale di un guada-gno di sé che passa attraverso una perdita di sé ci porta alla povertà di spirito, o povertà interiore, cui, come si è accennato, Meister Eckhart dedica una delle sue più celebri prediche, “Beati pauperes spiritu”.
VI. Dunque, ritornando alla questione da cui sono partita, che cosa ci fa qui – qui tra la povertà e la miseria, qui nella ricerca di un niente che venga in aggiunta, qui rispetto alla posizione mistica che indica la pos-sibilità di una perdita dell’io e delle sue preoccupazioni, per poter avere a che fare con ciò che manca e guadagnare quel che si produce attorno a una tale mancanza – che ci fa dunque qui la psicoanalisi?In un articolo apparso su Via Dogana (n. 34/35, dicembre 2007) Ermi-nia Macola e Adone Brandalise, suggeriscono un curioso inquadramen-to della psicoanalisi: la psicoanalisi come scienza della miseria in quanto
16. Ad esempio Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Rizzoli, Milano 2006.
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“scienza immateriale ma di sudici oggetti che porta in sé questa duplice determinazione: coglie l’elemento della complessità delle nostre condi-zioni d’esistenza e in qualche modo lo ritrova all’interno del prodursi di queste in ogni evento individuale” 17. Ed è proprio nell’articolazione di questi due piani, delle condizioni d’esistenza e dell’evento individuale, e nel suo essere scienza immateriale di un male immateriale, ma che fa presa su dei sudici oggetti, che la pratica analitica sembra poter incro-ciare la questione della povertà e della miseria.Miller, nell’articolo già citato, “Il segno d’amore”, dice, dopo aver osser-vato l’incapacità simbolica di valorizzazione del mendicante:
abbiamo comunque salvato una forma contemporanea del fannullone ed è lo psicoanalista. Dobbiamo riconoscere che ascoltare senza fare niente è comunque alla base della posizione, il risultato della posizione del fan-nullone 18.
In questo, riprendendo Lacan, Miller vede il punto di caratterizzazione della posizione dello psicoanalista, che non è quella del seno, dell’avere, ma nella posizione del santo (saint, santo, si pronuncia come sein, seno) come mendicante, che non fa nulla perché mette al lavoro, perché tiene aperto uno spazio per un supplemento di niente. Vi è un passaggio curioso in questo testo, in cui Miller richiama l’imbarazzo di alcuni, e anche suo, quando era passato dall’essere professore all’essere analista:
una delle cose che mi hanno più colpito come differenza era di tendere la mano, di tendere la mano perché ci mettessero dei soldi. Dopo non ce ne accorgiamo addirittura nemmeno più. Ma conservo il ricordo dell’emer-genza di questa piccola conca, così, dove, finalmente, si deposita un’offerta al mendicante, al fannullone. Vi sono, a volte, dei praticanti che, per molto
17. E. Macola e A. Brandalise, “Le difficoltà del nascere”, in Via Dogana. Rivista di pratica poli-tica, n. 34/35, dicembre 2007, p. 7.18. Jacques-Alain Miller, “Il segno dell’amore”, cit., p. 30.
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tempo, mantengono una sorta di senso di colpa nell’essere pagati per non fare niente. Non è il caso mio 19.
C’è qui qualcosa di interessante, nel meccanismo che Miller richiama, e nel modo in cui si intreccia con le comuni pratiche di scambio in cui le prestazioni si legano a compensi, e che qui sono invece sottoposte a una torsione, a uno spostamento che però al contempo fa leva, per fun-zionare, su quelle stesse pratiche che disarticola: che cosa è quel dare i soldi alla fine della seduta, che sembra così tanto inserirsi in una logica di scambio – denaro per prestazione –ma che invece da quella logica non riesce ad essere preso del tutto? Sarebbe un punto interessante da approfondire della pratica analitica e delle sue maniere.Proseguendo nella sua riflessione sul mendicante e sul supplemento di niente che vi appare, Miller fa un rapido, ma inteso passaggio sulle Pre-ziose, un movimento di donne che, dalla fine del 1600 alla Rivoluzione francese hanno animato i salotti della Francia dell’Ancien Régime, eser-citando la loro influenza tanto sulla politica quanto sul gusto, la lettera-tura e le maniere. E a questo proposito che Miller scrive che “le donne in Occidente sono riuscite […] a far rispettare il niente agli uomini” 20. Hanno intessuto le maniere, maniere che consentissero di non scagliarsi sull’oggetto del bisogno, ma che scavassero uno scarto, che richiedessero un giro più lungo, in cui quel che si guadagnava era in fondo in questo giro e in questo scarto, più che nell’oggetto. La riforma della lingua fran-cese e del gusto che le Preziose promossero si inseriscono in una tale pro-spettiva. E in fondo con queste maniere è proprio un niente in sovrappiù che viene ad aggiungersi, e a mettersi all’opera attorno alla mancanza:
non vi sono buone maniere – chiosa Miller – che quelle che contornano il buco, una mancanza, un non c’è. Le buone maniere sono il sembiante che
19. Ibidem, p. 31.20. Ibidem, (corsivo nostro).
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ci vuole attorno alla mancanza, a condizione che la si rispetti e che, a un tratto, si rispettino i sembianti. Rispettare i sembianti è sempre rispettare la castrazione 21.
Ora, è esattamente un lavoro sulle maniere, su questo niente che si aggiunge in sovrappiù, cioè un lavoro sul piano sociale e non politico (intendendo con il primo termine quell’insieme vivente di relazioni, tra-dizioni, costumi che fa la società e con il secondo l’insieme di istituzioni che elaborano decisioni valide per l’intero corpo collettivo) che sembra apparire quando si pone alla psicoanalisi la questione che ho provato a chiarire nel primo paragrafo di questo testo: non la domanda che chiede di prendere uno a uno, ma quella che interroga il movimento specifico che la psicoanalisi è capace di introdurre nella società in cui nasce e vive.Nell’intervista già citata sulla politica, Miller – in parte, occorre tenerlo presente, spinto da una certa ironia – chiedendosi se la politica cambia davvero così tanto il mondo come pretenderebbe, osserva che la psica-nalisi opera piuttosto dal lato della società, delle sue maniere e costu-mi, e per questo la sua influenza sul corpo collettivo è “accordata alla lunga, o, diciamo, alla media durata, ed è per questo – aggiunge – che il riferimento di Freud all’Aufklärung mi sembra appropriato. La sua influenza è come un contagio, un tranquillo dilatarsi, lo spandersi di un profumo, uno spirito invisibile che si impossessa di tutte le viscere, di tutti gli organi della vita spirituale” 22. Per questo la psicoanalisi non si intreccia con la politica e con le identificazioni che questa richiede cercando di catturare i soggetti attraverso dei “signifiants-maîtres”, delle ideologie, degli ideali. Anzi, si attiva proprio nel disfarle, nel rimetterle in gioco 23. Ma questo non come un’operazione a resto zero, ma come una pratica che si rapprende nelle maniere, che, come un profumo, si insinua nelle forme di vita, e che, al contempo, proprio per
21. Ibidem, p. 32.22. J.-A. Miller, “Lacan et la politique”, cit., p. 108, (traduzione nostra).23. Cfr. ibidem, p. 112.
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questo, è esposta alla fragilità che le caratterizza. Maniere di avere a che fare con il niente e di mettere all’opera quel che cresce sui contorni di ciò che manca. Maniere per averci a che fare diversamente, e che in qualche modo fanno circolare nella trama vivente dei rapporti altre possibilità di soggettivazione che scartano da quelle richieste e realizzate nelle pratiche che riducono la povertà alla miseria.È in questo senso, mi pare, che la psicoanalisi risulta, come dice qui Miller “sovversiva” e non rivoluzionaria 24.Alla fine dell’intervista, però, questa distinzione tra campo politico e campo delle maniere pare complicarsi, rimettendo in gioco la posizione stessa della psicoanalisi e il suo modo di imprimere un dinamismo ai rapporti in cui si trova a operare:
se mi accordate che il godimento è diventato un fattore della politica, allora la psicoanalisi conserverà, dovrà conservare la stessa distanza sarcastica nei riguardi della politica come nell’età delle ideologie? Non credo che potrà. Il privato diventa pubblico. Vi è lì un grande movimento, un destino della modernità, e la psicoanalisi vi è trascinata, per il meglio e per il peggio 25.
E, per averci a che fare, delle nuove maniere ci saranno richieste.
24. Cfr. ibidem, p. 118.25. Ibidem, p. 122.
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Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica
politica del reale, politica della tycheappunti su psicoanalisi e politica
di Nicolò Fazioni *
Lacan intorno al suo ultimo insegnamento realizza un attraversamento della politica e del pensiero filosofico-politico che intende metterne in questione la pre-sunta coerenza. Egli, grazie agli strumenti concettuali della psicoanalisi, pone in evidenza una serie di problemi e di domande ( in particolare intorno a desiderio, reale e godimento) che la scienza politica e la filosofia non sanno porre o evitano. Attraverso la topica dei quattro discorsi Lacan mette in gioco la stessa psicoanalisi costringendola ad interrogarsi sulla sua capacità di realizzare un’etica e una poli-tica che si confrontino con il disagio e con il reale.
Parole chiave: politica della psicoanalisi, topica dei discorsi, reale, disagio, godimento
1. una logica seriale e “politica”: a partire da l’envers
La svolta inaugurata da Lacan nel suo insegnamento a partire dal Semi-nario XVII 1 introduce un radicale attraversamento psicoanalitico del campo politico. Il discorso di Lacan, così come si configura durante le lezioni de L’envers, si situa nel contesto di una diffusa crisi dei con-cetti e delle figure tradizionali della politica: la politica viene sempre più rimossa, data la sua appartenenza alla dimensione di un reale non immediatamente simbolizzabile; essa incontra nel contemporaneo
* Nicolò Fazioni è Dottorando in Filosofia all’Università di Padova.1. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.
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una sfocatura e una convergenza verso l’economia e quei saperi che ne promuovono una progressiva smorzatura. La burocrazia, presentando-si come innocua gestione ed espansione della sicurezza e della nostra libertà, connota, o più grossolanamente denota, il quarto di giro in cui la politica viene coperta dai suoi sembianti in una forma di costruzio-nismo della realtà socio-politica nella quale il sistema rappresentativo ci permette di vivere senza spenderci nella polemicità che investe ogni relazione. Il pensiero di Lacan non interviene dunque solo sullo scena-rio problematico del ‘68 francese ma, grazie alla sua lucida e lungimi-rante analisi delle logiche del capitalismo, disegna i contorni dell’attuale dispiegarsi della politica.L’interrogativo a cui sembra si debba indirizzare l’analisi del campo politico che Lacan realizza con la sua topica dei discorsi, consiste nel chiedere quali siano le condizioni che la psicoanalisi è in grado di for-mulare affinché sia possibile una modalità altra di pensare la politica 2. Sulla scorta di tale interrogativo la psicoanalisi lacaniana approfondisce la sua concezione del soggetto e del desiderio, del potere e della verità; termini quest’ultimi che realizzano il reticolato concettuale della scien-za politica odierna.Ora, senza poter ricostruire completamente la topica dei discorsi del Seminario XVII 3, si dovrà render conto del modo in cui la sua formu-lazione tracci le linee direttive del tardo insegnamento di Lacan. Non si tratta, però, solo di un incalzante lavorio atto a ricostruire un sistema di pensiero quanto piuttosto di un mutamento di strategia: strategia nell’affrontare e citare i propri riferimenti (in particolare filosofici) e nel perimetrare lo spazio (la scena) d’indagine in cui la psicoanalisi parten-do da un inusuale punto “esterno” attraversa il campo politico. Questo
2. Questo interrogativo si presenta come un’ulteriore determinazione della questione che sostie-ne lo scritto di A. Badiou e S. Lazarus, È pensabile la politica?, Franco Angeli, Milano 1987, al cui fondo si dovrebbero rintracciare con precisione alcuni concetti lacaniani.3. Per un’esposizione chiara e completa dei quattro discorsi si veda M. Recalcati, Per Lacan, Borla, Roma 2005, pp. 80-114. Silvia Cimarelli, “Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan”, in Attualità Lacaniana, n. 11, 2010, pp. 147-186.
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 219
spazio, che senza esaurirvisi dovrebbe essere quello delle contestazioni studentesche, circoscrive quindi il duplice labor limae con cui Lacan ridispone tanto le categorie e i concetti della politica quanto quelli della stessa psicoanalisi. Sono difatti le categorie fondamentali della psicoana-lisi lacaniana ad intercettare e a porre necessariamente le problematiche legate ad una modalità “altra” del pensare la politica. Se la psicoanalisi, come dimostra il gesto con cui Lacan avvia il seminario diciassettesimo, deve aprirsi verso il suo “esterno” (il campo politico), questo risponde ad una sua esigenza costitutiva che riguarda il suo realizzarsi come etica.Come ricordano a più riprese Di Ciaccia e Recalcati nella loro limpida presentazione dell’insegnamento di Lacan 4, uno degli esiti più decisi-vi della classica posizione dell’inconscio strutturato come linguaggio è rappresentato dall’estroflessione dell’inconscio stesso. L’etica di cui parla Lacan, caratterizzandosi come pratica anti-filosofica del soggetto, opta per una precisa destrutturazione di ogni fondamento. L’inconscio non può essere, come vorrebbe Jung, la profondità dove si accalcano i significati della nostra esistenza. L’inconscio come sistema linguistico e la costituzione del soggetto nel discorso dell’Altro che lo precede e lo scinde () realizzano “l’effetto superficie” tramite cui la psicoanalisi si sbarazza delle pretese onto-teologiche del fondamento e della pienez-za originaria del soggetto. L’inconscio non può configurarsi come un nuovo fondamento, il nucleo dei significati, perché esso è “fuori” 5, este-riore ed in questo anche politico, anche sociale. Si spiega così l’apparen-te iperbole con la quale Lacan introduceva già nel seminario quattordi-cesimo uno dei capisaldi de L’Envers: “Non dico nemmeno la politica è l’inconscio, ma semplicemente l’inconscio è la politica” 6.La posizione di una questione politica all’interno del discorso di Lacan
4. A. Di Ciaccia e M. Recalcati, Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell’ inconscio, Mon-dadori, Milano 2000.5. Si veda S. Givone, “Mantenersi all’esterno”, in La Psicoanalisi, 11, 1992.6. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIV, La logique du fantasme, 1966-1967, (inedito). Visto che il seminario è inedito si cita dalla trad. it. di J. -A. Miller, “Intervento al convegno La Primavera della psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, 33, 2003, pp. 134-148, qui p. 134.
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si profila come conseguenza della mossa con cui egli riconosce nella materialità del significante il fattore determinante per la costituzione soggettiva. Il linguaggio, descrivendo nel duplice scorrimento delle serie lacaniane il ruolo del significante padrone (), contiene già la matrice politica dell’inconscio 7. Lacan torna più volte su questo tassello del suo ragionamento, spingendoci a comprendere che “se non esistesse il linguaggio, non esisterebbe il padrone, che il padrone non si dà mai per forza o, semplicemente, perché comanda, e che poiché il linguaggio esiste, voi ubbidite […]” 8.Qui la teoria della Vorstellungsrepräsentanz (facente-funzione della rappresentazione) si esplica nel rapporto tra il significante padrone e la batteria dei significanti (). Si tratta di un meccanismo che inscrive il soggetto nel sociale: il soggetto sorge dal movimento seriale per cui un significante lo rappresenta presso un altro significante in uno scorri-mento che non ne fornisce la Vorstellung (rappresentazione; non si tratta infatti di un’immagine ma del facente-funzione della rappresentazione di cui parla Freud 9) ma l’alienazione. Il soggetto è colto dal discorso dell’Altro, è rappresentato presso l’Altro, cioè è estroflesso dalla propria chiusura individuale e innestato nella dimensione sociale, culturale: questa socialità lacaniana, se la si può chiamare così, è senza dubbio profondamente polemologica.La teoria “linguistica” su cui Lacan innesta il suo “ritorno a Freud” costituisce già una logica intrinsecamente politica. Proprio per questo l’analisi dei dispositivi discorsivi che attraversano il piano socio-politico del moderno e del contemporaneo appare a Lacan come lo strumento più idoneo: ci sono quattro discorsi (del padrone, dell’isterica, dell’uni-versità, dell’analista), quattro posti sempre identici (agente, Altro,
7. Sul rapporto tra potere e linguaggio e in particolare tra potere e parola in psicoanalisi si è soffermato M. Focchi, Il cambiamento in psicoanalisi, Boringhieri, Torino 2001, cap. XIII, pp. 187-196.8. J. Lacan, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978, p. 47.9. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, Einaudi, Torino 1994, pp. 75-77.
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verità, scarto), quattro termini (, , , oggetto a) che muovendosi di un quarto di giro ruotano di posto in posto creando le condizioni del passaggio da un discorso all’altro. Si capisce a questo punto il duplice snodo per cui la psicoanalisi è costitutivamente diretta verso la politi-ca e quest’ultima si trova a dover aprire un confronto con le modalità psicoanalitiche di trattare il soggetto e il disagio, di “localizzare i modi specifici della dipendenza degli enunciati soggettivi da determinati tipi fondamentali di enunciazione” 10.
2. il circolo politico: psicoanalisi, filosofia, scienza politica
Per Lacan, come per Foucault 11, ciò che è in gioco nel discorso è il potere nelle sue relazioni con i termini con cui si trova strutturalmente connesso, come la verità, il soggetto e il desiderio. Questa precisazione che connette l’insegnamento lacaniano ai moduli della scienza politica moderna, innesca allo stesso tempo una precisa pratica testuale e con-cettuale rivolta ai classici del discorso filosofico. La filosofia, secondo Lacan, è rea di aver offerto la spalla al padrone, rigorizzandone le prete-se: la filosofia è scienza del padrone in quanto fonda il furto del sapere su cui si regge (non senza qualche nitido richiamo a Marx) la padro-nanza 12. Di fronte a questa critica radicale della filosofia, la psicoanalisi s’impegna in un lavoro anti-filosofico che non intende identificarsi con il discorso del padrone: un lavoro che non significa in alcun modo un abbandono della filosofia ma un continuo attraversare ed interrogare quest’ultima per riportare alla luce la rete concettuale che essa non ha pensato fino in fondo, come è il caso del concetto di desiderio. La stessa
10. M. Recalcati, Per Lacan, cit., p. 81.11. Si veda M. Foucault, “L’ordine del discorso” in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001.12. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., pp. 17-20.
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radicalizzazione del concetto freudiano di desiderio, che Lacan articola tra il seminario settimo e il seminario undicesimo 13, è una delle vie per riflettere sulla politica della psicoanalisi che è appunto politica del desi-derio e del disagio (Unbehagen) 14.Freud parla del desiderio e dei concetti che vi ruotano attorno (la legge, l’identificazione, il programma della civiltà) in alcuni testi fondamen-tali: Totem e tabù (1913), Psicologia delle masse e analisi dell’ io (1921), Il disagio della civiltà (1929) 15. Quello che fa Lacan, rileggendoli, consiste nel considerarli come momenti imprescindibili dell’indagine che la psicoanalisi può svolgere intorno al meccanismo del sociale e del poli-tico, nonché sulle condizioni della loro pensabilità. Nel fare ciò appare chiaro come la strategia teoretica adottata da Lacan nella sua ri-lettura di Freud incontri e si ramifichi, per usare la terminologia di Miller, nel susseguente “parricidio lacaniano di Hegel”. Sul piano politico trac-ciato dal seminario diciassettesimo non si tratta tanto di una radicale presa di distanza da Hegel ma di un’analisi critica del “circolo politico” teorizzato nel momento eticità dei Lineamenti 16. Secondo Lacan, Freud può essere infatti considerato un autore davvero decisivo nella deco-struzione del momento eticità, inteso come la compiuta ricomposizione dell’incontro tra reale e razionale sul piano dell’effettualità politica. Lacan però non sostiene mai che il circolo del razionale e del reale non sussista (che la dialettica sia ineffettuale) ma ritiene piuttosto che il luogo del loro combaciare sia attraversato dalla fessura dell’Unbehagen, della singolarità del soggetto scisso, di quel nucleo di reale che non si simbolizza così come emerge dal concetto freudiano di ripetizione 17.
13. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Tori-no, Einaudi 2003.14. Si veda M. Recalcati, “Posizione del soggetto nel legame sociale. Disagio, desiderio, godi-mento”, in La Psicoanalisi, n. 12, 1992, pp. 77-86.15. Rispettivamente in S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino 2005, vol. VII, pp. 1-164; Opere IX, 2006, pp. 257-330; in Opere, 2006, vol. X, pp. 553-630.16. G W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2010.17. Sulla questione della coincidenza tra reale e razionale si veda J. Lacan, “Conferenze sull’etica della psicoanalisi” (1960), in La Psicoanalisi, n. 16, 1994.
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La complessità di questa decostruzione si spiega alla luce della più generale rilettura lacaniana della dialettica hegeliana, della valorizza-zione teoretica del concetto freudiano di Verneinung (denegazione), dell’interpolazione di quest’ultimo all’interno della stessa dialettica. Il rapporto tra la denegazione e la Aufhebung è quello per cui il mecca-nismo dialettico si produce senza poter eliminare un residuo di nega-tività (il rimosso non viene tolto anche quando l’analizzante accetta di tornare sulla denegazione) 18, si produce producendo (o anzi meglio, riproducendo) questo residuo. La dialettica si trova bloccata ma non per questo destituita di ogni sua forza teoretica: essa produce ancora il suo lavoro, l’incontro del reale e del razionale, solo che non si tratta mai di un risultato compiuto bensì della ripetizione di un processo non conclu-dibile. Se il momento speculativo esiste ancora esso si trova ogni volta decompletato dalla singolarità di ciò che non cessa di non iscriversi (dal reale del disagio, del godimento in perdita) ed il processo dialettico è perciò forzato a ricominciare il suo esercizio simbolico, forzato dalla violenza di un reale che il linguaggio stesso ha creato (oggetto a) senza poterlo più ricomprendere (pertinentizzarlo direbbero i linguisti). La dialettica perde il suo telos, si ritrova acefala, diretta verso la sua conti-nua riapertura ma proprio perciò costantemente presente nel ragiona-mento di Lacan 19.
18. L’intenso ragionamento lacaniano sulla denegazione, che qui abbiamo solo richiamato, si sviluppa intorno all’intervento sul tema di Hyppolite nel corso del primo seminario di Lacan. Ciò che emerge è come il rimosso non possa essere completamente tolto anche quando l’accet-tazione intellettuale sembrerebbe produrne una prima negazione. La ripetizione di un nucleo rimosso non toglibile (non soggetto ad Aufhebung) rappresenta il punto di stacco tra la dialettica hegeliana e la sua rilettura in Lacan. Su questo tema si veda S. Freud, La negazione, in Opere, Boringhieri, Torino 2006, vol. X, pp. 193-221. L’intervento di Hyppolite si trova in J. Lacan, Scritti, cit., pp. 885-893. Si veda anche E. Macola e A.Brandalise, “La negazione e il soggetto dell’inconscio. A proposito del Seminario IX”, in La Psicoanalisi, n. 26, 1999, pp. 135-144. Per la lettura di Lacan si veda Ibidem, pp. 361-372 e 373-390. Su tali questioni anche W. Ver Eecke, Denial, Negation and the Forces of Negative. Freud, Hegel, Lacan, Spitz and Sophocles, Suny Press, New York 2005.19. Si veda in particolare J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, cit., pp. 32-37.
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Il rapporto tra Lacan ed Hegel, sul duplice versante teoretico e politico, permette di visualizzare la specificità del neostrutturalismo di Lacan: l’effettualità della struttura, la necessità espressa dalle leggi linguistiche del simbolico non costituiscono in alcun modo un sistema ermetica-mente chiuso, il certificato di decesso del soggetto. Lo sforzo di Lacan, di pensare insieme la struttura e il soggetto, la fondazione della catego-ria modale della necessità ed il persistere della contingenza, si concretiz-za nella teorizzazione del meccanismo logico per cui è la stessa struttura che producendosi produce lo spazio della contingenza e della singolarità (lo spazio dell’oggetto a).Il disagio rappresenta dunque il persistere della contingenza all’inter-no del piano di realizzazione della necessità della struttura: affrontare questa convivenza costituisce il cuore dell’etica e della politica della psicoanalisi. L’attenzione che la psicoanalisi rivolge alle diverse forme del disagio si presenta come una precisa modalità politica di non cedere sul “reale malato” 20, di costituire uno spazio di comprensione per ciò che appare come il semplice inciampo locale di un sistema, quello capi-talistico, che riesce comunque a realizzare il suo circolo 21, a far circolare l’allucinazione di un godimento senza perdita. La pretesa di poter rea-lizzare la chiusura del sistema politico, che Lacan sembra attribuire ad Hegel e nello specifico al momento eticità dei Lineamenti, corrisponde-rebbe dunque all’illusione di poter simbolizzare tutto il reale, di poter riassorbire tutto il negativo, di soddisfare risolutivamente l’originaria perdita del godimento 22.
20. E. Macola, Introduzione a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano 2003, p. 14.21. Si veda il brillante saggio di M. Focchi, “Gli attacchi di panico”, in E. Macola - A. Turolla, Scenari dell’Angoscia, Borla, Roma 2008, pp. 172-195, dove tra gli altri temi si mette in risalto la forte connessione fra panico e disgregazione della vita contemporanea, quindi fra psicoanalisi e campo socio-politico (p. 187).22. Ora bisognerebbe capire se il target colpito da Lacan sia il vero Hegel o, come ci pare più probabile, l’Hegel di Kojève, della fine della storia, del compimento della dialettica: ciò non toglierebbe nulla alla forza del discorso lacaniano ed anzi permetterebbe di comprendere come la filosofia hegeliana mostri una spiccata affinità teoretica con quest’ultimo.
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Il desiderio, che è sempre qualcosa di non immediatamente pacificabi-le, designa per Freud un’altra linea, una posizione dicotomica rispetto a qualsiasi adattamento, omologazione al programma della Civiltà (il discorso del padrone), che a sua volta spinge in ogni modo verso il suo sacrificio (la religione e la morale potrebbero essere interpretate come esperimenti sociali, come strumenti del programma della Civiltà). L’in-sistenza di Lacan sulla logica eccentrica del desiderio e di conseguenza del disagio diviene la fondamentale dimostrazione dell’impossibilità per qualsiasi costruzione socio-politica di effettuarsi come perfetta totalità, o meglio di chiudere il “vuoto” non simbolizzabile ove è possibile l’ac-cadere dell’eccezione. Sembra pertanto questo il versante politico delle criptiche affermazioni programmatiche che sostengono ed introducono le svolte del tardo pensiero di Lacan: una politica che prenda sul serio “l’assenza di rapporto sessuale” 23 e la disillusa radicalità del “niente, come dico è tutto” 24. La psicoanalisi, come chiariremo, definisce le basi per pensare la singolarità e l’eccezione, impegnandosi a realizzare la concreta possibilità di un loro affiorare sul piano politico. Questa possibilità concreta è affidata ai concetti chiave dell’etica lacaniana, ed in particolare alla radice non rappresentativa costituita dal reale, alla finitezza e alla scissione del soggetto. Sono queste le coordinate e le con-dizioni entro cui la psicoanalisi ci permette di strutturare un’esperienza politica in grado di fare i conti con la singolarità dell’evento.Lacan nel seminario diciassettesimo scopre nell’idea di “totalità” il punto di volta del discorso filosofico-politico:
L’idea che il sapere possa fare totalità, se mi è consentito, è immanente al politico in quanto tale – cosa che sembra fatta a posta per mostrare quanto
23. Si veda in particolare J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983. Su tale posizione lacaniana si innesta e trae spunto l’incisiva ed autonoma ana-lisi di J.L. Nancy, Il “c’ è” del rapporto sessuale, Sé, Milano 2002. Su questi punti si veda anche A. Badiou e B. Cassin, Il n’y a pas de rapport sexuel. Deux leçons sur “L’Étourdit” de Lacan, Fayard, Paris 2010.24. J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 61.
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poco conti l’incidenza delle scuole. Lo si sa da molto tempo. L’idea imma-ginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appoggia sulla buona forma del soddisfacimento, su ciò che, al limite, diviene sferico, è sempre stata utilizzata in politica, dal partito del predicozzo politico. Che c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiu-sura del soddisfacimento? 25
La dimensione politica del discorso del padrone non sta tanto in ciò che è inquadrato dal suo occhio di bue (le istituzioni, lo Stato, i suoi problemi socio-economici) quanto invece nell’indice di totalizza-zione, nell’istanza di chiudere il circolo della sovranità, della legge e della sicurezza. Tale indice combacia in modo imbarazzante con il fondamento umanistico delle scienze, la filosofia e la psicologia cognitiva su tutte, ovvero l’io (moi). Il discorso del padrone è, come dice Lacan, una io-crazia 26, e cioè un’istanza e un’azione rivolte all’omologazione, al divieto: ciò che il padrone chiede è di rinunciare al desiderio 27. In questo modo, perpetuando il disagio della civiltà, esso promuove l’applicazione della regola senza alcuna eccezione. Questa funzione unificante che si trova al posto dell’agente è proprio quella dell’io che annulla la presa di consapevolezza del disagio della barratura della S. Il discorso di Lacan (politica della psicoanalisi) non si configura mai come progetto freudo-marxista (psicoanalisi della politica). Quest’ultima posizione teorico-pratica tende, infatti, a con-formare la realtà al desiderio, nella convinzione che sia possibile indi-viduare sul piano sociale i referenti del potere e che la loro elimina-zione ci libererà dalla padronanza e dal disagio. Lacan insegna invece agli studenti di Vincennes, che la sovversione come eliminazione del
25. Ibidem, p. 29.26. Ibidem, p. 72.27. Ci limitiamo a segnalare una risonanza filosofico-politica di questi schemi di pensiero, che – opportunamente variati – agiscono anche nei lavori di G. Deleuze e F. Guattari. Si veda Id., L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 2002.
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disagio e del referente del padrone non portano che alla creazione di un nuovo padrone. La via lacaniana, negandosi come pratica sempli-cistica di annullamento del disagio, s’impegna nella rielaborazione e nella lavorazione dei termini e dei concetti che costituiscono il dispositivo discorsivo della padronanza: è questo il primo compito “politico” del discorso dell’analisi.A tal proposito può essere significativo richiamare la netta opzione con la quale J. A. Miller bipartisce il pensiero politico contemporaneo e frustra le illusioni democratiche di certi ambienti psicoanalitici: Kel-sen vs Schmitt. 28 Miller si rivela piuttosto critico nei confronti di Kel-sen, e della politica dell’uomo di sinistra, il fool (il semplice, lo sciocco ma insieme anche il buffone) di Lacan 29, che tenta di rattoppare l’astrazione pseudo-umanistica del “tutti uguali”. La considerazione di Miller tocca il punto in questione quando dice che la formulazione attribuibile a Kelsen, quella di uno Stato che amministra senza gover-nare, è il vero sogno della democrazia, ed in quanto tale va analizzato sul doppio piano di ciò che manifesta e di ciò che cela, dato che esso ha già proceduto al suo spostamento e alla sua condensazione.Il concetto di democrazia racchiude, infatti, il nocciolo politico intor-no a cui gira la proliferazione degli usi della parola “democrazia” e il nostro appellarci ad essa. Ed è proprio perché quel nocciolo concettuale viene puntualmente mancato che noi possiamo credere che sarà la democrazia, con i suoi strumenti (il potere costituente, la rappresentan-za), a sopprimere i vincoli che costringono la nostra libertà, a rimuovere alla fine la stessa peculiarità della politica, la sua natura conflittuale.L’ingenuo atteggiamento di chi si appella alla democrazia per vincere la stretta del potere rivela impietosamente come la libertà e il potere stes-so non siano altro che il nucleo ossimorico, ma non per questo meno
28. Si veda J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, nn. 11-18, 1992-1995, qui pp. 183-191.29. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, cit., pp. 230-233. Si veda S. Žižek, “Lacan ovvero l’ontologia del godimento”, in Aut Aut, n. 315, 2003, pp. 29-41.
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coeso, della scienza politica moderna (in particolare da Hobbes in poi) e della costruzione delle forme statuali. Il potere, concetto che su tutti rivela lo scacco della metafisica del referente e della designazione 30, è un dispositivo, una ragnatela concettuale che motiva la presenza medesima della democrazia, di quella democrazia che oggi vive i suoi “presagi crepuscolari” 31.La democrazia e con essa più in generale gli stati nazionali sono attra-versati dalla parabola di quella che, senza simpatizzare troppo per questo termine, potremmo chiamare globalizzazione, e che per quanto riguarda l’interesse che qui vi indirizziamo, sta a significare l’esigenza di una ridefinizione delle categorie, dei concetti e delle figure della politica moderna. La politica moderna costruisce artificialmente l’unità della sovranità, nell’atto paradossale della rappresentanza e della legit-timazione del potere del monarca mentre la democrazia riproduce la continuità logico-concettuale di tale meccanismo nel potere costituen-te 32. Il sistema rappresentativo finisce quindi per sottrarre l’individuo e il popolo (formato non prima dell’atto costituente in cui legittima il sovrano o i rappresentanti) di qualsiasi capacità di dissociazione rispetto a ciò che essi stessi hanno voluto, il rappresentante del potere e di con-seguenza le sue leggi. Mantiene, a tal proposito, tutta la sua pertinenza la provocazione di Brandalise, che invita a pensare il meccanismo della rappresentanza politica attraverso lo specchio della Vorstellungrepräsen-tanz: un significante rappresenta un soggetto presso un altro significan-te in uno scorrimento che non raffigura mai la sua presenza né tanto meno i bisogni concreti che quest’ultima comporterebbe 33.
30. Si veda S. Chignola e G. Duso (a cura di), Sui Concetti politici e giuridici dell’Europa, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 65-100 e 159-193; G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999.31. A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, in Filosofia Politica, n. 3, dicembre 2006, pp. 403-414, qui p. 403.32. Si veda G. Rametta, “Le ‘difficoltà’ del potere costituente”, in Filosofia Politica, n. 3, dicem-bre 2006, pp. 391-401.33. Si veda A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, cit., p. 411.
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Non possiamo riassumere in modo completo queste analisi, dalle quali dobbiamo comunque trarre un punto fondamentale: la democrazia e le forme costituite dal dispositivo della politica moderna non possono liberarci dal controllo e dalla norma espansa ed espandibile del potere in quanto anch’esse affette dalle aporie del potere medesimo.L’analisi dei discorsi di Lacan permette di approfondire il motivo dello scacco del politico odierno, pur senza che questo ci porti a pretendere di riconoscere una sintonia di fondo tra il suo lavoro e alcuni di quelli appena richiamati. Dicevamo che per Miller la coppia Kelsen-Schmitt si traduce nella faglia aperta tra la norma del “tutti uguali” e l’idea per cui la politica accade, invece, solo laddove l’eccezione compie il movi-mento della sua presentazione. Questa opposizione finisce per ripro-durre quella che la psicoanalisi medesima si trova a dover combattere, nel tentativo di differenziarsi dalle ortopedie dell’io e dalle pedagogie istituite per salvare la società: i nuclei distintivi delle quali girano attor-no alla presunzione “moralistica” di poter ricostituire ortopedicamente l’io del paziente, innestandovi un complesso di regole, ovvero l’io dello psicoterapeuta stesso 34.Questi spunti lacaniani ci impegnano a riconnettere la politica al godi-mento e al reale, che come insegna Alemán è profondamente ingiusto, sempre fuori tempo, sempre mancante di qualsiasi reciprocità. Lacan parlando del reale ci impone di pensare all’eccedenza di una serie concet-tuale di cui la giustizia è il termine fondamentale. Quest’ultima (si veda il commento di Lacan all’Antigone) non si riduce né s’iscrive completa-mente nelle maglie del diritto, della formalizzazione moderna della poli-tica e della sparizione della sua determinazione etica. La pratica analitica ci spinge a pensare ad una giustizia che non si spiega nel diritto, all’in-giustizia dell’eccezione rispetto ai piani dell’omologazione politica, alla sua capacità di produrre esperienze politiche di reale emancipazione. Ci
34. Per un originale approfondimento della specificità della clinica psicoanalitica si veda M. Recalcati, “L’ideale della salute e il reale del sintomo? Sulla singolarità nella pratica della psicoa-nalisi”, in Aut Aut, n. 340, 2009, pp. 134-152.
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si deve chiedere, quindi, cosa comporterebbe l’ideologia dell’uguaglianza quando a partire dal diritto venga promossa ad assioma di ogni campo della vita e del sapere? 35 O ancora a cosa porta la riduzione del governo all’amministrazione, della giustizia alla legge e quindi alla sicurezza?
3. i sembianti del capitalismo e il discorso dell’analista
Il quarto di giro in cui, di volta in volta, si ha lo scorrimento dei quat-tro discorsi, rappresenta il progressivo potenziarsi dei sembianti e degli pseudo-eventi della democrazia. Di fronte all’apertura apparentemente liberale del discorso dell’università – il cui secondo nome (discorso della burocrazia) è senza dubbio più adatto ad indirizzarci al punto in questione –, all’operazione bonaria con cui esso disinnesca la polemicità delle relazioni politiche, assistiamo ad una diffusione interstiziale del padrone. Con l’università il padrone s’infiltra ove prima non riusciva a giungere, realizzando una copertura quasi complessiva del tessuto sociale. La burocrazia e le scienze del padrone (su tutte, per il loro ruolo attivo, la filosofia e la psicologia), seguendo un programma che alla giustizia ha sostituito la sicurezza, danno vita ad una più sottile forma di padronanza, ad una polizia che vigila senza portare l’uniforme, alla produzione di individui (gli a-studati) formati per ricoprire gli spazi istituzionali aperti e legittimati dal potere e dalla burocrazia.Ma ciò che il padrone e l’università tentano solamente di creare, la chiusura del circolo politico, il sogno immaginario delle economie della Civiltà di far circolare il godimento senza perdita alcuna, non può dirsi ancora realizzato. Solo il quinto discorso di Lacan, quello del capitalismo, di cui si inizierà a parlare nel 1972, è in grado di superare
35. Contro l’ideologia del “tutti uguali” si muove nella sua complessa tattica “nomade” anche il pensiero di Nietzsche (si veda per la sua chiara sinteticità F. W. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano 2007).
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l’ostruzione strutturale che nella topica discorsiva si configura come sbarramento tra la produzione e la verità 36, come interruzione della “felice” circolarità dell’intero. Solo il discorso del capitalismo invera la circolarità assoluta della produzione dando l’impressione che ogni biso-gno sia soddisfatto dagli oggetti prodotti e che ogni oggetto prodotto lo sia per soddisfare un qualche bisogno reale.L’oggetto a (plus-godere) rappresenta lacanianamente un modo di contenere la perdita; perdita destinata alla sua mortifera ripetizione. L’oggetto a costituisce anche il modo in cui Lacan eredita alcuni degli approdi concettuali di Marx, su tutti l’idea che ciò che il padrone ruba all’operaio sia il plus-lavoro 37. Il capitalismo espande la funzione del plus-godere, vela la presenza della “perdita” coprendola tramite la circolarità della produzione e da ciò sorge la presupposizione che non ci siano limiti al godimento. L’imperativo del Super-io diventa, allora, quello di continuare a godere, come dimostrano alcune tra le dipenden-ze (alcol, droghe) più note: si continua così a ripetere il gesto che pro-voca godimento, dichiarando inconsapevolmente che esso non basta, che non sa far godere pienamente 38. È propriamente questa la logica che domina la produzione della latusa, con cui Lacan ci insegna che l’essenza della verità è la litote, è il dirsi sempre a metà, e al contempo ci segnala la presenza costitutiva di uno sbarramento tra la produzione (scientifica e politica) e l’accesso alla verità del suo prodotto.Le latuse appaiono come un supplemento del godimento, ed esattamen-te come il supplemento necessario e sufficiente per colmare la faglia della castrazione e superare i limiti che la struttura medesima impone ad una logica della circolarità; ma nel mantenere “dimenticata” una parte della verità le latuse non lasciano affiorare ciò per cui non sono
36. Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 131.37. Sui rapporti tra Lacan e Marx rimandiamo a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, cit., pp. 91-104.38. A questo proposito si veda la chiara spiegazione di M. Recalcati, “Posizione del soggetto nel legame sociale. Disagio, desiderio, godimento”, cit., p. 86.
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mai in grado di soddisfare. Si ripete, così, la sussunzione/assunzione di nuovi gadgets, di nuovi slogan e di nuove parole d’ordine: la politica, così come si presenta nel discorso del capitalismo, si regge sulla produzione e la gestione di una pratica di “cattiva ripetizione” in cui ciò che si offre è l’identico sotto la veste del differente.Lo pseudo-Evento o la latusa che s’impone come Evento sono, allora, la motrice del discorso capitalista e del benessere, dell’apertura democra-tica, che quest’ultimo, comportandosi come Grande Altro restaurato, garantisce davanti ai nostri occhi: la latusa sembra essersi tolta il velo per festeggiare la sua completa disponibilità e dissimulare il lato della verità che dovrebbe restare celato. Ne segue la latitanza dei Significanti padrone, che viene visibilmente celebrata come vessillo del progresso politico e culturale; celebrazione che nell’atto stesso in cui supera l’ot-turazione tra produzione e verità coopera da una parte alla microfram-mentazione dell’ e dall’altra alla comparsa dei sostituti del discorso del padrone (il discorso delle bande, il discorso razzista…). Il discorso del capitalismo, quindi, realizza l’economia del godimento e controlla, anestetizza, perfino blocca la politica del desiderio insegnando che non esiste alcun disagio, che non c’è soggetto scisso ma io pieno. Lacan mostra invece che il discorso del capitalista è una grande operazione di chiusura di quel “posto vuoto” che dovrebbe rivelarsi come il punto “non rappresentabile” su cui si regge tanto la fondazione del soggetto quanto la costruzione del sociale e che Stavrakakis illustra come “the priority of a real which is, however, unrapresentable, but, neverthelles, can be encountered in the faiulure of every construction” 39.L’analisi di Stavrakakis, che meriterebbe tutt’altra attenzione, ci intro-duce all’aspetto fondamentale del tentativo lacaniano di riformulare i cardini e le modalità del pensare la politica. Questo punto è rappresen-tato dalla capacità della prassi analitica di orientarsi “verso ciò che, nel
39. Y. Stavrakakis, Lacan and Political, Routledge, London/New York 1999, p. 86. “la priorità di un reale che, per quanto non sia rappresentabile, può ciò nonostante essere incontrato nell’in-successo di ogni costruzione” (traduzione nostra).
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cuore dell’esperienza, è il nocciolo del reale” 40. Lacan (e Žižek e Stavra-kakis sulla sua scia) insegna la differenza tra il reale e la realtà, diffe-renza che sul piano politico si esplica nella dicotomia fra realtà socio-politica da un lato e politica dall’altro. La realtà sociale “costruita” sulle basi di una jouissance fantasmatica, sulla postulazione di una chiusura armonica del circolo politico ed economico, non riescono a fare i conti con il punto non simbolico e a-rappresentativo che sta alla sua origine. La realtà politica, in quanto è il frutto della scienza politica moderna, procede al nascondimento della causalità della tyche che fonda la sua presenza, di quella causalità che si può leggere come il paradosso che frustra l’opera di simbolizzazione dei diversi linguaggi disciplinari.Lacan indicava, infatti, la peculiarità del suo “real-ism” fin dall’elabora-zione di L’etica della psicoanalisi, dove Das Ding affiora come un luogo sempre da colmare, intorno al quale si esercitano gli sforzi dell’arte e della poesia, così come il tentativo che la scienza politica e la scienza più in generale, hanno prodotto nella convinzione di poterlo occu-pare definitivamente 41. La politica, allora, differenziandosi dalla sua smorzatura e dalla concettualizzazione euclidea con cui è stata rivestita dalla propria forma moderna, si riconosce come pratica del reale e della sua impossibilità, come pratica che dovendo riconoscere il disagio e la castrazione, non intende imporre una simbolizzazione forzata del luogo del proprio accadere.Una politica che eviti la causalità della tyche, dell’incontro o – per lavorare sull’inglese (to Knock) di cui si serve Lacan – dello scontro (to Knock against), e perciò anche dell’eccezione, è il frutto del passaggio storico concettuale in cui la pratica politica viene progressivamente sopravanzata dalla sua costituzione come scienza. Lo smantellamento di un paradigma etico (nel senso classico, ma anche lacaniano del termine)
40. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, cit., p. 53.41. Su questo “vuoto non rappresentabile” si veda E. Macola e A. Brandalise, Bestiario lacania-no, Milano, Mondadori 2007, pp. 7-11.
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con cui far interagire il politico, conduce alla sostituzione della giu-stizia con la sicurezza, della plurivocità delle relazioni politiche con la monocromaticità del “tutti uguale”. Le trame del discorso del padrone, l’estensione di quello burocratico, la tenacia di quello capitalistico, nel proclamare la necessità di un potere in grado di realizzare la sua tota-lità, di un godimento senza perdita, finiscono per essere degli schermi che ci mantengono al riparo dalla tyche, intesa come quella causalità che è sempre in grado di creare le condizioni per una riapertura del circolo della realtà socio-politica e dei quadri categoriali delle discipline che la eleggono a loro oggetto preferenziale.Di fronte alla capacità discorsiva con cui il capitalismo sembra mostrarci la nudità della realtà politica ed economica, la sua autentica bontà (i pro-dotti sono sempre diretti ai nostri bisogni, i nostri rappresentanti garan-tiscono le nostre esigenze presso qualcun altro che poi le rappresenterà a sua volta, i padroni formalmente spariscono), la reazione, se di reazione si tratta, non può essere quella del discorso dell’isterica. Qui si gioca molta della forza (o della debolezza) delle logiche politico-partitiche alle quali ci richiamiamo. Se le pagine del seminario settimo in cui Lacan parla del fool e dello knave (il furfante, il briccone, la canaglia) riman-gono giustamente celebri, è proprio perché raddoppiano l’amara consta-tazione delle parti che esauriscono il copione del teatro politico: da una parte l’isterico, con la sua trasgressione “localizzata” o “localizzabile” tramite cui crede di essersi ripreso parte della jouissance che l’Altro gli avrebbe sottratto, dall’altra l’ossessivo che si spende per la proliferazione degli slogan e delle campagne di partito, dietro alle quali riposa la ripe-tizione della stessa storia e della sua stessa narrazione. Solo l’intellettuale di sinistra (il fool) e quello di destra (lo knave) abitano questo teatro.La psicoanalisi individua nel discorso della Civiltà e in quello del capitale un meccanismo atto a chiudere il “posto vuoto” dell’incontro con il reale, saturare e risolvere il punto non-rappresentabile che sta al “centro” della fondazione tanto del soggetto quanto della costruzione sociale. In questo suo sguardo la psicoanalisi agisce come il rovescio del
Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 235
discorso del padrone, come un dispositivo che riconnette la politica al reale, costringendola a riaprire le sue categorie, forse – come direbbero Foucault o Deleuze – a pensare oltre le categorie.La psicoanalisi si confronta con la realtà storico-politica, così come con i sistemi filosofici che ad essa si sono rivolti, lavorando sul rico-noscimento che “c’è una causalità che opera dietro, un’articolazione, un’assiomatica, un certo numero di principi che operano all’insaputa del soggetto e che mettono in scena questa esperienza” 42. Si tratta del fantasma che è “la macchina originale che il soggetto mette in scena” 43. L’analisi rileva il ruolo di come significante-padrone “che è ciò che rende leggibile e sensibile, è il principio della vostra esperienza, anche di quella più immediata.” 44
Il discorso analitico consiste nel non saturare preventivamente il posto dell’incontro del reale, riconoscendovi l’apertura e la possibilità di un esterno, muovendosi in rapporto al quale Lacan non ha problemi ad asserire che il suo insegnamento era sempre “in ritardo” 45. Il ritardo del suo discorso si connota nell’apertura inesausta dei quadri concettuali delle discipline causata dall’incontro e dallo scontro con il reale, nel reciproco attraversamento che una compie nell’altra, rifiutando di colo-nizzarla per fornirne un metadiscorso (c’è solo politica della psicoanali-si, mai psicoanalisi della politica).La psicoanalisi è allora la pratica che affrontando la rimozione della conflittualità agente sui bordi della riconciliazione irrealizzabile tra il regime del possibile e ciò che da sempre lo abita, il perturbante (unhei-mlich) dell’impossibilità, costringe le discipline e su tutte la filosofia e la politica a ridefinire i propri schemi concettuali, recuperando così lo sforzo teoretico che è stato capace di sostenerne e rinnovarne la portata
42. J.-A. Miller, Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII, “Il sinthomo”, Astrolabio, Roma 2006, p. 107.43. J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, pp. 580-642, qui p. 633.44. J. A. Miller, Pezzi staccati, cit., p. 104.45. J. Lacan, Lacan in Italia, cit., p. 45.
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dietro la torsione storiografica e la smorzatura della loro pratica di pen-siero e di “scrittura”. Se è così, però, la politica come problematizzazione della realtà, la filosofia e le altre discipline, lungi dall’essere smontate e ricostruite dalla macchina analitica, sono destinate a retroagire verso la psicoanalisi lacaniana come l’esterno a partire dal quale essa dovrà mantenere aperte le sue categorie, affrontare il pericolo di fidarsi dei suoi sembianti e di anticipare il proprio ritardo.
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Complessità e Psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura
complessità e psicoterapia.esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura
di Giuseppe Rociola *1
Il mentale, dispositivo deputato alla relazione con il mondo e al contempo frut-
to di questa relazione, è un prodotto della complessità cerebrale. Il Paradigma
della Complessità permette di affermare che questo fenomeno emergente, pur
in continuità con il substrato fisiologico, è da considerarsi un dominio diverso,
che funziona secondo proprie leggi organizzative. In particolare, il sistema
nervoso dell’Homo Sapiens Sapiens, per mezzo dell’esposizione ad un ambiente
socio-linguistico in un periodo critico produce l’emergenza di una caratteri-
stica mentale che chiamiamo psiche. Le peculiarità del linguaggio simbolico
producono alcuni fenomeni fra cui l’ inconscio, la presenza a sé, la sofferenza e,
correlativamente, la possibilità della cura attraverso la psicoterapia. A partire
da questo modello, si traggono alcune conseguenze clinico-metodologiche.
Parole chiave: psicoterapia, complessità, relazione, emergenza, soggetto,
mente, psiche, inconscio, implicito, sofferenza, riflessività, linguaggio
* Giuseppe Rociola è psicologo e psicoanalista, già membro ordinario della SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e dell’IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies). Insegna “Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione” e “Scienze e Tecniche della Riabilitazione Psichiatrica” presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata; è strutturato presso l’Unità Operativa di Psichiatria del Policlinico dello stesso Ateneo. Si occupa dei temi della coscienza, della complessità e dei processi neurofisiologici affettivo-cognitivi in soggetti psicotici.
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introduzione
Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di utilizzare il termine psico-analisi o psicoterapia; differenza la cui articolazione comporterebbe un lavoro a parte. Ad ogni modo, ho deciso per l’ultimo, poiché in questa sede ci si vuole riferire alle condizioni di possibilità di ogni talking cure 1.Il paradigma utilizzato è quello dei fenomeni di complessità. L’eti-mologia suggerisce che ciò che è complesso è il risultato di un intrec-cio. Da questa origine, il termine è stato utilizzato in diversi modi e discipline per indicare un approccio a fenomeni altrimenti non pienamente descrivibili a causa della loro inestricabilità; con la pro-messa, al contempo, di superare il riduzionismo dei paradigmi classi-ci, ma anche un certo olismo che provoca sovente un appiattimento misticheggiante fra diversi fenomeni del reale. Infatti, il Paradigma della Complessità (PdC) 2 permette una chiara definizione del livello di osservazione.Qui per complessità si intenderà una caratteristica di sistemi com-posti da un “alto numero” di elementi, meglio definiti “agenti”, che sviluppano “numerose interazioni” locali “non-lineari” 3. Le
1. S. Freud e J. Breuer, Studi sull’Isteria, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. I, pp. 437-8.2. Convenzionalmente si può attribuire una prima formalizzazione di questo paradigma ad E. Morin, Introduction à la pensée complexe, Seuil, Parigi 1990; trad. it., Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993 ed a I. Prigogine e I. Stengers, La Nouvelle Allian-ce, Gallimard, Parigi 1979; trad. it. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981. Una buona e recente panoramica si può reperire nel testo di Réda Benkirane, La Complexité, vertice ou promesses: 18 histoire de sciences, Le Pommier, Parigi 2002; trad. it. La teoria della complessità, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Da circa un decennio questo paradigma è stato, diciamo così, ufficializzato come paradigma concorrente attraverso la pub-blicazione di due dossier speciali degli autotri R. Gallagher, R. Appenzeller, “Beyond Reduc-tionism”, in Science e Nature, Science, vol. 248, n. 5411, 1999; K. Ziemelis, Complex Systems, Nature, vol. 410, n. 6825, 2001.3. O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità. Intervento al convegno “Scienze, super-computing e grid computing”, Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma 2004, testo disponibile al sito: http://www1.unipv.it/complexity/press/complexity_Nicrosini.pdf.
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risultanti rappresentazioni scientifiche sono, pertanto, modelli di sistemi – dotati di struttura e comportamento – e correlativi proble-mi; ogni sistema osservato è a sua volta da considerarsi immerso in un sistema che lo comprende e che si chiama “ambiente”. Che cos’è ambiente, che cosa sistema e problema è frutto della scelta del livello di osservazione 4.Nei sistemi viventi i fenomeni di complessità sono ubiquitari, per-tanto utilizzare l’epistemologia dei sistemi complessi per l’uomo ed in psicoterapia non può dire nulla dello specifico dell’umano: resta un contenitore vuoto… da riempire. Solo nel momento in cui avremo compreso e modellizzato le peculiarità del mentale umano potremo comprendere cosa accade fra i sistemi complessi in questione – due esseri umani che interagiscono. Per giunta, poiché la psicoterapia è una prassi che prevede un’interazione con contesto e finalità parti-colari, bisognerà porsi anche la domanda su questa specifica inte-razione. Bisognerà chiedersi cosa deve accadere perché almeno uno dei due partecipanti vada incontro ad un cambiamento, vale a dire: come si crea “artificialmente” una relazione non finalizzata al pour parler, né all’adattamento ad un contesto predefinito bensì alla cura? È vero che tante esperienze, relazioni, eventi possono essere mutativi e migliorativi per un individuo: ma cosa fare perché proprio questa interazione, tra un terapeuta ed un paziente, non sia un rapporto di ripetizione come tutti o tanti altri ma che sia terapeutico?Infine, il PdC è di tipo descrittivo, non prescrittivo: questo com-porta che gli aspetti applicativi dipendano in via del tutto peculiare dagli obiettivi e dal tipo di sistema considerato.Vi sono tre termini cardinali – relazione, complessità, emergenza – che ci accompagneranno lungo tutto il percorso e che pertanto necessitano di un’esplicazione preliminare.
4. H. R. Maturana e F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del Vivente, Marsilio, Venezia 2001.
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relazione
Per relazione vogliamo intendere “connessione o corrispondenza che intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti” 5. L’inter-correre descrive una caratteristica fondamentale della relazione, in quan-to implica un processo di interazione e influenza reciproca. Saranno uti-lizzati i termini relazione ed interazione volendo sottolineare, di volta in volta, con “interazione” l’aspetto più diacronico dello scambio relaziona-le, mentre con “relazione” la corrispondenza colta nella sua sincronicità.Il biofisico Robert Rosen può dire, a buona ragione – quella di fisica e biologia quando riflettono su se stesse – che “this is a relational univer-se” 6. Ma se il fatto è che tout se tient, ogni insieme di agenti si tiene in modo diverso; l’interazione gravitazionale fra sole-terra-luna o fra due pulsar non dice nulla delle interazioni fra le molecole all’interno del ciclo di Krebs e nessuno di questi fenomeni aiuta a spiegare il funziona-mento cerebrale: si possono, certo, reperire alcune analogie che non aiu-tano però a comprendere la peculiarità di quella specifica interazione.
complessità
È utile un ulteriore chiarimento che metta su due piani differenti gli oggetti a cui possiamo riconoscere l’attributo della complessità da quelli che definiremo complicati. La radice è comune dal sanscrito prak (poi il greco pleko) e vuol dire di cose mischiate, congiunte; da cui in lati-no sono derivate due ulteriori radici: plesso, che vuol dire intrecciato, mischiato e plico che vuol dire piegato, avvolto. Da cui deriva che un fenomeno complicato si può s-piegare nei suoi componenti costitutivi mantenendo, anzi aumentando, la comprensione dell’insieme; al con-
5. Treccani, Vocabolario della lingua italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1997.6. R. Rosen, Essays on Life Itself, Columbia University Press 2000.
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trario la trama di un fenomeno complesso non si può sciogliere se non perdendone il senso poiché quest’ultimo è effetto proprio dell’intreccio, dell’organizzazione 7. Nei termini del PdC i sistemi complicati sono lineari, quelli complessi non-lineari – vale a dire che in questi ultimi l’output non è proporzionale all’input. Ad ogni modo, un sistema complicato può essere anche molto difficile da descrivere perché può contenere un gran numero di elementi, connessioni e parti nascoste. In natura i sistemi complicati sono una rara eccezione; per tale ragione è invalsa l’utile equazione fra lineare, complicato e artificiale.
il sistema complesso
Per descrivere al meglio il concetto di sistema complesso, è utile discer-nere la sua particolarità rispetto ai sistemi semplici, complicati e caotici. Seguendo Nicrosini 8, possiamo considerare “sistemi semplici” – come un pendolo – oppure “complicati” – come un cronometro meccanico ad alta precisione – i quali evolvono in modo prevedibile. Da un altro lato osser-veremo sistemi, siano essi strutturalmente complicati oppure semplici come il pendolo doppio (fig. 1), i quali, pur governati da una dinami-ca deterministica, si comportano in modo di fatto imprevedibile: sono i cosiddetti “sistemi caotici”. Gli effetti non-lineari fanno sì che, in certe situazioni, essi manifestino un comportamento criticamente dipen-dente dalle condizioni iniziali 9.
7. Ibidem; E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit..8. O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità, cit..9. Ciò vuol dire che a partire da variazioni infinitesimali delle variabili al tempo iniziale T0, il sistema avrà traiettorie evolutive imprevedibili e divergenti in modo anche esponenziale.
Figura 1
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I “sistemi complessi” non sono né facilmente prevedibili né caotici e le leggi del loro funzionamento non sono deducibili dalle leggi valide per gli agenti che li compongono. Un tale sistema manifesta alcune proprietà dette “emergenti”. In questi sistemi l’analisi retrospettiva è complicata, quella previsionale è complessa. Vi sono diverse tipologie di organizzazione complessa ed il mentale appartiene a quei sistemi che presentano una forte resilienza 10 ed una struttura molto organizzata in schemi piuttosto stabili, in template di relazione.I sistemi complessi funzionano come in-es-plicabile collettività – fon-data sulla relazione fra agenti, i quali possono essere anch’essi sistemi complessi ma la cui struttura diventa subordinata al comportamento. Per comprendere quest’ultima affermazione, prendiamo come esempio la formica: in quanto essere vivente è un sistema complesso ma ha un comportamento relativamente semplice basato sostanzialmente sull’an-tennazione e sulla scia feromonale.Eppure il formicaio è un sistema di straordinaria complessità, dovuta alla numerosità (infatti, società più numerose esibiscono comporta-menti più complessi) e all’aleatorietà dell’esito interazionale fra le sin-gole formiche: due sistemi complessi, dunque, come nel caso di due formiche, possono intrattenere fra loro una relazione non complessa. Un ottimo esempio di situazione esattamente inversa è data da quella figura piana delimitata da un contorno frattale che va sotto il nome di “Insieme di Mandelbrot” (fig. 2). Il programma che lo genera consiste di poche righe (la struttura è cioè non complessa), ciononostante esso è stato definito come l’oggetto geometrico dal comportamento più com-plesso che si sia mai visto nella matematica.
10. Il termine indica sia la capacità di resistere a forze di rottura che l’attitudine a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.
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emergenza
Le proprietà che emergono nel sistema complesso – come nel caso del nostro formicaio – non sono predicibili in quanto rappresentano un nuovo livello di evoluzione. Ciò è dovuto al fatto che i comportamenti sistemici non sono proprietà dei singoli agenti.Una delle ragioni per cui si verifica un’emergenza è che il numero di interazioni non-lineari tra le componenti di un sistema aumenta com-binatoriamente con il numero delle componenti stesse. Alcuni esempi di sistemi complessi sono gli ecosistemi, i grandi sistemi sociali, quelli economici e gli organismi viventi.Questo è l’ambito concettuale in cui ci muoveremo per affrontare la
Figura 2
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nostra pertinenza, che non sarà l’uomo dal punto di vista della medi-cina o della chimica o della sociologia. Non sarà il cervello che sicu-ramente è un sistema complesso bio-chimico-elettrico 11. Non sarà la società umana, sistema complesso, frutto del comportamento statistico – e a questo livello “cieco” – di migliaia e milioni di individui.Noi ci occuperemo di quel fenomeno che emerge dall’interazione fra l’embodied brain 12 ed il mondo: la mente, dispositivo degli organismi viventi deputato alla gestione della relazione con l’ambiente e, al con-tempo, frutto di quella stessa interazione 13.
body-mind problem ed emergenza
In primo luogo siamo costretti ad attraversare la questione del body-mind problem, al fine di circoscrivere chiaramente il nostro livello di osservazione e, di conseguenza, l’oggetto di cui ci andremo ad occupa-re. Oggi il problema del rapporto mente-cervello è posto o nei termini di una sostanziale estraneità della mente a qualsiasi substrato oppure, dalla stragrande maggioranza degli studiosi, come assimilazione-riduzione della mente al corpo, cioè alle forze fisico-chimiche (come nel caso di LeDoux o Damasio 14). Assoun, già nel 1981 aveva definito quest’ultimo indirizzo come un “riduzionismo che si oppone a qua-lunque forma di emergentismo che postuli ordini irriducibili” 15: se un fenomeno è espresso da un organismo allora esso sarà comprensibile nell’organico – in cui operano, in ultima analisi, forze fisico-chimiche.
11. G.M. Edelman e G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazio-ne, Einaudi, Torino 2000.12. A. Damasio, Emozione e coscienza. Adelphi, Milano 2000.13. D. J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, R. Cortina, Milano 2001.14. J. LeDoux, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, Raffaello Cortina, Milano 2002; Damasio, Emozione e coscienza, cit..15. P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana. Theoria, Roma-Napoli 1988.
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Vale a dire che il mentale si dovrebbe ridurre alle dinamiche cerebrali.Il fenomeno dell’emergenza permette una soluzione alessandrina a questo problema in quanto ammette, al contempo, continuità fra i due ambiti e distinzione fenomenologica. Come non esiste cellula senza molecole o molecola senza atomi – eppure ciascun dominio riconosce e funziona secondo proprie leggi non riducibili direttamente a quelle del substrato ma da esso prodotte secondo processi emergenziali – allo stes-so modo la mente è il prodotto della complessità del cervello; quest’ul-timo è un sistema, ovviamente in interazione con il mondo, di intera-zioni non-lineari e probabilistiche di miliardi di agenti non-intelligenti – i neuroni quanto al comportamento di scarica nervosa. Questa mente che emerge è a sua volta sistema: semplice come nel caso di un verme piatto oppure molto complesso come la mente umana.Non si tratta di dualismo, bensì della scelta di un livello di osservazio-ne; è d’accordo Maturana, per il quale
i sistemi viventi sono entità composte, strutturalmente determinate, che esistono in due domini fenomenici che non si intersecano. […]. [Dunque] non è possibile giungere ad una riduzione fenomenica fra essi. Nel caso del sistema vivente questi due domini fenomenici sono i domini della sua ana-tomia e fisiologia e, rispettivamente, il dominio del suo comportamento. Tale punto di vista invalida la possibilità di ridurre la condotta alla fisiolo-gia che la rende possibile 16.
In tal modo è possibile discernere l’ambito medico del cervello (vedi § “L’infante, colui che non parla”), l’ambito psichico della mente, l’ambi-to sociologico dei grandi gruppi sociali in cui di nuovo, ma ad un livel-lo diverso, si possono produrre leggi e fenomeni peculiari. Questo non vuol dire che il mentale non influisca sul reale del corpo o sul livello
16. A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution in complexity science and psychology”, in Journal of Constructivist Psychology, 9: 4, oct.-nov., pp. 283-302, 1996, (traduzione nostra).
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sociale e viceversa: anzi, sappiamo che è proprio così 17 ma a causa della continuità e non della coincidenza di dominio.Il mentale di cui stiamo parlando fin qui è quel fenomeno generico che possiamo osservare in molte specie viventi: è giunto il momento di qualificare il mentale umano che, come cercheremo di dimostrare, si distingue dalle altre menti conosciute in natura.
lo specifico dell’essere umano
Nei sistemi complessi è essenziale la comprensione dei processi caratte-rizzanti, perché ogni strumento che vorremo essere efficace dovrà essere omologo, essere della stessa “specie”, parlare la stessa lingua. Come sostie-ne Maturana, nella sua dinamica di interazioni un sistema è influenzato solo da quegli agenti esterni che la sua struttura ammette e che in tal modo specifica 18. A maggior ragione ne dobbiamo tenere conto in vista di una strumentalità modificativa, nel nostro caso detta terapeutica.Da diverso tempo si afferma che, in qualche misura, vi sono degli effetti terapeutici a prescindere dall’orientamento teorico-clinico di chi somministra il trattamento. Questa democraticità del fattore terapeu-tico dipenderebbe, deducono, principalmente dai fattori aspecifici di una intersoggettività che potremmo definire “buona” 19. Così, almeno,
17. Y. Kozorovitskiy et al. hanno dimostrato come l’esperienza nell’accudimento di prole da parte di genitori più esperti di primati del genere Callithrix aumenti la sinaptogenesi e la neurogenesi nel cucciolo; Y. Kozorovitskiy, M. Hughes, K. Lee, E. Gould, “Fatherhood affects dendritic spines and vasopressin V1 a receptors in the primate prefrontal cortex”, in Nature Neu-roscience, sep., 9 (9):1094-5, 2006. Wykes et al. hanno “fotografato” i cambiamenti nell’attività cerebrale a seguito di interventi psicoterapici in soggetti schizofrenici, T. Wykes, M. Brammer, J. Mellers, P. Bray, C. Reeder, C. Williams, J. Corner, Effects on the brain of a psychological treat-ment: cognitive remediation therapy: functional magnetic resonance imaging in schizophrenia, Br. J. Psychiatry, aug, 181:144-52, 2002.18. A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution in complexity science and psychology”, cit..19. M. J. Lambert e D. E. Barley, Research summary on the therapeutic relationship and psycho-therapy outcome. Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 38(4), 357-361, 2001; J. L. Krupnick, S. M. Sotsky, I. Elkin, S. Simmens, J. Moyer, J. Watkins, P. A. Pilkonis, The role of
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affermano le testimonianze – certo non sempre cristalline ed in buona fede – della comunità scientifica per il tramite di quel servo esigente come un padrone che è la Evidence Based Medicine. In uno studio di trent’anni fa i risultati indicarono, addirittura, che docenti “esperti in relazione” ottenevano migliori risultati in una terapia breve rispetto a psicoterapeuti professionisti 20.Al di là del giudizio sulla bontà di questi studi, bisogna comunque chiedersi se è veramente l’implementazione di una “buona” dinamica intersoggettiva il fattore aspecifico. Noi crediamo che, in realtà, la rela-zione in psicoterapia costituisca il supporto funzionale in cui bisogna riconoscere fenomeni specifici che dobbiamo dedurre dalla costituzione peculiare della mente dell’Homo Sapiens Sapiens. D’altronde, è possibi-le che i nostri pazienti non abbiamo mai in vita loro incontrato delle “buone” persone, capaci di avere “buone” relazioni?La relazione è senza dubbio l’elemento su cui si gioca la terapia, ma solo in quanto è la condizione perché un qualsiasi processo possa essere messo in atto; farla assurgere a fattore terapeutico porta ad un appiat-timento nella teoria e poi nella clinica. Se l’intersoggettività, chiunque la somministri o, meglio, la amministri, ha degli effetti, dobbiamo chiederci cos’è che viene veicolato o messo in funzione attraverso essa.In ogni dominio ciò che abbiamo chiamato interazione è un proces-so informazionale 21, nella sua totalità, comprendente anche la non-relazione che può essere comunque una relazione informativa 22. Il paradigma della complessità permette di comprendere al meglio questa comunicazione, questa relazionalità, che nei sistemi viventi assume un
the therapeutic alliance in psychotherapy and pharmacotherapy outcome: findings, in The National Institute of Mental Health Treatment of Depression Collaborative Research Program, J. Consul. Clin. Psychol. 64:532-539, 1996.20. H. H. Strupp e S. W. Hadley, Specific vs. nonspecific factors in psychotherapy: a controlled study of outcome, Arch.. Gen Psychiatry 36:1125-1136, 1979.21. G. Tononi, Galileo e il fotodiodo. Cervello, complessità e coscienza, Laterza, Bari 2003; R. Nobili, Basi fisiche della complessità biologica e genesi della coscienza, 2001. Testo disponibile al sito: http://www.psychiatryonline.it/ital/nobili.htm.22. R. Rosen, Essays on Life Itself, cit..
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connotato palesemente simbolico. Come afferma Morin 23, c’è “un trat-tamento di simboli”, e “lo specifico di ogni organizzazione vivente […] è la sua dimensione cognitiva inseparabile dall’organizzazione”. Pattee scrive che nei sistemi complessi in cui emerge la vita c’è bisogno di un insieme di meccanismi di controllo e auto/etero-regolazione 24 (risuona qui l’auto-eco di Le Moigne 25) che ad ogni livello di osservazione si presenta come un insieme di vincoli coerenti che crea un contenuto simbolico o un messaggio in strutture fisiche; in altre parole, un insie-me di vincoli che si costituisce come struttura di linguaggio. Ancora, rispetto all’essere umano, secondo Tronik 26 “la regolazione interattiva e l’autoregolazione si intrecciano in un continuo scambio. Ogni com-portamento è al tempo stesso comunicativo e auto-regolativo”. Ora, dovrebbe essere chiaro come, a questo dettaglio di descrizione, pur cogliendo un aspetto fondante del funzionamento dei sistemi, non è possibile distinguere adeguatamente le interazioni che avvengono fra le molecole nel ciclo di Krebs, fra due formiche, in una chiacchie-rata al bar fra amici o, peggio, nell’interazione paziente-terapeuta.Bisogna fare un passo in avanti e porre la domanda in modo corretto: qual è lo specifico processo informazionale dell’organizzazione sistemi-ca che produce ed ha prodotto l’emergenza del mentale umano e che in tal modo lo specifica? La nostra risposta è che se ogni dominio di com-plessità è fondato sull’emergenza di processi informazionali che negli esseri viventi assumono un connotato simbolico, nell’uomo assistiamo, stupefatti, ad una radicalizzazione: esiliato dalla coincidenza con i lin-guaggi dei livelli precedenti (fisici, chimici, biologici – dove per gli altri viventi c’è solo il bisogno e non il desiderio) l’essere umano va ad abi-
23. E. Morin, “Computo, ergo sum”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:263-282, 2007.24. H. H. Pattee, “The physics of symbols: bridging the epistemic cut”, in Biosystems. 60:1-3, pp. 5-21, May 2001.25. J. L. Le Moigne, “I tre tempi della modellizzazione dei sistemi: entropico, antropico, teleolo-gico”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3: 283-298, 2007.26. E. Tronik, “Dyadically expanded states of consciousness and the process of therapeutic change” in Infant Mental Health Journal, XIX, 3:290-99, 1998.
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tare una terra straniera dove tutto per lui è allegoria e corrispondenza arbitraria: la terra del linguaggio simbolico delle società umane.In questo senso, per comprendere il mentale umano dobbiamo fare un passo ulteriore rispetto al fenomeno emergenziale della mente – vedi la “Teoria del complesso cosciente” di Tononi 27 – e definire il mentale umano come quel complesso cosciente linguistico. Sosteniamo che sia proprio il linguaggio il fattore che determina l’emergenza di un domi-nio specifico il quale, rispetto alle altre forme mentali, va molto al di là dei processi di regolazione automatica e procedurale, mettendo in secondo piano (non certo escludendo) gli aspetti strutturali e funzionali dei processi psicofisiologici sottostanti.L’eccezionalità del linguaggio dell’essere umano, che ciascuno coglie con l’intuito, consiste nel fatto che “pur avendo altre specie di animali un linguaggio, si tratta sempre di forme rudimentali non paragonabili né qualitativamente né quantitativamente al linguaggio umano” 28. E sono proprio “quantità” e “qualità” (caratteristiche chiave nel PdC) del linguaggio simbolico del Sapiens a produrre le condizioni di possibilità della complessità e quindi l’ulteriore emergenza del mentale umano che chiamiamo “psiche”.Non siamo soli nella contemplazione di questa straordinarietà che si fa peculiarità: Edelman (ibidem) sostiene che “la riflessività autocosciente dell’uomo s’inscrive nell’orbita del linguaggio e sorge in concomitanza ad esso”. Maturana afferma che “noi esseri umani siamo sistemi viventi che esistono nel linguaggio” e chiama l’essere umano il linguaggiante 29 – espressione che ricorda il precedente parlessere di Lacan. Varela consi-dera la sua eccentrica coscienza inseparabile “dalla vita del linguaggio, dall’intero ciclo dell’interazione empatica socialmente mediato” 30.
27. G. Tononi, ibidem.28. M. D. Hauser, N. Chomsky, W. T. Fitch, “The Faculty of language: What is it, who has it, and how did it evolves”, in Science, vol. 298, no. 5598, pp. 1569-1579, 1998.29. H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993.30. F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1992.
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Damasio (ibidem), infine, sostiene che la coscienza estesa “raggiunge il suo massimo livello con gli esseri umani, grazie al linguaggio” 31.Nonostante tutto, si può non dare retta alla peculiarità che l’ordine sim-bolico assume per l’uomo: se si vuole considerare che egli, in fondo, non presenta discontinuità rispetto ad altri viventi; se si riduce – bisognerà accludere alla gamma dei riduzionismi anche quello psicoanalitico – se si riduce l’Inconscio ad un suo aggettivo potendosene perciò liberare con l’adozione dell’“implicito”; se si dà al linguaggio una funzione puramente strumentale e graduale nell’evoluzione senza riconoscergli l’effetto rivoluzionario e decisivo nella costituzione dell’essere umano.
il linguaggio
Il linguaggio dell’Homo Sapiens Sapiens è una facoltà che si costituisce in struttura strutturante come sistema di comunicazione e di pensiero. Secondo le tesi saussuriane e gli sviluppi della pragmatica, ha le seguen-ti caratteristiche:– è fondata su di un’astrazione originaria;– si costituisce sulla base di un’arbitrarietà;– a partire da tale arbitrarietà, però, si fonda un convenire sociale, mai
completo e conchiuso, che scivola sul piano inclinato della storia;– è una struttura di relazioni: il valore proprio di un elemento significan-
te deriva dal suo confronto e dalla sua opposizione ad altri elementi;– è azione.Il non-verbale, termine a cui spesso si riduce l’apparato dell’implicito, viene usualmente contrapposto al verbale. Al contrario qui si sostiene che bisogna leggere il linguaggio come una “macroemergenza” 32, un elemento, cioè, che ha ristrutturato l’interezza del sistema mentale, di
31. A. Damasio, Emozione e coscienza, cit..32. E. Pessa, Emergence, Self-Organization, and Quantum Theory, in G. Minati (a cura di), First Italian Conference on Systemics, Apogeo, Milano 1998.
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cui si coglie la forma solo peculiarmente nella sua forma verbale. In realtà, un ebanista che intaglia un ciocco, in silenzio, sta parlando. Una donna che arrossisce sta solo tradendo un segreto inconfessabile, che ne sia consapevole o no 33. A causa della macroemergenza possiamo dire che il linguaggio impasta gli altri registri. Tanto è immerso in questo universo linguistico l’essere umano che anche il non-verbale si deve inscrivere in un registro prettamente simbolico, come ha scoperto Freud negli atti sintomatici ed in quelli mancati 34. Il non-verbale, tutt’al più, concorre alla cifra dell’Inconscio in maniera maggiore che all’inten-zionalità conscia. Non è un caso che nell’evoluzione l’uso delle parole coincida con la capacità (non verbale) di compiere movimenti raffinati come testimonia il livello degli utensili trovati negli strati archeologici risalenti a circa 200.000 anni fa 35, in concomitanza con la speciazione dell’Homo Sapiens. Questo mette bene in evidenza come il linguaggio si situi nella dimensione dell’azione, come verbale e non verbale siano per l’uomo affetti dal linguaggio; nell’uso, difatti, la maggior parte degli enunciati servono a compiere delle vere e proprie azioni 36.Possiamo perciò rispondere ad una delle domande poste prima, forse la più importante, affermando che la “materia” caratteristica del processo informazionale dell’essere umano è la comunicazione simbolica, non quella che, a questo punto, dobbiamo chiamare parasimbolica – dimi-nutio necessaria – o immaginaria degli altri sistemi viventi. Possiamo definire il linguaggio parasimbolico come la capacità di comunicare con alcune “parole” in un codice immaginario propriamente associa-tivo 37. A nostro avviso non è un caso che animali con un linguaggio – immaginario – più evoluto riescano ad esprimere abilità evolute, nonostante substrati nervosi e linee evolutive anche molto differenti.
33. “Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori”, S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’ inconscio, in Opere, cit..34. S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, cit., vol. IV.35. G. A. Miller, Linguaggio e parola, Il Mulino, Bologna 1983.36. J. L. Austin, Come fare cose con le parole. Trad. it. Marietti, Genova 1987.37. E. M. Macphail, The Evolution of Consciousness, Oxford University Press, Oxford-New York.
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Per esempio animali privi di neocorteccia come le gazze ladre possono riconoscersi allo specchio 38, sono cioè presenti a(d un abbozzo di) sé 39: non ci dovrebbe stupire a questo punto che questi volatili passino molto tempo in “conversazione” 40. Ancora, un insetto come l’ape mellifera, dotata di un linguaggio molto evoluto – la famosa danza delle api, è capace di riconoscere face-like stimuli (stilizzazioni di volti umani) fra altri stimoli 41. Ciò è straordinario per due motivi: per le api i volti sono stimoli biologicamente irrilevanti; tale capacità viene sviluppata con un minuscolo e molto semplice apparato nervoso, quando la stessa abilità coinvolge diverse ed estese aree del cervello di mammiferi e dell’uomo in particolare. Si tratta di prove, indirette, dell’ipotesi emergenziale del mentale; di conseguenza del fatto che tale nuovo dominio può esprime-re funzioni e proprietà non spiegabili attraverso le strutture sottostanti. Infine, indica che l’Io è un prodotto immaginario, che ha a che fare con la dimensione dell’intelligenza e della cognizione e che, di conse-guenza, procede secondo logiche additive, addestrative.La comunicazione immaginaria fra animali è data; vi possono certo essere alcune “inflessioni dialettali” ma resta comunque chiusa e finita.
38. H. Prior, A. Schwarz, O. Güntürkün, Mirror-Induced Behavior in the Magpie (Pica pica): Evidence of Self-Recognition, PLoS Biol. August, 6(8): e 202, 2008.39. Una simile facoltà era stata documentata in alcuni primati: M. D. Hauser, J. Kralik, C. Bot-to-Mahan, M. Garrett, J. Oser, Self-recognition in primates: phylogeny and the salience of species-typical features, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A, nov. 7;92(23):10811-14, 1995. Nei delfini: D. Reiss, L. Marino L., Mirror self-recognition in the bottlenose dolphin: a case of cognitive convergence, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A, May 8;98(10):5937-42, 2001. Negli elefanti: J. M. Plotnik, F.B.M de Waal, D. Reiss, “Self-recognition in an Asian elephant”, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 103, n. 45, 2006. Si trattava comunque di mammiferi con grossi cervelli e dotati di neocorteccia. Ha suscitato molte questioni il fatto che ne sia capace anche un uccello, che ha una linea evolutiva molto diversa dai mammiferi ed un cervello così “primitivo”. Potremmo ipotizza-re che la capacità di riconoscere se stessi (la propria immagine) sia l’apice evolutivo del processo informazionale immaginario. Questa psicologia comparata avvalla l’intuizione lacaniana di un io di natura sostanzialmente immaginaria.40. J. M. S. Ellis, T. A. Langen & E. C. Berg, “Signalling for food and sex? Begging by repro-ductive female white-throated magpie-jays”, in Animal Behaviour, vol:78(3), 615-623, 2009.41. A. Avarguès-Weber, G. Portelli, J. Benard, A. Dyer, M. Giurfa, Configural processing ena-bles discrimination and categorization of face-like stimuli in honeybees, J. Exp. Biol. Feb, 213(Pt 4):593-601, 2010.
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Ciò vuol dire che se anche è possibile reperire differenze fra un alveare e l’altro o fra un pod di delfini e l’altro i significati sono pre-fissati. Tale comunicazione si può attestare più che altro sull’emozione o l’intenzio-ne di quel preciso momento, in uno stato confusivo, come è l’immagi-nario del sé e dell’altro; quella umana, simbolica, è non-finita e separata dal significato: non è l’unità della parola che determina un significato in maniera inequivocabile, bensì è la catena, la successione, il discorso che genera un significato. Questa distanza dal significato 42 al contempo permette di riferirsi anche alla non attualità, oppure alla descrizione dello stato di un altro individuo percepito come altro da sé 43. Difatti, è il linguaggio umano che propriamente introduce l’alterità. Una scim-mia non può riferire di un avvenimento accaduto ad un’altra scimmia e un’ape non può indicare con la sua danza dove spera di trovare cibo domani. Un’ape costruirà sempre celle esagonali; gli architetti hanno progettato un’innumerabile varietà e continueranno a farlo. Il linguag-gio simbolico umano produce un processamento informazionale radi-calmente diverso, basato su di un’astrazione fondamentale, originaria, attraverso cui la corrispondenza con la cosa, Das Ding, è definitivamen-te perduta. È attraverso questa strada che si accede di diritto o, quanto-meno, di potenzialità al genere umano.Tale astrazione non può che nascere all’interno di un’interazione pri-maria con i caregiver, vere e proprie agenzie di linguaggio. Nell’ontoge-nesi il linguaggio continua a venire da fuori per ogni infante; inoltre è “esterno”, “altro” non solo perché lo precede ma anche nel senso che esso può essere considerato come l’espressione di un processo di progressiva ritualizzazione del riconoscimento delle relazioni sociali 44. Il linguaggio è relazione, è interiorizzazione di relazioni, è trascrizione di relazioni.
42. Con la conseguente proprietà ricorsiva del linguaggio umano, cioè che un enunciato possa essere oggetto di un altro enunciato.43. Lo aveva già notato Aristotele; vedi Id., Politica, Il Mulino, Bologna 2009.44. I. Eibl-Eibesfeldt et al., Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
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Qualcosa di simile ci aveva già annunciato Lévi-Strauss: nell’essere umano, il linguaggio è la simbolizzazione, la matematizzazione delle relazioni sociali, che sono a loro volta un linguaggio 45 – affermazione che possiamo sottoscrivere nell’ottica dei sistemi complessi.Così, per l’uomo, la relazione è sia linguaggio esplicito che linguaggio implicito, incorporato, sempre funzionale perché nato in quella inte-razione (in quel processo informazionale) e quindi organizzato in una biografia possibile. Questa intima relazione ci permette di palesare una delle condizioni di possibilità della prassi psicoterapica in quanto ogni enunciato o proposizione linguistica enunciante, raffigura proprio quel-la relazione fra elementi mentali che, nel loro auto riferimento conti-nuo, configurano l’individuo nella sua soggettualità. Soggettualità che, per la natura del linguaggio, può essere oggetto di riflessività sempre nell’istante successivo, mai nel medesimo 46 come successiva e differen-ziale è la parola nel linguaggio.Un ultimo argomento. Non è questo il luogo per presentare nel detta-glio le storie degli enfant sauvage che si impongono come la prova più trascurata della determinazione dell’ambiente linguistico umano sullo sviluppo dell’umano stesso – non intendo, sia chiaro, che è l’ambien-te da solo a decidere dello sviluppo della soggettualità, ma che senza ambiente socio-linguistico non ci può essere soggettualità. I bambini selvaggi non hanno empatia (quel tipo di comunicazione immaginaria che osserviamo negli esseri umani) – nonostante i neuroni specchio funzionanti – e non fanno domande. Hanno un occhio spento, bovino – come riportano invariabilmente le cronache 47 – tanto che le loro con-dizioni, spesso irreversibili nonostante i migliori tentativi, suggerirono a Linneo, nel suo furor ordinandi, di distinguerli dall’Homo Sapiens Sapiens. Nessuno può oggi condividere l’impietosa burocrazia del catalogatore; noi li includeremmo – e li includiamo visto che l’ultimo
45. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Edizioni Net, Milano 2002.46. H. Maturana, Autocoscienza e realtà, cit..47. A.M. Ludovico, Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza, Aracne, Roma.
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è stato trovato pochi anni fa in India – con un grande abbraccio nella nostra comunità, come peraltro nella prassi è stato quasi sempre fatto, al di là del giudizio scientifico, anche se fosse per la sola potenzialità profonda di cui sono comunque portatori.
l’infante, colui che non parla
Quando negli anni ‘70 si andò ad interrogare direttamente il bambi-no fin dalla nascita, vi fu una vera e propria rivoluzione nell’intendere sia lo sviluppo che il modo di stare al mondo del cucciolo d’uomo. In sintesi, l’infante si dimostrò attivo, alla ricerca di stimoli, con un suo corredo – invero molto limitato – di tendenze istintive, fra cui una propensione all’abbinamento al suo caregiver – il cosiddetto “attacca-mento” 48 – e ad una regolazione ecologica (dunque sia auto che etero) per a-ccordarsi con l’ambiente attuale allo scopo di vivere 49. Questo movimento di indagine scientifica, detto dell’Infant Research, deve a Sander il primo modello interpretativo, attraverso i suoi studi sull’in-terazione nel sistema diadico madre-bambino 50. I risultati sorpren-denti di queste ricerche hanno tuttavia portato ad un traboccamento dei suoi modelli nella psicoterapia dell’adulto 51. In questa traslazione, uno dei concetti di maggior fortuna è stato quello di implicito che, in sostanza, fa riferimento alla memoria procedurale. Se a Freud hanno dato colpa di aver inventato un bambino a partire dall’adulto pato-logico, gli stessi hanno prodotto un’invenzione ben più pindarica:
48. J. Bowlby, Attaccamento e perdita: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975, vol. II.49. Abbinamento è da intendersi couplage (Varela, ibidem); a-ccordarsi, per via etimologica, ha il senso di con-venire, in-tendersi attraverso o, meglio, nel couplage; per attuale si intende l’ambien-te in atto, così com’è; vivere, infine, ha il senso di stare-al-mondo.50. L. Sander, “The regulation of exchange in the infant-caretaker system and some aspect of the context-content relationship”, in M. Lewis, L. Rosenblum (a cura di), Interaction, Conversa-tion, and the Development of Language, Wiley.51. B. Beebe e F. M. Lachmann, Infant Research e Trattamento degli Adulti. Un modello sistemico diadico delle interazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
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un adulto – patologico e normale – a partire dall’infante, da colui che non parla. Alla sottovalutazione della discontinuità di dominio (cerebrale-procedurale/soggettuale) si è aggiunto il misconoscimento di quella frattura storica dovuta alla macroemergenza che si installa a partire dall’acquisizione sociale del linguaggio. Ribadiamo che si tratta di una discontinuità non assoluta bensì delle leggi organizza-tive che regolano il livello della soggettualità: per così dire, nessuno può realmente muovere la mano, nessun soggetto può, cioè, inviare l’impulso nervoso dai centri motori corticali, ai centri sottocorticali, al cervelletto, ai motoneuroni del tronco dell’encefalo ed infine al midollo spinale. Piuttosto si può prendere un oggetto, manipolarne un altro, stringere una mano, decidere di muoverla. Allo stesso modo Husserl ebbe a dire che non intendiamo sensazioni uditive, bensì una canzone 52. Semplificando enormemente, se nel couplage, tendendo la mano, non ho trovato nessuno oppure un qualcuno molesto forse la muoverò in modo timido, impacciato oppure, al contrario, d’impulso o ancora in modo aggressivo. In questa irriducibile incertezza delle conseguenza di un’assenza o di una presenza molesta, la disgiunzione, la frattura tra implicito e soggettualità risulta già evidente.Partire dall’infante nei termini della scuola dell’implicito, porta ad una visione dell’uomo che lambisce soltanto il dominio in cui si sviluppa la soggettualità – pertanto non vi può far presa se non accidentalmente, quell’accidentalità che viene denominata “fattore aspecifico” delle psi-coterapie, la quale, in realtà, deriva dall’inevitabile utilizzo del linguag-gio in ogni approccio. Inoltre ne risulta un che di pedagogico nella concezione della clinica ed infatti la letteratura è pervasa da termini quali imparare, fare esperienza, apprendere – con l’evidente proposito di aggiungere qualcosa alle “deficienze” del paziente. Per questi lontani colleghi, il terapeuta deve assumere “i ruoli interattivi che permettono al paziente di trovare gli ingredienti per costruire le dimensioni di
52. E. Husserl, Ricerche logiche, Ed. Net, Milano 2005.
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funzionamento mentale (i MOI) che gli mancano per avere relazioni di attaccamento soddisfacenti” 53. Questa concezione può essere di per-tinenza del sistema cervello oppure, a seconda dei casi, dell’Io a cui il procedurale – teoricamente e clinicamente – si deve riferire: a questo livello è concepibile, perché no!, una terapia bottom-up che possa “atte-nuare le perdite funzionali” causate per esempio dal decorso della schi-zofrenia 54. Si tratta di terapie di cognitive remediation le quali, partendo dai risultati sperimentali che evidenziano un certo deficit nella working memory dei pazienti schizofrenici, mettono in atto una serie di sedute addestrative che migliorano tali facoltà implicite.Qualora fosse il procedurale a cambiare, cioè per apprendimento, sareb-be di nessun interesse ai fini della cura della soggettività. Tali appren-dimenti si producono con tecniche addestrative o anche di Human Resource and Development e di Empowerment; ora, poiché una prassi di cura della soggettività deve avere il suo riferimento nell’etica 55 e non certo nell’estetica, non vedremmo la ragione di continuare a tirar su la Sagrada Familia del corpus teorico delle talking therapy, quando è suffi-ciente una piccola porzione per avere l’effetto salvifico dell’indulgenza.Se, comunque, ci volessimo situare al livello dei processi impliciti, dovremmo, anche qui, evidenziare, come fa lo stesso Rizzolatti, che “la cosa interessante circa la scoperta dei neuroni specchio 56 è che essi sono stati osservati in un’area cerebrale dei primati che sembra essere corri-spondente all’area di Broca negli esseri umani” 57. Negli esseri umani,
53. C. Albasi, Attaccamenti traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati, Utet, Torino.54. R. A. Adcock, C. Dale, M. Fisher, S. Aldebot, A. Genevsky, G. V. Simpson, S. Nagarajan, S. Vinogradov, When top-down meets bottom-up: auditory training enhances verbal memory in schizophrenia, Schizophr. Bull. Nov.; 35(6):1132-41.55. J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994. Il termine va qui inteso nel senso “dell’apporto specifico della rivoluzione freudiana riguardo il rapporto dell’azione con il desiderio che la abita; desiderio che comporta la dimensione dell’Inconscio”.56. Non a caso altro cavallo di battaglia della scuola dell’implicito.57. E. Kohler, C. Keysers, M. A. Umiltà, L. Fogassi, V. Gallese, G. Rizzolatti (2002), Hea-ring sounds, understanding actions: action representation in mirror neurons in Science, Aug. 2; 297(5582):846-8.
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l’attività dei cosiddetti neuroni specchio è cioè senz’altro da collegarsi al linguaggio 58.Per concludere, affermiamo che è a partire dalla macroemergenza lingui-stica che possiamo addentrarci nella comprensione dei processi peculiari che osserviamo nell’essere umano. È a questo livello che possiamo comin-ciare a parlare di soggetto Sapiens che si distingue dal soggetto Canis per la non presenza a sé e dal soggetto Koko – merita almeno la parola del nome la gorilla famosa per il suo utilizzo del linguaggio dei segni che fu vista riconoscersi allo specchio – per un abbozzo di presenza a sé.Dunque, si arriva al cuore dell’esperienza umana solo se la si legge nel suo statuto simbolico.
il soggetto sapiens
Sappiamo che ogni sistema complesso si costituisce attraverso lo svilup-po di regolarità nell’interazione con l’ambiente. Questo processo auto-eco-regolativo, il couplage di Varela, negli esseri viventi appare dotato dello scopo di stare-al-mondo. Nell’uomo il linguaggio pesa in maniera determinante in questa interazione e, al livello psichico, costituisce la sua dimensione soggettuale. Questo processo che avviene per la media-zione linguistica produce l’esilio dell’uomo dalla coincidenza con se stesso e con il mondo e, correlativamente, la possibilità di una presenza a se stesso: “è nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto” 59. A differenza delle altre specie viventi, si può ritrovare non solo osservatore di sé ma anche narratore di ciò che – noi lo sappiamo ma il soggetto che prendiamo in cura spesso no – nell’ambiente in cui è venuto al mondo egli stesso ha co-costruito. Le
58. G. Buccino, F. Binkofski, G. R. Fink, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, R. J. Seitz, K. Zilles, G. Rizzolatti, H. J. Freund, Action observation activates premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study in Eur. J. Neurosc., Jan.; 13(2):400-4.59. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Trad. it. Milano, Saggiatore 1994.
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regolarità che costituiscono il suo essere-al-mondo, però, gli risultano intemporali, impersonali e incantatorie: eludono questa “responsabilità” agli occhi del soggetto stesso. Tant’è che ciascuno afferma la supposta oggettività, “cosità” della sua propria articolazione fantasmatica: il mondo, gli altri, il sintomo sembrano dati. D’altronde, questa “resisten-za” è comprensibile: infatti, cosa troverebbe il soggetto sapiens dietro il suo aver articolato queste regolarità, questo couplage? Il vero sé di Win-nicott? L’autenticità di Rogers? Sartre afferma che l’essere umano è a se stesso insufficiente in quanto non può essere se stesso ma solo presenza a se stesso 60. La visione del filosofo trova una ragione logica nel mate-matico: la dimostrazione di Gödel dell’incompletezza dell’aritmetica – e quindi di ogni linguaggio di cui la matematica è, in un certo modo, il compimento – colloca l’uomo nell’unico luogo possibile per un soggetto parlante che è solo la presenza a sé 61. Al di qua e al di là di questa pre-senza, per l’uomo, non c’è niente 62: nel senso che vi è una realtà incom-mensurabile se non per quella presa parziale dell’ordine simbolico. Ciò istituisce nell’esistenza umana una “mancanza” insita e correlativa alla
60. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991.61. Un’altra conseguenza che vogliamo trarre dalla straordinaria opera di Gödel riguarda il rapporto mente-cervello e va a corroborare la tesi di una diversità di dominio. La dimostrazione è indiretta: R. Penrose, La Mente Nuova dell’Imperatore, Rizzoli Ed., Milano 2000; sostiene che a causa della dimostrazione di incompletezza viene vanificata ogni ipotesi computazionale della mente; e poiché parte dall’ipotesi della assoluta coincidenza fra mente e cervello ne deduce che nel sistema nervoso vi devono essere fenomeni di tipo non meccanicistico, quali sono quelli quantistici. In effetti, a partire dall’ipotesi della coincidenza fra mente e cervello non vedremmo neanche noi altra via d’uscita. Recentemente, però, M. Tegmark, “The importance of quantum decoherence in brain processes”, in E. Physical Review, Vol 61:4194-4206, 2000, ha dimostrato che la scala di tempo di attivazione ed eccitazione di un neurone (nelle sinapsi è di 10−1 e nei microtubuli è di 10−3) è enormemente più bassa di quella dei fenomeni quantistici (da 10−13 a 10−20). Confutata l’ipotesi quantistica, non resta che l’ipotesi della complessità linguistica che qui tentiamo di dimostrare. Ad ogni modo, per rispetto della cautela che portò Gödel a non trarre mai dai suoi teoremi delle conclusioni sulla filosofia della mente, bisogna ricordare che una teoria non è nient’altro che un insieme di proposizioni sistematizzate in costruzioni razio-nalizzate e altamente sviluppate, che hanno un notevole grado di coerenza interna, una volta ammessi gli assunti di base: questa è anche la definizione di delirio data da Frazier: S. H. Frazier e A. C. Carr, Introduction to Psychopathology, Jason Aronson, New York, citato in R. Goldestein, Incompletezza. La dimostrazione e il paradosso di Kurt Gödel, Codice ed., Torino 2006.62. J.-A. Miller, Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997.
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soggettualità: non è mancanza degli altri, non è mancanza causata dagli altri, bensì è l’insufficienza dell’ordine simbolico a ricoprire interamen-te il reale, è l’effetto di quel ritaglio simbolico che produce il soggetto e di conseguenza la possibilità della presenza a sé. D’altronde se l’uomo può, in una certa misura, essere libero è proprio a causa di questo suo ergersi su di un piedistallo sospeso sul nulla.Tale organizzazione ad essere nel linguaggio si costituisce nel e costitui-sce il paradosso fra soggettività strutturata-strutturante e incompletezza; fra ripetizione del couplage e possibilità di un cambiamento; fra libertà condizionata e nulla. Il cambiamento e la soggettività, che è invenzione di una singolarità, possono darsi solo grazie al nulla su cui poggiano, a quella libertà sartriana che può esistere solo in quanto “scelta” – tra virgolette perché inconscia – di una strutturazione significante che chiamiamo soggetto. All’interno di questa organizzazione singolare, pos-siamo definire l’inconscio come la struttura stessa del soggetto: che va senz’altro distinto dall’io, parte immaginaria frutto e motore dei processi identificativi – compresi pertanto quelli empatici, le specularità “infanti-li”, la reciprocità non-verbale e così via. È vero, come affermò Meyerhold, che “le parole non dicono tutto” 63: il problema è che non c’è altro modo di dirlo; e la soggettualità del Sapiens nasce dall’essere detto e con il dire.Se ci riferiamo al non-linguistico nella sua “cosità” esso non esiste per l’uomo; se esso esiste per l’uomo vuol dire che si presenta e si articola nella sua propria struttura. La cosa, nel suo essere irriducibile alterità, può essere solo lambita dal linguaggio che diventa così unico mare in cui l’uomo naviga, ma lo stesso unico mare che può lambire le fatidiche ed impossibili sirene, che nel mito non si possono avvicinare se non nel fran-gersi contro gli scogli dell’ultimo momento. Come ha affermato Heideg-ger “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo” 64. E se, come aggiunge l’ultimo filosofo, i pensatori ed i poeti sono i custo-
63. V. Meyerhold, La Rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 2001.64. M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995.
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di di questa dimora, noi diremo che lo psicoterapeuta ne è il domestico.Infine, è grazie alla centralità attribuita al linguaggio e sulla base della complessità che esso genera, che possiamo pensare il conscio e l’incon-scio come fenomeni emergenti ed indagare la peculiarità di altri feno-meni che osserviamo nella soggettualità del Sapiens.
la sofferenza, peculiarità del soggetto sapiens
Fra i fenomeni che risiedono nella pertinenza della soggettualità dell’uomo vi è quello della sofferenza – cosa ben diversa dal dolore che pertiene al reale 65 – che scegliamo fra gli altri perché è ciò con cui comunemente si dice abbia a che fare la nostra professione; e i nostri clienti, infatti, sono chiamati pazienti – coloro che soffrono. Le talking therapy, difatti, nascono per occuparsi della sofferenza soggettiva, della sofferenza del soggetto. Sofferenza che deriva:– dal sintomo (a);– da una qualche falla nell’abbinamento con il mondo (b);– da eventi esogeni (ambiente esterno o interno) (c);– dalla condizione esistenziale stessa dell’uomo (d).L’ultima è la più importante, in quanto è con essa che la psicoterapia deve fare i conti ed è solo a partire da essa che le prassi di cura dello psichico sono terapeutiche: infatti l’esistenza dell’uomo dipende dagli effetti isti-tuiti dal linguaggio. Se, riprendendo i punti precedenti, rispettivamente:– i sintomi si risolvono;– il couplage può essere “ricamato” e alla fine di una cura “attraversato” 66,
65. Il dolore inerisce la coscienza sensoriale, in quanto conseguenza di uno stimolo potenzial-mente nocivo per la sopravvivenza dell’organismo: la sofferenza umana che ogni clinico “psi” osserva e cura quotidianamente quasi sempre non ha nulla a che fare con una reale minaccia alla sopravvivenza. Inoltre, se non si ponesse questa distinzione si dovrebbe sostenere che gli altri animali, compresi i primati superiori, non provano dolore, come fa Macphail (E. M. Macphail, The Evolution of Consciousness, cit.).66. J.-A Miller, Logiche della vita amorosa, cit..
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– le ripercussioni psichiche di un lutto (evento esterno) o di una malat-tia organica (evento interno) possono essere elaborate,
– è solo perché anche essi sono effetti di linguaggio e dunque i punti (a), (b) e (c) possono e devono essere inscritti in (d).
Per questo possiamo affermare che, se queste sono le dimensioni di cui si può occupare la psicoterapia, essa, in ultima analisi, non si occupa diret-tamente di sofferenza bensì della soggettualità e delle sue conseguenze.
l’interazione fra soggetti
A partire dallo statuto simbolico della soggettualità umana, dob-biamo affermare che la relazione tra uomini è un luogo di cata-strofe, che costituisce una voragine dell’esperienza per tre motivi. Il primo è che, a causa della macroemergenza linguistica, il rapporto con il reale perduto va incontro ad una necessaria mediazione fan-tasmatica, quella del couplage, in cui non c’è una corrispondenza comunicativa data, diretta. Il secondo è che essendo il soggetto della coscienza diviso da quello dell’inconscio, ciascuno non sa ciò che dice all’interlocutore e viceversa. Il terzo è che ogni sog-getto legge il mondo a partire dal suo proprio couplage rendendo in tal modo la componente proiettiva e reiterativa determinante e pressoché inconscia – nei termini della complessità detta autopo-iesi sistemica. Quest’ultimo fenomeno è stato osservato e descritto nelle diverse discipline che studiano il mentale anche se, dietro le diverse denominazioni, vi sono concettualizzazioni molto dif-ferenti, alcune delle quali più complesse ed esaustive delle altre.Dunque, l’occhio di molti studiosi è caduto sullo stesso oggetto: l’esi-stenza di una struttura stabile di abbinamento con il mondo, frutto delle interazioni storiche del soggetto – in particolar modo quelle più precoci – e al contempo sua singolare costruzione costituitasi nell’in-tersoggettività e, da lì in poi, determinante l’intersoggettività. Se
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Freud ha colto nell’apparato psichico la tendenza ad una ripetizione 67, altri dopo di lui ne hanno descritto diffusamente aspetti e mecca-nismi. Citiamo, in ordine cronologico, alcune delle maggiori o più conosciute concettualizzazioni: il fantasma di Lacan (Miller, ibidem); i modelli operativi interni (Bowlby, ibidem); gli schemi concettuali (Neisser 68); il relationship theme (Luborsky 69); i modelli predittivi (Rosen 70); le interazioni ripetute generalizzate (Stern 71); le scene modello e l’organizzazione motivazionale (Lichtenberg 72); lo schema di couplage (Varela, ibidem); le immagini mentali (Edelman, ibidem).Questo eterogeneo elenco, in sostanza, rimanda al riconoscimento di uno schema nella relazione con il mondo, a partire dal quale ogni atto umano si definisce nell’intenzionalità che gli è propria: difatti, per quanto non-finito, ogni atto umano è sicuramente de-finito da questa intenzionalità inconscia.Tale soggettualità-in-interazione, costituitasi dunque come struttura, insiste nel luogo in cui si è formata che è l’individuo. In quanto strut-tura ha una sua fisionomia, una certa coerenza fra i suoi elementi e, qualunque sia il grado di coerenza, una relazione fra tutti i suoi elementi – comprendendo non-relazione, incoerenza, divergenza. Per questa ragione è possibile scoprire la struttura psichica e le sue fun-zionalità attraverso un’analisi retrospettiva – nel nostro caso diciamo anamnestica.Una volta costituitasi nei periodi sensibili dello sviluppo, la sogget-tualità-in-interazione preesiste, in maniera relativamente stabile, alle future relazioni per una naturale inerzia sistemica – possiamo dire
67. S. Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare, in Opere, cit., vol. VII, pp. 355-56.68. U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna 1981.69. L. Luborsky, “Measuring a pervasive psychic structure in psychotherapy: The core conflic-tual relationship theme”, in Freedman e Grand (a cura di), Communicative structures and psychic structures,), Plenum Press, New York 1997, pp. 367-95.70. R. Rosen, Anticipatory Systems: Philosophical, Mathematical and Methodological Foundations, Pergamon Press, Oxford 1985.71. D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino 1987.72. J. D. Lichtenberg, Psicoanalisi e sistemi motivazionali, Cortina Raffaello, Milano 1995.
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identitaria, funzionale: nell’incontro con un’altra soggettualità-in-interazione si combinerà come possibile, a partire dalle rispettive modalità strutturali, data per assodata la tendenza a ripetere, affer-mare ciascuna se stessa 73. La relazione sarà complicata o, meglio, co-implicata – volendo evidenziare che l’articolazione fra i due soggetti si produrrà per mezzo delle parti nascoste, delle intenzionalità inconsce.Nel caso di due adulti, allora, la relazione darà come risultato un sistema basato sul couplage di entrambi, i cui modi dipenderanno dalle possibili combinazioni inconsce dei partecipanti: l’intersogget-tività, propriamente decifrabile, esplicabile attraverso la cifra dell’In-conscio, si presenterà, ad ogni modo, come un’intenzionalità che inviluppa il soggetto-altro.Nel caso particolare della relazione bambino-caregiver vi è un vettore diseguale di influenza: la soggettualità in fieri del neonato, sistema complesso, si auto-organizzerà in modo del tutto singolare ma a par-tire dai “mattoni significanti” di quell’ambiente. Come dire che, per esempio, di un dado possono uscire solo quelle facce che quell’am-biente culturale pre-dispone ma quale sarà la faccia o, meglio, l’esatta successione delle facce ai diversi lanci è impossibile saperlo previsio-nalmente. Allo stesso modo, quel bambino a partire da quei precisi e precipui elementi ambientali si auto-organizzerà in una singolarità portatrice di una originalità.
artificio e dissimmetria del dispositivo psicoterapico
In questa sede siamo interessati ad una interazione fra esseri umani di tipo particolare, un artefatto abbastanza recente, anche se evidenze del suo precedente utilizzo sono rintracciabili sin dalle epoche più antiche 74.
73. M. Minolli, Studi di Psicoterapia Psicoanalitica, Edizioni Centro Diffusione Psicologia, Genova 1993.74. Si pensi ad un esempio che riporta Freud, relativo ad Alessandro Magno: l’imperatore,
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L’interazione fra terapeuta e paziente è, come ogni altra, co-implicata ma in più è artificiale, prodotta ad arte. Per entrambi questi motivi non è complessa e, soprattutto, non lo è per l’assenza di numerosissimi agenti e correlative interazioni. D’altronde è un bene che sia così, poiché gli agenti di un sistema complesso non sanno – in senso stretto non possono e non devono – del sistema cui appartengono ma ne accusano gli effetti. Quan-do ne sanno, afferma Deneubourg, non si può parlare in senso stretto di auto-organizzazione, quanto piuttosto di organizzazione 75. Lo scien-ziato – che si occupa della complessità delle società di insetti – nota che quando ci troviamo di fronte a comportamenti determinati da pattern cognitivi bisogna porre dei necessari distinguo rispetto alla magia dell’au-to-organizzazione, pena un’inutile complicazione teorica e un miscono-scimento della logica propria di quel sistema. Se vi sono dei template, vale a dire schemi cognitivi di organizzazione, il sistema frutto dell’in-terazione non risulterà da una dinamica non-lineare tra diversi elementi, ma corrisponderà a una struttura preesistente che non siamo in grado di vedere immediatamente – come, nel nostro caso, l’inconscio. È l’incon-scio che organizza il campo e, dunque, non vi è auto-organizzazione.In quest’ottica, il dispositivo psicoterapico è un artificio che ha lo scopo di produrre un campo organizzato dall’inconscio del paziente in modo che si possa riaprire il processo di couplage – nei nostri termini diremmo di risignificazione. Ciò può avvenire anche in natura, ma l’artificio del dispositivo deve essere costruito perché ciò sia programmatico: come fare?Dicevamo che è nella mancanza la condizione di libertà dell’uomo: bisognerà allora presentificarla, renderla operativa. Innanzitutto il soggetto-della-cura si trova di fronte ad un altro che egli suppone por-
mentre assediava la città di Tiro, nel 332 a.C. sognò un satiro che danzava su uno scudo; inter-rogò un interprete di sogni il quale gli disse che il satiro in realtà stava per sa Tyros che in greco significa “Tiro è tua”. Dopo alcuni giorni, Alessandro Magno entrò in Tiro. Freud scrive che fu un’ottima interpretazione. Anche Socrate utilizzò questo particolare tipo di interazione, J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il transfert, Einaudi, Torino 2008.75. J. L. Deneubourg, “Emergenza e insetti sociali” in Réda Benkirane (a cura di), La teoria della complessità, cit..
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tatore di un sapere da lui non conosciuto 76. Se da un lato è vero che il terapeuta possiede un sapere, successivamente il soggetto-della-cura scoprirà che l’Inconscio è detentore del suo singolare sapere e che lo stesso soggetto può prendersi la responsabilità nella cura del suo proprio Inconscio. La proficua credenza del soggetto-della-cura di trovarsi di fronte ad un soggetto-che-sa costituisce la prima, fondamentale, dis-simmetria che porta al transfert. A questo punto, con grande intensità, il paziente non può far altro che implementare inconsciamente il suo couplage anche con questo “estraneo”.Una seconda dissimmetria si aggiunge in quanto il terapeuta fa in modo che sia la struttura del paziente a dispiegarsi prepotentemente nella relazione stessa: gli elementi di disclosure o enactment con cui si entusiasmano soprattutto i colleghi d’oltreoceano, frutto della soggetti-vità del terapeuta, sono elementi che partecipano certamente alla strut-turazione del campo intersoggettivo ed il terapeuta deve tenerne conto – è da postulare che egli abbia portato avanti un percorso di cura perso-nale che gli fornisca gli strumenti per riconoscere tali dinamiche. Ma la decisione di far partecipare la soggettività del terapeuta in modo pieno e programmatico non potrebbe far altro che dispiegare un processo fon-damentalmente basato su identificazioni e contro-identificazioni, cosa che non andrebbe a toccare le fondamenta del couplage del paziente ma porterebbe solo a dei suoi aggiustamenti, producendo – come siamo abi-tuati ad osservare in quasi tutte le prassi psicoterapiche – quegli sposta-menti iniziali del sintomo o la sua parziale remissione – fenomeni certo non negativi ma tutt’altro che risolutivi. Questo tipo di relazione, più naturale – nel senso di ordinaria nelle consuete relazioni interpersonali – è capace al massimo di realizzare un riconoscimento – il luogo della stasi hegeliana – in cui dovremmo sperare esserci, ragionando per assur-do, un terapeuta non “supposto sapere” ma “realmente sapiente” – come
76. J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003.
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accade più o meno frequentemente che gli psicoterapeuti siano – che possa in tal modo “aggiungere” qualcosa alla soggettività del paziente.In sostanza, con un approccio basato sul gioco immaginario della recipro-cità – in cui il paziente si muove attraverso identificazioni e apprendimen-ti, cioè nel gioco egoico – è possibile soltanto ottenere un contenimento sintomatologico, attraverso un migliore adattamento, cioè sulla base di una normalizzazione ai valori socio-culturali dominanti: per Renik, il cui discorso ruota attorno al beneficio sintomatico 77, le linee guida del processo psicoterapico sono imperniate sull’utilità, con una chiara impostazione pragmatica, non a caso eminenti espressioni dello spirito statunitense. Con questo, non vogliamo affatto denigrare gli approcci di cura dell’io: la pet-therapy, ad esempio, funziona molto bene in tutti quei soggetti in cui l’io va supportato, puntellato, corroborato in funzioni deficitarie o “aggiunto” di parti mancanti – abilità, informazioni.La diade psicoanalitica, dunque, non costituisce un sistema complesso. E se lo fosse, dovremmo pre-occuparci di come semplificare 78 per poter agire in via professionale, in quanto in un sistema complesso perderemmo qualsiasi senso e possibilità di espletare una qualsivoglia direzione della cura. Si tratterebbe infatti di un processo completamente spontaneo, se non caotico, indotto da quella particolare dinamica sistemica in cui, per giunta, l’intenzionalità degli agenti sarebbe esclusa al livello degli effetti di sistema. Né il terapeuta né tantomeno il paziente potrebbero avere voce in capitolo. Sarebbero oggetti e ostaggi delle dinamiche di complessità e addio soggetto. La gioiosa credenza che la relazione paziente-terapeuta sia “auto-organizzante e complessa” (come sostenuto da Seligman 79) sembra
77. O. Renik, Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti, Cortina Raffaello, Milano 2007.78. Anche in presenza di complessità, si ricorre spesso all’ipotesi di linearità per finalità applica-tive. In questo modo, si costruiscono modelli lineari approssimati in modo tale che gli effetti di non-linearità siano trascurabili: tale procedimento si chiama linearizzazione. Per esempio tutti gli amplificatori audio sono non-lineari ma, entro certi limiti di frequenza, al fine di utilizzare i più semplici, come i più sofisticati, impianti hi-fi presenti nelle nostre case, con alcuni accorgi-menti tecnologici, si fa in modo che esso si comporti in modo lineare.79. S. Seligman, Le Teorie dei Sistemi Complessi come meta-inquadramento della Psicoanalisi. Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:309-346, 2007.
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derivare dalla sottovalutazione o dal misconoscimento dell’Inconscio e quindi dell’intenzionalità inconscia che informa ogni scambio relazionale – sempre puntuale, precisa, ripetitiva, incurante non solo del tempo ma anche dei contesti se non per richiamarne precostituiti nessi.Stessa sorte di negligente abbandono sta subendo un altro fenomeno: il Transfert. A questo proposito il discorso stesso ci porta dalla dissim-metria alla mésaillance freudiana. Fenomeno grazie al quale, nella prassi psicoterapica, il fra-intendimento costitutivo di ogni intersoggettività viene sfruttato e potenziato in modo che da un lato sia l’inconscio del paziente a dispiegarsi in maniera preponderante; dall’altro perché sia il motore della cura stessa.Queste dissimmetrie – in parte vere, in parte immaginarie – permet-tono la messa in moto di una particolare modalità del couplage che, seguendo Maturana (1980), chiameremo ricorsività: mentre nella ripe-tizione una data operazione è realizzata di nuovo indipendentemente dalle conseguenze della sua precedente realizzazione, la ricorsività com-porta la possibilità che la struttura tenga conto di una nuova informa-zione; che possa, nei nostri termini, risignificarsi.In conclusione, la relazione di cura è artificiale e dissimmetrica – basata sul transfert. È realmente efficace nell’unico universo accessibile all’uo-mo – di conseguenza unico universo nel quale si può incontrarlo – che è quello del linguaggio delle società umane, dove si articola e si dispiega la dimensione soggettuale – conscia ed inconscia.
concludendo
L’utilizzo del paradigma del PdC permette una chiara comprensione della peculiarità del mentale umano e fornisce un modello esaustivo della sua nascita. Inoltre, indicando la via d’accesso alla sua comprensio-ne, permette anche di tracciare alcune coordinate metodologiche della clinica. La chiave di volta, sia nella caratterizzazione del mentale umano
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che nella comprensione di una prassi di cura che ha ormai un secolo, risiede nel linguaggio. Da ciò scaturiscono una serie di conseguenze teorico-cliniche che, pur essendone una logica derivazione, mettono in secondo piano la cornice epistemologica per giungere ad osservare de visus gli oggetti di cui ci occupiamo: il soggetto umano, l’interazione, l’inconscio, la cura, il transfert, il cambiamento, la sofferenza.Il fascino dell’aldilà del linguaggio, come la formidabile seduzione del riconoscimento, della smodata gioia che procura, sono tutti fattori che influenzano le teorizzazioni recenti, segno di quella mancanza ad essere che il linguaggio presentifica. In nome di una supposta scientificità – in realtà dell’idolatria dell’empiria che senza le giuste domande è come il bimbo di Salomone per cui ciascuno crede di poter rivendicare la sua parte – si assiste alla riduzione della psiche alle dinamiche cerebrali – a volte persino di roditori – sancendo il ritorno ad un tipo di scienza immaginaria, come quella medioevale della corrispondenza alchemica fra microcosmo e macrocosmo 80, ma con minor ricchezza e profondità di visione. Lo studio delle complessità oggi rende noto che le miriadi di oggetti del nostro universo condividono delle forme ma, parimenti, che, nei diversi domini, ogni sistema o gruppo di sistemi lavora secondo leggi anche molto diverse.L’applicazione indebita o superficiale di modelli e concetti mutuati da altri ambiti porta inevitabilmente ad un poderoso impoverimento della comprensione dell’essere umano e, probabilmente, ad una perdita di effi-cacia della clinica. Miguel Virasoro, parlando di analoghi problemi che incontra nel suo campo che è la fisica teorica, ha affermato che “al massi-mo possiamo dire che i paradigmi trovati per certi sistemi complessi pos-sono aiutarci ad affrontarne altri. Nulla di più. Per il resto sembra quasi la ricerca di metafore vincenti, più che un serio lavoro di ricerca” 81. Il suo collega Riccardo Zecchina, esponente di punta della scuola dei “com-
80. “Quod est inferius, est sicut quod est superius”, si legge nella Tabula Smaragdina.81. Da un’intervista di Fabio Pagan sul quotidiano “Il Piccolo” del 3 giugno 2003, consultabile all’in-dirizzo internet: http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2003/06/03/NZ_23_PAG1.html.
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plessologi” triestini, ha affermato, parimenti, che l’utilizzo totalizzante del PdC, come è stato nell’approccio di Prigogine, “appare oggi utopisti-co e paradossalmente poco interdisciplinare. (Prigogine) voleva ridurre tutti i sistemi complessi ad un unico schema, ma senza successo” 82.Nell’ambito della teoria e della tecnica delle talking therapy il pericolo è quello di seguire la moda attuale abdicando ad una seria ricerca del funzionamento della psiche; così fu la tendenza ai tempi di Mach 83 ad interpretare la dinamica sostanziale di ogni oggetto in termini di energia – concetto allora nuovo, affascinante, molteplice e in apparenza toti-esplicativo – e pertanto fumoso – come la complessità oggi.In sostanza, uno psicoterapeuta con gli occhiali di una epistemologia della complessità e basta, ha degli occhiali eccellenti in una stanza buia: non è elegante forzare troppo la metafora, ma possiamo aggiungere che la stanza è buia, gli occhiali sono quelli giusti, ci servono allora delle buone orecchie – noi crediamo quelle che da Freud fino ad ora abbiamo sempre utilizzato: quelle sintonizzate sull’inconscio.Abbiamo utilizzato il PdC per descrivere le condizioni di possibilità dello psichico; e, quindi, di una correlativa prassi di cura, formalmente inven-tata nel secolo scorso da Freud. Crediamo, così facendo, di aver evitato sia riduzionismi che olismi e di aver chiarito l’ambito di pertinenza di ogni talking cure – di conseguenza il suo rapporto con le altre discipline.Se vogliamo spingerci ancora più in là, ancora più a fondo; se desideria-mo davvero capire l’essere dell’essere umano, tuffiamoci non solo nella letteratura psicoanalitica ma anche, come afferma Morin ne “la lette-ratura, la musica, il cinema (che) sono ottime lenti per capire in modo corretto la complessità umana. La complessità umana si trova in Balzac, Proust, Dostoevskij” 84, Borges.È per questa via che la talking cure è possibile e che può denunciare gli effetti terapeutici che produce.
82. Ibidem.83. P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana, cit..84. E. Morin, Il complesso, ciò che è tessuto insieme in Réda Benkirane (a cura di), La teoria della complessità, cit..
let ture
parte set tima
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maurizio mazzottiProspettive di psicoanalisi lacanianaBorla, Roma 2009
di Carmelo Licitra Rosa * 1
Il lavoro di Maurizio Mazzotti si impone all’attenzione per la sua agili-tà, la sua chiarezza e la sua efficacia.Queste tre caratteristiche sono la risultante di uno stile di ricerca e di scrittura che non perde mai di vista uno degli scopi fondamentali dell’impegno teorico in psicoanalisi, ovvero la trasmissione dell’inse-gnamento psicoanalitico. Nel caso specifico penso si possa dire che questa trasmissione si rivolga in pari misura ad un pubblico avvertito – ossia più o meno addentro alle tematiche psicoanalitiche – così come ad un pubblico per così dire profano, purché animato da un minimo di curiosità intellettuale.È certamente dalla ferma tenuta di questo intento che è alimentata la tensione argomentativa che attraversa da cima a fondo tutta la tratta-zione. Tensione in cui è certamente ravvisabile una passione soggettiva dell’autore, analista di lunga esperienza e già presidente della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, che in questo volume condensa il suo lavoro e la sua esperienza pluriennali. Ogni articolo è infatti costruito attra-verso la connessione di elementi teorici precisi, previamente isolati e ritagliati in modo da dissipare qualsiasi confusione o approssimazione. Successivamente ognuno di loro è esplorato grazie a un uso sapiente delle risorse linguistiche che, con una semplicità non disgiunta dall’in-cisività, sanno contornare, circoscrivere il profilo del concetto con un effetto esplicativo sempre molto calibrato, tale cioè da condurre il let-
* Carmelo Licitra Rosa, A.E., medico, psichiatra, membro SLP, docente dell’Istituto Freudiano, iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Roma.
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tore alla soddisfazione della comprensione in modo naturale, diretto: se mi si permette l’accostamento, direi che la lettura risulta proprio una Dolce salita, come suggerito dal felice titolo del dipinto di Kandinskij, che campeggia nella copertina. Infine i singoli elementi sono conca-tenati fra di loro in modo serrato, secondo delle linee argomentative sempre molto rigorose e convincenti.Non è poi affatto secondario che il piano meramente dottrinale sia sem-pre sostenuto da ciò che costituisce in ultima istanza la sola piattaforma su cui può erigersi un’elaborazione psicoanalitica degna di questo nome, ovvero il dato clinico, esemplificato in frammenti di notevole impatto e forte suggestione. Se infatti l’elaborazione psicoanalitica smarrisce l’ancoraggio della clinica è sempre a rischio di scivolare verso una specu-lazione filosofica, dagli esiti malcerti e discutibili.Il volume è diviso in tre parti. La prima raccoglie tre contributi che ruo-tano intorno alla seduta psicoanalitica lacaniana. Nel primo contributo è possibile cogliere nitidamente come la logica della seduta lacaniana, in completa rottura con ogni standard, presupponga la riformulazione dell’inconscio a partire dal transfert, ovvero a partire dall’immistione della temporalità, nonché la definizione del futuro anteriore come tempo vivente del soggetto e del “voler essere” dell’inconscio. Il secondo contri-buto riunisce diversi spunti: la differenza tra il non agire e la neutralità; l’opposizione fra tempo scandito e tempo misurato; una rassegna dei poteri della parola attraverso il fondamentale riferimento ai lavori di René Daumal, a cui sono riportabili le risonanze dell’interpretazione e l’evocazione della parola, quali sono reperibili in Funzione e Campo di Lacan; una limpida articolazione della celebre dialettica padrone-schia-vo, secondo la torsione speciale che Lacan le imprime rispetto all’origina-le versione di Hegel, evidenziando la luce potente che essa proietta sulla clinica delle nevrosi; la pratica zen ed il risveglio provocato dall’impatto del reale. Il tutto sfocia in una differenziazione puntuale, e di inusuale lucidità, fra seduta variabile e seduta breve. I due esempi clinici di doci-lità e di indocilità alla seduta breve, che vengono presentati con uno
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stile accattivante nel terzo contributo, mostrano bene come la pratica dell’analista lacaniano non risponda ad alcun protocollo tecnico prefis-sato, ma si pieghi ogni volta al particolare della logica del singolo caso.Davvero notevole è poi la seconda parte, intitolata “Clinica e formazio-ne dello psicoanalista”. Si segnalano il capitolo quarto, in cui si mette a fuoco molto nitidamente la differenza tra la sofferenza/soddisfacimento primario del sintomo e il più di soddisfazione implicato dal tornaconto secondario; il capitolo quinto, in cui è delineata un’efficace sintesi della teoria dell’angoscia; il capitolo sesto, in cui la tematica della depressio-ne viene inquadrata alla luce di alcuni penetranti spunti psicoanalitici, primo fra tutti quello del lutto, con un guadagno dottrinale e clinico di grande pregnanza rispetto alla piattezza della prospettiva psichiatrica dominante. Di particolare rilievo è il capitolo ottavo, che permette una comparazione efficace fra l’insegnamento di Lacan e la Teoria del sé, assumendo come perno un famoso caso di Kohut. Il capitolo settimo svolge una critica molto pertinente alla clinica degli standard, il nono illustra la ratio della supervisione analitica, mentre il decimo mette in rilievo lo stretto rapporto che per ogni analista si istituisce tra la propria formazione e la Scuola come orizzonte.Decisamente appassionanti il capitolo undici e il capitolo dodici, il primo per l’analisi inedita condotta sull’opera di Basaglia, il secondo per una dotta ricostruzione dei rapporti del giovane Lacan con l’am-biente psichiatrico della prima metà del Novecento, ricco di fermenti e di spunti che si ritroveranno poi, debitamente rielaborati e rimaneggia-ti, nelle sue posizioni più mature.Chiudono la raccolta il capitolo tredici, che sulla scorta di una puntuale differenza fra scienza e scientismo, illustra bene la convergenza della psicoanalisi con la scienza e il suo parallelo conflitto con lo scientismo; e infine il capitolo quattordici che, traendo spunto da un episodio inscrivibile nel contesto delle sfide etiche contemporanee, ha il merito di dimostrare come la psicoanalisi sia in grado di interloquire con la più viva attualità sociale e culturale, senza rischio di obsolescenza.
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Sono pertanto sicuro che questo libro concorrerà in maniera decisiva, soprattutto per il taglio clinico da cui è sostenuta l’elaborazione, a contestare e smentire l’idea peregrina, ciclicamente riesumata, che la psicoanalisi appartenga al retaggio dell’età vittoriana, e ad avvalorare invece la convinzione che essa, viva più che mai, si qualifica come soli-da interlocutrice della contemporaneità nelle sue impasses e nelle sue laceranti contraddizioni.
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chiara cretella e alessandro russo (a cura di)Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo socialeCLUEB, Bologna, 2009
di Alide Tassinari
Il testo raccoglie i contributi di otto specialisti operanti in campi diffe-renti: sociologia, psichiatria, psicoanalisi, economia e problemi militari, presentati nel corso di Sociologia Generale con il titolo “Tipi sociali e singolarità soggettive”, della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.Le conferenze rivolte a studenti, nel luogo del sapere esposto, nella loro concisione, favoriscono una apertura verso una posizione soggettiva rispetto alla conoscenza. Gli studenti sono sollecitati a confrontarsi con ciò che nel mondo può essere conosciuto, conoscenza sempre al limite della verità, attraverso l’ambiguità e la non specificità del codice lingui-stico di appartenenza.I curatori, Chiara Cretella e Alessandro Russo, hanno operato una tra-slazione dal corpus delle relazioni, difformi nelle loro stesure per i piani dissimili che toccano e le hanno organizzate raccogliendole sotto il bel titolo di Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale.In questo modo viene perduta – a ragione – la iniziale schematizzazione di tipi sociali, che collocava i contenuti delle relazioni su di un unico piano. Mantenere il termine tipi, utilizzato nel titolo del corso, avrebbe rimandato al significato di una qualche classificazione personalogica togliendo così spessore alle argomentazioni.Al contrario l’utilizzo dei termini corpi, soggetti, figure evidenzia l’in-treccio epistemologico di piani difformi dei saperi che si intersecano, fondando una costruzione di ciò che in una società è sempre presente: il bambino, il folle, la donna, il lavoratore, l’imprenditore, il militare e il migrante. Quest’ultimo, figura emblematica, trasversale, rappresenta in
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sé la condizione umana esiliata nella sua intima costituzione. Il migran-te raccoglie in sé tutti i soggetti: può essere un bambino, un folle, una donna, un lavoratore, un imprenditore, un militare.L’introduzione, scritta dai curatori, ha come filo conduttore la precarie-tà sociale che i corpi (sociali e individuali) patiscono in questo nostro tempo così globale e così frammentato.I curatori si richiamano allo scritto Logiques des mondes di Alain Bodiou, filosofo contemporaneo nella cui opera specifica come per la doxa odierna non ci sono altro che “corpi e linguaggi.”La psicoanalisi, quella di Lacan, concorda. Ciò che fa parvenza d’esse-re è la parvenza di cui il corpo è immagine e che patisce l’affronto di un reale del godimento, in perdita, che lo investe fin dalla nascita ad opera del linguaggio. Il linguaggio, di cui l’essere, attraverso il corpo si appropria nel lungo processo della vita, altro non è che vita parlata e, se possibile, goduta attraverso la sintomatizzazione della vita stessa. Ci appropriamo del corpo e possediamo il linguaggio in quanto viventi. Freud ha scoperto il soggetto dell’inconscio e Lacan ne ha ha svelato la struttura: l’essere umano, più parlato che parlante, ha un corpo che parla attraverso i sintomi e patisce il disagio della civiltà. Quel corpo parlante, ridotto nella clinica contemporanea all’evanescenza dei com-portamenti, non più osservati come sintesi scaturita nell’incontro del soggetto con la società, è bollato come disagevole, disturbante, per-turbatore, inadeguato per il raggiungimento di un supposto benessere, ormai prescritto come unico fine. La prescrizione del ben-essere e della ricerca dell’armonia con sé stessi, con il proprio corpo e con gli altri, misconosce ciò che Freud, nel Disagio della civiltà considerava il risulta-to del compromesso necessario tra le esigenze pulsionali dell’individuo e le richieste dell’Altro. Ogni società, ogni organizzazione sociale, sot-tace il piano soggettivo; eclissa sotto la barra quel piano inconscio che costituisce la verità del soggetto e nello stesso tempo cerca di governarlo attraverso le norme e le istituzioni.È quel piano mai del tutto occultato che fa nascere ogni soggetto alie-
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nato nell’Altro e ne fomenta la separazione nella ricerca creativa di un modo soggettivo di essere nel mondo. Il soggetto trova nelle crepe e negli interstizi della doxa imperante, la possibilità di una realizzazione, uno per uno, in un percorso originale e unico per coniugare la vita e il godimento attraverso i Discorsi che costituiscono l’unico modo umano di fare legame. Infatti l’individuo è incluso nella società di appartenen-za di cui patisce le contraddizioni, accuratamente negate nella genera-lizzazione del sapere e della conoscenza coeva al soggetto stesso.Di seguito alcune parole di commento sui contributi del testo seguendo l’ordine, non casuale, dell’indice.I primi tre saggi sono di psicoanalisti e enigma è il sostantivo che li accomuna.L’inclusione dell’individuo con il corpo sociale, avviene in primis nella famiglia, costituita dalle funzioni materna e paterna. L’infans – il senza voce – figura delineata da Adriana Monselesan viene indagato nelle dimensione del corpo: godimento, immagine, corpo parlato, attraverso gli utensili teorici lacaniani: il reale, il simbolico, l’immaginario.L’ esxcurus, mettendo al centro il corpo del parlessere, si basa sulla teoria freudiana e si serve di quella lacaniana. Per la psicoanalisi, corpo infans, corporizzato dal linguaggio, non può essere ridotto né alla sua matura-zione biologica né al suo vissuto: per il parlessere non c’è fisiologia. È la scienza medica che reifica il corpo umano e riducendolo al suo funzio-namento neuronale, cerca inutilmente di sciogliere l’enigma del corpo proprio. Con Lacan si può dire che il corpo è l’espressione sinthomatica del proprio modo di legare insieme i tre registri attraverso gli eventi di corpo: modo che, nell’incontro con l’Altro, un bambino inizia a tessere, fin da subito, essendo immerso nel mondo simbolico che gli preesiste.Tutto questo processo avviene “naturalmente” a meno che un individuo non sia folle.Il folle è l’unica figura che si allontana definitivamente da una qualche forma di generalizzazione. Maurizio Mazzotti nel suo scritto ci illustra in poche e suggestive pagine l’iter attraverso il quale il folle si qualifi-
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ca come colui che è fuori da ogni discorso. Discorso come “struttura di linguaggio che va distinta dalla parola che ciascuno di noi articola individualmente e che si colloca sempre entro un discorso che orienta il significato generale della parola”. Mazzotti introduce in questo modo l’orizzonte lacaniano dei Quattro Discorsi che orienta e definisce i pos-sibili modi tra le persone di fare legame sociale. È perché siamo dentro a questo orizzonte di discorsi che non possiamo dirci folli. Il folle aven-do preclusa la metafora paterna è rimasto fuori discorso e in difficoltà con il legame sociale. Il Nome-del-Padre, metafora lacaniana che impli-ca la castrazione del godimento primario, produce, quando si instaura, una perdita imperfetta ma assicura l’apertura al desiderio e la colloca-zione del soggetto nell’ambito delle nevrosi come universo composito dei diversi stili di accettazione di tale perdita. Non così per il folle il cui delirio ha sempre la finalità di riparare, non la perdita che non è avvenuta, ma il fallimento della metafora paterna attraverso la metafora delirante. Anche quando il delirio non è espresso c’è la possibilità che, improvvisamente, in seguito a congiunture analiticamente descritte dalla clinica psicoanalitica e nel contesto di una cura, sia attivato. Ma non diventa folle chi vuole, solo chi lo era già anche se nascosto da un equilibrio precario. Gli esempi di cui l’autore si serve sono diversi per storia di vita e tra loro distanti cronologicamente: Daniel Paul Schreber, Aimée, Georg Cantor; follie enigmatiche svelate in après-coup.Il saggio di Paola Francesconi donna introduce un ulteriore enigma: quello della femminilità, luogo vuoto, che la barra sull’articolo determi-nativo presentifica e che aveva indotto Lacan a dire provocatoriamente che La donna non esiste. Paola Francesconi pone la questione di come un corpo sessuato accede al godimento e non solo a una identificazio-ne. L’identificazione per quanto inconscia si installa a livello dell’io del soggetto ma al godimento si accede tramite la sessuazione del corpo. La barra sulla rimanda a un’altra barra a quella del simbolico sulla che manca di un significante che possa dire della femminilità per quanto le donne nella loro esistenza lo cerchino. Il paradosso è che
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viene cercato nel simbolico dove al contrario c’è l’assenza. Per questo Lacan introduce la femminilità come non-tutta nel simbolico, qualcosa rimanda a un al di là. La tesi di Paola Francesconi è che una donna nel suo rapporto con l’enigma della femminilità è una identità senza attri-buto. Da questa constatazione ogni donna, per dirsi tale, deve trovare un nome che la possa dire, in una identità senza attributo, sospesa nel vuoto di significazione. Ma questo vuoto, questo mancare, secondo la tesi lacaniana porta alla possibilità per una donna di trovare un percorso ancora più originale e creativo perché le possibili variazioni sono infinite quante sono le donne che si collocano al lato destro dello schema della sessuazione elaborato da Lacan e presentato nel suo seminario Ancora.Anche il contributo di Rossella Ghigi è centrato sul corpo e sulla sua plasticità conosciuta fin dall’antichità: fin dall’origini dell’umanità il corpo viene manipolato, abbellito, martoriato, esaltato, disprezzato, velato, esposto. L’autrice descrive in questo saggio storico-sociologico le origini della chirurgia plastica oggi divenuta estetica. Ciò che stava alla base della chirugia palstica era la necessità di un rifacimento di una parte del corpo proprio teso a nascondere segni (il naso, il taglio degli occhi, le orecchie a sventola) che con la loro presenza rimandavano a appartenenze, a gruppi sociali non adeguati socialmente e vissute come inferiori; oggi non è più così dal corpo plastico si è giunti, grazie alla chirurgia, al corpo estetico. Oggi è impellente la necessità di dare una forma estetica a un corpo intero per uniformarlo a un modello di corpo ritenuto perfetto. Si cerca non più una modificazione per essere inclusi in una società e essere uguali agli altri ma una richiesta di intervento che si sostanzia di una sempre più profonda e illusoria padronanza sul corpo proprio inteso come oggetto, per essere come il modello. Un narcisismo esasperato utilizzato per contrastare le contraddizioni vissute dal soggetto in relazione alla società e per evitare di incontrare il limite di ciò che Freud con la scoperta dell’inconscio decretò essere la non padronanza assoluta con quel “nessuno è padrone a casa propria.”Gli ultimi quattro saggi: “Il lavoratore flessibile” di Valerio Romitelli,
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“L’imprenditore globale astratto” di Giorgio Gattei, “Il migrante” di Ferruccio Gambino, “Il soldato” di Fabio Mini trattano di figure socia-li e di modi con cui la società del consumo, negli ultimi decenni, ha fronteggiato i cambiamenti del mercato del lavoro. I lavoratori dell’im-menso e frammentato mercato globale, ivi compresi quei particolari lavoratori che sono i militari, sono corpi sociali inconsistenti che non riescono più a costituire corpi soggettivi collettivi. Il potere economico ha plasmato le vite degli individui sottraendoli ai luoghi, simbolici e fisici, in cui avrebbero potuto esprimere una qualche appartenenza; gli Stati con la scelta di pace che si alimenta di guerre sempre più lonta-ne hanno aperto a professioni che fanno della difesa una prevenzione contro il rischio e l’insicurezza nella ricerca di una garanzia totale. Il Discorso del padrone nella sua versione capitalistica mostra la sua per-sitenza e l’immagine che ne viene è quella di una società frammentata, disgregante e disgregata che poggia la sua esistenza sul potere delle merci e degli oggetti. Una società costituita da individui immersi in un reticolo di servitù, che credono di essere padroni di loro stessi, è una società che non riesce ad individuare un padrone. Ma la psicoanalisi e gli psicoanalisti, collocandosi dalla parte dell’inconscio, rispondono a un Altro discorso, umanizzano una società di non luoghi facendo del soggetto dell’inconscio il luogo e la fucina da cui operare.
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matteo bonazziScrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques LacanEdizioni ETS, Pisa 2009
di Adone Brandalise * 1
Già il titolo indica come il volume sia mosso dall’esigenza di svilup-pare le potenzialità di una congiuntura che per varie vie si manifesta attuale. Da un lato la nozione di scrittura si presta, in virtù di quella funzione registica del lessico lacaniano che essa è andata progressiva-mente acquistando nel protrarsi del Seminario, a fungere da traliccio, ma anche da principio ordinatore di un ripercorrimento globale della pratica lacaniana del pensiero nel suo farsi strada attraverso i luoghi cruciali in cui la filosofia ad un tempo la chiama ad agire, mentre sem-bra poterne e doverne fare a meno. D’altro lato questa modalità svela molto di ciò che la rende legittima e utile quando la si colga come con-sanguinea all’esigenza che invita a cogliere la centralità della nozione di contingenza, come indispensabile per comprendere in che modo la psicoanalisi si collochi, nel caso di Lacan, all’interno di un’organizza-zione storico-culturale del pensiero che essa non può che sovvertire nel momento stesso di ogni suo effettivo accadere.Per questo la proposta del volume non può che riconoscere la relazione decisiva della psicoanalisi con il proprio di una filosofia, realizzata e sovvertita ad un tempo, perché la psicoanalisi rimette in questione quel suo assetto identitario che si chiude sulla rimozione del desiderio che la sospinge.Non a caso, nella trama in cui il volume reintesse le linee fondamentali
* Adone Brandalise, Docente di Teoria della letteratura all’Università di Padova, direttore del master di studi Interculturali.
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dell’opera lacaniana, sembra trasparire un ordito concepito a partire dall’assunzione dei modi propri della fase cronologicamente più avanza-ta dell’itinerario lacaniano, secondo un arco che congiunge in un’unica prestazione strutturante Lituraterra e il Seminario XXIII.Non sorprende ormai che un itinerario sifatto possa anche corrisponde-re ad un più compiuto e produttivo insediamento del discorso di psico-analisi e filosofia nel luogo in cui Lacan lo situa, quello che si evidenzia qualora si colga l’effettiva portata della nozione di antifilosofia.Il libro infatti ci sembra procedere dalla convinzione che il rapporto tra filosofia e psicoanalisi non è da concepirsi come mutuazione reciproca di lessici e strategie di composizione del discorso, ma riguarda la rea-lizzazione della psicoanalisi in un movimento che non può che passare attraverso la radicale messa in questione della posizione del pensiero nella filosofia, una messa in questione che ad un tempo confuta l’au-torappresentazione della filosofia e assume il desiderio che in essa parla e promuove un pensare e un dire di cui si deve intendere e praticare l’effettiva ragione, assumendone effettivamente la causa.Di qui si potrebbe dire che il libro opera a partire da una esigenza, cre-diamo oggi vastamente sentita tra coloro che intrattengono con Lacan un rapporto avvertito come necessario al di là di una adesione scolastica ad una ortodossia lacaniana. Si tratta di comprendere come si ricollochi il pensiero a partire da ciò che Lacan attiva come pratica nella scrittura cui dà luogo il suo fare, e che rapporto intercorre tra questo luogo e la forma dell’operare filosofico. Insomma, se Lacan attraverso il suo eser-cizio continua ad evitare che la contingenza sia cancellata a favore di qualche universale che consenta al soggetto di non essere in questione, occorrerà approfondire come questo movimento detti le condizioni e indichi le potenzialità di uno “scrivere la contingenza”.Lo stile, genialmente clownesco del Lacan dei Seminari riapre costan-temente la contingenza di un momento presente in cui la teoria è più attiva proprio perché è tutta arrischiata nella pratica che la produce, non come prodotto finale, ma come condizione continuamente riatti-
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vata della propria apertura. Anche quando il pensiero lacaniano sembra disporsi nelle forme di un’imponente architettura schematica è ben lon-tano dal rilasciare queste sue figure come edificio dottrinale. Esse sono la sbarra cui si appoggia il danzatore nel suo quotidiano esercizio.Lacan produce una scrittura della contingenza assolutamente singolare, ma proprio per questo non “particolare”, non a caso esposta sempre al rischio della propria seduttività che chiama a rispondere alla proposta che la anima nella forma di una imitazione a volte prossima alla reci-tazione mantrica. Bonazzi, nel suo libro, si assume il compito di far funzionare una fruttuosa castrazione che eviti di rispondere all’angoscia di sentire la portata decisiva del pensiero lacaniano come ciò che spinge a ridirne gli stilemi, a rirecitarne gli eventi linguistici e propone invece la via di una assunzione per il pensare gli effetti essenziali dell’esempio lacaniano oggi.Si tratta di ricavare da quell’accordo che si percepisce agire in una vasta sinergia tra le formule essenziali della pratica lacaniana, la traccia a par-tire dalla quale riconoscere una posizione non meramente immaginaria, né immaginariamente simbolica del pensare nel nostro tempo, ovvero di scrivere la contingenza.“Nel 1976 Lacan, gettando uno sguardo vertiginoso all’indietro, dice ciò che non ha mai detto e che in fondo non si può dire: il vero sul vero. E lo dice rivelando, non tanto il senso che sostiene il suo dire, ma l’atto che orienta il suo fare o il suo dire in quanto fare. Si tratta di ‘fare ciò che ho effettivamente fatto, né più, né meno: seguire le tracce del reale’ (Seminario XXIII, p. 63). Dire il vero sul vero significa mostrare nel detto che si dice, questo è il punto reale che si cela dietro il cortocircuito dire-intendere” (Bonazzi, p. 186).La psicoanalisi propone alla filosofia di riconoscere nel singolare non ciò che l’universale deve superare, ma quanto ad esso manca perché il desiderio che ne ha prodotto la condizione linguistica e ideale non vi trovi la sua morte, ma possa dare al suo sviluppo quella relazione con il reale in cui sta la sua potenza.
attualità lacaniana n. 11/2010 - verso i grandi temi della modernitàrivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
Presentazione. Rilanciare la Scuola, di Marco Focchi 5
parte i – rilanciare la scuolaIl programma di godimento non è virtuale, di Eric Laurent 9
parte ii – i grandi temi della modernitàSiamo tutti disinseriti, di Pierre-Gilles Gueguen 21L’uomo nuovo ha un cuore antico. Il ritorno delle passioni nella tarda modernità, 27
di Silvia Vegetti FinziVarianti dell’amore nella superficie del gusto, di Vilma Coccoz 40La crisi dell’epoca “della conoscenza”, di Valerio Romitelli 58
parte iii – versioni della psicoanalisiNon ci sono psicoanalisti in istituzione, ma effetti analitici, di Daniel Matet 79Glitch, di Marco Focchi 85Grethe, lo specchio infranto della Regina delle Nevi, di Fulvio Sorge 90
parte iv – psicoanalisi a teatro Conferenza al teatro Coliseo, di Jacques-Alain Miller 109
parte v – psicoanalisi al cinemaVideodrome, o dello spettacolo, di Maria Teresa Catena 139
parte vi – concetti baseUna lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan, di Silvia Cimarelli 147
parte vii – testimonianze di passeNon solo un destino, di Massimo Termini 187Il n’y a d’analyste qu’ à ce que ce desir [du savoir scientifique] lui vienne, 197
di Carmelo Licitra Rosa
parte viii – i libri di cui si parlaJ. Lacan, Il seminario VIII. Il transfert (di Roberto Cavasola) 211Laura Pigozzi, A nuda voce (di Alessandra Milesi) 219Giovanni Sias, Fuga a cinque voci. L’anima della psicoanalisi e la formazione 221
degli psicoanalisti (di Costanza Costa)Bruno Moroncini, L’autobiografia della vita malata (di Mariangela della Valle) 241