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ATTUALITÀ LACANIANA rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi #12/2010 Il corpo fuori posto

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ATTUALITÀ LACANIANA

rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi

#12/2010 Il corpo fuori posto

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at tualità l ac anianarivista dell a Scuol a L acaniana di Psicoanalisi

#12/2010  Il corpo fuori posto

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La vasta configurazione del disagio connesso alla nostra

organizzazione sociale propone spesso alla psicoanalisi scenari

spaesanti nei quali trova con difficoltà le condizioni

essenziali della sua azione. Essa constata l’emergenza di un

corpo fuori posto, irreperibile dove i linguaggi convenzionali

suggeriscono di cercarlo, propenso invece ad apparire dove

non lo accoglie, né una parola che lo legittimi, né uno spazio

in cui esso non appaia abusivo. Autolesionismo, anoressia,

bulimia, debilità, segregazione, alludono ad un corpo perduto

o posseduto solo attraverso immaginazioni che di fatto lo

disarticolano come nel caso estremo della schizofrenia.

Apriamo il numero con una sezione che assume “ il corpo

fuori posto” come tema centrale secondo varie prospettive,

ma il lettore avvertirà che tale traccia accomuna anche

molti altri contributi presenti nella rivista.

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sommarion. 12 /2010

L’agalma della Scuola, di Paola Francesconi� 7

parte i – il corpo fuori posto

La disarticolazione del corpo nella schizofrenia, di Maurizio Mazzotti� 11

Debilità, o il potere dell’ immaginario, di Nicola Purgato� 21

Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza � 53del soggetto, di Giovanna Di Giovanni

Volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento. � 61Anoressia e silenzio de lalingua, di Giuliana Grando

Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi, di Edy Marruchi� 71

parte ii – dalla parte dell’inconscio, torino 2010

Dalla divisione alla scissione, di Fabio Galimberti� 113

L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore, di Alide Tassinari� 121

Lessico famigliare e inconscio, di Vicente Palomera� 127

Il “Che vuoi?” nella mia analisi, di Raffaele Calabria� 135

parte iii – approssimazioni al reale

Il tempo nella cura, di Carlo Viganò� 143

Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante? � 155di Carmelo Licitra Rosa

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parte iv – testimonianze di passe

L’uomo retto, di Sergio Caretto� 173

parte v – new lacanian school, ginevra 2010

Il timone e il femminile, di Gil Caroz� 189Figlia, madre e donna nel XXI secolo, di Pierre-Gilles Gueguen� 195

parte vi – emergenze lacaniane

Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere, � 203di Stefania FerrandoPolitica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi � 217e politica, di Nicolò FazioniComplessità e Psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni � 237di possibilità della prassi di cura, di Giuseppa Rociola

parte vii – letture

Maurizio Mazzotti, Prospettive di psicoanalisi lacaniana, � 273Borla, Roma 2009, di Carmelo Licitra Rosa

Chiara Cretella e Alessandro Russo (a cura di), � 277Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale, CLUEB, Bologna 2009, di Alide Tassinari

Matteo Bonazzi, Scrivere la contingenza. � 283Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan, Edizioni ETS, Pisa 2009, di Adone Brandalise

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attualità lacanianarivista della Scuola Lacaniana di PsicoanalisiVia Daverio, 7 – 20122 Milano

direttorePaola FrancesconiVia Agnesi, 3 – 40138 Bologna

comitato scientificoMaria Bolgiani, Emilia Cece, Domenico Cosenza,  Carmelo Licitra Rosa, Céline Menghi, Alberto Turolla

redazioneErminia Macola (coordinatrice),  Matteo Bonazzi, Fedra Bucelli, Silvia Morrone,  Caterina Paderni, Elda Perelli, Alide Tassinari

progetto graficoGrafCo3

impaginazioneinsolitiignoti

I testi devono essere inviati a Paola Francesconi [email protected]

L’immagine di Hans Bellmer che appare in copertina può essere protetta da copyright,  vi siamo grati se ci avvertite.

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attualità lacaniana n. 12/2010

l’agalma della scuola

di Paola Francesconi

La Scuola, per noi lacaniani, non è un elenco di praticanti, che, in sé e per sé, non contiene, come ogni elenco, nulla di agalmatico. L’agalma è l’effetto di un’operazione che accoglie una domanda, ma mette al lavoro il desiderio che vi corre sotto, fino a produrre quella sorta di metafora dell’amore che è il transfert di lavoro. Il transfert immaginario, che può partire  dalla  domanda  di  un’appartenenza,  diventa  transfert  di  lavoro che cerca nella Scuola, proprio in virtù della sua esistenza, una trasfor-mazione del particolare di ciascuno in universale. Jacques-Alain Miller ci ha insegnato a riconoscere nella passe la modalità della Scuola di met-tere a disposizione degli altri il nucleo più profondo e intimo dell’elabo-razione di una psicoanalisi personale, contribuendo così, come egli dice, al  bene  comune. Questo  è un  versante,  ed  è un modo di  intendere  il transfert di lavoro in atto.L’agalma, il bene comune, di cui la Scuola è il contenente, e su cui essa veglia affinché non subisca il declino “naturale” a palea, è la psicoanalisi stessa. Questo non vuol dire che la Scuola sia l’unico modo di intendere la psicoanalisi, essa non ne è il sinonimo, ma il luogo di “cura”, questo sì. La Scuola è il mezzo per farla crescere, per spingere altri, anche al di fuori del proprio insieme, a interessarsene, a lavorare per la sua esisten-za. La Scuola è  lo  strumento di obiezione a che  la psicoanalisi diventi palea, a che il bene comune diventi godimento solitario e in cortocircu-ito rispetto al legame di parola.L’altro versante in cui intendere il transfert di lavoro in atto è la promo-zione dello scritto, su cui Lacan ha messo sempre l’accento, già a livello del suo Atto di Fondazione dell’Ecole Freudienne. Lo scritto è un modo di mettere in forma un sapere e, successivamente, di metterlo a dispo-

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sizione della comunità, è un altro modo di trasformare il particolare di ciascuno in universale. Lacan ha promosso gli scritti, al punto da inti-tolare così  la sua pubblicazione per eccellenza, mettendo, in tal modo, l’accento sullo scritto in quanto parte di un insieme, e non insieme esso stesso,  come può esserlo un manuale o un  testo monografico. Scilicet, la rivista che egli fondò, inaugurò una forma di scrittura plurale, dove non  contava  l’autore,  ma  la  cosa  particolare  che  ciascuno  metteva  lì a  disposizione  della  ricerca,  ed  era  quello  il  vero  nome  della  sua  pro-duzione.  Se  tale  suggerimento,  indubbiamente  radicale,  non  ha  avuto poi  un  seguito,  è  forse  perché  può  essere  sembrato  eccessivo  castigare così  il  principio  di  autore,  in  un’epoca  in  cui  la  nominazione  ha  una sua  rilevanza.  Tuttavia,  noi  possiamo  conservarne  la  logica,  quella  di promuovere studi e lavori fino a che possano arrivare allo scritto, come modalità per dare impulso alla psicoanalisi.Attualità Lacaniana cerca, da questo numero, di ritrovare il filo di que-sta logica, ora che si fa sempre più necessario operare al servizio di una agalmatizzazione  della  psicoanalisi,  per  resistere  alla  sua  degradazione contemporanea.  Nello  scritto,  ciascuno  mette  il  proprio  particolare  al vaglio del  lettore nell’intento che ciò possa contribuire ad apportare  il proprio  grano  all’universale.  Abbiamo  chiesto  contributi  non  solo  ad appartenenti alla Scuola, ma anche ad esterni ad essa, attendendo anche da coloro che vi scrivono, pur non essendo della Scuola, il controllo su ciò che si produce in essa. È qui che l’universale della Scuola non è un tutto,  in  quanto  accoglie  e  si  rivolge,  nella  propria  produzione,  anche a  non  analisti,  anche  a  chi,  a  diverso  titolo,  è  mosso  da  interesse  per la psicoanalisi come moderno agalma, come sapere non esclusivo, non chiuso in sé, non autoreferenziato, ma in giacenza per essere trasforma-to in bene comune.

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il corpo fuori posto

parte prima

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attualità lacaniana n. 12/2010

La disarticolazione del corpo nella schizofrenia

la disarticolazione del corponella schizofrenia

di Maurizio Mazzotti * 1

Che ne è del corpo in un soggetto schizofrenico? La teorizzazione di Lacan, in par-ticolare la sua elaborazione dell’oggetto a, permette di collocare al giusto posto le parole del soggetto schizofrenico fino a coglierne “ l’ ironia suprema che sottolinea l’ impostura del discorso”. Wolfson e Schreber testimoniano qui dei diversi effetti del mancato inserimento del corpo nel discorso e delle strategie messe in atto per arginare il devastante godimento dell’Altro.

Parole chiave: schizofrenia, oggetto a, impostura del discorso

la schizofrenia: il corpo disinserito dal discorso

La questione clinica del corpo rappresenta il tema peculiare della schi-zofrenia, già dal tempo in cui Kraepelin, che non parlava di schizofre-nia ma di dementia praecox, riteneva che la sindrome da influenzamento corporeo fosse uno dei tratti differenziali di questa entità morbosa, da escludere  nella  paranoia  in  cui  il  soggetto  non  si  sente  riguardato  nel suo corpo o negli organi del suo corpo.Lacan  ha  anch’egli  sottolineato  questo  tratto  schizofrenico  quando ne  situa una preclusione  specifica.  Il  soggetto  schizofrenico,  egli  dice, non  riesce  a  servirsi  dell’ausilio  offerto  dalla  struttura  del  discorso.  È 

*  Maurizio Mazzotti è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Bologna; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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una preclusione che, possiamo dire, disinserisce  il  corpo  schizofrenico dal  discorso. Quest’ultimo  si  centra  attorno  alla  “produzione” dell’og-getto  a  ad  opera  del  significante,  cioè  attorno  all’estrazione dal  corpo dell’oggetto più di godere, alla sua messa “fuori corpo” e contempora-neamente al suo coordinamento al sembiante fallico. Come ha precisato Jacques-Alain Miller il “fuori corpo”  1 va inteso nel senso di “fuori da” ma  ciononostante  legato  al  corpo.  È  la  posizione  dell’oggetto  in  una zona di exsistenza che Lacan individuava parlando della libido-organo, in cui l’oggetto non è completamente esterno al corpo, non è alla deriva senza più alcun legame con il corpo.Il discorso estrae  l’oggetto dal corpo e  lo  situa  in questa zona di exsi-stenza.  In  tal  modo  il  discorso  ritaglia  sul  corpo  le  zone  erogene  che strutturano  il  godimento  pulsionale  attorno  all’oggetto  separato,  con-temporaneamente all’operazione in cui la simbolizzazione separa il sem-biante fallico dall’organo del corpo, facendolo diventare l’organo “fuori corpo”  per  definizione,  cioè  investito  della  significazione  generale  di castrazione che permea ogni rapporto con l’oggetto corporeo.Nella dottrina lacaniana la schizofrenia non trova un ausilio in questa complessa regolazione del rapporto tra l’oggetto e il corpo ad opera del discorso, regolazione tipicizzata attorno alla significazione di castrazio-ne del sembiante fallico.Nella  schizofrenia,  al  suo  posto,  troviamo  invece  il  formicolare  enig-matico di una  “generalizzazione”  2  dell’essere  fuori  corpo degli  organi, come se,  in mancanza della separazione  iniziale prodotta dal discorso, gli organi del corpo tendessero ad assumere tutti questa dimensione di organo  staccato  dal  corpo  e  senza  collegamento  alcuno  alla  significa-zione fallica. La mancata operatività simbolica del discorso produce  la moltiplicazione  indiscriminata  degli  organi.  Nella  schizofrenia,  anche fenomenologicamente,  ci  troviamo  confrontati  alla  generalizzazione 

1.  J.-A. Miller, “L’invenzione psicotica”, in La Psicoanalisi, n. 36, Astrolabio, Roma 2004, p. 17.2.  Ibidem, p. 15.

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Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 13

della dimensione “fuori corpo”  in cui vengono coinvolti  indiscrimina-tamente tutti gli organi, come se essi fossero calamitati in questa zona di exstimità e la conseguenza è che questa generalizzazione fuori corpo degli organi  induce un impoverimento  libidico e del  sentimento vitale dell’immagine corporea, come dimostra  l’incidenza dell’immagine del corpo cadavere, pura forma mortificata che Lacan ha chiamato regres-sione topica allo stadio dello specchio  3.

la macchinizzazione schizofrenica: una supplenza al disinserimento del corpo dal discorso

In  tal  senso più  che un  “corpo  senza organi”,  secondo  la molto  citata espressione  di  Deleuze  e  Guattari  4,  quello  dello  schizofrenico  è  un “corpo senza discorso”  5. Kraepelin con un’analogia diceva che è come un’orchestra senza direttore, emblema di un corpo affetto da un disin-serimento entropico dal punto di capitone del significante padrone che avrebbe reso possibile applicare  la griglia  linguistica del discorso come supporto della simbolizzazione del corpo e dei suoi organi. Al posto di questa  simbolizzazione  troviamo  invece  la produzione della  cosiddetta fenomenologia  clinica  della  macchina  influenzante,  la  cui  elaborazio-ne  ha  storicamente  contrassegnato  l’implicazione  psicoanalitica  nello stesso  concetto di  schizofrenia. La macchinizzazione  schizofrenica  del corpo supplisce in modo delirante al disinserimento del corpo e dei suoi organi  dall’azione  strutturante  del  significante  padrone.  È  un  ampio ventaglio di fenomeni che vanno dalle trasformazioni più assurde degli organi  all’innesto  nel  corpo  di  giunture,  leve,  cardini,  tubi,  fili  allo scopo di stabilire un allacciamento degli organi al corpo, di  farli  stare 

3.  J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 564.4.  G. Deleuze e F. Guattari, L’Antiedipo, Einaudi, Torino 1975.5.  J.-A. Miller, “Schizofrenia e paranoia”, in La Psicoanalisi, n. 25, Astrolabio, Roma 1999, p. 36.

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collegati  acuendone  però  il  tratto  di  pervasività  e  di  influenzamento esteriore che rende infernale il rapporto con il corpo macchinizzato.Questo  specifico  disinserimento  schizofrenico  è  tuttavia  qualcosa  di ben  diverso  dall’estensione  contemporanea  del  corpo  macchina  attra-verso i mezzi più disparati, non ultimi i gadgets di raffinata tecnologia, offerti come oggetti più di godere dall’attuale economia del godimento che  spinge verso  la  realizzazione di un ampliamento  sempre maggiore dell’idea di potenza vitale e  sessuale del corpo, ampliamento che, non a caso, affascina il soggetto nevrotico per l’uso che ne può fare nel suo fantasma fallico come strumento del godimento.Nel capitolo XI  6 delle sue “Memorie” Schreber descrive minuziosamen-te le trasformazioni a cui sono andati incontro gli organi del suo corpo. Egli  inizia  col  descrivere  la  trasformazione  del  suo  corpo  in  quello  di una donna di cui ha oramai acquisito la certezza che l’ordine del mondo la richieda e a  lui non resti altra scelta che conciliarsi con questa idea. È  la  soluzione  che  consentirà  a  Schreber di non  restare  fissato  all’im-magine del “cadavere  lebbroso che conduce un cadavere  lebbroso”, dal momento che, come ha precisato Lacan, è in quanto donna che manca a tutti gli uomini che egli potrà riposizionarsi nella neometafora fallica che gli assicura un’identificazione con il suo essere di vivente, che nello sviluppo delirante assurgerà a generatore di una nuova umanità.Questo  è  il  capitolo  in  cui  è  Schreber  “schizo”  che parla. Qui non  c’è organo del corpo di cui Schreber non descriva la trasformazione, le parti sessuali, i polmoni, le costole, lo stomaco, la laringe, l’esofago, il midollo spinale, le ossa, i muscoli delle palpebre e avanti così, nella sua “disana-tomia” schizofrenica. Per ciascuna trasformazione c’è un miracolo divino che ne è la causa. In particolare la testa è sottoposta ad uno dei miracoli più  “abominevoli”  il  “miracolo per  allacciare  la  testa”,  in  cui  i  “piccoli diavoli  con  una  specie  di  manovella  a  vite  manovrata  appositamente schiacciavano la mia testa come fa un torchio in modo che la mia testa 

6.  D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974, p. 166.

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Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 15

assumeva di tanto in tanto una forma prolungata quasi come una pera”. 7 Ritroviamo qui esattamente gli elementi del macchinismo influenzante, manovelle  e  viti  per  “allacciare”,  cioè  nella  supplenza  delirante  di  un collegamento, ma ne vediamo altresì il limite nella risultante della “testa a pera”, particolare in cui si sigla il tratto umiliante e derisorio di questa operazione e che consegna il corpo ad una decadenza solo parzialmente limitata dalla successiva trasformazione in donna.Tausk citava il caso di una giovane donna 8 schizofrenica che sviluppava la  sindrome di  influenzamento attorno ad una macchina elettrica,  coi suoi fili, i suoi collegamenti, ma soprattutto con la pervasività delle sue emissioni  elettromagnetiche,  e  questa  macchina,  diceva  la  paziente, aveva la stessa forma del suo corpo, a parte qualche piccola differenza. Non è  l’immagine del  corpo che  trasmette  l’idea della vita del  corpo, ma  l’immagine  del  corpo  del  tutto  esteriorizzato  nella  macchina  per influenzare,  è  la  macchinizzazione  del  corpo  in  quanto  “fuori  corpo” esso stesso, i cui organi hanno funzioni non previste da alcun discorso che  simbolizzi  queste  stesse  funzioni,  se  non  funzioni  di  godimento pervasivo e nocivo.

wolfson “schizo”

Nel caso di Louis Wolfson, il malato schizofrenico, come egli stesso si definisce,  il  disinserimento  del  corpo  e  dei  suoi  organi  dal  discorso  è contrassegnato radicalmente da una perturbazione della stessa struttura di bordo con cui si è fissata fin dall’inizio la pervasività della voce della madre, penetrante nelle sue orecchie con le parole della lingua inglese.È noto, dal primo fenomenale libro di Wolfson, Le schizo et le langues 9, 

7.  Ibidem, p. 176.8.  V. Tausk, “Sulla genesi della ‘macchina influenzante’ nella schizofrenia”, in Scritti psicoanali-tici, Astrolabio, Roma 1979, p. 158.9.  L. Wolfson, Le schizo et les langues, Gallimard, Paris 1970.

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scritto direttamente in lingua francese, come Wolfson fosse impegnato in un’incessante  lavoro di  traduzione omofonica delle parole delle  lin-gua inglese in altre lingue, dal francese al russo, passando per il tedesco e così via. Wolfson è in collegamento permanente, via radio, via dizio-nari, con  il pluralismo delle  lingue del cosmopolitismo newyorkese. È collegato allo sciame delle lingue. Egli lavora questo sciame de lelingue attraverso un’incessante traduzione omofonica che gli consenta di poter ritrovare in primis il suono e in subordine il senso della lingua materna trasposto però  in un’altra  lingua,  che possa  ripararlo  e  separarlo dalla voce  della  madre,  dall’“unisono”  che  la  voce  inglese  della  madre  fa risuonare nel  suo corpo come  fosse  esso  stesso un’ampia cassa di  riso-nanza del godimento invasivo di quest’ultima.Questo  lavoro  di  traduzione  è,  fondamentalmente,  decostruzionista, come  la  schizofrenia  è  sempre decostruzionista  al  livello di quella  che Jakobson avrebbe chiamato “the sound shape” 10,  l’ossatura  fonica, della lingua. Infatti si tratta di un lavoro che va sempre ad intaccare l’identi-tà fonatoria stessa della lingua materna, fino al punto che in certi casi questa identità è del tutto dissolta. Per esempio, uno dei procedimenti principali  messi  in  atto  da  Wolfson  è  lo  smembramento  della  parola inglese  in  una  moltiplicazione  di  frammenti  o  fonetici  o  di  parole  di altre  lingue,  con  il  conseguente  sparpagliamento  dell’ossatura  fonica della  lingua.  A  volte  questo  procedimento  può  essere  più  semplice  a volte  diventa  difficile  quando,  come  è  stato  notato  da  Deleuze 11,  la traduzione  omofonica  incontra,  non  a  caso,  una  difficoltà  al  livello dell’articolazione  delle  consonanti,  al  livello  del  nucleo  più  resistente dell’ossatura  fonica  della  parola,  e  ciò  obbliga  Wolfson  ad  un  lavoro enorme dove al posto di una sola parola inglese in cui sono presenti un certo numero di consonanti troviamo un vero e proprio sciame di paro-le di altre lingue o di frammenti omofonici di altre lingue, e qui andia-

10.  R. Jakobson, La charpante phonique du language, Minuit, Paris 1980.11.  G. Deleuze, “Schizologie”, in L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 6.

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Maurizio Mazzotti | La disarticolazione del corpo nella schizofrenia | 17

mo  verso  la  dissoluzione.  Il  risultato  di  questa  “traduzione”  è  spesso grottesco e segna anche il limite della formazione di questa “neolingua” inventata da Wolfson, il limite del suo uso nella misura in cui è qui che si mostra come sia solo Wolfson, e nessun altro, a conoscere le regole di trasformazione e la grammatica di questa nuova lingua. Ciononostante questa traduzione è ciò che gli consente di stendere uno sciame signifi-cante a mo’ di barriera che crei anche un bordo di salvaguardia del suo corpo, con cui ripararsi, separarsi dal godimento dell’Altro materno che mira a trasformarne gli organi in un unico tubo beante.

l’organo tubo

Wolfson ci dice infatti che la madre sembrava

riempirsi di una gioia macabra quando coglieva l’opportunità di  iniettare le parole che uscivano dalla sua bocca nelle orecchie del proprio figlio, suo unico possesso come lei gli diceva, sembrando dunque felice di far vibrare il  timpano di questo unico possesso e di conseguenza gli ossicini del  suo orecchio medio all’unisono esatto con le corde vocali di lei 12.

Nel corpo di Wolfson si destruttura il bordo di separazione degli organi del suo corpo a favore di un “unisono”, di un neorgano che risuona del solo godimento dell’Altro materno, a cui si riduce la sua stessa funzione di organo, e che si estende dalla bocca della madre all’orecchio medio del soggetto, senza soluzione di continuità.Ritroviamo la stessa dimensione di continuità di un organo senza bordo separatore  laddove  Wolfson  parla  espressamente  dell’organo  genitale femminile:  “il  vero  organo  sessuale  femminile  gli  sembrava  essere  più che  la  vagina un  tubo  in  gomma pronto  ad  essere  inserito dalla mano 

12.  L. Wolfson, Le schizo et les langues, cit., p. 183, (traduzione nostra).

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di una donna nell’ultimo segmento dell’intestino, del suo intestino”. 13 È dunque un organo  tubo che, anche qui,  collega due orifizi, due buchi, dalla vagina della donna all’intestino del soggetto, due aperture che non danno possibilità di arginare la perfusione del godimento dell’Altro.Wolfson infatti associa a questa immagine dell’organo tubo quella mac-chinizzata  “degli  irrigatori  dell’orificio posteriore  del  canale  alimentare, del trattamento medico, un po’ troppo vigoroso del clistere, ‘lavage’, som-ministrato da un’infermiera” 14 e come questa immagine di perfusione ha a che fare con il più antico dei suoi ricordi infantili. Un giorno di estate la  madre  chiamò  un’infermiera  che  gli  infilò  un  termometro  nell’ano per provargli  la  temperatura  rettale. Questo  atto  era  stato provocato da un’ingiunzione della  stessa che “imperiosamente” aveva detto al piccolo paziente, con il suo fare incantatorio abituale “Girati!” (“Retourne-toi !”) 15, vera e propria  ingiunzione  sotto  la cui  spinta  tutto  il  suo corpo diventa organo beante e macchinizzato del godimento dell’Altro in una fissazione che si sviluppa attorno alle visioni del “lavage”, del clistere.

un’ironia suprema

Queste  visioni  le  ritroviamo  amplificate  e  contrassegnate  nettamente dal  tratto di mortificazione nel  secondo  libro, Ma mère musicienne est morte 16, scritto dopo la morte della madre per mesotelioma addominale, la cui causa Wolfson, secondo il suo macchinismo corporeo, attribuisce alle emissioni del “tubo” catodico del televisore, l’“assassino diretto” di fronte al quale la madre trascorreva gran parte del suo tempo. La malat-tia che colpisce mortalmente la madre crea in Wolfson le condizioni di una regressione all’immagine del  suo corpo cadavere, “che trascino da 

13.  Ibidem, p. 116.14.  Ibidem.15.  Ibidem, p. 117.16.  L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, Navarin, Paris 1984.

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una  stanza all’altra della  casa”  in un contesto  in cui  tutta  l’umanità è “una  grande  ammalata.”  “Come dice  il  papa G. Paolo  II,  l’umanità  è una grande malata. Siamo d’accordo e il trattamento elettivo è l’eutana-sia planetaria completa e definitiva” 17. La malattia corporea della madre lo spinge alla generalizzazione del corpo cadavere e con essa alla radica-lizzazione del disinserimento del corpo dal legame sociale. L’unica solu-zione alla pervasività dei godimenti che infiltrano senza sosta gli organi beanti, impossibili da chiudere, a partire dall’orecchio, per passare alla bocca e giungere all’ano, l’unica soluzione che egli vede è la desertifica-zione di questo godimento non solo dal suo corpo ma da tutti i corpi. È il corpo completamento disinserito dal pianeta del vivente.Come strumento di questa soluzione interviene, in continuità con il già nefasto “telecolore Magnavox”, la più devastatrice e mortifera macchina per influenzare:

ben  contrariamente  che  sopprimere  le  bombe  nucleari  se  ne  dovrebbero fabbricare molte di più, di più grandi,  radiottive e utilizzarle per  rendere impossibile  ogni  vita  su  questo  pianeta  infernale  [ ]  Checché  ne  dicano gli idioti antinucleari [ ] la sola vera pace è quella del cimitero, il cimitero planetario! 18

Al  contrario  di  Schreber,  che  trova  una  soluzione  conciliata  e  vitale nella  trasformazione  nel  corpo  sessuato  de  La  donna  che  manca  agli uomini, per Wolfson  la pace è nella cadaverizzazione generalizzata dei corpi,  raggiunta  attraverso  un’opera  colossale  di  lavaggio  radioattivo termonucleare,  opera  di  desertificazione  separatrice  dall’unisono  del godimento dell’Altro che perfonde l’organo tubo, a cui si riduce il suo stesso corpo con i suoi organi senza bordo, che non possono chiudersi e che infernalizzano il suo rapporto al corpo.

17.  Ibidem, p. 22, (traduzione nostra).18.  Ibidem, p. 200.

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Lacan  nelle  ultime  righe  della  Questione preliminare  accosta  la  teodi-cea  di  Schreber  al  dire  dell’ “esperienza  interiore”:  “Dio  è  una  p ( )” 19 in  cui  Schreber  ritrova  in  sé  una  parziale  giustificazione  del  vivente. In Wolfson questa giustificazione  appare preclusa. Egli  giunge  infatti, avendolo deciso, non a caso, di dirlo in ebraico, alla formula: “Dio è la bomba!” 20, in cui la stessa pulsione di morte si fa principio separatore.Qui affiora l’ironia suprema dello “studente schizofrenico”, l’ironia che investe  direttamente  il  dire  della  lingua  del  Nome-del-Padre,  l’ironia che  sottolinea  l’impostura del discorso a cui  lo  schizofrenico  si  rifiuta di identificarsi.

19.  J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., p. 579.20.  L. Wolfson, Ma mère musicienne est morte…, cit., p. 170.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Debilità, o il potere dell’immaginario

debilità, o il potere dell’immaginario

di Nicola Purgato *

La debilità, o oligofrenia, non è un concetto molto frequentato dalla psico-analisi. Eppure Lacan ne parla a più riprese lungo il suo insegnamento e in diversi modi. Ma, a differenza di una concezione deficitaria – prevalente tanto ieri quanto oggi –, egli la situa in rapporto ai quattro discorsi e al campo dell’Altro, dandone una concezione che, anziché appoggiarsi sul deficit, svela un “troppo” che incaglia il meccanismo che sta alla base del simbolico: l’artico-lazione significante.

Parole chiave: debilità, ritardo mentale, olofrase

1. la debilità mentale

La debilità mentale non è mai stata una condizione dell’essere che abbia appassionato  gli  psicoanalisti,  forse  perché  quando  un  debile  varca la  soglia  dello  studio  di  un  analista  costui  “viene  subito  messo  alla prova” 1.  Si  tratta  di  una  prova  che  giunge  da  più  fronti:  da  parte  dei genitori,  pronti  ad  attendersi  il  miracolo  o  rassegnati  all’incontro  con l’ennesimo specialista (senza mettere in conto il possibile boicottamento di  fronte  ai  primi  cambiamenti);  da  parte  dal  paziente,  spesso  noioso e poco loquace in quanto abituato ad essere solo un “oggetto” docile e buono nelle mani dell’Altro; da parte dell’analista stesso, toccato da un 

*  Nicola Purgato è iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regio-ne  Veneto;  è  Membro  della  SLP,  Membro  dell’AMP  e  Docente  dell’Istituto  Freudiano  per  la clinica, la terapia e la scienza.1.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 63.

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senso  di  impotenza  nel  confrontarsi  con  qualcuno  che  “impersona  la morte e la negazione nella propria condotta e nei propri discorsi” 2.Questo interesse marginale della psicoanalisi per la debilità, che trova un riscontro anche nel  limitato numero di pubblicazioni, ancor più esiguo se si eccettuano i testi in cui la debilità è presentata in quanto associata ad altri quadri clinici (psicosi, autismo…), ha avuto un duplice effetto:–  lasciare  questo  campo  alla  prepotenza  delle  neuroscienze  che  fanno del danno organico il perno esclusivo della loro interpretazione;– ridurre la problematica a semplice handicap investendo esclusivamente sulla  riabilitazione  secondo  modelli  legati  alle  terapie  cognitivo-com-portamentali.Infatti,  concepire  la  debilità  come  deficit  contribuisce  solo  a  isolare  il soggetto nella sua lacuna e trovare i mezzi per colmare il più possibile questo handicap. “Cercando una causa precisa della debolezza mentale, neghiamo che essa possa avere un senso, cioè una storia, o che essa cor-risponda a una situazione” 3.Occorre  quindi  sgomberare  il  campo  da  un  certo  pregiudizio,  ormai automatico, che vede nella debilità solo l’effetto di un danno organico e che non lascerebbe posto alcuno al discorso psicoanalitico.L’American Association on Intellectual and Developmental Disabilities (AAIDD)  nell’undicesima  edizione  del  suo  Manuale  (2010)  così  defi-nisce  il  ritardo  mentale:  “La  disabilità  intellettuale  è  caratterizzata  da significative  limitazioni  sia  nel  funzionamento  mentale  che  nel  com-portamento  adattivo  manifestate  nelle  abilità  concettuali,  sociali  e  di adattamento pratico. Questa disabilità insorge prima dei 18 anni” 4.Rispetto alla causa di tale “disabilità intellettuale” la stessa AAIDD che fino al 2002 affermava che  il 40-50% dei casi di  ritardo mentale non 

2.  Ibidem, p. 68.3.  Ibidem, p. 62.4.  American  Association  on  Intellectual  Developmental  Disabilities,  Intellectual  Disability. Definition, classification and systems of supports, 11th edition, Washington 2010, p. 5, (tradu-zione nostra).

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aveva una causa precisa, oggi “grazie” all’introduzione di una diagnosi multifattoriale che comprende quattro gruppi di fattori di rischio (bio-medici,  sociali, comportamentali ed educativi) “la categoria di Disabi-lità Intellettuale dovuta a cause sconosciute è eliminata” 5. Facile modo di risolvere  l’impasse della clinica: se  i buoi non entrano nella stalla, si allarga la stalla! Rimane tuttavia evidente, anche nella recente edizione del Manuale e contro una certa vulgata alquanto diffusa, che  i  fattori biologici o genetici non riescono a spiegare tale patologia se non in una percentuale ridotta, sicuramente “inferiore al 50% dei casi” 6.Si tratta allora di provare a fornire una lettura psicoanalitica di questa problematica  spesso causata da  lesioni organiche o associata a partico-lari  disturbi  (autismo,  paralisi  cerebrale,  sindrome  di  down,  sindrome fetale  alcolica,  sindrome  da  X  fragile),  ma  frequentemente  presente anche in assenza di tutto ciò. Nei primi casi si tratta di comprendere il funzionamento mentale

in  una  situazione  in  cui  l’organismo  risulta  letteralmente  devastato  da lesioni  percettive,  sensoriali,  motorie,  linguistiche  e  di  definire  come l’essere vivente che nasce in una condizione così sfavorevole a causa di un danno organico possa affrancarsi  in qualche modo da esso per costituirsi come  soggetto,  riscattandosi  dal  peso  dell’organismo  violato  ed  umaniz-zarsi nella dimensione del desiderio e dell’inconscio 7;

nei  secondi  di  capire  “cosa  c’è  di  perturbato  al  livello  del  linguaggio che, esprimendosi per vie traverse, fissa il soggetto nello statuto sociale che gli è stato conferito e la madre nel ruolo che essa stessa si è data” 8.Da  questo  punto  di  vista  lo  studio  della  debilità  riporta  a  quanto  già Freud  ricordava  nel  Compendio di psicoanalisi,  ossia  che  “di  ciò  che 

5.  Ibidem, p. 68.6.  Ibidem, p. 59.7.  F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, Franco Angeli, Milano 2008, p. 13.8.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 38.

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chiamiamo  la  nostra  psiche  (o  vita  psichica)  ci  sono  note  due  cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema ner-voso) e,  in secondo luogo,  i nostri atti di coscienza […]. Tutto ciò che sta in mezzo fra queste due cose ci è sconosciuto” 9. Nel corso degli anni tra questi due campi si è scavato un abisso e, nonostante il lodevole ten-tativo di alcuni di far accoppiare “l’orso polare con una balena” 10, ossia neuroscienze e psicoanalisi, sembra che gli orsi si siano così tanto impe-gnati da  far  sembrare  le balene delle mummie. Eppure,  il  processo di soggettivazione dell’essere umano non può essere compreso ricorrendo esclusivamente allo studio del fenomeno anatomo-fisiologico, né intera-mente  spiegato mediante  l’appello a  teorie che  si basano sulla univoca considerazione del substrato organico. I casi in cui il ritardo mentale è solo associato a determinate patologie o – ancora di più – quelli in cui non vi  è  traccia alcuna di  lesione e  la cui origine non è  identificabile, denunciano  la  riduttività  di  un  approccio  puramente  neurologico  o biologistico.  La  psicoanalisi  può  dire  oggi  una  parola  contro  questo riduzionismo,  ricordando  con  Lacan  di  “Una  questione  preliminare” “che  la  condizione  del  soggetto  S  (nevrosi  o  psicosi)  dipende  da  ciò che  si  svolge  nell’Altro  A.  Ciò  che  vi  si  svolge  è  articolato  come  un discorso  (l’inconscio  è  il  discorso  dell’Altro)  la  cui  sintassi  Freud  ha cercato di definire” 11. Sappiamo che  il discorso  fondamentale è quello del padrone,  così  come Lacan  lo  formalizza ne  Il rovescio della psicoa-nalisi,  infatti,  la  verità  ultima  di  questo  discorso  –  come  ribadirà  nel seminario Les non-dupes errent – non è niente altro che  la produzione del soggetto stesso 12. Con questa “formula” Lacan cerca,  innanzitutto, di matematizzare il concetto freudiano di identificazione, in cui il ruolo 

9.  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 572.10.  F. Ansermet e P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 15.11.  J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 545.12.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXI, Les non-dupes errent, 1973-1974, (inedito) lezione del 12 febbraio 1974, (traduzione nostra).

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dell’Altro è fondamentale nella strutturazione del soggetto. Nel discorso del  padrone  infatti  l’  è  “un marchio preciso  in  grado di  assorbire  il soggetto  […]  e quando  il  soggetto  è  assorbito dal  suo marchio non  si distingue da esso”. 13

 ▲ 

Nel discorso del padrone, equivalente per Lacan al discorso dell’incon-scio, il soggetto è sempre identificato.

Il  soggetto  è  sempre  identificato  nell’Altro.  Questo  può  valere  fino  al discorso universale. È da qui che pesca o viene pescato, agganciato da un significante  padrone.  Ad  agganciarlo  è  quello  che  è  detto,  quello  che  si dice, quello che si dice in famiglia, questo piccolo pezzo di particolare. È da lì che  gioca la funzione eminente nell’inconscio sotto forma di parole che vi marchiano 14.

E se un soggetto non è ben installato in questo discorso? Nel seminario Ou pire del 1972 Lacan afferma che il debile si caratterizza proprio per-ché oscilla tra due discorsi.

Chiamo debilità  il  fatto che un essere, un essere parlante, non sia  solida-mente  installato  in  un  discorso.  In  questo  consiste  il  pregio  del  debile. Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un po’  à côté de la plaque  (fuori  strada,  fuori  misura,  fuori  luogo),  ossia  di oscillare  tra  due  discorsi.  Per  essere  solidamente  installati  come  soggetto bisogna attenersi a uno oppure sapere ciò che si fa 15.

13.  J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, in La Psicoanalisi, n. 43-44, 2008, p. 12.14.  Ibidem, p. 14.15.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, (inedito), lezione del 12 marzo 1972, (traduzione nostra).

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2. cosa definisce la debilità?

La nozione di debilità è stata per lungo tempo tra le più chiare e solide della psichiatria dal momento che si pensava fosse di natura congenita o  sopravvenisse nei primi due  anni di  vita  a  causa di un  trauma o di una infezione. Inizialmente – per la precisione – si parlava di idioti! Nel 1846 Édouard Seguin sostiene che l’idiozia è una infermità del sistema nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutte o parte degli organi e delle facoltà del bambino all’azione regolatrice della sua volontà, libe-randolo ai  suoi  istinti  e  sottraendolo al mondo morale. L’idiota  tipo è un individuo che non sa nulla, non può nulla e non vuole nulla 16.È a Dupré che, estendendo al mentale una qualifica fino ad allora riser-vata al fisico (dal latino de habilis), si deve l’introduzione nel 1909 del termine “debilità mentale” 17. Bisognerà,  invece, attendere Alfred Binet e Théodore Simon, durante  la  scolarizzazione di massa al  tempo della III Repubblica, per avere uno strumento in grado di misurare l’intelli-genza e – di conseguenza – individuare i “debili mentali” diffondendo-ne così il concetto 18.Lacan, psichiatra e psicoanalista, si scosta da questa impostazione basa-ta  su  una  definizione  deficitaria  della  debilità  mentale,  per  farne  una “malattia fondamentale del soggetto rispetto al sapere” 19, un “rapporto particolare  dell’essere  senza  il  sapere” 20.  In  effetti  il  soggetto  debile  si colloca nei confronti del sapere in un evidente rapporto di esteriorità, in 

16.  E. Seguin, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots, Baillière, Paris 1846, p. 107.17.  E.  Dupré,  “Débilité  mentale  et  débilité  motrice  associées”,  in  Revue Neurologique,  n.  20, 1910, pp. 54-56.18.  Si tratta della cosiddetta “Scala Binet-Simon” costituita da una cinquantina di item rappre-sentativi di età comprese dai 3 ai 15 anni. L’insieme degli item superati con successo forniva la misura dell’età mentale del soggetto la quale veniva confrontata con la sua età cronologica, resti-tuendo così un profilo di normalità, ritardo o precocità. Il debile mentale presentava un ritardo di due anni se ne aveva meno di 9 o un ritardo di tre se ne aveva più di nove; non superava mai – tuttavia – il livello mentale tipico dei 10 anni.19.  P. Bruno, “À coté de la plaque, sur la débilité mentale”, in Ornicar?, n. 37, 1986, p. 39, (tra-duzione nostra).20.  E. Laurent, “La jouissance du débile”, in Analytica, n. 51, 1987, p. 91, (traduzione nostra).

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cui domina il non comprendere niente o poco. E, tuttavia, costui non si situa, al contrario del soggetto psicotico, fuori discorso.Nell’insegnamento di Lacan sono stati da tempo identificati due diver-si  usi  del  termine  debilità.  Prima  del  1969  viene  adoperato  nel  senso classico della clinica psichiatrica, per indicare un quadro clinico parti-colare; successivamente è introdotto, invece, per definire il rapporto di chiunque con il sapere: si tratta qui della debilità che colpisce tutti e da cui lui stesso afferma di non essere esente.Nella lezione del seminario RSI del 10 dicembre 1974 afferma:

Se l’essere parlante si trova destinato alla debilità, è a causa dell’immaginario. Questa nozione, in effetti, non ha altra origine che nel riferimento al corpo. E il minimo presupposto che il corpo comporta è questo: ciò che l’essere par-lante si rappresenta non è altro che il riflesso del proprio organismo 21.

Qui la caratteristica principale della debilità sta nel fatto che l’essere par-lante pensi  l’universo a partire dal  riflesso del proprio corpo,  il macro-cosmo a partire dal micro, ossia la propria immagine metro e misura di tutte le cose. Il debile si appoggia così all’immagine che lo cattura e vi si fissa, mettendo al posto dell’ideale la verità dell’Uno del suo corpo.

Non è perché il soggetto si mette al posto di una verità che dice il vero. È piuttosto perché egli si identifica a questo posto che egli non è intelligente, che  egli  non  può  sopportare  di  leggere  tra  le  righe  il  tranello  dell’Altro. Sapere ciò che si dice, è sapere che tutto ciò che è detto non ha che senso fallico e come riferimento  l’oggetto. Per  leggere tra  le righe, bisogna sop-portare  di  sospendere  la  supposizione  del  riflesso  del  corpo.  È  questo  il reale impossibile da sopportare per il soggetto debile 22.

21.  J. Lacan, Le Séminare, Livre XXII, R.S.I., 1974-75, in Ornicar?, n. 2, 1975, p. 91, (traduzione nostra).22.  E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.

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Questa nozione di debilità verrà ripresa anche nel 1977, nel seminario L’ insaputo che una svista sa va alla morra, quando afferma che “l’uomo non se la cava molto bene in questa faccenda del sapere. È la sua debo-lezza mentale, né io faccio eccezione perché ho a che fare con lo stesso materiale di  tutti,  con  il materiale di  cui  siamo dimora. Con questo materiale non ci si sa fare” 23.Per Lacan –  sulla  scorta della parola  latina  intelligere –  l’intelligenza è la capacità di leggere tra le righe, andando al di là del senso, perché al di  là del senso c’è qualcosa attorno a cui il discorso gira 24. Così, a colui  che  legge  tra  le  righe,  Lacan  contrappone  colui  che  oscilla  tra due discorsi. Pierre Bruno, che a lungo si è interessato di questo tema, afferma che “la debilità mentale,  in quanto colpisce chiunque,  segna in  un  modo  particolare  alcuni,  che  si  fanno  notare  per  una  tenace resistenza, talvolta geniale contro tutto ciò che potrebbe contrastare la veracità dell’Altro” 25.Nel testo “Una questione preliminare” Lacan illustrando lo schema R presenta uno sdoppiamento all’interno del campo dell’Altro, formato da P (o luogo della Legge in cui si colloca la funzione paterna, l’azio-ne del Nome-del-Padre) e M (“significante dell’oggetto primordiale”, Altro  della  simbolizzazione  primordiale  fondata  sull’alternanza  pre-senza/assenza) 26.Ebbene, la debilità si pone direttamente in rapporto con quanto acca-de nel campo dell’Altro, formato sia da M che da P, alla cui “veracità” il debile si consacra interamente. Vedremo che Lacan, come Mannoni, collega  sempre  la  debilità  a  quanto  si  svolge  nel  discorso  dell’Altro, nella fattispecie quello genitoriale.

23.  J.  Lacan,  “Il  Seminario  di  Jacques  Lacan  (1976-77):  L’insaputo  che  una  svista  sa  va  alla morra”, in Ornicar?, 4, 1979, p. 24.24.  J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXII, R.S.I., 1974-75, cit., p. 92.25.  P. Bruno, “A cotè de la plaque, sur la débilité mentale”, cit., p. 39.26.  J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, cit., p. 549.

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3. i riferimenti di lacan alla debilità

3.0 il seminario ii. l’io nella teoria di freud (1954‑1955)

Troviamo  in  questo  seminario  un  primo  riferimento  alla  debilità.  Si tratta solo di un accenno ma richiama quanto poi dirà nel 1974 in RSI.

Sono molto  importanti  i modelli. Non che ciò voglia dire qualcosa – non vuole dire niente. Ma noi siamo fatti così – è la nostra debolezza animale – abbiamo bisogno di immagini. E, in mancanza di immagini, capita che dei simboli non vengano alla luce. In generale, (però) è piuttosto la deficienza simbolica che è grave 27.

Infatti, in questo seminario Lacan sostiene che la struttura fondamen-tale della nostra esperienza è di ordine  immaginario, così come  l’io e la  stessa  coscienza.  Al  contempo,  occorre,  però,  mantenere  un  certo 

27.  J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, Einaudi, Torino 2006, p. 103.

R

S

I

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dualismo  salvaguardando  quella  che  Lacan  chiama  l’ “autonomia  del simbolico” 28,  posizione  a  cui  Freud  si  è  sempre  tenuto  ma  che  i  suoi allievi hanno  rapidamente  abbandonato per  tornare  ad una posizione confusa e naturalistica dell’uomo che ha finito con il mettere in secon-do piano l’inconscio.

3.1 i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)

Un successivo riferimento risale al 1964 quando nel seminario I quat-tro concetti fondamentali della psicoanalisi,  Lacan  presenta  il  concetto di  alienazione  significante  che  “condanna  –  se  il  termine  condannato non suscita obiezioni da parte vostra – il soggetto ad apparire in quella divisione  che  ho  appena  articolato  sufficientemente,  dicendo  che,  se esso appare da un lato come senso, prodotto dal significante, dall’altro appare come afanisi” 29.

L’essere( il soggetto )

Ilnon senso

Il senso( l’Altro )

La dimensione di precedenza logica secondo cui “l’Altro per il soggetto [è]  il  luogo della  sua causa” 30  appare qui  in primo piano. Non è più  il 

28.  Ibidem, p. 45.29.  J.  Lacan,  Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 2003, p. 206.30.  J. Lacan, “Posizione dell’inconscio”, in Scritti, cit., vol. II, p. 844.

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soggetto che si aliena nell’immagine speculare, quanto piuttosto l’Altro che  il  soggetto  incontra  già  lì  in  una  esteriorità  irriducibile,  che  deter-mina l’essere del soggetto. L’alienazione, in quanto attiene alla struttura binaria del  significante,  illustra  la  funzione  “letale”  che questo  esercita sul soggetto e l’esistenza di un ordine sovraindividuale – com’è appunto quello  simbolico –  che precede  la dimensione dell’alienazione  immagi-naria dello stadio delle specchio.Si  tratta  dell’Altro  che Lacan  scrive  con  la  lettera maiuscola  per  indi-carne il suo statuto simbolico, irriducibile rispetto all’altro inteso come simile,  immagine  speculare,  altro  io,  e  quindi  depsicologizzato  fino  a coincidere  con  le  leggi  stesse  della  cultura  e  del  linguaggio,  ossia  un ordine sovraindividuale che determina,  soggiogandolo,  l’essere dell’uo-mo.  In  quest’ottica,  il  concetto  lacaniano  di  alienazione  è  diverso  sia da  quello  elaborato  dalla  filosofia  dialettico  illuminista,  sia  da  quello impiegato nella psicoanalisi post-freudiana.In questo contesto Lacan arriva a

formulare che, quando non c’è intervallo tra  e , quando la prima coppia di  significanti  si  solidifica,  si olofrasizza, abbiamo  il modello di  tutta una serie di casi,  anche  se,  in ciascuno  il  soggetto non occupa  lo  stesso posto. Per  esempio,  è  nella misura  in  cui  il  bambino,  il  bambino debile,  prende il  posto  di  questa  S,  rispetto  a  quel  qualcosa  a  cui  la  madre  lo  riduce,  a non essere più che il supporto del suo desiderio in un termine oscuro, che si  introduce  nell’educazione  del  debile  la  dimensione  psicotica.  È  precisa-mente ciò che la nostra collega Maud Mannoni, in un libro appena uscito e  di  cui  vi  raccomando  la  lettura,  tenta  di  indicare  […]  È  sicuramente di  qualcosa  dello  stesso  ordine  che  si  tratta  nella  psicosi.  Questa  solidità, questa presa in massa della catena significante primitiva è ciò che proibisce quell’apertura dialettica che si manifesta nel fenomeno della credenza 31.

31.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit., p. 233.

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0. s, s', s'', s''', …      a, a', a'', a''', … 

0. s, s', s'', s''', … = serie dei sensi     a, a', a'', a''', …  = serie delle identificazioni

Lo schema che Lacan qui presenta è effettivamente “un po’ oscuro” 32 ma se lo si legge a partire dalla polarità che in questo momento caratterizza il  suo  insegnamento,  ossia  la  duplicità  tra  soggetto  determinato  dallo scivolamento  significante  e  soggetto  del  godimento 33,  si  può  intravve-dere  un’anticipazione  dei  quattro  discorsi  (1969-70),  in  particolare  del discorso del padrone. Ciò che qui conta segnalare è che Lacan lega i due significanti  e  a tre termini che concernono il soggetto: la X, la serie dei sensi e la serie delle identificazioni.Questo mathème riprende quindi  la bipolarità tra  il soggetto del signi-ficante (rappresentato dallo zero in quanto scivola continuamente sotto la  catena  significante  consentendo  però  la  costituzione  della  serie  dei sensi) e il soggetto del godimento (in quanto a partire da i(a) si determi-na il rapporto del soggetto con il godimento dell’Altro – come succes-sivamente indicherà la formula del fantasma – producendo una serie di identificazioni). Lacan pone così la debilità dal lato di queste identifica-zioni che hanno attinenza con il soggetto del godimento.Dal momento che Lacan cita la Mannoni, vale la pena di riportare un passo significativo del suo libro:

Il  bambino  ritardato  e  sua  madre  formano  un  corpo  unico.  Il  desiderio dell’uno si confonde con quello dell’Altro, tanto che i due sembrano vivere 

32.  E. Laurent, “La psychose chez  l’enfant dans  l’enseignement de  Jacques Lacan”,  in Quarto, n. 9, 1982, p. 7.33.  J. Lacan, “Préface à  la  traduction des Mémoires de Schreber”,  in Le Cahier pour l’Analyse, n. 5, 1966.

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la  stessa  storia.  […] Rammentiamo prima di  tutto di  cosa  è  fatto questo rapporto fantasmatico.Per la madre, vera o adottiva, esiste un primo stadio, prossimo al sogno, in cui essa aspira ad avere “un figlio”; questo figlio è inizialmente una specie di evocazione allucinatoria di qualcosa della propria infanzia che è andato perduto.Quando  questo  figlio  così  ardentemente  desiderato  arriva,  cioè  quando la  richiesta  si  realizza,  la  madre  va  incontro  alla  prima  delusione:  eccola dunque questa creatura di carne, ma eccola anche separata da lei; mentre a livello inconscio la madre sognava una specie di fusione.A partire da questo momento, con questo figlio da lei separato la madre ten-terà di ricostruire il suo sogno. A questo figlio di carne si sovrappone un’im-magine fantasmatica che ha il compito di ridurre la delusione fondamentale della madre (delusione che ha una sua storia nell’infanzia stessa della madre).Si stabilisce così tra madre e figlio una situazione fittizia in quanto il figlio, nella  sua materialità,  riveste  sempre per  la madre  il  significato di qualche altra cosa. […] Molto viene quindi richiesto al  figlio. […] Il  figlio diventa a sua insaputa il supporto di qualcosa di essenziale per  la madre, donde il fondamentale  malinteso  tra  madre  e  figlio.  Il  figlio,  destinato  a  colmare la  mancanza  d’essere  della  madre,  non  ha  altro  significato  che  quello  di esistere per lei e non per sé. […] A sua insaputa, il figlio è come “rapito” nel desiderio della madre 34.

Tuttavia,  a  questa  tesi  Lacan  risponde  proprio  nel  seminario  undice-simo,  sottolineando  che  ciò  che  fa  Uno  tra  i  due  non  è  il  corpo,  ma l’olofrase,  meccanismo  che  è  posto  come  punto  di  partenza  per  una serie clinica che include psicosi, fenomeni psicosomatici e debilità 35. Va comunque  precisato  che  in  questo  passaggio  la  debilità  non  coincide tout court  con  la psicosi, ma  la dimensione psicotica  si  introduce nella 

34.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., pp. 70, 76-77.35.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit., p. 233.

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misura in cui il bambino occupa un certo posto: quello che nello sche-ma del seminario nono sopra riportato è in basso a destra 36.L’essere  umano  entra  nell’universo  del  senso,  quindi  nella  dimensione della  condivisione,  dello  scambio  e  del  legame  sociale  attraverso  l’in-gresso  in  quel  discorso  che  trova  già  lì  quando  nasce.  Si  tratta  di  un discorso che si costituisce come un campo ben definito che è quello del discorso  familiare,  sociale,  culturale,  etnico  che Lacan definisce  come ciò a cui il soggetto non ha accesso se non come assoggettato.

Ebbene io affermo che il bambino si abbozza come assoggetto. È un assog-getto  perché  si  sperimenta  e  si  sente  innanzitutto  come  profondamente assoggettato al capriccio di ciò da cui dipende, anche se questo capriccio è un capriccio articolato 37. […] Dunque, è nella misura in cui il bambino assume in primo luogo il desiderio della madre – e l’assume in una manie-ra in qualche modo grossolana, nella realtà del discorso – che è disposto a iscriversi al posto della metonimia della madre, vale a dire a diventare ciò che l’altro giorno ho chiamato il suo assoggetto 38.

È quindi nel desiderio dell’Altro che il soggetto “per un’anteriorità logica ad ogni  risveglio del  significato,  trova  il  suo posto  significante” 39,  cioè assume  una  posizione  precisa  all’interno  della  rete  familiare  e  sociale, strutturando così una rappresentazione di sé stesso nel mondo che, a sua volta, diviene per il soggetto stesso rappresentabile e conoscibile.L’olofrase  è  “il  nome  dato  da  Lacan  all’assenza  della  dimensione  di metafora” 40, quindi si presta bene a rappresentare la situazione in cui i rapporti del soggetto con il significante (e quindi con la realtà da esso 

36.  E. Laurent, “La psychose chez l’enfant dans l’enseignement de Jacques Lacan”, cit., p. 7.37.  J.  Lacan,  Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’ inconscio,  1957-1958,  Einaudi,  Torino 2004, p. 191.38.  Ibidem, p. 204.39.  J. Lacan, “La significazione del fallo”, in Scritti, cit., vol. II, p. 687.40.  A. Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, in Ornicar?, n. 42-43, 1987, p. 66, (traduzione nostra).

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mediata) non sono dialetizzabili. Dal punto di vista linguistico si tratta di una frase composta da una sola parola ma che – tuttavia – contiene la  struttura  minimale  di  una  frase  intera,  come  l’imperativo  “Vieni”, “Aiuto”,  “Pane”…  Lacan  ne  parla  per  la  prima  volta  nel  seminario primo  quando,  a  proposito  della  teoria  dell’Amore primario  di  Balint, ribadisce  che  non  vi  è  passaggio  automatico  tra  l’immaginario  e  il simbolico, o  tra  l’intelligenza animale  ed  il  linguaggio umano  (alcuni linguisti avevano visto nell’olofrase il passaggio tra il grido dell’animale ed il primo significante umano!).

Pensare è sostituire agli elefanti la parola elefante e al sole un tondo. Vi rende-te conto che tra quella cosa che fenomenologicamente è il sole […] e un tondo vi è un abisso. Il sole in quanto è designato da un tondo non vale niente. Non vale se non in quanto questo tondo è messo in relazione con altre formalizza-zioni, che insieme a quella costituiscono la totalità simbolica, in cui ha il suo posto. […] Il simbolo vale solo se lo si organizza in un mondo di simboli 41.

La parola in quest’ottica non rimpiazza la cosa, ma la fonda, la rende pre-sente su un fondo di assenza, la trasforma. Essa ha degli effetti sulla realtà.

L’importante  è  che  questo piccolo  animale  umano  sia  capace di  servirsi della  funzione  simbolica  grazie  alla  quale  possiamo  fare  entrare  qui  gli elefanti  qualunque  sia  la  strettezza  della  porta.  Tutto  parte  dalla  possi-bilità  di  nominare,  che  è  contemporaneamente  distruzione  della  cosa  e passaggio dalla  cosa al piano  simbolico, grazie  a  cui  s’installa  il  registro propriamente umano 42.

L’olofrase è il paradigma dell’unità della frase nella misura in cui codice e messaggio  si  trovano uniti. Nell’olofrase  il  soggetto  costituisce  con  il 

41.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, Einaudi, Torino 1978, p. 278.42.  Ibidem, p. 270.

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significante un monolito, anzi il soggetto si riduce a questo grido (“Pane”, “Aiuto”…) che l’identifica alla situazione, alla folla, alla sommossa e non ha bisogno di nominarsi: l’olofrase lo nomina sufficientemente.L’olofrase  è –  secondo  la definizione  che  ce ne dà Lacan –  la  solidifi-cazione  dei  due  significanti  -.  Sappiamo,  infatti,  che  ne  servono almeno due perché uno solo () non può rappresentare sé stesso se non grazie  ad  un  altro  ().  Tra  il  primo  significante  e  il  secondo  non  c’è coincidenza,  ma  intervallo  che permette  la  dimensione  della metafora (un significante viene al posto di un altro significante) o della metoni-mia  (spostamento  tra diversi  significanti). Non ci può essere metafora o  metonimia  nell’olofrase  perché  un  significante  non  può  sostituirne un’altro in quanto occupano lo stesso posto. La prima coppia dei signi-ficanti,  inoltre, è quella che determina  la divisione soggettiva,  facendo entrare in gioco il soggetto come mancanza, ma se nell’olofrase la cop-pia - non ha  intervallo, è olofrasata, allora  il  rapporto del soggetto con la propria mancanza si trova modificato.

Il soggetto non appare più come mancanza ma come monolito, in cui la significazione  è  uguale  al  messaggio  enunciato.  La  mancanza  di  inter-vallo tra - significa che il desiderio dell’Altro non appare al soggetto nella mancanza in cui sarebbe interrogabile e non lascia al soggetto alcu-na chance di modellarvi il proprio desiderio. Mancando così la dimensio-ne del desiderio nell’Altro rimane solo il godimento di cui il soggetto non può che ridursi ad essere l’oggetto. L’olofrase diventa in questo modo una nozione  strutturale,  come  quella  di  metafora  e  metonimia,  ma  “situata fuori dal campo discorsivo” 43, cioè “al limite, alla periferia” 44 del simbo-

43.  Stevens, “L’holophrase, entre psychose et psychosomatique”, cit., p. 69.44.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 279.

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lico, in quella “zona intermedia, ambigua tra il Simbolico e l’ Immagina-rio” 45. È per questo che essa si presta bene a spiegare, dal punto di vista strutturale,  il  caso  della  debilità.  Ricordiamo  che  nel  seminario  primo Lacan aveva detto che  l’olofrase  si  riferisce a quelle  situazioni “in cui  il soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro” 46.

È qui che il soggetto debile non essendo fuori discorso come nella psicosi, pur tuttavia oscilla tra i discorsi senza entravi del tutto. Il soggetto debile, infatti, nel tenersi ad opportuna distanza dal comprendere in cosa consista questo termine oscuro che ne condiziona il destino, evita  la possibilità di fare  chiarezza  sulla  sua  collocazione mantenendosi,  viceversa,  in quell’at-mosfera  di  incertezza,  di  nebulosità  e  di  vaghezza  che  caratterizza  la  sua posizione  nel  mondo;  fluttuante  ma  congelato  nella  specularizzazione immaginaria con la madre. 47

3.2 l’atto psicoanalitico (1968)

Riferendosi al concetto di atto psicoanalitico, Lacan rivendica il carat-tere  inedito  di  questa  formulazione  posta  dal  lato  dello  psicoanalista. L’atto analitico, infatti, entra in gioco all’inizio di ogni analisi, renden-do possibile “il lavoro dell’analizzante” 48 facendo ritornare al soggetto la propria domanda in forma invertita. Solo in questo modo l’analizzante coglie  qualcosa  della  propria  responsabilità  rispetto  all’enigma  che  la sua domanda o la sua lamentela cela ed inizia il lavoro analitico vero e proprio. “Cominciare l’analisi è un atto; esso non è dal lato dell’analiz-zante ma dal lato dell’analista” 49. L’atto quindi è dalla parte dell’Altro e 

45.  Ibidem, p. 268.46.  Ibidem, p. 279.47.  F. Lolli, Percorsi minori, cit., p. 32.48.  J.  Lacan,  Il Seminario. Libro XV, L’atto analitico,  (inedito)  lezione  del  31  gennaio  1968, (traduzione nostra).49.  Ibidem, lezione del 10 gennaio 1968, (traduzione nostra).

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gli effetti sono dal lato dell’analizzante. È in questo contesto che Lacan evoca la debilità. “Certamente, capita, come è stato dimostrato in posti molto buoni, che i bambini scivolino nella debolezza mentale per l’azio-ne degli adulti” 50.

3.3 due note sul bambino (1969)

Il testo “Due note sul bambino” è una lettera scritta da Lacan all’amica Madame Aubry, pioniera nell’aiuto all’infanzia, che cercava di inventa-re forme nuove di sostegno per i bambini in difficoltà. Dopo aver parla-to del sintomo del bambino come “verità della coppia familiare”, Lacan passa al punto di maggior interesse per quanto attiene al nostro tema:

L’articolazione si riduce di molto quando il sintomo che giunge a dominare è di pertinenza della soggettività della madre. In questo caso il bambino è inte-ressato  direttamente  in  quanto  correlativo  di  un  fantasma.  La  distanza  tra l’identificazione con l’ideale dell’io e la parte presa dal desiderio della madre, se non ha  alcuna mediazione  (quella  che  assicura normalmente  la  funzione del  padre)  lascia  il  bambino  aperto  a  ogni  presa  fantasmatica.  Egli  diventa “l’oggetto” della madre,  e non ha  altra  funzione  che di  rivelare  la  verità di questo oggetto. Il bambino realizza la presenza di ciò che Jacques Lacan desi-gna come l’oggetto a nel fantasma. Egli satura, sostituendosi a quest’oggetto, il modo di mancanza in cui si specifica il desiderio (della madre), qualunque ne sia la struttura particolare: nevrotica, perversa o psicotica 51.

Se è vero che ogni bambino piccolo in quanto infans necessita di cure e quindi di essere oggetto di queste, se è vero che – freudianamente – ogni bambino in quanto tale partecipa del fantasma della madre (essere il fallo 

50.  Ibidem, lezione del 21 febbraio 1968, (traduzione nostra).51.  J. Lacan, “Due note sul bambino”, in La Psicoanalisi, n. 1, 1987, pp. 22-23.

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che le manca), è altrettanto vero – secondo Lacan – che se il bambino è vissuto unicamente come correlativo del fantasma materno, anziché esse-re considerato un soggetto desiderante incarna l’oggetto a della madre.Si tratta ancora una volta di far dipendere la sorte del soggetto da quan-to si svolge nel campo dell’Altro, qui ben collocato tra la prevalenza del fantasma materno e l’esclusione della funzione del terzo.

3.4 da un altro all’altro (1968‑69)

Nella  lezione  del  12  febbraio,  tornando  sulla  questione  della  debilità, Lacan  “rinvia  alla  chiave di  lettura  apportata  senza  fare  tanto  strepito dalla nostra cara Maud Mannoni […]. Si tratta del rapporto che i debili mentali  intrattengono  con  la  configurazione  che  ci  interessa,  che  evi-dentemente ci brucia, a noi analisti, a livello della verità” 52.Mannoni si esprime così a proposito della verità e della menzogna:

Bisogna  liberare  la  parola  del  soggetto  dalla  menzogna  nella  quale  è imprigionata. L’analista deve poter andare al di  là del  linguaggio oggetti-vante, anonimo, per condurre il paziente “al linguaggio del suo desiderio” (Lacan). È attraverso una menzogna che  si può ritrovare  la verità.  […] Il bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile, che per lui significa la propria morte. […] Bisognerà far capire ai genitori, in rapporto alla loro stessa storia, la genesi delle difficoltà del figlio, senza calcare  sui  sentimenti  di  colpa,  valorizzando  i  genitori  nel  loro  ruolo  di genitori, il bambino nella sua condizione di soggetto, pur lasciando intrav-vedere i malintesi 53.

Lacan,  inoltre,  in  questa  lezione  del  1969  evoca  il  fatto  che  qualcosa 

52.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVI, D’un Autre à l’autre, 1968-1969, Seuil, Paris 2006, p. 174.53.  M. Mannoni, Il bambino ritardato, cit., pp. 91, 99, 169.

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“nella  debilità mentale  si mette  a  fluttuare”,  termine  che  riprenderà  – come abbiamo già accennato – nel 1972.

3.5 ou pire (1972)

Qualche anno dopo Lacan pronuncia la frase che abbiamo già incontra-to ma ora che vale la pena riprendere.

Chiamo debilità  il  fatto che un essere, un essere parlante, non sia  solida-mente  installato  in  un  discorso.  In  questo  consiste  il  pregio  del  debile. Non c’è altra definizione che gli si possa dare, se non quella di essere un po’ à côté de la plaque (fuori strada), ossia di oscillare tra due discorsi. Per essere solidamente installati come soggetto bisogna attenersi a uno oppure sapere ciò che si fa 54.

Il debile oscilla quindi tra due discorsi. Nella teoria lacaniana ne cono-sciamo  quattro  che  rappresentano  “l’articolazione  significante,  ovvero quell’apparecchio la cui sola presenza o il cui statuto esistente domina e governa tutto ciò che può eventualmente nascere da parole. Sono discor-si senza la parola, la quale viene solo dopo a trovarvi sistemazione” 55. Nel funzionamento di questo apparecchio ci sono due termini fondamentali per comprendere la questione della debilità: il sapere e la verità. Il primo, , è uno dei quattro termini; la verità è uno dei quattro posti (in basso a destra).  In  rapporto al godimento  la verità è  sorella del godimento 56, mentre il sapere (l’articolazione simbolica) è solo mezzo di godimento 57.Eric  Laurent  sottolinea  bene  che  il  paradosso  del  debile  è  di  premu-nirsi  dal  sapere  identificandosi  ad un posto nel  quale,  tuttavia,  non  è 

54.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIX, Ou pire, cit., lezione del 12 marzo 1972, (traduzione nostra).55.  J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001, p. 208.56.  Ibidem, p. 288.57.  Ibidem, p. 57, 94.

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solidamente fissato 58. Potremmo usare, a questo proposito, l’immagine del fanatico religioso: installato nel posto della verità, coincide con essa financo  alla  morte,  ma  proprio  per  questa  coincidenza  è  escluso  dal sapere  che,  invece,  è  articolato,  aperto,  mobile  e,  proprio  per  questo, in grado di sorprendere. Non a caso Lacan ci insegna che “succhiare il latte della verità è allettante ma tossico” 59 in quanto da un lato seduce, ma dall’altro addormenta, ragion per cui bisogna stare allerta perché è lì “per fregarci”. Anche il sapere è pericoloso quando, anziché presentarsi come  articolazione  che  gira  attorno  ad  un  vuoto,  tende  a  presentarsi come una totalità chiusa.

L’idea che il sapere possa fare totalità […] lo si sa da molto tempo. L’idea immaginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appog-gia  sulla  buona  forma  del  soddisfacimento,  su  ciò  che,  al  limite,  diviene sferico, è sempre stata utilizzata in politica dal partito del predicozzo. Che c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiu-sura del soddisfacimento? La collusione di questa  immagine con l’idea di soddisfacimento, ecco contro cosa dobbiamo lottare 60.

È solo nel discorso dell’analista che il sapere occupa il posto della verità e produce certi effetti, perché qui il sapere si apre e “parla da solo, ecco l’inconscio” 61.

 ▲ L’analista, che occupa il posto di a, è lì “per far sì che l’analizzante sappia tutto quel che non sa pur sapendolo. L’inconscio è questo” 62. Sapere e veri-tà, tuttavia, ponendosi sul registro del senso, proteggono dal reale, mentre 

58.  E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 93.59.  J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 231.60.  Ibidem, p. 29.61.  Ibidem, p. 82.62.  Ibidem, p. 138.

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l’esperienza analitica ha di mira proprio “trovare il reale […] dove più che essere il soggetto a trovarlo è il reale che lo trova, lo raggiunge” 63. Ma pro-prio perché il discorso analitico possa articolarsi in questo modo, occorre essere nel discorso del padrone, altro nome del discorso dell’inconscio.

Per  essere  nel  discorso  dell’inconscio  bisogna  essere  stati  afferrati  nel discorso  universale,  e  che  questo  discorso  universale  sia  calato  su  di  voi, a  battezzarvi,  a  transustantivificarvi  attraverso  un  significante  padrone. Se non è accaduto così,  se qualcosa è  fallito  in questa cattura  iniziale,  se il significante-padrone è stato agganciato male, di traverso, allora non si è nel discorso dell’inconscio 64.

Se  non  si  è  ben  ancorati  al  significante  padrone,  uno  dei  possibili destini è fluttuare ed essere così nella debilità. Peter Walleghem decli-na  alcune  modalità  di  questo  fluttuare,  ondeggiare,  oscillare  tra  due discorsi facendo riferimento ad alcuni casi clinici 65:–  un  lasciarsi  cullare  dalle  onde  dei  significanti  senza  veramente  dire qualcosa, senza rappresentarsi mai come soggetto;– un ripetere continuamente le stesse parole o le stesse frasi, come se si girasse intorno ai diversi discorsi senza mai installarsi veramente in uno;–  un  continuo  galleggiamento  tra  possibili  verità:  ogni  enunciazione rappresenta una nuova verità senza che se ne assuma mai una in parti-colare o si sviluppi un atteggiamento critico.

3.6 lo stordito (1972)

Lacan ad un certo punto di questo  testo affronta  il  tema della  sessua-lità  femminile  e  ironizza  su  come  alcuni  autori  classici,  tra  cui Karen 

63.  J.-A. Miller, “L’esperienza del reale nella cura analitica”, in La Psicoanalisi, n. 25, 1999, p. 205.64.  J.-A. Miller, “Quando i sembianti vacillano”, cit., p. 20.65.  P.  Walleghem,  “Le  débile  et  son  discours.  Quelques  réflexions  cliniques”,  in  Les Feuillets di Courtil, n. 6 1997, pp. 113-121.

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Horney, Helene Deutsch ed Ernest Jones, abbiano trattato la questione. A partire da questa constatazione, con una certa vena ironica, desume “che la sottigliezza logica non esclude la debolezza di mente che, come dimostra una donna della mia scuola, risulta dal dire parentale anziché da un’ottusità nativa” 66.Si tratta dei casi presentati nel libro della Mannoni, dove – ad esempio –  si  fa  riferimento al  semplice  fatto che più  il bambino  sente dire che non è capace di fare certe cose, tanto più sarà incapace di farle.

La  via  che  conduce  al  significato  della  debolezza  mentale  passa  per  la strada dei genitori. Solo chiarendo a livello dei genitori la posizione che il bambino occupa nei loro fantasmi, si arriva ad ottenere quel distacco che permetterà in seguito l’analisi del debole mentale 67.

4. la formazione del concetto e la costruzione della realtà

Siamo  partiti  dalla  definizione  dell’AAIDD  per  introdurci  nel  campo della debilità,  tuttavia  se  tentiamo di precisare  la natura del nucleo di fondo,  incistato nella  sua  immutabilità,  a  fronte della  variabilità  feno-menica dell’insufficienza mentale, troviamo che esso si coagula intorno a quello che potremo definire un difettoso funzionamento del  sistema simbolico, a motivo di una predominanza del registro immaginario che non permette la formazione del concetto che “è ciò che fa sì che la cosa sia là, pur non essendoci” 68.Occorre, tuttavia, sottolineare – in quest’epoca in cui il cognitivo la fa da padrone su tutto – che per la psicoanalisi il simbolico

66.  J. Lacan, “Lo stordito”, in Scilicet 1/4, Feltrinelli, Milano 1977, p. 363.67.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 67.68.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 298.

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non  va  confuso  con  il  cognitivo,  non  va  ridotto  o  sovrapposto  all’intel-lettivo.  Il  cognitivo  e  l’intellettivo,  nell’ottica  psicoanalitica,  possono svilupparsi nel soggetto a condizione che egli sia ben installato nel sistema simbolico;  dunque  l’acquisizione  di  capacità  intellettive  è  uno  degli  esiti della primordiale iscrizione del soggetto nell’universo simbolico, uno degli effetti possibili di un suo adeguato posizionamento nel mondo che lo acco-glie. Se  il  bambino non  incontra questa possibilità di  includersi nell’uni-verso  significante,  le  conseguenze  sono quelle  che Spitz ha ben messo  in luce nelle sue fondamentali osservazioni sui bambini ospedalizzati e istitu-zionalizzati; il bambino sviluppa una serie di sintomi tra cui, di particolare interesse, quello che Spitz definisce inibizione intellettiva 69.

Per Lacan, infatti, la parte essenziale dell’esperienza umana, “l’esperien-za del soggetto nel vero senso della parola, quella che fa sì che il sogget-to esista, si colloca a livello del sorgere del simbolico […] l’apparizione di una dimensione completamente differente da quella del reale” 70.Come aveva già detto nel seminario primo “il linguaggio non è conce-pibile altrimenti che come un reticolo, una rete sull’insieme delle cose, sulla totalità del reale: esso inscrive sul piano del reale quell’altro piano, che qui chiamiamo il piano simbolico” 71.Il  linguaggio  è,  in  quest’ottica,  una  sorta  di  mantello  che  copre  il mondo  delle  cose  –  il  reale  –  ed  è  nel  linguaggio  che  l’essere  vivente diventa  essere  umano.  La  sua  umanizzazione  passa  attraverso  questo fondamentale snodo che è l’ingresso nell’universo simbolico. Il signifi-cante è,  infatti,  il medium attraverso cui  il  soggetto può rapportarsi al mondo assicurando quella giusta distanza dal mondo che rende pratica-bile il mondo stesso.Nel seminario settimo Lacan sottolinea spesso la necessità di una giusta distanza da Das Ding, come luogo mitico di origine da cui proveniamo.

69.  F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 37.70.  J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 252.71.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.

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Ciò  che  troviamo  nella  legge  dell’incesto  si  situa  come  tale  a  livello  del rapporto inconscio con Das Ding,  la Cosa. Il desiderio per la madre non può  essere  soddisfatto  perché  sarebbe  la  fine,  il  termine,  l’abolizione  di tutto  l’universo  della  domanda,  che  è  quel  che  struttura  più  profonda-mente l’inconscio nell’uomo. È proprio in quanto la funzione del princi-pio del piacere è di far sì che l’uomo cerchi sempre ciò che deve ritrovare ma  che  non  può  certo  raggiungere,  che  l’essenziale  sta  proprio  qui,  in questa molla,  in questo  rapporto che  si  chiama  la  legge dell’interdizione dell’incesto. […] Questo ci porta ad interrogare il senso dei dieci coman-damenti in quanto essi sono legati nel modo più profondo a ciò che regola la distanza tra il soggetto e Das Ding, in quanto tale distanza è appunto la condizione della parola 72.

In fin dei conti fin dal seminario secondo il simbolico è descritto come “una  successione di  assenze  e di presenze, o piuttosto della presenza  su un  fondo  di  assenza,  dell’assenza  costituita  dal  fatto  che  una  presenza possa  esistere.  Non  c’è  assenza  nel  reale.  C’è  assenza  se  suggerite  che può esserci una presenza dove non ce n’è. Io propongo di situare nell’in principio la parola in quanto crea l’opposizione, il contrasto” 73. A partire da questo presupposto può sostenere che è solo dal momento in cui l’og-getto può essere nominato, “che la sua presenza può essere evocata come dimensione originaria, distinta dalla realtà. La nominazione – dice Lacan – è evocazione della presenza, e sostegno della presenza nell’assenza” 74.La nominazione dell’oggetto,  infatti, dona  all’oggetto  stesso un valore trans-oggettuale:  l’oggetto  può  esistere  o  può  essere  evocato  anche  se non  è  presente.  In  tal  modo  l’oggetto  si  svincola  dal  rapporto  imma-ginario ed esiste al di là di esso, ed al contempo, si svincola pure dalla dimensione temporale, dalla necessità della presenza. È per questo che 

72.  J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi, Torino 1994, pp. 83, 86.73.  J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., pp. 358-359.74.  Ibidem, pp. 294-295.

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Lacan può dire che “il nome è  il  tempo dell’oggetto” 75. L’intelligenza, intesa  come capacità di problem solving,  è  in ultima  analisi un  saperci fare con l’assenza dell’oggetto (il proprio corpo in primis !). La distanza dall’oggetto  è  posta  così  all’origine  dell’evoluzione  del  pensiero,  dal momento  che  solo  l’assenza  dell’oggetto  consente  la  messa  in  atto  di quei pensieri di ricerca ed invenzione che sono alla base della umaniz-zazione.  Il  simbolico  opera,  infatti,  come  una  sorta  di  gigantesca  rete che raccoglie l’intera massa dei dati dell’esperienza promuovendone una trasformazione significante. “Vi do una definizione possibile della sog-gettività, formulandola come sistema organizzato di simboli, che tende a coprire la totalità di un’esperienza, ad animarla, a darle un senso” 76.Si  costituisce  così  quel  “campo  simbolico  che  non  è  in  semplice  rap-porto  di  successione  col  dominio  immaginario” 77  ma  dimensione  che permette di orientarsi nel mondo e nello spazio.

5. la costruzione del “debile”

Per  quanto  sia  evidente  il  duplice  uso  del  termine  debilità  lungo  l’inse-gnamento di Lacan,  tale  scansione anziché complicarne  la concezione  la illumina. Ci sono infatti due fili che con spessore e grana diversa si intrec-ciano nello snodarsi del percorso. Da un lato, una certa “carenza simbo-lica”  presente  a  partire  dal  seminario  primo  nei  termini  di  “deficienza simbolica” fino al seminario diciannovesimo nell’immagine del non esse-re  “solidamente  installati  in  un  discorso”;  dall’altro,  il  potere  di  cattura dell’immaginario che porta con sé il rischio della debilità. Ogni volta che Lacan evoca qualcosa del registro immaginario mette in guardia da que-sto  rischio,  come quando afferma che “l’immagine può condurre  ad un 

75.  Ibidem, p. 195.76.  Ibidem, p. 195, p. 49.77.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 276.

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notevole rincitrullimento” 78 o che “il sentito come mentale, il sentimenta-le, è debile, perché per qualche verso sempre riducibile all’immaginario” 79.Come quindi intrecciare questi due fili? Ci pare stia proprio in questo particolare annodamento  la differenza  tra psicosi e debilità. Nella psi-cosi il simbolico è “saltato” per definizione e le conseguenze di ciò sono l’assenza di questa “rete che copre il reale” 80 o di questo “sistema orga-nizzato di simboli, che tende a coprire la totalità di un’esperienza” 81, ma anche  una  libertà  e  capacità  inventiva  che  solo  nella  psicosi  possiamo trovare. Infatti, è proprio quando manca il Nome-del-Padre “che si apre la dimensione inventiva del sintomo. Noi non domandiamo alcun pri-vilegio per il Nome-del-Padre”. Infatti, lo psicotico, “a differenza degli altri uomini, non ha una maschera: è lucido, non ha dei sembianti per supportarsi  rispetto  al  reale,  non  ha  i  sembianti  di  tutti.  Lui  i  propri sembianti deve  fabbricarseli.  […] Vediamo che per  i  soggetti che sono sprovvisti  dei  sembianti  di  tutti  è  necessaria  la  creazione  del  proprio sembiante” 82. Certo,  la  creazione psicotica  si  staglia  sullo  sfondo della forclusione  e,  come  Jacques-Alain  Miller  ha  scritto,  l’oggetto  d’arte viene proprio a supplire alla forclusione del Nome-del-Padre 83.

P 0

Così  il  sinthomo  nella  sua  equivalenza  al  Nome-del-Padre  non  è  più riconducibile  esclusivamente  all’articolazione  simbolica o  al  suo valore di Legge, ma al suo valore di “apparato”, “cardine”, “annodamento” che consente di articolare in maniera inedita il significante al godimento 84.

78.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, 1970-1971, Einaudi, Torino 2010, p. 20.79.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo, 1975-1976, Astrolabio, Roma 2006, p. 35.80.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., p. 323.81.  J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 195, p. 49.82.  J.-A. Miller (a cura di), Il sintomo psicotico. Conversazione di Roma, Astrolabio, Roma 2001, p. 214.83.  J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, in La Psicoanalisi, n. 9, 1991, p. 149.84.  Cfr. IRMA, La conversazione di Archachon, Astrolabio, Roma 1999, pp. 123-27, 141-43, 223-26.

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È  il  reale  a  permettere  di  snodare  effettivamente  ciò  in  cui  il  sintomo consiste, cioè un nodo di  significanti. Qui annodare e  snodare non sono metafore,  ma  vanno  presi  come  quei  nodi  che  si  costruiscono  realmente facendo catena della materia  significante. Queste catene  infatti non sono di senso, non sono di sens ma di jous-sens, da scrivere come volete confor-memente all’equivoco che costituisce la legge del significante 85.

Per  Lacan,  Joyce  ha  avuto  il  privilegio  di  “testimoniare”  la  possibilità che  il  sinthomo  –  come  nodo  e  “cosa  più  singolare  di  ogni  indivi-duo” 86 –,  offre nel  supplire  alla mancanza dell’Altro,  al  difetto  fonda-mentale della struttura. Attraverso la scrittura, Joyce è riuscito a farsi un nome,  che costituisce per  lui una “compensazione della  carenza pater-na” e, attraverso l’arte, una supplenza alla sua “tenuta fallica debole” 87. La sua opera come sinthome rappresenta quel quarto anello che viene ad annodare gli altri registri altrimenti disgiunti, impedendo allo scrittore di giungere allo scatenamento della psicosi. La creazione artistica, infat-ti, rappresenta una delle modalità privilegiate attraverso cui è possibile non  solo arrivare a una  stabilizzazione post-scatenamento, ma anche a operare una supplenza evitando radicalmente lo scatenamento 88.Nella  debilità,  invece,  il  simbolico  non  è  del  tutto  saltato,  vi  è  una “deficienza  simbolica” 89  che  riduce  il  potere  del  simbolico  di  fare  da medium  nei  confronti  della  realtà  e  –  al  contempo  –  lascia  il  campo aperto al dominio del registro dell’immaginario,  i cui effetti sono evi-denti nella clinica della debilità.Si tratta allora di capire “cosa c’è di perturbato a livello del linguaggio”, come si chiedeva Mannoni nel suo libro. Ebbene, è proprio all’interno del  discorso  familiare  che  occorre  andare  a  verificare  il  posto  che  il 

85.  J. Lacan, “Televisione”, in Radiofonia, Televisione, Torino, Einaudi, 1982, p. 74.86.  J. Lacan, “Joyce il sintomo”, La Psicoanalisi, 23, n. 1998, p. 18.87.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXIII, Le sinthome, 1975-76, Ornicar?, n. 6, 1976, p. 6,  (tra-duzione nostra).88.  J.-A. Miller, “Sette considerazioni sulla creazione”, cit., p. 149-50.89.  J. Lacan, Il Seminario, Libro II, L’ io nella teoria di Freud, 1954-1955, cit., p. 103.

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bambino debile occupa, perché molto spesso è quello di essere “il pegno vivente di una menzogna a livello della coppia parentale” 90. Il bambino rimane  così  incastrato  a difendere una  verità,  preferendo  fluttuare  tra gli  elementi  che  la  costituiscono,  piuttosto  che  affrontarne  o  tradirne i  segreti. Si  tratta di una verità che  lo  seduce, per quanto possa essere triste  o drammatica,  urlata  o  colta  tra  i  silenzi  del non detto,  presen-tandosi sempre, come i riferimenti all’immagine del corpo riflesso o al “sapere  chiuso”  suggeriscono,  con  quella  buona forma  che  costituisce una  “trappola” 91  ed  un  inganno,  quello  stesso  (microcosmo/macroco-smo) evocato da Lacan proprio per spiegare la posizione del debile 92.

Il bambino mentalmente debole affronta spesso nei genitori l’inaffrontabile, che per lui significa la propria morte. […] Che si tratti di desiderio di morte trasformato in amore sublime, nel caso di un bambino molto grave o di un rifiuto materno che conferisce a un bambino leggermente deficiente l’aspet-to di un ritardato grave perché  si  sente  in diritto di esistere  solo  facendo  il morto;  che  si  tratti  del  dramma  esistente  tra  i  genitori  e  i  loro  ascendenti, dramma che crea  in  loro il panico appena si  trovano a  loro volta nei panni di genitori; o che  si  tratti di un  incidente mortale nel quale  il bambino ha creduto di essere coinvolto 93.

In tutti i casi la funzione del bambino è di proteggere i genitori a prezzo di una fissità che come l’olofrase “si riferisce a situazioni limite, in cui il soggetto è sospeso in un rapporto speculare con l’altro… in questa zona intermedia, ambigua, tra il simbolico e l’immaginario” 94.Altro  che  sempre  più  spesso  non  è  solo  la  madre,  ma  la  coppia  geni-toriale  all’interno della quale  la  funzione del  terzo  anziché mettere  in 

90.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 69.91.  J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’Angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 275.92.  Cfr. J. Lacan, Il Seminario, Libro IX, L’ identificazione, 1961-1962, (inedito),  lezione del 13 dicembre 1961, (traduzione nostra).93.  M. Mannoni, Il bambino ritardato e la madre, cit., p. 99.94.  J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954, cit., pp. 279, 269.

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moto  il  discorso  del  padrone,  contribuisce  a  sigillare  questo  pezzo  di verità  come un   tutto  solo, nome che dopo  il  seminario undicesimo Lacan dà all’olofrase.Si  tratta  quindi  di  un  sapere  ridotto  all’osso  che  viene  ad  occupare  il posto della verità, ma non come dovrebbe essere nel discorso dell’ana-lista, bensì come chiusura radicale all’inconscio e ad ogni altro sapere. Gli basta quello che sa! Potremmo qui evocare qualcosa dell’ordine del “significante  immaginario”  che  Lacan  introduce  a  proposito  del  fallo. Ci pare di poter dire che ciò che  il bambino debile capta nel discorso familiare ha una struttura significante (fosse anche un’immagine o una scena  dal  momento  che  quando  “l’immagine  è  resa  unica  può  essere significantizzata” 95)  che  funziona  nel  registro  immaginario  e  che  ha un’articolazione piuttosto povera.“Il debile, bambino o adulto, si identifica deliberatamente a un signifi-cante passe-partout che, come risposta, anticipa ogni domanda. Questa risposta equivale ad un nome proprio – è un’olofrase – e questa blocca l’equivoco  significante  della  lingua  che,  altrimenti,  obbligherebbe  il soggetto a prendere posizione in rapporto al desiderio” 96. Questo signi-ficante passe-partout, il debile lo preleva dal discorso familiare, solo che anziché venirne marcato in modo tale da entrare nell’articolazione che produrrebbe  il  soggetto,  resta ancorato a questo  significante e  fluttua. Fluttuare non significa andare avanti, cosa che invece attiene al discor-so  del  padrone  il  cui  scopo  è  “che  la  cosa  funzioni” 97,  ma  rimanere incagliati  tra qualcosa che, pur  lasciando un minimo di  lasco, non ne permette un pieno movimento. Come quando,  la barca  fissata tra due ormeggi, fluttua sulle acque leggermente mosse senza prendere il largo.Nella  debilità  abbiamo  questo    tutto  solo,  l’Uno  della  fascinazione 

95.  J.-A.  Miller,  “L’immagine  regina”,  in  Delucidazioni su Lacan,  Antigone,  Torino  2008,  p. 396; Cfr. J.-A. Miller, “Silet”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, p. 234: “l’immagine può benissimo avere funzione di significante”.96.  A. Di Ciaccia, “Lacan et l’intelligence”, in Preliminaire, n. 5, 1993, p. 100.97.  J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 20.

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Nicola Purgato | Debilità, o il potere dell’immaginario | 51

immaginaria, che non apre all’ideale, ma richiude sull’immagine del pro-prio corpo o sulla bella  forma di un sapere chiuso e  sferico. “L’Uno del debile – infatti – non è l’Uno dello psicotico a causa dell’immaginario” 98.Anche il reale del sesso rimane chiuso in questo circuito e non diventa né traumatico (il debile generalmente non conosce angoscia), né causa di interrogazione sull’origine, sulla vita e sulla morte come Freud pensa-va, tanto da arrivare ad ipotizzare un parallelismo tra precocità sessuale e precocità intellettuale 99. Anzi, nella debilità il corpo stesso si fa carico di questa verità monolitica ed anziché aprire all’interrogazione si mostra nella sua realtà sessuata attraverso  l’esibizione masturbatoria, ovverosia il “godimento dell’idiota” 100.

L’adesione rigida e inflessibile ad una significazione diviene l’identità inva-riabile  del  soggetto  stesso.  La  persona  con  ritardo  mentale  appare  come marchiata da un tratto incancellabile e irrinunciabile che la rende identica a se stessa nel tempo e nello spazio, fuori dal ciclo delle mutazioni e delle trasformazioni  che,  generalmente,  caratterizzano  un  percorso  di  ricerca personale. […] Troviamo un eccesso di identità congelata in una significa-zione univoca, una fissazione del soggetto che aderisce ad una sorta di sigla che lo contrassegnerà in maniera definitiva. Non c’è posto per l’incertezza, per  l’interrogazione,  per  il  dubbio.  In  questi  casi  viene  in  primo  piano l’aspetto monolitico della struttura, la corrispondenza puntuale tra l’essere e l’identità, la coincidenza assoluta tra il soggetto e la significazione scelta che non lascia spazio a vissuti di titubanza 101.

Non  sarà  possibile  aprire  questo  “sapere  chiuso”,  questo   tutto  solo, questo  “significante  passe-partout”  se  non  liberando  la  parola  del  sog-

98.  E. Laurent, “La jouissance du débile”, cit., p. 92.99.  Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1970, vol. IV, p. 544; S. Freud, Teorie sessuali dei bambini, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1972, vol. V, pp. 458-459.100.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 80.101.  F. Lolli, Percorsi minori dell’ intelligenza, cit., p. 51.

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getto  dalla  menzogna  nella  quale  è  imprigionata,  menzogna  che  oggi sempre più si gioca a livello della coppia genitoriale.Non è un caso che molti bambini o adolescenti che si presentano oggi come  debili  siano  l’effetto  di  certi  tipi  di  separazioni  o  che  –  più  in generale –  in una  società dominata dall’immaginario,  la debilità  sia – come già Lacan aveva detto – la normalità.

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Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del sog-getto

inibizione allo studio, anoressia, suicidiocome tentativi di esistenza del soggetto * 1

di Giovanna Di Giovanni ** 2

Nel campo dell’età evolutiva si richiede sempre più spesso agli “esperti” un inter-vento per le “nuove forme del sintomo” del disagio giovanile. L’ inibizione allo stu-dio, le forme di anoressia, il suicidio tentato o raggiunto sono presi in esame, ana-lizzati al microscopio fenomenologico e comportamentale, nel tentativo di isolare il “male” del ragazzo. L’Altro familiare, educativo, sociale respinge ogni implica-zione e non vuole accorgersi che al fondamento del disagio possa esserci un rifiuto degli oggetti di consumo già pronti, della via già tracciata, che al giovane sono presentati come soluzioni di vita “normale” a cui non resta che adeguarsi. Quello che invece il ragazzo chiede con il rifiuto – talora fino alla morte – è che l’Altro prenda atto della sua esistenza come soggetto irripetibile, singolare nell’emergere del desiderio e nella ricerca degli oggetti di soddisfazione.

Parole chiave: disagio giovanile, inibizione allo studio, anoressia, suicidio

Per chi si trova ad operare nel campo dell’età evolutiva e con le diverse istituzioni  che  si  occupano degli  adolescenti  e dei  giovani,  la  richiesta di intervento per queste che sono state dette “nuove forme del sintomo” 

*  Intervento tenuto nel corso di una tavola rotonda con genitori,  insegnanti,  ragazzi di Scuole Superiori sulle “Manifestazioni attuali del disagio giovanile”, dicembre 2008.**  Giovanna  Di  Giovanni  è  iscritta  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  dei  Medici  di Milano; è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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è  sempre più  frequente e pressante,  talvolta  connotata da una  sorta di disperazione, quasi di rabbia o di sfida più che da un desiderio di aiuto a  capire,  e  comunque  di  urgenza:  vediamo  dunque  cos’ha  da  dire,  e soprattutto da proporre o da fare, e in fretta, “l’esperto”.Questa  è  infatti  una  parola-chiave  della  nostra  epoca  scientifica,  che sempre  più  suddivide  e  rende  oggetto  l’individuo  per  stupirsi  poi  che questo manifesti in qualche forma di rifiuto il suo essere irriducibile ad ogni classificazione.Si è detto “nuove forme del sintomo”, anche se sempre le forme del sin-tomo sono prese dall’attualità del sociale di ogni epoca, dal Medio Evo, quando alcune donne apparivano in comunicazione con un misterioso al di là e per questa comunicazione terrorizzante venivano bruciate sul rogo, fino all’800, quando invece svenimenti e paralisi mostravano un appello pur indiretto, ma verso un interlocutore più umano.Quindi  possiamo  dire  piuttosto  forme  del  sintomo  nuove  in  quanto attuali. Occorre allora interrogarsi su questa nostra attualità del sociale, nella quale il giovane viene ad immettersi, e sul ruolo degli adulti con cui ha a che fare.Due elementi ci sembrano da notare:  la conquista tecnologica e la dif-fusione della cosiddetta “comunicazione di massa” che, lungi dall’essere una comunicazione per cui l’individuo è chiamato in causa a dare una risposta,  a  prendere  una  posizione,  è  pura  trasmissione  che  non  cerca replica ma solo passiva adesione. Correlativa a questo è  la difficoltà di reale  comunicazione  intersoggettiva,  per  cui  i  fenomeni  di  identifica-zione  immaginaria di gruppo si accrescono enormemente. Vi è  inoltre un isolamento crescente della famiglia, che sempre più appare come un fortino assediato, un luogo di difesa ad oltranza invece che di addestra-mento e passaggio ad un sociale più ampio, come Freud auspicava.Negli  adulti  spesso  la paura predomina  sulla  fiducia,  la  chiusura  sulla curiosità e l’interesse, per stupirsi poi se il giovane non riesce a trovare il coraggio di immettersi tra gli altri. Spesso anche l’istituzione scolastica non corregge, ma anzi rinforza questa visione. Di fronte alle problema-

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tiche nuove che il rapido mutare sociale presenta anzitutto nella popo-lazione giovanile e scolastica, capita che gli adulti intorno si ritraggano nel paragone e nel rimpianto del passato.Si chiudono allora  in un altro fortino contrapposto a quello familiare, nella guerra di posizione sulla colpa da attribuire gli uni agli altri, che tanto spesso oppone l’istituzione scolastica a quella familiare. Il ragazzo resta  in mezzo, oggetto del contendere degli adulti e non soggetto per le cui difficoltà essere in ansia o chiedere un aiuto. Vi è poi la caduta di ruoli definiti  a  cui  fare  riferimento,  che – prima ancora del giovane – mette  in  crisi  l’adulto.  Questo  secondo  aspetto  infatti  può  significare certo  maggior  libertà,  ma  suscita  anche  grande  paura.  Tipico  infatti della nostra attualità è reclamare la libertà più ampia ma insieme, fug-girne  l’aspetto  correlativo  della  responsabilità.  Il  non  definito,  non  a priori delimitato, chiama infatti in causa il soggetto e suscita inevitabil-mente angoscia.È comunque nel mondo sociale dell’adulto che l’adolescente e il giovane si immettono. Anche il bambino, certo, vive nel mondo sociale, ma in un modo mediato dai genitori e dagli adulti. Con la pubertà, con lo sviluppo sessuale questa mediazione viene a cadere. C’è un reale del corpo che non può  essere  affidato  ad  alcuno. E  insieme c’è una  realtà  esterna, di  rela-zione  che  si  presenta  altrettanto  improvvisamente  diversa:  i  genitori,  la famiglia non sono più assoluti e intoccabili, ma simili o inferiori agli altri adulti, in un conflitto che pone il giovane tra appartenenza e distacco.Non vi  sono più  certezze di  alcun  genere. Tutto  l’assetto pulsionale  e affettivo che fino all’adolescenza può avere retto è rimesso in discussio-ne e richiede un nuovo aggiustamento, perché l’  individuo possa assu-mere una sua identità personale e sociale. Il legame con l’altro familiare e la separazione necessaria per esistere come individui sono di nuovo in questione, diversamente che nell’infanzia e richiedono nuove risposte e anche più complesse, che chiamino  in causa, oltre  la  famiglia, organi-smi sociali come la scuola, le istituzioni sanitarie, i gruppi di pari.L’adolescenza  si  configura  quindi  come  una  situazione  a  rischio,  nel 

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senso del rischio di non riuscire a passare all’età adulta, di rimanere invi-schiati nell’inconsapevole  immagine di una  impossibile pienezza  infan-tile, rischio di rifiuto dell’ esistere nei suoi diversi aspetti: di conoscenza per quanto  riguarda  lo  studio, di definizione  fisica, per  il  corpo con  il cibo, di relazione fra gli altri per la morte sfidata o apertamente cercata.Inibizione  allo  studio,  anoressia,  tentati  suicidi,  aperti  o  mascherati, a  cui  si  possono  aggiungere  le  diverse  forme  di  devianza  giovanile. Forme  del  sintomo,  del  disagio  di  vivere  diverse  ma  accomunate dall’elemento  del  ritiro,  della  chiusura,  del  rifiuto  dell’Altro.  Il  sog-getto rifiuta  il  sapere,  il cibo,  il modo di vita che  l’Altro gli presenta. Il  desiderio,  unica  molla  dell’esistenza,  sembra  rivolto  solamente  al “no”, al rifiuto fino alla morte. Qualcosa ne impedisce la circolazione e fissa il soggetto in una sfida comunque mortale. Più l’Altro familiare e sociale si accanisce sul sintomo, più l’individuo esaspera il suo com-portamento come per indicare che la questione non è lì ma altrove, in uno spazio che non si è aperto per il discorso, per il desiderio, che non può essere  se non  singolare  e  irripetibile  e  che può nascere  solo dalla mancanza accettata e riconosciuta.Posizione di  sfida quindi anzitutto ad un ambiente  sociale che propo-ne  soluzioni  già  pronte,  oggetti  che  colmano  ogni  mancanza  per  una norma  codificata  e  che  vuole  ignorare  la  solitudine  e  l’angoscia  che accompagnano il percorso della vita umana.Infatti,  la  domanda  di  genitori,  insegnanti  e  degli  adulti  intorno  è spesso: – ma cosa vuole ancora da me, da noi? gli abbiamo dato tutto il possibile, perché non se ne accomoda e ringrazia?La risposta paradossale di chi rifiuta è appunto questa: – perché il sog-getto nella relazione con se stesso e con gli altri non può vivere se non nell’impossibilità  di  colmarsi  della  mancanza  squisitamente  singolare e  dell’accettazione  di  questa  come  molla  per  il  desiderio  individuale, irripetibile,  solitario.  L’adolescente,  il  giovane  nel  loro  affacciarsi  alla vita  sociale  più  vasta  ripropongono  all’adulto  le  questioni  di  fondo dell’esistere, spesso accantonate e che perciò stesso spaventano, ma che 

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comunque più sono ignorate e respinte e più si ripresentano nel reale del corpo e del sociale.“Non  è  questo  che  voglio”,  dice  con  l’atto  autolesivo  il  soggetto,  non il  tuo sapere o cibo o modello di vita già pronto ma, caso mai, voglio vedere  la  tua personale  implicazione,  il  tuo personale  impegno e desi-derio nel rapporto con me e con gli altri  intorno perché anch’io possa trovare il coraggio di desiderare e di vivere. Discorso senza parole, ma che ancor più chiede una risposta personale dell’altro, lo sfida sul terre-no dell’atto, che è sempre personale e irripetibile 1.Proprio  questo  angoscia  le  persone  intorno  all’adolescente,  la  dimen-sione  di  sfida  e  di  richiamo  oltre  ogni  ruolo  codificato  di  genitore, insegnante,  medico,  educatore,  chiamati  in  causa  invece  solo  per  il proprio desiderio verso quel  soggetto non uniformabile alla generalità, al gruppo, alla massa.È vero che c’è un’ambivalenza anche del soggetto adolescente, che vuole richiamare  per  sé  un’attenzione  unica  e  irripetibile  ma  anche  rifugge dall’altro  aspetto  della  soggettività,  che  è  appunto  l’assunzione  della responsabilità  e  la  solitudine  che  ciò  comporta. Per questo, più  che  le parole,  il  ragazzo  guarda  al  modo  di  porsi,  di  essere  degli  adulti  per coglierne le contraddizioni, la paura, il rifiuto, l’isolamento, l’esclusione del diverso sotto le apparenze di accettazione, gli aspetti più profondi di timore oltre le parole comuni di incoraggiamento.Il giovane, di fronte a questo evitamento degli adulti, fugge a sua volta e  s’innesca  un  circolo  non  facile  da  rompere.  Perché  di  risposte  non adeguate e di modelli di  identificazione alienanti  il  soggetto ne ha già incontrati e lo manifesta nel rifiuto di apprendere, di nutrirsi, di vivere che  sono  appunto  l’involucro  formale,  sintomatico,  apparentemente simile in tutti i casi, ma nella problematica profonda diversi per ciascu-no. Spesso gli adulti intorno si fermano a questa apparenza, alla forma 

1.  J. Lacan,  “Prefazione al Risveglio di primavera”,  in La Psicoanalisi, n. 7, Astrolabio, Roma, 1990; con particolare attenzione al personaggio dell’uomo mascherato.

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del  sintomo,  incolpando  il  gruppo dei  coetanei,  i modelli  estetici  e di vita correnti, ma si ritraggono di fronte alla necessità di provare a com-prendere il singolo nel suo personale disagio, nel suo ostacolo a vivere in relazione con se stesso e con gli altri. Ognuno infatti, pur nella diffu-sione della forma sintomatica, ha un suo modo di relazione con l’Altro che non tollera generalizzazioni  rassicuranti. Ogni ostacolo all’appren-dimento, al nutrirsi, al vivere è singolare e richiede strategie particolari per poter dare un aiuto a passare dall’atto alla parola, dal rifiuto all’ac-cettazione ad entrare nel mondo simbolico del discorso e del desiderio.Anche la psicologia come scienza a cui ci si rivolge per un’ultima spie-gazione viene messa in scacco in quanto sapere già pronto. Sicuramente non bastano  i discorsi  e  gli  appelli,  come mostrano  le  lamentele degli adulti intorno e anche il fallire di molta psicologia. Qui è chiamata in causa anzitutto la dimensione dell’essere, di fronte a chi si mostra solo nell’agito e non ha ancora trovato  la via per una parola che  lo rappre-senti nel campo dell’Altro simbolico della relazione.In  un  recente  convegno  sui  minori  in  difficoltà  e  a  rischio,  tutti  gli intervenuti (giudici, assistenti sociali, psicologi, educatori) si sono trova-ti concordi nell’indicare come possibili vie di relazione con i giovani in difficoltà non tanto e subito la dimensione della cura in specialistica e scientifica, ma piuttosto quella della vita, ad es. cambiamenti di ottica e  di  metodo  per  la  scuola,  luoghi  di  aggregazione  guidata,  esperienze di vita diverse con gli educatori, in cui il soggetto possa mettersi a sua volta  diversamente  alla  prova  e  tentare  di  rompere  la  ripetitività  e  il blocco che lo immobilizzano mortalmente, per arrivare poi ad interro-garsi su se stesso.L’analista stesso,  in queste situazioni, è chiamato ad aiutare con la sua particolare  ottica  anzitutto  gli  adulti  intorno  al  ragazzo,  a  contenerne l’angoscia, perché si apra uno spazio per il discorso, oltre il disturbo, la malattia.Quindi,  forme  nuove  del  sintomo,  nel  senso  che  nessuno  degli  adulti intorno può rifarsi a modelli di relazione e di intervento già codificati, 

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Giovanna Di Giovanni | Inibizione allo studio, anoressia, suicidio come tentativi di esistenza del soggetto | 59

ma deve accettare di inventare i suoi modi di essere e di manifestare il desiderio, se vuole che l’ adolescente si interroghi sul proprio.Responsabilità  della  struttura  sociale  familiare,  scolastica,  educativa, non perché i giovani non abbiano anch’essi la loro nel disagio in cui si trovano, ma semplicemente perché gli adulti vengono prima nel tempo, sono più avanti nel cammino della vita. Questo dà  loro una responsa-bilità  non  più  grande  di  quella  del  ragazzo,  perché  l’atto  del  soggetto è  etico  in ogni  epoca dell’esistenza, ma diversa per posizione.  Il  ruolo dell’adulto  infatti  non  è  comunque  pari  a  quello  del  giovane,  come  a volte viene  invece presentato  in modo  ingannevole per  tutti, di  amico o  compagno  invece  che  di  genitore  o  educatore.  L’adolescente  infatti rende presente più del bambino agli adulti  lo scarto generazionale e fa intravedere la morte. L’ingannevole parità è il segno dell’orrore suscitato dal trascorrere della vita e insieme il tentativo di negarla. Ma questo fal-sifica ulteriormente il discorso ed è in questa confusione che il ragazzo spesso non riesce a trovare nessun modo per una parola sua con cui esi-stere  e  paradossalmente  ricerca questa  esistenza  soggettiva nelle  forme appunto estreme e mortali del rifiuto.

Il passaggio  all’atto  è dal  lato del  soggetto  in quanto questo  appare  can-cellato  in modo  estremo dalla barra.  Il momento del passaggio  all’atto  è quello del massimo imbarazzo del soggetto. È allora che, da dove si trova – ovvero dal luogo della scena in cui soltanto può mantenersi nel suo sta-tuto  di  soggetto,  come  soggetto  fondamentalmente  storicizzato  –  esso  si precipita e cade fuori della scena 2.

Chiamarsi fuori dal campo dell’Altro infatti, anche con la morte tentata o raggiunta, può essere talora l’estremo atto di vita del soggetto.

2.  J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 125.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Volgere uno  sguardo  coraggioso  al  campo di  concentramento. Anoressia  e silenzio de lalingua

volgere uno sguardo coraggioso al campo di concentramento.anoressia e silenzio de lalingua

di Giuliana Grando * 1

I sopravissuti dei campi di concentramento mostrano tutti gli effetti del trau-ma sul corpo e sul linguaggio. Uno degli effetti del trauma è il mutismo che la lingua incontra perché incapace di dire il reale. Nel campo di concentramen-to, infatti, il corpo e il linguaggio si riducono al resto che Lacan ha chiamato l’oggetto a. Questa è la tesi di Anne-Lise Stern deportata ad Auschwitz-Birke-nau. Nel testo viene esaminata la ricchezza de lalingua, la prima lallazione del bambino che congiunge il corpo al linguaggio, non destinata alla comu-nicazione, per giungere a dire che la lingua che viene colpita nel trauma è lalingua orginaria. Il trauma de lalingua è infine confrontato ad alcuni casi di anoressia restrittiva, in cui non si rileva il rifiuto, ma una non avvenuta trasmissione de lalingua.

Parole chiave: campo di concentramento, trauma, oggetto a, Anne-Lise Stern, lalingua, anoressia

premessa

La mia riflessione parte da un esame degli effetti prodotti sulla lingua dal  trauma,  considerando  il  mutismo  che  essa  incontra  nei  genocidi, 

*  Giuliana  Grando  è  iscritta  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  degli  Psicologi  della Regione Veneto; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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come  la  Shoah,  testimoniati  dai  sopravissuti  dai  campi  di  concentra-mento, dalle deportazioni e dalle pulizie etniche, per considerare infine la relazione tra l’anoressia e lalingua.Una  possibilità  di  ricerca  mi  è  data  da  Anne-Lise  Stern,  una  collega psicoanalista  lacaniana,  sopravissuta  alla  deportazione  ad  Auschwitz-Birkenau e dalla lettura del suo testo che si intitola:Il sapere deportato 1.

anna‑lise stern e la deportazione

Anne-Lise Stern è nata a Berlino, passa  la  sua  infanzia a Mannheim. Il  padre  è  medico  psichiatra  e  esercita  la  medicina  sociale  all’interno dell’Ospedale locale: entrambi i genitori sono ebrei, militano nel Parti-to Socialista Tedesco e conoscono l’opera e la pratica clinica di Freud. Il padre viene perseguitato dal nazismo ma riesce a fuggire e a riparare in  Francia,  a  Nizza.  Anne-Lise  in  quel  momento  ha  12  anni.  A  22 anni  la giovane vive  a Parigi,  con documenti  falsi, ma viene  scoperta e denunciata  in quanto  ebrea  e deportata  a Auschwitz-Birkenau. È  il maggio 1944.Nell’aprile 1945 Anne-Lise viene liberata e ritorna in Francia dai geni-tori: la madre prende due quaderni di scuola, uno per sé e uno per la figlia e, pagina dopo pagina,  testo a  fronte,  traduce  in tedesco quello che la figlia scrive in francese sulla sua deportazione.La  scrittura  nella  lingua  non  materna,  il  francese,  permette  in  quel momento a Anne-Lise di passare per una  lingua Altra e di  iniziare  il lavoro freudiano di ricordare, ripetere e rielaborare. Anne-Lise riporta nel suo testo, che sarà anche la sua analisi, ma solo quella con Jacques Lacan, non con gli analisti precedenti, a ridarle la sua lingua materna, il tedesco.

1.  A.-L. Stern, Le Savoir Deporté, Seuil, Paris 2004.

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“Io  ci  tengo  al  mio  tedesco  di  Lacan,  anche  se  il  tedesco  è  la  lingua materna che non ho mai cessato di parlare in certe condizioni. Lui me l’ha restituita 2”.Anne-Lise  rileva  in questo modo che ad essere colpita nel  trauma è  la lingua materna, che ha dovuto essere riportata in vita, dopo il trauma, attraverso l’analisi che ha ridato alla lingua un nuovo sembiante.Nel caso di Anne-Lise la lingua del torturatore era la sua stessa lingua materna, ma dalle testimonianze che ho letto e anche da quelle che ho ascoltato  da  sopravissuti  dei  campi  di  concentramento  argentini  e  di Sebrenika, la lingua materna diventa perturbante, sia nei casi in cui essa sia  la  stessa  lingua del  torturatore, che nei casi  in cui non sia  la  stessa del  torturatore,  perché  essa  viene  a  contenere,  un  ulteriore  indicibile, rispetto all’indicibile strutturale, che è il resto del reale di “godimento” contenuto nella lingua e che non viene assorbito da alcuna significazio-ne simbolica, a cui va a sommarsi il reale del trauma.

l’oggetto a e il campo di concentramento

Nei  campi  di  concentramento,  nei  sequestri  di  massa,  i  deportati vengono  spogliati di  tutto,  fino  ad  essere  rappresentati da un numero che viene marchiato sul  loro corpo: i significanti vengono sostituiti da significanti afonetici, tatuaggi, graffiti, numeri e sigle.Durante la sua analisi Anne-Lise decide di diventare ana-liste e di por-tare il suo “sapere deportato” dal campo di concentramento, nei luoghi dove  più  si  incontra  il  rapporto  del  corpo  con  il  reale:  All’Ospedale Marmottan per i tossicodipendenti e all’Ospedale des Enfants Malades di Parigi, sotto la guida di Jeanny Aubry.

2.  Ibidem, p. 183.

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In un articolo dove Anne-Lise si riferisce al campo di concentramento ma, anche al suo campo di lavoro, scrive:

per  noi,  è  essere  stati  separati  dai  nostri  amori,  dalle  nostre  madri  e  dai nostri padri, e, poi, in un istante, da tutto ciò che sta al posto dell’oggetto: foto, lettere, bijoux, chignons, vestiti, scarpe, capelli […] per noi c’era stata data una intimità con ciò che Lacan aveva circoscritto, isolato come ogget-to a. Il solo oggetto che ci restava era questo corpo che era noi: l’oggetto a viene direttamente da Auschwitz 3.

Lacan  stesso  è  colpito dal mutismo dal 40 al 44 e quando  riprende a scrivere nel 45 scrive “Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipa-ta” 4, nella cui premessa sottolinea, che le date 44-45 sono date “signifi-canti per molti”, e aggiunge: “Possa questo scritto riecheggiare con una nota giusta fra il prima e il poi, in cui lo collochiamo in questa raccolta, anche se dimostra che il poi faceva anticamera perché il prima potesse prendere posto” 5.L’après coup, a cui Lacan si riferisce con “il prima e il poi”, è ciò che del prima si precipita, a posteriori, nell’istante del trauma.Nei  tre  tempi  del  trauma.  il  1°  Tempo,  è  il  tempo  dell’ “effrazione”, l’istante del vedere, vale a dire il tempo in cui il trauma buca il simboli-co e l’indicibile si presentifica; il 2° Tempo è il tempo del comprendere, ed è il tempo in cui nel buco del reale aperto dal trauma si precipita ciò che viene “prima” e che riguarda il soggetto, vale a dire il suo modo di godere legato al fantasma; il 3° Tempo è il tempo di concludere, cioè il tempo dell’uscita dal  trauma attraverso una  logica che  include  il  trau-ma, ma che prevede una risposta soggettiva aldilà della ripetizione.

3.  A.-L. Stern, “Quarante-et-un, 18 juin, chiffrage-contage en pèdiatrie”, in La Lettre Mensuelle, n. 18, École de la cause Freudienne, Paris aprile 1988.4.  J.  Lacan,  “Il  tempo  logico  e  l’asserzione  di  certezza  anticipata”,  in  Scritti,  Einaudi,  Torino 1974, vol. I, p. 192.5.  Ibidem.

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per una linguistica della vita

Nel  seminario  ventesimo,  Ancora,  Lacan  mette  a  punto  un  passaggio teorico  che  lo  porta  dalla  linguistica  alla linguisteria attraversando anche una  costruzione  che  chiama  lalingua,  che non  è  semplicemente la  lingua  materna,  ma  tutte  le  emissioni  sonore  della  bambina  e  del bambino, le prime lallazioni che costituiscono il campo fertile su cui il linguaggio si istituisce.Lacan  precisa  che  “lalingua  serve  a  tutt’altre  cose  che  alla  comunica-zione” 6  e  interrogandosi  sull’,  il  significante  padrone,  nel  contesto de  lalingua,  Lacan  lo  definisce  “uno  sciame  significante,  uno  sciame ronzante” […] che assicura l’unità della copulazione del soggetto con il sapere  […]. L’Uno  incarnato ne  lalingua  è  qualcosa  che  resta  indeciso tra il fonema, la parola, la frase, o tutto il pensiero”  7.Jacques  Alain  Miller,  riprendendo  la  costruzione  di  Lacan,  scrive  che lalingua  “comporta  una  dimensione  […]  diacronica,  essendo  essen-zialmente  alluvionale. È  formata dai depositi  che  si  accumulano per  i malintesi e le invenzioni linguistiche di ciascuno” 8.Nel VI paradigma del  godimento,  J.-A. Miller  riprende  il  concetto di lalingua e di godimento Uno, e scrive che: “Blablabla vuol dire esatta-mente  che,  considerata nella prospettiva del  godimento,  la parola non mira al riconoscimento, alla comprensione, ma è solo una modalità di godimento Uno. C’è il corpo che parla. C’è un corpo che gode in diffe-renti modi. Il luogo del godimento è sempre lo stesso, il corpo” 9.Per  Jean-Claude  Milner  lalingua  è  “una  moltitudine  di  arborescenze pullulanti  cui  il  soggetto aggancia  il  suo desiderio,  tanto che può  sce-gliere qualsiasi nodo perché faccia segno” 10.

6.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 138.7.  Ibidem, p. 144.8.  J.-A. Miller, “Il Monologo dell’apparola”, in La Psicoanalisi, n. 20, Astrolabio, p. 27.9.  J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001, p. 39.10.  J.-C. Milner, L’amore della lingua, Spirali, Milano 1980, p. 104.

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Per  la  sua dimensione di “sciame ronzante”, nel  suo essere “diacronica alluvionale”  o  “una  moltitudine  di  arborescenze  pullulanti”,  sottratta alla  pura  comunicazione,  lalingua  può  unire  il  corpo  al  linguaggio, e  diventare  il  modo  in  cui  il  godimento  diventa  trasmissibile,  in  altri termini il modo in cui “una linguistica della vita” diventi trasmissibile.

la deportazione

I  compagni  di  viaggio  di  Anne-Lise  Stern  all’inizio  cantano  i  canti nelle  loro  lingue materne,  in yiddish,  in ebraico,  in  francese. Quando arrivano al campo trovano scritte ancora piene di speranza sui muri, sui letti di legno: ritornerò, ci rivedremo, ti amo… esortazioni e preghiere in tedesco, in ebraico, in francese.Poi tutto va verso il mutismo.La  scrittrice  armena  Antonia  Aslan  racconta  che  la  zia  Henrietta, sopravissuta al genocidio degli Armeni del 1915, era una creatura della diaspora e non aveva una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa la  sua,  l’armeno,  in modo  legnoso,  innaturale,  come una  straniera:  in tutte faceva sbagli e non volle mai raccontare la sua storia” 11.Paul Celan,  il poeta  e  traduttore  ebraico,  ci dà una  testimonianza  sul destino della lingua nel trauma quando scrive che “accessibile, vicina e non perduta rimase al centro di tutte le perdite soltanto la lingua. Lei, la  lingua, rimase, non perduta, sì. Malgrado tutto. Ma essa ha dovuto attraversare  le  sue  proprie  assenze  di  risposta,  attraversare  un  terribile mutismo, attraversare le mille tenebre portatrici di morte” 12.Nel  campo  i  sopravissuti  sembrano  subire  la  mutilazione  della  parte affettiva della lingua, di quella parte che ha un suono, una materialità, un godimento che passa attraverso il corpo.

11.  J. e V. Altounian, Ricordare per dimenticare, Saggine, Pomezia 2007.12.  P. Celan, Le Meridien et Autres Proses, Seuil, Paris 2002, p. 56.

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Potremmo  perfino  definire  lalingua  come  l’oggetto  transizionale  per eccellenza,  il  condensatore  del  legame  perduto  con  il  materno,  che rende possibile  la celebrazione della perdita della Cosa materna,  in un modo del tutto singolare e creativo, per cui ognuno inventa  la propria lalingua.

l’universalizzazione dei soggetti

Nel  seminario  undicesimo,  Lacan  fa  un  riferimento  all’olocausto,  al dramma del nazismo, e scrive che “l’ignoranza, l’indifferenza, il disto-gliere lo sguardo, possono spiegare sotto quale velo questo mistero resti ancora nascosto”. Occorre, per Lacan, “volgere uno sguardo coraggioso da  parte  di  chiunque  ne  sia  capace,  senza  soccombere  al  fascino  del sacrificio in se stesso” 13.Nella “Proposta del 9 ottobre del 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, Lacan mette in correlazione la perdita della dialettica edipica, il declino della  legge, con l’universalizzazione dei soggetti che procede dalla scienza, di cui il campo di concentramento ha mostrato l’evidenza e il nazismo si è mostrato il precursore.Scrive Lacan:

ciò  che  abbiamo  visto  emergere  (dal  campo  di  concentramento),  con nostro  orrore,  rappresenta  la  reazione  di  precursori  riguardo  a  ciò  che andrà sviluppandosi […] a opera della scienza e segnatamente dell’univer-salizzazione  che  essa  introduce qui.  Il  nostro  avvenire basato  sui mercati comuni  troverà  la  sua  bilancia  con  una  sempre  più  dura  estensione  dei processi di segregazione 14.

13.  J.  Lacan,  Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi,  1964, Einaudi, Torino 2003, p. 270.14.  J. Lacan, “Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, in Scilicet ¼, Feltrinelli, Milano 1977, p. 32.

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La logica segregativa la ritroviamo anche in quelle logiche di cura attua-li che considerano il soggetto umano, un oggetto da classificare, valu-tare, manipolare,  contabilizzare,  che vanno verso o  fanno  il  verso alla logica  segregativa  a-fallica,  di  cui  l’attuale  civiltà  ci  mostra  numerose declinazioni.

anoressia e trasmissione de lalingua

È  stata  la  clinica dell’anoressia  a  suggerirmi una  ricerca  sul  trauma  e, conseguentemente, su lalingua nel suo aspetto traumatico e segregativo, specialmente in pazienti con scarso attaccamento al cibo.Mi sono trovata a isolare un gruppo di anoressiche che presentavano un carattere particolare in alcuni tratti comuni per cui sembra, che gusto, cibo e convivialità non siano stati iscritti nel luogo dell’Altro.Ho notato che queste donne hanno assunto  il cibo  finché  la madre  le ha nutrite e che, quando si sono trovate da sole a gestire il rapporto con il nutrimento e non c’era più la madre a mettere la porzione sul piatto, non  sapevano  più  quale  fosse  la  giusta  porzione,  quanto  si  può  man-giare e non si può mangiare, perdendo gradatamente la dimensione del rapporto con il cibo. Qui il significante si trova ad essere slegato dalla Cosa, per cui il cibo è un resto, un oggetto immasticabile e incomme-stibile, essendo il significante ciò che rende commestibile La Cosa.Si tratta di figlie non nutrite – alimentate solo secondo il dettame della scienza  dell’alimentazione,  all’interno  di  una  “conoscenza”  educativa pseudo-scientifica,  in grado di trasmettere un linguaggio, ma senza il sapere e il sapore de lalingua.Trovo che, in questi casi, non ci sia stata una trasmissione di godimen-to da parte del corpo materno, che a sua volta non l’ha ricevuto dalla propria  madre:  non  ci  sia  stata  quindi  trasmissione  de  lalingua  per generazioni.Il silenzio de lalingua, in questi casi, sarebbe ascrivibile ad un trauma 

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che ha colpito le sorgenti della vita e che sia mancata la trasmissione de lalingua e di una linguistica della vita fin dall’origine.Non  si  tratta,  in  questi  casi,  del  rifiuto  anoressico,  ma  dell’effetto olofrasizzante  della  segregazione  e  dell’universalizzazione  dei  soggetti che  troviamo  nella  categoria  dei  Nuovi  Sintomi,  per  cui  da   non  si “diparte uno sciame ronzante”, ma il mutismo de lalingua, che porta il soggetto dal lato del godimento mortifero della pulsione di morte.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Oralità e disturbi alimentari in psicoanalisi

oralità e disturbi alimentariin psicoanalisi

di Edy Marruchi * 1

In queste pagine vengono indagati i concetti di “pulsione orale” e “oggetto orale” nel tentativo di comprendere come l’oralità sia implicata nella formazione del sintomo alimentare. A tal fine insieme ad Abraham ci si interroga su come l’erotismo orale influisca nella formazione del carattere. Con Freud, Abraham, Klein e Winnicot vengono messi al lavoro i concetti di “Incorporazione” e “Identificazione” mentre con Lacan viene studiato il “Complesso di Svezzamento” e le sue implicazioni nell’ in-sorgenza del disturbo alimentare. A partire dai riferimenti offerti da Freud e Lacan sul tema dell’anoressia si prosegue attraverso gli studi di altri autori che prendendo spunto dall’ insegnamento di Miller hanno messo al lavoro la loro esperienza clinica.

Parole chiave: pulsione orale, oggetto orale, erotismo orale, incorporazione, identificazione, anoressia, bulimia

Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi Freud scrive che

la pulsione si differenzia [dall’istinto e dallo stimolo] per  il  fatto che trae origini  da  fonti  di  stimolazione  interne  al  corpo,  agisce  come  una  forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte  allo  stimolo  esterno.  Nella  pulsione  si  possono  distinguere:  fonte, oggetto  e  meta.  La  fonte  è  uno  stato  di  eccitamento  nel  corpo,  la  meta l’eliminazione di tale eccitamento;  lungo il percorso dalla fonte alla meta 

*  Edy Marruchi è psicoterapeuta. L’articolo è tratto dal suo lavoro di tesi di specializzazione in psicoterapia presso l’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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la  pulsione  diviene  psichicamente  attiva.  Noi  ce  la  rappresentiamo  come un certo ammontare di energia, che preme verso una determinata direzio-ne. Da questo premere le deriva il nome di pulsione 1.

Per Freud “la pulsione appare come un concetto  limite  tra  lo psichico e  il  somatico,  come  il  rappresentate psichico degli  stimoli  che  traggo-no origine dall’interno del  corpo  e pervengono  alla  psiche,  come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea” 2.La  concezione  freudiana  della  pulsione  emerge  dalla  descrizione  della sessualità umana. La nozione di pulsione resta per Freud sempre duali-sta: il primo dualismo proposto è quello tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io o di autoconservazione.La pulsione  sessuale è una  spinta  interna che  si  riferisce ad un campo più  vasto  di  quello  dell’attività  sessuale.  Freud  la  vede  operare  prima come pulsione parziale legata alle singole zone erogene e poi, attraverso un’evoluzione,  sotto  il  primato  della  genitalità.  L’aspetto  psichico  di questa pulsione è designato col termine di libido che costituisce un polo del conflitto psichico ed oggetto privilegiato della rimozione.La  pulsione  di  autoconservazione  è  una  funzione  legata  alle  funzioni somatiche necessarie alla conservazione della vita dell’individuo, come ad esempio la fame. Questo dualismo è presente secondo Freud, già alle origini  della  sessualità  in  quanto  la  pulsione  sessuale  si  distacca  dalle funzioni di autoconservazione su cui prima si appoggiava.Il dualismo pulsionale  introdotto da Freud  in Al di là del principio di piacere  contrappone,  invece,  le  pulsioni  di  vita  alle  pulsioni  di  morte e modifica la funzione e la collocazione delle pulsioni nel conflitto. In questa seconda formulazione della teoria la pulsione sessuale e quella di autoconservazione  vengono  unificate  essendo  entrambe  assimilate  alle 

1.  S.  Freud,  Introduzione alla psicoanalisi,  (1932),  in  Opere,  Bollati  Boringhieri,  Torino  2003, vol. XI, p. 205.2.  S. Freud, Metapsicologia (1915), in Opere, cit., vol. VIII, p. 17.

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pulsioni di vita o Eros e contrapposta alle pulsioni di morte o Thanatos.Nella prima edizione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud introduce la  nozione  di  pulsione  parziale.  La  concezione  freudiana  dell’oggetto della  pulsione  si  è  formata  nei  Tre saggi sulla teoria sessuale  a  partire dall’analisi delle pulsioni sessuali.In quanto correlato alla pulsione,  l’oggetto è  ciò  in cui  e  con cui  essa cerca di raggiungere la sua meta, cioè un certo tipo di soddisfacimento. Può  trattarsi  di  una  persona  o  di  un  oggetto  parziale,  di  un  oggetto reale o di un oggetto fantasmatico.L’oggetto come mezzo contingente del soddisfacimento è l’elemento più variabile  della  pulsione,  non  è  originariamente  collegato  ad  essa,  ma le è assegnato soltanto  in  forza della  sua proprietà di  rendere possibile il  soddisfacimento.  Questa  contingenza  dell’oggetto  non  significa  che qualsiasi oggetto possa soddisfare  la pulsione, bensì che  l’oggetto della pulsione è determinato dalla storia, soprattutto infantile di ciascuno.Possiamo riconoscere tre posizioni fondamentali in Freud rispetto all’og-getto 3:Nel testo del 1905, Tre saggi sulla teoria sessuale, l’oggetto è un surroga-to  essendo  sempre  sostitutivo di qualcos’altro. Quando,  ci dice Freud, l’adolescente scopre la bellezza del baciare le labbra che bacia, l’oggetto che trova è il surrogato del seno, che in quanto tale è sempre perduto.C’è  un’articolazione  fondamentale  in  Freud:  l’oggetto  della  pulsione (orale  in  questo  caso)  è  un  surrogato  dell’oggetto  perduto.  L’oggetto perduto è dunque barrato. La pulsione costruisce dei surrogati dell’og-getto perduto.Nello  scritto  del  1915  Pulsioni e loro destini  Freud  definisce  variabile l’oggetto  pulsionale.  Afferma  che  è  “la  parte  più  variabile”  del  mon-taggio pulsionale. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può essere altresì una parte del corpo del soggetto. Può venire mutato infi-

3.  M. Recalcati, Il trattamento dell’anoressia-bulimia nel piccolo gruppo monosintomatico, a cura di F. Galimberti, Unipress, Padova 1998.

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nite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua  esistenza.  A  questo  spostamento  della  pulsione  spettano  funzioni importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfaci-mento di più pulsioni, producendo ciò che Adler chiama “un intreccio pulsionale”. La bulimia mette in risalto questo aspetto: l’oggetto è asso-lutamente variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”. Lacan esprime questo concetto della variabilità dell’oggetto dicendo che “il desiderio  è una metonimia”.  Il desiderio  è un continuo  rilancio da un oggetto all’altro e in questo senso è una metonimia.Nel  testo  Lutto e melanconia,  Freud  afferma  che  l’oggetto  è  “insosti-tuibile”.  Questa  teoria  sembra  inconciliabile  con  la  prima,  nella  quale l’oggetto  è  definito  “variabile”.  A  partire  dal  fenomeno  clinico  della melanconia, Freud  scopre che  in essa c’è  l’identificazione del  soggetto con l’oggetto perduto. Questo oggetto non si lascia sostituire.Queste teorie freudiane sono alla base dell’idea di Lacan che il soggetto si  diriga,  non  verso  un  oggetto  qualsiasi,  ma  verso  il  vuoto,  verso  l’og-getto  niente.  Lacan  nel  seminario  undicesimo, I quattro concetti fonda-mentali della psicoanalisi,  afferma  che  la  pulsione  che  afferra  il  proprio oggetto  apprende  che  non  è  così  che  essa  si  soddisfa.  Nessun  oggetto può soddisfare la pulsione “Anche se rimpinzaste la bocca – bocca che si apre nel registro della pulsione – non è del cibo che essa si soddisfa ma, come si dice, del piacere della bocca” 4. Proprio per questo, ci dice Lacan, nell’esperienza  analitica,  la  pulsione  orale  si  incontra  alla  fine,  in  una situazione in cui “essa non fa altro che ordinare il menù” 5. Lacan ripren-de l’esempio della bocca che si bacia da sé. La definisce una bocca cucita 6 dove  nell’analisi  si  può  riconoscere,  in  certi  silenzi,  l’istanza  pura  della pulsione orale che si richiude sulla propria soddisfazione. L’oggetto su cui la pulsione si richiude, ci dice Lacan, in realtà non è un vuoto occupabi-

4.  J.  Lacan,  Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della Psicoanalisi,  1964, Einaudi, Torino 2003, p. 163.5.  Ibidem, p. 163.6.  Ibidem, p. 174.

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le, per riprendere Freud, da qualsiasi oggetto di cui possiamo conoscere l’istanza solo sotto forma dell’oggetto a. L’oggetto a non è l’origine della pulsione orale e non è introdotto a titolo di nutrimento primitivo, ma è introdotto  dal  fatto  che  nessun  nutrimento  soddisferà  mai  la  pulsione orale, se non contornando l’oggetto eternamente mancante.A questo riguardo mi sembra interessante l’esempio di Erika, una giova-ne donna bulimica. Durante lo svolgimento del programma terapeutico per abuso di droga e alcool che sta compiendo all’interno di una comu-nità di recupero, a Erika viene richiesto di dipingere il proprio ritratto.

Osservando questo disegno risulta chiaro che per Erika  la  separazione dall’Altro materno non si è realizzata. Le due donne sono praticamente identiche: entrambe senza bocca, mani e seno. Prive cioè di quelle parti attraverso le quali avvengono i primi contatti tra madre e figlio. Si può pertanto ipotizzare in Erika un disturbo dell’oralità.Significativo è anche il racconto di un ricordo legato al padre. Parla di un episodio in cui l’uomo, scherzando, le dava dei baci ambigui. Erika 

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era adolescente e ricorda di aver provato un forte imbarazzo. Si sentiva sporca. Alla scena aveva assistito  la madre,  la quale non sembrava tur-bata. Esprime il dubbio di essere stata lei a fraintendere l’atteggiamento del padre e teme di aver considerato come sporca una semplice manife-stazione d’affetto.Erika non riesce simbolicamente a collocare questi atteggiamenti pater-ni a causa della sua relazione enigmatica con l’aspetto orale.La difficoltà che Erika ha a livello dell’oralità prende la via del disturbo alimentare quando aveva 13 anni. Ricorda che  in quel periodo provava un forte astio per la madre. Una sera mentre la madre portava in tavola un vassoio di tagliatelle al ragù fu attanagliata dal  forte odore. Era una sensazione  insopportabile,  quasi  una  morsa  che  la  faceva  impazzire  e sentire  in  trappola.  Vomitò  tutta  la  sera.  Da  quel  momento  iniziarono i  suoi problemi  col  cibo:  vomita più volte  al  giorno. Ecco  che  l’oggetto orale,  insostenibile,  deve  essere  espulso  sul  piano  reale.  Nel  rifiuto  di Erika verso il cibo saporito preparato dalla madre possiamo riconoscere il timore di Erika di essere risucchiata dal desiderio materno che deve esse-re  assolutamente  rifiutato. Definisce  infatti  la madre  come “una donna che  succhia  parecchio”.  Secondo  Erika  per  poter  essere  amata  dalla madre avrebbe dovuto annientarsi,  rinunciare alla propria  identità e  far coincidere i propri desideri con i suoi. Afferma che la sabbia del disegno è la madre. Nel disegno c’è un forte odore di sabbia polverosa che soffoca e toglie il respiro e ingloba in sé ogni cosa: sentimenti, bisogni, volontà. Odia la madre ma teme che muoia perché ha paura di scomparire con lei.Lacan specifica che cos’è la pulsione orale:

Si parla di fantasmi di divorazione, di farsi poppare. Tutti sanno, in effetti, che è proprio questo, confinante con tutte le risonanza del masochismo, il termine altrificato della pulsione orale. […] Dato che ci riferiamo al pop-pante e al seno, e che l’allattamento è la suzione, diciamo che la pulsione orale è il farsi succhiare, è il vampiro. Questo ci illumina, d’altro canto, su ciò  che  è  quell’oggetto  singolare  che  io mi  sforzo di  scollare nella  vostra 

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mente dalla metafora del nutrimento, cioè il seno. Il seno pure è qualcosa di  appiccicato. Che  succhia. Che  cosa  succhia? L’organismo della madre. In  questo  modo,  è  sufficientemente  indicato,  a  questo  livello,  qual  è  la rivendicazione, da parte del soggetto, di qualcosa che è separato da lui, ma che gli appartiene e di cui si tratta che si completi 7.

Secondo  Karl  Abraham  la  suzione  costituisce  l’elemento  principale dell’erotismo orale:

La suzione o il ciucciare, che si presenta già nel poppante e viene prosegui-ta fin negli anni della maturità o può mantenersi per tutta la vita, consiste in  un  contatto  di  succhiamento  aritmicamente  ripetuto  con  la  bocca  (le labbra),  nel  quale  lo  scopo  dell’assunzione  di  cibo  è  escluso.  Una  parte delle labbra, la lingua, un qualsiasi altro punto della pelle – persino l’alluce – vengono presi per oggetto sul quale si esegue il succhiamento. […] Il suc-chiare con delizia è collegato a un completo assorbimento dell’attenzione, e produce o l’assopimento o anche una reazione motoria […] 8.

Freud continua affermando che, in questo contesto, la pulsione sessuale è autoerotica e si soddisfa sul proprio corpo. Inizialmente il soddisfaci-mento  della  zona  erotica  era  associato  al  soddisfacimento  del  bisogno di  nutrizione.  Il  bisogno  di  ripetere  il  soddisfacimento  sessuale  viene necessariamente  diviso  dal  bisogno  dell’assunzione  di  cibo  quando spuntano i denti e il nutrimento non viene più esclusivamente succhia-to ma masticato.  Il bambino per  succhiare non  si  serve di un oggetto estraneo, bensì di un punto della propria pelle. Questo perché per lui è più comodo e lo rende indipendente dal mondo esterno che egli non è ancora capace di dominare. Tutto ciò permette che si crei una seconda zona erogena, anche se di minor importanza.

7.  Ibidem, p. 190.8.  S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, in Opere, cit., vol. IV.

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K. Abraham 9 afferma che, oltre alla fonte anale un’altra fonte originaria per la formazione del carattere è l’erotismo orale.Abraham  ricorda  che  una  gran  parte  dell’investimento  libidico  della bocca, proprio della prima  infanzia,  rimane utilizzabile nella vita  suc-cessiva.  Le  porzioni  orali  della  sessualità  infantile  non  hanno  perciò bisogno di essere assorbite nella stessa misura di quelle anali nella  for-mazione di carattere o nella sublimazione.Durante  la  prima  infanzia  è  presente  un  intenso  piacere  connesso all’attività  del  succhiare,  piacere  non  esclusivamente  legato  ai  processi di  nutrizione  ma  legato  all’importanza  della  bocca  come  zona  eroge-na.  Questa  forma  primitiva  di  soddisfacimento  del  piacere  non  viene mai  del  tutto  superata  dall’individuo  ma  continua  ad  esistere,  anche se  mascherata,  per  tutta  la  sua  vita.  Lo  sviluppo  fisico  e  psichico  del bambino implica tuttavia una rinuncia sempre più ampia al piacere di succhiare. Queste progressive rinunce possono avvenire solo a partire da uno scambio. Il processo di dentizione ad esempio permette di perdere buona parte del piacere di succhiare in cambio del piacere di mordere. In  questo  periodo  si  stabiliscono  relazioni  ambivalenti  del  bambino verso oggetti esterni. Queste relazioni saranno condizionate dal piacere di succhiare e di mordere.In questo stesso periodo il piacere di succhiare inizia una specie di pere-grinazione. Quasi contemporaneamente allo svezzamento del bambino dall’assunzione del cibo mediante suzione ha luogo la sua assuefazione alla pulizia del corpo.Un’elaborazione ben  riuscita dell’erotismo orale  rappresenta  il primo e più importante presupposto di un comportamento futuro normale, dal punto di  vista  sociale  e  sessuale. Molteplici  sono però  le possibilità di un disturbo di questo importante momento dello sviluppo.Abraham continua  sostenendo  che  il  periodo della  suzione può  essere 

9.  K. Abraham, Studi psicoanalitici sulla formazione del carattere, 1925, in Opere, Bollati Borin-ghieri, Torino 1997, vol. I.

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per il bambino particolarmente ricco di dispiacere e povero di piacere. Questo dipenderà dalle particolari condizioni della nutrizione.In altri casi lo stesso periodo può essere invece ricco di piacere. Quello che ne risulta alla fine è una accentuata difficoltà nello svezzamento del bambino.Sia  che  il  bambino  in  questo  primo  periodo  della  vita  sia  stato  forza-tamente  privato  del  piacere,  sia  che  sia  stato  viziato  con  una  quantità eccessiva di piacere,  l’effetto in entrambi i casi è  lo stesso:  il bambino si distacca dallo stadio della suzione in condizioni più difficili del normale.Dal momento che  il  suo bisogno di piacere, per difetto o per eccesso, è  troppo  esigente,  il  desiderio  di  piacere  del  bambino  si  precipita  con particolare  intensità  sulle  possibilità di  piacere dello  stadio  successivo. Il pericolo in cui incorre è quello di restare deluso e di reagire a questa delusione con una tendenza rafforzata alla regressione al primo stadio.In  questi  bambini  è  particolarmente  accentuato  il  piacere  di  mordere. L’inizio della formazione del carattere si compie in un bambino di questo tipo  nel  segno  di  un’ambivalenza  fortemente  accentuata.  Può  succede-re  che un bambino  che  si  trova nello  stadio dove  il  cibo  viene  assunto mordendo e masticando abbia occasione di vedere un altro bambino che succhia. In questo caso l’invidia può assumere un particolare incremen-to.  Possiamo  riconoscere  questi  tratti  nel  travestitismo  o  nell’avidità  di possedere,  specialmente  in  forma di parsimonia  anormale  e di  avarizia. Questi  tratti  che,  continua Abraham, appartengono ai  fenomeni clinici del  carattere anale  “si  edificano così  sulle macerie di un erotismo orale danneggiato nel suo sviluppo” 10. Pertanto possiamo affermare che l’eroti-smo orale fornisce dei contributi direttamente alla formazione del carat-tere. In certi casi tutta la formazione del carattere è sotto l’influsso orale.Alcuni individui, quelli viziati nel periodo dell’allattamento, sono domi-nati dall’aspettativa che sia  sempre presente una persona buona da cui ricevere il necessario per vivere (sostituto della madre). Questo atteggia-

10.  Ibidem.

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mento li conduce all’inattività. Possiamo incontrare persone pervase da una grave serietà che sfocia addirittura in pessimismo, questo tratto è in gran parte originato dalla delusione dei desideri orali  legati alla prima infanzia. In queste persone troviamo un atteggiamento sempre appren-sivo nei confronti della vita a cui si associa anche l’inclinazione a “darsi pena” per qualunque cosa e a rendere più difficili del necessario anche gli eventi più semplici dell’esistenza. L’influenza di tale formazione del carattere che ha  le  sue  radici nell’erotismo orale, precisa Abraham 11,  si rileva  in  tutto  il  comportamento  sociale  dell’individuo  ed  è  presente anche nella scelta della professione, delle simpatie e dei passatempi.Nel  comportamento  sociale  di  persone  che  non  riescono  a  liberarsi dagli  effetti  posteriori  di  un  insoddisfacente  periodo  di  allattamento troviamo la tendenza a pretendere sempre qualche cosa, sia nella forma del chiedere sia nella forma dell’esigere. “Il modo in cui manifestano i loro desideri ha  in sé qualcosa del  succhiare  insistente; non si  lasciano distogliere né dalla realtà dei fatti, né da obiezioni razionali, ma conti-nuano a incalzare e insistere. Essi tendono ad attaccarsi agli altri come sanguisughe” 12.  In  alcune  persone  incontriamo  tratti  di  carattere  che dobbiamo  ricondurre  a  uno  spostamento  peculiare  della  sfera  orale. L’intenso desiderio di procurarsi soddisfacimento attraverso la suzione si è trasformato in loro nel bisogno di dare attraverso la bocca. Troviamo pertanto un impulso continuo a comunicare con gli altri per via orale. Da ciò deriva un impulso ostinato a parlare. In tali casi le relazioni più importanti vengono effettuate attraverso “la scarica orale” 13.Anche nelle formazioni del carattere derivate dallo stadio sadico-orale il parlare assume la rappresentanza di altri impulsi rimossi.Da  queste  osservazioni  Abraham  suggerisce  che  si  possono  cogliere quali  varietà  e  differenze  esistono  nell’ambito  della  formazione  del carattere  orale.  Le  differenze  più  importanti  dipendono  dal  fatto  che 

11.  Ibidem.12.  Ibidem.13.  Ibidem.

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una  manifestazione  di  carattere  si  sia  sviluppata  sulla  base  del  primo stadio orale o del secondo, se sia dunque l’espressione di una tendenza inconscia al succhiare o al mordere.

Le  manifestazioni  del  desiderio  e  dell’aspirazione  più  intensi  derivano dallo stadio orale primario; appena necessario ricordare che non dobbiamo in  alcun  modo  trascurare  la  partecipazione  di  altre  fonti  pulsionali.  Le tendenze di desiderio che derivano da quel primo stadio sono però ancora libere dall’azione distruttiva dell’oggetto che è propria dei moti pulsionali dello stadio seguente 14.

Come  tratto  di  carattere  orale  si  trova  spesso  la  generosità.  In  essa  la persona oralmente soddisfatta si  identifica con la madre che dà. Nello stadio sadico-orale invece, invidia, rancore e gelosia rendono impossibi-le un tale comportamento.Secondo Abraham anche nel comportamento sociale esistono significative differenze  a  seconda  dello  stadio  evolutivo  della  libido  dal  quale  deriva la formazione del carattere. I primi si mostrano sereni e socievoli mentre coloro che si sono fissati allo stadio sadico-orale risultano ostili e mordaci.Le persone con carattere orale sono aperte al nuovo.

In  molte  persone  troviamo,  accanto  ai  tratti  orali  di  carattere  descritti, altre  manifestazioni  psicologiche,  che  dobbiamo  derivare  dalle  medesime fonti  pulsionali.  Si  tratta  in  parte  d’impulsi  che  si  sono  sottratti  ad  ogni trasformazione  sociale.  Sono  da  ricordare  in  particolare  l’avidità  del  cibo patologicamente accresciuta e la tendenza alle più diverse perversioni orali 15.

Abraham sottolinea l’importanza dell’integrazione di impulsi provenien-ti  da  zone  erogene  diverse  per  raggiungere  dei  risultati  il  più  possibile 

14.  Ibidem.15.  Ibidem.

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favorevoli.  Afferma  che  la  pratica  psicoanalitica  permette  di  conoscere le  conseguenze  di  una  integrazione  poco  riuscita.  Alcune  persone,  per esempio,  fanno  subito  uscire  dalla  loro  bocca  ciò  che  hanno  appena assunto e  tendono a vomitare  il  cibo che hanno appena  ingerito. Sono persone che hanno una estrema impazienza nevrotica; nella loro forma-zione di  carattere manca una  combinazione  favorevole di  impulsi  orali che spingono in avanti e di impulsi anali rallentanti.Freud considera la fase orale come la prima organizzazione pre-genitale della libido che si forma nei primissimi mesi di vita del bambino e dura approssimativamente  fino  al  secondo  anno di  età. Questa  fase  è  carat-terizzata,  da  una  parte,  dall’attività  della  suzione,  fonte  di  piacere,  e dall’altra, dall’introiezione, cioè dall’impossessamento dell’oggetto attra-verso  l’introduzione  orale  (incorporazione).  Incorporando  gli  oggetti  il bambino si unisce ad essi e con essi si identifica. La comunione magica di “diventare la stessa sostanza” è operata dall’atto del mangiare.Per questa ragione la fase orale è chiamata da Freud anche “cannibalica”.K. Abraham distingue due stadi della fase orale: uno di tendenza recet-tivo-passiva,  anteriore  all’eruzione  dei  denti,  nel  quale  non  vi  è  alcun oggetto,  ma  solo  il  piacere  di  succhiare;  l’altro,  posteriore  alla  denti-zione, che si esprime mordendo gli oggetti e manifestando elementi di aggressività o sadismo orale.L’incorporazione,  intesa  come  introduzione  e  conservazione,  reale  o fantasmatica di un oggetto nel proprio corpo è tipica della fase orale.Freud 16 attribuisce all’incorporazione tre significati:

1 procurarsi un piacere facendo penetrare un oggetto in se stessi2 distruggere l’oggetto3 assimilare le qualità dell’oggetto conservandolo dentro di sé.

M. Klein 17 ha visto nel secondo aspetto il tratto tipico della fase sadico-

16.  S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920, in Opere, cit., vol. IX.17.  M.  Klein,  “Contributo  alla  psicogenesi  degli  stati  maniaco-depressivi”  (1935),  in  Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri. Torino 1997.

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anale, mentre Abraham 18 ha colto  la relazione tra  l’incorporazione e  il cannibalismo dei primitivi.Cannibalismo inteso in riferimento alla fase orale dello sviluppo libidico e più specificamente alla componente sadica presente in tale fase dove si assiste al desiderio di incorporazione dell’oggetto amato che verrà sosti-tuito, nel corso dell’evoluzione psicosessuale, dall’identificazione.L’incorporazione,  o  introiezione,  rappresenta  una  forma  di  identifica-zione  primaria  analoga  a  quella  che  caratterizza  il  cannibalismo  dei primitivi motivato,  secondo Freud, dalla credenza che “assimilando  in sé, mediante ingestione, parti del corpo di qualcuno, ci si impadronisse anche delle qualità che a costui erano proprie” 19.Lo  stesso  significato  di  appropriazione  viene  attribuito  da  Freud  al “pasto totemico” compiuto agli albori della storia dell’uomo, quando i figli si allearono fra loro e dopo aver ucciso il padre che interdiceva loro l’uso delle donne del clan, lo divorarono.K. Abraham suddividendo la fase orale in due sottofasi:– di suzione, caratterizzata dalla fusione di libido e aggressività– di morsicamentoattribuisce  l’oggetto  cannibalico  solo  alla  seconda,  dove  distingue  un cannibalismo parziale da un cannibalismo totale. Quest’ultimo “senza alcuna  limitazione” è possibile  solo  sulla base di un narcisismo  illimi-tato. In questo stadio è tenuto in considerazione soltanto il desiderio di piacere del soggetto mentre l’interesse dell’oggetto non viene considera-to bensì esso viene distrutto senza alcuno scrupolo. Lo stadio del canni-balismo parziale pur portando ancora in sé i segni della sua origine dal cannibalismo totale ne differisce in modo radicale.Per  la Klein  invece questo concetto è  impiegato nell’area della patolo-gia depressiva, dove la pulsione cannibalica, se è eccessiva è causa della melanconia.

18.  K.  Abraham  Vedute psicoanalitiche su alcune caratteristiche del pensiero infantile,  1923  in Opere, cit., vol. I.19.  S. Freud, Totem e tabù, 1912-13, in Opere, cit., vol. VII, p. 88.

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L’incorporazione è il prototipo dell’identificazione o almeno di determi-nate modalità identificatorie in cui il processo mentale è vissuto e simbo-lizzato come una operazione somatica (ingerire, divorare, conservare den-tro sé…) ed è incidente per la strutturazione del funzionamento psichico.In  generale,  in  tutti  i  casi  in  cui  vi  sono  problemi  di  identità,  questi sono  connessi  con  un  disturbato  rapporto  oggettuale,  dovuto  alle alterazioni  dei  processi  identificatori  così  che  i  quadri  clinici  che  ne conseguono sono dipendenti dalla gravità e precocità dei fenomeni che intervengono nell’alterazione di questi processi.Nell’esperienza psichica del  soggetto  il  cibo assume un significato  sim-bolico in cui la funzione, non essendo solo quella di nutrimento, è anche quella di essere il primo oggetto che riceve dall’altro, è il primo dono e il primo segno di riconoscimento della sua esistenza come soggetto.Tutte le teorizzazioni psicoanalitiche, a partire da Freud (1936), hanno riservato un posto centrale alla dimensione del  cibo e del nutrimento. Nella  fase orale di  sviluppo  il bambino entra  inizialmente  in contatto con  il  mondo  attraverso  la  bocca,  fonte  di  nutrimento  e  di  eccitazio-ne, ma è anche  la prima fase di sviluppo basata sul rapporto primario nutritivo e di accudimento con la madre, fonte di soddisfacimento dei bisogni e del piacere sessuale legato alla sensorialità alimentare.Per Winnicot  (1969)  la madre  trasmetterebbe  il  suo  amore  al  lattante non solo nutrendolo e accompagnando l’allattamento con gesti e parole affettuose ma anche attraverso i contatti corporei che si stabiliscono tra madre e figlio. Sarebbero questi contatti che permetterebbero al lattan-te di formare una specie di “membrana di delimitazione” sovrapponibi-le all’epidermide ed è  in questo modo che  si  formerebbe  la percezione della propria identità e il concetto di esterno e interno. Affinché questo processo  avvenga  in  modo  corretto  è  necessario  anche  che  l’offerta materna sia adeguata alle richieste del bambino. Quanto più vasta sarà stata  l’area  delle  risposte  appropriate  alle  svariate  espressioni  delle  sue necessità e dei  suoi  impulsi  tanto più  il bambino sarà  in grado di dif-ferenziare e identificare le sue esperienze fisiche da altre sensazioni. La 

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mancanza di risposte congrue alle sue necessità priva il bambino, che si sviluppa, delle basi essenziali su cui costruire la propria “identità fisica” e la consapevolezza percettiva e concettuale delle proprie funzioni.L’attività orale  rappresenta una  forma primitiva di  conoscenza  e di  rap-porto  con  il  mondo  esterno  e  l’affettività  legata  alle  prime  esperienze alimentari  può  influire  sul  comportamento  alimentare  molto  più  delle caratteristiche  dell’alimento.  Il  comportamento  alimentare  è  quindi  il risultato di influenze precoci che però possono avere effetti duraturi non soltanto sul comportamento psichico ma anche sulle caratteristiche ana-tomo-fisiologiche  dell’adulto.  L’importanza  che  viene  attribuita  al  cibo può avvenire perché esso è deviato dalla sua origine naturale attraverso la manipolazione  gastronomica  e  grazie  all’iniziale  dimensione  relazionale con  l’altro  assume  la  funzione  di  oggetto  pulsionale  introducendo  nel campo del soddisfacimento del bisogno un “soddisfacimento pulsionale”.Il  soddisfacimento pulsionale non  coincide  con  il  soddisfacimento del bisogno naturale in quanto la pulsione domanda non tanto il soddisfa-cimento del bisogno, per  esempio di mangiare, ma  il  soddisfacimento libico dell’oralità come zona erogena investita dall’azione pulsionale.La pulsione è un movimento che cerca di  scavare nell’Altro un vuoto, affinché  si  apra  una  mancanza  nella  quale  il  soggetto possa  iscriversi. Questo è il cannibalismo della pulsione orale.Un  attaccamento  particolarmente  forte  della  pulsione  al  suo  oggetto viene messo  in rilievo come “fissazione” della pulsione. La  fissazione si produce  spesso  in periodi  remotissimi dello  sviluppo pulsionale e pone fine alla mobilità della pulsione opponendosi vigorosamente al suo stac-carsi dall’oggetto. Da questa  e da  altre definizioni di Freud è possibile dedurre che l’impiego della parola “oggetto” avviene seguendo due serie contrapposte, nelle quali si raggruppano i vari significati: la prima serie distingue  tra  oggetto  esterno,  sia  nel  senso  che  appartenga  al  mondo esterno,  sia  che  si  riferisca  ad una parte del  corpo del bambino vissuta come esterna, e oggetto interno che è la rappresentazione dell’oggetto a cui il soggetto reagisce come di fronte all’oggetto esterno da cui è deriva-

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to mediante introiezione. La seconda serie distingue tra oggetto parziale che è  tanto una parte del corpo  (seno,  feci, pene) quanto un  suo equi-valente  simbolico  (oggetto parziale può  essere  anche una persona nella sua  totalità,  come  la  madre,  ma  visualizzata  come  se  fosse  un  oggetto che esiste solo per soddisfare  i propri bisogni); e oggetto totale che è  la persona con cui  il  soggetto entra  in  rapporto, percependola come altro da  sé,  con  cui  è  possibile  instaurare  una  relazione  psicologica.  All’og-getto parziale fanno riferimento le pulsioni parziali, ossia  le pulsioni  in cerca ciascuna della propria soddisfazione perché ancora devono trovare un centro intorno a cui organizzarsi. Tale centro è la genitalità, per cui pulsioni e oggetti parziali si riferiscono alle fasi pregenitali.Freud ha messo in evidenza gli spostamenti che si stabiliscono tra i vari oggetti parziali come nella sequenza bambino-pene-feci-denaro-dono, o come nel caso della donna che passa dal desiderio del pene al desiderio dell’uomo, con la possibilità di una regressione dall’uomo al pene come oggetto  del  suo  desiderio,  o  le  fissazioni  ad  un  oggetto,  dette  anche “costanza d’oggetto”, come nel caso del feticismo e in tutti quei casi in cui il soggetto rifiuta i sostituti di un oggetto familiare.Rientrano nel gruppo di oggetti legati all’affettività i correlati dell’amore e dell’odio che caratterizzano la relazione tra una persona totale o istan-za  dell’io  e  un’altra  persona,  entità  o  ideale  o  percepito  come  oggetto totale. Tali oggetti si incontrano quando si è raggiunta la fase genitale, e con essi  il soggetto ha un rapporto non più biologico ma propriamente psicologico. Alla scelta oggettuale, che riconosce l’altro nella sua alterità e non  solo  come  strumento di  soddisfazione dei propri bisogni,  si  per-viene dopo aver superato lo stadio narcisistico che assume come oggetto d’amore il proprio corpo. Questo stadio, scrive Freud, consiste nel fatto che l’individuo nel corso del suo sviluppo, mentre unifica le pulsioni ses-suali già agenti autoeroticamente al fine di procurarsi un oggetto d’amo-re, assume anzitutto se stesso, vale a dire il proprio corpo come oggetto d’amore, prima di passare alla scelta oggettuale di una persona estranea.Con l’espressione “relazione oggettuale” si sottolinea l’originarietà della 

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relazione rispetto all’individuo considerato nel suo isolamento. La rela-zione non si limita ad indicare il modo con cui il soggetto costituisce i suoi oggetti, ma anche il modo in cui questi agiscono su di lui. Tale è la posizione di M. Klein secondo la quale gli oggetti proiettati e intro-iettati esercitano un’azione persecutoria o  rassicurante  sul  soggetto. Le relazioni  oggettuali  si  riferiscono  in  psicoanalisi  ai  momenti  evolutivi come la relazione oggettuale orale, anale,  fallica;  in psicopatologia alle forme di estraniazione come, ad esempio, la relazione oggettuale melan-conica o maniacale.Il  concetto  di  “scissione  dell’oggetto”  è  stato  introdotto  dalla  Klein secondo  la  quale  l’oggetto  verso  cui  convergono  le  pulsioni  erotiche  e distruttive è scisso in “oggetto buono” e “oggetto cattivo” che subiscono destini  diversi  nel  gioco  delle  proiezioni  e  introiezioni.  La  scissione  è un primitivo meccanismo di difesa contro l’angoscia e si riferisce nella posizione  schizoparanoide  a  oggetti  parziali,  e  in  quella  depressiva all’oggetto totale. Per l’effetto dell’introiezione degli oggetti, anche l’Io viene scisso in “buono” e “cattivo”.Winnicot  introduce  il concetto di “oggetto  transizionale” per  indicare un oggetto materiale, per esempio il  lembo della coperta o il pupazzo, che il bambino tra i 4 e i 12 mesi tiene presso di sé per addormentarsi. Fenomeno  normale  che  consente  al  bambino  di  passare  dalla  prima relazione con la madre alla relazione oggettuale. L’oggetto transizionale, pur  costituendo  un  momento  di  passaggio  verso  la  percezione  di  un oggetto  nettamente  separato  dal  soggetto,  non  perde  la  sua  funzione nel periodo successivo, dove riappare specialmente  in occasione di  fasi depressive. Secondo Winnicot, l’oggetto transizionale appartiene a quel campo  intermedio  dell’esperienza  che  è  il  campo  dell’illusione  i  cui contenuti non sono riconducibili né alla realtà interna né esterna. Essa costituisce la parte più importante dell’esperienza del bambino e il suo protrarsi nell’età adulta alla base della successiva vita immaginativa.Per quanto riguarda l’anoressia-bulimia a partire da Freud e Lacan fino ad arrivare ad Abraham e Klein vediamo emergere due paradigmi fon-

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damentali:  quello  della  discontinuità  fra  le  strutture  cliniche  e  quello della continuità di tali strutture.Lo  sviluppo  post-freudiano  della  psicoanalisi  nel  campo  della  clinica ha imboccato la via del continuismo di nevrosi e psicosi cancellando il rigore della differenza tra le strutture sostenuto da Freud. L’effetto nella clinica dell’anoressia e della bulimia è ridurre la psicosi ad una sorta di nucleo  interno arcaico del  soggetto come arresto di un passaggio evo-lutivo normale. Si pensi alla posizione schizoparanoide teorizzata dalla Klein alla base delle psicosi. È da questo presupposto storico-teorico che si  può  ipotizzare  l’anoressia  come  una  specie  di  psicosi  localizzata,  di regressione soggettiva a modalità primitive di funzionamento psichico.Nell’insegnamento  di  Freud  e  di  Lacan  è  mantenuta  come  essenziale la discontinuità  strutturale di nevrosi  e psicosi. La nevrosi  indica una posizione  del  soggetto  sostenuta  dalla  rimozione  come  simbolizzazio-ne  originaria  che  produce  come  effetto  nel  soggetto  una  perdita  di godimento  dal  corpo  e  una  pulsionalizzazione  del  corpo  stesso.  Nella psicosi  la posizione del  soggetto appare  invece condizionata da un fal-limento dell’azione originaria della rimozione. Questo fallimento della simbolizzazione edipica lascia il soggetto in balia di un godimento non localizzato. È ciò che Lacan denomina forclusione del Nome-del-Padre. Il suo effetto è che il soggetto è oggetto reale del godimento dell’Altro. A partire da questa prospettiva possiamo considerare che esistano ano-ressie e bulimie nevrotiche e psicotiche.Nei  Tre saggi sulla teoria sessuale,  Freud  correla  l’anoressia  all’isteria intendendola come sintomo di conversione, manifestazione sintomatica dovuta alla rimozione dell’erotismo orale.Nell’anoressia  è  una  fissazione  all’erotismo  orale,  dunque  un’erotizza-zione  della  zona  erogena  bucco-labiale,  che  determina  una  rimozione dell’appetito.  Il disgusto  anoressico-isterico  è  così  indice  ad un  tempo della  fissazione  e della  rimozione della pulsione orale. L’anoressia  iste-rica  lotta  contro  la pulsione, punta  a disgiungere desiderio  e  soddisfa-cimento, mira a salvare la purezza del proprio desiderio non inquinato 

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dall’orrore della pulsione, che trova il suo punto di fissazione nell’orali-tà. Il “no” al cibo è un “no” che il soggetto dice per smarcarsi sia dalla propria pulsionalità che dal godimento dell’altro. Il binomio pulsione-godimento viene sacrificato in nome del desiderio da preservare: man-care all’Altro per essere desiderata, amata.Il  rifiuto  come  la  bramosia  irrefrenabile  per  l’oggetto  cibo  hanno  in questo quadro una medesima radice. Il rifiuto del cibo e il vuoto ricrea-to al termine delle abbuffate bulimiche costituiscono il perno del circu-ito pulsionale in atto nell’anoressia isterica.Nei  tre  saggi Freud  avanza  la  tesi  della  sostituibilità dell’oggetto della pulsione  e  dell’esistenza  di  due  distinti  tipi  di  soddisfacimento:  uno legato  all’ordine  biologico-naturale-istintuale,  l’altro  non  riducibile  ad esso e delimitante il campo pulsionale in quanto tale.Sia il rifiuto anoressico che la ricerca del vuoto enfatizzano, in questa pro-spettiva, la purezza dell’attività pulsionale che, non potendosi mai soddi-sfare  attraverso  l’incontro  con  un  oggetto,  si  rianima  di  volta  in  volta proprio nella ripetizione dell’incontro con il vuoto causato dalla perdita. Così  mentre  con  la  scelta  anoressica  il  soggetto  punta  a  raggiungere  il soddisfacimento  solamente  nell’affermazione  pura  del  desiderio,  con  la scelta  bulimica  il  soggetto  cerca  di  staccarsi  dal  godimento  in  eccesso della divorazione, attraverso il vomito, per raggiungere il desiderio.Nella Minuta G Freud considera l’anoressia come un parallelo nevrotico della melanconia.

La nevrosi alimentare parallela alla melanconia è  l’anoressia. La ben nota anorexia nervosa  delle  ragazze  mi  sembra  essere  (da  osservazioni  accu-rate)  una  melanconia  che  si  verifica  ove  la  sessualità  non  è  sviluppata. La  paziente  asseriva  che  non  mangiava  semplicemente  perché  non  aveva appetito, e per nessun’altra ragione. Perdita di appetito: in termini sessuali, perdita di libido 20.

20.  S. Freud, Minuta G, in Opere, cit., p. 30.

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In questa stessa opera è reperibile anche una seconda matrice che Freud rinviene  all’origine  dell’anoressia:  quella  melanconica.  Anoressia  come paradigma  della  posizione  melanconica.  “Così  non  sarebbe  inopportu-no  partire  dall’idea  che  la  melanconia  consiste  nel  lutto  per  la  perdita della  libido” 21.  Pertanto  possiamo  constatare  che  Freud  divide  l’ano-ressia  melanconica,  fondata  sulla  perdita  di  libido  nella  vita  pulsionale, dall’anoressia isterica, basata sul meccanismo della difesa-disgusto. Freud sottolinea la distinzione tra “dimensione del lutto” e “lavoro del lutto”.Nell’anoressia il lutto per l’oggetto perduto annienta la possibilità stessa di un lavoro del lutto.Nell’anoressia  troviamo  una  fissazione  enigmatica  all’oggetto perduto. Fissazione  che  dapprima  spinge  Freud,  come  abbiamo  visto,  ad  avan-zare l’ipotesi di una perdita tout court della libido e che, in un secondo tempo, in Lutto e melanconia, lo condurrà a teorizzare l’identificazione all’oggetto perduto come una sorta di spostamento della libido (dall’og-getto  all’io)  che  produce  l’effetto  melanconico  vero  e  proprio  come estensione dell’ombra dell’oggetto sull’io.Nell’anoressia  troviamo sia  il  rifiuto come scudo del desiderio  rispetto alla domanda dell’Altro, che  la  riduzione del desiderio  stesso a  rifiuto, ovvero rifiuto del desiderio.Possiamo  considerare  la  prima  oscillazione  come  l’oscillazione  isterica dell’anoressia  e  la  seconda  come  l’oscillazione  melanconica.  Nell’oscil-lazione melanconica dell’anoressia,  il desiderio come rifiuto,  si verifica una degradazione del desiderio a rifiuto. Il soggetto non domanda più nulla. Il desiderio viene rifiutato e si annulla nel godimento puro della pulsione di morte.Questo tema è ripreso da Freud in Lutto e melanconia. In questo testo, come ho anticipato, Freud considera la posizione anoressica come feno-meno che può accompagnare alcune gravi  forme di melanconia.  “L’Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibali-

21.  Ibidem, p. 30.

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ca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham  è  certamente  nel  giusto  quando  ricorre  a  questo  nesso  per spiegare  il  rifiuto di nutrirsi  che  compare nelle  forme gravi di melan-conia” 22. L’ostinato rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia è qui inteso da Freud alla luce del cannibalismo che carat-terizza la fase orale, in cui la meta sessuale consiste nell’incorporazione e in cui l’Io vorrebbe incorporare l’oggetto per distruggerlo.Nella melanconia, a differenza che nel  lutto  in cui  il mondo si  svuota dell’investimento libidico, è l’Io stesso ad essere svuotato. Questo impo-verimento dell’Io è causato dall’incapacità di elaborare la perdita d’og-getto, la quale invece di generare il lavoro del lutto produce un’identifi-cazione dell’Io con l’oggetto perduto di modo che l’ombra dell’oggetto cade sull’Io, come dice Freud.

La libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì ripor-tata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti viene ad essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione 23.

In  questa  declinazione  l’anoressia  incarna  realmente  il  rifiuto  della castrazione: il soggetto anoressico, osso-scarto, rifiuto, permane in uno stato  di  identificazione  mortificante  con  l’oggetto  perduto.  L’identi-ficazione  idealizzante  nell’anoressia  o  il  ciclo  abbuffata-vomito  nella bulimia  possono  articolarsi  come  vere  e  proprie  compensazioni  del Nome-del-Padre forcluso: nella posizione anoressica, erigendo una sorta di barriera tra il soggetto e l’Altro persecutore in modo da rendere così 

22.  S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere, cit., vol. VIII, p. 109.23.  Ibidem, p. 108.

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possibile  la  tenuta  di  un’unità  immaginaria  dell’io.  In  quella  bulimi-ca  invece,  mantenendo  a  distanza  l’oggetto  a,  attraverso  il  vomito,  in modo da preservare la sua esteriorità rispetto alla posizione del soggetto.Paola Francesconi 24 ci  invita a riflettere sulla mutazione dell’incidenza della  pulsione  orale  dai  tempi  di  Freud  ad  oggi.  Sottolinea  che  nes-suno  penserebbe  di  diagnosticare  l’introiezione  cannibalica  del  Padre primigenio  del  mito  freudiano  Totem e Tabù  come  passaggio  all’atto bulimico.  L’introiezione  cannibalica  del  padre  non  era  espressione  di disfunzione pulsionale, ma movimento di appropriazione delle insegne ideali  dell’Altro.  Mangiare  il  padre  è  la  più  antica  versione  mitica  di modalità di legame con l’oggetto idealizzato. Con questo atto si aboli-sce la distanza tra sé e l’oggetto idealizzato per garantirsene la presenza dentro di sé. Freud afferma che “l’Io assimila i tratti dell’oggetto amato, diventa un po’ come lui” 25.Questa è la nascita della civiltà: catturare in sé l’oggetto per esserne tra-sformati. L’incorporazione garanzia di identità, di assunzione simbolica di  un  ideale  solo  nell’uomo.  L’introiezione  cannibalica  degli  attributi paterni non assicura però un’identità  alla donna come  tale.  Il mito di Totem e tabù non è  adatto  a  rendere  conto della posizione  femminile. Quello che possiamo evincere da queste riflessioni è che se da un lato in Freud troviamo che esiste un registro della pulsione orale sublimabile in identificazione, è altrettanto vero che nella donna l’oralità non è inte-ramente  simbolizzabile. Non è un caso che  le patologie della pulsione orale colpiscano soprattutto le donne. Il dissidio tra pulsione e Ideale è in germe nella posizione femminile. Paola Francesconi 26 ci propone un confronto tra il mitico Convivio di Totem e tabù e quello descritto nel testo L’ultima cena: anoressia e bulimia 27. (Il Convivio dell’Ultima Cena viene utilizzato da Massimo Recalcati come metafora della rottura del 

24.  P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, 1997, Astro-labio, Roma.25.  S. Freud, Totem e tabù, in Opere, cit., pp. 293-298.26.  P. Francesconi, “Note sui moderni disagi dell’oralità”, in La Psicoanalisi, n. 22, cit..27.  M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondatori, Milano 1997.

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patto con  l’Altro). Nel primo  la pulsione orale  sacrifica  l’oggetto orale e  si  soddisfa  di  un  oggetto  trasformato  simbolicamente.  Nel  secondo abbiamo il cibo simbolizzato, trasformato dalla cucina dell’Altro e inve-stito di valore simbolico. L’anoressia e la bulimia dicono di no a questo oggetto  simbolizzato:  la  prima  rifiutandolo  e  la  seconda  facendolo regredire  a oggetto  reale. Nelle  anoressie  e bulimie  la pulsione orale  è diventata veicolo privilegiato di un dissenso nuovo con l’Ideale.Lacan ci insegna a leggere ogni disturbo come modo di rapportarsi con l’Altro simbolico. Qual è l’Altro dell’anoressia e bulimia? Francesconi in questo testo mette in risalto come questo Altro sia un “Altro divorante” che  emerge  con  una  consistenza  nuova  a  partire  dai  moderni  disagi dell’oralità.  Nel  fenomeno  anoressico  e  bulimico  non  reperiamo  un appello al padre ma piuttosto una sfida a un padre che non ha niente da offrire, che può solo assistere al corpo che va alla deriva di un godi-mento fuori dalla sua legislazione. Nella bulimia la sfida si traduce nello spettacolo offerto di un corpo degradato a sacco, a pattumiera colma di cibo. Nell’anoressia  la  sfida  si  traduce nella presentazione di un corpo ridotto a sacco vuoto, a ideale cadaverico.Una delle funzioni determinanti del Padre simbolico è quella di addo-mesticare  l’Altro  materno,  di  introdurre  una  legge  nel  suo  desiderio. L’Altro  materno,  che  il  bambino  elegge  a  supporto  dei  propri  oggetti pulsionali, viene trasformato dal Padre in Altro castrato, mancante del fallo e orientato a cercarlo nel Padre. Il Padre separa il bambino dall’Al-tro pulsionale e fa di questo un Altro desiderante il fallo. Rotto il patto con l’Altro paterno, in conseguenza anche della caduta ideale del Padre come testimonia il nostro moderno disagio della civiltà, l’anoressia e la bulimia  installano  al  suo  posto  l’Altro  materno  nella  forma  dell’Altro divorante. Un Altro che non  fornisce più  identificazioni. Ciò che non è simbolizzabile della pulsione orale fornisce il supporto a un modo di essere  non  più  inquadrato  da  un’identificazione  ideale,  ma  ridotto  a un modo di godimento. L’obiezione radicale al patto con  l’Altro, nelle patologie da disfunzione della pulsione orale, comporta due possibilità: 

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l’anoressia,  che  si  soddisfa  confinando  l’Altro  divorante  nell’insoddi-sfazione facendosi osso immangiabile, dunque separandosi da esso e la bulimia, che si aliena nell’Altro divorante abolendone l’alterità.Geneviève Morel 28  ci  presenta  i  casi  di  due  giovani donne bulimiche. Essi  mostrano  che  i  sembianti  fallici  non  bastano  a  coprire  il  campo della femminilità. Questo tema è stato introdotto da Lacan con il con-cetto  di  non-tutto.  Queste  due  donne  interpretano  il  non-tutto  della femminilità non con la mascherata ma con la mostruosità del godimen-to di una donna, nella linea delle antenate materne. In entrambi i casi infatti l’enunciato non rimosso circa la mostruosità materna (sacrificare e  rinnegare  la  propria  bambina  e  fare  della  figlia  il  proprio  assassino) è  un  significato  materno  direttamente  connesso  al  sintomo  bulimico. Ma questo  significato  rinvia alla  significazione  infinita del godimento materno  non  regolato  dalla  legge.  La  loro  soluzione  consiste  nel  con-densare la parte non fallica del godimento femminile con la divorazione presa  a  prestito  dalla  “madre  insoddisfatta” 29  e  precipitare metaforica-mente il risultato nel sintomo bulimico.I primi riferimenti di Lacan all’anoressia sono reperibili nello scritto del 1938 intitolato: I Complessi Familiari nella formazione dell’ individuo.Ne I Complessi familiari Jacques Lacan sottolinea come il complesso di svezzamento,  il  più  primitivo  dello  sviluppo  psichico,  sia  interamente dominato da  fattori  culturali  e quindi  radicalmente diverso dall’istin-to.  Il  complesso  di  svezzamento  fissa  nello  psichismo  la  relazione  di nutrimento nella modalità parassitaria imposta dai bisogni della prima infanzia dell’uomo.Il  complesso  di  svezzamento  rappresenta  secondo  Lacan  la  forma  pri-mordiale dell’imago materna e fonda i sentimenti più arcaici e più sta-bili che legano l’individuo alla famiglia.

28.  G. Morel,  “Sui  sintomi  e  sulla  femminilità:  bulimia  e  femminilità”,  in La Psicoanalisi,  n. 22, cit..29.  J. Lacan, Il Seminario IV, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1957, Einaudi, Torino 1996, cap. IV pag. 71-73.

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Anche  se  il  complesso  di  svezzamento  rappresenta  nello  psichismo  la funzione biologica della lattazione non può essere considerato un istinto in quanto condizionato da una regolazione culturale.L’anoressia si presenta qui come uno degli effetti (accanto a tossicomanie orali  e  nevrosi  gastriche)  dello  svezzamento  come  “trauma  psichico”. “In effetti  lo  svezzamento, per via di una qualunque delle  contingenze operative  che  esso  comporta,  è  spesso  un  trauma  psichico  i  cui  effetti individuali, anoressie mentali, tossicomanie per vie orali, nevrosi gastri-che, rivelano le proprie cause alla psicoanalisi” 30. Pertanto il rifiuto dello svezzamento rivelerebbe la fissazione del soggetto sull’oggetto orale pri-mario rappresentato dalla forma primordiale dell’imago materna.L’anoressia  rende  manifesta  una  fissazione  sull’originaria  imago  mater-na  e una  regressione nostalgica del  soggetto  che  si  realizza  attraverso  la patologia anoressica, verso la fusione con il mitico oggetto del godimento primario. L’anoressia si presenta in linea con l’avvelenamento lento delle tossicomanie orali e con i digiuni delle nevrosi gastriche, come una pato-logia dell’oralità primaria  segnata da una  spinta  fusionale  irresistibile  al recupero dell’esperienza di godimento pieno dell’origine e da una inclina-zione autodistruttiva che ne fa una delle forme di suicidio non violento. “L’analisi di questi casi mostra che nel suo abbandono alla morte il sog-getto  cerca di  ritrovare  l’imago della madre” 31.  L’imago materna  si  tra-sforma dunque da “salutare all’origine” a “fattore di morte” poiché resiste e lavora contro lo sviluppo psicogenetico del soggetto.Avvicinandosi  al  quadro  melanconico  proposto  da  Freud  l’anoressia  è qui connotata da un fondamentale “appetito di morte” marcando così il carattere regressivo-fusionale del quadro patologico a scapito del carattere dialettico-separativo. Al centro dell’anoressia viene evidenziata una fissa-zione orale, proprio come sottolineato da Freud nel parallelismo che fa tra melanconia e anoressia. Nella declinazione melanconica, infatti, il rifiuto 

30.  J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’ individuo, 1938, Seuil, Paris 2001.31.  Ibidem.

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del desiderio precipita il soggetto in un godimento larvale e parassitario. In una fissazione di godimento che si  scrive direttamente nel corpo. La fusione  con  l’Altro,  con  il  comando  superegoico  dell’Altro,  trionfa.  Il soggetto  si  riduce  ad  oggetto.  È  qui  in  gioco  il  rifiuto  del  significante come tale nel tentativo di fare esistere un godimento dell’essere puro. Il muro del  linguaggio svuota  il  soggetto di godimento,  stacca  l’oggetto a dal corpo, introduce il principio normativo della castrazione. L’anoressia nella  versione  psicotico-melanconica,  è  esattamente  il  rifiuto  totale  di questa  alienazione  significante,  della  perdita  dell’oggetto,  del  distacco dalla  Cosa.  C’è  identificazione  a  Das Ding.  Il  desiderio  non  è  barrato dalla funzione paterna, pertanto assistiamo al dominio di un Altro supe-regoico che Selvini Palazzoli definisce “Matriarcato superegoico”.Freud, nella sua Minuta G  sostiene, come abbiamo visto, che  l’anores-sia nervosa è “una melanconia che si verifica ove  la  sessualità non si è ancora  sviluppata”  e  che  “la perdita di  appetito”  è  “perdita di  libido”. Quello  che  è  in  gioco  in  questo  riferimento  è  una  spinta  paradossale del  soggetto a  ritrovare  l’imago della madre anche a prezzo di un suo abbandono  alla  morte  messo  in  atto  per  sottrarsi  all’ineludibile  della scissione. L’anoressia sarebbe dunque sulla linea dell’imago materna, un tentativo di ritrovare una totalità dell’essere.Dal testo I Complessi Familiari sembra emergere in Lacan il quadro di un  paradigma  psicogenetico-regressivo  dell’anoressia.  L’anoressia  viene infatti inquadrata nel contesto della civiltà contemporanea, caratterizza-ta da un “declino sociale dell’imago paterna” e in una cornice familiare all’interno della quale l’anoressica sviluppa con la madre una relazione non  mediata  efficacemente  dal  riferimento  alla  funzione  dell’Edipo e  caratterizzata  dal  predominio  del  Complesso  di  Svezzamento  che  la condanna a “ripetere all’infinito lo sforzo del distacco dalla madre”.Lacan, nello scritto su “La significazione del fallo” fa riferimento a tre diverse categorie: bisogno, domanda e desiderio.Il bisogno definisce uno stato di urgenza, di pressione fisiologica. Il suo soddisfacimento  implica  un’azione  specifica,  fissata  geneticamente  e 

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rivolta verso un oggetto. Così il bisogno alimentare si estingue provviso-riamente solo con l’azione specifica dello sfamarsi attraverso il consumo del cibo. Ma, come già per Freud, per Lacan il bisogno deve, nel campo delle relazioni umane, articolarsi in una domanda per essere soddisfatto.La domanda è una  sorta di  strettoia  in cui  il bisogno, per così dire, è obbligato a passare. La domanda precisa la dipendenza del soggetto dal campo  dell’Altro.  Essa  è  l’articolazione,  attraverso  il  significante,  del bisogno come messaggio rivolto all’Altro come appello all’Altro.Diversa è la struttura del desiderio. Il desiderio è irriducibile sia al biso-gno che alla domanda. Lacan afferma che  il desiderio “è al di  là della domanda” 32,  il desiderio è una  sorta di  residuo  interno alla domanda. Il  fondo della domanda è  il desiderio. Nella domanda che  il bambino rivolge  alla madre non chiede  solamente di  essere  soddisfatto nei  suoi bisogni. Il bambino domanda la presenza dell’Altro, domanda di essere amato, desiderato dall’Altro, poiché il desiderio dell’Altro è proprio ciò che, al di là della soddisfazione della domanda, particolarizza il bambi-no,  lo  fa  sentire unico per  l’Altro,  insostituibile. È esattamente questo che in fondo il bambino chiede: che l’Altro gli doni la sua particolarità. Il desiderio non può dunque esaurirsi in nessuna domanda specifica. Il desiderio  come  desiderio  dell’Altro  è  desiderio  del  desiderio  dell’Altro non è desiderio di qualcosa.In  questo  senso  il  desiderio,  più  che  a  una  soddisfazione,  è  legato  ad una  mancanza,  giustamente  indicata  da  Lacan  non  come  mancanza contingente di qualcosa, ma  come mancanza  strutturale,  come “man-canza ad essere”.Per Lacan proprio la figura dell’anoressia mentale è la figura clinica che meglio illumina questa differenziazione strutturale tra bisogno, doman-da e desiderio. L’anoressica, infatti, sceglie il niente, decide di mangiare niente,  perché  in  questo  modo  reagisce  ad  un  Altro  materno  che  ha confuso il registro del desiderio con quello del bisogno e alla domanda 

32.  J. Lacan, “La significazione del fallo” (1966), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II.

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del  bambino  sa  solo  rispondere  col  cibo.  Per  scollare  nuovamente  il desiderio dal bisogno l’anoressica deve allora negarsi come soggetto che ha bisogno di qualcosa. La sua scelta del niente punta infatti a preserva-re il desiderio, sacrificando per questo la soddisfazione dei suoi bisogni.Ne “La direzione della cura” Lacan afferma che “Il desiderio è ciò che si manifesta nell’intervallo scavato dalla domanda aldiquà di  se  stessa  in quanto il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la mancanza ad essere insieme all’invocazione a riceverne il complemento dell’Altro, posto che l’Altro, luogo della parola, è anche il luogo di que-sta mancanza” 33.“In tal modo ciò che all’Altro è dato di colmare, e che è proprio ciò che non ha perché anche a lui l’essere manca, è ciò che si chiama amore, ma anche  odio  e  ignoranza”.  “La  soddisfazione  del  bisogno  appare  come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […]” 34.Nel  seminario  su  La relazione d’oggetto,  per  Lacan  l’anoressia  diventa un modo di imporre all’Altro la differenza tra bisogno e desiderio.

Il dono si manifesta all’appello. L’appello si fa sentire quando l’oggetto non c’è.  Quando  c’è,  l’oggetto  si  manifesta  essenzialmente  solo  come  segno del dono, vale a dire come niente in quanto oggetto di soddisfacimento. È proprio lì per essere respinto, essendo questo niente. Questo gioco simbo-lico ha quindi un carattere  fondamentalmente deludente. Ecco  l’articola-zione essenziale a partire da cui il soddisfacimento si situa e prende senso. […].  Il  bambino  riduce  ciò  che  è  deludente  nel  gioco  simbolico  tramite la  presa  orale  dell’oggetto  reale  di  soddisfacimento,  per  esempio  il  seno. Ciò che  lo addormenta  in questo  soddisfacimento è proprio  la delusione, la frustrazione, il rifiuto che a volte ha provato. […]. È il fondo della rela-zione del soggetto con la coppia presenza-assenza, […], il bambino riduce nel  soddisfacimento  l’insoddisfazione  fondamentale  di  questa  relazione. 

33.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., vol. II, p. 623.34.  Ibidem, p. 623.

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Addormenta il gioco nella presa orale. Soffoca ciò che riguarda la relazio-ne fondamentalmente simbolica. […]. È così che l’oralità diventa ciò che. Essendo una modalità istintuale della fame, è portatrice di una libido con-servatrice del corpo proprio, ma non è solo questo. […]. È libido in senso proprio e libido sessuale. […]. Dal momento che entra nella dialettica della frustrazione […] l’oggetto reale non ha alcun bisogno di essere specificato. Anche  se non è  il  seno della madre, non per questo perderà  il  valore del suo posto nella dialettica sessuale da cui dipende l’erotizzazione della zona orale. Non è l’oggetto a svolgere il ruolo essenziale, ma il fatto che l’attività ha preso una funzione erotizzata sul piano del desiderio, il quale si articola nell’ordine simbolico 35.

Lacan  continua  facendo  notare  che  queste  considerazioni  mettono  in evidenza  la  possibilità  che  per  svolgere  lo  stesso  ruolo  non  ci  sia  più alcun oggetto reale. Si  tratta  solo di ciò che dà  luogo a un soddisfaci-mento sostitutivo della saturazione simbolica: “Solo questo può spiegare la vera  funzione di un sintomo come quello dell’anoressia mentale. Vi ho già detto che l’anoressia mentale non è non mangiare ma non man-giare niente” 36. Lacan  insiste sul “mangiare niente”  in quanto “niente” è qualcosa che esiste su un piano simbolico. Il bambino mangia niente, che  è  una  cosa  diversa  da  una  negazione  dell’attività.  “Questo  punto è  indispensabile  per  capire  la  fenomenologia  dell’anoressia  mentale” 37. “Di questa assenza gustata come tale,  si  serve nei confronti di ciò che ha di fronte, ossia la madre da cui dipende. Grazie a questo niente, la fa dipendere da lui” 38.In questo contesto ciò che è messo in rilievo è la funzione dell’appello. Poiché quel che è  invocato può essere respinto,  l’appello risulta  fonda-tore dell’ordine simbolico nell’alternanza che  inaugura. La vera natura 

35.  J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957, cit., pp. 197-199.36.  Ibidem, p. 199.37.  Ibidem.38.  Ibidem.

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dell’appello, in quanto ha di mira l’amore, si fa intendere quando l’og-getto non è presente, cioè niente in quanto oggetto di soddisfacimento e, invece, segno mancato del dono d’amore. Quando invece l’oggetto è presente è lì per essere rifiutato in quanto è niente in termini di soddi-sfacimento. La domanda d’amore del bambino risulta talvolta schiaccia-ta sull’attività del succhiare, ma starà soltanto ingannando la sua delu-sione. In quest’opera Lacan evidenzia una dialettica della frustrazione a partire da un doppio registro: frustrazione nell’amore e nel godimento. È perché si subisce una frustrazione sul piano dell’amore che ci si getta sul  registro  della  soddisfazione,  come  sostituto  dell’amore.  Il  soggetto cerca una soddisfazione alla frustrazione d’amore con un oggetto reale, un  oggetto  accessibile,  oggetto  cibo  come  parte  dell’oggetto  d’amore, suo rappresentante.

Ogni volta che vi è frustrazione d’amore, questa si compensa con il soddi-sfacimento del bisogno. Nella misura  in cui  la madre manca al bambino che la chiama, lui si attacca al suo seno e questo seno diventa la cosa più significativa. Finché lo ha in bocca e se ne soddisfa, da un lato il bambi-no  non  può  essere  separato  dalla  madre,  dall’altro  tutto  questo  lo  lascia nutrito,  riposato  e  soddisfatto.  Il  soddisfacimento  del  bisogno  è  qui  la compensazione  della  frustrazione  d’amore,  e  allo  stesso  tempo  comincia, direi quasi, a diventare il suo alibi 39.

È proprio a partire da questa frustrazione sul piano della soddisfazione che  l’oggetto da  reale diventa  simbolico. A partire da  ciò può  funzio-nare  come  segno  d’amore.  La  soddisfazione  del  bisogno  è  sospesa  di fronte alla domanda di un oggetto divenuto segno nell’esigenza d’amo-re. La privazione  interna a questo movimento dialettico  introduce alla scelta  anoressica  come  manovra  che  punta  alla  produzione  di  questo segno d’amore che si  rivolge ad un Altro che  lo nega. Che  l’Altro, per 

39.  Ibidem, pag. 188.

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soddisfare, dia non quello che ha ma quello che non ha, è quel niente di  soddisfazione  in  cui  il  soggetto  può  rinvenire  la  marca  dell’amore. L’oggetto si trasforma non appena diviene segno nell’esigenza d’amore. È proprio questa attività a giocare un ruolo determinante. L’attività di suzione diviene un’attività simbolica, attività che ha preso una funzione erotizzata  sul  piano  del  desiderio,  che  si  ordina  nell’ordine  simbolico. Questa supremazia dell’attività sull’oggetto arriva ad annullare l’oggetto nel registro del reale, che diventa “niente da mangiare”. Questo niente esiste,  come  abbiamo  visto,  sul  piano  simbolico.  Mangiare  niente  è diverso da una negazione di attività, niente è al fondo di ogni doman-da d’amore  con cui  il bambino  rovescia  la  relazione di dipendenza;  la madre  ora  dipende  dal  suo  desiderio  per  lui.  Il  “niente”  dell’anoressia ha un valore simbolico. Questo è ribadito da Lacan anche quando parla del piccolo Hans. Lacan fa un confronto tra la paura relativa all’assenza paterna e  il niente dell’anoressia. Afferma che questa assenza va  intesa come il “niente” in gioco nell’anoressia.

Il carattere irreale della paura in questione è appunto manifestato, se sap-piamo vederlo,  tramite  la  sua  forma –  la paura di un’assenza, voglio dire di  questo  oggetto,  appena  designato.  Il  piccolo  Hans  ha  paura  della  sua assenza,  da  intendere  come  vi  dico  che  bisogna  intendere  nell’anoressia mentale – non già che il bambino non mangia, ma che mangia niente. Qui il piccolo Hans ha paura dell’assenza del padre, assenza che è lì e che egli incomincia a simbolizzare 40.

La  tesi di Lacan  in questo quadro è che  l’anoressica  si nutre di niente dove il niente assume il valore di significante dell’irriducibilità del desi-derio  del  soggetto  alla  presa  con  l’onnipotenza  dell’Altro  materno.  Il niente di cui  l’anoressica  si nutre  incarna  la  strutturale metonimia del desiderio umano nella sua inesauribilità.

40.  Ibidem, pag. 377.

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Ne “La direzione della cura e  i principi del  suo potere” Lacan assume l’anoressia  come  esempio  dell’irriducibilità  strutturale  del  desiderio  al registro del bisogno. La manovra in atto nel rifiuto anoressico del cibo portato  alle  estreme  conseguenze  del  rischio  di  morte  viene  intesa  da Lacan come operazione attiva del  soggetto per mantenersi  vivo presso l’Altro  come  soggetto desiderante,  anche  a  rischio della propria morte come  organismo  affetto  dai  bisogni:  “La  soddisfazione  del  bisogno appare come l’illusione in cui la domanda d’amore va a schiantarsi […]. Perché l’essere del linguaggio è il non essere degli oggetti” 41.L’anoressia mette in rilievo una confusione fondamentale in atto presso l’Altro  genitoriale  che  soggetto  punta  inconsciamente  a  smascherare  e correggere.  “Ma  il  bambino  non  si  addormenta  sempre  così  nel  seno dell’essere, soprattutto se l’Altro, […] al posto di ciò che non ha lo rim-pinza  della  pappa  asfissiante  di  ciò  che  ha,  cioè  confonde  le  sue  cure con il dono del suo amore” 42.I  genitori  rispondono  al  soggetto  somministrandogli  accuratamente  le cure  e  gli  oggetti  del  bisogno,  ma  restano  ciechi  davanti  alla  doman-da  fondamentale  che  anima  il  suo  desiderio  che  è  domanda  d’amore. Domanda di un dono che non sia oggetto di soddisfacimento ma segno dell’amore dell’Altro per il soggetto. Lacan mette in risalto il rapporto stretto  che  l’anoressica  tesse  tra  il desiderio  e  il  rifiuto:  “È  il bambino nutrito  con  più  amore  a  rifiutare  il  nutrimento  e  orchestrare  il  suo rifiuto  come un desiderio” 43. È dunque  attraverso  il  rifiuto  anoressico che il desiderio può sopravvivere all’attentato della domanda dell’Altro. Perché ci sia segno d’amore occorre che l’Altro non riempia il soggetto somministrandogli  la  “pappa  asfissiante”  di  ciò  che  ha,  ma  piuttosto gli  offra  ciò  che  non  ha,  la  propria  mancanza,  cioè  il  proprio  amore. In  questa  prospettiva  l’anoressica  orchestra  “il  suo  rifiuto  come  un desiderio”, ossia fa funzionare il rifiuto come una domanda inconscia e 

41.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere” (1958), in Scritti, cit., p. 623.42.  Ibidem, pag. 623.43.  Ibidem, pag. 624.

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silenziosa che interpella l’Altro per ottenere il segno dell’amore, la testi-monianza del suo desiderio per lei. Il corpo magro è un corpo che non si soddisfa dell’oggetto del bisogno per mantenersi vivo per l’Altro come oggetto di desiderio.Nell’anoressia  isterica  la  funzione  di  rifiuto  non  si  riduce  tuttavia  a radicalizzare la differenza tra desiderio e bisogno. Il rifiuto rivela l’irri-ducibilità del desiderio al campo della domanda. Il desiderio, infatti, è al di qua e al di là della domanda. Il desiderio, come afferma Lacan, è “la metonimia della mancanza ad essere” 44.Dewanbrechies-La Sagna 45 chiama “anoressia vera” quella che Lacan, in questo seminario chiama “anoressia […] in rapporto al mentale” 46.Afferma che l’anoressia mentale vera non è una clinica del fallo ma una clinica dell’oggetto. Così l’anoressica rifiutando l’oggetto cibo in nome del segno d’amore che attende dall’Altro, si fa essa stessa oggetto d’an-goscia  per  l’Altro  ponendosi  come  un  oggetto  impossibile  da  nutrire. Questa posizione di oggetto  la mette  fuori discorso. Non  si  tratta del fuori discorso della psicosi, ma del rapporto con l’oggetto.Nel  seminario del 1964, I quattro concetti fondamentali della psicoana-lisi, Lacan parla dell’anoressia del bambino come  incarnazione di una domanda disperata e muta rivolta dal soggetto ai suoi genitori per veri-ficarne l’amore per lui.Il soggetto attende dall’Altro genitoriale una risposta che funzioni come segno d’amore, come parola che dà un posto  insostituibile al  soggetto nel desiderio dell’Altro.Così Pierre Naveau descrive come il sintomo bulimico della sua pazien-te Clia viene al posto di un “impossibile a dire” 47. La tesi che sostiene è che  il  sintomo della sua paziente,  la bulimia,  sia  in rapporto al dire: 

44.  Ibidem, p. 618.45.  C. Dewambrechies-La Sagna, “L’anoressia vera della ragazza”, in Attualità Lacaniana, n. 5, 2006, FrancoAngeli.46.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.47.  P. Caveau, “L’angoisse dans l’anorexie feminine”, in La Cause freudienne, n. 59, Navarin.

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“dire niente e dire troppo”. Così la bulimia di Clia è legata alla parola di sua madre e di suo padre mettendo l’accento sul fatto che lei non ha niente da dire sul loro conto; e, afferma Pierre Naveau, sta proprio qui il nodo della questione.In Lacan  il  riferimento all’anoressia passa anche attraverso  la pulsione orale.  Negli  Scritti 48  Lacan  propone  l’esempio  del  paziente  di  Kris  e dell’interpretazione di quest’ultimo. Proprio in seguito alla sua interpre-tazione “Non rubi niente” la pulsione orale emerge nell’acting out delle “cervella fresche”. Sempre negli Scritti, Lacan afferma: “Ciò che impor-ta non  è  il  fatto  che  il  suo paziente non  ruba, ma  che non… Nessun non: che egli ruba niente. […] ciò che gli fa credere di rubare […] che possa venirgli in mente un’idea sua” 49.Secondo Lacan ciò che veramente interessa al paziente è di continuare a mantenere il niente su cui vive  l’idea come puntualizza E. Laurent 50 nel suo articolo sull’anoressia. Questo niente su cui vive l’idea altro non è che il posto del desiderio. Lacan aggiunge “Lei Kris tratta il paziente come  un  ossessionato,  ma  lui  Le  tende  la  mano  col  suo  fantasma  di commestibile: per darLe l’occasione di avere un quarto d’ora di anticipo sulla nosologia della sua epoca con la diagnosi: Anoressia Mentale” 51.Dewanbrechies-La Sagna 52 osserva che è molto interessante che il caso elevato  da  Lacan  alla  dignità  di  “anoressia  mentale”,  come  “avversio-ne  del  paziente  per  ciò  che  egli  pensa”,  sia  un  uomo.  Ciò  permette di  collocare  l’anoressia  come  un  rifiuto,  non  della  femminilità,  come comunemente  si dice, ma come “un  rifiuto  simbolicamente motivato” del  “desiderio di  cui  vive  l’idea” 53,  cioè  come un  rifiuto del desiderio. Dewanbrechies-La Sagna  afferma  che  la  sua  paziente,  Catherine,  non 

48.  J. Lacan, “Risposta al commento di Jean Hyppolite”, in Scritti, cit., vol. I, p. 389.49.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 595.50.  E. Laurent, “Sull’anoressia”, in La Psicoanalisi, n. 15, 1994, Astrolabio, Roma.51.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., pag. 596.52.  C. Dewambrechies- La Sagna, “Un caso di  tossicomania del niente”,  in La Psicoanalisi, n. 22, Astrolabio, 1997, Roma.53.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 596.

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ha idea di poter avere un proprio desiderio, un desiderio che sia il suo. Quando  si  sorprende  a  mangiare,  ella  preferisce  pensare  che  desidera rubare  piuttosto  che  desiderare  di  mangiare.  Vale  a  dire  che  nei  suoi primi passi verso il desiderio dell’Altro, pensa di commettere una frode e di non pagarne il prezzo. Pensa che il desiderio è quello del furto,  il che è una versione del desiderio dell’Altro, che corrisponde alla  rivela-zione  di  un  punto  della  struttura.  L’interpretazione  fatta  a  Catherine “Cosa  ruba?”  risponde  ad  una  struttura  strettamente  inversa  rispetto all’interpretazione di Kris. “Quali  ricette?”  ricorda alla paziente che  si esclude che si consumi un qualcosa di reale nell’analisi e che ciò di cui si tratta è ridare il suo giusto posto al desiderio.Dewanbrechies-La Sagna  ricorda  che  negli  anni  settanta  (seminario ventunesimo, 9 aprile 1974) Lacan affronta un punto di differenza radi-cale tra anoressia e isteria. Questo punto riguarda le rispettive posizioni nei confronti del  sapere. L’anoressica  suppone all’Altro un desiderio di sapere. Non gli suppone un sapere ma un desiderio di sapere. L’anores-sica  è  talmente  preoccupata  di  sapere  se  mangia  che,  per  scoraggiare questo  desiderio  di  sapere,  mangia  niente.  L’analista  deve  vigilare  per non sovrapporre sulla propria persona il desiderio dell’analista e il sog-getto supposto sapere, perché l’anoressica ritrova allora  la supposizione di un Altro che desidera  sapere. È nel  separare  il desiderio dal  sapere, desupponendo il sapere, vale a dire quel che fa l’interpretazione, che c’è una possibilità di azione.Carole  Dewambrechies-La Sagna 54  riprende  questo  tema  partendo dall’esempio del paziente di Kris per mettere  in risalto  il  rapporto che intercorre tra l’oggetto e il sapere. In questo testo afferma che “il sapere è una versione del desiderio dell’Altro”.Nel seminario Il Transfert, troviamo un altro riferimento sull’anoressia 55.Lacan  sostiene  che  ogni  domanda  tende  a  strutturarsi  in  modo  da 

54.  C. Dewambrechies-P. Lasagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, in La Cause freudien-ne, n. 68, Navarin.55.  J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il Transfert, 1960-1961, Einaudi, Torino 2006.

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evocare  nell’Altro  una  risposta  rovesciata,  così  alla  domanda  di  essere nutrito  risponde  la  domanda  di  lasciarsi  nutrire.  È  dal  confronto  di queste  domanda  “che  nascono  tutte  queste  discordanze,  di  cui  la  più immaginata è quella del rifiuto di lasciarsi nutrire nell’anoressia detta, a più o meno giusto titolo, mentale” 56.Un  desiderio  rifiuta  di  sparire  come  desiderio  per  il  fatto  di  essere soddisfatto  come  domanda.  La  domanda  orale  ha  del  resto,  aggiunge Lacan, un altro significato da quello di soddisfare la fame. È domanda sessuale,  cannibalismo,  come  afferma  Freud  e  il  cannibalismo  ha  un senso sessuale. La libido è un surplus che rende vana ogni soddisfazione del bisogno là dove si colloca.Aggiunge: “Non è che all’interno della domanda dell’Altro che si costitu-isce come riflesso la fame del soggetto. L’Altro non è solo fame, ma fame articolata, fame che domanda. E il soggetto è aperto a divenire oggetto, ma,  se  posso  dire,  di  una  fame  che  sceglie.  La  transizione  è  fatta  dalla fame all’erotismo attraverso la via di quel che ho chiamato preferenza” 57.I concetti di “preferenza” e di “fame che sceglie” rimandano alla que-stione di un desiderio interessato all’oggetto particolare, al registro della scelta.Per  il  soggetto  anoressico  non  c’è  fame  che  sceglie  i  suoi  oggetti  ma la  scelta  radicale  della  fame  come  via  di  emancipazione  radicale  nei confronti dell’oggetto. Nella sponda bulimica invece una spinta pulsio-nale acefala sommerge la scelta d’oggetto per affermarsi come fame non scelta  che  ruota  attorno  alla potenza bruta dell’oggetto. Da una parte la  scelta della  fame per  la  salvaguardia del desiderio, dall’altra  la  fame che travolge ogni scelta. L’oggetto andrà ad assumere il niente e il par-ticolare, ponendosi come causa del desiderio, al di qua della sostanziale equivalenza degli oggetti della catena.

56.  C. Dewanbrechies-La Sagna, “Les anorexiques ont-elles une mère?”, cit., p. 239, (traduzione nostra).57.  Ibidem, p. 255, (traduzione nostra).

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Con Domenico Cosenza 58 possiamo riassumere  i  riferimenti essenziali di Lacan all’anoressia nel seminario undicesimo, I quattro concetti fon-damentali della psicoanalisi, in quattro nodi essenziali:

1  L’anoressia e il niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento nel tempo della separazione

2  Il bambino anoressico mangia il niente3  Il “mangiare niente” anoressico e l’oggetto dello svezzamento fun-

zionano come privazione al livello della castrazione4  L’anoressica,  il  fantasma  della  propria  sparizione  e  la  questione 

che  incarna  nell’enigma del  desiderio  dell’Altro  parentale:  –  Può perdermi?

Il riferimento al niente come oggetto a prodotto dallo svezzamento nel tempo della separazione si situa al centro della dialettica di alienazione/separazione entro cui si costituisce il soggetto e mette in luce il passag-gio decisivo  in  gioco nel  tempo della  separazione.  La  costituzione  del soggetto  presuppone  la  separazione  dell’oggetto  a  come  organo,  che diviene  simbolo  del  fallo  in  quanto  mancante  −,  ossia  della  castra-zione del  soggetto  stesso. Lacan afferma che  “a  livello orale,  il niente, in quanto ciò da cui  il  soggetto si è  svezzato non è più niente per  lui. Nell’anoressia  mentale,  ciò  che  il  bambino  mangia  è  il  niente.  Capite per questa via come l’oggetto dello svezzamento possa venire a funzio-nare a livello della castrazione come privazione” 59. Per Lacan lo svezza-mento è un’operazione attiva del  soggetto  in via di costituzione e non qualcosa che subisce.Nel  seminario undicesimo pertanto, Lacan  indica  la natura  separativa e  separabile  dell’oggetto.  Afferma  che  occorre  che  l’oggetto  a  sia  un oggetto e che abbia un qualche rapporto con la mancanza.Abbiamo  un  niente  come  oggetto  che  per  la  sua  natura  separabile  è messo in grado di svolgere una funzione separatrice. È questo niente di 

58.  D. Cosenza, Il muro dell’anoressia, Astrolabio, 2008 Roma.59.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..

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reale come poppata che si stacca sia dall’Altro che ne è a sua volta priva-to, sia dal soggetto grazie all’intervento del Nome-del-Padre.Questa  privazione  può  soddisfarsi  nell’oggetto  “niente”.  Il  mangiare niente  del  bambino  anoressico  mostra  l’irriducibilità  dell’oggetto  a  al campo del significante, incarnato da un godimento invisibile e innomi-nabile se non attraverso il significante “niente”.Lacan espone l’operazione compiuta dal bambino anoressico rispetto al niente come oggetto a nel tempo logico della separazione. Dinanzi alla perdita dell’oggetto orale per l’effetto dello svezzamento e all’apertura al piano  strutturale  della  castrazione −,  l’operazione  anoressica  consiste in una manovra antiseparativa  in cui, attraverso  il  rifiuto di mangiare cibo, l’oggetto niente viene trattenuto nella bocca vuota e positivizzato come godimento reale in atto. Il soggetto anoressico non si separa fino in  fondo  dall’oggetto  niente,  trattenendo  il  godimento  primario  nella bocca.  Volendosi  sottrarre  agli  effetti  dell’alienazione  significante  sul godimento che abita il corpo pulsionale, pur di trattenere il pieno godi-mento dell’oggetto primario del soddisfacimento, l’anoressica perde così la possibilità di un recupero di godimento a livello della fallicizzazione del corpo pulsionale come corpo iscritto nella dialettica del desiderio e nella significazione fallica.L’isterica  afferma  la  privazione  dell’oggetto,  ne  produce  la  caduta  per mantenere la presenza di un puro soggetto del desiderio, perché sussista sulla scena, come vero protagonista, il desiderio insoddisfatto. L’anores-sia appare, in questo contesto, come dimostrazione di quella parte di sé che  l’articolazione  significante  non  può  esplicitare.  L’anoressia  diventa allora  una  via  di  radicalizzazione  della  posizione  isterica.  L’anoressica però,  che pure parte  come  l’isterica, per  salvaguardare  il desiderio, ne perde  in  realtà  l’accesso.  Il  suo  desiderio  appare  deificato,  schiacciato di  fronte  al  godimento. Di qui gli  effetti di  ricaduta nel  reale del  suo corpo: amenorrea nella donna, riduzione al minimo delle forme sessuali del  corpo,  prevalere  di  una  forma  entropica  e  inerziale  del  desiderio primario  che  Lacan  chiama  ne  I Complessi familiari  “desiderio  della 

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larva” e situato tra la vita e la morte. Sempre nel seminario undicesimo Lacan ripropone il tratto melanconico dell’anoressia. “Il fantasma della sua morte, della sua scomparsa è il primo oggetto che il soggetto deve mettere  in gioco in questa dialettica, e di fatto lo mette. Lo sappiamo da mille fatti, non fosse che nell’anoressia mentale” 60. Desiderio morti-fero che in “Funzione e campo” chiamava “desiderio di morte” e che ne I complessi familiari definiva “appetito di morte”. In questo seminario a partire dal richiamo all’anoressia Lacan mette in luce due punti fonda-mentali del  suo  insegnamento:  l’irriducibilità della  funzione  simbolica del  desiderio  al  piano  del  bisogno  e  della  domanda,  come  emerge  ne “La direzione della cura” e l’irriducibilità della funzione del godimento come reale e dell’oggetto a come causa di desiderio all’ordine simbolico dell’Altro significante.In questo lavoro ho tentato di indagare come l’oralità sia implicata nella formazione del sintomo alimentare e come questo ne venga condizionato.È  interessante  notare  come  il  disturbo  alimentare  possa  essere  una faccia dell’oggetto orale utilizzata dal soggetto come modalità di sepa-razione  dal  godimento  cattivo  della  madre.  Il  caso  di  Erika  ne  è  un esempio: come ci mostra bene la sua bulimia l’oggetto è assolutamente variabile, l’obiettivo della pulsione è soddisfarsi, “mangiare”.La  zona  erogena  è  in  rapporto  alla  pulsione  parziale:  la  bocca  è  ciò che  mette  il  limite,  che  rifiuta,  che  rimane  senza  parole.  Nel  disegno di Erika  la  bocca  è  una bocca  cucita,  inesistente.  Il  vomito  è  l’effetto d’angoscia di sputare fuori l’oggetto che entrando nella pulsione diviene insostenibile. Erika ci mostra molto bene come agisce la spinta pulsio-nale. Ogni tentativo di sublimazione per non restare nella degradazione dell’oggetto orale sembra fallire lasciandola in balia del desiderio soffo-cante della madre. Fino a che punto l’Altro è distruttivo?La  madre  non  è  la  madre  del  dono  bensì  la  madre  cattiva,  la  madre persecutoria. La madre è un Altro persecutorio ma anche un Altro che 

60.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, cit..

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non parla pertanto in parte indecifrabile. Vediamo qui come la Metafo-ra Paterna descritta da Lacan non è sufficiente a significare il desiderio della madre né la Funzione Paterna è adeguata a trattarne il godimento. La  parola  del  padre  non  sembra  assumere  simbolicamente  la  forma della metafora, non occupa  il posto del  “paletto”  che divarica  le  fauci materne, ed ecco apparire  il vomito come tentativo di trattamento del godimento della madre.La parola della madre non permette al padre di istituirsi come metafora anzi lo colloca come prolungamento del godimento mortifero materno. I  baci  del  padre  non  possono  essere  significati  e  divengono  sporchi  e ambigui.Nel  seminario L’Angoscia Lacan ci parla dell’oggetto d’angoscia e della separazione.  Erika  è  l’altra  faccia  della  medaglia  di  sua  madre,  nono-stante l’odio non può separarsi da lei pena la sua stessa scomparsa. Nel disegno  appare  infatti  una  stella  nera,  un’ombra,  un  buco  nero  dal quale Erika potrebbe venire risucchiata da un momento all’altro.

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dall a parte dell’inconscio, torino 2010

parte seconda

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attualità lacaniana n. 12/2010

Dalla divisione alla scissione

dalla divisione alla scissione

di Fabio Galimberti *1

A partire dal titolo del Convegno “Dalla parte dell’ inconscio”, l’autore del testo pone due questioni: qual è la parte dell’ inconscio quando il soggetto stesso è fatto di più parti? Quale ruolo gioca la verità inconscia nel mostrare il reale della par-tizione del soggetto?

Parole chiave: inconscio, verità, partizione del soggetto

“Niente gli è più dissimile di se stesso” (D. Diderot, Il nipote di Rameau)

la divisione

Alcune  nozioni  psicoanalitiche  sono  ormai  penetrate  nel  sapere  gene-rale, quasi  fanno parte del senso comune. Eppure capita,  in seduta, di ascoltare  affermazioni  che  smentiscono  questa  penetrazione,  come  ad esempio la seguente di un paziente che vedo da qualche anno: “Dottore, non avrei mai pensato venendo qui di scoprire di avere un desiderio per mia madre!”. Al suo ha fatto seguito il mio stupore nell’ascoltare questa frase, pronunciata da un uomo di trentacinque anni, laureato e di cul-tura media. Mi  sono domandato: ma  la  psicoanalisi  ha  ancora queste 

*  Fabio  Galimberti  è  iscritto  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  degli  Psicologi  della Regione Lombardia; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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scoperte  in  serbo? Ha  ancora  la possibilità di  simili  effetti di  sorpresa sul soggetto?Sappiamo che c’è una separazione tra sapere e verità. Anzi che il sapere è  un buon modo per non  saperne niente della  verità. Lo  constatiamo nelle nostre analisi, soprattutto in quelle di chi si forma come analista e ha una frequentazione assidua con la teoria analitica. In queste stesse analisi il soggetto scopre sulla propria pelle l’abc della dottrina in modo inaspettato: aveva sotto il naso la verità, ma non ne sentiva l’odore.La  verità,  però,  se  mantiene  un  effetto  di  sorpresa  non  ha  sempre  un potere  di  risoluzione.  Per  il  mio  paziente,  infatti,  questa  “rivelazione” non ha nel tempo risolto un sintomo che ne affligge la vita amorosa e sessuale, che rimane scissa in due direzioni opposte. Il  lavoro analitico non ha intaccato una modalità permanente di godimento che si esprime nella nota forma maschile di degradazione della vita amorosa: là dove il soggetto ama non desidera,  là dove desidera non ama. Il paziente dice chiaramente  che  vorrebbe  trovare  una  donna  che  gli  dia  “il  100%  di soddisfazione affettiva e il 100% di soddisfazione sessuale”. In termini lacaniani  diremmo  che  vuole  trovare  La  donna,  quella  capace  di  riu-nire “la corrente di  tenerezza” e “la corrente  sessuale” che sono  invece divergenti. Secondo Miller, Freud era convinto, quanto il mio paziente, che  questa  donna  esistesse.  Convinto  teoricamente,  perché  nella  vita non ne ha mai  incontrata una  che  gli  consentisse di  far  convergere  le due diverse  correnti. Eppure Freud non  faceva dipendere  solo dall’in-contro  giusto  la  possibilità  di  questa  convergenza. Perché pensava  che fosse necessario per chi volesse diventare “libero e perciò felice nella vita amorosa” superare “il  rispetto dinanzi alla donna” e abituarsi “all’idea dell’incesto  con  la  madre  o  la  sorella”  1.  Era  convinto  fosse  necessario da parte del  soggetto  il  raggiungimento di questa  consapevolezza  e di questa accettazione.

1.  S.  Freud,  Sulla più comune degradazione della vita amorosa,  in  Opere,  Bollati  Boringhieri, Torino 1994, vol. VI, p. 427.

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la spaltung

Lacan ha riletto la frattura libidica nelle due correnti nei termini della divergenza tra desiderio e domanda. E riteneva che la loro scissione non fosse ricomponibile. Per parlarne ha spesso fatto riferimento all’articolo “La  scissione dell’Io nel processo di difesa”  che ha  sempre  visto  come il  lascito  testamentario  di  Freud.  Ogni  volta  che  lo  cita  aggiunge  che Freud  l’ha  scritto  appena prima  che  la penna gli  cadesse di mano.  In effetti  è una nota del 1938,  incompleta,  che è  stata pubblicata  soltan-to postuma. Ma perché Lacan dà  tanta  importanza a questo  testo? Lì Freud avanza l’idea che in un soggetto possano coesistere due atteggia-menti contrapposti di fronte alla scoperta capitale della vita soggettiva: la castrazione. Non si tratta di due reazioni sentimentali differenti, non si  tratta  dell’ambivalenza  affettiva.  È  un’ovvietà  analitica  e  non  solo analitica che un soggetto possa provare sentimenti contrastanti di fron-te  ad una  stessa  esperienza. Qui  si  tratta di due giudizi diversi, di un “sì” e di un “no” detti alla castrazione, che sono pronunciati dallo stesso soggetto. “Come è possibile?” domanda Freud. È possibile – risponde – solo a condizione che l’Io si scinda. Si scinda in un Io che riconosce la castrazione e in un Io che la rifiuta. Così – scrive – le “due impostazioni coesistono per tutta la vita una accanto all’altra, senza mai influenzarsi a vicenda” 2. È questo “senza mai influenzarsi a vicenda” che è cruciale. Perché la conseguenza è che la scissione, la Spaltung, rimarrà definitiva e che davvero uno stesso soggetto conterrà in sé due Io: è – dice Freud – “una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più”. L’Io stesso è spaccato, tagliato in due. Ma questa non è forse la condizione della psicosi e più esattamente di quella schizofrenica? Freud lo riconosce, ma è costretto ad ammettere, con la sua caratteristica sottomissione ai dati della clini-ca, che questa condizione vale anche per la nevrosi. Che cosa distingue allora la scissione dell’Io nell’uno e nell’altro caso?

2.  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, p. 630.

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la stoffa dell’io

Per  rispondere  torniamo  alla  descrizione  freudiana  dei  due  Io.  Uno, quello  che  riconosce  la  castrazione  e  sottosta  alla  minaccia  superegoi-ca,  rinuncia alla  soddisfazione.  In  termini  lacaniani  si  colloca dal  lato del desiderio contro  il godimento. È  il  soggetto articolato nella catena significante  che  cercherà  di  ritrovarsi  nel  campo  dell’Altro.  Con  tutte le  vicissitudini  e  le  impasses  che  questo  comporta.  L’altro  Io,  quello che rinnega la castrazione, non rinuncia alla soddisfazione pulsionale e gode. Sceglie il godimento contro il desiderio. Ha trovato l’oggetto del suo  soddisfacimento  perché  –  scrive  Freud  –  “come  sostituto  al  pene che manca alla donna si è creato un feticcio” 3. Ha trovato  l’oggetto a. Dunque, con la scissione dell’Io, abbiamo da una parte il soggetto bar-rato ( ) e dall’altra l’oggetto a. Già in questa riformulazione tramite i  matemi  lacaniani  risulta  evidente  che  la  nevrosi  si  differenzia  dalla psicosi  perché  articola   ed  a nel  fantasma. La  scissione dell’Io non  è superata nemmeno nella nevrosi, ma è affrontata con lo strumento del fantasma. Il fantasma è il modo in cui il soggetto cerca di ricomporre la frattura dell’Io. È per questo che Lacan lo definisce “la stoffa dell’Io”. È la stoffa con cui il soggetto cerca di rammendare lo strappo originario.

presenza

Ma  è  possibile  ricucire  questo  strappo?  Questa  è  la  follia  egoica.  Già Freud in quella nota metteva in questione la presunta attività di sintesi dell’Io. Ma è Lacan che ha avuto le parole più dure contro l’idea di una funzione unificante dell’Io. L’unità egoica è un miraggio, è “la malattia mentale  dell’uomo”,  come  ha  detto  nel  seminario  primo.  E  come  ha ribadito nel “Discorso sulla causalità psichica” “il rischio della follia si 

3.  S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa, in Opere, cit., vol. XI, p. 559.

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misura sull’attrazione delle identificazioni in cui l’uomo impegna ad un tempo la sua verità e il suo essere” 4.Allora  perché  il  piccolo  altro,  ossia  l’immagine,  esercita  sul  soggetto questo  potere  di  fascinazione?  Perché  nell’unificazione  immaginaria  il soggetto  aspira  a  ritrovarsi.  Ed  è  quel  che  gli  risuona  seduttivo  anche negli inviti odierni del mercato e della cultura a ritrovare se stesso. Ma il soggetto non si trova da nessuna parte. Il soggetto è un’assenza. Non ha ubicazione precisa, è ciò che scivola nella catena significante, che si posi-ziona sempre in modo spostato, dislocato nelle formazioni dell’inconscio.Il fantasma, invece, questo delirio privato,  lo fissa in una presenza, gli assegna  un  posto  stabile  in  uno  scenario.  “Nel  fantasma  il  soggetto  è lì” 5 scrive Miller ed è per questo che ha l’illusione di potersi ritrovare. Ma anche l’oggetto è lì. Anzi è proprio il raccordo permanente e simul-taneo di soggetto ed oggetto che sorregge l’inganno fantasmatico. Per-ché  tramite  il  fantasma è come se  il  soggetto potesse dire “io” mentre gode dell’oggetto ed è come se potesse smentire  la natura acefala della pulsione facendosene padrone. Il fantasma è il sostegno di ogni aspira-zione del soggetto al recupero di sé, di ogni anelito al proprio riscatto, al  ritorno  allo  status  quo  ante,  al  ripristino di  una  felicità  perduta,  al restauro di un’essenza mai esistita.

ubiquità

Il  godimento  però  è  un’effrazione  dell’immagine  o,  per  dirlo  con Bataille, è una distruzione della forma, una violenza fatta all’identità. Il godimento è ostacolo al riconoscimento. Riconduce il soggetto alla sua frattura originaria. Mostra  il  limite della  soluzione  fantasmatica. Così come  il  lavoro  analitico  che  mira  a  ridurre  la  consistenza  narcisistica, 

4.  J. Lacan, “Discorso sulla causalità psichica”, in Scritti, Einaudi, Torino 1994, p. 170.5.  J.-A. Miller, “Sintomo e fantasma”, in Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997, p. 108.

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a  separare  il  soggetto dalle  identificazioni  che ne hanno  impegnato  la verità e l’essere. È ciò che chiamiamo attraversamento del fantasma. Al termine  del  quale  ritroviamo  non  il  soggetto  identificabile,  non  il  sé, ma  la  scissione  che  lo  taglia  in due. Lacan nel Seminario XVII  indica che  questa  scissione  è  il  reale  del  soggetto.  Il  reale  come  impossibile, perché  la  scissione  fa  sì  che  il  soggetto  si  trovi  contemporaneamente in due posti differenti, il che appunto è impossibile, cioè reale. Questo trovarsi  in  due  posti  differenti  non  è  un  ritrovamento,  ma  la  perdita definitiva  della  propria  individualità.  Stare  dalla  parte  dell’inconscio significa anche procedere in questa direzione. Procedere nella direzione di questa incrinatura narcisistica, perché il soggetto ne abbia abbastanza del suo non volerne sapere niente.C’è  un  modo  poetico  per  dire  questa  discordia  di  fondo  che  segna  il soggetto. È il modo di Elias Canetti, che scrive quanto segue su un’in-tuizione infantile divenuta più chiara nella maturità.

Allora non sapevo ancora che cosa è  la vastità, eppure  lo  intuivo:  il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto  ciò  che  sembra  inconciliabile  sussiste  tuttavia  in  un  suo  ambito,  e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chia-marlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che […] è la vera gloria della natura umana 6.

Tornando al paziente di cui ho parlato risulta evidente questo: che non è l’oggetto, ossia il partner, la donna, che deve sapere riunire le due cor-renti libidiche che frazionano il soggetto. Forse è così che si può inten-dere quel passo un po’ imbarazzante di Freud, quando invita a perdere il  rispetto  dinanzi  alla  donna.  Forse  è  un’esortazione  a  non  credere all’esistenza de La donna. Ma, se non è nell’oggetto che si deve cercare una soluzione, la domanda allora diventa un’altra. Il soggetto sarà capa-

6.  E. Canetti, La lingua salvata, Adelphi, Milano 1991, p. 217.

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ce di questa vastità? Il soggetto sarà quell’ambito in cui l’inconciliabile verrà accolto,  in cui  l’impossibile avrà ospitalità? Credo che questa  sia una scommessa dell’analisi.

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L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore

l’amore… l’analizzante…un lavoro d’amore

di Alide Tassinari *

La questione dei rapporti tra i sessi nasce a partire da un apparire. I due sessi bio-logici sono iscritti nel registro del sembiante: l’uno appare come un uomo, l’altra come una donna. Gli esseri umani, in quanto parlanti, hanno a che fare con la mancanza strutturale ad essere.

Parole chiave: rapporti tra i sessi, sembiante, apparire, mancanza ad essere

Il  Soggetto,  barrato dal  linguaggio,  soggetto dell’Inconscio,  quindi  in perdita di godimento, manca d’essere. Le identificazioni che il Soggetto preleva dall’Altro sono una risposta a questo non essere. Sono abiti che si  incarnano nel corpo, infatti  l’io (maiuscolo?) si presentifica attraver-so  l’immagine del corpo come prodotto da questo processo  inconscio. Ma ciò che  l’io  si dice di essere non trova riscontro nell’inconscio. La mancanza  ad  essere  spinge  al  desiderio,  l’oggetto  a  è  causa  di  questo desiderio  di  completarsi  da  parte  di  chi  manca,  è  l’oggetto  che  “[…] sembra dare  il  supporto dell’essere” 1. Ma  la vera natura dell’oggetto a, non è né di struttura né di sostanza, è un sembiante d’essere, cioè “[…] è della medesima stoffa, della medesima trama di quella di sembiante” 2.Il maschile e il femminile sono due metafore messe in forma, attraverso 

*  Alide Tassinari è iscritta all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi della Regio-ne Emilia Romagna; è Membro della SLP e Membro dell’AMP, lavora a Cesena.1.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 94.2.  J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”,  in La Psicoanalisi, n. 14, Astrolabio, Roma 1987, p. 133.

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i registri dell’essere e dell’avere; ciò porta a proteggere ciò che si ha e a mascherare ciò che non si è. Questo è l’antecedente e il presupposto per i giochi dell’amore e del desiderio che fanno del rapporto tra  i  sessi  la commedia giocosa  e  tragica  che vela  il non c’è  rapporto  sessuale,  vela l’impossibile rapporto matematico tra i sessi. Il + e il − non sono artico-labili e non c’è operazione possibile tra questi due operatori. Alla man-canza  d’essere,  rivestita  dai  tratti  di  appartenenza  sessuale,  si  affianca l’impossibilità, del non c’è rapporto sessuale. I due sessi  sono ripartiti, non dai sembianti d’essere, ma dalle diverse modalità di godimento: dal lato uomo il godimento dell’uno, godimento misurabile, suscitato da un tratto, da un nonnulla che una donna ha, da ciò che lei incarna, diven-tando così sintomo dell’uomo; dal lato donna vi è una ripartizione dei godimenti: un godimento fallico (come quello dal lato uomo) e il godi-mento Altro, aperto,  infinito;  entrambi  i godimenti  sono resi possibili dall’amore con la sua faccia di ravage, di devastazione e di rapimento.Una  donna,  che  si  colloca  dal  lato  destro  delle  formule  della  sessua-zione, è errante,  ricerca una nominazione possibile:  l’amore  le  fornisce questa  possibilità.  Ciò  che  esiste  per  una  donna  è  l’amore,  in  quanto essa lo cerca e lo domanda.Spesso  le  donne  confidano  che  se  viene  loro  a  mancare  l’amore  nulla ha più senso. L’amore può essere un nome per una donna: è l’amante e l’amata.  Può  rivestire  la  figura  della  borghese,  di  una  madame  Bovary che  si  sacrifica  lanciandosi  sotto  il  simbolo  della  tecnica  maschile  tesa verso l’ideale di un mondo nuovo e più veloce. Oppure essere la figura tragica della folle innamorata, che abbandonata uccide, oltre a se stessa, i figli avuti dall’uomo amato. Ma fuori dalla tragedia e dal romanzo, nella maggior parte dei casi,  l’amore può funzionare come elemento stabiliz-zatore del suo rapporto col mondo, in quanto fa da bordo al godimento fuori senso, poiché le permette di mettere in atto una nominazione. Solo l’amore limita probabilmente l’illimitato del godimento non fallico e dà consistenza all’impossibile che la donna incarna, anche per se stessa.La domanda d’amore di una donna è amplificata e senza limite perché 

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domanda quel niente in cui l’amore consiste: nell’esserci per l’Altro, va alla ricerca del segno d’amore, del dono offerto come segno dell’amore. Lacan dice che godere del corpo dell’Altro non è un segno dell’amore. Una  donna  questo  lo  sa  e  prende  il  desiderio  di  un  uomo  come  un semblant  non  come  il  segno  dell’amore  che  è  sempre  Altro.  A  lei  non interessa  l’oggetto  ma  il  segno.  Nella  sua  saggezza  sa  che  non  è  mai quello.  Il  niente  dell’oggetto  e  il  niente  dell’amore  rispecchiati  uno nell’altro.  Nella  clinica  è  l’oggetto  niente  di  cui  l’anoressia  si  nutre  e il  troppo d’oggetto dell’ancora di cui  la bulimia  testimonia,  a giocarsi nella domanda d’amore verso l’Altro.Ma  fuori  dalla  clinica,  nel  mondo,  le  donne,  una  per  una,  hanno  un certo rapporto con l’amore. Un rapporto in cui la nostalgia si intreccia sia con la delusione del non aver avuto abbastanza sia con la virata verso un padre che ha fatto di un’altra donna l’oggetto del suo desiderio.La prima delusione non viene sanata: ciò che non le è stato dato non ha un controvalore anzi viene raddoppiato dal non c’è trasmissione possibi-le tra madre e figlia, se non attraverso il linguaggio che la dice femmina. Ma essere biologicamente femmina non dice della femminilità, almeno per  la  psicoanalisi.  Stella,  una  figlia  che  non  riesce  a  fare  il  taglio  dei lunghi  capelli,  curati  dalla  propria  madre,  madre  lei  stessa  e  giovane donna obesa,  cerca  incessantemente nella  cura  analitica di  scoprire  chi è  una  donna,  la  risposta  in  un  sogno  in  cui  a  un  uomo  viene  tagliata la  testa: una donna è un uomo senza  testa,  e  lei  alla  sua  testa  ci  tiene! Commenterà: “A volte penso di essere un uomo in un corpo di donna”. Per  lei  l’impossibile  viene  ad  essere  significato  da  un  altro  sogno:  lei attraversa un centro benessere per soli uomini, è alla ricerca di due borse, una verde militare e una bianca di pelle: “Una borsa che non è da me” commenterà. Cerca in tutte le stanze, trova quella militare, quella bianca la vede su una sedia dentro a una bacheca. Il sogno termina sull’impos-sibilità di prendere quella borsa perché non sa come aprire la bacheca.Neanche  la  maternità  significa  la  femminilità,  tra  madre  e  donna  c’è uno  iato,  la  donna  è  collocata  nel  lato  della  mancanza,  la  madre  in 

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quello dell’avere  in  quando ha,  per  dirsi  tale,  un  figlio. Dal  punto di vista della psicologia, i tratti psicologici attribuiti alle donne, che fanno parte della loro identità, possono essere indifferentemente l’uno e il con-trario dell’altro:  la strega,  la  fata,  la borghese,  la passionaria; c’è per  le donne nel simbolico  la possibilità di una congiunzione tra gli opposti; al contrario, per gli uomini, c’è  la tendenza alla disgiunzione, che sot-tende una certa omologazione che porta ad avere un tratto o l’altro. Un modo questo di rivestire la tendenza all’ideale propria dell’uomo.Una donna può avere un utilizzo dei semblant molto più libero, perché pur  servendosene  non  ci  crede  fino  in  fondo,  rimane  sempre  un  po’ più soggetto. Soggetta a ciò che è  sconosciuto a  lei  stessa, non avendo nessun significante che la dica tutta. Il posto vuoto, la barra sul grande Altro  la  interroga e  la mette nella condizione di una ricerca di potersi dire,  dirsi  tutta.  Per  l’isterica  questo  sapere  che  non  c’è  è  collocato nell’altra donna; per una donna che abbia trovato un certo saperci fare con la mancanza, ciò viene a collocarsi nell’altra che lei è per se stessa. È qui che si colloca l’amore, l’amore per una donna nell’incontro con l’Al-tro, pur incontrando un altro; tentativo non mai riuscito di far esistere la possibilità di un rapporto impossibile tra i sessi.Nel suo incontro con un altro che ama, lei deve poter rivestire la posi-zione  di  oggetto  del  desiderio.  Non  è  una  posizione  facile  perché  per una  donna  il  sesso,  paradossalmente  anche  nella  nostra  società  così liberata dalla sessuofobia e con una spinta al godimento ad ogni costo, non è di facile approccio. Lei che è il sesso per antonomasia, lei che non è un secondo sesso ma il sesso, a lei servono le parole, la significazione dell’amore per poter accedere a quella posizione che la metta nella con-dizione di godere fallicamente e di accedere al godimento femminile, a quel sovrappiù che le viene anche se non sa dirne.L’amore come supplenza mai del tutto compiuta la espone all’incontro con il sesso, l’altro da sé ma anche l’Altra che lei rappresenta per se stes-sa. È questo incontro che Cinzia rifiuta. Cinzia soffre di una gelosia che non  la  lascia  vivere:  è gelosa dell’uomo che ora  sta  con  lei,  è  convinta 

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Alide Tassinari | L’amore… l’analizzante… un lavoro d’amore | 125

contro ogni evidenza che lui la tradisce con un’altra. Nel labirinto costi-tuito dalla sua vita amorosa questo è la prima volta che è gelosa di un uomo, prima erano gli uomini che ha avuto ad essere gelosi di lei. Rac-conta  che dopo  tre gravidanze  il  suo  seno,  in  seguito  all’allattamento, era sparito; il secondo marito Luigi, padre della sua terza figlia, non la cercava sessualmente da anni ma era un marito responsabile e un padre affettuoso,  al  contrario  del  primo  marito  che  era  brutale.  Chiede  alla chirurgia estetica per avere ciò che le manca: un bel seno così da piacer-si un po’ di più. Luigi è contrario ma alla fine accetta. Nella loro quoti-dianità lui andava frettolosamente al lavoro, ma dopo l’operazione, ogni giorno prima di uscire le dava castamente un bacio su ogni seno fino a che una mattina, vedendola a seno nudo, è preso dal desiderio ma lei lo rifiuta. Dopo poco tempo lo lascia. In seduta esclama: Di questo seno nuovo lui non ha goduto, era il seno non me che desiderava.Le donne vivono la mancanza di significazione del chi è una donna, una donna oscilla come una funambola sul filo teso sopra al vuoto scavato tra lei e l’altra se stessa che incontra nel godimento così detto femmini-le, di cui non sa e non può dire, anche se con l’apporto dell’amore sup-posto a un uomo, che fa da relais, ritrova nella contiguità del suo corpo ciò  che  le mistiche hanno  trovato  in  rapporto  all’Altro  esistente  come essenza. Se l’amore non ha oggetto, ognuno dei partner nell’amore dona ciò che non ha proprio perché mira all’essere, all’essere dell’altro.Nel farsi semblant di oggetto di un uomo, una donna domanda amore e, nello stesso tempo, chiede che non sia solo l’oggetto a rispondere. Nel trasporto  amoroso,  si  fa  oggetto  del  desiderio  dell’altro.  Si  fa  oggetto senza crederci troppo, senza identificarvisi e ritrova in questa operazio-ne la possibilità di un incontro con l’Altro godimento e con l’Altra da se stessa. Incontro in cui il rapimento, il ravage silenzioso della pulsione di morte e della sparizione del soggetto rimandano ad Altro ancora.C’è  in una donna  il  far  semblant d’oggetto. Lei  è  l’oggetto per  lui ma senza crederci troppo, si riveste dell’oggetto. In questo sta la dissimme-tria dei sessi. Le donne amano l’amore, sono affette dal narcisismo del 

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narcisismo, amano essere amate si, ma per loro stesse! Una donna vuole essere amata per se stessa in quanto una, diversa da ogni altra e non per ciò che ha e ciò che mostra. Anche se ha molto e mostra di avere molto.Il legame d’amore si crea, nonostante i paradossi, le ambiguità, le con-traddizioni che ognuno dei partner rappresenta. Un legame tra  i part-ner si realizza nel percorso accidentato dell’amore, tramite la disidenti-ficazione dall’oggetto e accettare di occupare la posizione di sembiante.La relazione amorosa è la traccia del modo con cui ognuno testimonia di come, attraverso il sintomo e l’amore, ha dato risposta al non c’è rapporto sessuale. L’amore è dare ciò che manca e ciò che manca deriva dal proprio rapporto con la castrazione simbolica, per l’uno e per l’Altro sesso. È sulla traccia dell’esilio che si innesta la parola d’amore, la poesia, la lettera.La posizione femminile divisione tra il riferimento al godimento fallico, proprio del campo della  significazione e quindi  fuori corpo, e  il godi-mento Altro,  illimitato,  supplementare  che  è del  corpo, non  legato  ad alcun sembiante, vale a dire non causato da un oggetto. Doppia divisio-ne: come soggetto in quanto essere parlante e come l’Altro che ha a che fare con un godimento fuori senso.Fra  l’uomo  e  la  donna  il muro  che  conviene  è  quello  che  trasformato dalle  parole  diviene  amore.  Ma  spesso  è  lei  che  ama,  l’amore  per  un uomo è solo abbozzato, è ingombrato da ciò che ha. Solo se è un poeta, può avvicinarsi all’amore perché come lo apostrofa Lou Andreas Salomè è  femmina. L’amore è un  lavoro d’amore per  superare  la  fondamentale dissimmetria che è una dissimmetria dei godimenti ma è responsabilità di  ogni  soggetto  dove  collocarsi  al  di  là  degli  attributi  che  si  hanno. L’analisi  portata  al  suo  estremo  limite  testimonia  sostanzialmente  di questo  impossibile  a  dirsi.  Il  lavoro  analitico  come  partitura  musicale che  l’analizzante  cerca  incessantemente  di  completare  perché  manca un  accordo,  una  frase  musicale  che  se  ci  fosse  la  completerebbe.  È  la frase  mancante  che  cerca  ininterrottamente  fino  a  che  si  rende  conto che manca  strutturalmente! L’analizzante  così da  amato può accedere, grazie al Desiderio dell’Analista, alla funzione dell’amante.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Lessico famigliare e inconscio

lessico famigliare e inconscio

di Vicente Palomera *

In questo testo l’autore ci conduce nella questione del “ familiare” così come Lacan l’ ha elaborata in quanto luogo di iscrizione del soggetto in relazione con un Altro che lo ha preceduto. Diversamente dalle teorie dell’attaccamento e dal considerare il familiare come “ impronta naturale”, l’autore richiama il neologismo lalingua. Attraverso di esso Lacan designa la traccia che la parola lascia nell’ inconscio nella nostra relazione originaria con il “ lessico familiare” in quanto separata dalla struttura del linguaggio e della comunicazione.

Parole chiave: familiare, lessico familiare, lalingua, inconscio

Fin dagli  inizi  la  clinica psicoanalitica ha mostrato  incessantemente  il legame  tra  sintomo,  inconscio  e  storia  famigliare. Appena  il nevrotico inizia a lamentarsi dei suoi sintomi, passa a lamentarsi dei suoi genitori, rivelando ciò che non funzionava nella loro relazione di coppia.J. Lacan lo sottolinea dicendo che: “l’analizzante parlando si concentra sempre di  più  su qualcosa  che da  sempre  si  oppone  alla polis,  ovvero, sulla  sua  famiglia. L’inerzia  che  fa  sì  che un  soggetto parli  soltanto di papà e mamma è un tema assai curioso”. 1

*  Vicente Palomera, A.E., membro ELP, AME. Dottorato di Psicoanalisi all’Università di Parigi VIII, Docente della Sezione Clinica di Barcellona.1.  J. Lacan, “Conférences Américaines”, in Scilicet, Seuil, Paris 1976, n. 6/7, p. 44. “L’analysant (si l’analyse, ça fonctionne, ça avance) en vient à parler d’une façon de plus en plus centrée, cen-trée sur quelque chose qui depuis toujours s’oppose à la polis (au sens de cité), c’est à savoir sur sa famille particulière. L’inertie qui fait qu’un sujet ne parle que de papa ou de maman est quand même une curieuse affaire. A dire n’importe quoi, il est curieux que cette pente se suive, que ça fasse, ça finisse par faire comme l’eau, par faire rivière, rivière de retour à ce par quoi ont tient à sa famille, c’est à dire par l’enfance”.

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Questo “curioso  tema” cui allude Lacan rimanda al  fatto che  l’analiz-zante,  parlando  di  una  famiglia  particolare,  parla  fondamentalmente del  luogo  d’iscrizione  delle  origini  della  sua  vita  in  una  storia,  cioè, della sua esistenza soggettiva legata a un Altro che lo precede. In questo modo uno entra sempre nell’esperienza dell’inconscio, si analizza come figlio, non come padre.L’inerzia  che  fa  sì  che  un  soggetto  non  faccia  che  parlare  di  papà  e mamma  non  è  condizionata,  come  sostenne  uno  psicoanalista,  da  un attaccamento che  fissa  i vincoli che uniscono  le  successive generazioni in tutte le specie animali, in particolar modo nei mammiferi, un attac-camento  che  dovrebbe  stare  alla  base  del  rapporto  tra  i  membri  della famiglia umana. Questa teoria dell’attaccamento, molto diffusa tra gli etologi, cercava di capire come hanno  inizio  le condotte programmate nella  famiglia  naturale  cortocircuitando  il  sapere  inconscio,  un  sapere strettamente annodato con il materiale del linguaggio.Se  ciò  che  interessa  è  capire  come  si  iscrive  e  si  colloca nella  famiglia particolare di ciascuno questa struttura dell’inconscio, niente di meglio, in questa bella città di Torino, che evocare il libro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, nel quale  si mostra  come  si  inscrive  l’essere parlante nella trama famigliare e come si trasmette nell’inconscio come vocabo-lario. Lei lo chiamò “lessico famigliare”.

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi  stanno all’estero:  e  non  ci  scriviamo  spesso.  Quando  ci  incontriamo,  possiamo essere,  l’uno  con  l’altro,  indifferenti  o  distratti,  ma  basta,  fra  noi,  una parola.  Basta  una  parola,  una  frase:  una  di  quelle  frasi  antiche,  sentite e  ripetute  infinite  volte  nella  nostra  infanzia.  Ci  basta  dire:  “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna”  o  “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per  ritrovare  ad un  tratto  i nostri  antichi  rapporti,  e  la nostra  infanzia  e giovinezza,  legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle  frasi  o  parole  ci  farebbe  riconoscere  l’uno  con  l’altro,  noi  fratelli, nel buio di una grotta,  fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro 

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latino, […] testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del  tempo. Quelle  frasi  sono  il  fondamento della nostra unità  famigliare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà – egregio signor Lippman – e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Fini-tela con questa storia! L’ ho sentita già tante di quelle volte!” 2.

Vediamo come Natalia Ginzburg non localizzi l’attaccamento famigliare in nessuna  specie di  impronta naturale, ma –  come  indicherà Lacan  in una conferenza a Ginevra – in una specie di crivello che uno attraversa, “nel quale  l’acqua del  linguaggio  lascia qualcosa dietro di  se, dei detriti con cui uno potrà giocare” 3. Effettivamente,  l’espressione “lessico  fami-gliare” ha vaste risonanze in ciò che Lacan comincia a sviluppare a par-tire dal 1973:  lalingua. Lacan precisò, nel 1970, che aveva scelto questo neologismo  lalingua,  in  una  sola  parola,  “per  designare  ciò  che  è  affar nostro, di ognuno, lalingua cosiddetta materna, e non a caso così detta” 4.Lalingua è una parola più adatta di altre per collocare la struttura stessa dell’inconscio.  Jacques-Alain  Miller  la  spiegò  a  partire  da  un  ricordo infantile  di  un  altro  grande  scrittore,  Michel  Leiris 5.  Fece  notare  un ricordo  che Leiris  evoca,  in un’età  in  cui non  era  stato  ancora  iniziato alla  lettura  e  alla  scrittura,  cioè,  quando  le  parole  potevano  essere  da lui colte  solo nella  loro  forma sonora, quindi udite. Leiris  scrive che  in quell’età  aveva  a  che  fare  con  strane  figure. Tra  altre,  ricorda un verso che cantava sua sorella e proveniva dal duo di Manon Lescaut intitolato “Adieu, notre petite table” e spiega come lei cantasse i versi pronunciando coscienziosamente la e muta che separa le due t di petit(e)table. Ciò che 

2.  N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963 e 2010, p. 22.3.  J. Lacan, “Conférence à Genève sur le symptôme”, Le Bloc-Notes de la psychanalyse, n. 5, Paris 1985, p. 11.4.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino 1983, p. 138.5.  Cfr., J.-A. Miller, La fuite du sens, Corso del 1995, inedito.

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restava  come  ritaglio  di  quel  verso  era  tetable.  Ciò  che  si  isolava  –  in quello che udiva – era la e della te de petitetable. 6 “La sillaba te – conti-nua Leiris – cominciò a prendere consistenza attaccandosi al sostantivo table: essa aveva cambiato la nostra tavola (table) in tetable o in totable”. 7 Leiris spiega poi come tetable o totable sarebbe diventato per lui un nome per battezzare qualunque oggetto: una stalla, un quadro, un totem, un lavandino in cui usciva acqua potabile, ecc., ecc., cioè tutte le vocali che gli venivano in testa in quel momento per etichettare qualcosa di indefi-nito o del quale l’unica cosa che sapeva era che era un oggetto 8.Lalingua è qualcosa che si costruisce come il tetable di Leiris, cioè come qualcosa che è il risultato degli equivoci prodotti dal linguaggio. Lalingua è in definitiva la parola quando è separata dalla struttura del linguaggio e della comunicazione, è un termine che serve a designare ciò che rimane in ciascuno di noi, della nostra relazione con la lingua materna, nell’età in cui non sappiamo ancora né leggere, né scrivere, quando ci troviamo, in modo specifico, confrontati con quella dimensione di equivoci propria del linguaggio. Diciamo che i significanti de lalingua si forgiano a partire da vincoli che non rispondono all’ordine del lessico. Lalingua è un effetto degli  imbrogli  e delle  trame delle  assonanze, dei  tagli  singolari, dove  la frase più banale può trasformarsi nella cosa più oscura. 9

Lacan presenta  in questo modo  l’inconscio  come un  sapere  indelebile depositato  ne  lalingua,  un  sapere  che  si  presenta  come  un’impronta, un’iscrizione, una traccia, una scrittura di ciò che fu la nostra relazione originaria con il “lessico famigliare”. Tuttavia, cosa fa che questo si fissi ed  eternizzi  in  modo  indelebile,  cosa  fa  che,  come  scrive  acutamente Natalia  Ginzburg,  “sopravviva  nei  suoi  testi,  salvati  dalla  furia  delle acque e dalla corrosione del tempo” 10?

6.  M. Leiris, Biffures, Gallimard, Paris 1948 e 1975, p. 13.7.  Ibidem.8.  M. Leiris, Biffures, cit., p. 21.9.  M. Leiris, Biffures, cit., p. 13.10.  N. Ginzburg, Lessico famigliare, cit., p. 22.

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Lacan  annota  due  ragioni:  la  prima  concerne  il  carattere  enigmatico dei significanti in gioco. Il significante di lalingua presenta un carattere enigmatico perché è isolato dalla catena significante, non articolato con gli  altri  significanti,  separato da qualunque valore di  significazione. È un  significante  separato  dal  suo  significato,  che  funziona  come  una lettera,  questa  è  la  ragione  per  cui  può  rimanere  incomprensibile  ed enigmatico.  Il  sapere  depositato  ne  lalingua  è  un  sapere  costituito  da una serie di  significanti  isolati, cioè  lettere che  il  soggetto non sa cosa vogliano dire. Già Freud aveva osservato  l’importanza di questo  feno-meno nel sottolineare come il bambino si trovi spesso di fronte a espe-rienze che rimarranno incomprese, conservando il ricordo di cose udite, stampate nella sua memoria, mentre gli sfugge il senso.La seconda ragione, che spiega perché questo sapere inconscio si fisserà in  modo  indelebile,  è  che  questi  significanti  da  soli  (),  incarnati  ne lalingua, fisseranno qualcosa del godimento del corpo nell’istante stesso in  cui  il  soggetto  fa  l’esperienza  di  un  impossibile.  Sono  significanti separati ( (  (  ( )))) che hanno un valore di godimento perché si sono collocati nel corpo quando il soggetto ha fatto un incontro con ciò che resta  fuori senso: esperienza di un  impossibile che concerne questo godimento. Lacan insiste effettivamente sulla dimensione dell’impossi-bile. Il sapere dell’inconscio è un deposito, “un sedimento che si produ-ce  in ciascuno quando  inizia ad avvicinarsi a questa  relazione  sessuale alla quale però non giungerà mai” 11.Lacan articola la realtà sessuale, per un verso, cioè l’esperienza del godi-mento  che  fa  il  soggetto,  e  l’impossibile, per un altro verso,  col quale il  soggetto  si  confronta  nel  tentativo  illusorio  di  raggiungere  questo rapporto sessuale. L’idea è che questa coalescenza o saldatura che inter-viene  tra  la  realtà  sessuale e  il  linguaggio corrisponda all’incontro che il  soggetto fa  inevitabilmente con questo impossibile, con questo buco 

11.  J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXI, Le non-dupes errent, 1973-1974,  inedito,  lezione del 12 febbraio 1974.

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nel sapere che concerne il godimento, con questo fuori senso nel sapere, rivelato in qualche modo nel momento stesso in cui sorge il godimento. Lacan definisce come reale questa assenza di rapporto sessuale, questo buco nel sapere. Ecco la cosa traumatica, il buco (trou) nel sapere, ragio-ne per cui Lacan trasforma il traumatismo in troumatisme.Questo è  il nuovo modo di pensare  l’inconscio che Lacan ci propone: l’inconscio è  fatto de  lalingua,  è  costituito da una  serie di  significanti isolati che fissano punte di godimento, con la particolarità che non pro-ducono significazione e rimangono incomprensibili al soggetto.Questo sapere inconscio che è giunto a depositarsi nel lessico famigliare, ne lalingua, come un tratto, una scrittura, è un sapere per il quale non c’è “nessun soggetto che lo sappia”. È un sapere indelebile, dice Lacan e, allo stesso tempo, non soggettivato. Detto altrimenti: a proposito di ciò che lo concerne in quanto ha di più intimo, il soggetto non può dire nulla. È un sapere che rimane in attesa, che, da questo punto di vista, ha  la  stessa  struttura  di  un  fenomeno  elementare.  L’inconscio  parla piuttosto con un “semi-dire” enigmatico, un dire a metà che introduce qualcosa di discordante nella famiglia.La  famiglia  che  il  nevrotico  porta  nel  suo  inconscio,  il  suo  “lessico famigliare”,  è  una  specie  di  famiglia-fiction (Lacan  la  chiamò  “mito individuale”). Questa famiglia che si inventa con l’intreccio tra il Sim-bolico e  l’Immaginario, come la trama di un fantasma, serve per dare supporto e schermo al reale indicibile de lalangue, reale che fa buco nel sapere ed è la “maledizione sul sesso” inerente alla sessualità umana. A questo punto, la cosa straordinaria è che Lacan arrivi a indicare che la “produzione di un corpo nuovo di parlante è l’effetto della trasmissione di un malinteso” e che “il corpo non fa la sua apparizione nel reale se non malinteso”. 12

Quindi, contro  la  idea di Rank del  trauma della nascita, Lacan preci-sa  che  “essere  umano  vuol  dire  nascere  malinteso”.  Leggiamo  meglio 

12.  J. Lacan, “Le malentendu”, (10 giugno 1980), in Ornicar? nn. 22/23, 1981.

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Vicente Palomera | Lessico famigliare e inconscio | 133

quello che ha detto: “Non dico che il verbo è creatore, dico che il verbo è  inconscio,  ovvero,  malinteso”  e  aggiunge:  “La  prodezza  della  psico-analisi  è  sfruttare  il  malinteso  con,  alla  fine,  una  rivelazione  che  è  di fantasma”. Farsi umano è allora “nascere malinteso” 13.Poi, senza soluzione di continuità, Lacan prosegue:

dobbiamo  essere  in  questo  caso  radicali:  il  vostro  corpo  è  il  frutto  della discendenza  e  buona  parte  della  vostra  disgrazia  proviene  dal  fatto  che nuotava  in  pieno  nel  malinteso…  nuotava  per  il  semplice  fatto  che  par-lavaessere  testardamente.  […]  È  ciò  che  vi  è  stato  trasmesso  nel  darvi  la vita, come si suol dire. Ereditate questo… il malinteso poiché fin da prima di  questo  bel  regalo,  fate  parte  della  balbuzie  dei  vostri  ascendenti. Non occorre che balbettiate voi stessi, già da prima ciò che vi sostiene a titolo di inconscio radica lì […] nascere desiderato o no fa lo stesso, dato che si tratta del parlessere 14.

Vediamo allora come l’inconscio veicoli la trasmissione, nella famiglia, di questo malinteso del verbo che parla dicendo a metà e non sapendo quello  che dice. L’inconscio  è  il  “libretto”  che  fa del  caso un destino. L’inconscio come parlessere sembra suddiviso – come Giuseppe e Lidia, i genitori del romanzo di Natalia Ginzburg – tra due parlanti, che non parlano la stessa lingua, due che quando parlano non si ascoltano; due che alla fine non si capiscono. Due che complottano per la riproduzio-ne, però di un malinteso realizzato che  i  loro corpi trasferiranno nella cosiddetta “riproduzione”.In fin dei conti, far nascere un bambino è voler scongiurare l’impossi-bile del rapporto tra i godimenti, è ciò di fronte a cui il testo di Natalia Ginzburg  ci pone, ovvero,  che  il  “lessico  famigliare”  abita questo  iato irriducibile nel dialogo impossibile tra i sessi. Lacan sottolineava che ciò 

13.  Ibidem.14.  Ibidem.

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che c’è è  il malinteso, ed è  il malinteso che fa sì che gli uni e gli altri continuino ancora a parlare, insieme, ma separati nel loro dire.E l’amore che ruolo ha in tutto ciò? È fondamentale, l’amore è proprio ciò che può fare in modo che tutto questo sia sopportabile.

(Traduzione di Erminia Macola)

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attualità lacaniana n. 12/2010

Il “Che vuoi?” nella mia analisi

il “che vuoi?” nella mia analisi

di Raffaele Calabria *

L’autore ripercorre in breve il proprio percorso psicoanalitico per giungere al momento in cui il “Che vuoi?” apre le porte ad un nuovo rapporto con il proprio inconscio, permettendo il definitivo installarsi della regola fondamentale analitica. Il desiderio, nel suo slancio vivificante in opposizione ad un godimento mortifero, conduce il soggetto verso la domanda di passe che sigilla il suo legame con la Scuola.

Parole chiave: analisi, desiderio, inconscio, passe, “Che vuoi?”

Un po’ rassicurato dalle mie riflessioni, mi rannicchio, rimango immobile, pronuncio l’evocazione con voce nitida e ferma e, calcando i suoni, scan-disco per tre volte e a brevi intervalli Belzebù. Un brivido mi corse lungo le vene, i capelli mi si drizzarono in testa. Avevo appena finito che davanti a  me,  in  alto,  sulla  volta,  si  spalanca  una  finestra.  Dalla  breccia  sgorga un  torrente  di  luce  più  abbagliante  del  mattino,  e  fa  capolino  una  testa di cammello orrenda sia per dimensioni che per forma. Soprattutto aveva orecchie smisurate. L’odioso fantasma apre la bocca e, in un tono che ben si addice a tutta l’apparizione, mi risponde: “Che vuoi?”. Ogni volta, ogni cavità dei dintorni risuona a più non posso del terribile “Che vuoi?”. Non saprei descrivere  la mia  situazione; non potrei dire  chi diede manforte  al mio coraggio e m’impedì di venire meno davanti a quella visione, al rumo-re più terrificante ancora che mi echeggiava nelle orecchie 1.

*  Raffaele  Calabria  è  iscritto  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  degli  Psicologi  della Regione Emilia Romagna; è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freu-diano per la clinica, la terapia e la scienza.1.  J. Cazotte , Il diavolo innamorato, Donzelli Editore, Roma 2005.

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È questo  il passo da dove Lacan ha  tratto  la  famosa  formulazione del Che vuoi?, cavatappi che stura l’effervescenza del desiderio e che condu-ce la struttura del grafo “verso la sua forma completa”. Di questa stura nella mia analisi, del suo gorgoglio e del suo sfogo, vorrei dare una pic-cola e breve testimonianza.

io so quello che vuoi…

Il  percorso  con  lo  Psicodramma  Freudiano,  durato  circa  8  anni,  mi aveva  lasciato  con alcune questioni  irrisolte,  tra  cui: una  certa  aggres-sività,  che  permeava  ogni  mia  relazione  amicale  ed  affettiva,  ed  una insopportabile condizione di gelosia che marchiava  il mio essere come escluso e bandito da ogni possibile godimento, sentito come interdetto e  ad  esclusivo  appannaggio  degli  altri.  Avevo  sì  guadagnato  un  certo spazio  vitale  tra  gli  uomini  ma  rimanevo  segregato  nella  mia  gabbia, abbarbicato  alle  sbarre della mia  finestra  a guardare  in  solitario  livore l’illusoria libertà di movimento degli altri.In queste condizioni inizio la mia analisi, non sapendo dove mi avrebbe condotto  ma  deciso  a  venir  fuori  da  una  condizione  soggettiva  inso-stenibile. Una decisione che mi offriva al contempo la certezza circa  il sapere ciò che il mio analista voleva. Non saprei dire in realtà cosa lui volesse, ma questa certezza era anche il fulcro e la spinta del mio parla-re: eravamo sulla stessa barca, confidavo sulla sua capacità di timoniere, ma lo tenevo d’occhio guardando a vista ove mi conduceva.

… tanto ti frego.

Già, lo guardavo a vista, lo tenevo sotto mira ben attento a fregarlo ad ogni occasione propizia. Non poteva sgarrare, non doveva cedere sulla decisione iniziale; tutto doveva procedere con una perfezione irreprensibile. 

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Raffaele Calabria | Il “che vuoi?” nella mia analisi | 137

Da dove proveniva  la mia certezza  su ciò che  lui voleva? Credo di non sbagliare se faccio risalire il tutto alla mia credenza di certezza sul desi-derio di mia madre. Questa me lo aveva fatto intendere in tutti i modi che io, il secondo di tre figli, ero quello prediletto, il suo bambino, il suo amore da mangiare, il predestinato alla fama e alla gloria della famiglia. Eppure,  l’avevo  tradita  per  ben  due  volte:  dapprima  non  seguendo  le orme di mio zio arcivescovo (di cui porto scolpite le insegne di nomina-zione), poi non diventando quel medico che tanto l’avrebbe inorgoglita.Dunque,  l’affidarmi  al  mio  analista  nascondeva  una  feroce  trappola, l’avrei  tradito  al  primo passo  falso,  rivelando  così  a me  stesso  il  para-dosso della mia domanda isterica: so che voglio guarire, ma quello che tu  (analista)  non  sai  è  che  incomprensibilmente  e  colpevolmente  non voglio guarire. In questo modo avrei reso vano ogni desiderio su di me, mantenendo  intatta  la  mia  condizione  nevrotica:  trastullo  per  l’Altro, reso però insoddisfatto attraverso i miei inganni seduttivi e tradimenti. Era questo  il  nocciolo della mia  certezza,  rendere  vano ogni  tentativo dell’Altro, tentativo che io stesso avevo alimentato.

che vuoi?

È  sulla  questione paterna  che  si  realizzerà quel  viraggio  fondamentale che mi condurrà ad incontrare il terribile Che vuoi? E qual era la colpa che  attribuivo  a  mio  padre,  al  punto  da  renderlo  il  responsabile  per eccellenza della mia nevrosi? Quella di aver smesso di desiderare; quella di essersi ritirato dalla vita sociale e lavorativa (in realtà un ictus lo aveva menomato nella deambulazione e nel  linguaggio) e di essere diventato sia lo zimbello che la più grande preoccupazione di mia madre. Per anni ho  disprezzato,  con  ripugnante  cattiveria,  l’immagine  degradata  dei suoi ultimi anni di vita, confrontandola con quella gioviale e bonaccio-na, pur se tremenda, degli anni della mia infanzia. Nonostante il disprezzo però, la passione per quest’uomo è stata quanto 

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di più intenso e profondo io abbia mai provato. Negli anni ero diven-tato persino uguale in tutto e per tutto a  lui. Ricordo che mia sorella, tempo fa, rimase inorridita e spaventata da quanto avessi fatto proprie le sembianze di nostro padre!Durante il lento e faticoso scardinamento di questa impalcatura identi-ficatoria scopro finalmente la mia posizione nei suoi confronti e il lega-me amoroso che tanto mi aveva tenuto stretto a lui. Ed è in coincidenza di  questa  scoperta  che  diabolicamente  mi  si  affaccia,  come  un  lampo a ciel sereno e in una formulazione e tonalità tutta nuova, il Che vuoi? così tanto segretamente agognato in analisi. 

che voglio?

Questa  scoperta  ha  degli  effetti  immediati:  mi  scalza  definitivamente dalla posizione di certezza, nella quale a tratti continuavo ancora a col-locarmi, svela la funzione ortopedizzante che il padre aveva avuto fino a quel momento per me, mi apre le porte ad un nuovo rapporto con l’in-conscio palesando un sottile, profondo ma tremendamente accattivante interrogativo sul desiderio dell’Altro.E il Che vuoi? si sdoppia inesorabilmente in due tronconi: Che vuole da me,  come  effetto  della  frantumazione  della  certezza  con  tutta  la  por-tata  castratrice  del  non-sapere  e,  soprattutto,  Che voglio,  come  nuova e sorprendente apertura sul mio desiderio. Ed è così che mi si rivela la vecchia da sempre, per me, enigmatica formula lacaniana : il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro. In un rapporto di sospensione della verità data come assodata circa il che vuole l’Altro da me, si sgretola la mia sicumera e sorge un’ineffabile domanda su cosa voglio io.Il  nuovo  è  ormai  all’orizzonte  e,  pacificato  dal  radicale  svanimento di  un  coriaceo  velo  depressivo,  mi  inoltro  in  sconosciute  frontiere  di confine. Innanzitutto una strana rabbia nei confronti di mia madre di cui  mal  sopporto,  per  la  prima  volta,  persino  la  voce.  Poi  un  inedito 

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sguardo sulla mia passione immaginaria, causa e fondamento del prin-cipio paranoico della  conoscenza umana, passione  che mi ha  spinto  a farmi non solo oggetto dell’Altro ma soprattutto a fare ciecamente degli oggetti dell’altro l’unica realtà di desiderio.Infine, nel  luogo dell’analisi,  dopo un  certo periodo di  tempo duran-te  il  quale  la  mia  parola  faceva  timido  capolino  tra  silenzi  carichi  di angosciosa attesa che qualcosa del mio pensiero prendesse forma, il mio dire  si  rivela  fluente,  caotico,  illogico,  intrecciato  da  significanti  che sembrano sorgere dal nulla, e svela nuovi percorsi che si affastellano con insospettabile  vigore.  Non  so  cosa  dico  ma  sono  preso  costantemente dall’effetto di quel che dico. Incappo così in quella sovradeterminazio-ne significante di cui il sogno è la massima espressione. Prima di ogni seduta penso: chissà cosa dirò oggi? Per poi trovarmi meravigliato delle novità emerse dal gioco delle libere associazioni. È il definitivo instau-rarsi della regola analitica fondamentale, che conoscevo da sempre, ma che solo ora assaporo nella sua succulenta fragranza. 

avrò il coraggio del mio desiderio?

È questa  la domanda che mi  si pone nella  contemporaneità. Codardo ed  infingardo da  sempre, mi  tengo al di qua di ogni  atto  e,  al  riparo delle mie incertezze acquisite, scavo la mia nicchia preferendo il dormi-re allo stare svegli, nel soporifero caldo dell’Altro.Ma,  mi  chiedo,  di  quale  desiderio  si  tratta?  E  poi,  desiderio  di  cosa? Non  so  rispondere  alla  prima  questione.  Della  seconda  invece,  sin dall’inizio, ho ben chiaro  il  responso. Ho desiderio di verità sulla mia origine,  sulla  mia  originalità,  sulla  particolarità  che  mi  caratterizza, sull’unicità che mi contraddistingue, sul reale in gioco nel sintomo che mi marchia. Forse il coraggio impiegato finora è ben poca cosa rispetto a quello che sarà necessario per compiere un atto che testimoni del mio pezzo unico nella più completa solitudine. 

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Cazotte  nell’epilogo  del  suo  racconto  così  giustifica  l’assenza  di  una conclusione compiuta del testo: 

…  a  25  anni,  sfogliando  l’edizione  completa  delle  opere  del  Tasso,  ci imbattemmo  in  un  volume  che  conteneva  la  spiegazione  delle  allegorie racchiuse  ne  La Gerusalemme Liberata.  Ci  guardammo  bene  dall’aprirlo. Eravamo amanti appassionati di Armida, di Erminia, di Clorinda; sarem-mo stati privati di  troppo piacevoli  chimere,  se quelle principesse  fossero state ridotte a null’altro che semplici emblemi.

Al  contrario,  io metaforicamente voglio  tenere  aperto  sia  il  libro della Gerusalemme  Liberata,  per  non  privarmi  delle  effimere  ma  piacevoli chimere,  sia  quello  delle  spiegazioni  delle  allegorie.  Perché  penso  che ambedue  rappresentino  il  libro  del  mio  inconscio,  il  luogo  delle  mie invenzioni,  la sorgente della mia rigenerante creatività,  la bussola della mia vita. Ma tutto si rivela eccessivamente aperto, senza confini; tutto troppo libero, senza limiti. Il desiderio richiede invece una legge, fonda-mento di ogni scelta che trovi nell’inconscio la sua radice sinthomatica e di legame. Ed è per questo che desidero fare la passe.

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approssimazioni al reale

parte terza

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attualità lacaniana n. 12/2010

Il tempo nella cura

il tempo nella cura *

di Carlo Viganò **

Viene avanzata l’ ipotesi che si possa andare oltre l’affermazione di Freud secondo la quale della tecnica di una cura possiamo dire solo le mosse di partenza e di conclusione, come per una partita di scacchi. L’ introduzione della categoria del Reale da parte di Lacan ci permette di isolare oltre all’ inizio e alla fine, delle scansioni interne al processo della cura. Queste scansioni si possono sintetizzare in quello che Lacan definisce atto analitico. Esso è l’evento di un cambiamento soggettivo, legato al prodursi di una sincronia che taglia la durata della cura come effetto di reale. Il taglio sincronico trasforma il tempo-durata in uno spazio topologico che permette di scrivere degli eventi della cura: interruzioni, scansioni del discorso, cicli. Questi eventi toccano la forma del godimento e quindi della vita come rapporto con il corpo.

Parole chiave: tempo, discorso, atto, cambiamento

Miller  con  il  suo  intervento  a  Milano  (1993 1)  “L’uscita  dall’analisi”, inaugurò una ricerca  sul  tempo nel processo analitico, che ne  interro-ga  in modo nuovo  la conclusione, non solo  in modo  finalistico, come passaggio  dalla  posizione  dell’analizzante  a  quella  dell’analista,  ma mettendone  in questione  il valore nell’esperienza della cura come tale, 

*  Intervento al Seminario AMP di Milano del 19 dicembre 2009.**  Carlo  Viganò  è  iscritto  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  dei  Medici  di  Milano;  è Membro AME della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.1.  J.-A. Miller, “L’uscita d’analisi: sue congiunture d’innesco in Freud”, in Agalma, n. 9, Milano 1993.

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cioè quello di un reale che ne può causare l’arresto. Per questo egli fece l’ipotesi che vi fosse una simmetria con il momento di avvio.Egli, quindi, considerò le cure freudiane prendendole nel  loro versante “indifferenziato”,  senza  però  adottare  un  metodo  sociologico,  nello stile, ad esempio, di una ricerca  fatta da C. Viviani nel 1975 sul “vis-suto”  e  sui  “perché” di  ventotto  interruzioni di  analisi 2, ma  secondo  i modi di una corretta ricerca clinica, che va al di là delle idee ricevute 3. Per questo egli scelse di accostare  le scansioni temporali,  inizio e arre-sto, a quella della “congiuntura di scatenamento” della psicosi.Analizzando la struttura della psicosi nel seminario terzo, Lacan intro-dusse  nella  clinica  psicoanalitica  la  dimensione  logica  del  tempo,  sov-vertendo  la  logica  nosografica  dello  “sguardo  clinico”.  Si  tratta  di  un punto  cruciale  della  ricerca di  quella  “causalità  psichica”,  che  guida  il ritorno a Freud di J. Lacan, perché a questo punto lo psichico si libera da  ogni  riferimento  fenomenologico  alla  comprensione,  per  accogliere l’indeterminismo che connota la causalità soggettiva.Nell’incontro precedente del nostro Seminario, E. Laurent ha svilup-pata  in  modo  dettagliato  questa  congiuntura,  attraverso  il  quadrato 4 che  mostra  l’articolazione  tra  simbolico  e  immaginario,  la  dialettica 

2.  C. Viviani, Psicanalisi interrotta, Sugarco, Milano 1975.3.  Riprendiamo  qui  l’espressione  di  Flaubert,  come  fa  Lacan  nel  seminario  undicesimo,  per criticare  il  metodo  codificato  dalla  ricerca  clinica,  che  consiste  nell’applicarvi  i  modelli  della ricerca sociologica, la cosiddetta “validazione empirica” della cura. Si rende calcolabile la scelta singolare del soggetto mediante la statistica: la logica congetturale che presiede alla politica del sintomo cede a quella dell’epidemiologia, che piace di più agli amministratori. Il danno è enor-me:  in nome di un  sembiante di  scienza  (il  calcolo)  si perde proprio  l’aggancio con  la  scienza, cioè il calcolo al limite del godimento soggettivo (oggetto a).4.  Lo schema L:

 ltroo 

nconscorelazone mmagnara ’ltroEs 

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del  simbolico  come  innovativa  rispetto  a  quella  filosofica  di  Hegel: il  simbolico  come  rottura della  simmetria  speculare  io-tu  e  irruzione “reale” dell’atto di parola. Esso produce il luogo dell’Altro, con l’effetto di rompere il “muro del linguaggio”, l’asse immaginario che ostacolava la relazione del soggetto con l’Altro.Rispetto  all’interrogazione  sul  tempo  della  cura  come  durata,  que-sta  scansione  si  è  dimostrata  significativa  per  indicare  un  elemento dinamico  all’opera  nella  cura  analitica  nei  più  diversi  momenti  del suo  svolgersi:  all’inizio,  nell’interpretazione  “efficace”,  nell’interru-zione,  nella  fine.  La  costante  di  questa  dinamica,  se  si  considerano  i casi clinici di Freud, viene  indicata da Miller come un’operazione del desiderio dello stesso Freud. Miller ne dà una lettura: Freud non vuole far fare un altro giro al desiderio del paziente, perché nella sua ricerca è  maggiormente  interessato  al  guadagno  di  sapere  ottenuto,  che  alla prosecuzione della cura:–  in Dora, quando non vuol prendere atto della caduta dell’identifica-

zione con  il  signor K  (sogno della morte del padre  e della  chiamata della madre).

–  nella giovane omosessuale, quando il passaggio all’atto lo fa desistere dalla cura,  invece che portare  la paziente ad elaborarlo come atto di separazione.

–  nell’uomo dei topi, quando accondiscende al desiderio autodistruttivo del paziente: partire volontario per il fronte.

–  nel  piccolo  Hans,  quando  si  accontenta  della  costruzione  del  fanta-sma come uscita dall’angoscia.

–  nell’uomo dei lupi, quando, dopo avere solo “ricostruito” il fantasma, il paziente viene affidato ad un altro analista perché lo faccia assume-re dal soggetto in un atto sintomatico 5.

Miller osservava  che questi  interventi del desiderio di Freud giocaro-no  come  “sottrazioni  di  desiderio”  dell’analizzante  e  che,  in  quanto 

5.  J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, 1962-1963, Einaudi, Torino 2007, p. 284.

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tali,  essi provocarono un arresto della cura. Questo ci  suggerisce una possibile  aggiunta  al  titolo  generale del nostro Seminario,  che  ricalca quello del Convegno della NLS: “When the [talking] cure stops”. Essa preciserebbe che il fenomeno temporale nella cura va posto in relazione con l’atto di parola.Ciò  che  si  arresta  nelle  cure  di  Freud  è  il  discorso,  quando  viene  a mancare il partner nel transfert, con un intervento che è di stop and go, per  la  ricerca  clinica, ma che può avere  effetti  soggettivi nel paziente che non sono di fine analisi, ma di interruzione.Nella  cura  della  parola,  infatti,  il  processo  assume  una  temporalità complessa, dove l’atto di parola produce contingenze di scatenamento del  sintomo che possono essere di  inizio, di  scansione  interna, di rot-tura, di fine anticipata, ecc. Per questo la strategia della parola si deve affidare  ad  una  politica  del  sapere 6  ,  affinché  l’azione  del  Simbolico sull’Immaginario  segua  la  sequenza  SIR:  simbolizzare  l’immaginario del  reale 7. Nella conferenza  i  tre registri venivano ancora articolati  in una catena di inferenze duali, di un registro sull’altro. Solo con l’elabo-razione dei discorsi  l’annodamento dei  tre  registri  sostituirà  la  catena dei cicli duali e permetterà, quindi, di scrivere la politica analitica del sintomo. Senza di quella un arresto non sarebbe logicamente differen-ziabile da una “interruzione”, appunto di tipo strategico 8.

6.  J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 585.7.  Questo era il programma scientifico che Lacan propose nella conferenza “Il Simbolico, l’im-maginario e il reale” tenuta nel 1953, quando uscì con molti altri dalla Societé Psychanalitique de Paris.8.  L’indistinzione  tra  politica  e  strategia  ha  permesso  di  pensare  a  politiche,  del  tutto  imma-ginarie, per  trattare  il  sintomo attraverso una  sua delimitazione  “focale”, dette  “analisi breve”. Mi  sembra  più  chiara  la  logica  di  chi  afferma  di  limitarsi  alla  strategia  per  definire  il  limite temporale di una cura e rinuncia alla politica analitica del sintomo, come fa Nardone con la sua “psicoterapia strategica breve”.

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il rovesciamento

Il  rovesciamento  da  SIR  a  RSI,  risponde  ad  un  progresso  nella  politica della cura, cioè all’esigenza di regolarne gli arresti a partire da quel reale che la parola genera. Precisiamo subito che non si tratta di un cambiamen-to di programma, da quello della Conferenza SIR, a quello della religione: realizzare il simbolico dell’immagine (che è il progetto della mistica).Andando “al di là dell’Edipo” 9, Lacan fonda la cura analitica su un pri-mato del reale che rivela la vera radice dell’esperienza, cioè la rimozione primaria  come  dato  della  struttura  soggettiva.  Lo  mostra  bene  l’anno-damento dei tre registri in un Uno che possa fare frontiera verso il reale della pulsione di morte, l’intreccio “borromeico”:

SR

I

Possiamo capire allora che  l’effetto di “rovescio” è puramente discorsi-vo  ed è  connesso  alla politica dell’analista,  che, pur  scrivendo  il nodo iniziando dal Reale, lo mantiene in una forma levogira, cioè con R che incide  su S. Nella  religione  invece  esso  è destrogiro,  con S  che  incide 

9.  Così J.-A. Miller intitola la seconda parte del seminario diciassettesimo dove Lacan formula il discorso dell’analista come il punto di ancoraggio al reale del soggetto che potrebbe sganciare il discorso dal primato del simbolico. Introduce cioè il soggetto dell’inconscio in una logica intui-zionista che colloca il soggetto della scienza (discorso del padrone) come il suo rovescio.

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su R. Il discorso dell’analista corrisponde ad un progresso nella politica della cura, che tiene conto dell’esigenza di regolarne gli arresti a partire da quel reale che la parola (e quindi il discorso della scienza) genera.L’algoritmo dei discorsi permette di mostrare questo  rovesciamento:  il resto che si produce nel discorso dei sembianti viene a sua volta messo nel posto del sembiante: la resistenza diventa la molla del transfert.

→ rovescio di → ▲ ▲

Non possiamo  svilupparlo  in questa  sede, ma  il  discorso dell’analista, ponendo  il  resto  reale di godimento del discorso dialettico, quello del Padrone con il suo derivato contemporaneo dell’Università, al posto del sembiante, crea un legame transferale con il sinthòmo, quarto anello di un annodamento che la cura potrà rendere borromeico, cioè in grado di fare da bordo al godimento.Nelle  cure  la  funzione  della  parola  può  trasformarsi  in  atto 10  tramite il  desiderio  dell’analista  che  riguarda  le  “manifestazioni  residue”,  di cui parlava Freud in Analisi finita e infinita e che dunque, come osser-vava  Miller,  non  sono  residui  della  cura,  ma  del  fatto  che  in  essa  si parli o meglio “che si dica”, che cioè al di  là dell’enunciato si produca dell’enunciazione.  In  altri  termini  l’interpretazione  del  detto  (SIR) punta al senso del sintomo, mentre l’atto tratta il godimento che il dire deposita ne lalingua, al di là del senso (inconscio reale 11).

quando il discorso non sarebbe del sembiante

L’algoritmo  che  può  mettere  in  relazione  l’enunciazione  con  la  proces-sualità  temporale  della  cura  e  con  le  posizioni  che  il  soggetto  vi  può 

10.  In termini anglosassoni: da speach act a change.11.  J.-A. Miller, “L’inconscio reale”, in La Psicoanalisi, n. 42, Roma 2007, pp. 112-172.

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prendere,  è  quello  dei  discorsi  e  dei  passaggi  di  discorso.  Essi  possono mostrare  i  rilanci  che  il  desiderio  dell’analista  può  o  non  può  fare  di questi resti che la parola del paziente produce in una cura sotto transfert.Si tratta di uno sviluppo del quadrato della parola e del muro del linguag-gio, creato da Lacan per potere elaborare il tempo in cui  la parola nella cura arriva, grazie al transfert, a scalfire il godimento del senso (comune) e quindi a sottrarre l’Altro ad un ancoraggio archetipico alla dea ragione (o alla sragione psicotica). Questo permette di sostituire all’asse immagi-nario a-a’, il resto di reale che l’immaginario ha raccolto e che resiste alla dialettica significante: a. È l’oggetto niente, che, anche quando nel sinto-mo contemporaneo non riceve  la  luce dell’Ideale  (fantasma), può essere sottratto alla feticizzazione dalla pragmatica dell’analista.Vorrei  illustrare  questo  rovesciamento  utilizzando  un  commento  del discorso  dell’analista  che  Lacan  fece  in  una  “improvvisazione”.  È  nel suo giro americano, credo presso il MIT, dove mette in evidenza il desi-derio  dell’analista  quando  si  fa  sembiante  dello  scarto  della  parola  (il suo “silenzio”) nella cura (vedi Figura 1  a pag. page 150).Di fronte a ciò che il soggetto non dice l’analista può incarnare il sem-biante di scarto (a) e intervenire a livello del soggetto, grazie non ad un “rapporto di comprensione”, ma ad una supposizione di comprensione (la linea tratteggiata) che si produce come effetto a cascata dal suo dire (i vettori che portano ad a).È a questo punto che interviene il desiderio dell’analista: o questo sapere detto a metà mette in evidenza “ciò che il soggetto non dice” e quindi produce arresto del discorso dei sembianti (figura in alto), oppure esso fornisce un nuovo nome () a ciò che  l’inconscio produce e questo  fa continuare la cura grazie ad un cambiamento del (o nel) discorso. In un caso il soggetto è condizionato da ciò che enuncia (arresto del discorso) e nell’altro da ciò che non dice (avvio della cura).Questa struttura discorsiva rende ragione dei cicli della cura della paro-la  in  funzione del  tempo  logico del discorso. L’analisi  è un  tempo del parlessere  che  ritaglia  la  durata  non  solo  della  seduta,  ma  anche  della 

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cura, conferendo un valore specifico ad ogni sua scansione: inizio, arre-sto, interruzione, ripresa di tranche.

In questa logica tra inizio e fine si producono una serie di rovesciamenti successivi, dal  sintomo al  fantasma… e ritorno, meglio: ad una nuova scrittura  del  sintomo  e  così  via.  Sulla  ri-scrittura  del  sintomo  si  sono arrestate  le analisi di Freud, tranne quella dell’uomo dei  lupi, dove un nuovo analista ha dato un altro nome al sintomo. Oggi diremmo: dalla nominazione  della  lettera  di  godimento  (sinthòmo)  al  sintomo  come supplenza del N-d-P.Nel  seminario  ventesimo,  Lacan  inserisce  questo  rovesciamento  nel tempo logico dell’apologo dei tre prigionieri. È molto utile per mostrare come  l’oggetto  a,  in  quanto  manifestazione  residua  di  una  cura,  sia  la 

ce qu’il énonce

ce qu’il ne dit pas

savoir inconscient

ce que l’inconscient  produit, plus de jouir  

parlêtre

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chiave di volta del  tempo per concludere un’analisi o un ciclo nell’ana-lisi. Egli lo scrive: Uno + a, dove quest’ultimo, che Miller riconduce alle “manifestazioni residue”, “tetizza la funzione della fretta”. Il tempo logi-co cioè apporta alla cura come situazione di  intersoggettività “qualcosa di salutare”, mostra come ciascuno dei tre interviene nella relazione “solo in qualità di quell’oggetto a che egli è, sotto lo sguardo degli altri” 12.Gli  arresti  delle  cure,  allora,  pongono  la  questione  dei  tre  prigionieri, che in realtà sono due più a. “Questo due più a, nel punto di a, si ridu-ce, non agli altri due, ma a Uno più a”. Lacan ricorre a queste funzioni per  “rappresentare  l’inadeguatezza  del  rapporto  dell’Uno  con  l’Altro”. Quando  la  cura  si  arresta  è  di  questa  inadeguatezza  che  si  tratta  e dell’insufficienza nel “punto di a” di un sembiante che inneschi la fun-zione della fretta, cioè del sembiante che incarna il desiderio dell’anali-sta. When I care stops, the cure start.

un caso

Illustrerò questo passaggio con uno stralcio di caso clinico. Una donna quarantenne,  scrittrice  e  docente  universitaria,  che  ha  fatto  10  anni di  analisi  junghiana  per  la  depressione,  poi  4  di  analisi  lacaniana  per disturbi alimentari, viene da me perché ormai dipendente dalle “canne”. Non  intende  tornare dal  secondo analista perché questi  le dice che  lei ora ha la scrittura che la sostiene e che prima o poi si stuferà di fumare hashish. La ascolto e la invito ad andare anche al CAD per un supporto medico.  Smette  subito di  fumare  la  “sostanza”, ma, per poter  arrivare a  scrivere,  riprende con  le  sigarette,  intanto  racconta di una vita  spesa a  ricercare  la  verità  maschile 13  e  a  sfuggire  la  seduzione  paterna.  Una volta,  è  passato  poco  più  di  un  mese,  faccio  la  “voce  grossa”  perché, 

12.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino 1983, p. 48.13.  Il titolo del suo primo romanzo, che ha già avuto due ristampe, suona: “Non è come lui dice”.

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per  rifiutare  il  farmaco  che  gli  propone  il  medico  del  CAD,  gli  dice che sono io ad essere contrario. Reagisco quindi all’uso del mio nome, che mi rivela come lei collochi il luogo della mia enunciazione secondo una sua costruzione narrativa dell’Altro (lo psicoanalista che è contrario all’uso del farmaco), che le serve per rifiutare l’Altro. La volta successiva mi  comunica  che  il  mio  rimprovero  ha  fatto  crollare  l’immagine  che aveva di me e che vuole arrestare l’analisi: “sono già 15 anni che faccio analisi…”. Le propongo di prendersi una pausa e che intanto io aspetto che mi richiami, dal momento che sono certo che lei possa stare meglio e che quindi desidero che arrivi a fare un’analisi.Mi richiamerà una settimana dopo per dirmi che la sua stima nei miei confronti non è mutata. Sta male, è angosciata, si è accorta che a volte fa  la voce della bambina, come  io avevo osservato. Nella cura  il posto dell’Altro che l’accudiva si è trasformato nell’Uno angosciante, però lei ha  potuto  relazionarsi  di  nuovo  con  me  grazie  alla  stima,  forse  potrà avere accesso all’essere per  la via dell’amore  (stima). L’arresto ha avuto una funzione di tempo logico che ha scatenato un momento di cambia-mento nel discorso: si stupisce di parlare per la prima volta della madre non  come  vittima  di  suo  padre  o  comunque  come  quella  che  “non parla”, ma della propria esperienza di ravage nel rapporto con la madre (che, già dai  tempi del  telefono fisso, non è mai riuscita a stare più di due ore senza verificare dove lei si trovasse). Mi aspetto di poter lavorare su questo oggetto primario della sua dipendenza.In conclusione possiamo dire che l’analisi è un processo e come tale si può arrestare, ma il suo procedere non è lineare. Essa è il processo del cambiamento. Di che cosa? Non dei sembianti che il godimento prende per il soggetto, ma della scelta che quest’ultimo può fare di un discorso che non sarebbe del sembiante. Perciò è sufficiente, ma non necessario, che  l’uscita  sia  simmetrica  all’entrata.  L’uscita  non  è  che  l’après-coup dell’entrata  e  per  questo  non  può  obbedire  ad  un  giudizio  sintetico  a priori (la diagnosi). Essa può solo essere l’oggetto di una costruzione.Entrata  ed  uscita  non  implicano  uno  spazio  chiuso,  definito  da  un 

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Carlo Viganò | Il tempo nella cura | 153

interno  ed  un  esterno,  ma  uno  spazio  reso  infinito  dal  buco  dell’Un-corpo 14, dell’incorporeo che mantiene in vita il parlessere. Il buco come organo incorporeo si rivela dunque essere l’erede della funzione fallica. Di qui l’infinito dei cicli della cura e il finito della passe.

14.  Neologismo creato da Lacan,  che usa  l’ “Un” nella  funzione di negazione  che  esso  assume quando viene usato come suffisso in tedesco.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Esiste un discorso che non sarebbe del sembiante?

esiste un discorso che non sarebbe del sembiante?

di Carmelo Licitra Rosa *1

Il testo si propone di reperire la tessitura di fondo dell’ultimo capitolo del semina-rio diciottesimo. Di un discorso che non sarebbe del sembiante di Lacan, capitolo in cui va a confluire tutta la complessa elaborazione dei capitoli precedenti. Si vuole dimostrare come dallo studio di questo capitolo si possa estrarre la risposta – affermativa – a quella domanda rimasta in sospeso, che costituisce il titolo del Seminario. Questa risposta scaturisce da un’esplicazione straordinaria e avvin-cente del “non c’ è rapporto sessuale”, esplicazione che assume come perno la logica del , congiunta con una illuminante rivisitazione della clinica dell’ isteria.

Parole chiave: non c’ è rapporto sessuale, nome e fallo, uccisione del padre

1. c’è almeno un discorso che non è del sembiante

Come ben sappiamo, i discorsi isolati da Lacan sono quattro: Discorso del Padrone, Discorso dell’Isterico, Discorso dell’Analista, Discorso dell’Uni-versità. L’ordine in cui si susseguono, che è poi quello  in cui  li abbiamo elencati, ha  soltanto una giustificazione storica – precisa Lacan – quella riconducibile in ultima analisi alla cronologia della loro comparsa.Hanno  in  comune  una  proprietà:  il  posto  che  organizza  ciascuno  di essi – detto posto dell’agente o posto del padrone – è anche quello che potrebbe  essere  chiamato  posto  del  sembiante.  Sottolineiamo  che  si 

*  Carmelo  Licitra  è  iscritto  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  dei  Medici  di  Roma;  è Membro della SLP, Membro dell’AMP e Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza.

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stanno  considerando  i  posti,  e  non  gli  elementi,  che  invece  –  come  è noto – possono scivolare in questi posti, attraverso una rotazione di un quarto  di  giro  della  rigida  catena  in  cui  sono  montati,  configurando ogni volta un tipo particolare di discorso. Ma ritorniamo al fatto che il posto del padrone, che abbiamo detto strutturare ciascuno dei quattro discorsi,  sia un posto di  sembiante:  se  così  è,  la diretta  conseguenza è che ognuno dei quattro discorsi è dell’ordine del sembiante.Ciò detto,  s’impone  spontanea una domanda:  se  il  discorso psicoana-litico  condivide  questa  proprietà  comune  ai  quattro  discorsi,  perché mai e in forza di che cosa esso dovrebbe essere un discorso privilegiato? In  altre  parole,  se  il  discorso  psicoanalitico  è  anch’esso  un  discorso dell’ordine del  sembiante,  perché mai dovrebbe  godere di  uno  statuto privilegiato? Lacan, senza punto smentire l’eccezione che il discorso psi-coanalitico rappresenta, afferma che il suo privilegio discende dal fatto di  articolare  un  certo  sapere,  capace  di  illuminare  l’articolazione  –  il giunto potremmo dire – tra verità e sapere inerente a ciascun discorso 1.E  tuttavia,  dopo  questa  prima  parziale  conclusione  –  con  la  quale abbiamo escluso che il discorso analitico, malgrado l’eccezione che esso costituisce,  potesse  non  godere  della  proprietà  generale  del  discorso di  essere  dell’ordine  del  sembiante  –  rimane  aperto  l’interrogativo  di Lacan che campeggia nel titolo del seminario, così che dobbiamo conti-nuare a investigare, ad esplorare la possibilità che esista un discorso che non sia dell’ordine del sembiante. Ebbene, se questa possibilità sussiste, allora è chiaro che un tale ipotetico discorso, presunto affrancarsi dalla caratteristica, comune a tutti, del sembiante, dovrebbe necessariamente essere un quinto discorso, un discorso cioè non riconducibile a nessuno dei quattro classicamente delineati. In effetti è proprio quello che Lacan insinua  nel  capitolo  finale  del  seminario,  in  un  modo  discreto,  quasi impercettibile.  Infatti,  alla pagina 156 Lacan parla di un discorso che 

1.  Cfr J. Lacan, Il Seminario, Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino 2010, p. 153.

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non  sarebbe  e  che non  è nel  sembiante. Questo discorso  è,  come  egli espressamente asserisce, il discorso del nevrotico. Tale discorso sarebbe capace  di  dire  una  verità.  Lacan  afferma  alla  pagina  154  che  bisogna essere grati ai nevrotici, isterici o ossessivi che siano, proprio per la spe-ciale occasione che essi ci offrono – sì, proprio loro, i malati, gli infer-mi,  rigettati  spesso  ai margini della  vita  sociale  – di  attingere  ad una verità così importante. Con questa verità, che i nevrotici rivelano, siamo nel solco di quella verità che costituisce il nerbo dell’enunciazione freu-diana, ma che appartiene anche al retaggio più genuino della tradizione religiosa giudaico-cristiana.

2. il discorso del nevrotico enuncia una verità speciale

In che modo il discorso del nevrotico avrebbe questa proprietà di palesare questa verità? Evidentemente attraverso i sintomi, con cui questo discorso parla. Già da alcuni anni Lacan aveva fatto di Marx il vero inventore del sintomo: Marx precede Freud nella concezione del  sintomo. La nozione di  sintomo  infatti  sovverte  la  concezione  tradizionale  della  conoscenza, giunta  al  suo  culmine  con  la  cogitazione  hegeliana  (pur  nell’originalità di quest’ultima di palesare uno slittamento incessante fra sapere e verità), portando in primo piano lo scandalo di una conoscenza come parados-salmente contrassegnata da disconoscimento e ignoranza. Esemplare a tal riguardo è l’analisi marxiana del feticcio, inteso come sembiante intorno a cui ruota una certa organizzazione del sistema capitalistico.C’è  da  aggiungere  che  la  verità,  in  questo  seminario,  presenta  una caratteristica peculiare, in cui consiste tutta la novità della sua ripresa. La  verità  è  stata  senza  dubbio  uno  dei  concetti  cardinali  degli  esordi dell’insegnamento di Lacan; qui la ritroviamo con un accento partico-lare, ovvero la sua proprietà di rivestire, di avviluppare il reale, il reale del godimento. Sotto la verità della denuncia marxiana del feticcio, ad esempio, si nasconde il plusvalore – fa notare Lacan. Questa solidarietà 

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tra  la verità e  il reale che essa ricopre, spiega come mai  la denuncia di tale verità non sia sufficiente per abbattere, a sradicare il discorso capi-talistico; come mai tale discorso prosperi, anzi quasi si consolidi, grazie alla denuncia marxiana, che piuttosto sembrerebbe assicurarlo nei suoi fondamenti;  e  come  mai  il  cosiddetto  proletario,  in  quanto  anch’esso verità situata a ricoprire questo nocciolo duro di reale, appaia come un misero residuo di entificazione umanistica.Dunque,  riprendendo  il  filo  del  nostro  discorso,  il  nevrotico  sarebbe dentro  ad  un  discorso,  sarebbe  portatore  di  un  discorso  specialmente idoneo  a  svelare  la  verità  nascosta  dietro  il  sembiante.  In  tal  modo  il nevrotico  si  troverebbe  ipso facto  ad  animare  una  certa  dialettica  tra sembiante e verità, dialettica che si situa allo stesso livello del cosiddet-to  rapporto  sessuale.  In altri  termini,  è  la  tensione  singolare di questo discorso  del  nevrotico,  in  grado  di  divaricare  verità  e  sembiante,  che situa il nevrotico stesso in una zona estremamente contigua, limitrofa a quella del rapporto sessuale. In questo modo, seguendo Lacan alla pagi-na 156, si potrebbe parlare di “discorso del nevrotico”, con ciò volendo indicare un certo sapere in grado di enunciare la seguente verità: “non c’è rapporto sessuale”.Ebbene, questo discorso del nevrotico  sarebbe esattamente quell’unico discorso a non essere dell’ordine del  sembiante:  esso appare come una sorta di limite verso cui è proiettato il discorso, ogni discorso, allorché esso  è  chiamato  a  confrontarsi  con  la  spinosa  questione  del  rapporto sessuale. In altre parole, questo quinto discorso – discorso del nevrotico – sarebbe il discorso limite sotteso a tutti e quattro i discorsi strutturati; e  proprio  in  questo  farebbe  eccezione,  in  questo  si  potrebbe  dire  che non è dell’ordine del sembiante.Questo limite si ritaglia, si delinea, diventa riconoscibile in uno scacco della  logica,  della  logica  che  governa  ciascuno  dei  quattro  discorsi.  E poiché  ogni  logica  si  regge  sulla  scrittura,  questo  scacco  della  logica dovremo poterlo reperire in qualche modo a livello di uno scacco della scrittura. È esattamente quello che verifichiamo. Lo scacco della  scrit-

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tura  diventa  palese  nelle  cosiddette  formule  della  sessuazione.  Come dice  Lacan  alla  pagina  136,  le  due  barre  di  negazione  poste  sopra  i simboli  del  quantificatore  universale  e  del  quantificatore  esistenziale, di  per  sé  non  sono  da  scrivere,  non  sono  scrivibili;  e  dunque  il  fatto di scrivere delle formule che di per sé non sono scrivibili è l’indice del paradosso  stridente  che  esse  incarnano.  Tale  paradosso  è  in  qualche modo necessitato dal  fatto di aver voluto piegare  la  logica,  la  logica  in quanto scrivibile, a catturare la verità, la quale in quanto tale è inconci-liabile con la formalizzazione logica: se si vuole immettere la verità nella formalizzazione,  il prezzo che immancabilmente si paga è  il sorgere di un paradosso in seno alla formalizzazione che si sta costruendo. Lacan dice chiaramente che queste due barre che si scrivono pur non potendo essere  scritte  (dunque  questo  paradosso)  costituisce  ciò  che  è  “capace di rispondere al sembiante del godimento sessuale” 2, dove il sembiante del godimento sessuale altro non è che la verità, come delucidato in un passaggio  immediatamente precedente del  testo di Lacan:  il paradosso delle formule della sessuazione è dunque il prezzo che si paga per non aver  arretrato  dinanzi  alla  formalizzazione  dell’informalizzabile,  cioè della verità.

3. discorso del nevrotico e miti psicoanalitici

Lacan costruisce ora una coppia in cui abbina da una parte il discorso del nevrotico  (dentro cui comprendiamo tutti gli  elementi  finora arti-colati: non del  sembiante,  limite del non c’è  rapporto  sessuale,  scacco della  logica, paradossi della  scrittura) e dall’altra  il discorso  freudiano, prima forma del discorso dello psicoanalista, con i suoi miti, apposita-mente  forgiati –  soggiunge Lacan –  in  risposta all’ascolto del discorso del  nevrotico.  In  effetti,  all’origine  della  psicoanalisi  c’è  il  dispiega-

2.  Ibidem, p. 136.

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mento del  discorso del nevrotico da un  lato  e Freud dall’altro,  che  lo ascolta pazientemente:  che ascolta  e  risponde. E  la  risposta di Freud è precisamente  la  fabbricazione  di  alcuni  miti,  i  quali  nel  loro  insieme costituiscono  il primo abbozzo del discorso dello psicoanalista. Lacan distingue  questi  miti  in  due  categorie:  miti  dettati  direttamente  dal nevrotico  (si  tratta  del  complesso  di  Edipo,  e  il  nevrotico  che  detta  è l’isterico)  e miti  forgiati  come per  far  eco  alla parola del nevrotico  (si tratta  di Totem e Tabù,  e  il  nevrotico  che parla  è  l’ossessivo  e,  perché no!, Freud stesso).

4. tre livelli

Per entrare nel merito dello schema che Lacan ci propone nel capitolo X – il capitolo conclusivo del seminario diciottesimo – potrebbe essere agevole costruire  tre  livelli  successivi. Questi  tre  livelli non sono repe-ribili  direttamente  nel  seminario:  costituiscono  il  mio  contributo  alla delucidazione del testo.Il  primo  livello,  basale,  sarebbe quello  in  cui  il  non  rapporto  sessuale è  in  qualche  modo  sopportabile,  sostenibile  ed  emendabile  grazie  alla funzione  operativa  della  castrazione.  Ci  spieghiamo  meglio.  Forse l’eccessiva  insistenza  sull’espressione  non  rapporto  sessuale  ci  ha  fatto perdere di vista che per Lacan c’è un reale residuale di questo rapporto sessuale. Ciò è del resto estremamente congruente con un punto classi-co della dottrina lacaniana: l’impossibile circoscrive un reale. In questo caso l’impossibile del rapporto sessuale circoscrive il reale del rapporto sessuale: ciò che è impossibile è l’articolazione a livello del discorso, ma da questo impossibile risulta un reale. Se non si può parlare di rapporto sessuale –  aveva detto prima Lacan alla pagina 121 –  si potrà quanto meno  parlare,  proprio  in  considerazione  di  questo  reale  del  rapporto coniugato con  l’impossibile del  rapporto, di  rapporto “sessuato”. Sem-pre sulla stessa linea, richiamo un passaggio di pagina 139 in cui Lacan 

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parla chiaramente di un discorso che “instaura” il rapporto sessuale.Tale  rapporto  sessuale,  instaurato  da  un  certo  discorso,  non  ha  un corrispettivo nel campo della verità; il che induce a rettificare un po’ il modo di  intendere  la caratteristica di  sembiante di questo discorso:  se esso è del sembiante – come di certo lo è – non è perché rinvia ad una qualche verità  (il binomio  sembiante/verità  è una  costante) ma perché schiude la via a dei godimenti che sono solo la parodia del godimento effettivo,  condannato  a  rimanere  estraneo.  All’inizio  del  capitolo  IX Lacan aveva  infatti definito  l’uomo e  la donna come  fatti di discorso, come a dire che c’è un discorso che li può legare come uomo e donna, salvo  che  la  loro  intesa  non  può  instaurarsi  se  non  tacendo,  giacché è  proprio  del  discorso,  rigorosamente  parlando,  di  essere  un  discorso senza parole: da qui il sorriso, il sorriso delle statue arcaiche, a suggella-re il raggiungimento di tale intesa.Ebbene,  “un  rapporto  sessuale,  così  come  si  dà  in  una  qualunque realizzazione,  si  sostiene,  si  basa  precisamente  su  quella  composizione tra  il  godimento  e  il  sembiante  che  si  chiama  castrazione” 3.  È  molto importante fissare bene questo punto di partenza: potremo così vedere stagliarsi davanti a noi una figura elementare in cui appaia la beanza del non rapporto, con inserito al suo interno un elemento, in cui possiamo far consistere la castrazione (sorta di lega fra sembiante e godimento, a cui  è  riportabile  la  lettera  di  Lituraterra,  da  differenziare  severamente dalla lettera della logica), grazie a cui il reale del rapporto sessuale può essere  abbordato. Vale  la pena di  ricordare  che questa  lettera,  secondo Lacan, non  è un’iscrizione, ma piuttosto  il  risultato della dissoluzione del sembiante. Essa è un osso di cui  il  linguaggio sarebbe la carne. La scrittura, non il linguaggio, forma l’osso di tutti quei godimenti che, per il tramite del discorso, si schiudono all’essere parlante: anche dunque di quei godimenti che non hanno linguaggio, come il godimento sessuale.Lacan,  riallacciandosi  ai  fatti  a  lui  contemporanei  dello  sbarco  sulla 

3.  Ibidem, p. 156.

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luna, differenzia due modi di  rapportarsi  alla  luna. Uno,  il modo tra-dizionale,  prescientifico,  consiste  nella  contemplazione  della  luna,  che sempre ha ispirato poeti e artisti: possiamo dire che questa posizione è quella  riconducibile  all’uso del  simbolo  fallico nel  rapportarsi  al  godi-mento.  Lacan,  ricordando  di  aver  visto  in  un  museo  giapponese  un uomo imbalsamato e con lo sguardo trasognato rivolto alla luna, ne fa il prototipo di questa modalità fallica.L’altro modo è quello che solo la scienza permette: non più contemplarla, ma addirittura osare mettere il piede sulla luna, arrivare a lasciare un’im-pronta sul suo suolo. Certo, per poterlo fare, bisogna munirsi di scafan-dri, di un qualche mezzo (cioè non lo si può fare in maniera diretta), ma rimane che la traccia del piede sulla luna è la realizzazione del significan-te S(). La  lettera dunque. A margine, Lacan  ricorda  che  l’astronomia equatoriale è stata per i cinesi un ostacolo all’avvento del discorso scien-tifico, e dunque un ostacolo a spostarsi dal fallo alla lettera.Su questo sfondo, che è per Lacan il modo ordinario di far fronte al non rapporto  sessuale  (la  castrazione  come unico  rimedio  al  non  rapporto sessuale), vediamo profilarsi il dramma del nevrotico, dramma che è al tempo stesso una tensione, una forzatura, che proietta il discorso da lui tenuto all’orizzonte limite dei quattro discorsi e ne fa un’eccezione, per l’appunto un discorso non dell’ordine del  sembiante. La parola  chiave per accedere a questo secondo  livello  si  trova  sempre a pagina 156 del seminario  ed  è:  “timore”,  “evitamento”.  Precisamente  il  nevrotico  è qualcuno che cerca in tutti i modi di evitare, di schivare la castrazione; Lacan aggiunge che ciò dipende dal fatto che il soggetto della nevrosi si presume in qualche modo inadatto alla castrazione. Il contrappeso fata-le di tale evitamento è una sorta di insistente intrusione di questa stessa castrazione schivata, come per rimbalzo. E così la castrazione evitata si tramuta  in qualche modo nel  fantasma di una castrazione che  incom-be  dappertutto.  È  per  questo  che  il  nevrotico,  che  da  un  lato  sfugge alla  castrazione,  è  anche  colui  che  dall’altro  si  presta  elettivamente  a rivelarla,  in  quanto  ne  è  per  così  dire  assediato,  ingombrato.  Come 

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dice Lacan, la letteratura analitica attesta abbondantemente, sotto ogni forma e modalità, della ricorrenza della tematica della castrazione: e in questo certamente si vede che questa castrazione è come obbligata, ma anche che il nevrotico è sottilmente compiacente nei confronti di essa. Questa  castrazione  evitata  equivale  dunque  a  una  sorta  di  riapertura della beanza,  così da  rendere più  acuta  e  cocente  la denuncia del non rapporto sessuale:  in altre parole,  il venir meno della castrazione come rimedio non può che far risorgere in modo più puro e bruciante quello iato che la castrazione è deputata a rendere sopportabile.Dunque  il  nevrotico  è  un  paladino  della  verità  del  non  rapporto  ses-suale, nella stessa misura in cui è qualcuno che ha votato la sua vita a scansare la castrazione, quella castrazione che avrebbe potuto pacificar-lo rispetto al non rapporto sessuale.D’altra parte però  la  zona  critica del non  rapporto  sessuale,  una  volta allontanato  l’elemento  della  castrazione,  non  rimane  soltanto  occupa-ta  dal  reale  del  rapporto  sessuale.  Lateralmente,  proprio  a  ridosso  dei confini di ciascuno dei due fronti (maschile e femminile) del discorso, è reperibile l’elemento . Infatti , nei capitoli precedenti, era già stato elaborato  da  Lacan  come  un  simbolo,  non  come  l’immagine  di  un organo, ma come quel simbolo terzo – terzo ma non mediatore, si pre-cisa – a cui può essere riconducibile, riportabile, il godimento di ciascu-na delle due metà che mirano a incontrarsi, in quanto messo in impasse dal non  rapporto  sessuale.  In qualche modo   sussume  in  sé  il  godi-mento sempre inadeguato, insufficiente, inadatto, in cui va ad arenarsi, a  schiantarsi miseramente  la  traiettoria  del  rapporto  sessuale. Ebbene, questo godimento inadatto, col suo simbolo , può diventare esso stes-so un elemento  terzo; ovviamente un elemento  terzo non appropriato, un simbolo che non è  il  simbolo del  reale del  rapporto sessuale, ma  il simbolo del godimento sistematicamente insufficiente in cui il non rap-porto sessuale ha potuto incontrare la sua ennesima, deludente verifica.Alle pagine 137-138 Lacan spiega perché questo simbolo venga prescelto come sembiante del godimento, sembiante denunciato dalla verità pura. 

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Questo simbolo è presunto condensare il sapere supposto alla fecondità e  come  tale  è  adorato nei misteri  antichi nella  figura di un  sembiante d’organo; al tempo stesso esso ha qualcosa di acefalo, in quanto il godi-mento sessuale non può essere subordinato alla scelta dell’uomo e della donna come portatori di un certo genotipo: al massimo è il fenotipo che sovrintende al loro incontro. Inoltre Lacan spiega come mai esso si pre-sti a designare il posto del godimento sessuale, all’interno del discorso, sotto forma di un buco: questo buco deriva da uno sbarramento, da una resistenza invincibile di tale godimento a farsi riassorbire nel discorso, o se  si vuole da una  resistenza di  tale godimento a essere commutato  in un elemento del discorso, cosicché in corrispondenza di tale godimento refrattario, al livello del discorso non può che ritagliarsi una lacuna.Ora, come già dicevamo, è proprio su questo  che si addensano e con-vergono  i  fantasmi  di  intrusione  della  castrazione,  come  contrappeso necessario dell’evitamento ostinato perseguito dal nevrotico.Al  tempo  stesso,  se  il  nevrotico  dà  voce  alla  verità  del  non  rapporto sessuale, e  se per  farlo ha bisogno di appoggiarsi  su   come elemento cruciale di quel discorso  che  è  capace di  annunciare  tale  verità,  allora è grazie al nevrotico che noi possiamo dire che  non è il simbolo del godimento sessuale, che  non è il simbolo del godimento  insito nel reale  del  rapporto  sessuale,  essendo    nient’altro  che  il  simbolo  del godimento  deficitario,  del  godimento  del  fallimento  del  rapporto  ses-suale. Ora, di questa disgiunzione tra  e  siamo precisamente debito-ri all’isterico – puntualizza Lacan.Siamo così in grado di accedere al terzo livello dello schema puramente didattico  che  abbiamo  elaborato  per  situare  la  soluzione  propria  del nevrotico. Sì, perché il  livello precedente costituisce una soluzione evi-dentemente  instabile,  che  Lacan  qualifica  con  l’aggettivo  indecidibile: l’indecidibile  caratterizza  il  rapporto  sessuale  in  quanto  non  esiste 4. 

4.  Poco sopra Lacan aveva detto che non si poteva concludere se questa beanza del rapporto ses-suale era la conseguenza del fatto che l’essere umano è parlante, oppure la conseguenza del fatto che tale rapporto non è parlabile.

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Rimane il fatto che il nevrotico effettivamente risolve questa condizio-ne di sospensione con delle costruzioni con cui si augura di poter tam-ponare tale beanza. Queste costruzioni sono precisamente  i sintomi, o meglio,  qualsivoglia  tipo di  discorso  in  quanto  suscettibile  di  fungere da sintomo 5, da cui ci si attende una soluzione artificiosa al non rappor-to sessuale.

5. la soluzione isterica

Vediamo  adesso  in  concreto  come  appare  nel  caso  dell’isterica  questo Sintomo/Discorso  che  ella  costruisce  per  far  fronte  al  non  rapporto sessuale, e su cui si sostiene nella sua esistenza. Il perno della manovra isterica è  rappresentata da   come elemento a disposizione del discor-so, di cui ella  si appropria, e da  come punto di mira che  il discorso dovrebbe raggiungere perché possa esserci rapporto sessuale. Detto con la  massima  semplicità  possibile,  per  afferrare  effettivamente  questa   occorrerebbe  che  in  qualche  modo  l’elemento  simbolico  atto  a  desi-gnarla fosse in grado di rispondere, di emettere una risposta all’appello: perché – come altrove ribadito da Lacan – è nella parola che può darsi qualcosa del rapporto sessuale.Ora, precisamente  l’isterica chiama   a designare ,  salvo poi consta-tare l’impotenza di , designatore di , a rinviare una risposta da quel posto di designatore in cui lo ha installato: ciò equivale a istituirlo come designatore ultimo e al contempo a sancirne l’impotenza come designa-tore  ultimo.  Questa manovra non  è  astratta ma  si  incarna,  si  incarna nel  partner,  il  quale  è  precisamente  colui  che  è  identificato  a  questo . Ne deriva che il partner, identificato a , è quindi identificato a un elemento del discorso che, se ha la prerogativa di designare questo godi-mento  nel  rapporto  sessuale,  al  tempo  stesso  è  destinato  a  rivelare  lo 

5.  È da notare:  = discorso.

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scacco di non poter dire la parola ultima che questa funzione richiede-rebbe per essere davvero tale.  dunque, per quanto significante specia-le,  fallisce nella  sua  funzione di designatore ultimo del godimento, ed è  in questo che  l’isterica arriva a disgiungere  e ,  suggerendoci così le  formule  della  sessuazione.  Ma  questo  scacco  è  anche  lo  scacco  del partner posto sotto , partner  sul quale  l’isterica ha deviato  la castra-zione che ella ha voluto a tutti i costi scansare: si tratta in definitiva in questa  castrazione  dell’impossibilità  a  designare  il  godimento  ultimo. Si  annodano  così:  1)  evitamento  della  castrazione  che  viene  ribaltato sul  partner,  2)  denuncia del  non  rapporto  sessuale  attraverso   ≠   e 3) sintomo isterico, che abbraccia nel complesso tutta questa manovra. Inoltre  deve  essere  chiaro  che  tutto  questo  artificio  è  dovuto  al  fatto che il nevrotico, l’isterico in tal caso, è qualcuno che non rinuncia alla verità,  come  Lacan  dice  alla  pagina  142,  qualcuno  che  non  rinuncia alla  verità  nemmeno  a  proposito  del  non  rapporto  sessuale,  che  come tale esorbita dal campo della verità 6. Pertanto l’isterico è qualcuno che riprende forzatamente sul piano della verità una questione che di per sé non può entrare nel campo della verità, non può cioè essere impostata secondo le coordinate della verità, perché il campo della verità è ad essa eterogeneo;  d’altronde,  farla  entrare  nel  campo  della  verità  vuol  dire anche sottometterla al dominio della parola, dato che la parola ha rap-porto con la verità: la verità parla … 7

Lacan non articola  tutto ciò  in modo esplicito. Bisogna estrarlo attra-verso una paziente ricostruzione che passa attraverso la coppia Conno-tazione/Denotazione, la coppia Sinn/Bedeutung di Frege – al cui riguar-da Lacan  sottolinea  il  superamento  che questi ha  fatto di Leibniz –  e infine  il nominatum di Carnap. Si  tratta per Lacan di dimostrare  che la Bedeutung di Frege, il designatore ultimo a cui  è riducibile, non è 

6.  Impossibile ≠ Verità.7.  Questo anche se parlare – nota Lacan – comporta una divisione irrimediabile fra godimento e sembiante giacché la verità è godere a far sembiante oppure alternativamente far sembiante di godere. Questa oscillazione è la nuova versione del semi-dire della verità.

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identificabile con il nominatum di Carnap. Quest’ultimo ha a che fare col nome, la cui proprietà, come Lacan ha dimostrato nei capitoli pre-cedenti, è appunto quella di rispondere all’appello.Il  nome  è  tale  in  quanto  il  nominato  risponde  all’appello,  mentre  un designatore in nessun modo può rispondere all’appello.Ora,  è  precisamente  questa  la  forzatura  a  cui  si  abbandona  l’isterica: fare del designatore un nome, con la conseguenza di votare questo desi-gnatore allo scacco inevitabile. Il nome infatti è qualcosa di più di un designatore, perché appunto risponde, mentre il designatore non rispon-de. Prendere  come nome significa dunque destinare  allo scacco, e destinare quindi il partner, in cui  si incarna, allo scacco. È in questo che si può cogliere in che senso la castrazione è riversata sul partner. Il fine ultimo di tutta questa manovra, in cui precisamente riconosciamo il  senso  dell’espressione  sopra  adoperata  limite del discorso,  è  la  dimo-strazione  della  verità  del  non  rapporto  sessuale.  L’isterico  dunque  fa del fallo un Nome-del-Padre, il che vuol dire anche, inversamente, che il Nome-del-Padre è  in qualche modo una creazione dell’isterico:  e  in effetti,  forse  il  modo  migliore  per  inquadrare  questo  Nome-del-Padre è di vederlo come un prodotto, un  del discorso analitico. Il padre è dunque un referenziale: del resto non si analizza mai qualcuno in quan-to  padre,  ricorda  Lacan.  In ultima  analisi,  il  padre  è  il  depositario,  il detentore ultimo se si vuole, di questa x irraggiungibile.

6. che cos’è il mito?

Per completare  la nostra disamina, Lacan ci  indica come al  livello del mito, del mito forgiato dall’isterico, siano chiaramente reperibili le trac-ce inequivocabili di questa castrazione rifiutata. Si tratta solo di leggere bene le componenti di questo mito. La genialità di Lacan è di istituire un legame tra elementi molto eterogenei e distanti l’uno dall’altro.La  prima  componente  del  mito  che  Lacan  mette  in  rapporto  con  la 

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castrazione rifiutata è  l’uccisione del padre. Riguardo a questo assassi-nio bisogna che non ci sfugga che esso è sempre già dato, mai rappre-sentato sulla scena della tragedia.La  seconda  componente,  che  mette  in  valore  una  sorta  di  struttura-zione matematica del mito, è la contabilità come supporto della gene-alogia e del posto della paternità nella successione delle generazioni. I padri  sono sempre  indicati da un numero, come è ben evidente nelle dinastie. Lì dove c’è un padre,  lì dove vige un’organizzazione fondata sull’ordine  patriarcale,  è  sempre  necessario  contare,  la  qual  cosa  non è  invece preminente nelle  società matriarcali. Ora, per contare,  come ha dimostrato Peano con i suoi famosi cinque postulati 8 che fondano l’aritmetica,  è  necessario  un  elemento  base,  lo  zero.  Uno  dei  cinque postulati di Peano è che zero è un numero. Il colpo di genio di Lacan è di collegare l’assassinio del padre con lo zero di Peano. Come l’assas-sinio paterno è all’origine del mito, così  lo zero di Peano è all’origine della numerazione, ivi compresa la numerazione necessaria per indicare la successione delle generazioni,  la numerazione che assegna un posto al padre. Entrambe le cose, l’assassinio paterno e lo zero di Peano, sono da mettere in rapporto col rifiuto della castrazione: il padre è il frutto del rifiuto della castrazione.C’è un terzo elemento che Lacan fa giocare qui, e cioè la torsione della funzione  di   come  papludun,  ovvero  la  torsione  di   in  una  logica dell’eccezione. A margine va detto che bisogna differenziare il touthom-me dalla serie: au moins un, homminzin, un en peluce. Infatti, come dice Lacan,  anche  se  il   ha  un  rapporto  con  la  castrazione,  non  è  certo nelle  formule della sessuazione che questo rapporto risulta desumibile, dato  che  piuttosto  in  queste  formule  il   è  in  rapporto  con  l’ecce-

8.  Gli assiomi di Peano sono un gruppo di assiomi ideati dal matematico Giuseppe Peano al fine di definire assiomaticamente l’insieme dei numeri naturali. Essi sono: 1. Esiste un numero natu-rale, 0; 2. Ogni numero naturale ha un numero naturale successore immediato; 3. Numeri diversi hanno successori immediati diversi; 4. 0 non è il successore immediato di alcun numero naturale; 5. Ogni insieme di numeri naturali che contenga lo 0 e il successore immediato di ogni proprio elemento coincide con l’intero insieme dei numeri naturali (assioma dell’ induzione matematica).

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zione,  cioè  con  il  campo  degli  eletti,  di  coloro  che  sono  esentati,  che sono immuni dalla castrazione. È anche per questo che il monoteismo appare a Lacan come il tentativo di forgiare un padre a misura di questa logica del  papludun 9.Vale  la pena di  sottolineare  che questa  funzione del   ha  a  che  fare col godimento e che va differenziata da un’altra funzione che esso gioca parimenti in rapporto col desiderio. Quanto al godimento, il problema femminile non è né  il  touthomme, che essa alla stregua di un maschio è  in grado di  immaginarizzare (dunque il problema non è  l’identifica-zione maschile di cui si sa che l’isterica è perfettamente capace), e nem-meno il problema è costituito dal fallo di cui ella si considera castrata, poiché il godimento fallico ella lo ha dalla sua parte. Il problema per la donna sorge nel momento in cui essa si dovesse interessare al rapporto sessuale. È allora che ella deve interessarsi al fallo come elemento terzo; e non può interessarvisi se non in rapporto all’uomo, di cui però non è affatto sicuro che ve ne sia almeno uno. Ecco perché tutta la sua politica sarà  volta  verso questo almeno uno,  di  cui  si  tratterà di  verificare  e di assicurare l’esistenza.Tutto  ciò  ha  ripercussioni  inevitabili  per  quanto  riguarda  il  versante della  verità.  Come  si  legge  alla  pagina  143,  l’isterica,  paladina  della verità, custodisce un sapere ferreo sulla verità del suo godimento, sapere che è  il  seguente:  l’Altro  idoneo a causare questo godimento è  il  fallo, cioè un sembiante. Da qui non solo il rivendicarlo, il reclamarlo, ovve-ro  la  sua  spasmodica  ricerca  dell’almeno uno;  non  solo  lo  scacco  che riserva  al  padrone,  rigettandolo  nel  sapere  (si  vedano  tutte  le  gustose considerazioni  di  Lacan  sul  teatro,  sulla  festa  di  carità,  sulla  clinica lussureggiante,  associate  all’amore  della  verità  proprio  dell’isteria);  ma 

9.  E del resto ci sono delle tracce che conservano questo marchio di fabbricazione squisitamente femminile del monoteismo, reperibili nel fatto che Akhenaton, che è il prototipo di monoteismo, è  anche  una  divinità  profondamente  effeminata,  e  in  più  coronata  da  tutta  una  serie  di  raggi provvisti di piccole mani in procinto di solleticare numerosi bambini, tutti rassomiglianti tra di loro come dei fratelli, o forse ancor più come delle sorelle – precisa Lacan.

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anche gli sviluppi logici e le loro ripercussioni sul piano del desiderio. A tal riguardo, metteremo in evidenza che nelle formule della sessuazione compare  due  volte  la ,  pur  non  trattandosi  della  stessa .  La  prima, quella  associata  al  quantificatore  è  un’incognita,  la  seconda,  quella associata alla funzione fallica, è una variabile. L’isterica, facendo del suo essere un papludun,  si  situa nel posto dell’incognita, che è  invariabile, rispetto  alla  quale  articolare  tutte  le  possibili  variabili,  ovvero  tutte  le possibili  variazioni  situazionali.  Il  tutto  allo  scopo  di  poter  dire:  non è di  ogni donna  che  si  può dire  che  ella  sia  funzione del  fallo.  Il  suo auspicio  è  sicuramente  che  questo  si  potesse  arrivare  a  dire  di  ogni donna, ma non ci si arriva. In altre parole, il suo desiderio di isterica è che tale funzione si potesse enunciare di ogni donna, ma appunto que-sto desiderio rimane insoddisfatto perché non si può dire di ogni donna che ella sia funzione del fallo. Non si può dire di ogni donna, cosicché alla  fine una donna ne risulta, che tuttavia non è  l’isterica  in persona. Questi  brevi  cenni  basteranno  ad  evocare  la  potenza  logica  implicata nella manovra isterica.

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testimonianze di passe

parte quarta

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attualità lacaniana n. 12/2010

L’uomo retto

l’uomo retto

di Sergio Caretto *1

Il testo è la testimonianza di un’analisi giunta al suo termine e messa in forma gra-zie a quell’esperienza particolare che Lacan pone a fondamento della sua Scuola: la passe. Analogamente ad un setaccio che estrae le pepite portandole alla luce del sole, l’analisi ha qui consentito al soggetto di isolare quei significanti fondamentali che ne orientavano la vita e che portavano la traccia di quegli oggetti a cui il soggetto ancorava tenacemente il suo godimento. L’uomo retto, significante inscritto nel suo nome proprio, diveniva al contempo simbolo di una dimensione ideale del padre, quella della rettitudine, e del suo rovescio, il retto inteso come luogo del corpo in cui fare defluire lo scarto anale. Il percorso analitico in fondo consentiva al soggetto di operare quel passaggio dal padre ideale al padre come scarto reale, fino ad arrivare a sputare l’oggetto che egli stesso era stato nel fantasma che si era costruito.

Parole chiave: Padre Ideale, oggetto anale, fantasma, voce, amore, aggressività, corpo, sintomo, inibizione, vestito, super io

Aveva 21 anni quando varcò per la prima volta la soglia dello studio di colei che, di li a poco, sarebbe diventata la sua analista per i successivi 22  anni.  Due  tratti,  a  lui  non  estranei,  contribuirono  ad  orientare  la scelta dell’analista:  il  rigore e  la passione con cui ella affrontava  la  let-tura dei  testi  freudiani  all’interno di un  seminario di psicoanalisi  e  il tono della voce acuto. In occasione dell’incontro, il giovane, nel timore 

*  Sergio Caretto, A.E.,  iscritto  all’elenco  degli  psicoterapeuti  dell’Ordine  degli  Psicologi  della Regione Piemonte; è Membro della SLP e Membro dell’AMP; Docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza, insegna all’Università di Torino.

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di  vedere  rifiutata  la  sua  domanda,  si  era  portato  con  sé  le  dispense del  seminario dell’anno precedente  al  fine di  rispondere  alle  eventuali domande  dell’analista.  Di  fatto,  appena  entrato  nello  studio,  la  sua attenzione si concentrò sul prezioso tappeto che l’arredava e che avreb-be dovuto  calpestare  per  arrivare  a  prendere posto  sulla  sedia;  per  un istante, il pensiero che le sue scarpe potessero essere sporche di cacca e lasciare tracce sul tappeto, ne avevano inibito il passo.

la domanda

Due difficoltà contribuirono a fare precipitare la sua domanda d’analisi. Allievo brillante all’università aveva sostenuto in tempo record tutti gli esami del biennio per dimostrare al padre e a sé stesso di essere all’altez-za degli  studi  intrapresi,  studi che si ponevano  in rottura col percorso scolastico precedente di  tipo  tecnico  scientifico,  scelto più per  seguire le orme del padre ingegnere che per interesse o passione personali. Per accedere  alla  specializzazione  in  psicologia  dell’età  evolutiva  non  gli restava ora che passare una “semplice” prova di inglese nella quale inve-ce  veniva  ripetutamente bocciato. Curioso  inciampo  tenuto  conto  che la madre, da sempre, aveva dedicato il suo tempo ad insegnare proprio la  lingua  inglese  ai  bambini  delle  scuole  elementari  così  come  ai  suoi tre figli, la maggiore dei quali laureata in lingue. Di fronte all’angoscia nel vedere allontanarsi il momento in cui si sarebbe potuto formare alla cura dei bambini in difficoltà e abbandonati dall’Altro, Ergi non trova-va altra risorsa che tornare, a fianco di sua madre, a studiare e ripetere quella lingua a lui interdetta. Nello stesso periodo il giovane aveva ini-ziato a svolgere un lavoro educativo con bambini e adolescenti psicotici; il  senso  di  impotenza  di  fronte  al  muro  dell’autismo  e  lo  scarto  che incontrava tra la teoria che andava studiando e la sua applicazione pra-tica, l’avevano portato a rimettere radicalmente in discussione gli studi intrapresi.  Dunque  l’impasse  nella  teoria  lo  allontanava  dal  riconosci-

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mento di una pratica così come l’impotenza provata nella pratica rimet-teva in discussione la teoria che avrebbe dovuto illuminarla.

l’uomo Retto

Sorpreso nel  vedere  accolta  la  sua domanda  si poneva ora  il problema di  come  pagare  l’analisi,  tenuto  conto  che  l’analista  aveva  all’incirca raddoppiato  la  cifra  da  lui  proposta  per  le  sedute  nonché  il  numero delle  stesse.  Ciò  che  Ergi  aveva  tralasciato  di  dire  all’analista  era  che, il mese prima, suo padre aveva smesso di lavorare, chiudendosi in uno stato di grande sofferenza all’interno delle mura domestiche. Al rientro dal  lavoro dove aveva per anni  ricoperto  importanti  ruoli dirigenziali, il  padre  si  presenterà  una  sera  ai  famigliari  dicendo:  “Non  mi  hanno licenziato,  mi  hanno  retrocesso  (retro-cesso)  ed  io  non  accetto!”.  Da uomo  Retto  qual  era  agli  occhi  del  figlio  a  uomo  retro-cesso,  ovvero caduto come un resto anale che, dal  retro,  si deposita nel cesso. Con-frontata  a  questa  improvvisa  caduta  del  marito,  la  madre  di  Ergi  si avvicinava ora al figlio domandandogli aiuto affinché questi, dati anche gli studi intrapresi, si occupasse di risollevare il padre dalla depressione. Il sintomo inibitorio legato alla lingua inglese che impediva al giovane di proseguire  gli  studi  e  abilitarsi nel  trattamento dei bambini  in dif-ficoltà,  di  fatto  consentiva  al  soggetto  di  tenersi,  non  senza  angoscia, saldamente  ancorato  al  materno  e,  al  contempo,  di  mantenere  una distanza  dal  padre,  primo  tra  tutti  i  bambini  abbandonati.  Infatti  il padre, proveniente da una famiglia numerosa, povera e segnata dal lutto di  tre  fratelli,  era  stato costretto all’età di 10 anni a  recarsi  in un col-legio  in cui aveva poi proseguito diligentemente  i  suoi studi. Prima di trovare riparo dalla guerra che incombeva sulla sua città, il padre aveva conosciuto colei che sarebbe poi divenuta sua moglie e che, figlia di un panettiere, offriva al bambino magro e denutrito il pane e i dolci della panetteria di famiglia.

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“Tu sei come il nonno!” diceva ad Ergi la madre indicandogli una foto sul  comodino  che  lo  ritraeva,  all’età  di  un  anno,  in  braccio  al  nonno che,  di  li  a  qualche  mese,  sarebbe  morto  improvvisamente  di  ictus mentre era  intento a mangiare una ciliegia  rimasta  serrata nella bocca come una perla nella conchiglia. Gran lavoratore ammirato dalla figlia ed  esempio  per  il  nipote  che  ne  portava  il  nome,  il  nonno  era  colui che non  tratteneva niente di ciò che guadagnava  in quanto era dedito aiutare gli amici più in difficoltà. Il nonno e il padre di Ergi facevano dunque parte di coloro che, come ricordava la madre in un proverbio, “Lanciano  denaro  in  cielo  e  vedono  ricadere  merda”  a  differenza  di quanti  invece  “Lanciano  la merda  e  si  trovano pieni di denaro”. Sulla scia di non fare mancare niente all’Altro Ergi, fin dalla più tenera età, era  solito  recarsi  in un orfanotrofio con  la madre per  lasciare ai bam-bini meno fortunati i suoi giocattoli e i risparmi che aveva accumulato facendo delle  buone  azioni.  “L’uomo Retto” diveniva pertanto  l’ideale che Ergi prelevava sul padre e sul nonno materno, figure che indirizza-vano l’amore e le lamentele della madre e che si alimentava del discorso religioso che orientava la sua formazione primaria svolta in un convento gestito da suore dove, sulla porta d’entrata, era scritto l’adagio “Gli ulti-mi saranno i primi”. Occorreva dunque farsi ultimo prestandosi a non fare mancare niente all’Altro al fine di divenire primo nella mancanza e brillare così agli occhi della madre. Retto, era anche ciò che era inscrit-to  nel  suo  cognome  Ca-retto  dove  ca,  nel  dialetto  piemontese,  vuole dire casa; dunque  la casa del  retto. Lungo questo  ideale di  rettitudine Ergi traeva le identificazioni falliche che lo sostenevano nella relazione con l’altro, col quale non mancava di ingaggiare una rivalità senza pari ogni qualvolta la mancanza, la macchia, faceva, suo malgrado, capolino sulla  scena. Confrontato  al  desiderio dell’Altro,  l’altro  veniva  ad  assu-mere  le  sembianze di padre cattivo e  ingrato,  riducibile a  sguardo che giudica  e  rifiuta,  e  dal  quale  occorreva  pertanto  prendere  le  distanze. Ben  presto  lo  stesso  campo  analitico  divenne  luogo  in  cui  esercitare questa competizione con l’analista. Un sogno: Ergi  in un grande anfi-

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teatro partecipa alle psichiadi  (olimpiadi di psicoanalisi)  rivaleggiando con la sua analista, con Jacques-Alain Miller, Laurent e altri. Di fronte all’ultimo ostacolo, in preda ad un crampo, Ergi si arresta per fare pas-sare il rivale, cosa che puntualmente gli capitava nelle gare di corsa alle quali da giovane partecipava arrivando immancabilmente secondo dopo essersi  fatto  superare  nel  rettilineo  finale.  “Non  è  detto  che  se  supera suo padre costui debba necessariamente morire!”, disse l’analista svelan-do al giovane il desiderio di morte che, all’orizzonte, sosteneva tutta la competizione col padre e, al contempo, tutti i suoi sforzi per puntellare l’ideale di rettitudine a cui si aggrappava tenacemente.

l’uomo retto

Retto era sì  il sembiante di purezza  ideale ma, al contempo, segnalava bene il luogo del corpo, l’intestino retto, adibito a fare passare lo scarto anale  pronto  per  l’espulsione.  Anche  qui,  come  per  i  soldi,  si  trattava di non trattenere niente, pena il  fatto che i vermicelli, di cui  la madre aveva  la  fobia,  avrebbero  potuto  intaccare  la  purezza  di  quell’oscuro resto.  D’altronde  la  madre  non  perdeva  occasione  per  sottolineare  il primato del figlio rispetto agli altri fratelli, nel raggiungere il controllo degli sfinteri e nel  fare  il  suo dono là dove era domandato. Altre volte ricordava in pubblico e divertita quel giorno in cui il figlio era stato da lei  trovato nel box,  seduto sul vasetto,  tutto  imbrattato di cacca e con in bocca un grissino appena intinto. “Fare la cacca per mia madre” così l’analista aveva concluso una  seduta  limitandosi  a  ripetere  le parole di Ergi  il  quale,  peraltro,  faticava  non  poco  nel  duro  compito  dell’asso-ciazione libera, non fosse che per il fatto che questa regola minava una delle  regole  d’oro  dell’uomo  Retto  trasmessagli  dal  padre:  “Prima  di parlare occorre contare almeno fino a 10 meglio fino a 20 ottimo fino a 30”. Uscito dalla seduta gli fu chiaro come un lampo: “Aveva passato tutta la sua vita a farsi cacca per l’Altro materno, sotto lo sguardo atten-

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to del padre”. Dal lavoro analitico Ergi estraeva infatti un ricordo in cui la cacca fatta per la madre veniva successivamente messa sotto lo sguar-do attento del padre che, con una grossa lente d’ingrandimento da lui gelosamente custodita, ne verificava la purezza e l’assenza di vermicelli. Questa pratica si intensificò all’età di sei anni, momento in cui il fratel-lo minore venne ricoverato  in  fin di vita per meningite; nell’attesa del medico la madre aveva fatto un enorme clistere al figlio, atto a suo dire miracoloso grazie al fatto di averne liberato l’intestino retto dove avreb-be potuto risiedere la causa della malattia. Al di là di un vetrata che lo separava dal fratello posto in isolamento per il rischio di contagio, Ergi fece  il  suo voto a Dio: “Se mio fratello si  salva gli do tutto quello che ho, compresa la bicicletta, e mi dedicherò ai bambini malati”. Il fratel-lo uscì dall’ospedale  e Ergi  iniziò ad entrarci per  importanti problemi d’asma che lo conducevano fin sull’orlo dell’asfissia e che si protrassero fino all’adolescenza. Inoltre, per un certo tempo nella vita del piccolo, trovarono  posto  rituali  ossessivi  legati  al  lavaggio  e  alla  preghiera  per arginare  la paura del contagio. Di quella paura, da adulto, rimase una certa  reticenza  ad  avere  contatti  troppo  fisici  con  l’altro  nonché  una certa insofferenza per le situazioni gruppali.Che  il  padre  avesse  un  approccio  scientifico  a  quell’oggetto  che  Ergi andava via via isolando nella sua analisi, lo testimonia un altro ricordo che  l’analisi portava alla  luce  in cui  il  figlio,  incuriosito, vede  il padre con una potente pistola ad aria calda passare ore ed ore nel tentativo di ridurre e estinguere la cacca lasciata dal cane nel cortile. La conclusione del  bizzarro  esperimento  era  che  sarebbe  stata  solamente  questione  di tempo ma che, idealmente, Il resto si sarebbe potuto riassorbire comple-tamente, scomparendo. Analogamente, Ergi e alcuni amici si erano un giorno divertiti a fare scoppiare una merda per strada con un petardo, un  po’come  vengono  fatte  brillare  le  mine  nelle  cave.  Ciò  che  rende-va divertente  il  tutto era che  si  vedeva  saltare  la merda per aria  e, per evitare di  sporcarsi  il  vestito, occorreva  allontanarsi  correndo  il più  in fretta possibile. Aimè, il proverbio materno si dimostrava essere fallace 

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in quanto, lanciando la merda per aria, non pioveva comunque denaro! “Fare la cacca per l’Altro”, rivelava ad Ergi come sotto le vesti dell’amo-re  ideale  rivolto  all’Altro,  alla  cui  domanda  offriva  diligentemente  il proprio obolo al quale era primariamente identificato, dimorava di fatto l’odio,  espresso  nell’attentato  al  vestito  dell’altro  che  si  rivelava  essere nient’altro che il suo stesso vestito.

la caduta del vestito dell’analista

Due  sogni  condurranno  Ergi,  a  distanza  di  10  anni  dall’inizio  della sua  analisi,  a  domandare  la  passe all’entrata  della  Scuola.  Il  primo  è composto di due scene e prende spunto dall’avere visto  l’analista, quel giorno, prendere il suo stesso treno per recarsi ad un appuntamento di scuola.  –  Il  treno,  prima  dell’arrivo  in  stazione,  si  ferma.  Il  soggetto si  accorge  che  manca  il  macchinista.  Angosciato  scende  di  corsa  dal vagone e il suo sguardo, dopo avere visto in lontananza l’arrivo, si fissa sull’immondizia presente davanti ai binari. La scena cambia. Il soggetto è ora di fronte alla tazza di un water dove, in superficie, vede una perla di cacca che non riesce a defluire nello scarico nonostante i ripetuti ten-tativi di tirare l’acqua. Orientata dal pensiero di una possibile soluzione, la  mano  si  allunga,  prende  la  perla  di  cacca  e  la  porta  alla  bocca  nel tentativo  di  ridurla  digrignando  i  denti.  –  Fantastico!  Disse  l’analista chiudendo  lì  la  seduta.  Questo  sogno  ne  preannunciava  un  secondo che veniva a suggellare una svolta nella cura. –Il soggetto entra in una baita di montagna molto povera  e  semplice dove  vive  l’analista  ormai vecchia,  taciturna  e  vestita  di  un  solo  saio.  I  due  sono  soli  e  devono dirigersi  verso  la  cucina  attraversando,  coi  loro  corpi disposti  fianco a fianco, un passaggio molto stretto. Il corpo si contorce sfiorando quello dell’analista  mentre  lo  sguardo  del  soggetto  è  catturato,  a  lato,  da  un bellissimo  vestito  da  sera  lasciato  cadere  per  terra.  Giunto  in  cucina il  soggetto  fa per sedersi al  tavolo dell’analista e condividere con  lei  la 

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gustosa zuppa che era  intenta a mangiare. Costei  tuttavia gli  fa  inten-dere  che  non  avrebbe  potuto  mangiare  la  stessa  minestra,  indicando all’ospite  una  grossa  pentola  fumante  contenente  dei  resti  che  ancora occorreva cucinare. Il  soggetto prende pertanto il mestolo e si mette a girare quegli  scarti che galleggiavano  in  superficie. Le associazioni del sogno condussero ad un piatto piemontese molto rinomato e amato dal padre,  la finanziera, fatto di tutte le  interiora di animali cotte a fuoco lento.  “Finanziera”  richiamava  al  contempo  le  finanze,  precisando ulteriormente il nesso tra  lo scarto e  il denaro. Terminata la seduta, al momento di congedarsi, Ergi fa per dare la mano all’analista e questi si accartoccia al suolo come un abito dismesso. “Oh my goodness!” esclamò col  cuore  in  gola  il  soggetto.  My goodness!  era  un’esclamazione  della madre  corrispondente  all’esclamazione  italiana  Madonna!  o  Mio Dio! Cadeva  così,  d’un  sol  colpo,  l’identificazione  all’ideale  paterno  di  cui Ergi aveva rivestito l’analista, lasciando emergere un appello al materno e l’apertura ad una nuova e silenziosa partita in cui all’analizzante non rimaneva  altra  scelta  che  cucinare  quel  resto  di  corpo.  Che  sorpresa inspiegabile e insopportabile: abbonato fino a quel momento all’oggetto anale, sogni e associazioni conducevano ora all’oralità.Nello stesso periodo cadde il vestito dell’amore ideale: la moglie, dopo tre  anni  di  matrimonio,  congedò  Ergi  perché  insoddisfatta  del  loro rapporto di coppia. Disperazione, vuoto di senso, vertigine e angoscia. Eppure Ergi aveva seguito anche qui le orme del padre sposandosi alla sua  stessa  età  e  con  gli  studi  ancora  in  corso  e  portando  all’altare  la donna che era stata la sua animatrice in parrocchia e con la quale aveva consumato le sue prime esperienze amorose. Fare l’uomo Retto condu-ceva il soggetto, ancora una volta, all’espulsione. Gli ci volle tempo per cogliere come un amore concepito sull’ideale non poteva che svuotarsi in breve tempo del desiderio, rendendolo un legame ripetitivo e privo di vita. Sorprendenti furono le associazioni che, a partire dal colore di un abito, contribuirono a fare cogliere le contingenze della scelta amorosa. L’aveva rivista di ritorno da un viaggio nell’Europa dell’est vestita di un 

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abito viola. Anche il padre, quando Ergi era piccolo, si recava con fre-quenza in quel paese portando ogni volta dei doni alla moglie e ai figli. Un giorno aveva regalato alla moglie una preziosa matrioska viola, il cui uso era  stato  interdetto ai  figli per  il pericolo che ne  ingerissero parte del  contenuto.  Il  piccolo  riuscì  un  giorno  ad  appropriarsi  della  desi-derabile matrioska viola perdendo però  la più piccola delle bamboline contenute  all’interno  e  andando  così  incontro  ai  severi  rimproveri  del padre. Peraltro  la madre, per  compiacere  il marito che amava  il  viola, indossava  sovente  abiti  di  quel  colore,  non  senza  tuttavia  lamentare  il fatto che quello stesso colore era anche quello dei paramenti sacri indos-sati a  lutto. È da notare che la donna che Ergi ritrovava e che avrebbe successivamente sposato era segnata dal lutto di un fratello morto in un incidente  stradale,  incidente  analogo  a  quello  capitato  alla  sorella  del padre di Ergi.  Il viola pertanto condensava amore e morte, divenendo per Ergi scintilla dell’incontro.

ergi!

L’ideale dell’uomo Retto era in fondo un impossibile tentativo di evitare l’incontro con la dimensione pulsionale del corpo, corpo che trovava nel pensiero la sua rigida armatura. L’analisi, costringendo il soggetto a pas-sare attraverso la parola fino a ritrovarsi nel dire, riapriva ora l’incontro con  la  vita del  corpo  e  con un’angoscia  inedita, meno  localizzabile nel sintomo ossessivo a lui caro. Il  lavoro analitico si rivelava essere sempre meno ricerca appassionata di una verità da decifrare e l’analista non era più  convocato nella  funzione di  interprete. L’intensità dello  sguardo,  il tono della  voce  e  la  sua  stretta di mano modulavano e  scandivano ora una  presenza  silenziosa,  corporea  dell’analista  il  quale  era  chiamato  a sostenere  un  soggetto  confrontato  ad  una  fragilità  a  lui  sconosciuta, disorientato  dal  fatto  di  non  reperirsi  più  in  alcuna  immagine.  –  In un  sogno  il  soggetto  è  nudo,  col  corpo  imbrattato  di  cacca,  intento  a 

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lavarsi seduto sul bordo di una vasca con al suo fianco l’analista che non dice una parola ma accompagna con uno sguardo discreto quel rituale. Nonostante la vergogna il soggetto accoglie quella presenza familiare ma al tempo stesso estranea che attende la sua uscita. – Non era più ora lo sguardo paterno giudicante bensì quello della madre che Ergi  ritrovava nel ricordo di quando, all’età di 10 anni, l’aveva sostenuto in un medesi-mo rituale per un’improvvisa evacuazione di cui si era molto vergognato. Occorreva pertanto staccare dal corpo quel vestito di merda che il sog-getto si era fabbricato per rispondere all’enigma del desiderio dell’Altro. Ergi,  soprannome  che  era  risultato  della  caduta  della  prima  e  ultima lettera del suo nome inscritto su una maglietta regalatagli dalla madre al suo ritorno da un viaggio in America, si rivaleva al contempo l’impera-tivo superegoico ERGI! al quale il soggetto si sottometteva per sostenere la figura di un Altro non toccato dalla mancanza. ERGI! l’uomo Retto!

finché morte non ci separi

Non  sapere  più  cosa  cercare,  non  vedere  più  un  termine  alla  propria analisi, non riuscire più a dominare quegli eventi di corpo che faceva-no la loro inattesa comparsa come quando il soggetto venne ricoverato per un accesso d’asma in occasione della nascita della sua prima figlia. Odiava  l’analista  per  averlo  condotto  in  quelle  sabbie  mobili  che  ne risucchiavano  il  corpo,  ma  allo  stesso  tempo  non  riusciva  a  pensare ad una  separazione dallo  stesso,  se non del  tipo  “finché morte non ci separi!”. Ovviamente, essendo  lei più vecchia,  sarebbe  toccato prima a lei.  Puntuale  era  giunto  l’intervento  dell’analista:  “Non  crederà  mica di  accomodarsi  nell’attesa!”.  Il  significate  attesa  richiamava  peraltro un fantasma di gravidanza che l’analisi aveva portato alla luce in cui il soggetto, identificato alla madre ricoverata in ospedale per la nascita del fratellino,  aveva  temuto  di  essere  rimasto  lui  stesso  incinta  in  seguito ad  un  gioco  fatto  col  cuginetto.  Questo  incedere  faticoso  di  fatto  si 

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accompagnava a cambiamenti significativi nella propria vita, tra i quali una  nuova  relazione  amorosa  dalla  quale  nasceranno  in  breve  tempo due figlie e l’essere chiamato ad insegnare all’Università. L’angoscia che prima era causa di inibizione adesso diveniva la molla dell’atto.

sputare l’oggetto

Due  sogni  lo  condurranno  alla  conclusione  della  sua  analisi.  –Il  sog-getto,  in  una  giungla,  deve  superare  una  serie  di  prove.  Si  accorge  di essere solo, non ci sono altri concorrenti. Superati una serie di ostacoli giunge di fronte ad una spessa tavola di legno scuro dove sono presenti tre buchi con altrettanti oggetti che li tappano. Lo sguardo del soggetto si  concentra  sul  buco  centrale  otturato  da  un  oggetto  vivo,  che  ha  le sembianze  di  una  scimmietta  di  peluche e  al  contempo  di  un  bimbo piccolo che  lo guarda. Ad un  tratto  l’oggetto cade al di  là dell’asse di legno che lo supportava, lasciando lo sguardo del soggetto di fronte ad un buco. Un’angoscia invade il sognatore che tuttavia trova la forza di oltrepassare l’asse per andare al di là. Con sua sorpresa, vede il pupazzo allontanarsi  e  si  accorge  che  stavano  girando  un  film,  che  tutto  quel percorso era stata una finzione. Pur accorgendosi che la gente che stava lavorando non era  lì ad ascoltarlo dice  sgomento: “Potevate anche dir-melo che era tutta una finta!”. La scena cambia: il soggetto è ora su una sedia con la bocca aperta. Una mano che non sa dire se è la propria o quella dell’Altro, si  infila nella bocca e fa per estrarre qualcosa. Il sog-getto piange, si dimena, resiste  fino allo sfinimento,  fin quando sputa con  forza  in  quella  mano  estranea  una  perla  di  cacca.  L’angoscia  e  le lacrime lo svegliano violentemente. –Corre dall’analista ma, al momento di raccontare il secondo frammento del sogno, il soggetto sperimenta la medesima resistenza provata quella notte: piange  e  si dimena  sul  lettino non  riuscendo,  fino  all’ultimo,  a fare  fuoriuscire  la  voce.  Il  soggetto  è  come  sparito. Riuscito  in questa 

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impresa disumana e dopo avere aggiunto, con amarezza, “Che discorso di merda!” si alza scosso e agitato. L’analista lo guarda dritto negli occhi gonfi e dice: “Non mi resta che prendere atto di ciò. Le domando solo di tornare ancora una volta a dire  il  legame tra  lo sguardo e  la cacca”. Le  lacrime  continuano  a  scendere,  sconvolto  prende  l’agenda  ma, nonostante cerchi affannosamente, non riesce a trovare un posto vuoto per segnare un nuovo e forse ultimo appuntamento; decide dunque di andare via e che avrebbe chiamato l’analista successivamente. Un sogno giunto a distanza di tre settimane da quell’incontro traumatico gli dava ora la forza di tornare in seduta. – Il soggetto è a casa dell’analista per una  festa.  Pur  essendoci  persone  della  scuola  tra  gli  invitati,  si  rende conto che è solo. Vede dei  tappeti preziosi che, con sua sorpresa,  sono appesi anche alle pareti e al  soffitto. Sorpreso dal vedere che  l’analista sta allontanandosi lasciando vuota la sua casa, il soggetto gli va incon-tro  ricevendo  da  lui  un  dono,  si  tratta  di  un  oggetto,  una  specie  di mappa elettronica utile per orientarsi. Preso questo oggetto tra le mani il soggetto dice di non avere tuttavia il programma per poterlo leggere. L’analista è però già uscito e lui è lì, ora senza angoscia, in quella casa, la casa dell’analista, vuota. – Nelle associazioni il programma risultava il  programma  paterno  non  fosse  che  per  le  competenze  del  padre  in informatica. L’analista lo congedò così: “Ora può servirsi del padre pur facendone a meno”.

liberare la voce assente

Pur provando un sentimento di certezza a lui tendenzialmente estraneo legato  al  fatto  che una  conclusione  era  precipitata,  il  soggetto dovette correre a fare la passe per formalizzare qualcosa circa quell’uscita e ren-derla atto. Il peluche vivo richiamava un bambolotto di scimmia che la madre, in ospedale, aveva regalato al figlio di 4 anni in occasione della nascita del fratellino. L’equivalenza simbolica bambino nato – bambino 

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abbandonato – bambino malato – oggetto anale, nella loro connessione con lo sguardo erano lì a tappare il buco nell’Altro e a dare una consi-stenza identificatoria al soggetto. Peraltro l’asse di legno scuro era l’asse di ciliegio, legno usato dal padre per fare i mobili di famiglia. Dunque occorreva  oltrepassare  l’asse  paterno  ideale  per  intravedere  il  carattere di sembianza della costruzione dell’Altro e degli oggetti che ne avevano suturato la faglia. Il ciliegio tuttavia non poteva non richiamare il frut-to, la ciliegia, rimasta serrata nella bocca del nonno paterno al momen-to della sua morte. Le ciliegie erano anche il frutto che Ergi raccoglieva con destrezza nel suo giardino per poi venderle e ricavarne dei soldi. La cosa particolare era che tale  frutto andava raccolto prima della  festivi-tà di San Giovanni  (patrono della  sua  città) per  evitare  che  le  ciliegie sviluppassero al loro interno il vermicello. Peraltro Giovanni è anche il nome del padre di Ergi. Occorreva tenersi al di qua dell’ideale paterno, Ergere la purezza dell’uomo Retto,  per  evitare  di  incontrare  l’ impurità dell’uomo retto.  Il  detto materno  “Tu  sei  come  il  nonno!”  lasciava ora intravedere  al  soggetto,  per  un  istante,  l’identificazione  all’immagine mortifera del nonno morto  con  la  ciliegia  in bocca.  Sulla  via  dei  ver-micelli, l’oggetto orale ciliegia si spostava sull’oggetto cacca andando a tappare la bocca del soggetto e fissandolo ad un’immagine ideale morti-fera. La perla si associava alla berla, nome piemontese dello sterco delle pecore simile, per colore e forma arrotondata, alle pastiglie di liquirizia preferite  dal  padre.  Sputare  con  forza  quel  resto  che  era  stato  nel  suo fantasma, gli consentiva ora, a sua insaputa, di liberare la voce assente.

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new l acanian school , ginevr a 2010

parte quinta

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attualità lacaniana n. 12/2010

Il timone e il femminile

il timone e il femminile *1

di Gil Caroz **

Le diverse modalità con cui si può assumere la responsabilità di governare, di stare al timone, dipendono dal rapporto di un soggetto con l’ inconscio. Dal lato uomo significa procedere con la barra rigidamente puntata sulla rotta predefinita, come il sultano Shariar che rinsavisce solo grazie ai racconti incompiuti di Sherazade. Dal lato donna, c’ è il rischio di andare del tutto fuori rotta, come nel racconto biblico della regina Ester. È possibile una dialettica tra le due logiche? Ma oggi non è più un problema di governance, la politica sta cedendo il posto alla gestione delle cifre che “si basa sulla forclusione dell’ inconscio” e non ammette differenze: c’ è la possi-bilità inquietante che la scienza e lo scientismo passino al timone. Per farvi fronte Gil Caroz propone alla psicoanalisi il ruolo di “reintrodurre la logica femminile nelle considerazioni scientifiche”, più adatta a fronteggiare, caso per caso, le nuove esigenze del reale, ad adattare la rotta alle imprevedibili sorprese della “ fortuna”.

Parole chiave: logica maschile e femminile, inconscio, scienza

Propongo  di  pensare  il  modo  che  può  avere  un  soggetto  di  stare  al timone  a  partire  dal  suo  rapporto  con  il  discorso  del  padrone,  vale  a dire  con  l’inconscio.  Questo  ci  porta  a  distinguere  due  logiche,  una maschile  e  una  femminile.  Dal  lato  dell’uomo,  a  cui  piace  reggere  la barra – si tratta di una specie particolare – ci si aspetta che lo faccia a 

*  Relazione introduttiva al Convegno della NLS, Ginevra 2010.**  Gil Caroz è psicoanalista e esercita la sua attività a Bruxelles. È Presidente dell’EuroFedera-zione di Psicoanalisi, Membro dell’École de la Cause Freudienne e della New Lacanian School, Membro  onorario  della  Scuola  Lacaniana  di  Psicoanalisi.  È  Docente  della  Sezione  Clinica dell’Istituto del Campo Freudiano a Bruxelles.

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partire dal suo aggancio all’ e al fallo. Egli ci crede, si crede lì e appli-ca al suo modo di stare al timone il metro della regola fallica: una sola legge per tutti, salvo eccezioni.In un mondo in cui il padre si è fatto timido, governare solo a partire dalla  logica  maschile  equivale  a  condannarsi  allo  scacco.  Il  padrone contemporaneo non gode del rispetto che un tempo si nutriva nei con-fronti di colui che era pronto a mettere in gioco la propria vita. L’ che dava un peso alla sua parola ha perso forza. Anzi, il dovere del padrone contemporaneo converge piuttosto con quello dello  schiavo. Deve  sot-tomettersi alla volontà del popolo e ai suoi giudizi. Il godimento fallico non  incoraggia  questo  genere di  dialettica.  Il  fallo,  dice Lacan,  è  una obiezione  di  coscienza  al  servizio  da  rendere  all’altro 1.  È  autoerotico, implica  cioè  l’esigenza  che  le  cose  si  facciano  “a  modo  mio  e  solo  a modo mio” per poter concludere il prima possibile perché bisogna che continui a circolare.Poiché una donna ha un legame con il fallo e con la trama significante, il  suo  rapporto  con  l’inconscio  non  è  estraneo  all’uomo.  L’uomo  vi  si riconosce  in quanto è una posizione che si  regola su di  lui. “È da dove la  vede  l’uomo,  e  nient’altro  che  da  lì,  dice  Lacan,  che  la  cara  donna può  avere  un  inconscio” 2.  Nonostante  abbia  un  rapporto  con  il  fallo, una donna non agisce in modo simmetrico all’uomo. Locatrice, più che proprietaria, del fallo, essa non ha niente da perdere ed è dunque meno incline all’esitazione. Gli  esempi  si moltiplicano da qualche decennio a questa parte.  “Più uomo di così,  si diceva di Golda Meïr, non  si può”. Eppure  questa  sua  posizione  maschile  lasciava  trasparire  altre  cose:  un rapporto piuttosto blando con il sembiante fallico e una facilità a sepa-rarsene a favore dell’atto per ciò che questo ha di più autentico.Lo si nota anche nel rapporto del femminile con la legge in quanto uni-versale. Jacques-Alain Miller ha già sottolineato la tendenza femminile a 

1.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino, 1975, p. 8.2.  Ibidem, p. 98.

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umanizzare  la  legge 3.  Di  fronte  a  ciò  che  non  va,  una  donna  preferisce rivolgersi al giudice, soggetto supposto saper interpretare la legge per adat-tarla al caso particolare, piuttosto che alla legge ordinaria e senza pietà.Se  l’azione di governare si misura a partire dall’abilità ad affrontare un reale senza legge che Machiavelli definiva “fortuna”, la logica femminile del trattamento del godimento a partire dal caso per caso è senza dubbio molto più appropriata del principio di una legge per tutti. Nessuna legge prestabilita può essere applicabile a tutti gli eventi del reale.Ma il rapporto di una donna con il significante della mancanza nell’Al-tro ci conduce in un altro terreno. In questa zona inaccessibile al signi-ficante, una donna non ha rapporto con l’inconscio in quanto struttu-rato come un linguaggio ma con il buco nel simbolico di cui l’ombelico del sogno è un esempio parlante.Qui non si tratta più semplicemente di una umanizzazione della legge o di un rapporto più blando con il sembiante. In questo caso la logica femminile è motivata da un punto senza legge, o meglio, in altre parole, dalla  legge del capriccio. I miti ci  sono d’aiuto per parlare degli orrori che  questo  punto  può  implicare.  Evocherò  quello  della  regina  Ester, moglie ebrea del re Assuero ai tempi dell’esilio da Babilonia. Ester riesce a smascherare il complotto del ministro Haman che voleva massacrare gli ebrei del regno. Il re cede sull’ infatti affida il suo anello regale a Ester  e  allo  zio  Mardocheo  affinché  redigano,  a  loro  piacimento,  un decreto a nome del re e lo firmino con il suo sigillo. Come conseguen-za, Haman, i suoi dieci figli e qualche migliaia di nemici degli ebrei nel regno, vengono uccisi. Dopo che tale vendetta ha avuto luogo, per Ester i  conti  non  sono  ancora  chiusi.  Quando  il  re  le  rivolge  un  “che  cosa vuoi ancora?”, lei risponde : “Beh, riprendiamo domani”. Affascinato da Ester, Assuero non ha nulla da obiettare alla sua richiesta. Egli cede sul limite fallico aprendo così la strada ad una vendetta senza limite. Que-sta in ogni caso è l’interpretazione del regista israeliano Amos Gitaï, in 

3.  J.-A., Miller, “Teoria di Torino sul soggetto della Scuola”, in Appunti, n. 78, novembre 2000.

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un film dedicato ad Ester. I saggi del talmud discutono senza fine ten-tando di capire se Assuero era un imbecille o un furbo 4. Comunque sia, il racconto biblico del suo legame con Vashti, la prima moglie, mostra chiaramente la sua difficoltà con le donne.Oggi  il  silenzio  del  padre  è  diventato  un  fenomeno  generalizzato,  ma non  per  cedere  il  mondo  al  principio  femminile  quanto  piuttosto  per cederlo  alla  scienza  e  allo  scientismo  che  l’accompagna.  Da  qualche anno  a  questa  parte,  ci  inquieta  vedere  il  riassorbimento  del  politico nell’amministrativo,  la  gestione  che  viene  a  sostituire  la  governance. Questa mutazione dell’Altro, accompagnata dalla contemplazione delle cifre, non ammette la differenza nemmeno tra uomo e donna. Essendo negata l’assenza di significante nell’inconscio per dire la donna, ognuno conta per Uno. Di conseguenza, se le due logiche per dirigere il timone si  regolano  sul  rapporto dell’uomo  e di una donna  con  l’inconscio,  la gestione basata solo sulle cifre si sostiene sulla forclusione dell’inconscio.Parafrasando Lacan, propongo che il ruolo della psicoanalisi oggi possa essere  quello  di  “reintrodurre  la  logica  femminile  nelle  considerazio-ni  scientifiche”.  Questo  implica  una  certa  tolleranza  al  capriccio.  La psicoanalisi  qui  è  machiavellica  nell’accezione  positiva  del  termine. Un principe che non modifica  la sua azione per adattarla alle novità e alle  sorprese che  la “fortuna” gli  riserva,  è condannato a  fallire. Tutto sommato, per far fronte alla fortuna, è meglio essere, quando occorre, imprevedibile quanto il reale.Basandosi  su  una  logica  maschile  un  tale  modo  di  governare  sembra capriccioso.  Una  visione  politica  fissa  e  stabile,  sempre  la  stessa,  non è  che  un  fantasma  maschile.  Il  principio  maschile  insorge  quando  i dirigenti politici danno prova di una qualche inconsistenza. Il maschile cerca  la  buona  soluzione,  il  buon  orientamento  valido  una  volta  per tutte. Ci crede. Il principio femminile, al contrario, è tollerante all’in-consistenza perché, rispetto al significante, è l’inconsistenza stessa.

4.  Talmud di Babilonia, Trattato Meghilla.

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In questa prospettiva, nella vita politica di una comunità le “crisi” sono il  nome  che  si  dà  ai momenti  in  cui  una politica  si  adatta  alle  nuove esigenze del reale. Non è facile introdurre un nuovo ordine perché, dice Machiavelli, “lo introduttore ha per nimico tutti quegli che delli ordini vecchi  fanno  bene  e  ha  tiepidi  defensori  tutti  quelli  che  delli  ordini nuovi  farebbero  bene” 5.  Per  cui  le  crisi,  molto  spesso  dolorose,  sono altrettanto spesso fruttuose.Reintrodurre la logica femminile nel mondo contemporaneo significa far sì  che  il  padrone,  senza  abbandonare  l’,  si  lasci  interpellare  dal  prin-cipio  femminile e  soprattutto da ciò che questo  tenta di  far esistere per mezzo della parola. Possiamo fare riferimento a un altro mito che ci sia da guida su questo punto. Restiamo in Persia, il paese della regina Ester, per ricordare la storia che fa da cornice ai racconti delle Mille e una notte. Il sultano Shahriar, cornuto, decide di vendicarsi uccidendo ogni mattina la donna che ha sposato il giorno prima. Sherazade riesce a mettere fine a questa procedura omicida raccontando ogni sera una storia incompiuta che apre sul vuoto del  significante mancante. Questa  che  lei  lascia  in sospeso, alimenta il desiderio del sultano e la mette al riparo dall’esecu-zione. Shahriar finisce con l’abbandonare il suo progetto. Paradossalmen-te,  la  sua  apertura  verso  l’illimitato della parola  al di  là del  fallo,  fa da limite all’accumulo fallico di una vendetta ripetitiva e mortifera.È possibile una dialettica  tra  le due  logiche, maschile  e  femminile?  Si può cogliere qualcosa di questo al di là del fallo a partire da una logica maschile?  Ancorato  al  suo  godimento  autistico,  l’uomo  può  stare  solo sul bordo dei limiti fallici, tendere l’orecchio e cercare di ascoltare quel-lo che succede dall’altra parte, nella zona del pastout che per lui rimane ermetica. Non è facile per un uomo essere tollerante verso quanto ascol-terà dietro a questa porta. L’inconsistenza che vi si ascolta può facilmen-te essere vissuta come una debolezza del super-io o dell’ideale, come un 

5.  N. Machiavelli,  Il Principe, Einaudi, Torino, 1995,  cap. VI.18, p. 35.  (Colui che l’ introduce ha come nemici tutti coloro che traggono vantaggio dal vecchio ordine e come tiepidi difensori tutti coloro che potrebbero trarre vantaggio dal nuovo).

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godimento cattivo a cui quasi  sempre  il discorso del padrone risponde con l’ingiuria. La formula di Freud era senza dubbio molto appropriata quando diceva che  il  super-io delle donne non sarà mai  tanto “imper-sonale” 6  quanto quello degli uomini  che obbedisce  a  ideali universali. Lacan non dice nulla di diverso quando elabora la sua logica del pastout.Questo non toglie che se l’uomo a cui piace stare al timone fa un’anali-si, forse un giorno avrà un lampo d’intuizione: ciò che gli è più intolle-rabile, più estraneo, è anche ciò che ha di più intimo. Allora saprà che anche lui ha un piede, e a volte entrambi i piedi, nell’Altro godimento. Che  anche  lui,  in  certi  casi,  può  trovarsi  nelle  scarpe  di  una  donna. Allora potrà allentare un po’ la presa sulla barra, non solo per abbordare uno a uno gli eventi della fortuna ma anche per dare un nome nuovo ai suoi capricci. Perché la fortuna, dice Machiavelli, è donna 7.

(Traduzione di Giuliana Zani)

6.  S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925),  in Opere, Bollati Boringhieri, 1989, vol. X, p. 216.7.  N. Machiavelli, Il Principe, cit., cap. XXV, p. 167.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Figlia, madre e donna nel XXI secolo

figlia, madre e donnanel xxi secolo *1

di Pierre-Gilles Gueguen **2

Da un lato il discorso del femminismo oggi non ha più alcuna presa, dall’altro il discorso moralista fa scomparire la donna a favore della Madre. La civiltà contem-poranea inoltre, spingerebbe la donna a un’ identificazione isterica all’uomo. Risal-ta così ancor più l’originalità della psicoanalisi lacaniana che riconosce alla posi-zione femminile un ruolo creativo e sovversivo in contrasto con la spinta all’unisex e la negazione delle differenze. Posizione che necessariamente deve essere declinata una per una, facendo così del non-tutto la possibilità per ognuna di dirne qualcosa.

Parole chiave: figlia, madre, donna, spinta unisex

Se per Freud quello  che  vuole  la donna  è una questione,  per Lacan  è il godimento femminile che deve essere  interrogato, non tanto ciò che una donna vuole ma ciò di cui essa gode nel supplemento al godimento del  fallo.  Tuttavia,  come  sappiamo,  la  risposta  giunge  alle  soglie  del semi-dire solo una per una, perché della sostanza godente reale non si può dire niente direttamente,  la si può solo approcciare per mezzo dei sembianti, degli eventi di corpo e della messa in funzione dell’inconscio autorizzata dall’analisi.

*  Relazione introduttiva al Convegno della NLS, “Figlia, madre e donna nel XXI secolo”, Gine-vra 2010.**  Pierre-Gilles Gueguen è psicoanalista e esercita la sua attività a Parigi e a Rennes.È  analista  Membro  dell’École  de  la  Cause  Freudienne,  Membro  della  New  Lacanian  School, già Presidente della New Lacanian School. È Maître de Conférences presso il Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università Parigi VIII.

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Tra  i  sembianti  lacaniani c’è La Donna con  la barra  sul La: vuol dire che  nessuna  donna  può  incarnare  quel  tutto  che  sarebbe  La  Donna. Vuole  dire  anche  che  ognuna  detiene  una  verità  parziale  su  che  cos’è una donna. E allora come si fa a tenere un Congresso sul tema “Figlia, madre e donna” senza, cosa che Lacan dà per certa quando si parla di loro, diffamarle? Ma qui si tratta proprio di un esame caso per caso, ne parleremo solo una per una.Diciamo subito che i tre termini del titolo di questo Congresso sono già tre facce della femminilità, tre facce che dividono profondamente l’essere femminile.  Freud  l’aveva  già  ben  delineato  nella  sua  Lezione  33  sulla femminilità  facendo  notare  che  la  bambina,  al  contrario  del  bambino, deve  distaccarsi  dalla  madre  fin  dall’infanzia.  Secondo  Freud,  questo doloroso cambiamento d’oggetto è all’origine di molti sintomi successivi e dell’angoscia nella bambina, più dell’angoscia di castrazione che concer-ne piuttosto il bambino. È certamente anche il motivo per cui Simone de Beauvoir, a dispetto del suo femminismo, diceva che donna non si nasce.Se dunque il XX è stato il secolo del femminismo e delle sue istanze, il XXI è forse il secolo in cui le istanze del femminismo non suscitano più entusiasmo,  il  secolo  in  cui,  con  riferimento al  titolo di un’opera  ame-ricana del 1991 della giornalista premio Pulitzer Susan Faludi, domina il  Backlash,  l’onda  reazionaria  contro  le  conquiste  del  femminismo. Un recente saggio di Elisabeth Badinter che elenca alla  rinfusa  tutte  le minacce alle conquiste delle femministe in particolare “post ‘68” è sulla stessa linea.È  vero,  certamente.  Scommetterei  però  che  il  successo  di  vendite  di questo  saggio  è  dovuto  più  al  suo  titolo  che  non  al  suo  contenuto: Madre e Donna, il conflitto.Si  tratta  in effetti del  conflitto che  la psicoanalisi  antecedente a Lacan non è  stata  in grado di  ridurre, Freud  l’ha  interpretato puntando tutto sul diventare madre (che già in sé è una divisione) e sulla sparizione della donna desiderante. I filosofi, i sociologi e i saggisti del XXI secolo sanno interpretarlo solo in termini di lotta di potere neo-hegeliana tra i sessi.

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Questo  mette  ancor  più  in  risalto  l’originalità  della  lettura  che  ne  fa la  psicoanalisi,  quella  insegnata  da  Lacan.  La  via  della  psicoanalisi lacaniana  non  conduce  dal  lato  dell’entusiasmo  del  femminismo  con-quistatore che, come ogni entusiasmo, è soggetto al disincanto e ancor meno dal  lato del moralismo che cerca sempre di  ricondurre  la donna alla  madre  (combattendo  contro  l’IVG,  ad  esempio  –  l’incredibile movimento “pro life” negli USA – o contro le tecniche di procreazione assistita  in  nome  della  legge  divina  o  di  quella  della  natura,  che  è  la stessa cosa). Ai due termini di questo conflitto se ne aggiunge un terzo, l’amore  della  bambina  per  il  padre  che  Freud  aveva  chiamato  timore dell’abbandono e che Lacan ricondurrà a una forma di solitudine che è il partner di ogni donna. Solitudine sulla quale l’amore getta un ponte significante  che  comporta  delle  soddisfazioni  ma  anche  delle  insidie perché l’amore è una forma di godimento che non può dirsi, non più di quello del corpo. Lacan lo riconduce all’anima (la cui etimologia desi-gna un soffio di vento).La posizione  femminile però, per  il  rapporto privilegiato che  le donne hanno  con  il  sembiante,  non  ha  niente  a  che  fare  con  un  presunto “eterno  femminino”. È ben  ancorata  al  suo  tempo  e  ai  costumi. Così le  parole  conclusive  di  Lacan  in  “Appunti  direttivi  per  un  Congresso sulla  sessualità  femminile”  valorizzano  il  ruolo  civilizzatore  dell’eros dell’omosessualità  femminile,  incarnato  ad  un  certo  momento  dal movimento  delle  Preziose,  in  opposizione  all’entropia  sociale  del comunitarismo  verso  cui  tenderebbe  l’omosessualità  maschile.  Detto altrimenti,  le donne per  il  fatto  che non  si  lasciano  rinchiudere  in un insieme chiuso e per il loro rapporto più incredulo rispetto al sapere sta-bilito, sarebbero portatrici di creazione e sovversione: tutto il contrario dell’idea che  le donne sarebbero poco dotate per  la creazione artistica, ad esempio. Senza dubbio è da ricondurre al fatto che una donna prefe-risce ciò che Lacan chiama il “narcisismo del desiderio” in opposizione al narcisismo dell’ego.Egli indica anche che “l’istanza sociale della donna sarebbe trascendente 

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all’ordine del contratto che il  lavoro fa propagare”. Infatti il  lavoro pre-suppone  la  prevedibilità  la  quale  implica  il  contratto,  il  consenso  delle volontà, il modello della norma, non tollera l’eccezione. Presuppone un altro identico a sé stesso, perlomeno nell’espressione della sua volontà che crede irremovibile. Una donna, per il fatto di essere più vicina all’Altro che non esiste, è anche più realista, più pronta ad affrontare il non cono-sciuto al quale il contratto tenta di fare barriera. La si dice incostante, la si diffama: è invece al corrente dell’inconsistenza dell’Altro.Però  questo  realismo  non  mette  le  donne  al  riparo  dalle  sorprese  e  il paradosso  è  che  il  non  avere  niente  da  perdere  le  può  condurre  sulla strada  della  perdita  e  su  quella  altrettanto  inarrestabile  della  passio-ne,  dell’amore  fino  al  ravage,  fino  all’oblio  di  sé.  Spesso  è  proprio  in queste  frontiere che  lo psicoanalista  le  incontra,  sui bordi più o meno immediati degli abissi della distruzione dell’altro (la rabbia femminile) o di sé stessa (che Lacan ha inizialmente designato come privazione). A questo  proposito  Lacan  ha  parlato  di  follia  femminile,  un’altra  parola per designare una forma di libertà delle donne rispetto ai limiti. Egli la distingue  con precisione dalla  follia  clinica, presente  anch’essa  in  sog-getti femminili psicotici, ne avremo degli esempi.In  effetti  le donne,  se non  sono psicotiche, hanno un  rapporto  con  il godimento fallico. Grazie a questo rapporto con  il  sembiante  fallico  il loro godimento trova i suoi limiti.Tuttavia la civilizzazione, con la sua spinta all’unisex in particolare tra-mite la legge che regola il lavoro ma anche attraverso l’egualitarismo che questa diffonde e il rapporto speculare che instaura tra i sessi, accentua e  fissa questo rapporto con  il  fallo presente nelle donne,  sia per  identi-ficazione isterica all’uomo, sia per l’accentuarsi del dominio della donna madre all’interno della cellula familiare. Lacan vi fa riferimento quando dice che il soggetto moderno non ha più tanto un rapporto con il Nome-del-Padre quanto piuttosto con un “essere nominato a…” materno.La civiltà contemporanea spingerebbe dunque le donne all’isteria anche se  questo  sintomo  è  sparito  dal  DSM.  In  compenso  la  psicoanalisi 

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offre la speranza a ogni donna, una per una, di disfarsi di questo peso e di poter dare al  suo essere di donna uno spazio  in cui si coniughi  il rapporto del  suo godimento  con  il  sembiante  fallico  grazie  a un  lega-me d’amore  con un uomo e  a un  accesso più moderato  al  godimento supplementare, pacificato dalla parola d’amore. C’è – diceva tempo fa Jacques-Alain Miller – un modo giusto e uno sbagliato di capire quello che  Lacan  ha  chiamato  il  “non-tutto”  femminile:  “ci  si  immagina  – diceva  –  che  il  non-tutto…  si  definisca  rispetto  alla  ‘logica  del  tutto’ che introdurrebbe il ‘questo manca’… Mentre il non-tutto vuol dire che c’è una dimensione in cui è in gioco qualcos’altro che non la mancanza e ciò che la tappa” 1.Con il nostro convegno verificheremo i presupposti di questa introdu-zione. Auguro a tutti buon lavoro.

(Traduzione di Giuliana Zani)

1.  J.-A. Miller, “La natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, n. 13, 1993.

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emergenze l acaniane

parte sesta

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attualità lacaniana n. 12/2010

Che ci fa qui la psicoanalisi? Povertà, miseria, maniere

che ci fa qui la psicoanalisi?povertà, miseria, maniere *1

di Stefania Ferrando **2

In questo testo incrocio due linee di interrogazione: la prima si rivolge al modo in cui la psicoanalisi, un sapere e una pratica ben più giovane della filosofia, sa col-locarsi nel nostro presente in cui la parola “crisi” non smette di tornare; la seconda guarda a che cosa può significare rapportarsi in modo creativo alla povertà, e come fare spazio al desiderio – spazio che la psicoanalisi vuole difendere – consenta di distinguere tra la povertà e la miseria.Luogo di incrocio delle due piste è il concetto di “maniere”.

Parole chiave: miseria, maniere, povertà, pensiero della differenza sessuale, niente, politica

I. Vorrei partire da una questione  che,  in modo un po’  sbrigativo, ha preso la forma di un “che ci fa qui la psicanalisi?”. È una domanda che nasce da uno stupore, che mi interroga quando penso che la psicoanali-si ha una storia così recente, quella di una pratica che, a un certo punto, tra  la  fine del XIX secolo e  l’inizio del XX, è nata. Quel che colpisce così profondamente è il contrasto fra la presa che riesce ad avere su ciò che ci  capita,  la potenza  teorica  che mette  in campo, gli orientamenti che  riesce  a  fornire,  le parole  che  riesce  a  trovare,  e questo  suo venire 

*  Questo testo è stato originariamente pensato per uno degli incontri organizzati a Padova dai dottori  Alberto  Turolla,  Nicola  Purgato  ed  Erminia  Macola,  che  ringrazio  insieme  agli  altri partecipanti alle discussioni.**  Stefania  Ferrando  è  dottoranda  di  filosofia  all’Università  di  Padova  e  all’École  des  Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.

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alla  luce  così  prossimo  a  noi.  “Ma  perché  prima  certe  cose  non  sono state viste? Perché ora?”: questa è la domanda che affiora. Per qualcuno che, come me, si dedica alla filosofia vi è, in un tale contrasto, qualcosa di  sorprendente:  la  filosofia  non  si  accompagna  facilmente  all’idea  di una nascita, di una pratica  che  a un  certo punto  compare  e  che  resta segnata in sé dai modi in cui è praticata e dalle esigenze e contingenze che  l’hanno  portata  ad  essere  quello  che  è.  E  quanto  più  la  filosofia vive l’illusione di potersi esaurire nei propri contenuti, tanto più manca la possibilità di  interrogare  il  suo  rapporto  con  la  circostanza  in  cui  è emersa, e in cui di volta in volta viene riattivata.Per questo, ancora di più, lo stupore nei confronti della posizione tutta diversa della psicanalisi si ravviva. A questo stupore può essere data una forma  più  strutturata  disciplinarmente,  quella  della  domanda  che  la tradizione classica della sociologia francese (penso al filo che lega Dur-kheim, Mauss e Dumont soprattutto) porrebbe: perché una certa prati-ca emerge in una certa società? Quali valori e disequilibri di quest’ulti-ma intercetta? Quali giochi consente di tenere aperti, quali,  invece, di scompigliare  rinnovandoli? Cioè, quale dinamismo, quale movimento, specifico è capace di produrre nella società in cui è nata?Si tratta di domande che fanno un altro giro attorno alla psicoanalisi, che  non  è  immediatamente  quello  della  domanda  singolare  che,  uno per uno, le si può rivolgere quando si intraprende un’analisi. Ma queste diverse  questioni,  quelle  che  uno  sguardo  sociologico  può  porre,  non sembrano tuttavia estranee: se da un lato è vero che la psicanalisi “non prende  l’uomo  in massa –  come osserva Miller – ma uno per uno,  lo ritira  dalla  scena  pubblica,  lo  sottomette  a  un’esperienza  singolare” 1, dall’altro lato un tale lavoro – che polemicamente e ironicamente Mil-ler  descrive  nell’intervista  appena  citata  come  un  immenso  lavoro  di “educazione privata” – si raccorda a un “progetto” che investe i modi di 

1.  Jacques-Alain Miller, “Lacan et la politique”, in Cités, Psychanalyse et politique, n. 16, 2003, p. 106, (traduzione nostra).

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vita della società (per Freud era il progetto di un Illuminismo psicoana-litico, osserva Miller), si intreccia a certi modi d’essere, a certe maniere, che in quella società vivono e chiedono di essere tenute in vita.In  rapporto  a  quest’ultima  osservazione,  la  riflessione  sociologica,  ci consente di osservare anche un altro lato della questione: se qualcosa è nato, e ha una storia, non solo, evidentemente, non è lì da sempre, ma, anche, non ci è garantito per  sempre:  la  sua  fragilità ci  interroga, per-ché la sua vita dipende, in qualche modo, da noi, dalle maniere e dalle forme di vita che intesseremo e che gli offriranno, o meno, un ambiente in  cui  potrà  vivere.  Il  dibattito  in  corso  sui  destini  della  psicoanalisi, in  rapporto  all’efficienza  e  alla  scientificità  delle  psicoterapie  mi  pare mostrare bene il punto in questione. Curiosamente, anche la filosofia è sottoposta a un rischio di sé in qualche modo simile, ma, per quel che ricordavo poco sopra, è meno pronta a capirlo, e a rischiare se stessa per trovare nuove pratiche con cui  sottrarsi  al  crollo di ciò che non riesce più a stare in pari con quanto accade. E in qualche modo le prove cui sono sottoposte entrambe, psicanalisi e filosofia, hanno a che fare con il tema di cui tratteremo, quello della povertà.Anzi,  è  proprio  a  partire  dalla  questione  della  povertà,  che  si  potrà declinare  la questione della sociologia francese a proposito della psico-analisi: quali giochi consente di tenere aperti? Che movimento innesca nella  società?  Quali  forme  di  vita,  quali  maniere,  quali  disposizioni soggettive al contempo richiede e produce?

II. Alcuni mesi fa ho frequentato la scuola di scrittura pensante organizzata da Luisa Muraro e Clara Jourdan presso la Libreria delle donne di Mila-no. Il tema della scuola era la povertà, come risorsa della scrittura. Parto di qui perché è in quel contesto che ho cominciato a mettere a fuoco la questione della povertà. Per accostarla, mi sembra necessario  introdurre una duplice distinzione: quella tra povertà e miseria, e quella tra povertà materiale, o esteriore, e povertà simbolica, o  interiore, o morale.  Incon-triamo questa seconda distinzione già all’inizio della predica di Meister 

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Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum” (Beati i poveri nello spirito perché loro è il regno dei cieli):

Ci  sono due  specie di povertà. C’è una povertà  esteriore  che  è buona  ed è  altamente  apprezzabile  nell’uomo  che  la  esercita  volontariamente  per amore  di  Nostro  Signore  Gesù  Cristo,  poiché  egli  stesso  l’ha  esercitata sulla  terra. Di questa povertà non voglio ora dire di più. Ma c’è un’altra povertà,  una  povertà  interiore,  quella  che  ci  fanno  capire  le  parole  di Nostro Signore quando dice: “Beati sono i poveri in spirito” 2.

La  predica  di  Eckhart  è  tutta  un  lavoro  di  differenziazione  di  questa seconda povertà, interiore, dall’altra, esteriore, e dalle forme di povertà che, pur  apparendo  interiori,  di  fatto  ancora permangono nell’esterio-rità, cioè nella scissione, nella distinzione tra Dio e  le sue creature. Di fronte  ai  percorsi  arditi  e  inattesi  che  la  predica  così  dischiude,  dob-biamo, però,  riconoscere che  la prospettiva da cui noi, oggi, possiamo accostare  tale  differenza  è  diversa:  se  nel  testo  di  Eckhart  si  tratta  di problematizzare  il riferimento ad una povertà materiale che era vista e predicata come una virtù, per noi il tentativo di distinguerle scaturisce dallo  sforzo  di  avere  a  che  fare  con  una  povertà  che  da  un  lato,  tra angosce e paure, viene continuamente rimasticata negli articoli di gior-nale, nei programmi televisivi che parlano della crisi economica e delle sue  conseguenze  e  che, dall’altro,  continua  a  restare  in qualche modo ritirata dal gioco, non simbolizzabile al di là di quel continuo ripetitivo chiacchierarne  (Luisa Muraro,  ad  esempio,  ci  faceva osservare  che nel nostro  orizzonte  marcato  dall’imperativo  del  successo,  i  poveri  non posso più vestirsi da poveri, e che con fatica si dice, non in astratto, ma nelle concretezze della vita – come uscire a mangiare una pizza o andare al cinema – di essere poveri).

2.  Maestro Eckhart, “Beati pauperes spiritu quoniam ipsorum est regnum caelorum”, in Tratta-ti e Prediche, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 365.

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III.  È  per  avere  a  che  fare  con  questa  povertà  che  la  distinzione  tra povertà  interiore  ed  esteriore,  e  quella,  che  la  incrocia,  tra  povertà  e miseria,  diventa,  per  noi,  urgente,  e  sensata.  Per  provare  a  chiarire  in quale direzione ci si muova facendo riferimento a una povertà interiore, bisogna prima dire qualcosa su quella tra povertà e miseria.A questo proposito, faccio riferimento a un testo del 2003, dell’iraniano Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria 3. La tesi del testo è che questo movimento, dalla povertà alla miseria, non è categorizzabile come un passaggio da uno stato di indigenza in cui l’essenziale è comun-que garantito a uno nel quale anche  il necessario vitale manca – come invece  si  tende a  fare quando si auspica un  incremento della produzio-ne per  far  fronte  alla mancanza del minimo  vitale  nei  paesi  africani  o dell’est asiatico. Poiché la prospettiva di un incremento produttivo non è considerata dall’autore risolutiva nemmeno degli  stati di povertà totale, egli cerca di articolare diversamente  la differenza tra miseria e povertà, peraltro a suo dire presente nella maggior parte delle lingue 4: la povertà diventa miseria quando non è più capace di avere un’economia sua pro-pria, cioè di avere un suo proprio ordine e movimento con cui riesce ad avere a che fare con ciò che manca. La povertà ha una sua economia, un suo ordine  simbolico, che dà un posto alla mancanza, a ciò di cui  si  è poveri. La miseria no. Per questo è scavata dal desiderio di avere, e per questo è imbruttente 5. Come scrive Illich, citato da Rahnema,

nella povertà tradizionale le persone potevano sempre fare affidamento sul fatto che c’era sempre una brandina culturale su cui posarsi  […] Tutto ciò non ha più significato. I reietti di oggi non sono né barboni, né mendican-

3.  Majiad  Rahnema,  Quando la povertà diventa miseria  (Quand la misère chasse la pauvreté  – 2003), trad .it. di C. Testi, Einaudi, Torino 2005.4.  Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 242.5.  Anche  in questo  caso, mentre  il  testo può permettersi, per  la posizione  e  la  storia di  chi  lo scrive, di tenere un tale discorso anche riguardo a condizioni di povertà estreme, io, invece, qui, lo farò solo giocare rispetto alla questione della povertà – del ritorno e dello spettro della povertà dopo la crisi – che ci tocca qui, in Occidente, o forse qui in Europa, o in una parte di essa.

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ti, ma vittime dei bisogni  loro attribuiti da certi “mezzani della povertà”. Sono scivolati giù oltre la linea della povertà e ogni anno che passa dimi-nuiscono le loro possibilità di risalire nuovamente sopra la linea e soddisfa-re i bisogni che ora loro stessi si attribuiscono 6.

Oltre  la  linea della povertà  c’è  la miseria, dove nessuna brandina  cul-turale consente un appoggio. E allora resta solo la corsa per rimontare la china e recuperare quel che manca. E quel che manca ci si presenta come quel che manca perché lo si è perso, per una nostra mancanza e responsabilità, perché non si è lavorato abbastanza, perché non si sono sfruttate abbastanza le risorse, le capacità e le possibilità disponibili.E  così  i mendicanti non hanno più posto. Foucault  lo mostra  in Sor-vegliare e punire 7: nei piccoli ma profondi movimenti che attraversano il  XVIII  secolo,  il  mendicante,  o  il  vagabondo,  non  è  più  chi  forma la  propria  vita  su  una  povertà  e  una  mancanza  che  hanno  ancora  un valore simbolico, ma diventa un pericolo per la tenuta della società, una minaccia per  la proprietà. E,  in prigione, trova giustamente il discipli-namento  che  lo  rende  compatibile  con  la  società,  che  incanala  le  sue energie e  lo mette al  lavoro. È tutto un capovolgimento di prospettiva che si gioca attorno alla figura di chi porta in giro la sua povertà. Come osserva Miller  in “Segno dell’amore” prima di  intrecciare  le  figure del mendicante e dell’analista, oggi “questi mendicanti sono dei disoccupa-ti. È piuttosto difficile ritrovare l’eminente valore che il mendicante ha avuto nella storia, prima che il  lavoro diventasse un valore essenziale e entrasse nel Super-Io” e prosegue poi chiarendo:

oggi  si  trattano male  le bocche  inutili,  che  si dedicano a presentificare  il buco, il buco che ha dei diritti su di voi, voi che avete, voi che siete rim-

6.  Ivan Illich, “Bisogni”, in W. Sachs (a cura di), Il dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998, p. 76, citato in Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 235.7.  Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Surveiller et Punir. Naissance de la prison – 1975), trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, 1993.

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pinzati.  È  un  invito  a  decompletarvi.  Per  uno  spiacevole  viraggio,  sono diventati dei  fannulloni  […] nella  storia del nostro bell’Occidente non  si è pensato altro che a metterli al lavoro, i fannulloni, che a estrarre la loro forza lavoro per la produzione. È quanto ha permesso di farne dei disoccu-pati, perché gli altri lavorino ancora di più, del resto, e per molto meno. È l’uso del disoccupato 8.

IV.  Per  ritrovare  il  valore  di  questa  antica  figura  del  mendicante, occorre riconoscere che là vi era la possibilità di riconoscere e praticare, secondo l’indicazione di Miller, “un supplemento di niente”, un niente che “viene in sovrappiù” 9 perché solo così, quando viene in sovrappiù, il niente ha valore. Per questo non basta una trasformazione simbolica frettolosa, una  rivalutazione attuale dell’indigenza, un richiamo all’es-senziale, alla decrescita. In questi inviti manca quel di più di niente che ci fa davvero operare una trasformazione. Bisogna trovare un posto per la tristezza della donna che non sa se tingersi  i capelli grigi per rispar-miare:  certo  è una  strada difficile,  perché dall’altro  lato  c’è  lo  spettro di  una  legittimazione  del  consumo,  eppure  il  richiamo  all’essenzialità non dice  tutto. Manca  il niente che viene  in  sovrappiù.  In un recente intervento  al  Seminario  di  Diotima 10,  Annarosa  Buttarelli  proponeva di pensare, come sfida alla riflessione economica attuale, una solidarie-tà tra  l’essenziale, da un lato, e  il  lusso,  il  superfluo, quel che viene  in aggiunta, un quasi niente di maniere e gusto, dall’altro, come modo per sorpassare  la  logora e  infruttuosa coppia di opposti “utile-inutile”. C’è dell’essenziale e c’è del lusso, e in qualche modo i due si richiamano più di quanto la questione dell’utilità possa farci immaginare. Forse la dire-zione che cerco di suggerire qui non si discosta molto da quella che, con questa indicazione, lei tracciava.

8.  J.-A. Miller, “Il segno dell’amore”, in La Psicoanalisi, n. 24, 1998, pp. 29-30.9.  Cfr. ibidem, p. 29.10.  Seminario di Diotima 2010, “Il disorientamento è la nostra prova”, incontro dell’8 ottobre con Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, “Appunti per un’economia del soprammercato”.

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E in qualche modo la povertà interiore si allaccia a questo supplemento di  niente,  al  surplus  di  niente  che  nel  rapporto  tra  essenziale  e  lusso appare, e che nella figura del mendicante ci è dato di intravvedere.Ed  è  di  qui  che  passa  la  posta  in  gioco  del  problema  di  saper  avere  a che fare con ciò che manca, cioè di ripercorrere al contrario il cammino che, dalla povertà, con la sua economia interna ed equilibrio, ha portato alla miseria. E questo  supplemento di niente, questa povertà  capace di riordinarsi  attorno  a  ciò  che  manca,  non  sono  guadagnabili  in  leggi  e codici che trasformino lo stato attuale. Non è questione di una riforma politica, nel senso comune del termine, che trasformi le istituzioni e gli equilibri  di  forze.  Quel  che  si  richiede,  infatti,  è  una  trasformazione dei soggetti, che possa collocarsi sullo stesso piano della trasformazione antropologica che il liberalismo ha operato (quella che, per dirlo con una formula, ha plasmato  il  cosiddetto homo oeconomicus)  e  che ha portato Foucault a tentare un’analisi del liberalismo non come teoria economica, ma come modo di governo, cioè come modo  in cui  i  soggetti vengono costituiti, come insieme di pratiche, credenze, aspettative che orienta le loro possibilità di azione, che li struttura nel loro modo di essere 11.Anche Rahnema ne parla, mettendo in luce le modalità di costruzione sociale  dell’invidia  e  la  frattura  nella  percezione  dei  bisogni;  ma  un aspetto soprattutto della sua analisi è interessante mettere in luce:

l’individuo  atomizzato  delle  società  moderne  punta  unicamente  sul  valore materiale  per  proteggersi  dalle  brutte  sorprese  della  vita,  poiché  dipende sempre più da un ambiente che  l’ha privato di  tutti  i  legami  sociali di  cui godevano i sui antenati” 12. A che cosa si chiede ciò che manca? Da dove si crede che possa arrivare  la risposta a un bisogno o a quel che accade e che 

11.  Cfr.  Michel  Foucault,  Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979) (Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979 – 2004, édition établie sous la dir. de F. Ewald e A. Fontana par M. Senellart, Seuil-Gallimard, Paris), trad. it., di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005.12.  Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., pp. XI-XII.

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ci mostra  scoperti? Non più dai  rapporti  sociali, non più dall’Altro. E così tanto nella gestione dei figli o degli anziani, quanto nel rapporto al sapere: a chi chiedo quel che non so e da quale autorità mi aspetto qualcosa per quel che non ho? È la questione che Google fa emergere e che Hebe Tizio sottoli-neava così lucidamente in una conferenza a Padova di alcuni anni fa 13.

È rispetto a ciò che occorre lavorare se si cerca un’elaborazione diversa della questione della povertà. È una nuova  forma di vita che va  intes-suta, sono diverse maniere che vanno recuperate, inventate, praticate. È qualcosa che non si presenta con la solidità e compattezza di una rifor-ma politica, ma che è un quasi niente grazie a cui si ha a che fare diver-samente con ciò che si è, con ciò che ci accade e con ciò che ci manca.Rahnema osserva che chi riesce a fare questo spostamento, e per questo non è preso nelle maglie della miseria, è chi non lascia indebolire il pro-prio centro di gravità, il proprio “tempio interiore”, così lo chiama, che si alimenta dall’interno e non a partire dalle esigenze di un sistema di cui si è parte 14. Trattando di questa risorsa del soggetto, che ci mette già in qualche modo sulla strada della povertà di spirito, l’autore è portato a una  considerazione  che, nella  sua paradossalità,  chiede un di  più di riflessione:  in questo diverso rapporto a sé e  in un certo diverso modo di  costituirsi  come  soggetti  si  può  trovare  il  guizzo  per  poter  fare  a meno anche del necessario 15. Ora, tutta la questione sta nel pensare quel che consente un tale scarto, quel che permette di ritesse un altro ordine simbolico, quel che, come un polo di gravità, attrae e orienta spostando il soggetto da una dinamica di consumo di sé nel consumo delle cose.

V. In un modo che pare paradossale, la possibilità di scartare da un tale consumo di sé passa per una certa libertà da sé, una libertà dall’ingom-

13.  Conversazioni introduttive organizzate dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (Segreteria di Padova), incontro del 1 maggio 2008 con Hebe Tizio, “L’enigma dell’adolescenza”.14.  Majiad Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, cit., p. 238.15.  Ibidem, p. 243.

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bro dell’io. È di lì che passa la possibilità di imparare a saperci fare con ciò che manca, di non intenderlo come un vuoto da colmare, ma come qualcosa da mettere al lavoro. Alla scuola di scrittura pensante una parte degli esercizi era rivolta a questo: imparare a non dire “io” nei testi che componevamo, e questo non per guadagnare un’oggettività neutra, ma anzi  per  essere  sé  diversamente,  nella  non  coincidenza  con  sé,  in  cui non si butta via niente perché niente è comparato con un’immagine che non si è realizzata, ma tutto può essere messo all’opera per farci qualco-sa, come risorsa e invenzione. Ad esempio, se nella scrittura il modello di riferimento chiede di purificarsi dagli strascichi del dialetto, vi sono autori,  come  Luigi  Meneghello 16,  che,  di  quegli  strascichi,  e  di  quel difetto  rispetto  alla  lingua pura,  hanno  fatto una  risorsa  espressiva,  li hanno mobilitati in un lavoro senza bloccarsi nella percezione di un’in-sufficienza. Si intercetta così quel di più che sta attorno a ciò che manca e  che  si  vede  e  che  si  libera  nelle  sue  energie  a  patto  di  accettare  che qualcosa manchi e che non possa essere saturato, né messo in pari con le preoccupazioni dell’Io. Questo movimento paradossale di un guada-gno di sé che passa attraverso una perdita di sé ci porta alla povertà di spirito, o povertà  interiore,  cui,  come  si  è  accennato, Meister Eckhart dedica una delle sue più celebri prediche, “Beati pauperes spiritu”.

VI. Dunque, ritornando alla questione da cui sono partita, che cosa ci fa qui – qui tra la povertà e la miseria, qui nella ricerca di un niente che venga in aggiunta, qui rispetto alla posizione mistica che indica la pos-sibilità di una perdita dell’io e delle sue preoccupazioni, per poter avere a che fare con ciò che manca e guadagnare quel che si produce attorno a una tale mancanza – che ci fa dunque qui la psicoanalisi?In un articolo apparso su Via Dogana (n. 34/35, dicembre 2007) Ermi-nia Macola e Adone Brandalise, suggeriscono un curioso inquadramen-to della psicoanalisi: la psicoanalisi come scienza della miseria in quanto 

16.  Ad esempio Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Rizzoli, Milano 2006.

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“scienza immateriale ma di sudici oggetti che porta in sé questa duplice determinazione:  coglie  l’elemento della  complessità delle nostre condi-zioni d’esistenza e in qualche modo lo ritrova all’interno del prodursi di queste  in ogni evento  individuale” 17. Ed è proprio nell’articolazione di questi due piani, delle condizioni d’esistenza e dell’evento  individuale, e nel suo essere scienza immateriale di un male immateriale, ma che fa presa su dei sudici oggetti, che  la pratica analitica sembra poter  incro-ciare la questione della povertà e della miseria.Miller, nell’articolo già citato, “Il segno d’amore”, dice, dopo aver osser-vato l’incapacità simbolica di valorizzazione del mendicante:

abbiamo comunque salvato una forma contemporanea del fannullone ed è  lo psicoanalista. Dobbiamo  riconoscere  che  ascoltare  senza  fare niente è comunque alla base della posizione, il risultato della posizione del fan-nullone 18.

In questo, riprendendo Lacan, Miller vede il punto di caratterizzazione della posizione dello psicoanalista, che non è quella del seno, dell’avere, ma nella posizione del santo (saint, santo, si pronuncia come sein, seno) come mendicante, che non fa nulla perché mette al lavoro, perché tiene aperto  uno  spazio  per  un  supplemento  di  niente.  Vi  è  un  passaggio curioso in questo testo, in cui Miller richiama l’imbarazzo di alcuni, e anche suo, quando era passato dall’essere professore all’essere analista:

una delle cose che mi hanno più colpito come differenza era di tendere la mano, di tendere la mano perché ci mettessero dei soldi. Dopo non ce ne accorgiamo  addirittura  nemmeno  più.  Ma  conservo  il  ricordo  dell’emer-genza di questa piccola conca, così, dove, finalmente, si deposita un’offerta al mendicante, al fannullone. Vi sono, a volte, dei praticanti che, per molto 

17.  E. Macola e A. Brandalise, “Le difficoltà del nascere”, in Via Dogana. Rivista di pratica poli-tica, n. 34/35, dicembre 2007, p. 7.18.  Jacques-Alain Miller, “Il segno dell’amore”, cit., p. 30.

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tempo, mantengono una sorta di senso di colpa nell’essere pagati per non fare niente. Non è il caso mio 19.

C’è qui qualcosa di interessante, nel meccanismo che Miller richiama, e nel modo in cui si intreccia con le comuni pratiche di scambio in cui le prestazioni si  legano a compensi, e che qui sono invece sottoposte a una torsione, a uno spostamento che però al contempo fa leva, per fun-zionare, su quelle stesse pratiche che disarticola: che cosa è quel dare i soldi alla fine della seduta, che sembra così tanto inserirsi in una logica di  scambio  –  denaro  per  prestazione  –ma  che  invece  da  quella  logica non riesce ad essere preso del  tutto? Sarebbe un punto  interessante da approfondire della pratica analitica e delle sue maniere.Proseguendo  nella  sua  riflessione  sul  mendicante  e  sul  supplemento  di niente che vi appare, Miller fa un rapido, ma inteso passaggio sulle Pre-ziose, un movimento di donne che, dalla fine del 1600 alla Rivoluzione francese hanno animato  i  salotti della Francia dell’Ancien Régime,  eser-citando la loro influenza tanto sulla politica quanto sul gusto, la lettera-tura e  le maniere. E a questo proposito che Miller scrive che “le donne in  Occidente  sono  riuscite  […]  a  far rispettare il niente agli uomini” 20. Hanno intessuto le maniere, maniere che consentissero di non scagliarsi sull’oggetto del bisogno, ma che scavassero uno scarto, che richiedessero un giro più lungo, in cui quel che si guadagnava era in fondo in questo giro e in questo scarto, più che nell’oggetto. La riforma della lingua fran-cese e del gusto che le Preziose promossero si inseriscono in una tale pro-spettiva. E in fondo con queste maniere è proprio un niente in sovrappiù che viene ad aggiungersi, e a mettersi all’opera attorno alla mancanza:

non vi sono buone maniere – chiosa Miller – che quelle che contornano il buco, una mancanza, un non c’è. Le buone maniere sono il sembiante che 

19.  Ibidem, p. 31.20.  Ibidem, (corsivo nostro).

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ci vuole attorno alla mancanza, a condizione che la si rispetti e che, a un tratto, si rispettino i sembianti. Rispettare i sembianti è sempre rispettare la castrazione 21.

Ora,  è  esattamente  un  lavoro  sulle  maniere,  su  questo  niente  che  si aggiunge  in  sovrappiù,  cioè  un  lavoro  sul  piano  sociale  e  non  politico (intendendo con il primo termine quell’insieme vivente di relazioni, tra-dizioni, costumi che fa la società e con il secondo l’insieme di istituzioni che elaborano decisioni valide per  l’intero corpo collettivo) che  sembra apparire quando si pone alla psicoanalisi  la questione che ho provato a chiarire nel primo paragrafo di questo testo: non la domanda che chiede di prendere uno a uno, ma quella che interroga il movimento specifico che la psicoanalisi è capace di introdurre nella società in cui nasce e vive.Nell’intervista già citata sulla politica, Miller – in parte, occorre tenerlo presente, spinto da una certa ironia – chiedendosi se la politica cambia davvero così tanto il mondo come pretenderebbe, osserva che la psica-nalisi opera piuttosto dal  lato della  società, delle  sue maniere  e  costu-mi, e per questo  la sua  influenza sul corpo collettivo è “accordata alla lunga, o, diciamo, alla media durata, ed è per questo – aggiunge – che il  riferimento  di  Freud  all’Aufklärung  mi  sembra  appropriato.  La  sua influenza  è  come un  contagio,  un  tranquillo  dilatarsi,  lo  spandersi  di un profumo, uno spirito invisibile che si impossessa di tutte le viscere, di tutti gli organi della vita spirituale” 22. Per questo la psicoanalisi non si  intreccia  con  la  politica  e  con  le  identificazioni  che  questa  richiede cercando  di  catturare  i  soggetti  attraverso  dei  “signifiants-maîtres”, delle  ideologie,  degli  ideali.  Anzi,  si  attiva  proprio  nel  disfarle,  nel rimetterle  in gioco 23. Ma questo non come un’operazione a resto zero, ma  come  una  pratica  che  si  rapprende  nelle  maniere,  che,  come  un profumo, si insinua nelle forme di vita, e che, al contempo, proprio per 

21.  Ibidem, p. 32.22.  J.-A. Miller, “Lacan et la politique”, cit., p. 108, (traduzione nostra).23.  Cfr. ibidem, p. 112.

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questo,  è  esposta  alla  fragilità  che  le  caratterizza.  Maniere  di  avere  a che fare con il niente e di mettere all’opera quel che cresce sui contorni di  ciò  che  manca.  Maniere  per  averci  a  che  fare  diversamente,  e  che in qualche modo fanno circolare nella trama vivente dei rapporti altre possibilità di soggettivazione che scartano da quelle richieste e realizzate nelle pratiche che riducono la povertà alla miseria.È  in  questo  senso,  mi  pare,  che  la  psicoanalisi  risulta,  come  dice  qui Miller “sovversiva” e non rivoluzionaria 24.Alla  fine  dell’intervista,  però,  questa  distinzione  tra  campo  politico  e campo delle maniere pare complicarsi, rimettendo in gioco la posizione stessa della psicoanalisi  e  il  suo modo di  imprimere un dinamismo ai rapporti in cui si trova a operare:

se mi accordate che il godimento è diventato un fattore della politica, allora la psicoanalisi conserverà, dovrà conservare  la  stessa distanza  sarcastica nei riguardi  della  politica  come  nell’età  delle  ideologie?  Non  credo  che  potrà. Il privato diventa pubblico. Vi è  lì un grande movimento, un destino della modernità, e la psicoanalisi vi è trascinata, per il meglio e per il peggio 25.

E, per averci a che fare, delle nuove maniere ci saranno richieste.

24.  Cfr. ibidem, p. 118.25.  Ibidem, p. 122.

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Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica

politica del reale, politica della tycheappunti su psicoanalisi e politica

di Nicolò Fazioni *

Lacan intorno al suo ultimo insegnamento realizza un attraversamento della politica e del pensiero filosofico-politico che intende metterne in questione la pre-sunta coerenza. Egli, grazie agli strumenti concettuali della psicoanalisi, pone in evidenza una serie di problemi e di domande ( in particolare intorno a desiderio, reale e godimento) che la scienza politica e la filosofia non sanno porre o evitano. Attraverso la topica dei quattro discorsi Lacan mette in gioco la stessa psicoanalisi costringendola ad interrogarsi sulla sua capacità di realizzare un’etica e una poli-tica che si confrontino con il disagio e con il reale.

Parole chiave: politica della psicoanalisi, topica dei discorsi, reale, disagio, godimento

1. una logica seriale e “politica”: a partire da l’envers

La svolta inaugurata da Lacan nel suo insegnamento a partire dal Semi-nario XVII 1  introduce  un  radicale  attraversamento  psicoanalitico  del campo  politico.  Il  discorso  di  Lacan,  così  come  si  configura  durante le  lezioni de L’envers,  si  situa nel contesto di una diffusa crisi dei con-cetti  e  delle  figure  tradizionali  della  politica:  la  politica  viene  sempre più rimossa, data  la sua appartenenza alla dimensione di un reale non immediatamente  simbolizzabile;  essa  incontra  nel  contemporaneo 

*  Nicolò Fazioni è Dottorando in Filosofia all’Università di Padova.1.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.

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una sfocatura e una convergenza verso l’economia e quei saperi che ne promuovono  una  progressiva  smorzatura.  La  burocrazia,  presentando-si  come  innocua  gestione  ed  espansione  della  sicurezza  e  della  nostra libertà, connota, o più grossolanamente denota, il quarto di giro in cui la politica viene coperta dai suoi sembianti  in una forma di costruzio-nismo  della  realtà  socio-politica  nella  quale  il  sistema  rappresentativo ci permette di vivere  senza  spenderci nella polemicità che  investe ogni relazione. Il pensiero di Lacan non interviene dunque solo sullo scena-rio problematico del  ‘68 francese ma, grazie alla sua  lucida e  lungimi-rante analisi delle logiche del capitalismo, disegna i contorni dell’attuale dispiegarsi della politica.L’interrogativo  a  cui  sembra  si  debba  indirizzare  l’analisi  del  campo politico  che  Lacan  realizza  con  la  sua  topica  dei  discorsi,  consiste  nel chiedere quali siano le condizioni che la psicoanalisi è in grado di for-mulare affinché  sia possibile una modalità altra di pensare la politica 2. Sulla scorta di tale interrogativo la psicoanalisi lacaniana approfondisce la sua concezione del soggetto e del desiderio, del potere e della verità; termini quest’ultimi che realizzano il reticolato concettuale della scien-za politica odierna.Ora,  senza  poter  ricostruire  completamente  la  topica  dei  discorsi  del Seminario XVII 3, si dovrà render conto del modo in cui  la sua formu-lazione  tracci  le  linee direttive del  tardo  insegnamento di Lacan. Non si tratta, però, solo di un incalzante lavorio atto a ricostruire un sistema di  pensiero  quanto  piuttosto  di  un  mutamento  di  strategia:  strategia nell’affrontare e citare i propri riferimenti (in particolare filosofici) e nel perimetrare lo spazio (la scena) d’indagine in cui la psicoanalisi parten-do da un inusuale punto “esterno” attraversa il campo politico. Questo 

2.  Questo interrogativo si presenta come un’ulteriore determinazione della questione che sostie-ne lo scritto di A. Badiou e S. Lazarus, È pensabile la politica?, Franco Angeli, Milano 1987, al cui fondo si dovrebbero rintracciare con precisione alcuni concetti lacaniani.3.  Per  un’esposizione  chiara  e  completa  dei  quattro  discorsi  si  veda  M.  Recalcati,  Per Lacan, Borla, Roma 2005, pp. 80-114. Silvia Cimarelli, “Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan”, in Attualità Lacaniana, n. 11, 2010, pp. 147-186.

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Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 219

spazio,  che  senza  esaurirvisi  dovrebbe  essere  quello delle  contestazioni studentesche,  circoscrive  quindi  il  duplice  labor limae con  cui  Lacan ridispone tanto le categorie e i concetti della politica quanto quelli della stessa psicoanalisi. Sono difatti le categorie fondamentali della psicoana-lisi lacaniana ad intercettare e a porre necessariamente le problematiche legate ad una modalità “altra” del pensare la politica. Se la psicoanalisi, come dimostra il gesto con cui Lacan avvia il seminario diciassettesimo, deve aprirsi verso il suo “esterno” (il campo politico), questo risponde ad una sua esigenza costitutiva che riguarda il suo realizzarsi come etica.Come ricordano a più riprese Di Ciaccia e Recalcati nella loro limpida presentazione  dell’insegnamento  di  Lacan 4,  uno  degli  esiti  più  decisi-vi  della  classica  posizione  dell’inconscio  strutturato  come  linguaggio è  rappresentato  dall’estroflessione  dell’inconscio  stesso.  L’etica  di  cui parla Lacan, caratterizzandosi come pratica anti-filosofica del soggetto, opta per una precisa destrutturazione di ogni fondamento. L’inconscio non può essere, come vorrebbe Jung,  la profondità dove si accalcano  i significati  della  nostra  esistenza.  L’inconscio  come  sistema  linguistico e la costituzione del soggetto nel discorso dell’Altro che lo precede e lo scinde  ()  realizzano “l’effetto  superficie”  tramite cui  la psicoanalisi  si sbarazza  delle  pretese  onto-teologiche  del  fondamento  e  della  pienez-za  originaria  del  soggetto.  L’inconscio  non  può  configurarsi  come  un nuovo fondamento, il nucleo dei significati, perché esso è “fuori” 5, este-riore ed in questo anche politico, anche sociale. Si spiega così l’apparen-te iperbole con la quale Lacan introduceva già nel seminario quattordi-cesimo uno dei capisaldi de L’Envers: “Non dico nemmeno la politica è l’inconscio, ma semplicemente l’inconscio è la politica” 6.La posizione di una questione politica all’interno del discorso di Lacan 

4.  A. Di Ciaccia e M. Recalcati, Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell’ inconscio, Mon-dadori, Milano 2000.5.  Si veda S. Givone, “Mantenersi all’esterno”, in La Psicoanalisi, 11, 1992.6.  J. Lacan, Le Séminaire, Livre XIV, La logique du fantasme, 1966-1967, (inedito). Visto che il seminario è inedito si cita dalla trad. it. di J. -A. Miller, “Intervento al convegno La Primavera della psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, 33, 2003, pp. 134-148, qui p. 134.

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si  profila  come  conseguenza  della  mossa  con  cui  egli  riconosce  nella materialità  del  significante  il  fattore  determinante  per  la  costituzione soggettiva. Il linguaggio, descrivendo nel duplice scorrimento delle serie lacaniane  il  ruolo del significante padrone (), contiene già  la matrice politica  dell’inconscio 7.  Lacan  torna  più  volte  su  questo  tassello  del suo  ragionamento,  spingendoci  a  comprendere  che  “se non  esistesse  il linguaggio,  non  esisterebbe  il  padrone,  che  il  padrone  non  si  dà  mai per forza o, semplicemente, perché comanda, e che poiché il linguaggio esiste, voi ubbidite […]” 8.Qui  la  teoria  della  Vorstellungsrepräsentanz  (facente-funzione  della rappresentazione) si esplica nel rapporto tra il significante padrone e la batteria dei significanti (). Si tratta di un meccanismo che inscrive il soggetto nel sociale: il soggetto sorge dal movimento seriale per cui un significante  lo  rappresenta  presso  un  altro  significante  in  uno  scorri-mento che non ne fornisce la Vorstellung (rappresentazione; non si tratta infatti di un’immagine ma del  facente-funzione della rappresentazione di  cui  parla  Freud 9)  ma  l’alienazione.  Il  soggetto  è  colto  dal  discorso dell’Altro, è rappresentato presso l’Altro, cioè è estroflesso dalla propria chiusura  individuale  e  innestato  nella  dimensione  sociale,  culturale: questa  socialità  lacaniana,  se  la  si  può  chiamare  così,  è  senza  dubbio profondamente polemologica.La  teoria  “linguistica”  su  cui  Lacan  innesta  il  suo  “ritorno  a  Freud” costituisce  già una  logica  intrinsecamente politica. Proprio per questo l’analisi dei dispositivi discorsivi che attraversano il piano socio-politico del moderno e del contemporaneo appare a Lacan come  lo  strumento più idoneo: ci sono quattro discorsi (del padrone, dell’isterica, dell’uni-versità,  dell’analista),  quattro  posti  sempre  identici  (agente,  Altro, 

7.  Sul  rapporto  tra potere  e  linguaggio  e  in particolare  tra potere  e parola  in psicoanalisi  si  è soffermato M. Focchi,  Il cambiamento in psicoanalisi, Boringhieri, Torino 2001, cap. XIII, pp. 187-196.8.  J. Lacan, Lacan in Italia, La Salamandra, Milano 1978, p. 47.9.  Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, Einaudi, Torino 1994, pp. 75-77.

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verità, scarto), quattro termini (, , , oggetto a) che muovendosi di un quarto di giro ruotano di posto in posto creando le condizioni del passaggio da un discorso all’altro. Si capisce a questo punto  il duplice snodo per  cui  la psicoanalisi  è  costitutivamente diretta verso  la politi-ca e quest’ultima si  trova a dover aprire un confronto con  le modalità psicoanalitiche di trattare il soggetto e il disagio, di “localizzare i modi specifici della dipendenza degli enunciati soggettivi da determinati tipi fondamentali di enunciazione” 10.

2. il circolo politico: psicoanalisi, filosofia, scienza politica

Per  Lacan,  come  per  Foucault 11,  ciò  che  è  in  gioco  nel  discorso  è  il potere nelle sue relazioni con i termini con cui si trova strutturalmente connesso, come la verità, il soggetto e il desiderio. Questa precisazione che connette l’insegnamento lacaniano ai moduli della scienza politica moderna,  innesca allo stesso tempo una precisa pratica testuale e con-cettuale  rivolta  ai  classici  del  discorso  filosofico.  La  filosofia,  secondo Lacan, è rea di aver offerto la spalla al padrone, rigorizzandone le prete-se: la filosofia è scienza del padrone in quanto fonda il furto del sapere su  cui  si  regge  (non  senza qualche nitido  richiamo  a Marx)  la padro-nanza 12. Di fronte a questa critica radicale della filosofia, la psicoanalisi s’impegna in un lavoro anti-filosofico che non intende identificarsi con il discorso del padrone: un lavoro che non significa in alcun modo un abbandono  della  filosofia  ma  un  continuo  attraversare  ed  interrogare quest’ultima per riportare alla  luce  la  rete concettuale che essa non ha pensato fino in fondo, come è il caso del concetto di desiderio. La stessa 

10.  M. Recalcati, Per Lacan, cit., p. 81.11.  Si veda M. Foucault, “L’ordine del discorso” in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001.12.  Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., pp. 17-20.

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radicalizzazione del concetto freudiano di desiderio, che Lacan articola tra il seminario settimo e il seminario undicesimo 13, è una delle vie per riflettere sulla politica della psicoanalisi che è appunto politica del desi-derio e del disagio (Unbehagen) 14.Freud parla del desiderio e dei concetti che vi ruotano attorno (la legge, l’identificazione,  il programma della civiltà)  in alcuni  testi  fondamen-tali: Totem e tabù (1913), Psicologia delle masse e analisi dell’ io (1921), Il disagio della civiltà (1929) 15. Quello che fa Lacan, rileggendoli, consiste nel  considerarli  come  momenti  imprescindibili  dell’indagine  che  la psicoanalisi può svolgere  intorno al meccanismo del sociale e del poli-tico, nonché sulle condizioni della loro pensabilità. Nel fare ciò appare chiaro come la strategia teoretica adottata da Lacan nella sua ri-lettura di Freud incontri e si ramifichi, per usare la terminologia di Miller, nel susseguente  “parricidio  lacaniano  di  Hegel”.  Sul  piano  politico  trac-ciato dal  seminario diciassettesimo non  si  tratta  tanto di una  radicale presa di distanza da Hegel ma di un’analisi critica del “circolo politico” teorizzato nel momento eticità dei Lineamenti 16. Secondo Lacan, Freud può  essere  infatti  considerato  un  autore  davvero  decisivo  nella  deco-struzione del momento eticità, inteso come la compiuta ricomposizione dell’incontro  tra  reale  e  razionale  sul  piano  dell’effettualità  politica. Lacan però non sostiene mai che il circolo del razionale e del reale non sussista  (che  la  dialettica  sia  ineffettuale)  ma  ritiene  piuttosto  che  il luogo del loro combaciare sia attraversato dalla fessura dell’Unbehagen, della  singolarità del  soggetto  scisso, di quel nucleo di  reale  che non  si simbolizza così come emerge dal concetto freudiano di ripetizione 17.

13.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Tori-no, Einaudi 2003.14.  Si  veda M. Recalcati,  “Posizione del  soggetto nel  legame  sociale. Disagio, desiderio,  godi-mento”, in La Psicoanalisi, n. 12, 1992, pp. 77-86.15.  Rispettivamente  in  S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino 2005,  vol. VII,  pp.  1-164; Opere IX, 2006, pp. 257-330; in Opere, 2006, vol. X, pp. 553-630.16.  G W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2010.17.  Sulla questione della coincidenza tra reale e razionale si veda J. Lacan, “Conferenze sull’etica della psicoanalisi” (1960), in La Psicoanalisi, n. 16, 1994.

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La  complessità  di  questa  decostruzione  si  spiega  alla  luce  della  più generale  rilettura  lacaniana  della  dialettica  hegeliana,  della  valorizza-zione  teoretica  del  concetto  freudiano  di  Verneinung  (denegazione), dell’interpolazione di quest’ultimo all’interno della  stessa dialettica.  Il rapporto  tra  la denegazione  e  la Aufhebung  è quello per  cui  il mecca-nismo dialettico  si produce  senza poter  eliminare un  residuo di nega-tività (il rimosso non viene tolto anche quando l’analizzante accetta di tornare  sulla  denegazione) 18,  si  produce  producendo  (o  anzi  meglio, riproducendo) questo residuo. La dialettica si trova bloccata ma non per questo destituita di ogni sua forza teoretica: essa produce ancora il suo lavoro, l’incontro del reale e del razionale, solo che non si tratta mai di un risultato compiuto bensì della ripetizione di un processo non conclu-dibile. Se il momento speculativo esiste ancora esso si trova ogni volta decompletato dalla singolarità di ciò che non cessa di non iscriversi (dal reale del disagio, del godimento  in perdita)  ed  il processo dialettico è perciò  forzato  a  ricominciare  il  suo  esercizio  simbolico,  forzato  dalla violenza di un reale che il linguaggio stesso ha creato (oggetto a) senza poterlo  più  ricomprendere  (pertinentizzarlo  direbbero  i  linguisti).  La dialettica perde il suo telos, si ritrova acefala, diretta verso la sua conti-nua  riapertura ma proprio perciò  costantemente presente nel  ragiona-mento di Lacan 19.

18.  L’intenso  ragionamento  lacaniano  sulla  denegazione,  che  qui  abbiamo  solo  richiamato,  si sviluppa  intorno all’intervento  sul  tema di Hyppolite nel corso del primo seminario di Lacan. Ciò che emerge è come il rimosso non possa essere completamente tolto anche quando l’accet-tazione  intellettuale  sembrerebbe  produrne  una  prima  negazione.  La  ripetizione  di  un  nucleo rimosso non toglibile (non soggetto ad Aufhebung) rappresenta il punto di stacco tra la dialettica hegeliana e  la  sua  rilettura  in Lacan. Su questo  tema si veda S. Freud, La negazione,  in Opere, Boringhieri, Torino 2006,  vol. X, pp. 193-221. L’intervento di Hyppolite  si  trova  in  J. Lacan, Scritti,  cit., pp. 885-893. Si veda anche E. Macola e A.Brandalise,  “La negazione e  il  soggetto dell’inconscio. A proposito del Seminario IX”, in La Psicoanalisi, n. 26, 1999, pp. 135-144. Per la lettura di Lacan si veda Ibidem, pp. 361-372 e 373-390. Su tali questioni anche W. Ver Eecke, Denial, Negation and the Forces of Negative. Freud, Hegel, Lacan, Spitz and Sophocles, Suny Press, New York 2005.19.  Si veda in particolare J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, cit., pp. 32-37.

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Il rapporto tra Lacan ed Hegel, sul duplice versante teoretico e politico, permette  di  visualizzare  la  specificità  del  neostrutturalismo  di  Lacan: l’effettualità della struttura, la necessità espressa dalle leggi linguistiche del  simbolico  non  costituiscono  in  alcun  modo  un  sistema  ermetica-mente chiuso, il certificato di decesso del soggetto. Lo sforzo di Lacan, di pensare insieme la struttura e il soggetto, la fondazione della catego-ria modale della necessità ed il persistere della contingenza, si concretiz-za nella teorizzazione del meccanismo logico per cui è la stessa struttura che producendosi produce lo spazio della contingenza e della singolarità (lo spazio dell’oggetto a).Il  disagio  rappresenta  dunque  il  persistere  della  contingenza  all’inter-no del piano di  realizzazione della necessità della  struttura:  affrontare questa  convivenza  costituisce  il  cuore  dell’etica  e  della  politica  della psicoanalisi.  L’attenzione  che  la  psicoanalisi  rivolge  alle  diverse  forme del disagio si presenta come una precisa modalità politica di non cedere sul  “reale  malato” 20,  di  costituire  uno  spazio  di  comprensione  per  ciò che appare come il semplice inciampo locale di un sistema, quello capi-talistico, che riesce comunque a realizzare il suo circolo 21, a far circolare l’allucinazione di un godimento senza perdita. La pretesa di poter rea-lizzare la chiusura del sistema politico, che Lacan sembra attribuire ad Hegel e nello specifico al momento eticità dei Lineamenti, corrisponde-rebbe dunque all’illusione di poter simbolizzare tutto  il  reale, di poter riassorbire  tutto  il  negativo,  di  soddisfare  risolutivamente  l’originaria perdita del godimento 22.

20.  E. Macola, Introduzione a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano 2003, p. 14.21.  Si veda il brillante saggio di M. Focchi, “Gli attacchi di panico”, in E. Macola - A. Turolla, Scenari dell’Angoscia, Borla, Roma 2008, pp. 172-195, dove tra gli altri temi si mette in risalto la forte connessione fra panico e disgregazione della vita contemporanea, quindi fra psicoanalisi e campo socio-politico (p. 187).22.  Ora bisognerebbe capire se il target colpito da Lacan sia il vero Hegel o, come ci pare più probabile,  l’Hegel di Kojève, della  fine della  storia,  del  compimento della dialettica:  ciò non toglierebbe nulla alla forza del discorso lacaniano ed anzi permetterebbe di comprendere come la filosofia hegeliana mostri una spiccata affinità teoretica con quest’ultimo.

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Il desiderio, che è sempre qualcosa di non immediatamente pacificabi-le, designa per Freud un’altra  linea, una posizione dicotomica  rispetto a  qualsiasi  adattamento,  omologazione  al  programma  della  Civiltà  (il discorso del padrone), che a sua volta spinge in ogni modo verso il suo sacrificio  (la  religione  e  la  morale  potrebbero  essere  interpretate  come esperimenti sociali, come strumenti del programma della Civiltà). L’in-sistenza di Lacan sulla logica eccentrica del desiderio e di conseguenza del disagio diviene la fondamentale dimostrazione dell’impossibilità per qualsiasi costruzione socio-politica di effettuarsi come perfetta totalità, o meglio di chiudere il “vuoto” non simbolizzabile ove è possibile l’ac-cadere dell’eccezione. Sembra pertanto questo  il versante politico delle criptiche affermazioni programmatiche che sostengono ed introducono le svolte del tardo pensiero di Lacan: una politica che prenda sul serio “l’assenza  di  rapporto  sessuale” 23  e  la  disillusa  radicalità  del  “niente, come  dico  è  tutto” 24.  La  psicoanalisi,  come  chiariremo,  definisce  le basi per pensare  la  singolarità  e  l’eccezione,  impegnandosi  a  realizzare la  concreta  possibilità  di  un  loro  affiorare  sul  piano  politico.  Questa possibilità concreta è affidata ai concetti chiave dell’etica lacaniana, ed in  particolare  alla  radice  non  rappresentativa  costituita  dal  reale,  alla finitezza e alla scissione del soggetto. Sono queste le coordinate e le con-dizioni entro cui la psicoanalisi ci permette di strutturare un’esperienza politica in grado di fare i conti con la singolarità dell’evento.Lacan  nel  seminario  diciassettesimo  scopre  nell’idea  di  “totalità”  il punto di volta del discorso filosofico-politico:

L’idea che il sapere possa fare totalità, se mi è consentito, è immanente al politico in quanto tale – cosa che sembra fatta a posta per mostrare quanto 

23.  Si  veda  in  particolare  J.  Lacan,  Il Seminario, Libro XX, Ancora, 1972-1973,  Einaudi, Torino 1983. Su tale posizione lacaniana si innesta e trae spunto l’incisiva ed autonoma ana-lisi di J.L. Nancy, Il “c’ è” del rapporto sessuale, Sé, Milano 2002. Su questi punti si veda anche A. Badiou  e B. Cassin,  Il n’y a pas de rapport sexuel. Deux leçons sur “L’Étourdit” de Lacan, Fayard, Paris 2010.24.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 61.

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poco conti l’incidenza delle scuole. Lo si sa da molto tempo. L’idea imma-ginaria di un tutto, così come è data dal corpo, in quanto si appoggia sulla buona  forma del  soddisfacimento,  su  ciò  che,  al  limite, diviene  sferico,  è sempre stata utilizzata in politica, dal partito del predicozzo politico. Che c’è di più bello, ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiu-sura del soddisfacimento? 25

La dimensione politica del discorso del padrone non sta tanto in ciò che è inquadrato dal suo occhio di bue (le istituzioni, lo Stato, i suoi problemi  socio-economici)  quanto  invece  nell’indice  di  totalizza-zione,  nell’istanza  di  chiudere  il  circolo  della  sovranità,  della  legge e  della  sicurezza.  Tale  indice  combacia  in  modo  imbarazzante  con il  fondamento  umanistico  delle  scienze,  la  filosofia  e  la  psicologia cognitiva su tutte, ovvero l’io (moi). Il discorso del padrone è, come dice  Lacan,  una  io-crazia 26,  e  cioè  un’istanza  e  un’azione  rivolte all’omologazione, al divieto: ciò che il padrone chiede è di rinunciare al  desiderio 27.  In  questo  modo,  perpetuando  il  disagio  della  civiltà, esso  promuove  l’applicazione  della  regola  senza  alcuna  eccezione. Questa funzione unificante che si trova al posto dell’agente è proprio quella dell’io che annulla la presa di consapevolezza del disagio della barratura della S. Il discorso di Lacan (politica della psicoanalisi) non si  configura  mai  come  progetto  freudo-marxista  (psicoanalisi  della politica). Quest’ultima posizione teorico-pratica tende, infatti, a con-formare la realtà al desiderio, nella convinzione che sia possibile indi-viduare sul piano sociale  i  referenti del potere e che  la  loro elimina-zione ci libererà dalla padronanza e dal disagio. Lacan insegna invece agli studenti di Vincennes, che la sovversione come eliminazione del 

25.  Ibidem, p. 29.26.  Ibidem, p. 72.27.  Ci limitiamo a segnalare una risonanza filosofico-politica di questi schemi di pensiero, che – opportunamente variati – agiscono anche nei lavori di G. Deleuze e F. Guattari. Si veda Id., L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 2002.

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disagio e del referente del padrone non portano che alla creazione di un nuovo padrone. La via lacaniana, negandosi come pratica sempli-cistica  di  annullamento  del  disagio,  s’impegna  nella  rielaborazione e  nella  lavorazione  dei  termini  e  dei  concetti  che  costituiscono  il dispositivo  discorsivo  della  padronanza:  è  questo  il  primo  compito “politico” del discorso dell’analisi.A  tal  proposito  può  essere  significativo  richiamare  la  netta  opzione con la quale J. A. Miller bipartisce il pensiero politico contemporaneo e frustra le illusioni democratiche di certi ambienti psicoanalitici: Kel-sen vs Schmitt. 28 Miller si rivela piuttosto critico nei confronti di Kel-sen, e della politica dell’uomo di sinistra, il fool (il semplice, lo sciocco ma  insieme  anche  il  buffone)  di  Lacan 29,  che  tenta  di  rattoppare l’astrazione  pseudo-umanistica  del  “tutti  uguali”.  La  considerazione di Miller tocca il punto in questione quando dice che la formulazione attribuibile a Kelsen, quella di uno Stato che amministra senza gover-nare, è il vero sogno della democrazia, ed in quanto tale va analizzato sul doppio piano di ciò che manifesta e di ciò che cela, dato che esso ha già proceduto al suo spostamento e alla sua condensazione.Il concetto di democrazia  racchiude,  infatti,  il nocciolo politico  intor-no  a  cui  gira  la proliferazione degli  usi  della parola  “democrazia”  e  il nostro appellarci ad essa. Ed è proprio perché quel nocciolo concettuale viene  puntualmente  mancato  che  noi  possiamo  credere  che  sarà  la democrazia, con i suoi strumenti (il potere costituente, la rappresentan-za), a sopprimere i vincoli che costringono la nostra libertà, a rimuovere alla fine la stessa peculiarità della politica, la sua natura conflittuale.L’ingenuo atteggiamento di chi si appella alla democrazia per vincere la stretta del potere rivela impietosamente come la libertà e il potere stes-so non  siano altro che  il nucleo ossimorico, ma non per questo meno 

28.  Si veda J.-A. Miller, “Della natura dei sembianti”, in La Psicoanalisi, nn. 11-18, 1992-1995, qui pp. 183-191.29.  J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi 1959-1960, cit., pp. 230-233. Si veda S. Žižek, “Lacan ovvero l’ontologia del godimento”, in Aut Aut, n. 315, 2003, pp. 29-41.

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coeso, della scienza politica moderna (in particolare da Hobbes in poi) e della costruzione delle forme statuali. Il potere, concetto che su tutti rivela lo scacco della metafisica del referente e della designazione 30, è un dispositivo, una ragnatela concettuale che motiva la presenza medesima della  democrazia,  di  quella  democrazia  che  oggi  vive  i  suoi  “presagi crepuscolari” 31.La democrazia e con essa più in generale gli stati nazionali sono attra-versati  dalla  parabola  di  quella  che,  senza  simpatizzare  troppo  per questo termine, potremmo chiamare globalizzazione, e che per quanto riguarda  l’interesse  che qui  vi  indirizziamo,  sta  a  significare  l’esigenza di  una  ridefinizione  delle  categorie,  dei  concetti  e  delle  figure  della politica moderna. La politica moderna costruisce artificialmente l’unità della  sovranità, nell’atto paradossale della  rappresentanza  e della  legit-timazione  del  potere  del  monarca  mentre  la  democrazia  riproduce  la continuità logico-concettuale di tale meccanismo nel potere costituen-te 32.  Il  sistema  rappresentativo  finisce  quindi  per  sottrarre  l’individuo e  il popolo (formato non prima dell’atto costituente  in cui  legittima il sovrano o i rappresentanti) di qualsiasi capacità di dissociazione rispetto a ciò che essi stessi hanno voluto, il rappresentante del potere e di con-seguenza le sue leggi. Mantiene, a tal proposito, tutta la sua pertinenza la provocazione di Brandalise, che invita a pensare il meccanismo della rappresentanza politica attraverso lo specchio della Vorstellungrepräsen-tanz: un significante rappresenta un soggetto presso un altro significan-te  in uno  scorrimento che non  raffigura mai  la  sua presenza né  tanto meno i bisogni concreti che quest’ultima comporterebbe 33.

30.  Si veda S. Chignola e G. Duso (a cura di), Sui Concetti politici e giuridici dell’Europa, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 65-100 e 159-193; G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999.31.  A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, in Filosofia Politica, n. 3, dicembre 2006, pp. 403-414, qui p. 403.32.  Si veda G. Rametta, “Le ‘difficoltà’ del potere costituente”, in Filosofia Politica, n. 3, dicem-bre 2006, pp. 391-401.33.  Si veda A. Brandalise, “Democrazia e decostituzionalizzazione”, cit., p. 411.

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Non possiamo riassumere in modo completo queste analisi, dalle quali dobbiamo  comunque  trarre  un  punto  fondamentale:  la  democrazia  e le  forme costituite dal dispositivo della politica moderna non possono liberarci dal controllo e dalla norma espansa ed espandibile del potere in quanto anch’esse affette dalle aporie del potere medesimo.L’analisi dei discorsi di Lacan permette di approfondire il motivo dello scacco del politico odierno, pur senza che questo ci porti a pretendere di riconoscere una sintonia di fondo tra il suo lavoro e alcuni di quelli appena richiamati. Dicevamo che per Miller  la coppia Kelsen-Schmitt si traduce nella faglia aperta tra la norma del “tutti uguali” e l’idea per cui  la politica accade,  invece,  solo  laddove  l’eccezione compie  il movi-mento  della  sua  presentazione.  Questa  opposizione  finisce  per  ripro-durre quella che  la psicoanalisi medesima si  trova a dover combattere, nel  tentativo di differenziarsi dalle ortopedie dell’io  e dalle pedagogie istituite per salvare la società: i nuclei distintivi delle quali girano attor-no alla presunzione “moralistica” di poter ricostituire ortopedicamente l’io del paziente, innestandovi un complesso di regole, ovvero l’io dello psicoterapeuta stesso 34.Questi spunti  lacaniani ci  impegnano a riconnettere  la politica al godi-mento  e  al  reale,  che  come  insegna Alemán  è profondamente  ingiusto, sempre  fuori  tempo,  sempre  mancante  di  qualsiasi  reciprocità.  Lacan parlando del reale ci impone di pensare all’eccedenza di una serie concet-tuale di cui la giustizia è il termine fondamentale. Quest’ultima (si veda il  commento di Lacan all’Antigone) non  si  riduce né  s’iscrive  completa-mente nelle maglie del diritto, della formalizzazione moderna della poli-tica e della sparizione della sua determinazione etica. La pratica analitica ci spinge a pensare ad una giustizia che non si spiega nel diritto, all’in-giustizia  dell’eccezione  rispetto  ai  piani  dell’omologazione  politica,  alla sua capacità di produrre esperienze politiche di reale emancipazione. Ci 

34.  Per  un  originale  approfondimento  della  specificità  della  clinica  psicoanalitica  si  veda  M. Recalcati, “L’ideale della salute e il reale del sintomo? Sulla singolarità nella pratica della psicoa-nalisi”, in Aut Aut, n. 340, 2009, pp. 134-152.

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si deve chiedere, quindi, cosa comporterebbe l’ideologia dell’uguaglianza quando a partire dal diritto venga promossa ad assioma di ogni campo della vita e del sapere? 35 O ancora a cosa porta la riduzione del governo all’amministrazione, della giustizia alla legge e quindi alla sicurezza?

3. i sembianti del capitalismo e il discorso dell’analista

Il quarto di giro in cui, di volta in volta, si ha lo scorrimento dei quat-tro discorsi, rappresenta il progressivo potenziarsi dei sembianti e degli pseudo-eventi della democrazia. Di  fronte all’apertura apparentemente liberale  del  discorso  dell’università  –  il  cui  secondo  nome  (discorso della burocrazia) è senza dubbio più adatto ad indirizzarci al punto in questione –, all’operazione bonaria con cui esso disinnesca la polemicità delle  relazioni  politiche,  assistiamo  ad  una  diffusione  interstiziale  del padrone.  Con  l’università  il  padrone  s’infiltra  ove  prima  non  riusciva a  giungere,  realizzando  una  copertura  quasi  complessiva  del  tessuto sociale. La burocrazia e le scienze del padrone (su tutte, per il loro ruolo attivo,  la  filosofia  e  la  psicologia),  seguendo  un  programma  che  alla giustizia ha sostituito la sicurezza, danno vita ad una più sottile forma di padronanza, ad una polizia che vigila senza portare  l’uniforme, alla produzione  di  individui  (gli  a-studati)  formati  per  ricoprire  gli  spazi istituzionali aperti e legittimati dal potere e dalla burocrazia.Ma  ciò  che  il  padrone  e  l’università  tentano  solamente  di  creare,  la chiusura  del  circolo  politico,  il  sogno  immaginario  delle  economie della  Civiltà  di  far  circolare  il  godimento  senza  perdita  alcuna,  non può dirsi ancora realizzato. Solo il quinto discorso di Lacan, quello del capitalismo, di cui si inizierà a parlare nel 1972, è in grado di superare 

35.  Contro l’ideologia del “tutti uguali” si muove nella sua complessa tattica “nomade” anche il pensiero di Nietzsche (si veda per la sua chiara sinteticità F. W. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano 2007).

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l’ostruzione  strutturale  che  nella  topica  discorsiva  si  configura  come sbarramento  tra  la  produzione  e  la  verità 36,  come  interruzione  della “felice” circolarità dell’intero. Solo il discorso del capitalismo invera la circolarità assoluta della produzione dando l’impressione che ogni biso-gno sia soddisfatto dagli oggetti prodotti e che ogni oggetto prodotto lo sia per soddisfare un qualche bisogno reale.L’oggetto  a  (plus-godere)  rappresenta  lacanianamente  un  modo  di contenere  la  perdita;  perdita  destinata  alla  sua  mortifera  ripetizione. L’oggetto a costituisce anche il modo in cui Lacan eredita alcuni degli approdi  concettuali  di  Marx,  su  tutti  l’idea  che  ciò  che  il  padrone ruba  all’operaio  sia  il  plus-lavoro 37.  Il  capitalismo  espande  la  funzione del  plus-godere,  vela  la  presenza  della  “perdita”  coprendola  tramite  la circolarità  della  produzione  e da  ciò  sorge  la  presupposizione  che non ci  siano  limiti al godimento. L’imperativo del Super-io diventa, allora, quello di continuare a godere, come dimostrano alcune tra le dipenden-ze (alcol, droghe) più note: si continua così a ripetere il gesto che pro-voca  godimento,  dichiarando  inconsapevolmente  che  esso  non  basta, che  non  sa  far  godere  pienamente 38.  È  propriamente  questa  la  logica che  domina  la  produzione  della  latusa,  con  cui  Lacan  ci  insegna  che l’essenza della verità è la litote, è il dirsi sempre a metà, e al contempo ci segnala la presenza costitutiva di uno sbarramento tra la produzione (scientifica e politica) e l’accesso alla verità del suo prodotto.Le latuse appaiono come un supplemento del godimento, ed esattamen-te  come  il  supplemento  necessario  e  sufficiente  per  colmare  la  faglia della castrazione e  superare  i  limiti che  la  struttura medesima  impone ad  una  logica  della  circolarità;  ma  nel  mantenere  “dimenticata”  una parte della  verità  le  latuse non  lasciano  affiorare  ciò per  cui non  sono 

36.  Si veda J. Lacan, Il Seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, 1969-1970, cit., p. 131.37.  Sui rapporti tra Lacan e Marx rimandiamo a J. Alemàn, L’antifilosofia di Jacques Lacan, cit., pp. 91-104.38.  A questo proposito si veda la chiara spiegazione di M. Recalcati, “Posizione del soggetto nel legame sociale. Disagio, desiderio, godimento”, cit., p. 86.

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mai in grado di soddisfare. Si ripete, così, la sussunzione/assunzione di nuovi gadgets, di nuovi slogan e di nuove parole d’ordine: la politica, così come si presenta nel discorso del capitalismo, si regge sulla produzione e la gestione di una pratica di “cattiva ripetizione” in cui ciò che si offre è l’identico sotto la veste del differente.Lo pseudo-Evento o la latusa che s’impone come Evento sono, allora, la motrice del discorso capitalista e del benessere, dell’apertura democra-tica,  che  quest’ultimo,  comportandosi  come  Grande  Altro  restaurato, garantisce davanti  ai nostri  occhi:  la  latusa  sembra  essersi  tolta  il  velo per  festeggiare  la  sua  completa disponibilità  e dissimulare  il  lato della verità che dovrebbe restare celato. Ne segue la latitanza dei Significanti padrone,  che  viene  visibilmente  celebrata  come  vessillo  del  progresso politico e culturale; celebrazione che nell’atto  stesso  in cui  supera  l’ot-turazione tra produzione e verità coopera da una parte alla microfram-mentazione  dell’  e  dall’altra  alla  comparsa  dei  sostituti  del  discorso del padrone (il discorso delle bande,  il discorso razzista…). Il discorso del capitalismo, quindi, realizza  l’economia del godimento e controlla, anestetizza, perfino blocca la politica del desiderio insegnando che non esiste  alcun  disagio,  che  non  c’è  soggetto  scisso  ma  io  pieno.  Lacan mostra  invece  che  il  discorso  del  capitalista  è  una  grande  operazione di chiusura di quel “posto vuoto” che dovrebbe rivelarsi come il punto “non  rappresentabile”  su  cui  si  regge  tanto  la  fondazione  del  soggetto quanto  la  costruzione  del  sociale  e  che  Stavrakakis  illustra  come  “the priority of a real which is, however, unrapresentable, but, neverthelles, can be encountered in the faiulure of every construction” 39.L’analisi di Stavrakakis,  che meriterebbe  tutt’altra  attenzione,  ci  intro-duce  all’aspetto  fondamentale  del  tentativo  lacaniano  di  riformulare  i cardini e le modalità del pensare la politica. Questo punto è rappresen-tato dalla capacità della prassi analitica di orientarsi “verso ciò che, nel 

39.  Y. Stavrakakis, Lacan and Political, Routledge, London/New York 1999, p. 86. “la priorità di un reale che, per quanto non sia rappresentabile, può ciò nonostante essere incontrato nell’in-successo di ogni costruzione” (traduzione nostra).

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cuore dell’esperienza, è il nocciolo del reale” 40. Lacan (e Žižek e Stavra-kakis  sulla  sua  scia)  insegna  la differenza  tra  il  reale  e  la  realtà, diffe-renza che  sul piano politico  si  esplica nella dicotomia  fra  realtà  socio-politica da un lato e politica dall’altro. La realtà sociale “costruita” sulle basi di una  jouissance fantasmatica,  sulla postulazione di una chiusura armonica del circolo politico ed economico, non riescono a fare i conti con il punto non simbolico e a-rappresentativo che sta alla sua origine. La realtà politica,  in quanto è  il  frutto della scienza politica moderna, procede  al  nascondimento  della  causalità  della  tyche  che  fonda  la  sua presenza,  di  quella  causalità  che  si  può  leggere  come  il  paradosso  che frustra l’opera di simbolizzazione dei diversi linguaggi disciplinari.Lacan indicava, infatti, la peculiarità del suo “real-ism” fin dall’elabora-zione di L’etica della psicoanalisi, dove Das Ding affiora come un luogo sempre  da  colmare,  intorno  al  quale  si  esercitano  gli  sforzi  dell’arte  e della  poesia,  così  come  il  tentativo  che  la  scienza  politica  e  la  scienza più  in  generale,  hanno  prodotto  nella  convinzione  di  poterlo  occu-pare  definitivamente 41.  La  politica,  allora,  differenziandosi  dalla  sua smorzatura e dalla concettualizzazione euclidea con cui è stata rivestita dalla propria forma moderna, si riconosce come pratica del reale e della sua  impossibilità, come pratica che dovendo riconoscere  il disagio e  la castrazione, non intende imporre una simbolizzazione forzata del luogo del proprio accadere.Una  politica  che  eviti  la  causalità  della  tyche,  dell’incontro  o  –  per lavorare sull’inglese (to Knock) di cui si serve Lacan – dello scontro (to Knock against),  e  perciò  anche  dell’eccezione,  è  il  frutto  del  passaggio storico  concettuale  in  cui  la  pratica  politica  viene  progressivamente sopravanzata dalla sua costituzione come scienza. Lo smantellamento di un paradigma etico (nel senso classico, ma anche lacaniano del termine) 

40.  J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, cit., p. 53.41.  Su questo “vuoto non rappresentabile” si veda E. Macola e A. Brandalise, Bestiario lacania-no, Milano, Mondadori 2007, pp. 7-11.

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con  cui  far  interagire  il  politico,  conduce  alla  sostituzione  della  giu-stizia  con  la  sicurezza, della plurivocità delle  relazioni politiche  con  la monocromaticità del “tutti uguale”. Le trame del discorso del padrone, l’estensione di quello burocratico,  la  tenacia di quello capitalistico, nel proclamare  la necessità di un potere  in grado di realizzare  la sua tota-lità, di un godimento senza perdita, finiscono per essere degli schermi che ci mantengono al riparo dalla tyche, intesa come quella causalità che è sempre in grado di creare le condizioni per una riapertura del circolo della realtà socio-politica e dei quadri categoriali delle discipline che la eleggono a loro oggetto preferenziale.Di fronte alla capacità discorsiva con cui il capitalismo sembra mostrarci la nudità della realtà politica ed economica, la sua autentica bontà (i pro-dotti sono sempre diretti ai nostri bisogni, i nostri rappresentanti garan-tiscono le nostre esigenze presso qualcun altro che poi le rappresenterà a sua volta, i padroni formalmente spariscono), la reazione, se di reazione si  tratta,  non  può  essere  quella  del  discorso  dell’isterica.  Qui  si  gioca molta della forza (o della debolezza) delle logiche politico-partitiche alle quali  ci  richiamiamo. Se  le pagine del  seminario  settimo  in  cui Lacan parla del  fool  e dello knave  (il  furfante,  il briccone,  la  canaglia)  riman-gono giustamente celebri, è proprio perché raddoppiano l’amara consta-tazione delle parti che esauriscono il copione del teatro politico: da una parte  l’isterico,  con  la  sua  trasgressione  “localizzata”  o  “localizzabile” tramite  cui  crede  di  essersi  ripreso  parte  della  jouissance che  l’Altro  gli avrebbe sottratto, dall’altra l’ossessivo che si spende per la proliferazione degli slogan e delle campagne di partito, dietro alle quali riposa la ripe-tizione della stessa storia e della sua stessa narrazione. Solo l’intellettuale di sinistra (il fool) e quello di destra (lo knave) abitano questo teatro.La  psicoanalisi  individua  nel  discorso  della  Civiltà  e  in  quello  del capitale un meccanismo atto a chiudere  il  “posto vuoto” dell’incontro con il reale, saturare e risolvere  il punto non-rappresentabile che sta al “centro”  della  fondazione  tanto  del  soggetto  quanto  della  costruzione sociale. In questo suo sguardo la psicoanalisi agisce come il rovescio del 

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Nicolò Fazioni | Politica del reale, politica della tyche. Appunti su psicoanalisi e politica | 235

discorso del padrone, come un dispositivo che riconnette  la politica al reale, costringendola a riaprire le sue categorie, forse – come direbbero Foucault o Deleuze – a pensare oltre le categorie.La  psicoanalisi  si  confronta  con  la  realtà  storico-politica,  così  come con  i  sistemi  filosofici  che  ad  essa  si  sono  rivolti,  lavorando  sul  rico-noscimento  che  “c’è  una  causalità  che  opera  dietro,  un’articolazione, un’assiomatica,  un  certo  numero  di  principi  che  operano  all’insaputa del  soggetto e che mettono  in  scena questa esperienza” 42. Si  tratta del fantasma che è “la macchina originale che il soggetto mette in scena” 43. L’analisi  rileva  il  ruolo di   come  significante-padrone  “che  è  ciò  che rende leggibile e sensibile, è il principio della vostra esperienza, anche di quella più immediata.” 44

Il discorso analitico consiste nel non saturare preventivamente il posto dell’incontro del  reale,  riconoscendovi  l’apertura  e  la  possibilità  di  un esterno,  muovendosi  in  rapporto  al  quale  Lacan  non  ha  problemi  ad asserire che il suo insegnamento era sempre “in ritardo” 45. Il ritardo del suo  discorso  si  connota  nell’apertura  inesausta  dei  quadri  concettuali delle  discipline  causata  dall’incontro  e  dallo  scontro  con  il  reale,  nel reciproco attraversamento che una compie nell’altra, rifiutando di colo-nizzarla per fornirne un metadiscorso (c’è solo politica della psicoanali-si, mai psicoanalisi della politica).La  psicoanalisi  è  allora  la  pratica  che  affrontando  la  rimozione  della conflittualità  agente  sui  bordi  della  riconciliazione  irrealizzabile  tra  il regime del possibile e ciò che da sempre lo abita, il perturbante (unhei-mlich) dell’impossibilità, costringe  le discipline e  su  tutte  la  filosofia e la politica a ridefinire  i propri schemi concettuali, recuperando così  lo sforzo teoretico che è stato capace di sostenerne e rinnovarne la portata 

42.  J.-A.  Miller,  Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII,  “Il  sinthomo”,  Astrolabio, Roma 2006, p. 107.43.  J.  Lacan,  “La  direzione  della  cura  e  i  principi  del  suo  potere”,  in  Scritti,  Einaudi,  Torino 2002, pp. 580-642, qui p. 633.44.  J. A. Miller, Pezzi staccati, cit., p. 104.45.  J. Lacan, Lacan in Italia, cit., p. 45.

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dietro la torsione storiografica e la smorzatura della loro pratica di pen-siero e di “scrittura”. Se è così, però, la politica come problematizzazione della realtà, la filosofia e le altre discipline, lungi dall’essere smontate e ricostruite  dalla  macchina  analitica,  sono  destinate  a  retroagire  verso la  psicoanalisi  lacaniana  come  l’esterno  a  partire  dal  quale  essa  dovrà mantenere  aperte  le  sue  categorie,  affrontare  il  pericolo  di  fidarsi  dei suoi sembianti e di anticipare il proprio ritardo.

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attualità lacaniana n. 12/2010

Complessità  e  Psicoterapia.  Esplorazione  e  fondazione  delle  condizioni  di possibilità della prassi di cura

complessità e psicoterapia.esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura

di Giuseppe Rociola *1

Il mentale, dispositivo deputato alla relazione con il mondo e al contempo frut-

to di questa relazione, è un prodotto della complessità cerebrale. Il Paradigma

della Complessità permette di affermare che questo fenomeno emergente, pur

in continuità con il substrato fisiologico, è da considerarsi un dominio diverso,

che funziona secondo proprie leggi organizzative. In particolare, il sistema

nervoso dell’Homo Sapiens Sapiens, per mezzo dell’esposizione ad un ambiente

socio-linguistico in un periodo critico produce l’emergenza di una caratteri-

stica mentale che chiamiamo psiche. Le peculiarità del linguaggio simbolico

producono alcuni fenomeni fra cui l’ inconscio, la presenza a sé, la sofferenza e,

correlativamente, la possibilità della cura attraverso la psicoterapia. A partire

da questo modello, si traggono alcune conseguenze clinico-metodologiche.

Parole chiave: psicoterapia, complessità, relazione, emergenza, soggetto,

mente, psiche, inconscio, implicito, sofferenza, riflessività, linguaggio

*  Giuseppe  Rociola  è  psicologo  e  psicoanalista,  già  membro  ordinario  della  SIPRe  (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione) e dell’IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies).  Insegna  “Psicologia  dello  Sviluppo  e  dell’Educazione”  e  “Scienze  e  Tecniche  della Riabilitazione Psichiatrica” presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata; è strutturato presso l’Unità Operativa di Psichiatria del Policlinico dello stesso Ateneo. Si occupa dei temi della coscienza, della complessità e dei processi neurofisiologici affettivo-cognitivi in soggetti psicotici.

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introduzione

Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di utilizzare il termine psico-analisi o psicoterapia; differenza  la cui articolazione comporterebbe un lavoro a parte. Ad ogni modo, ho deciso per  l’ultimo, poiché in questa  sede  ci  si  vuole  riferire  alle  condizioni di  possibilità  di  ogni talking cure 1.Il  paradigma  utilizzato  è  quello  dei  fenomeni  di  complessità.  L’eti-mologia suggerisce che ciò che è complesso è il risultato di un intrec-cio. Da questa origine,  il  termine  è  stato utilizzato  in diversi modi e  discipline  per  indicare  un  approccio  a  fenomeni  altrimenti  non pienamente descrivibili a causa della  loro inestricabilità; con la pro-messa, al contempo, di superare il riduzionismo dei paradigmi classi-ci, ma anche un certo olismo che provoca sovente un appiattimento misticheggiante  fra diversi  fenomeni del  reale.  Infatti,  il Paradigma della Complessità (PdC) 2 permette una chiara definizione del livello di osservazione.Qui per complessità  si  intenderà una caratteristica di  sistemi com-posti  da  un  “alto  numero”  di  elementi,  meglio  definiti  “agenti”, che  sviluppano  “numerose  interazioni”  locali  “non-lineari” 3.  Le 

1.  S. Freud e J. Breuer, Studi sull’Isteria, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. I, pp. 437-8.2.  Convenzionalmente si può attribuire una prima formalizzazione di questo paradigma ad E. Morin, Introduction à la pensée complexe, Seuil, Parigi 1990; trad. it., Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993 ed a I. Prigogine e I. Stengers, La Nouvelle Allian-ce,  Gallimard,  Parigi  1979;  trad.  it.  La nuova alleanza.  Metamorfosi della scienza,  Einaudi, Torino 1981. Una buona  e  recente panoramica  si  può  reperire nel  testo di Réda Benkirane, La Complexité, vertice ou promesses: 18 histoire de sciences, Le Pommier, Parigi 2002;  trad.  it. La teoria della complessità,  Bollati  Boringhieri,  Torino  2007.  Da  circa  un  decennio  questo paradigma è stato, diciamo così, ufficializzato come paradigma concorrente attraverso la pub-blicazione di due dossier speciali degli autotri R. Gallagher, R. Appenzeller, “Beyond Reduc-tionism”, in Science e Nature, Science, vol. 248, n. 5411, 1999; K. Ziemelis, Complex Systems, Nature, vol. 410, n. 6825, 2001.3.  O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità. Intervento al convegno “Scienze, super-computing e grid computing”, Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma 2004, testo disponibile al sito: http://www1.unipv.it/complexity/press/complexity_Nicrosini.pdf.

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risultanti  rappresentazioni  scientifiche  sono,  pertanto,  modelli  di sistemi – dotati di struttura e comportamento – e correlativi proble-mi; ogni sistema osservato è a sua volta da considerarsi immerso in un sistema che lo comprende e che si chiama “ambiente”. Che cos’è ambiente, che cosa sistema e problema è frutto della scelta del livello di osservazione 4.Nei  sistemi  viventi  i  fenomeni  di  complessità  sono  ubiquitari,  per-tanto utilizzare l’epistemologia dei sistemi complessi per l’uomo ed in psicoterapia non può dire nulla dello specifico dell’umano: resta un contenitore  vuoto… da  riempire.  Solo nel momento  in  cui  avremo compreso e modellizzato le peculiarità del mentale umano potremo comprendere cosa accade  fra  i  sistemi complessi  in questione – due esseri umani  che  interagiscono. Per  giunta, poiché  la psicoterapia  è una prassi  che prevede un’interazione  con  contesto  e  finalità parti-colari,  bisognerà  porsi  anche  la  domanda  su  questa  specifica  inte-razione. Bisognerà  chiedersi  cosa deve  accadere perché  almeno uno dei due partecipanti vada incontro ad un cambiamento, vale a dire: come  si  crea  “artificialmente” una  relazione non  finalizzata  al pour parler, né all’adattamento ad un contesto predefinito bensì alla cura? È vero che tante esperienze, relazioni, eventi possono essere mutativi e migliorativi per un individuo: ma cosa fare perché proprio questa interazione, tra un terapeuta ed un paziente, non sia un rapporto di ripetizione come tutti o tanti altri ma che sia terapeutico?Infine,  il  PdC  è  di  tipo  descrittivo,  non  prescrittivo:  questo  com-porta che gli aspetti applicativi dipendano in via del tutto peculiare dagli obiettivi e dal tipo di sistema considerato.Vi  sono  tre  termini  cardinali  –  relazione,  complessità,  emergenza –  che  ci  accompagneranno  lungo  tutto  il  percorso  e  che  pertanto necessitano di un’esplicazione preliminare.

4.  H. R. Maturana e F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del Vivente, Marsilio, Venezia 2001.

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relazione

Per  relazione  vogliamo  intendere  “connessione  o  corrispondenza  che intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti” 5. L’inter-correre descrive una caratteristica fondamentale della relazione, in quan-to implica un processo di interazione e influenza reciproca. Saranno uti-lizzati i termini relazione ed interazione volendo sottolineare, di volta in volta, con “interazione” l’aspetto più diacronico dello scambio relaziona-le, mentre con “relazione” la corrispondenza colta nella sua sincronicità.Il biofisico Robert Rosen può dire, a buona ragione – quella di fisica e biologia quando riflettono su se stesse – che “this is a relational univer-se” 6. Ma se il fatto è che tout se tient, ogni insieme di agenti si tiene in modo diverso;  l’interazione  gravitazionale  fra  sole-terra-luna o  fra due pulsar  non  dice  nulla  delle  interazioni  fra  le  molecole  all’interno  del ciclo di Krebs e nessuno di questi fenomeni aiuta a spiegare il funziona-mento cerebrale: si possono, certo, reperire alcune analogie che non aiu-tano però a comprendere la peculiarità di quella specifica interazione.

complessità

È  utile  un  ulteriore  chiarimento  che  metta  su  due  piani  differenti  gli oggetti a cui possiamo riconoscere l’attributo della complessità da quelli che definiremo complicati. La radice è comune dal sanscrito prak (poi il greco pleko) e vuol dire di cose mischiate, congiunte; da cui  in  lati-no  sono derivate due ulteriori  radici:  plesso,  che  vuol dire  intrecciato, mischiato e plico che vuol dire piegato, avvolto. Da cui deriva che un fenomeno  complicato  si  può  s-piegare  nei  suoi  componenti  costitutivi mantenendo,  anzi  aumentando,  la  comprensione  dell’insieme;  al  con-

5.  Treccani, Vocabolario della lingua italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1997.6.  R. Rosen, Essays on Life Itself, Columbia University Press 2000.

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trario la trama di un fenomeno complesso non si può sciogliere se non perdendone il senso poiché quest’ultimo è effetto proprio dell’intreccio, dell’organizzazione 7.  Nei  termini  del  PdC  i  sistemi  complicati  sono lineari,  quelli  complessi  non-lineari  –  vale  a  dire  che  in  questi  ultimi l’output  non  è  proporzionale  all’input.  Ad  ogni  modo,  un  sistema complicato  può  essere  anche  molto  difficile  da  descrivere  perché  può contenere un gran numero di elementi, connessioni e parti nascoste. In natura  i  sistemi complicati  sono una rara eccezione; per tale ragione è invalsa l’utile equazione fra lineare, complicato e artificiale.

il sistema complesso

Per descrivere al meglio  il concetto di sistema complesso, è utile discer-nere la sua particolarità rispetto ai sistemi semplici, complicati e caotici. Seguendo Nicrosini 8, possiamo considerare “sistemi semplici” – come un pendolo – oppure “complicati” – come un cronometro meccanico ad alta precisione – i quali evolvono in modo prevedibile. Da un altro lato osser-veremo  sistemi,  siano  essi  strutturalmente  complicati  oppure  semplici come  il  pendolo  doppio  (fig. 1),  i quali, pur governati da una dinami-ca deterministica,  si  comportano  in modo  di  fatto  imprevedibile:  sono i  cosiddetti  “sistemi  caotici”.  Gli effetti  non-lineari  fanno  sì  che,  in certe situazioni, essi manifestino un comportamento criticamente dipen-dente dalle condizioni iniziali 9.

7.  Ibidem; E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit..8.  O. Nicrosini, Aspetti teorici generali: la complessità, cit..9.  Ciò vuol dire che a partire da variazioni infinitesimali delle variabili al tempo iniziale T0, il sistema avrà traiettorie evolutive imprevedibili e divergenti in modo anche esponenziale.

Figura 1

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I  “sistemi  complessi”  non  sono  né  facilmente  prevedibili  né  caotici  e le  leggi del  loro  funzionamento non  sono deducibili  dalle  leggi  valide per  gli  agenti  che  li  compongono.  Un  tale  sistema  manifesta  alcune proprietà  dette  “emergenti”.  In  questi  sistemi  l’analisi  retrospettiva  è complicata,  quella  previsionale  è  complessa.  Vi  sono  diverse  tipologie di organizzazione complessa ed il mentale appartiene a quei sistemi che presentano una forte resilienza 10 ed una struttura molto organizzata in schemi piuttosto stabili, in template di relazione.I  sistemi  complessi  funzionano  come  in-es-plicabile  collettività  –  fon-data  sulla  relazione  fra  agenti,  i  quali  possono  essere  anch’essi  sistemi complessi  ma  la  cui  struttura  diventa  subordinata  al  comportamento. Per  comprendere quest’ultima affermazione, prendiamo come esempio la  formica:  in quanto essere vivente è un sistema complesso ma ha un comportamento relativamente semplice basato sostanzialmente sull’an-tennazione e sulla scia feromonale.Eppure  il  formicaio  è  un  sistema  di  straordinaria  complessità,  dovuta alla  numerosità  (infatti,  società  più  numerose  esibiscono  comporta-menti  più  complessi)  e  all’aleatorietà  dell’esito  interazionale  fra  le  sin-gole  formiche:  due  sistemi  complessi,  dunque,  come  nel  caso  di  due formiche,  possono  intrattenere  fra  loro  una  relazione  non  complessa. Un ottimo esempio di  situazione  esattamente  inversa  è data da quella figura piana delimitata da un contorno frattale che va sotto il nome di “Insieme di Mandelbrot”  (fig. 2).  Il programma che  lo genera consiste di poche righe (la struttura è cioè non complessa), ciononostante esso è stato definito come l’oggetto geometrico dal comportamento più com-plesso che si sia mai visto nella matematica.

10.  Il  termine  indica  sia  la capacità di  resistere a  forze di  rottura che  l’attitudine a  riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.

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Giuseppe Rociola | Complessità e psicoterapia. Esplorazione e fondazione delle condizioni di possibilità della prassi di cura | 243

emergenza

Le proprietà che emergono nel  sistema complesso – come nel caso del nostro  formicaio  –  non  sono  predicibili  in  quanto  rappresentano  un nuovo livello di evoluzione. Ciò è dovuto al fatto che i comportamenti sistemici non sono proprietà dei singoli agenti.Una delle  ragioni  per  cui  si  verifica  un’emergenza  è  che  il  numero  di interazioni non-lineari  tra  le componenti di un sistema aumenta com-binatoriamente  con  il numero delle  componenti  stesse. Alcuni  esempi di sistemi complessi  sono gli ecosistemi,  i grandi sistemi sociali, quelli economici e gli organismi viventi.Questo  è  l’ambito  concettuale  in  cui  ci  muoveremo  per  affrontare  la 

Figura 2

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nostra pertinenza,  che non  sarà  l’uomo dal punto di vista della medi-cina  o  della  chimica  o  della  sociologia.  Non  sarà  il  cervello  che  sicu-ramente  è  un  sistema  complesso  bio-chimico-elettrico 11.  Non  sarà  la società umana, sistema complesso, frutto del comportamento statistico – e a questo livello “cieco” – di migliaia e milioni di individui.Noi  ci  occuperemo  di  quel  fenomeno  che  emerge  dall’interazione  fra l’embodied brain 12  ed  il  mondo:  la  mente,  dispositivo  degli  organismi viventi deputato  alla  gestione della  relazione  con  l’ambiente  e,  al  con-tempo, frutto di quella stessa interazione 13.

body-mind problem ed emergenza

In  primo  luogo  siamo  costretti  ad  attraversare  la  questione  del  body-mind problem,  al  fine  di  circoscrivere  chiaramente  il  nostro  livello  di osservazione e, di conseguenza, l’oggetto di cui ci andremo ad occupa-re. Oggi il problema del rapporto mente-cervello è posto o nei termini di  una  sostanziale  estraneità  della mente  a  qualsiasi  substrato  oppure, dalla  stragrande  maggioranza  degli  studiosi,  come  assimilazione-riduzione  della  mente  al  corpo,  cioè  alle  forze  fisico-chimiche  (come nel caso di LeDoux o Damasio 14). Assoun, già nel 1981 aveva definito quest’ultimo  indirizzo  come  un  “riduzionismo  che  si  oppone  a  qua-lunque  forma di emergentismo che postuli ordini  irriducibili” 15:  se un fenomeno  è  espresso  da  un  organismo  allora  esso  sarà  comprensibile nell’organico – in cui operano, in ultima analisi, forze fisico-chimiche. 

11.  G.M. Edelman e G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazio-ne, Einaudi, Torino 2000.12.  A. Damasio, Emozione e coscienza. Adelphi, Milano 2000.13.  D.  J.  Siegel,  La mente relazionale.  Neurobiologia dell’esperienza interpersonale,  R.  Cortina, Milano 2001.14.  J. LeDoux,  Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, Raffaello Cortina, Milano 2002; Damasio, Emozione e coscienza, cit..15.  P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana. Theoria, Roma-Napoli 1988.

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Vale a dire che il mentale si dovrebbe ridurre alle dinamiche cerebrali.Il  fenomeno  dell’emergenza  permette  una  soluzione  alessandrina  a questo problema in quanto ammette, al contempo, continuità fra i due ambiti  e  distinzione  fenomenologica.  Come  non  esiste  cellula  senza molecole o molecola senza atomi – eppure ciascun dominio riconosce e funziona secondo proprie leggi non riducibili direttamente a quelle del substrato ma da esso prodotte secondo processi emergenziali – allo stes-so modo la mente è il prodotto della complessità del cervello; quest’ul-timo è un sistema, ovviamente  in  interazione con il mondo, di  intera-zioni non-lineari e probabilistiche di miliardi di agenti non-intelligenti – i neuroni quanto al comportamento di scarica nervosa. Questa mente che emerge è a sua volta sistema: semplice come nel caso di un verme piatto oppure molto complesso come la mente umana.Non si tratta di dualismo, bensì della scelta di un livello di osservazio-ne; è d’accordo Maturana, per il quale

i  sistemi  viventi  sono  entità  composte,  strutturalmente  determinate,  che esistono in due domini fenomenici che non si intersecano. […]. [Dunque] non è possibile giungere ad una riduzione fenomenica fra essi. Nel caso del sistema vivente questi due domini fenomenici sono i domini della sua ana-tomia  e  fisiologia  e,  rispettivamente,  il dominio del  suo comportamento. Tale punto di vista invalida la possibilità di ridurre la condotta alla fisiolo-gia che la rende possibile 16.

In tal modo è possibile discernere l’ambito medico del cervello (vedi § “L’infante, colui che non parla”), l’ambito psichico della mente, l’ambi-to sociologico dei grandi gruppi sociali in cui di nuovo, ma ad un livel-lo diverso, si possono produrre leggi e fenomeni peculiari. Questo non vuol dire  che  il mentale non  influisca  sul  reale del  corpo o  sul  livello 

16.  A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution  in complexity science and psychology”,  in Journal of Constructivist Psychology, 9: 4, oct.-nov., pp. 283-302, 1996, (traduzione nostra).

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sociale e viceversa: anzi, sappiamo che è proprio così 17 ma a causa della continuità e non della coincidenza di dominio.Il  mentale  di  cui  stiamo  parlando  fin  qui  è  quel  fenomeno  generico che possiamo osservare in molte specie viventi: è giunto il momento di qualificare  il  mentale  umano  che,  come  cercheremo  di  dimostrare,  si distingue dalle altre menti conosciute in natura.

lo specifico dell’essere umano

Nei  sistemi  complessi  è  essenziale  la  comprensione dei processi  caratte-rizzanti, perché ogni strumento che vorremo essere efficace dovrà essere omologo, essere della stessa “specie”, parlare la stessa lingua. Come sostie-ne Maturana, nella sua dinamica di interazioni un sistema è influenzato solo  da  quegli  agenti  esterni  che  la  sua  struttura  ammette  e  che  in  tal modo specifica 18. A maggior ragione ne dobbiamo tenere conto in vista di una strumentalità modificativa, nel nostro caso detta terapeutica.Da  diverso  tempo  si  afferma  che,  in  qualche  misura,  vi  sono  degli effetti terapeutici a prescindere dall’orientamento teorico-clinico di chi somministra  il  trattamento.  Questa  democraticità  del  fattore  terapeu-tico  dipenderebbe,  deducono,  principalmente  dai  fattori  aspecifici  di una  intersoggettività  che potremmo definire  “buona” 19. Così,  almeno, 

17.  Y.  Kozorovitskiy  et  al.  hanno  dimostrato  come  l’esperienza  nell’accudimento  di  prole da  parte  di  genitori  più  esperti  di  primati  del  genere  Callithrix  aumenti  la  sinaptogenesi  e  la neurogenesi nel cucciolo; Y. Kozorovitskiy, M. Hughes, K. Lee, E. Gould, “Fatherhood affects dendritic spines and vasopressin V1 a receptors in the primate prefrontal cortex”, in Nature Neu-roscience, sep., 9 (9):1094-5, 2006. Wykes et al. hanno “fotografato” i cambiamenti nell’attività cerebrale a seguito di interventi psicoterapici in soggetti schizofrenici, T. Wykes, M. Brammer, J. Mellers, P. Bray, C. Reeder, C. Williams, J. Corner, Effects on the brain of a psychological treat-ment: cognitive remediation therapy: functional magnetic resonance imaging in schizophrenia, Br. J. Psychiatry, aug, 181:144-52, 2002.18.  A. B. Ruiz, “Humberto Maturana contribution in complexity science and psychology”, cit..19.  M. J. Lambert e D. E. Barley, Research summary on the therapeutic relationship and psycho-therapy outcome. Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 38(4), 357-361, 2001;  J. L. Krupnick, S. M. Sotsky, I. Elkin, S. Simmens, J. Moyer, J. Watkins, P. A. Pilkonis, The role of

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affermano le testimonianze – certo non sempre cristalline ed in buona fede  –  della  comunità  scientifica  per  il  tramite  di  quel  servo  esigente come un padrone che è la Evidence Based Medicine. In uno studio di trent’anni  fa  i  risultati  indicarono,  addirittura,  che docenti  “esperti  in relazione”  ottenevano  migliori  risultati  in una  terapia  breve  rispetto  a psicoterapeuti professionisti 20.Al  di  là  del  giudizio  sulla  bontà  di  questi  studi,  bisogna  comunque chiedersi  se  è  veramente  l’implementazione  di  una  “buona”  dinamica intersoggettiva il fattore aspecifico. Noi crediamo che, in realtà, la rela-zione  in  psicoterapia  costituisca  il  supporto  funzionale  in  cui  bisogna riconoscere fenomeni specifici che dobbiamo dedurre dalla costituzione peculiare della mente dell’Homo Sapiens Sapiens. D’altronde, è possibi-le  che  i  nostri  pazienti non  abbiamo mai  in  vita  loro  incontrato delle “buone” persone, capaci di avere “buone” relazioni?La  relazione  è  senza  dubbio  l’elemento  su  cui  si  gioca  la  terapia,  ma solo in quanto è la condizione perché un qualsiasi processo possa essere messo  in atto;  farla assurgere a  fattore  terapeutico porta ad un appiat-timento nella teoria e poi nella clinica. Se l’intersoggettività, chiunque la  somministri  o,  meglio,  la  amministri,  ha  degli  effetti,  dobbiamo chiederci cos’è che viene veicolato o messo in funzione attraverso essa.In  ogni  dominio  ciò  che  abbiamo  chiamato  interazione  è  un  proces-so  informazionale 21,  nella  sua  totalità,  comprendente  anche  la  non-relazione  che  può  essere  comunque  una  relazione  informativa 22.  Il paradigma della complessità permette di comprendere al meglio questa comunicazione, questa relazionalità, che nei  sistemi viventi assume un 

the therapeutic alliance in psychotherapy and pharmacotherapy outcome: findings,  in The National Institute of Mental Health Treatment of Depression Collaborative Research Program,  J.  Consul. Clin. Psychol. 64:532-539, 1996.20.  H.  H.  Strupp  e  S.  W.  Hadley,  Specific vs. nonspecific factors in psychotherapy: a controlled study of outcome, Arch.. Gen Psychiatry 36:1125-1136, 1979.21.  G.  Tononi,  Galileo e il fotodiodo. Cervello, complessità e coscienza,  Laterza,  Bari  2003;  R. Nobili, Basi fisiche della complessità biologica e genesi della coscienza, 2001. Testo disponibile  al sito: http://www.psychiatryonline.it/ital/nobili.htm.22.  R. Rosen, Essays on Life Itself, cit..

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connotato palesemente simbolico. Come afferma Morin 23, c’è “un trat-tamento di simboli”, e “lo specifico di ogni organizzazione vivente […] è  la  sua dimensione  cognitiva  inseparabile  dall’organizzazione”. Pattee scrive che nei sistemi complessi in cui emerge la vita c’è bisogno di un insieme di meccanismi di  controllo  e  auto/etero-regolazione 24  (risuona qui  l’auto-eco  di  Le  Moigne 25)  che  ad  ogni  livello  di  osservazione  si presenta  come  un  insieme  di  vincoli  coerenti  che  crea  un  contenuto simbolico o un messaggio in strutture fisiche; in altre parole, un insie-me di  vincoli  che  si  costituisce  come  struttura di  linguaggio. Ancora, rispetto  all’essere  umano,  secondo  Tronik 26  “la  regolazione  interattiva e  l’autoregolazione  si  intrecciano  in un  continuo  scambio. Ogni  com-portamento  è  al  tempo  stesso  comunicativo  e  auto-regolativo”.  Ora, dovrebbe  essere  chiaro  come,  a  questo  dettaglio  di  descrizione,  pur cogliendo  un  aspetto  fondante  del  funzionamento  dei  sistemi,  non  è possibile  distinguere  adeguatamente  le  interazioni  che  avvengono  fra le  molecole  nel  ciclo  di  Krebs,  fra  due  formiche,  in  una  chiacchie-rata  al  bar  fra  amici  o,  peggio,  nell’interazione  paziente-terapeuta.Bisogna fare un passo in avanti e porre la domanda in modo corretto: qual è lo specifico processo informazionale dell’organizzazione sistemi-ca che produce ed ha prodotto l’emergenza del mentale umano e che in tal modo lo specifica? La nostra risposta è che se ogni dominio di com-plessità  è  fondato  sull’emergenza  di  processi  informazionali  che  negli esseri viventi assumono un connotato simbolico, nell’uomo assistiamo, stupefatti, ad una radicalizzazione: esiliato dalla coincidenza con i  lin-guaggi dei livelli precedenti (fisici, chimici, biologici – dove per gli altri viventi c’è solo il bisogno e non il desiderio)  l’essere umano va ad abi-

23.  E. Morin, “Computo, ergo sum”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:263-282, 2007.24.  H. H. Pattee,  “The physics of  symbols: bridging  the epistemic cut”,  in Biosystems. 60:1-3, pp. 5-21, May 2001.25.  J. L. Le Moigne, “I tre tempi della modellizzazione dei sistemi: entropico, antropico, teleolo-gico”, in Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3: 283-298, 2007.26.  E.  Tronik,  “Dyadically  expanded  states  of  consciousness  and  the  process  of  therapeutic change” in Infant Mental Health Journal, XIX, 3:290-99, 1998.

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tare una  terra  straniera dove  tutto per  lui è allegoria e corrispondenza arbitraria: la terra del linguaggio simbolico delle società umane.In questo senso, per comprendere il mentale umano dobbiamo fare un passo  ulteriore  rispetto  al  fenomeno  emergenziale  della  mente  –  vedi la “Teoria del complesso cosciente” di Tononi 27 – e definire il mentale umano come quel complesso cosciente  linguistico. Sosteniamo che  sia proprio il  linguaggio il fattore che determina l’emergenza di un domi-nio  specifico  il quale,  rispetto alle  altre  forme mentali,  va molto al di là  dei  processi  di  regolazione  automatica  e  procedurale,  mettendo  in secondo piano (non certo escludendo) gli aspetti strutturali e funzionali dei processi psicofisiologici sottostanti.L’eccezionalità  del  linguaggio  dell’essere  umano,  che  ciascuno  coglie con l’intuito, consiste nel fatto che “pur avendo altre specie di animali un linguaggio, si tratta sempre di forme rudimentali non paragonabili né  qualitativamente  né  quantitativamente  al  linguaggio  umano” 28.  E sono proprio “quantità” e “qualità” (caratteristiche chiave nel PdC) del linguaggio simbolico del Sapiens a produrre le condizioni di possibilità della complessità e quindi l’ulteriore emergenza del mentale umano che chiamiamo “psiche”.Non siamo soli nella contemplazione di questa straordinarietà che si fa peculiarità: Edelman (ibidem) sostiene che “la riflessività autocosciente dell’uomo s’inscrive nell’orbita del  linguaggio e sorge  in concomitanza ad esso”. Maturana afferma che “noi esseri umani siamo sistemi viventi che esistono nel linguaggio” e chiama l’essere umano il  linguaggiante 29 – espressione che ricorda il precedente parlessere di Lacan. Varela consi-dera la sua eccentrica coscienza inseparabile “dalla vita del  linguaggio, dall’intero  ciclo  dell’interazione  empatica  socialmente  mediato” 30. 

27.  G. Tononi, ibidem.28.  M. D. Hauser, N. Chomsky, W. T. Fitch, “The Faculty of language: What is it, who has it, and how did it evolves”, in Science, vol. 298, no. 5598, pp. 1569-1579, 1998.29.  H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina, Milano 1993.30.  F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1992.

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Damasio (ibidem), infine, sostiene che la coscienza estesa “raggiunge il suo massimo livello con gli esseri umani, grazie al linguaggio” 31.Nonostante tutto, si può non dare retta alla peculiarità che l’ordine sim-bolico assume per l’uomo: se si vuole considerare che egli, in fondo, non presenta discontinuità rispetto ad altri viventi;  se si  riduce – bisognerà accludere alla gamma dei riduzionismi anche quello psicoanalitico – se si  riduce  l’Inconscio  ad  un  suo  aggettivo  potendosene  perciò  liberare con  l’adozione  dell’“implicito”;  se  si  dà  al  linguaggio  una  funzione puramente  strumentale  e  graduale  nell’evoluzione  senza  riconoscergli l’effetto rivoluzionario e decisivo nella costituzione dell’essere umano.

il linguaggio

Il  linguaggio dell’Homo Sapiens Sapiens è una facoltà che si costituisce in struttura strutturante come sistema di comunicazione e di pensiero. Secondo le tesi saussuriane e gli sviluppi della pragmatica, ha le seguen-ti caratteristiche:– è fondata su di un’astrazione originaria;– si costituisce sulla base di un’arbitrarietà;–  a partire da tale arbitrarietà, però, si fonda un convenire sociale, mai 

completo e conchiuso, che scivola sul piano inclinato della storia;–  è una struttura di relazioni: il valore proprio di un elemento significan-

te deriva dal suo confronto e dalla sua opposizione ad altri elementi;–  è azione.Il non-verbale,  termine  a  cui  spesso  si  riduce  l’apparato dell’implicito, viene usualmente  contrapposto  al  verbale. Al  contrario qui  si  sostiene che  bisogna  leggere  il  linguaggio  come  una  “macroemergenza” 32,  un elemento,  cioè,  che ha  ristrutturato  l’interezza del  sistema mentale, di 

31.  A. Damasio, Emozione e coscienza, cit..32.  E. Pessa, Emergence, Self-Organization, and Quantum Theory, in G. Minati (a cura di), First Italian Conference on Systemics, Apogeo, Milano 1998.

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cui  si  coglie  la  forma  solo  peculiarmente  nella  sua  forma  verbale.  In realtà, un ebanista che intaglia un ciocco, in silenzio, sta parlando. Una donna che arrossisce sta solo tradendo un segreto inconfessabile, che ne sia  consapevole  o  no 33.  A  causa  della  macroemergenza  possiamo  dire che  il  linguaggio  impasta gli  altri  registri. Tanto è  immerso  in questo universo  linguistico  l’essere  umano  che  anche  il  non-verbale  si  deve inscrivere in un registro prettamente simbolico, come ha scoperto Freud negli atti sintomatici ed in quelli mancati 34. Il non-verbale, tutt’al più, concorre  alla  cifra  dell’Inconscio  in  maniera  maggiore  che  all’inten-zionalità  conscia. Non è un caso  che nell’evoluzione  l’uso delle parole coincida con la capacità (non verbale) di compiere movimenti raffinati come testimonia  il  livello degli utensili  trovati negli  strati archeologici risalenti a circa 200.000 anni fa 35,  in concomitanza con la speciazione dell’Homo Sapiens. Questo mette bene in evidenza come il linguaggio si situi nella dimensione dell’azione, come verbale e non verbale siano per l’uomo  affetti  dal  linguaggio;  nell’uso,  difatti,  la  maggior  parte  degli enunciati servono a compiere delle vere e proprie azioni 36.Possiamo perciò rispondere ad una delle domande poste prima, forse la più importante, affermando che la “materia” caratteristica del processo informazionale  dell’essere  umano  è  la  comunicazione  simbolica,  non quella che, a questo punto, dobbiamo chiamare parasimbolica – dimi-nutio  necessaria  –  o  immaginaria  degli  altri  sistemi  viventi.  Possiamo definire  il  linguaggio  parasimbolico  come  la  capacità  di  comunicare con  alcune  “parole”  in  un  codice  immaginario  propriamente  associa-tivo 37.  A  nostro  avviso  non  è  un  caso  che  animali  con  un  linguaggio –  immaginario  –  più  evoluto  riescano  ad  esprimere  abilità  evolute, nonostante  substrati  nervosi  e  linee  evolutive  anche  molto  differenti. 

33.  “Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori”, S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’ inconscio, in Opere, cit..34.  S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, cit., vol. IV.35.  G. A. Miller, Linguaggio e parola, Il Mulino, Bologna 1983.36.  J. L. Austin, Come fare cose con le parole. Trad. it. Marietti, Genova 1987.37.  E. M. Macphail, The Evolution of Consciousness, Oxford University Press, Oxford-New York.

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Per esempio animali privi di neocorteccia come le gazze ladre possono riconoscersi allo specchio 38, sono cioè presenti a(d un abbozzo di) sé 39: non ci dovrebbe stupire a questo punto che questi volatili passino molto tempo  in  “conversazione” 40.  Ancora,  un  insetto  come  l’ape  mellifera, dotata  di  un  linguaggio  molto  evoluto  –  la  famosa  danza  delle  api,  è capace di  riconoscere  face-like  stimuli  (stilizzazioni di volti umani)  fra altri stimoli 41. Ciò è straordinario per due motivi: per le api i volti sono stimoli biologicamente irrilevanti; tale capacità viene sviluppata con un minuscolo e molto  semplice apparato nervoso, quando  la  stessa abilità coinvolge diverse ed estese aree del cervello di mammiferi e dell’uomo in particolare. Si tratta di prove, indirette, dell’ipotesi emergenziale del mentale; di conseguenza del fatto che tale nuovo dominio può esprime-re funzioni e proprietà non spiegabili attraverso le strutture sottostanti. Infine,  indica  che  l’Io  è  un  prodotto  immaginario,  che  ha  a  che  fare con  la dimensione dell’intelligenza e della  cognizione e che, di  conse-guenza, procede secondo logiche additive, addestrative.La  comunicazione  immaginaria  fra  animali  è  data;  vi  possono  certo essere alcune “inflessioni dialettali” ma resta comunque chiusa e finita. 

38.  H.  Prior,  A.  Schwarz,  O.  Güntürkün,  Mirror-Induced Behavior in the Magpie (Pica pica): Evidence of Self-Recognition, PLoS Biol. August, 6(8): e 202, 2008.39.  Una simile facoltà era stata documentata in alcuni primati: M. D. Hauser, J. Kralik, C. Bot-to-Mahan, M. Garrett, J. Oser, Self-recognition in primates: phylogeny and the salience of species-typical features, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A, nov. 7;92(23):10811-14, 1995. Nei delfini: D. Reiss, L. Marino L., Mirror self-recognition in the bottlenose dolphin: a case of cognitive convergence, Proc. Natl. Acad. Sci. U S A, May 8;98(10):5937-42, 2001. Negli  elefanti:  J. M. Plotnik, F.B.M de Waal, D. Reiss, “Self-recognition in an Asian elephant”, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 103, n. 45, 2006. Si trattava comunque di mammiferi con grossi cervelli e dotati di neocorteccia. Ha suscitato molte questioni il fatto che ne sia capace anche un uccello, che ha una linea evolutiva molto diversa dai mammiferi ed un cervello così “primitivo”. Potremmo ipotizza-re che la capacità di riconoscere se stessi (la propria immagine) sia l’apice evolutivo del processo informazionale  immaginario. Questa psicologia comparata avvalla  l’intuizione  lacaniana di un io di natura sostanzialmente immaginaria.40.  J. M. S. Ellis, T. A. Langen & E. C. Berg, “Signalling for food and sex? Begging by repro-ductive female white-throated magpie-jays”, in Animal Behaviour, vol:78(3), 615-623, 2009.41.  A. Avarguès-Weber, G. Portelli,  J. Benard, A. Dyer, M. Giurfa, Configural processing ena-bles discrimination and categorization of face-like stimuli in honeybees,  J. Exp. Biol. Feb, 213(Pt 4):593-601, 2010.

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Ciò vuol dire che se anche è possibile reperire differenze fra un alveare e l’altro o fra un pod di delfini e l’altro i significati sono pre-fissati. Tale comunicazione si può attestare più che altro sull’emozione o l’intenzio-ne di quel preciso momento, in uno stato confusivo, come è l’immagi-nario del sé e dell’altro; quella umana, simbolica, è non-finita e separata dal  significato: non è  l’unità della parola che determina un significato in maniera inequivocabile, bensì è  la catena,  la successione,  il discorso che genera un significato. Questa distanza dal significato 42 al contempo permette  di  riferirsi  anche  alla  non  attualità,  oppure  alla  descrizione dello  stato di un altro  individuo percepito come altro da  sé 43. Difatti, è il linguaggio umano che propriamente introduce l’alterità. Una scim-mia non può riferire di un avvenimento accaduto ad un’altra scimmia e un’ape non può indicare con la sua danza dove spera di trovare cibo domani.  Un’ape  costruirà  sempre  celle  esagonali;  gli  architetti  hanno progettato un’innumerabile varietà e continueranno a farlo. Il linguag-gio  simbolico umano produce un processamento  informazionale  radi-calmente  diverso,  basato  su  di  un’astrazione  fondamentale,  originaria, attraverso cui la corrispondenza con la cosa, Das Ding, è definitivamen-te perduta. È attraverso questa strada che si accede di diritto o, quanto-meno, di potenzialità al genere umano.Tale  astrazione  non  può  che  nascere  all’interno  di  un’interazione  pri-maria con i caregiver, vere e proprie agenzie di linguaggio. Nell’ontoge-nesi il linguaggio continua a venire da fuori per ogni infante; inoltre è “esterno”, “altro” non solo perché lo precede ma anche nel senso che esso può essere considerato come l’espressione di un processo di progressiva ritualizzazione del riconoscimento delle relazioni sociali 44. Il linguaggio è  relazione,  è  interiorizzazione  di  relazioni,  è  trascrizione  di  relazioni. 

42.  Con la conseguente proprietà ricorsiva del linguaggio umano, cioè che un enunciato possa essere oggetto di un altro enunciato.43.  Lo aveva già notato Aristotele; vedi Id., Politica, Il Mulino, Bologna 2009.44.  I.  Eibl-Eibesfeldt  et  al.,  Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

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Qualcosa  di  simile  ci  aveva  già  annunciato  Lévi-Strauss:  nell’essere umano,  il  linguaggio  è  la  simbolizzazione,  la  matematizzazione  delle relazioni  sociali,  che  sono  a  loro  volta un  linguaggio 45 –  affermazione che possiamo sottoscrivere nell’ottica dei sistemi complessi.Così, per  l’uomo,  la  relazione è  sia  linguaggio esplicito che  linguaggio implicito,  incorporato,  sempre  funzionale  perché  nato  in  quella  inte-razione  (in quel processo  informazionale)  e quindi organizzato  in una biografia possibile. Questa intima relazione ci permette di palesare una delle condizioni di possibilità della prassi psicoterapica  in quanto ogni enunciato o proposizione linguistica enunciante, raffigura proprio quel-la  relazione  fra  elementi  mentali  che,  nel  loro  auto  riferimento  conti-nuo, configurano l’individuo nella sua soggettualità. Soggettualità che, per  la  natura  del  linguaggio,  può  essere  oggetto  di  riflessività  sempre nell’istante successivo, mai nel medesimo 46 come successiva e differen-ziale è la parola nel linguaggio.Un ultimo argomento. Non è questo il  luogo per presentare nel detta-glio  le  storie degli enfant sauvage che si  impongono come  la prova più trascurata  della  determinazione  dell’ambiente  linguistico  umano  sullo sviluppo  dell’umano  stesso  –  non  intendo,  sia  chiaro,  che  è  l’ambien-te  da  solo  a  decidere  dello  sviluppo  della  soggettualità,  ma  che  senza ambiente  socio-linguistico  non  ci  può  essere  soggettualità.  I  bambini selvaggi non hanno empatia (quel tipo di comunicazione immaginaria che  osserviamo  negli  esseri  umani)  –  nonostante  i  neuroni  specchio funzionanti – e non fanno domande. Hanno un occhio spento, bovino – come riportano invariabilmente le cronache 47 – tanto che le loro con-dizioni,  spesso  irreversibili nonostante  i migliori  tentativi,  suggerirono a  Linneo,  nel  suo  furor ordinandi,  di  distinguerli  dall’Homo Sapiens Sapiens.  Nessuno  può  oggi  condividere  l’impietosa  burocrazia  del catalogatore; noi  li  includeremmo – e  li  includiamo visto che  l’ultimo 

45.  C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Edizioni Net, Milano 2002.46.  H. Maturana, Autocoscienza e realtà, cit..47.  A.M. Ludovico, Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza, Aracne, Roma.

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è stato trovato pochi anni fa in India – con un grande abbraccio nella nostra comunità, come peraltro nella prassi è stato quasi sempre fatto, al  di  là  del  giudizio  scientifico,  anche  se  fosse  per  la  sola  potenzialità profonda di cui sono comunque portatori.

l’infante, colui che non parla

Quando negli anni ‘70 si andò ad interrogare direttamente il bambi-no fin dalla nascita, vi fu una vera e propria rivoluzione nell’intendere sia lo sviluppo che il modo di stare al mondo del cucciolo d’uomo. In sintesi, l’infante si dimostrò attivo, alla ricerca di stimoli, con un suo corredo  –  invero  molto  limitato  –  di  tendenze  istintive,  fra  cui  una propensione all’abbinamento al suo caregiver – il cosiddetto “attacca-mento” 48 – e ad una regolazione ecologica (dunque sia auto che etero) per  a-ccordarsi  con  l’ambiente  attuale  allo  scopo  di  vivere 49.  Questo movimento  di  indagine  scientifica,  detto  dell’Infant Research,  deve  a Sander il primo modello interpretativo, attraverso i suoi studi sull’in-terazione  nel  sistema  diadico  madre-bambino 50.  I  risultati  sorpren-denti di queste ricerche hanno tuttavia portato ad un traboccamento dei suoi modelli nella psicoterapia dell’adulto 51. In questa traslazione, uno dei concetti di maggior fortuna è stato quello di implicito che, in sostanza,  fa riferimento alla memoria procedurale. Se a Freud hanno dato  colpa  di  aver  inventato  un  bambino  a  partire  dall’adulto  pato-logico,  gli  stessi  hanno  prodotto  un’invenzione  ben  più  pindarica: 

48.  J. Bowlby, Attaccamento e perdita: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975, vol. II.49.  Abbinamento è da intendersi couplage (Varela, ibidem); a-ccordarsi, per via etimologica, ha il senso di con-venire, in-tendersi attraverso o, meglio, nel couplage; per attuale si intende l’ambien-te in atto, così com’è; vivere, infine, ha il senso di stare-al-mondo.50.  L. Sander, “The regulation of exchange in the  infant-caretaker system and some aspect of the context-content relationship”, in M. Lewis, L. Rosenblum (a cura di), Interaction, Conversa-tion, and the Development of Language, Wiley.51.  B. Beebe e F. M. Lachmann, Infant Research e Trattamento degli Adulti. Un modello sistemico diadico delle interazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

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un  adulto  –  patologico  e  normale  –  a  partire  dall’infante,  da  colui che  non  parla.  Alla  sottovalutazione  della  discontinuità  di  dominio (cerebrale-procedurale/soggettuale)  si  è  aggiunto  il  misconoscimento di  quella  frattura  storica  dovuta  alla  macroemergenza  che  si  installa a  partire  dall’acquisizione  sociale  del  linguaggio.  Ribadiamo  che  si tratta  di  una  discontinuità  non  assoluta  bensì  delle  leggi  organizza-tive  che  regolano  il  livello della  soggettualità:  per  così  dire,  nessuno può  realmente  muovere  la  mano,  nessun  soggetto  può,  cioè,  inviare l’impulso nervoso dai centri motori corticali,  ai  centri  sottocorticali, al  cervelletto,  ai  motoneuroni  del  tronco  dell’encefalo  ed  infine  al midollo  spinale.  Piuttosto  si  può  prendere  un  oggetto,  manipolarne un altro, stringere una mano, decidere di muoverla. Allo stesso modo Husserl ebbe a dire che non intendiamo sensazioni uditive, bensì una canzone 52. Semplificando enormemente,  se nel  couplage,  tendendo  la mano, non ho  trovato nessuno oppure un qualcuno molesto  forse  la muoverò in modo timido, impacciato oppure, al contrario, d’impulso o  ancora  in  modo  aggressivo.  In  questa  irriducibile  incertezza  delle conseguenza di un’assenza o di una presenza molesta, la disgiunzione, la frattura tra implicito e soggettualità risulta già evidente.Partire dall’infante nei termini della scuola dell’implicito, porta ad una visione dell’uomo che lambisce soltanto il dominio in cui si sviluppa la soggettualità – pertanto non vi può far presa se non accidentalmente, quell’accidentalità che viene denominata “fattore aspecifico” delle psi-coterapie, la quale, in realtà, deriva dall’inevitabile utilizzo del linguag-gio  in  ogni  approccio.  Inoltre  ne  risulta  un  che  di  pedagogico  nella concezione  della  clinica  ed  infatti  la  letteratura  è  pervasa  da  termini quali  imparare,  fare esperienza, apprendere – con  l’evidente proposito di aggiungere qualcosa alle “deficienze” del paziente. Per questi lontani colleghi, il terapeuta deve assumere “i ruoli interattivi che permettono al  paziente  di  trovare  gli  ingredienti  per  costruire  le  dimensioni  di 

52.  E. Husserl, Ricerche logiche, Ed. Net, Milano 2005.

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funzionamento mentale  (i MOI)  che  gli mancano per  avere  relazioni di attaccamento soddisfacenti” 53. Questa concezione può essere di per-tinenza del sistema cervello oppure, a seconda dei casi, dell’Io a cui il procedurale –  teoricamente e  clinicamente –  si deve  riferire:  a questo livello è concepibile, perché no!, una terapia bottom-up che possa “atte-nuare le perdite funzionali” causate per esempio dal decorso della schi-zofrenia 54. Si tratta di terapie di cognitive remediation le quali, partendo dai risultati sperimentali che evidenziano un certo deficit nella working memory dei pazienti schizofrenici, mettono in atto una serie di sedute addestrative che migliorano tali facoltà implicite.Qualora fosse il procedurale a cambiare, cioè per apprendimento, sareb-be di nessun interesse ai fini della cura della soggettività. Tali appren-dimenti  si  producono  con  tecniche  addestrative  o  anche  di  Human Resource and Development  e  di  Empowerment;  ora,  poiché  una  prassi di cura della soggettività deve avere il suo riferimento nell’etica 55 e non certo nell’estetica, non vedremmo la ragione di continuare a tirar su la Sagrada Familia del corpus teorico delle talking therapy, quando è suffi-ciente una piccola porzione per avere l’effetto salvifico dell’indulgenza.Se,  comunque,  ci  volessimo  situare  al  livello  dei  processi  impliciti, dovremmo, anche qui, evidenziare, come fa lo stesso Rizzolatti, che “la cosa interessante circa la scoperta dei neuroni specchio 56 è che essi sono stati osservati  in un’area cerebrale dei primati che  sembra essere corri-spondente  all’area  di  Broca  negli  esseri  umani” 57.  Negli  esseri  umani, 

53.  C. Albasi, Attaccamenti traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati, Utet, Torino.54.  R. A. Adcock, C. Dale, M. Fisher, S. Aldebot, A. Genevsky, G. V. Simpson, S. Nagarajan, S.  Vinogradov,  When top-down meets bottom-up: auditory training enhances verbal memory in schizophrenia, Schizophr. Bull. Nov.; 35(6):1132-41.55.  J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994. Il termine va qui  inteso nel  senso  “dell’apporto  specifico della  rivoluzione  freudiana  riguardo  il  rapporto dell’azione con il desiderio che la abita; desiderio che comporta la dimensione dell’Inconscio”.56.  Non a caso altro cavallo di battaglia della scuola dell’implicito.57.  E.  Kohler,  C.  Keysers,  M.  A.  Umiltà,  L.  Fogassi,  V.  Gallese,  G.  Rizzolatti  (2002),  Hea-ring sounds, understanding actions: action representation in mirror neurons  in  Science,  Aug.  2; 297(5582):846-8.

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l’attività dei cosiddetti neuroni specchio è cioè senz’altro da collegarsi al linguaggio 58.Per concludere, affermiamo che è a partire dalla macroemergenza lingui-stica che possiamo addentrarci nella comprensione dei processi peculiari che osserviamo nell’essere umano. È a questo livello che possiamo comin-ciare  a parlare di  soggetto Sapiens  che  si  distingue dal  soggetto Canis per la non presenza a sé e dal soggetto Koko – merita almeno la parola del nome  la gorilla  famosa per  il  suo utilizzo del  linguaggio dei  segni che fu vista riconoscersi allo specchio – per un abbozzo di presenza a sé.Dunque, si arriva al cuore dell’esperienza umana solo se la si legge nel suo statuto simbolico.

il soggetto sapiens

Sappiamo che ogni sistema complesso si costituisce attraverso lo svilup-po di regolarità nell’interazione con l’ambiente. Questo processo auto-eco-regolativo,  il  couplage  di  Varela,  negli  esseri  viventi  appare  dotato dello scopo di stare-al-mondo. Nell’uomo il linguaggio pesa in maniera determinante  in  questa  interazione  e,  al  livello  psichico,  costituisce  la sua dimensione soggettuale. Questo processo che avviene per la media-zione  linguistica  produce  l’esilio  dell’uomo  dalla  coincidenza  con  se stesso e con il mondo e, correlativamente, la possibilità di una presenza a  se  stesso:  “è  nel  linguaggio  e  mediante  il  linguaggio  che  l’uomo  si costituisce  come  soggetto” 59.  A  differenza  delle  altre  specie  viventi,  si può ritrovare non solo osservatore di sé ma anche narratore di ciò che – noi  lo  sappiamo ma  il  soggetto  che prendiamo  in  cura  spesso no – nell’ambiente  in cui è venuto al mondo egli  stesso ha co-costruito. Le 

58.  G.  Buccino,  F.  Binkofski,  G.  R.  Fink,  L.  Fadiga,  L.  Fogassi,  V.  Gallese,  R.  J.  Seitz,  K. Zilles, G. Rizzolatti, H.  J. Freund, Action observation activates premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study in Eur. J. Neurosc., Jan.; 13(2):400-4.59.  E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Trad. it. Milano, Saggiatore 1994.

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regolarità  che  costituiscono  il  suo  essere-al-mondo,  però,  gli  risultano intemporali, impersonali e incantatorie: eludono questa “responsabilità” agli occhi del soggetto stesso. Tant’è che ciascuno afferma la supposta oggettività,  “cosità”  della  sua  propria  articolazione  fantasmatica:  il mondo, gli altri, il sintomo sembrano dati. D’altronde, questa “resisten-za” è comprensibile: infatti, cosa troverebbe il soggetto sapiens dietro il suo aver articolato queste regolarità, questo couplage? Il vero sé di Win-nicott? L’autenticità di Rogers? Sartre afferma che l’essere umano è a se stesso insufficiente in quanto non può essere se stesso ma solo presenza a se stesso 60. La visione del filosofo trova una ragione logica nel mate-matico: la dimostrazione di Gödel dell’incompletezza dell’aritmetica – e quindi di ogni linguaggio di cui la matematica è, in un certo modo, il compimento – colloca l’uomo nell’unico luogo possibile per un soggetto parlante che è solo la presenza a sé 61. Al di qua e al di là di questa pre-senza, per l’uomo, non c’è niente 62: nel senso che vi è una realtà incom-mensurabile se non per quella presa parziale dell’ordine simbolico. Ciò istituisce nell’esistenza umana una “mancanza”  insita e correlativa alla 

60.  J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991.61.  Un’altra  conseguenza  che  vogliamo  trarre  dalla  straordinaria  opera  di  Gödel  riguarda  il rapporto mente-cervello e va a corroborare la tesi di una diversità di dominio. La dimostrazione è  indiretta:  R.  Penrose,  La Mente Nuova dell’Imperatore,  Rizzoli  Ed.,  Milano  2000;  sostiene che a causa della dimostrazione di  incompletezza viene vanificata ogni  ipotesi  computazionale della mente; e poiché parte dall’ipotesi della assoluta coincidenza fra mente e cervello ne deduce che nel sistema nervoso vi devono essere fenomeni di tipo non meccanicistico, quali sono quelli quantistici. In effetti, a partire dall’ipotesi della coincidenza fra mente e cervello non vedremmo neanche noi altra via d’uscita. Recentemente, però, M. Tegmark, “The importance of quantum decoherence in brain processes”, in E. Physical Review, Vol 61:4194-4206, 2000, ha dimostrato che  la  scala di  tempo di  attivazione ed eccitazione di un neurone  (nelle  sinapsi  è di 10−1  e nei microtubuli  è  di  10−3)  è  enormemente più bassa di  quella  dei  fenomeni quantistici  (da 10−13  a 10−20).  Confutata  l’ipotesi  quantistica,  non  resta  che  l’ipotesi  della  complessità  linguistica  che qui  tentiamo  di  dimostrare.  Ad  ogni  modo,  per  rispetto  della  cautela  che  portò  Gödel  a  non trarre mai dai  suoi  teoremi delle  conclusioni  sulla  filosofia della mente,  bisogna  ricordare  che una teoria non è nient’altro che un insieme di proposizioni sistematizzate  in costruzioni razio-nalizzate  e  altamente  sviluppate,  che  hanno  un  notevole  grado  di  coerenza  interna,  una  volta ammessi gli assunti di base: questa è anche la definizione di delirio data da Frazier: S. H. Frazier e A. C. Carr, Introduction to Psychopathology, Jason Aronson, New York, citato in R. Goldestein, Incompletezza. La dimostrazione e il paradosso di Kurt Gödel, Codice ed., Torino 2006.62.  J.-A. Miller, Logiche della vita amorosa, Astrolabio, Roma 1997.

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soggettualità: non è mancanza degli altri, non è mancanza causata dagli altri, bensì è l’insufficienza dell’ordine simbolico a ricoprire interamen-te  il reale, è  l’effetto di quel ritaglio simbolico che produce  il  soggetto e di conseguenza la possibilità della presenza a sé. D’altronde se l’uomo può, in una certa misura, essere libero è proprio a causa di questo suo ergersi su di un piedistallo sospeso sul nulla.Tale organizzazione ad essere nel linguaggio si costituisce nel e costitui-sce il paradosso fra soggettività strutturata-strutturante e incompletezza; fra  ripetizione del  couplage  e  possibilità  di  un  cambiamento;  fra  libertà condizionata e nulla. Il cambiamento e la soggettività, che è invenzione di  una  singolarità,  possono  darsi  solo  grazie  al  nulla  su  cui  poggiano, a  quella  libertà  sartriana  che  può  esistere  solo  in  quanto  “scelta”  –  tra virgolette  perché  inconscia  –  di  una  strutturazione  significante  che chiamiamo soggetto. All’interno di questa organizzazione singolare, pos-siamo  definire  l’inconscio  come  la  struttura  stessa  del  soggetto:  che  va senz’altro distinto dall’io, parte immaginaria frutto e motore dei processi identificativi – compresi pertanto quelli empatici, le specularità “infanti-li”, la reciprocità non-verbale e così via. È vero, come affermò Meyerhold, che “le parole non dicono tutto” 63: il problema è che non c’è altro modo di dirlo; e la soggettualità del Sapiens nasce dall’essere detto e con il dire.Se  ci  riferiamo al non-linguistico nella  sua  “cosità”  esso non esiste per l’uomo;  se  esso  esiste  per  l’uomo vuol dire  che  si  presenta  e  si  articola nella  sua  propria  struttura.  La  cosa,  nel  suo  essere  irriducibile  alterità, può essere solo lambita dal linguaggio che diventa così unico mare in cui l’uomo naviga, ma lo stesso unico mare che può lambire le fatidiche ed impossibili sirene, che nel mito non si possono avvicinare se non nel fran-gersi contro gli scogli dell’ultimo momento. Come ha affermato Heideg-ger “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo” 64. E se, come aggiunge l’ultimo filosofo, i pensatori ed i poeti sono i custo-

63.  V. Meyerhold, La Rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 2001.64.  M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995.

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di di questa dimora, noi diremo che lo psicoterapeuta ne è il domestico.Infine, è grazie alla centralità attribuita al linguaggio e sulla base della complessità che esso genera, che possiamo pensare il conscio e l’incon-scio come fenomeni emergenti ed  indagare  la peculiarità di altri  feno-meni che osserviamo nella soggettualità del Sapiens.

la sofferenza, peculiarità del soggetto sapiens

Fra  i  fenomeni  che  risiedono  nella  pertinenza  della  soggettualità dell’uomo  vi  è  quello  della  sofferenza  –  cosa  ben  diversa  dal  dolore che pertiene al reale 65 – che scegliamo fra gli altri perché è ciò con cui comunemente  si  dice  abbia  a  che  fare  la  nostra  professione;  e  i  nostri clienti, infatti, sono chiamati pazienti – coloro che soffrono. Le talking therapy, difatti, nascono per occuparsi della sofferenza soggettiva, della sofferenza del soggetto. Sofferenza che deriva:–  dal sintomo (a);–  da una qualche falla nell’abbinamento con il mondo (b);–  da eventi esogeni (ambiente esterno o interno) (c);–  dalla condizione esistenziale stessa dell’uomo (d).L’ultima è la più importante, in quanto è con essa che la psicoterapia deve fare i conti ed è solo a partire da essa che le prassi di cura dello psichico sono  terapeutiche:  infatti  l’esistenza dell’uomo dipende dagli  effetti  isti-tuiti dal linguaggio. Se, riprendendo i punti precedenti, rispettivamente:–  i sintomi si risolvono;–  il couplage può essere “ricamato” e alla fine di una cura “attraversato” 66,

65.  Il dolore  inerisce  la coscienza  sensoriale,  in quanto conseguenza di uno stimolo potenzial-mente  nocivo  per  la  sopravvivenza  dell’organismo:  la  sofferenza  umana  che  ogni  clinico  “psi” osserva e cura quotidianamente quasi sempre non ha nulla a che fare con una reale minaccia alla sopravvivenza.  Inoltre,  se  non  si  ponesse  questa  distinzione  si  dovrebbe  sostenere  che  gli  altri animali, compresi i primati superiori, non provano dolore, come fa Macphail (E. M. Macphail, The Evolution of Consciousness, cit.).66.  J.-A Miller, Logiche della vita amorosa, cit..

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–  le ripercussioni psichiche di un lutto (evento esterno) o di una malat-tia organica (evento interno) possono essere elaborate,

–  è  solo perché anche essi  sono effetti di  linguaggio e dunque  i punti (a), (b) e (c) possono e devono essere inscritti in (d).

Per questo possiamo affermare che, se queste sono le dimensioni di cui si può occupare la psicoterapia, essa, in ultima analisi, non si occupa diret-tamente di sofferenza bensì della soggettualità e delle sue conseguenze.

l’interazione fra soggetti

A  partire  dallo  statuto  simbolico  della  soggettualità  umana,  dob-biamo  affermare  che  la  relazione  tra  uomini  è  un  luogo  di  cata-strofe,  che  costituisce una voragine dell’esperienza per  tre motivi.  Il primo  è  che,  a  causa  della  macroemergenza  linguistica,  il  rapporto con  il  reale  perduto  va  incontro  ad  una  necessaria  mediazione  fan-tasmatica,  quella  del  couplage,  in  cui  non  c’è  una  corrispondenza comunicativa  data,  diretta.  Il  secondo  è  che  essendo  il  soggetto della  coscienza  diviso  da  quello  dell’inconscio,  ciascuno  non  sa ciò  che  dice  all’interlocutore  e  viceversa.  Il  terzo  è  che  ogni  sog-getto  legge  il  mondo  a  partire  dal  suo  proprio  couplage  rendendo in  tal  modo  la  componente  proiettiva  e  reiterativa  determinante  e pressoché  inconscia  –  nei  termini  della  complessità  detta  autopo-iesi  sistemica.  Quest’ultimo  fenomeno  è  stato  osservato  e  descritto nelle  diverse  discipline  che  studiano  il  mentale  anche  se,  dietro le  diverse  denominazioni,  vi  sono  concettualizzazioni  molto  dif-ferenti,  alcune  delle  quali  più  complesse  ed  esaustive  delle  altre.Dunque, l’occhio di molti studiosi è caduto sullo stesso oggetto: l’esi-stenza di una struttura stabile di abbinamento con  il mondo,  frutto delle interazioni storiche del soggetto – in particolar modo quelle più precoci – e al contempo sua singolare costruzione costituitasi nell’in-tersoggettività  e,  da  lì  in  poi,  determinante  l’intersoggettività.  Se 

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Freud ha colto nell’apparato psichico la tendenza ad una ripetizione 67, altri  dopo  di  lui  ne  hanno  descritto  diffusamente  aspetti  e  mecca-nismi.  Citiamo,  in  ordine  cronologico,  alcune  delle  maggiori  o  più conosciute concettualizzazioni: il fantasma di Lacan (Miller, ibidem); i  modelli  operativi  interni  (Bowlby,  ibidem);  gli  schemi  concettuali (Neisser 68);  il  relationship theme  (Luborsky 69);  i  modelli  predittivi (Rosen 70);  le  interazioni  ripetute  generalizzate  (Stern 71);  le  scene modello  e  l’organizzazione motivazionale  (Lichtenberg 72);  lo  schema di couplage (Varela, ibidem); le immagini mentali (Edelman, ibidem).Questo  eterogeneo  elenco,  in  sostanza,  rimanda  al  riconoscimento di uno schema nella relazione con il mondo, a partire dal quale ogni atto umano  si definisce nell’intenzionalità  che gli  è propria: difatti, per  quanto  non-finito,  ogni  atto  umano  è  sicuramente  de-finito  da questa intenzionalità inconscia.Tale soggettualità-in-interazione, costituitasi dunque come struttura, insiste nel luogo in cui si è formata che è l’individuo. In quanto strut-tura  ha  una  sua  fisionomia,  una  certa  coerenza  fra  i  suoi  elementi e,  qualunque  sia  il  grado  di  coerenza,  una  relazione  fra  tutti  i  suoi elementi – comprendendo non-relazione, incoerenza, divergenza. Per questa  ragione è possibile  scoprire  la  struttura psichica e  le  sue  fun-zionalità attraverso un’analisi retrospettiva – nel nostro caso diciamo anamnestica.Una  volta  costituitasi  nei  periodi  sensibili  dello  sviluppo,  la  sogget-tualità-in-interazione preesiste,  in maniera  relativamente  stabile,  alle future  relazioni  per  una  naturale  inerzia  sistemica  –  possiamo  dire 

67.  S. Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare, in Opere, cit., vol. VII, pp. 355-56.68.  U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna 1981.69.  L. Luborsky, “Measuring a pervasive psychic structure in psychotherapy: The core conflic-tual relationship theme”, in Freedman e Grand (a cura di), Communicative structures and psychic structures,), Plenum Press, New York 1997, pp. 367-95.70.  R. Rosen, Anticipatory Systems: Philosophical, Mathematical and Methodological Foundations, Pergamon Press, Oxford 1985.71.  D. N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino 1987.72.  J. D. Lichtenberg, Psicoanalisi e sistemi motivazionali, Cortina Raffaello, Milano 1995.

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identitaria,  funzionale:  nell’incontro  con  un’altra  soggettualità-in-interazione  si  combinerà  come  possibile,  a  partire  dalle  rispettive modalità  strutturali,  data  per  assodata  la  tendenza  a  ripetere,  affer-mare ciascuna se stessa 73. La relazione sarà complicata o, meglio, co-implicata – volendo evidenziare che l’articolazione fra i due soggetti si produrrà per mezzo delle parti nascoste, delle intenzionalità inconsce.Nel  caso  di  due  adulti,  allora,  la  relazione  darà  come  risultato  un sistema  basato  sul  couplage  di  entrambi,  i  cui  modi  dipenderanno dalle possibili  combinazioni  inconsce dei partecipanti:  l’intersogget-tività, propriamente decifrabile, esplicabile attraverso la cifra dell’In-conscio,  si  presenterà,  ad  ogni  modo,  come  un’intenzionalità  che inviluppa il soggetto-altro.Nel caso particolare della relazione bambino-caregiver vi è un vettore diseguale  di  influenza:  la  soggettualità  in  fieri  del  neonato,  sistema complesso, si auto-organizzerà in modo del tutto singolare ma a par-tire dai “mattoni significanti” di quell’ambiente. Come dire che, per esempio,  di  un  dado  possono  uscire  solo  quelle  facce  che  quell’am-biente culturale pre-dispone ma quale sarà la faccia o, meglio, l’esatta successione delle  facce ai diversi  lanci è  impossibile saperlo previsio-nalmente. Allo  stesso modo, quel bambino a partire da quei precisi e precipui elementi ambientali si auto-organizzerà  in una singolarità portatrice di una originalità.

artificio e dissimmetria del dispositivo psicoterapico

In questa sede siamo interessati ad una interazione fra esseri umani di tipo particolare, un artefatto abbastanza recente, anche se evidenze del suo precedente utilizzo sono rintracciabili sin dalle epoche più antiche 74.

73.  M.  Minolli,  Studi di Psicoterapia Psicoanalitica,  Edizioni  Centro  Diffusione  Psicologia, Genova 1993.74.  Si  pensi  ad  un  esempio  che  riporta  Freud,  relativo  ad  Alessandro  Magno:  l’imperatore, 

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L’interazione fra terapeuta e paziente è, come ogni altra, co-implicata ma in  più  è  artificiale,  prodotta  ad  arte.  Per  entrambi  questi  motivi  non  è complessa e, soprattutto, non lo è per l’assenza di numerosissimi agenti e correlative interazioni. D’altronde è un bene che sia così, poiché gli agenti di un sistema complesso non sanno – in senso stretto non possono e non devono – del sistema cui appartengono ma ne accusano gli effetti. Quan-do  ne  sanno,  afferma  Deneubourg,  non  si  può  parlare  in  senso  stretto di  auto-organizzazione,  quanto  piuttosto  di  organizzazione 75.  Lo  scien-ziato – che si occupa della complessità delle società di insetti – nota che quando  ci  troviamo  di  fronte  a  comportamenti  determinati  da  pattern cognitivi bisogna porre dei necessari distinguo rispetto alla magia dell’au-to-organizzazione, pena un’inutile  complicazione  teorica  e un miscono-scimento  della  logica  propria  di  quel  sistema.  Se  vi  sono  dei  template, vale  a  dire  schemi  cognitivi  di  organizzazione,  il  sistema  frutto  dell’in-terazione non risulterà da una dinamica non-lineare tra diversi elementi, ma corrisponderà a una struttura preesistente che non siamo in grado di vedere  immediatamente – come, nel nostro caso,  l’inconscio. È  l’incon-scio che organizza il campo e, dunque, non vi è auto-organizzazione.In quest’ottica, il dispositivo psicoterapico è un artificio che ha lo scopo di produrre un  campo organizzato dall’inconscio del  paziente  in modo che si possa riaprire il processo di couplage – nei nostri termini diremmo di  risignificazione. Ciò può  avvenire  anche  in natura, ma  l’artificio del dispositivo deve essere costruito perché ciò sia programmatico: come fare?Dicevamo  che  è  nella  mancanza  la  condizione  di  libertà  dell’uomo: bisognerà  allora  presentificarla,  renderla  operativa.  Innanzitutto  il soggetto-della-cura si trova di fronte ad un altro che egli suppone por-

mentre assediava la città di Tiro, nel 332 a.C. sognò un satiro che danzava su uno scudo; inter-rogò un interprete di sogni il quale gli disse che il satiro in realtà stava per sa Tyros che in greco significa  “Tiro  è  tua”. Dopo  alcuni  giorni, Alessandro Magno  entrò  in Tiro. Freud  scrive  che fu  un’ottima  interpretazione.  Anche  Socrate  utilizzò  questo  particolare  tipo  di  interazione,  J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il transfert, Einaudi, Torino 2008.75.  J.  L.  Deneubourg,  “Emergenza  e  insetti  sociali”  in  Réda  Benkirane  (a  cura  di),  La teoria della complessità, cit..

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tatore  di  un  sapere  da  lui  non  conosciuto 76.  Se  da  un  lato  è  vero  che il  terapeuta  possiede  un  sapere,  successivamente  il  soggetto-della-cura scoprirà  che  l’Inconscio  è  detentore  del  suo  singolare  sapere  e  che  lo stesso soggetto può prendersi la responsabilità nella cura del suo proprio Inconscio.  La  proficua  credenza  del  soggetto-della-cura  di  trovarsi  di fronte  ad  un  soggetto-che-sa  costituisce  la  prima,  fondamentale,  dis-simmetria che porta al transfert. A questo punto, con grande intensità, il  paziente  non  può  far  altro  che  implementare  inconsciamente  il  suo couplage anche con questo “estraneo”.Una  seconda  dissimmetria  si  aggiunge  in  quanto  il  terapeuta  fa  in modo  che  sia  la  struttura  del  paziente  a  dispiegarsi  prepotentemente nella  relazione  stessa:  gli  elementi  di  disclosure  o  enactment  con  cui  si entusiasmano soprattutto i colleghi d’oltreoceano, frutto della soggetti-vità del terapeuta, sono elementi che partecipano certamente alla strut-turazione del campo intersoggettivo ed il terapeuta deve tenerne conto – è da postulare che egli abbia portato avanti un percorso di cura perso-nale che gli fornisca gli strumenti per riconoscere tali dinamiche. Ma la decisione di far partecipare la soggettività del terapeuta in modo pieno e programmatico non potrebbe far altro che dispiegare un processo fon-damentalmente  basato  su  identificazioni  e  contro-identificazioni,  cosa che non andrebbe a toccare le fondamenta del couplage del paziente ma porterebbe solo a dei suoi aggiustamenti, producendo – come siamo abi-tuati ad osservare in quasi tutte le prassi psicoterapiche – quegli sposta-menti iniziali del sintomo o la sua parziale remissione – fenomeni certo non negativi ma  tutt’altro  che  risolutivi. Questo  tipo di  relazione, più naturale – nel senso di ordinaria nelle consuete relazioni interpersonali – è capace al massimo di realizzare un riconoscimento – il  luogo della stasi hegeliana – in cui dovremmo sperare esserci, ragionando per assur-do, un terapeuta non “supposto sapere” ma “realmente sapiente” – come 

76.  J. Lacan,  Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003.

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accade  più  o  meno  frequentemente  che  gli  psicoterapeuti  siano  –  che possa in tal modo “aggiungere” qualcosa alla soggettività del paziente.In sostanza, con un approccio basato sul gioco immaginario della recipro-cità – in cui il paziente si muove attraverso identificazioni e apprendimen-ti, cioè nel gioco egoico – è possibile soltanto ottenere un contenimento sintomatologico,  attraverso  un  migliore  adattamento,  cioè  sulla  base di  una  normalizzazione  ai  valori  socio-culturali  dominanti:  per  Renik, il  cui  discorso  ruota  attorno  al  beneficio  sintomatico 77,  le  linee  guida del  processo  psicoterapico  sono  imperniate  sull’utilità,  con  una  chiara impostazione  pragmatica,  non  a  caso  eminenti  espressioni  dello  spirito statunitense.  Con  questo,  non  vogliamo  affatto  denigrare  gli  approcci di  cura dell’io:  la pet-therapy,  ad  esempio,  funziona molto bene  in  tutti quei soggetti in cui l’io va supportato, puntellato, corroborato in funzioni deficitarie o “aggiunto” di parti mancanti – abilità, informazioni.La  diade  psicoanalitica,  dunque,  non  costituisce  un  sistema  complesso. E se  lo  fosse, dovremmo pre-occuparci di come semplificare 78 per poter agire in via professionale, in quanto in un sistema complesso perderemmo qualsiasi  senso  e possibilità di  espletare una qualsivoglia direzione della cura. Si  tratterebbe  infatti di un processo completamente  spontaneo,  se non caotico, indotto da quella particolare dinamica sistemica in cui, per giunta, l’intenzionalità degli agenti sarebbe esclusa al  livello degli effetti di sistema. Né il terapeuta né tantomeno il paziente potrebbero avere voce in capitolo. Sarebbero oggetti e ostaggi delle dinamiche di complessità e addio soggetto. La gioiosa credenza che la relazione paziente-terapeuta sia “auto-organizzante e complessa” (come sostenuto da Seligman 79) sembra 

77.  O. Renik, Psicoanalisi pratica per terapeuti e pazienti, Cortina Raffaello, Milano 2007.78.  Anche in presenza di complessità, si ricorre spesso all’ipotesi di linearità per finalità applica-tive. In questo modo, si costruiscono modelli lineari approssimati in modo tale che gli effetti di non-linearità  siano  trascurabili:  tale procedimento  si  chiama  linearizzazione. Per esempio  tutti gli amplificatori audio sono non-lineari ma, entro certi limiti di frequenza, al fine di utilizzare i più semplici, come i più sofisticati, impianti hi-fi presenti nelle nostre case, con alcuni accorgi-menti tecnologici, si fa in modo che esso si comporti in modo lineare.79.  S.  Seligman,  Le Teorie dei Sistemi Complessi come meta-inquadramento della Psicoanalisi. Ricerca Psicoanalitica, XVIII, 3:309-346, 2007.

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derivare  dalla  sottovalutazione  o  dal  misconoscimento  dell’Inconscio  e quindi dell’intenzionalità inconscia che informa ogni scambio relazionale – sempre puntuale, precisa, ripetitiva,  incurante non solo del tempo ma anche dei contesti se non per richiamarne precostituiti nessi.Stessa  sorte  di  negligente  abbandono  sta  subendo  un  altro  fenomeno: il Transfert. A questo proposito il discorso stesso ci porta dalla dissim-metria alla mésaillance freudiana. Fenomeno grazie al quale, nella prassi psicoterapica,  il  fra-intendimento  costitutivo  di  ogni  intersoggettività viene sfruttato e potenziato in modo che da un lato sia l’inconscio del paziente a dispiegarsi in maniera preponderante; dall’altro perché sia il motore della cura stessa.Queste  dissimmetrie  –  in  parte  vere,  in  parte  immaginarie  –  permet-tono  la  messa  in  moto  di  una  particolare  modalità  del  couplage  che, seguendo Maturana (1980), chiameremo ricorsività: mentre nella  ripe-tizione  una  data  operazione  è  realizzata  di  nuovo  indipendentemente dalle conseguenze della sua precedente realizzazione, la ricorsività com-porta la possibilità che la struttura tenga conto di una nuova informa-zione; che possa, nei nostri termini, risignificarsi.In conclusione, la relazione di cura è artificiale e dissimmetrica – basata sul transfert. È realmente efficace nell’unico universo accessibile all’uo-mo – di conseguenza unico universo nel quale si può incontrarlo – che è quello del linguaggio delle società umane, dove si articola e si dispiega la dimensione soggettuale – conscia ed inconscia.

concludendo

L’utilizzo  del  paradigma  del  PdC  permette  una  chiara  comprensione della  peculiarità  del  mentale  umano  e  fornisce  un  modello  esaustivo della sua nascita. Inoltre, indicando la via d’accesso alla sua comprensio-ne, permette anche di  tracciare alcune coordinate metodologiche della clinica. La chiave di volta, sia nella caratterizzazione del mentale umano 

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che nella  comprensione di una prassi di  cura  che ha ormai un  secolo, risiede  nel  linguaggio.  Da  ciò  scaturiscono  una  serie  di  conseguenze teorico-cliniche che, pur essendone una logica derivazione, mettono in secondo  piano  la  cornice  epistemologica  per  giungere  ad  osservare  de visus  gli oggetti di  cui  ci occupiamo:  il  soggetto umano,  l’interazione, l’inconscio, la cura, il transfert, il cambiamento, la sofferenza.Il  fascino dell’aldilà del  linguaggio, come  la  formidabile  seduzione del riconoscimento, della smodata gioia che procura, sono tutti fattori che influenzano le teorizzazioni recenti, segno di quella mancanza ad essere che il linguaggio presentifica. In nome di una supposta scientificità – in realtà dell’idolatria dell’empiria che senza  le giuste domande è come il bimbo di Salomone per  cui  ciascuno crede di poter  rivendicare  la  sua parte – si assiste alla riduzione della psiche alle dinamiche cerebrali – a volte  persino  di  roditori  –  sancendo  il  ritorno  ad  un  tipo  di  scienza immaginaria,  come  quella  medioevale  della  corrispondenza  alchemica fra microcosmo e macrocosmo 80, ma con minor ricchezza e profondità di  visione. Lo  studio delle  complessità  oggi  rende noto  che  le miriadi di oggetti del nostro universo condividono delle forme ma, parimenti, che, nei diversi domini, ogni sistema o gruppo di sistemi lavora secondo leggi anche molto diverse.L’applicazione  indebita  o  superficiale  di  modelli  e  concetti  mutuati  da altri  ambiti porta  inevitabilmente  ad un poderoso  impoverimento della comprensione dell’essere umano e, probabilmente, ad una perdita di effi-cacia della clinica. Miguel Virasoro, parlando di analoghi problemi che incontra nel suo campo che è la fisica teorica, ha affermato che “al massi-mo possiamo dire che i paradigmi trovati per certi sistemi complessi pos-sono aiutarci ad affrontarne altri. Nulla di più. Per il resto sembra quasi la ricerca di metafore vincenti, più che un serio lavoro di ricerca” 81. Il suo collega  Riccardo  Zecchina,  esponente  di  punta  della  scuola  dei  “com-

80.  “Quod est inferius, est sicut quod est superius”, si legge nella Tabula Smaragdina.81.  Da un’intervista di Fabio Pagan sul quotidiano “Il Piccolo” del 3 giugno 2003, consultabile all’in-dirizzo internet: http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2003/06/03/NZ_23_PAG1.html.

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plessologi”  triestini,  ha  affermato,  parimenti,  che  l’utilizzo  totalizzante del PdC, come è stato nell’approccio di Prigogine, “appare oggi utopisti-co  e  paradossalmente  poco  interdisciplinare.  (Prigogine)  voleva  ridurre tutti i sistemi complessi ad un unico schema, ma senza successo” 82.Nell’ambito della  teoria e della  tecnica delle  talking therapy  il pericolo è quello di  seguire  la moda attuale abdicando ad una  seria  ricerca del funzionamento  della  psiche;  così  fu  la  tendenza  ai  tempi  di  Mach 83 ad  interpretare  la  dinamica  sostanziale  di  ogni  oggetto  in  termini  di energia – concetto allora nuovo, affascinante, molteplice e in apparenza toti-esplicativo – e pertanto fumoso – come la complessità oggi.In  sostanza,  uno  psicoterapeuta  con  gli  occhiali  di  una  epistemologia della complessità e basta, ha degli occhiali eccellenti in una stanza buia: non è elegante forzare troppo la metafora, ma possiamo aggiungere che la  stanza  è  buia,  gli  occhiali  sono quelli  giusti,  ci  servono  allora delle buone orecchie – noi crediamo quelle che da Freud fino ad ora abbiamo sempre utilizzato: quelle sintonizzate sull’inconscio.Abbiamo utilizzato il PdC per descrivere le condizioni di possibilità dello psichico; e, quindi, di una correlativa prassi di cura, formalmente inven-tata nel secolo scorso da Freud. Crediamo, così facendo, di aver evitato sia  riduzionismi  che olismi  e di  aver  chiarito  l’ambito di pertinenza di ogni talking cure – di conseguenza il suo rapporto con le altre discipline.Se vogliamo spingerci ancora più in là, ancora più a fondo; se desideria-mo davvero capire l’essere dell’essere umano, tuffiamoci non solo nella letteratura psicoanalitica ma  anche,  come  afferma Morin ne  “la  lette-ratura, la musica, il cinema (che) sono ottime lenti per capire in modo corretto la complessità umana. La complessità umana si trova in Balzac, Proust, Dostoevskij” 84, Borges.È per questa via che la talking cure è possibile e che può denunciare gli effetti terapeutici che produce.

82.  Ibidem.83.  P.L. Assoun, Introduzione all’epistemologia freudiana, cit..84.  E. Morin, Il complesso, ciò che è tessuto insieme in Réda Benkirane (a cura di), La teoria della complessità, cit..

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let ture

parte set tima

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maurizio mazzottiProspettive di psicoanalisi lacanianaBorla, Roma 2009

di Carmelo Licitra Rosa * 1

Il lavoro di Maurizio Mazzotti si impone all’attenzione per la sua agili-tà, la sua chiarezza e la sua efficacia.Queste  tre  caratteristiche  sono  la  risultante  di  uno  stile  di  ricerca  e di  scrittura  che  non  perde  mai  di  vista  uno  degli  scopi  fondamentali dell’impegno  teorico  in  psicoanalisi,  ovvero  la  trasmissione  dell’inse-gnamento  psicoanalitico.  Nel  caso  specifico  penso  si  possa  dire  che questa  trasmissione  si  rivolga  in pari misura  ad un pubblico  avvertito – ossia più o meno addentro alle tematiche psicoanalitiche – così come ad un pubblico per così dire profano, purché animato da un minimo di curiosità intellettuale.È certamente dalla  ferma  tenuta di questo  intento che è  alimentata  la tensione  argomentativa  che  attraversa  da  cima  a  fondo  tutta  la  tratta-zione. Tensione in cui è certamente ravvisabile una passione soggettiva dell’autore,  analista  di  lunga  esperienza  e  già  presidente  della  Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, che in questo volume condensa il suo lavoro e  la  sua  esperienza pluriennali. Ogni  articolo  è  infatti  costruito  attra-verso  la  connessione  di  elementi  teorici  precisi,  previamente  isolati  e ritagliati in modo da dissipare qualsiasi confusione o approssimazione. Successivamente  ognuno  di  loro  è  esplorato  grazie  a  un  uso  sapiente delle risorse linguistiche che, con una semplicità non disgiunta dall’in-cisività,  sanno  contornare,  circoscrivere  il  profilo  del  concetto  con un effetto  esplicativo  sempre molto  calibrato,  tale  cioè da  condurre  il  let-

*  Carmelo Licitra Rosa, A.E., medico, psichiatra, membro SLP, docente dell’Istituto Freudiano, iscritto all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Roma.

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tore alla soddisfazione della comprensione in modo naturale, diretto: se mi  si  permette  l’accostamento,  direi  che  la  lettura  risulta  proprio  una Dolce salita, come suggerito dal  felice titolo del dipinto di Kandinskij, che  campeggia  nella  copertina.  Infine  i  singoli  elementi  sono  conca-tenati  fra  di  loro  in  modo  serrato,  secondo  delle  linee  argomentative sempre molto rigorose e convincenti.Non è poi affatto secondario che il piano meramente dottrinale sia sem-pre sostenuto da ciò che costituisce in ultima istanza la sola piattaforma su cui può erigersi un’elaborazione psicoanalitica degna di questo nome, ovvero  il  dato  clinico,  esemplificato  in  frammenti  di  notevole  impatto e  forte  suggestione.  Se  infatti  l’elaborazione  psicoanalitica  smarrisce l’ancoraggio della clinica è sempre a rischio di scivolare verso una specu-lazione filosofica, dagli esiti malcerti e discutibili.Il volume è diviso in tre parti. La prima raccoglie tre contributi che ruo-tano  intorno alla  seduta psicoanalitica  lacaniana. Nel primo contributo è  possibile  cogliere  nitidamente  come  la  logica  della  seduta  lacaniana, in  completa  rottura  con  ogni  standard,  presupponga  la  riformulazione dell’inconscio  a  partire  dal  transfert,  ovvero  a  partire  dall’immistione della temporalità, nonché la definizione del futuro anteriore come tempo vivente del soggetto e del “voler essere” dell’inconscio. Il secondo contri-buto riunisce diversi spunti: la differenza tra il non agire e la neutralità; l’opposizione  fra  tempo  scandito  e  tempo  misurato;  una  rassegna  dei poteri  della  parola  attraverso  il  fondamentale  riferimento  ai  lavori  di René Daumal,  a  cui  sono  riportabili  le  risonanze dell’interpretazione  e l’evocazione  della  parola,  quali  sono  reperibili  in  Funzione e Campo  di Lacan; una  limpida articolazione della  celebre dialettica padrone-schia-vo, secondo la torsione speciale che Lacan le imprime rispetto all’origina-le versione di Hegel, evidenziando la luce potente che essa proietta sulla clinica delle nevrosi; la pratica zen ed il risveglio provocato dall’impatto del  reale.  Il  tutto  sfocia  in una differenziazione puntuale, e di  inusuale lucidità, fra seduta variabile e seduta breve. I due esempi clinici di doci-lità  e  di  indocilità  alla  seduta  breve,  che  vengono  presentati  con  uno 

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stile  accattivante  nel  terzo  contributo,  mostrano  bene  come  la  pratica dell’analista  lacaniano non risponda ad alcun protocollo  tecnico prefis-sato, ma si pieghi ogni volta al particolare della logica del singolo caso.Davvero notevole è poi la seconda parte, intitolata “Clinica e formazio-ne dello psicoanalista”. Si segnalano il capitolo quarto, in cui si mette a fuoco molto nitidamente la differenza tra  la sofferenza/soddisfacimento primario del sintomo e il più di soddisfazione implicato dal tornaconto secondario; il capitolo quinto, in cui è delineata un’efficace sintesi della teoria dell’angoscia;  il  capitolo  sesto,  in cui  la  tematica della depressio-ne viene  inquadrata  alla  luce di  alcuni penetranti  spunti psicoanalitici, primo  fra  tutti  quello  del  lutto,  con  un  guadagno  dottrinale  e  clinico di grande pregnanza rispetto alla piattezza della prospettiva psichiatrica dominante. Di particolare rilievo è il capitolo ottavo, che permette una comparazione  efficace  fra  l’insegnamento  di  Lacan  e  la  Teoria  del  sé, assumendo  come  perno  un  famoso  caso  di  Kohut.  Il  capitolo  settimo svolge  una  critica  molto  pertinente  alla  clinica  degli  standard,  il  nono illustra  la  ratio  della  supervisione  analitica,  mentre  il  decimo  mette  in rilievo lo stretto rapporto che per ogni analista si istituisce tra la propria formazione e la Scuola come orizzonte.Decisamente  appassionanti  il  capitolo  undici  e  il  capitolo  dodici,  il primo  per  l’analisi  inedita  condotta  sull’opera  di  Basaglia,  il  secondo per  una  dotta  ricostruzione  dei  rapporti  del  giovane  Lacan  con  l’am-biente psichiatrico della prima metà del Novecento, ricco di fermenti e di spunti che si ritroveranno poi, debitamente rielaborati e rimaneggia-ti, nelle sue posizioni più mature.Chiudono la raccolta il capitolo tredici, che sulla scorta di una puntuale differenza  fra  scienza  e  scientismo,  illustra  bene  la  convergenza  della psicoanalisi con la scienza e il suo parallelo conflitto con lo scientismo; e  infine  il  capitolo  quattordici  che,  traendo  spunto  da  un  episodio inscrivibile nel  contesto delle  sfide etiche contemporanee, ha  il merito di dimostrare come la psicoanalisi sia in grado di interloquire con la più viva attualità sociale e culturale, senza rischio di obsolescenza.

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Sono pertanto  sicuro  che questo  libro  concorrerà  in maniera decisiva, soprattutto  per  il  taglio  clinico  da  cui  è  sostenuta  l’elaborazione,  a contestare  e  smentire  l’idea  peregrina,  ciclicamente  riesumata,  che  la psicoanalisi  appartenga  al  retaggio  dell’età  vittoriana,  e  ad  avvalorare invece la convinzione che essa, viva più che mai, si qualifica come soli-da  interlocutrice  della  contemporaneità  nelle  sue  impasses  e  nelle  sue laceranti contraddizioni.

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chiara cretella e alessandro russo (a cura di)Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo socialeCLUEB, Bologna, 2009

di Alide Tassinari

Il testo raccoglie i contributi di otto specialisti operanti in campi diffe-renti: sociologia, psichiatria, psicoanalisi, economia e problemi militari, presentati  nel  corso  di  Sociologia  Generale  con  il  titolo  “Tipi  sociali e  singolarità  soggettive”,  della  Facoltà  di  Scienze  della  Formazione dell’Università di Bologna.Le conferenze rivolte a studenti, nel luogo del sapere esposto, nella loro concisione,  favoriscono  una  apertura  verso  una  posizione  soggettiva rispetto alla conoscenza. Gli studenti sono sollecitati a confrontarsi con ciò che nel mondo può essere conosciuto, conoscenza sempre al  limite della verità, attraverso l’ambiguità e la non specificità del codice lingui-stico di appartenenza.I curatori, Chiara Cretella e Alessandro Russo, hanno operato una tra-slazione dal corpus delle relazioni, difformi nelle loro stesure per i piani dissimili che toccano e le hanno organizzate raccogliendole sotto il bel titolo di Corpi e soggetti. Figure attuali del mondo sociale.In questo modo viene perduta – a ragione – la iniziale schematizzazione di  tipi  sociali,  che collocava  i  contenuti delle  relazioni  su di un unico piano. Mantenere il termine tipi, utilizzato nel titolo del corso, avrebbe rimandato  al  significato  di  una  qualche  classificazione  personalogica togliendo così spessore alle argomentazioni.Al contrario l’utilizzo dei termini corpi, soggetti, figure evidenzia l’in-treccio  epistemologico  di  piani  difformi  dei  saperi  che  si  intersecano, fondando una costruzione di ciò che in una società è sempre presente: il bambino, il folle, la donna, il lavoratore, l’imprenditore, il militare e il migrante. Quest’ultimo, figura emblematica, trasversale, rappresenta in 

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sé la condizione umana esiliata nella sua intima costituzione. Il migran-te raccoglie in sé tutti i soggetti: può essere un bambino, un folle, una donna, un lavoratore, un imprenditore, un militare.L’introduzione, scritta dai curatori, ha come filo conduttore la precarie-tà  sociale  che  i  corpi  (sociali  e  individuali) patiscono  in questo nostro tempo così globale e così frammentato.I  curatori  si  richiamano  allo  scritto  Logiques des mondes di  Alain Bodiou,  filosofo  contemporaneo  nella  cui  opera  specifica  come  per  la doxa odierna non ci sono altro che “corpi e linguaggi.”La psicoanalisi, quella di Lacan, concorda. Ciò che fa parvenza d’esse-re è  la parvenza di cui  il corpo è  immagine e che patisce  l’affronto di un  reale del  godimento,  in perdita,  che  lo  investe  fin dalla nascita  ad opera del linguaggio. Il linguaggio, di cui l’essere, attraverso il corpo si appropria nel  lungo processo della vita,  altro non è che vita parlata e, se possibile, goduta attraverso  la sintomatizzazione della vita stessa. Ci appropriamo  del  corpo  e  possediamo  il  linguaggio  in  quanto  viventi. Freud  ha  scoperto  il  soggetto  dell’inconscio  e  Lacan  ne  ha  ha  svelato la struttura:  l’essere umano, più parlato che parlante, ha un corpo che parla  attraverso  i  sintomi  e  patisce  il  disagio della  civiltà. Quel  corpo parlante,  ridotto nella  clinica contemporanea all’evanescenza dei  com-portamenti,  non  più  osservati  come  sintesi  scaturita  nell’incontro  del soggetto  con  la  società,  è  bollato  come  disagevole,  disturbante,  per-turbatore,  inadeguato per il raggiungimento di un supposto benessere, ormai prescritto come unico fine. La prescrizione del ben-essere e della ricerca  dell’armonia  con  sé  stessi,  con  il  proprio  corpo  e  con  gli  altri, misconosce ciò che Freud, nel Disagio della civiltà considerava il risulta-to del compromesso necessario tra le esigenze pulsionali dell’individuo e  le  richieste dell’Altro. Ogni  società, ogni organizzazione  sociale,  sot-tace il piano soggettivo; eclissa sotto la barra quel piano inconscio che costituisce la verità del soggetto e nello stesso tempo cerca di governarlo attraverso le norme e le istituzioni.È quel piano mai del tutto occultato che fa nascere ogni soggetto alie-

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nato nell’Altro e ne fomenta  la separazione nella ricerca creativa di un modo  soggettivo  di  essere  nel  mondo.  Il  soggetto  trova  nelle  crepe  e negli interstizi della doxa imperante, la possibilità di una realizzazione, uno per uno, in un percorso originale e unico per coniugare la vita e il godimento attraverso i Discorsi che costituiscono l’unico modo umano di fare legame. Infatti l’individuo è incluso nella società di appartenen-za di cui patisce  le contraddizioni, accuratamente negate nella genera-lizzazione del sapere e della conoscenza coeva al soggetto stesso.Di seguito alcune parole di commento sui contributi del testo seguendo l’ordine, non casuale, dell’indice.I  primi  tre  saggi  sono  di  psicoanalisti  e  enigma  è  il  sostantivo  che  li accomuna.L’inclusione dell’individuo con il corpo sociale, avviene in primis nella famiglia, costituita dalle funzioni materna e paterna. L’infans – il senza voce  –  figura  delineata  da  Adriana  Monselesan  viene  indagato  nelle dimensione del corpo: godimento, immagine, corpo parlato, attraverso gli utensili teorici lacaniani: il reale, il simbolico, l’immaginario.L’ esxcurus, mettendo al centro il corpo del parlessere, si basa sulla teoria freudiana e si serve di quella lacaniana. Per la psicoanalisi, corpo infans, corporizzato dal linguaggio, non può essere ridotto né alla sua matura-zione biologica né al suo vissuto: per il parlessere non c’è fisiologia. È la scienza medica che reifica il corpo umano e riducendolo al suo funzio-namento neuronale,  cerca  inutilmente di  sciogliere  l’enigma del  corpo proprio. Con Lacan si può dire che il corpo è l’espressione sinthomatica del proprio modo di legare insieme i tre registri attraverso gli eventi di corpo: modo che, nell’incontro con l’Altro, un bambino inizia a tessere, fin da subito, essendo immerso nel mondo simbolico che gli preesiste.Tutto questo processo avviene “naturalmente” a meno che un individuo non sia folle.Il folle è l’unica figura che si allontana definitivamente da una qualche forma di generalizzazione. Maurizio Mazzotti nel suo scritto ci illustra in poche e suggestive pagine  l’iter attraverso  il quale  il  folle si qualifi-

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ca  come  colui  che  è  fuori  da  ogni  discorso.  Discorso  come  “struttura di  linguaggio  che va distinta dalla parola  che  ciascuno di noi  articola individualmente e che  si  colloca  sempre entro un discorso che orienta il significato generale della parola”. Mazzotti introduce in questo modo l’orizzonte lacaniano dei Quattro Discorsi che orienta e definisce i pos-sibili modi tra le persone di fare legame sociale. È perché siamo dentro a questo orizzonte di discorsi che non possiamo dirci folli. Il folle aven-do preclusa la metafora paterna è rimasto fuori discorso e in difficoltà con il legame sociale. Il Nome-del-Padre, metafora lacaniana che impli-ca la castrazione del godimento primario, produce, quando si instaura, una perdita  imperfetta ma assicura  l’apertura al desiderio e  la colloca-zione  del  soggetto  nell’ambito  delle  nevrosi  come  universo  composito dei  diversi  stili  di  accettazione  di  tale  perdita. Non  così  per  il  folle  il cui  delirio  ha  sempre  la  finalità  di  riparare,  non  la  perdita  che  non  è avvenuta, ma il fallimento della metafora paterna attraverso la metafora delirante. Anche quando il delirio non è espresso c’è la possibilità che, improvvisamente,  in  seguito  a  congiunture  analiticamente  descritte dalla clinica psicoanalitica e nel contesto di una cura, sia attivato. Ma non diventa folle chi vuole, solo chi lo era già anche se nascosto da un equilibrio precario. Gli  esempi di  cui  l’autore  si  serve  sono diversi per storia di vita e tra loro distanti cronologicamente: Daniel Paul Schreber, Aimée, Georg Cantor; follie enigmatiche svelate in après-coup.Il saggio di Paola Francesconi  donna introduce un ulteriore enigma: quello della femminilità, luogo vuoto, che la barra sull’articolo determi-nativo presentifica e che aveva indotto Lacan a dire provocatoriamente che La donna non esiste. Paola Francesconi pone  la questione di come un corpo sessuato accede al godimento e non solo a una  identificazio-ne. L’identificazione per quanto inconscia si installa a livello dell’io del soggetto  ma  al  godimento  si  accede  tramite  la  sessuazione  del  corpo. La barra sulla  rimanda a un’altra barra a quella del simbolico sulla   che  manca  di  un  significante  che  possa  dire  della  femminilità  per quanto  le  donne  nella  loro  esistenza  lo  cerchino.  Il  paradosso  è  che 

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viene  cercato  nel  simbolico  dove  al  contrario  c’è  l’assenza.  Per  questo Lacan introduce la femminilità come non-tutta nel simbolico, qualcosa rimanda a un al di là. La tesi di Paola Francesconi è che una donna nel suo rapporto con  l’enigma della  femminilità è una  identità senza attri-buto. Da questa  constatazione ogni donna, per dirsi  tale, deve  trovare un nome che  la possa dire,  in una  identità  senza attributo,  sospesa nel vuoto di  significazione. Ma questo  vuoto,  questo mancare,  secondo  la tesi lacaniana porta alla possibilità per una donna di trovare un percorso ancora più originale e creativo perché le possibili variazioni sono infinite quante sono le donne che si collocano al lato destro dello schema della sessuazione elaborato da Lacan e presentato nel suo seminario Ancora.Anche  il  contributo di Rossella Ghigi  è  centrato  sul  corpo e  sulla  sua plasticità  conosciuta  fin  dall’antichità:  fin  dall’origini  dell’umanità  il corpo  viene  manipolato,  abbellito,  martoriato,  esaltato,  disprezzato, velato,  esposto.  L’autrice  descrive  in  questo  saggio  storico-sociologico le origini della  chirurgia plastica oggi divenuta  estetica. Ciò  che  stava alla base della chirugia palstica era la necessità di un rifacimento di una parte del corpo proprio teso a nascondere segni (il naso, il taglio degli occhi,  le  orecchie  a  sventola)  che  con  la  loro  presenza  rimandavano  a appartenenze, a gruppi sociali non adeguati socialmente e vissute come inferiori; oggi non è più così dal  corpo plastico  si  è giunti, grazie alla chirurgia, al corpo estetico. Oggi è impellente la necessità di dare una forma estetica a un corpo intero per uniformarlo a un modello di corpo ritenuto perfetto. Si cerca non più una modificazione per essere inclusi in una  società  e  essere uguali  agli  altri ma una  richiesta di  intervento che si sostanzia di una sempre più profonda e illusoria padronanza sul corpo  proprio  inteso  come  oggetto,  per  essere  come  il  modello.  Un narcisismo esasperato utilizzato per contrastare le contraddizioni vissute dal soggetto in relazione alla società e per evitare di incontrare il limite di  ciò  che  Freud  con  la  scoperta  dell’inconscio  decretò  essere  la  non padronanza assoluta con quel “nessuno è padrone a casa propria.”Gli ultimi quattro  saggi:  “Il  lavoratore  flessibile” di Valerio Romitelli, 

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“L’imprenditore  globale  astratto”  di  Giorgio  Gattei,  “Il  migrante”  di Ferruccio Gambino, “Il soldato” di Fabio Mini trattano di figure socia-li  e di modi  con  cui  la  società del  consumo, negli  ultimi decenni, ha fronteggiato i cambiamenti del mercato del lavoro. I lavoratori dell’im-menso  e  frammentato  mercato  globale,  ivi  compresi  quei  particolari lavoratori  che  sono  i militari,  sono  corpi  sociali  inconsistenti  che non riescono più a costituire corpi soggettivi collettivi. Il potere economico ha  plasmato  le  vite  degli  individui  sottraendoli  ai  luoghi,  simbolici  e fisici, in cui avrebbero potuto esprimere una qualche appartenenza; gli Stati  con  la  scelta di pace  che  si  alimenta di  guerre  sempre più  lonta-ne hanno  aperto  a professioni  che  fanno della  difesa una prevenzione contro  il  rischio  e  l’insicurezza  nella  ricerca  di  una  garanzia  totale.  Il Discorso del padrone nella sua versione capitalistica mostra la sua per-sitenza e l’immagine che ne viene è quella di una società frammentata, disgregante  e  disgregata  che  poggia  la  sua  esistenza  sul  potere  delle merci e degli oggetti. Una società costituita da individui immersi in un reticolo  di  servitù,  che  credono  di  essere  padroni  di  loro  stessi,  è  una società che non riesce ad individuare un padrone. Ma la psicoanalisi e gli  psicoanalisti,  collocandosi  dalla  parte  dell’inconscio,  rispondono  a un Altro discorso, umanizzano una  società di non  luoghi  facendo del soggetto dell’inconscio il luogo e la fucina da cui operare.

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matteo bonazziScrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques LacanEdizioni ETS, Pisa 2009

di Adone Brandalise * 1

Già  il  titolo  indica  come  il  volume  sia mosso dall’esigenza di  svilup-pare  le potenzialità di una congiuntura che per varie vie  si manifesta attuale. Da un lato la nozione di scrittura si presta,  in virtù di quella funzione  registica del  lessico  lacaniano che  essa  è  andata progressiva-mente acquistando nel protrarsi del Seminario, a fungere da traliccio, ma anche da principio ordinatore di un ripercorrimento globale della pratica  lacaniana  del  pensiero  nel  suo  farsi  strada  attraverso  i  luoghi cruciali in cui la filosofia ad un tempo la chiama ad agire, mentre sem-bra poterne e doverne fare a meno. D’altro  lato questa modalità svela molto di ciò che la rende legittima e utile quando la si colga come con-sanguinea  all’esigenza  che  invita  a  cogliere  la  centralità della nozione di contingenza, come indispensabile per comprendere in che modo la psicoanalisi si collochi, nel caso di Lacan, all’interno di un’organizza-zione storico-culturale del pensiero che essa non può che sovvertire nel momento stesso di ogni suo effettivo accadere.Per questo la proposta del volume non può che riconoscere la relazione decisiva  della  psicoanalisi  con  il  proprio  di  una  filosofia,  realizzata  e sovvertita  ad  un  tempo,  perché  la  psicoanalisi  rimette  in  questione quel suo assetto identitario che si chiude sulla rimozione del desiderio che la sospinge.Non a caso, nella trama in cui il volume reintesse le linee fondamentali 

*  Adone Brandalise, Docente di Teoria della  letteratura all’Università di Padova, direttore del master di studi Interculturali.

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dell’opera  lacaniana,  sembra  trasparire  un  ordito  concepito  a  partire dall’assunzione dei modi propri della fase cronologicamente più avanza-ta dell’itinerario lacaniano, secondo un arco che congiunge in un’unica prestazione strutturante Lituraterra e il Seminario XXIII.Non sorprende ormai che un itinerario sifatto possa anche corrisponde-re ad un più compiuto e produttivo insediamento del discorso di psico-analisi e filosofia nel luogo in cui Lacan lo situa, quello che si evidenzia qualora si colga l’effettiva portata della nozione di antifilosofia.Il libro infatti ci sembra procedere dalla convinzione che il rapporto tra filosofia e psicoanalisi non è da concepirsi come mutuazione reciproca di  lessici  e  strategie di  composizione del  discorso, ma  riguarda  la  rea-lizzazione della psicoanalisi in un movimento che non può che passare attraverso  la  radicale  messa  in  questione  della  posizione  del  pensiero nella  filosofia, una messa  in questione  che  ad un  tempo confuta  l’au-torappresentazione della filosofia e assume il desiderio che in essa parla e  promuove  un  pensare  e  un  dire  di  cui  si  deve  intendere  e  praticare l’effettiva ragione, assumendone effettivamente la causa.Di qui si potrebbe dire che il libro opera a partire da una esigenza, cre-diamo oggi vastamente sentita tra coloro che intrattengono con Lacan un rapporto avvertito come necessario al di là di una adesione scolastica ad una ortodossia lacaniana. Si tratta di comprendere come si ricollochi il pensiero a partire da ciò che Lacan attiva come pratica nella scrittura cui dà luogo il suo fare, e che rapporto intercorre tra questo luogo e la forma dell’operare filosofico. Insomma, se Lacan attraverso il suo eser-cizio  continua  ad  evitare  che  la  contingenza  sia  cancellata  a  favore  di qualche universale che consenta al soggetto di non essere in questione, occorrerà  approfondire  come  questo  movimento  detti  le  condizioni  e indichi le potenzialità di uno “scrivere la contingenza”.Lo stile, genialmente clownesco del Lacan dei Seminari  riapre costan-temente  la contingenza di un momento presente  in cui  la  teoria è più attiva  proprio  perché  è  tutta  arrischiata  nella  pratica  che  la  produce, non come prodotto  finale, ma  come condizione  continuamente  riatti-

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vata della propria apertura. Anche quando il pensiero lacaniano sembra disporsi nelle forme di un’imponente architettura schematica è ben lon-tano dal rilasciare queste sue figure come edificio dottrinale. Esse sono la sbarra cui si appoggia il danzatore nel suo quotidiano esercizio.Lacan produce una scrittura della contingenza assolutamente singolare, ma proprio per questo non “particolare”, non a caso esposta sempre al rischio della propria  seduttività  che  chiama a  rispondere  alla proposta che  la anima nella  forma di una  imitazione a volte prossima alla  reci-tazione  mantrica.  Bonazzi,  nel  suo  libro,  si  assume  il  compito  di  far funzionare una fruttuosa castrazione che eviti di rispondere all’angoscia di sentire la portata decisiva del pensiero lacaniano come ciò che spinge a ridirne gli stilemi, a rirecitarne gli eventi linguistici e propone invece la via di una assunzione per il pensare gli effetti essenziali dell’esempio lacaniano oggi.Si tratta di ricavare da quell’accordo che si percepisce agire in una vasta sinergia tra le formule essenziali della pratica lacaniana, la traccia a par-tire dalla quale riconoscere una posizione non meramente immaginaria, né  immaginariamente  simbolica del pensare nel nostro  tempo, ovvero di scrivere la contingenza.“Nel  1976  Lacan,  gettando  uno  sguardo  vertiginoso  all’indietro,  dice ciò che non ha mai detto e che in fondo non si può dire: il vero sul vero. E lo dice rivelando, non tanto il senso che sostiene il suo dire, ma l’atto che orienta il suo fare o il suo dire in quanto fare. Si tratta di ‘fare ciò che ho effettivamente fatto, né più, né meno: seguire le tracce del reale’ (Seminario XXIII,  p.  63).  Dire  il  vero  sul  vero  significa  mostrare  nel detto che si dice, questo è il punto reale che si cela dietro il cortocircuito dire-intendere” (Bonazzi, p. 186).La  psicoanalisi  propone  alla  filosofia  di  riconoscere  nel  singolare  non ciò che  l’universale deve  superare, ma quanto ad esso manca perché  il desiderio  che ne ha prodotto  la  condizione  linguistica  e  ideale non  vi trovi la sua morte, ma possa dare al suo sviluppo quella relazione con il reale in cui sta la sua potenza.

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attualità lacaniana n. 11/2010 - verso i grandi temi della modernitàrivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi

Presentazione. Rilanciare la Scuola, di Marco Focchi  5

parte i – rilanciare la scuolaIl programma di godimento non è virtuale, di Eric Laurent  9

parte ii – i grandi temi della modernitàSiamo tutti disinseriti, di Pierre-Gilles Gueguen  21L’uomo nuovo ha un cuore antico. Il ritorno delle passioni nella tarda modernità,   27

di Silvia Vegetti FinziVarianti dell’amore nella superficie del gusto, di Vilma Coccoz  40La crisi dell’epoca “della conoscenza”, di Valerio Romitelli  58

parte iii – versioni della psicoanalisiNon ci sono psicoanalisti in istituzione, ma effetti analitici, di Daniel Matet  79Glitch, di Marco Focchi  85Grethe, lo specchio infranto della Regina delle Nevi, di Fulvio Sorge  90

parte iv – psicoanalisi a teatro Conferenza al teatro Coliseo, di Jacques-Alain Miller  109

parte v – psicoanalisi al cinemaVideodrome, o dello spettacolo, di Maria Teresa Catena  139

parte vi – concetti baseUna lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan, di Silvia Cimarelli  147

parte vii – testimonianze di passeNon solo un destino, di Massimo Termini  187Il n’y a d’analyste qu’ à ce que ce desir [du savoir scientifique] lui vienne,   197

di Carmelo Licitra Rosa

parte viii – i libri di cui si parlaJ. Lacan, Il seminario VIII. Il transfert (di Roberto Cavasola)  211Laura Pigozzi, A nuda voce (di Alessandra Milesi)  219Giovanni Sias, Fuga a cinque voci. L’anima della psicoanalisi e la formazione   221

degli psicoanalisti (di Costanza Costa)Bruno Moroncini, L’autobiografia della vita malata (di Mariangela della Valle)  241