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ATTI

DEL

CONVEGNO

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MA LA MIA BANCA È DIFFERENTE? Lunedi 11 aprile 2016 – ore 9,30-14,30

Sala del Mappamondo – Camera dei Deputati

SOMMARIO

Pagina

Perché questo convegno? 4

INTRODUZIONE

Arturo Scotto (Presidente Gruppo Sinistra Italiana) 5

PRIMA SESSIONE - Come salvare le banche e tutelare i risparmiatori

Giovanni Paglia (Capogruppo Sinistra Italiana – Commissione Finanze) 7

Carlo Clericetti (Giornalista – Repubblica.it) 11

Vincenzo Visco (Ex-Ministro dell’economia e delle finanze) 13

Gianfranco Torriero (Vice Direttore generale ABI) 17

Rosario Trefiletti (Presidente Federconsumatori) 21

Vincenzo Comito (Ex-docente di finanza aziendale presso l’Università di Urbino) 25

Elio Lannutti (Presidente Adusbef) 31

Federico Mucciarelli (Docente di diritto commerciale presso l’università di Modena) 35

Enrico Morando (Vice Ministro dell’economia e delle finanze) 39

SECONDA SESSIONE - Tra home banking e fusioni: come cambia il lavoro

Loris Campetti (Giornalista) 45 e 57

Agostino Megale (Segretario generale della Fisac-Cgil) 47

Cesare Damiano (Presidente della Commissione Lavoro della Camera) 51

Roberto Telatin (Responsabile Ufficio studi Uilca) 55

Alessandro Messina (Direttore generale di Banca etica) 57

Agostino Megale – secondo intervento 61

TERZA SESSIONE - Costruire un sistema di credito (pubblico?) per lo sviluppo

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Mario Pianta (Docente di Politica economica presso l’Università di Urbino) 63

Massimo Mucchetti (Presidente della Commissione attività produttive del Senato) 71

Alfonso Gianni (Ex-deputato e saggista) 73

Sergio Gatti (Direttore generale di Federcasse) 77

Angelo Marano (Economista e dirigente pubblico) 81

Guido Iodice (Fondatore e curatore del Keynes.blog) 83

CONCLUSIONI

Giovanni Paglia 85

ALLEGATI – Le proposte di legge di Sinistra Italiana 89

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PERCHÉ QUESTO CONVEGNO

Un convegno per confrontare le proposte di Sinistra Italiana con gli interlocutori sociali ed istituzionali, predisporre una piattaforma per “una buona finanza” e verificare le possibili convergenze. Il convegno è stato organizzato in tre sessioni:

- Come salvare le banche e tutelare i risparmiatori

Il tema delle crisi bancarie è solo uno degli aspetti della finanziarizzazione sempre più spinta dell’economia, della crisi globale, di quella che alcuni hanno battezzata come la ”stagnazione secolare”. Nei vari Paesi si è proceduto in maniera diversa con interventi statali e non. Spesso a rimetterci sono i risparmiatori senza che gli organi di garanzia riescano a salvaguardarne gli interessi. L’azione del governo italiano al riguardo è stata equa? Come si possono tutelare meglio i piccoli azionisti ed i risparmiatori? Qual è lo stato reale degli istituti di credito italiani? - Tra home banking e fusioni: come cambia il lavoro

Il ridimensionamento dell’occupazione tocca pressoché tutti gli istituti di credito. L’attuazione di questi tagli porterà per la prima volta il totale dei dipendenti del settore bancario al di sotto della soglia dei 300mila. Ma con le inevitabili fusioni che si avranno nel prossimo futuro, il numero degli esuberi sono destinati ad aumentare. Così anche per l’introduzione delle nuove tecnologie. Oramai oltre il 50% delle operazioni avviene via web, con i bancomat, gli smartphone, il tablet o il pc. Di conseguenza il numero delle operazioni allo sportello sono crollate. Occorre prendere le opportune iniziative per garantire un’adeguata formazione agli operatori del credito ed eliminare la pratica delle pressioni commerciali. Vanno anche definite struttura e livello di remunerazione degli amministratori delle banche: infatti, il diffondersi di pratiche retributive non corrette ha significativamente contribuito all’origine della crisi del 2008.

- Costruire un sistema di credito (pubblico?) per lo sviluppo

Proponiamo di creare un sistema pubblico e semi-pubblico che utilizzi la liquidità presente: CDP, Fondazioni bancarie riformate, Banche di credito cooperativo, assicurazioni, banca pubblica per gli investimenti (green bank), Fondi pensione per investire nel progetto del Green New Deal per la creazione di posti di lavoro collegati all’innovazione, alla conversione ecologica dell’economia, allo sviluppo di servizi di welfare, all’infrastrutturazione leggera del territorio, al contrasto al degrado idro-geologico, alla messa in sicurezza delle scuole,….

AVVERTENZA:

Gli interventi contrassegnati con l’asterisco (*) non sono stati corretti dagli autori.

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INTRODUZIONE

Arturo Scotto Presidente del Gruppo di Sinistra Italiana Camera dei Deputati Grazie per essere qui questa mattina. Voglio ringraziare innanzitutto Giovanni Paglia che è il nostro capogruppo in commissione Finanze. Che ha immaginato e costruito insieme a Sandro De Toni dell'Ufficio legislativo questo convegno, a cui noi attribuiamo un significato molto forte. Abbiamo bisogno di fare una riflessione collettiva sul sistema finanziario nel nostro Paese a partire dal punto di vista dei risparmiatori. Non esiste un forte Paese industriale che non possa contare su un sistema finanziario solido. Dopo anni di deindustrializzazione fortissima che ha colpito questo Paese, di una crisi che sembra non volgere diciamo a un esito positivo, ci troviamo di fronte a un indebolimento ulteriore del circuito bancario nazionale che appare ben lontano da essere risolto. Questo si accompagna all'evoluzione di regole nazionali e comunitarie e globali che insistono sul nostro sistema bancario e che lo rendono ovviamente particolarmente esposto anche rispetto ad altri Paesi. Pensiamo al bail-in, pensiamo a Basilea tre , pensiamo al MiFID II, che ovviamente modificando i paradigmi tanto nel rapporto con gli utenti e con i clienti, quanto rispetto all'erogazione del credito, rischiano di produrre ulteriori difficoltà. La politica italiana sembra aver subito questa situazione, senza comprenderne fino in fondo la portata strutturale, tanto più in un paese storicamente e ancora banco-centrico, al punto da essere travolta dal decreto di novembre sulle quattro banche avviate a risoluzione, assunto con frettolosa superficialità, senza calcolarne adeguatamente l'impatto sulla fiducia dei risparmiatori e degli investitori. La situazione è molto complicata soprattutto per quel che riguarda i risparmiatori. Tema che sembra lontano da una risoluzione.

La stessa superficialità si nota d'altronde in queste ore intorno alla vicenda Carige, che vede la sesta banca italiana al centro di un'ipotesi di acquisizione a prezzo di saldo da parte di un fondo estero, senza che Governo e maggioranza appaiono intenzionati a prendere parola.

Noi invece con questo convegno vogliamo farlo.

Vogliamo discutere della relazione fra fiducia, risparmio e investimenti, a partire dal tema centrale della tutela dell’attore più debole della catena, ovvero il risparmiatore.

Vogliamo discutere del ruolo delle lavoratrici e dei lavoratori del credito, in un momento di grande cambiamento tecnologico, che tuttavia spesso maschera la tentazione dei banchieri di scaricare sul lavoro il peso delle loro responsabilità gestionali, interrompendo inoltre il tradizionale rapporto di reciprocità fra rete e consumatori, anziché riformarlo per superare diffidenze e criticità.

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Vogliamo discutere della possibilità che una rinnovata attenzione della politica per le dinamiche finanziarie possa determinare da un lato la soluzione del noto problema delle sofferenze, e dall'altro un nuovo indirizzo di banca per i cittadini e lo sviluppo, anche attraverso l'utilizzo di leve già esistenti, come la CDP, e da costruire, come una banca pubblica che potrebbe essere una soluzione anche per istituti in difficoltà come MPS.

Noi vogliamo oggi presentare il nostro pacchetto di proposte. Il collega Giovanni Paglia ne parlerà con voi, con gli interlocutori che abbiamo oggi qui e che ringraziamo e di cui siamo onorati della presenza. Un pacchetto di proposte che in qualche modo faccia passare il punto di vista dei risparmiatori e dei consumatori; di più che metta al centro il tema di un'educazione finanziaria che nel nostro paese manca e che produca però anche allo stesso tempo una svolta di sistema, a partire dall'architettura del sistema finanziario che noi proponiamo, con una proposta di cui è primo firmatario, il collega Paglia, che prevede la separazione delle banche di risparmio dalle banche d’affari.

Io mi fermo qui e vi ringrazio nuovamente e dò la parola a Giovanni per l'introduzione e poi per il giro del primo panel.

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PRIMA SESSIONE – COME SALVARE LE BANCHE E TUTELARE I RISPARMIATORI

Giovanni Paglia Capogruppo Sinistra Italiana – Commissione Finanze Camera dei deputati

Grazie a tutti voi che avete accettato di venire a confrontarvi con le nostre proposte su quello che riteniamo essere il tema forse decisivo che oggi la politica italiana ha davanti, per le ragioni anticipate da Arturo Scotto.

Siamo in una fase di grandissimo cambiamento.

Ad evolvere è infatti il sistema bancario e finanziario nel suo complesso, per effetto delle riforme europee, che si sono inserite nel contesto di quella che, sotto molti aspetti, è forse la più grave crisi del dopoguerra.

Una crisi che è intervenuta interrogando direttamente la struttura della finanza globale.

Quello che noi ci chiediamo è se in Italia ci sia una sufficiente consapevolezza di cosa sia accaduto e di cosa significhi la vigilanza unica europea, nonché il mercato comune della finanza in Europa. Se questa consapevolezza appartenga alla politica, ma anche ai risparmiatori, e sotto alcuni aspetti, se persino all'interno del sistema bancario si sia compreso cosa sia cambiato e stia cambiando. Noi abbiamo visto in questo ultimo anno intervenire pesantemente il Governo su tutto l'assetto della regolazione bancaria Italia.

È partito con l'intervento sulle banche popolari e per il momento ha chiuso in questi giorni con l'intervento sulle banche di credito cooperativo.

Nel mezzo abbiamo avuto il decreto sulla risoluzione delle quattro banche in crisi che ha rappresentato sotto certi aspetti uno spartiacque dal punto di vista politico.

Esso ha fatto infatti precipitare gli italiani nel nuovo sistema, quello del bail-in, senza che si fosse determinata, questa è stata la nostra critica forse più forte, un’adeguata preparazione sotto alcun aspetto. Si è scoperto improvvisamente che vivevamo in un mondo in cui i risparmiatori potevano perdere tutto quello che avevano.

Ad essere coinvolti erano infatti strumenti finanziari che venivano prima venduti come sicuri anche se erano a rischio, ma che come tali tuttavia non erano percepiti.

Si è scoperto che le banche possono fallire: altro architrave distrutto del sistema precedente, quando quest’ipotesi era talmente teorica da risultare inesistente.

E lo si è fatto senza alcuna preparazione, cioè da un giorno all'altro.

Su questo noi riteniamo si debba molto riflettere, dopo questa innovazione tutto il sistema finanziario deve cambiare.

Di qui la proposta che abbiamo messo in campo, che parte dalla separazione, come diceva adesso anche Arturo Scotto, fra banche d'affari e banche commerciali, che riteniamo a questo punto decisiva.

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È infatti diritto di chiunque risparmi in questo Paese quello di sapere a chi sta consegnando il proprio denaro, come lo sta investendo, e soprattutto per quali finalità.

Deve terminare in Italia questa comunanza fra banche d’affari e banche di investimento, che di fatto rende in sé poco trasparente il modo in cui il denaro dei risparmiatori viene utilizzato.

Tutto questo si inserisce nel contesto di un sistema economico nazionale in sofferenza.

Stamattina leggevo un report del Sole 24Ore, uno schema molto semplice in cui si mettevano in fila tutti i grandi Paesi dell'Unione europea secondo alcuni indicatori per evidenziare gli effetti della crisi.

Si mettono a confronto la situazione nel duemila e dieci e quella odierna.

In sostanza, è impressionante vedere la caduta in Italia della produzione industriale in raffronto al PIL e contemporaneamente un grande aumento del debito pubblico senza che questo abbia avuto tuttavia un influsso positivo sulla crescita economica.

Osserviamo una caduta del credito alle imprese da una parte e dall'altra il grande tema delle sofferenze bancarie, che è un altro tema su cui credo ci dovremmo interrogare profondamente.

Il modo con cui il Governo è intervenuto, dal nostro punto di vista, è insufficiente. Noi pensiamo ci voglia altro.

Abbiamo detto che si è puntato a creare un mercato delle sofferenze bancarie, un mercato degli Npl (non performing loans).

Noi abbiamo opposto che non di creare un mercato si trattava, quanto piuttosto di creare una gestione anche pubblica e anche politica di queste sofferenze.

Creare un mercato efficiente delle sofferenze significa, infatti, preoccuparsi del fatto che queste vengano smaltite molto rapidamente, senza tenere in alcun conto di quello che è il lato debole della catena delle sofferenze, catena che guardiamo sempre dal punto di vista delle banche. Esiste anche l'altro punto di vista: da una parte c'è la banca, dall'altra ci sono una famiglia o un'impresa in crisi, pesantemente in crisi.

Quindi creare un mercato significa accelerare quelle che sono le procedure di riscossione, significa facilitare il fatto che chi è dentro una casa e fatica a pagare il mutuo venga messo fuori da quella casa rapidamente; significa permettere che più rapidamente vengano pignorati beni d'impresa senza alcun riguardo alla continuità aziendale.

Un mercato efficiente degli Npl, dal nostro punto di vista, rischia di portare a questo. Da queste considerazioni nasce la nostra proposta alternativa su cui si può discutere ma che vuole partire da un'impostazione diversa, che è quella di un fondo immobiliare pubblico che vada invece a rilevare le sofferenze bancarie con un sottostante immobiliare.

E lo faccia presto.

Acquisti al prezzo attualmente molto ridotto rispetto anche a quelli che erano i valori di mercato e per questa via liberi le banche di una parte confortante di sofferenze.

Dall'altro lato utilizzi questa iniziativa per intervenire su quella che è ormai una cosa indispensabile in questo Paese, ovvero la ricostituzione di una dotazione degna di edilizia residenziale pubblica.

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Ci si può inoltre mettere nella condizione di disporre di quegli immobili a uso produttivo che potrebbero essere utilizzati per fare politica industriale, con un programma in particolar modo rivolto ai giovani.

Noi pensiamo in definitiva che lo Stato si debba fare carico del fatto che il sistema bancario ha dei limiti dati dalle sofferenze.

In questo caso non vale il principio per cui se il sistema bancario ha fallito sotto alcuni aspetti merita il fallimento tout court.

Un Paese normale non ragiona così; si rende conto che la stabilità finanziaria è un interesse comune e tuttavia, se lo Stato in qualche modo deve intervenire si mette nelle condizioni di averne in cambio qualcosa che gli serva, sapendo che ciò che può avere un valore sociale non necessariamente ha un valore di mercato.

Vado a chiudere introducendo un ultimo elemento. A noi preoccupa molto ciò che in questo momento sta avvenendo o rischia di avvenire intorno ad alcuni importanti istituti bancari, penso per esempio a Carige (Cassa di risparmio di Genova).

Penso alla possibilità che, come in qualche modo viene adombrato dall’operazione che il fondo Apollo sta facendo con Carige, si possa entrare nell'acquisizione delle sofferenze bancarie ad un prezzo ridottissimo, figlio di quel decreto sbagliato di novembre, quando si è accettata l'idea di fissare un benchmark molto basso rispetto al valore di mercato delle sofferenze bancarie.

Allora si disse che non era un benchmark, negando l’evidenza.

Così si rischia di facilitare una doppia operazione: per quella via, da un lato si acquisiscono a basso prezzo sofferenze, dall'altro si usa quel cavallo di Troia per entrare dentro la banca ed avere la maggioranza azionaria di una delle grandi banche italiane.

Allora noi ci chiediamo - questa è una domanda che io lascio in sospeso e affido anche alle vostre riflessioni - se un grande Paese industriale può permettersi di perdere il controllo nazionale sulle grandi banche del Paese; cioè se valga anche per le banche quello che è valso per le grandi imprese industriali che sono passate progressivamente in mano straniera rendendo evidentemente più difficile la politica industriale di questo Paese; se questo debba essere consentito anche per l'ultima grande realtà economica che rimane in qualche modo in mano nazionale.

Se si prende la Borsa italiana, si vede che ciò che ancora ha una maggioranza di capitale nazionale sostanzialmente è rappresentato dal sistema bancario ed assicurativo.

Quando facemmo il dibattito sulle banche popolari il Governo teorizzò che sarebbe stato un bene se le grandi banche popolari fossero state acquisite da fondi esteri, perché avrebbe significato una maggiore concorrenzialità del mercato. Noi non eravamo d'accordo.

Io credo che anche la storia del rapporto fra Nord e Sud Italia di questi anni andrebbe guardata con una certa attenzione. Il Sud Italia ha perso completamente il controllo sul proprio sistema creditizio. Non esistono più grandi banche che abbiano la testa e la sede principale nel Sud. Io mi chiedo se non sia anche questo uno degli elementi che ha portato l'intera area meridionale del nostro Paese ad avere una maggiore e grande difficoltà nel mantenimento di una presenza produttiva. Se questo fosse vero, io mi dovrei interrogare su cosa succederebbe il giorno in cui le grandi banche italiane dovessero passare sotto controllo estero. C’è il rischio concreto che questo Paese diventi unicamente un grande luogo di raccolta. Rimarranno da noi anche gli impieghi o rischiamo piuttosto che gli impieghi seguano la “testa” dei fondi o degli istituti che dovessero acquisire le

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nostre banche? Ecco, questa è una domanda che io lascio aperta, ma non posso non pensare al futuro di Carige o di MPS, per non parlare delle grandi banche popolari.

Anche la scelta rispetto alle quattro banche oggetto di risoluzione avrebbe dovuto essere quella di privilegiare la vendita asset per asset e di dare mandato in questo senso a Nicastro.

Invece la vendita in un'unica soluzione a me pare chiaro essere un sistema che privilegia assolutamente l’offerta dei fondi di investimento stranieri, tanto che ad oggi fondamentalmente da lì sono arrivare le offerte.

E’ un altro pezzo di finanza territoriale che viene messo in vendita a prezzo di saldo dopo averlo salvato facendone pagare il costo ai risparmiatori italiani, comunque la si voglia intendere. Ecco, io credo che, come ho detto prima, la vicenda di quelle quattro banche rappresenti uno spartiacque. Perché ci devono dire se quello è in qualche modo il modello a cui noi andiamo incontro, e cioè ad una serie di salvataggi pagati dai risparmiatori e alla cessione a costi bassissimi del controllo delle nostre banche ad investitori esteri o se invece si può immaginare anche su questo una strada diversa.

Passerei ora la parola a Carlo Clericetti che modererà il dibattito.

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Carlo Clericetti giornalista economico – Repubblica.it

Grazie a Giovanni Paglia. Il suo intervento ha messo sul tappeto vari aspetti del problema. Intanto, i rapporti con i regolatori, in questo caso la Commissione UE che è quella che decide se un qualcosa è considerato un aiuto di Stato e quindi dà o non dà il permesso. Nel caso della "risoluzione" - come oggi si dice - delle quattro banche (Banca Marche, Popolare dell'Etruria, CariFerrara, CariChieti) abbiamo scoperto che la nostra possibilità di intervento può essere molto limitata, nel senso che volevamo fare qualcosa che non abbiamo potuto fare. Ne siamo stati impediti perché era considerato aiuto di Stato, nonostante che i fondi venissero da soggetti privati. Ma poi i regolatori sono un bel numero, perché c'è la BCE e le banche centrali nazionali, c'è il Comitato di Basilea, c’è l'EBA. Tutti questi regolatori influenzano in qualche modo anche il concetto di solidità del sistema bancario perché quando l’EBA o la BCE decidono come si fanno gli stress-test, cioè quali sono gli aspetti rilevanti da considerare, i criteri possono non essere neutrali, come non lo sono i criteri stabiliti a Basilea sui requisiti di capitale. Possono essere, per esempio, più favorevoli a un certo tipo di banca, cioè quella che fa prima di tutto finanza, e più sfavorevoli per quelle più orientate ai prestiti all'economia, come le banche del nostro paese. L'Italia si è lamentata per questo aspetto, ma finora senza alcun risultato.

Un altro aspetto è il problema della struttura della banca. Siamo tutti sicuri che le banche devono essere grandi, grandissime? Che, nel settore del credito, solo grande è bello? Io francamente non ne sarei così sicuro. Forse sarebbe necessario riflettere di più sul problema se il sistema bancario debba essere fatto tutto di grandi e grandissime banche, perché forse una grande banca può fare delle economie di scala, però si allontana sempre di più dal cliente. E quando deve prestare all'economia una banca molto grande utilizza criteri standardizzati, non va a conoscere il cliente sul territorio. Usa dei parametri standard che quindi funzionano in modo statistico. A volte funzionano ed a volte no, e magari a volte non funzionano per dare credito a chi lo meriterebbe. Certo nelle banche territoriali c’è anche il rischio che i prestiti siano accordati all’amico dell’amico, ma se si esagera con i favoritismi la banca va a picco: e se non è troppo grande anche i danni da riparare potranno essere affrontati con relativa facilità. Secondo me, questi argomenti dovrebbero essere materia di una più attenta discussione.

Poi c'è un problema di rapporto tra banche e clienti. Ci voleva il bail-in, il disastro delle quattro banche fallite, per metterlo in evidenza. Il che è singolare, perché questo problema del rapporto tra banche e clienti esiste da decenni, anche perché non se n'è mai occupato nessuno di controllarlo e regolarlo. Non se n'è occupata la Banca d'Italia e non se n'è occupata programmaticamente. Infatti, qualche tempo fa, il direttore generale Salvatore Rossi ha dichiarato che da qualche anno hanno capito che oltre a vigilare sulla solidità delle banche era bene che si occupassero anche dei loro comportamenti verso i clienti, perché hanno capito che questo ha riflessi anche sulla solidità. E meno male che l'hanno capito, ma comunque solo adesso.

Dal punto di vista istituzionale sui comportamenti dovrebbe vigilare la Consob. Non risulta francamente che abbia mai fatto gran che, perché i clienti delle banche sono stati sempre tosati, diciamo, in maniera moderata, cioè non gli è mai stato proprio tolto tutto come in quest'ultimo caso che appunto ha fatto esplodere la situazione. Credo che succeda da sempre che le banche vendano ai clienti azioni ed obbligazioni non quotate, che poi non hanno ovviamente un prezzo di mercato oggettivo, ma che, al momento di un eventuale smobilizzo, hanno il prezzo che deciderà la banca

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stessa, unica possibile acquirente. Per non parlare della trasparenza che rappresenta una conquista relativamente recente: ricordo che ancora fino a metà degli anni Ottanta, se io volevo sapere quanto mi costava acquistare un titolo di Stato la banca non me lo diceva, l'importo della commissione non c'era nemmeno sul fissato bollato. Solo dopo una lunga battaglia si è riusciti ad avere la trasparenza bancaria. Forse bisognerebbe riflettere anche sulla questione delle sanzioni. I dirigenti delle banche, a differenza dei dirigenti delle imprese industriali, possono essere multati, cioè possono essere penalizzati personalmente per quello che hanno fatto. E' un'ottima cosa, ma forse però non basta. Abbiamo visto troppe volte, come adesso nel caso delle Popolari venete, per esempio, che agli ex dirigenti che hanno affossato le banche nessuno chiede indietro i compensi milionari che hanno ricevuto negli anni precedenti. Le sanzioni sono importanti: se uno può fare qualsiasi cosa e poi riesce a farla franca, l'azzardo morale è inevitabile. Anche su questo punto c'è ancora senza dubbio da lavorare.

Ho messo solo sul tavolo dei problemi. Darei adesso la parola a Vincenzo Visco che forse ne potrà affrontare qualcuno.

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Vincenzo Visco ex-Ministro dell’economia e delle finanze Penso che forse bisogna prendere l’argomento un po' da lontano. Noi viviamo in un mondo, da circa duecento anni, in cui il capitalismo ha avuto una capacità incredibile di produrre ricchezza. Da quando esiste l’economia di mercato capitalistica il Pil mondiale è aumentato di ottanta volte. E il Pil pro capite è cresciuto di dodici volte; nel frattempo infatti la popolazione del mondo è aumentata da uno a sette miliardi di persone.

A fronte di questa straordinaria capacità di produrre reddito, ricchezza, benessere esiste un'intrinseca instabilità del sistema che si manifesta in crisi ricorrenti. Tanti diversi tipi di crisi: crisi reali, inflazionistiche, deflazionistiche, crisi finanziarie, bancarie, di borsa. Se uno guarda alla storia dei duecento anni passati vede questo. Al centro di questa instabilità ci sono le banche, ci sono sempre state le banche.

A metà dell'Ottocento dopo collassi molto traumatici si decise di creare le banche centrali, cioè di creare un entità che fosse in grado di fungere da prestatore di ultima istanza, e cioè di prestare e dare liquidità alle banche commerciali quando queste si trovavano in situazione di illiquidità in modo di evitare insolvenze che poi avevano effetti a catena: panico bancario, fallimento delle imprese, recessioni, depressioni.

E quindi fin dall'inizio c'è questo problema, il quale poi diventa ancora più evidente dopo la crisi del ventinove che di nuovo trova al centro le banche. Il fallimento delle banche ha infatti prodotto la depressione e quel ne seguì.

E quindi, a quel punto, si comincia ad affermare un'ulteriore modalità di intervento regolatorio sulle banche, molto incisiva. Dopo la crisi degli anni degli anni trenta nel pensiero economico liberale, liberista, quello di Chicago per esempio, se ne discuteva. Per esempio, Irving Fisher sosteneva che le banche dovessero essere tutte pubbliche, e che non dovessero fare profitti. E Milton Friedman sosteneva che non ci doveva essere moneta bancaria, e che le banche dovessero avere riserve pari al 100% dei depositi a vista, e che quindi fosse loro sottratta la possibilità di creare moneta. C'era un clima molto severo nei confronti delle banche da cui venne fuori una forma di vigilanza invasiva che è stata definita “strutturale”, e che da noi è andata avanti fino a non moltissimo tempo fa. Vigilanza strutturale significa che alla Banca centrale o ad altri organismi viene dato un potere enorme sulle banche. Venivano controllate le banche, i loro bilanci e i loro investimenti, la loro dimensione, la possibilità di aprire sportelli, la possibilità di acquisire un'altra banca, di fare le fusioni, e quant'altro. E c'era la convinzione che il problema del risparmio fosse un problema di ordine pubblico.

Naturalmente questo riguardava essenzialmente le banche commerciali. Per le banche d'affari c'era la separazione. Soprattutto negli Stati Uniti; non c'era in Europa, salvo che in Italia. In Italia era infatti segmentato tutto. In Italia c'era il credito industriale, il credito fondiario, c'erano le banche commerciali, poi c’era Mediobanca che faceva la banca d’affari.

Era anche differenziata la raccolta. Quindi c'era la raccolta breve per le banche commerciali e c’era la raccolta lunga. E questo, per esempio, avrebbe impedito il collasso del 2007 negli Stati Uniti se ci fosse stato questa corrispondenza tra durata della raccolta e durata degli impieghi.

Trascorsi alcuni decenni, cosa accade? Accade che questo sistema appare insoddisfacente e sembra non funzionare più, appare troppo rigido, limita eccessivamente la concorrenza. Ma soprattutto il

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sistema risultava poco coerente se non in contrasto con la nuova fase di sviluppo dell'economia mondiale e con la globalizzazione; era necessario disporre di ingenti risorse a livello globale, planetario, e quindi i sistemi bancari anchilosati sulle economie nazionali, ipercontrollati, non andavano più bene, e quindi si decise di superare un po' questo eccesso di regolamentazione. Invece di esercitare una vigilanza strutturale si decise di passare ad una vigilanza “prudenziale”. E quindi regole, non divieti né tanto meno discrezionalità. Questa, come chiunque si interessi di politica sa, è un'alternativa, un trade off decisivo in molti casi e in molti campi: regole o interventi diretti ? Quando succede qualcosa, come si interviene?

Con il passaggio alla vigilanza prudenziale si affermano le banche universali. Cadono steccati e separazioni tradizionali, e il sistema funziona, nel senso che è risultato in grado di finanziare la nuova fase di sviluppo. Ma nello stesso tempo però ricompaiono le instabilità sistemiche che erano scomparse nel trentennio dopo Bretton Woods.

Se uno va a vedere l'analisi delle crisi che noi abbiamo avuto dopo il cambio di paradigma, questo effetto è molto evidente, anzi impressionante. Abbiamo cominciato ad avere crisi finanziarie ogni due, tre anni. Abbiamo avuto, per esempio, una crisi di borsa nel 1987 e poi nel 2001, con epicentro negli Stati Uniti; la crisi messicana nel ’94; la crisi asiatica nel ’97; la crisi russa nel ’98; la crisi LTCM (Long-Term Capital Management) sempre nel ’98; la crisi argentina nel 2001; e poi la crisi dei subprime nel 2007-2008.

Insomma, è chiaro che se le regole vengono allentate si possono avere questi risultati. La cosa interessante è però vedere che dopo la crisi del 2007-2008 pur essendo chiare queste questioni - sono state pure discusse - non c'è stato un cambiamento di paradigma come accadde nel ’29.

Perché? Perché da un lato si dovrebbe intervenire a livello globale mentre queste strutture sono rimaste gestite a livello nazionale, e dall'altro perché non c'è stata la crisi definitiva, culturale del modello precedente come invece accadde dopo la crisi del ’29. E quindi si continua a guardare l'economia con lo stesso occhio di prima. Né è possibile pensare di riprodurre lo stesso sistema di vigilanza precedente. Per cui io, personalmente, pur non avendo niente contro l’idea che si debbano separare le banche d’affari dalle banche commerciali, non so se questo sarebbe sufficiente nella nuova situazione che si è creata, e se non dobbiamo studiare altre soluzioni.

Inoltre, in Europa le banche sono sempre state banche miste. E quindi esiste un problema di concorrenza: se uno esagera sulla regolamentazione in un solo mercato, mette in difficoltà le proprie imprese bancarie e quindi si tende ad essere molto prudenti.

Tornando a noi. Cosa è accaduto qui in Italia? Abbiamo avuto una situazione in cui la Banca d'Italia è sempre stata molto più prudente delle altre banche centrali, e date anche le caratteristiche strutturali della economia italiana, dopo la crisi del 2007-2008 noi non abbiamo avuto particolari problemi con le nostre banche, salvo con il Monte dei Paschi che è stato essenzialmente un caso di malversazione, una questione in parte, a se. E quindi non c'erano problemi di intervento, mentre in molti altri Paesi si sono avuti collassi spaventosi, con interventi pubblici enormi. Quello che ci ha messo in crisi, è stata la seconda recessione, quella del 2011-2014 che ha fatto morire centomila e più aziende, e ha quindi creato il problema delle sofferenze. E a questo punto le banche si sono trovate nei guai, anche per colpa loro, ma non solo.

Nel frattempo noi abbiamo accettato, e questo è stato un errore politico, di cambiare le regole in Europa senza tenere presente quello che ci poteva capitare. Quindi le regole del bail-in sono state introdotte con il nostro consenso. E le nostre banche si sono trovate nei guai.

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Naturalmente, poi, le banche in Italia, ed particolare la loro organizzazione (l’ABI), hanno avuto sempre un atteggiamento di diffidenza e di rifiuto totale rispetto a qualsiasi intervento pubblico. Hanno detto “no, ci pensiamo noi”. E ci hanno pensato come abbiamo visto, come hanno sempre poi in parte fatto, cioè usando i depositanti come parco buoi.

La Consob non ha vigilato; e la tutela dei risparmiatori nel nostro ordinamento spetta alla Consob e non alla Banca d'Italia. La Banca d’Italia, dal punto di vista della vigilanza che c'è adesso, si occupa della stabilità. Se, per ipotesi i banchieri fanno ”carne di porco” nei confronti di chicchessia la Banca d’Italia non solo non è responsabile, ma non gli interessa, anzi gli può anche stare bene. Così come, viceversa, nel caso della Consob che si dovrebbe occupare di trasparenza, se perseguendo questo fine provocasse il fallimento di una banca, non dovrebbe preoccuparsi più di tanto: non tocca a lei. Quindi, nel nostro sistema quello che è venuto meno è il ruolo dell'autorità di vigilanza preposta al controllo, alla tutela dei risparmiatori. Che è la Consob, che è stata captive come normalmente succede.

Per risolvere per il futuro il problema posto dal fallimento delle quattro piccole banche, la cosa più efficace sarebbe l’introduzione dell'obbligo di pubblicare il prospetto dei rischi probabilistici dell’investimento. Se ci fosse stato questo obbligo in occasione della vendita delle famigerate obbligazioni subordinate ,si sarebbe visto che c'era, per esempio, il 67 per cento di probabilità di perdere il 46 per cento sulla somma investita. A questo punto anche il più sprovveduto dei risparmiatori si sarebbe reso conto di cosa avrebbe potuto capitargli; se gli avessero fatto vedere questa tabella difficilmente sarebbero riusciti a piazzare quei titoli, per di più con un rendimento pari a quello dei titoli pubblici. Questo è l'altro scandalo: perché uno può emettere obbligazioni subordinate, ma allora esse devono avere un tasso del dieci per cento e non del tre e mezzo dato che i rischi sono ben diversi.

Questo è quanto è successo. Penso che sia inevitabile che queste cose accadano nelle nostre economie. Certo, bisogna cercare di affinare i problemi di vigilanza. E naturalmente in Europa noi abbiamo avuto anche una certa insufficienza nostra, ma anche poi un atteggiamento, un comportamento degli altri Paesi a noi avverso, Paesi che hanno fra i loro obiettivi anche quello di indebolire, rendere difficile la vita agli altri che sono visti come concorrenti. In questa vicenda, per esempio, il fatto che non abbiano consentito l'intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi è incredibile.

Io mi auguro che si riesca a fare qualcosa rapidamente. Vedo su questo problema un Governo che procede con molta lentezza, molto ritardo .Da questo punto di vista è urgente trovare una soluzione praticabile per la bad bank. In proposito, sul Sole 24 Ore del 28 febbraio scorso, ho proposto una soluzione praticabile, esente da possibili rilievi in sede europea, in grado di risolvere sia il problema degli aumenti di capitale delle banche che quelli relativi alla cessione e/o cartolarizzazione delle sofferenze. Mi auguro che essa possa essere presa in considerazione.

In ogni caso, quando si verificano episodi come quelli cui abbiamo assistito, da un lato non bisogna stracciarsi le vesti per la cosiddetta tutela dei risparmiatori. Ci sono risparmiatori inconsapevoli che sono stati truffati e che vanno tutelati. Ma è emersa anche una rete incredibile di relazioni opache a livello locale. Allora, noi dobbiamo avere banche piccole, banche con vocazione locale, ma stiamo attenti perché poi con le piccole banche si vede cosa può succedere con la commistione tra interessi locali, politica e banche. Guardate il Monte dei Paschi che piccolo non era. La terza banca italiana è stata divorata per ossessione localista, per finanziare i palii e le squadre di calcio, creare occupazione più o meno fittizia, senza entrare nel merito di come si concedevano i prestiti. E’ quello che appunto sta emergendo per le banche fallite, piccole banche, con vocazione locale,

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incardinate e radicate nel territorio, il che ha ovvie caratteristiche positive, salvo verificare che a livello di governance non avvengano pasticci, facendo sì, per esempio, che un gruppo ristretto di persone possa gestirle come desidera. Anche questo non va tanto bene.

Dall’altro temo che dovremo convivere con questi problemi di instabilità finanziaria inevitabilmente a lungo, almeno fino a quando la questione non verrà affrontata alla radici, a livello globale. Ma sarà necessario sperimentare altre gravi crisi perché questo possa avvenire.

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Gianfranco Torriero Vice-direttore generale dell’Associazione bancaria italiana (ABI) Consentitemi innanzitutto di ringraziare gli Onorevoli Scotto e Paglia, a nome dell’Associazione Bancaria Italiana e del presidente Antonio Patuelli, per l’invito a partecipare a questo incontro. Gli interventi introduttivi sono stati particolarmente interessanti, quindi prenderei spunto da qualche passaggio di ciascun intervento per fornire il mio contributo e per fornire le risposte alle sollecitazioni di Carlo Clericetti. Primo tema, le discontinuità.

Questa mattina sono stati segnalati diversi elementi di discontinuità. Ricordo tra questi, il tema della regolamentazione e quello dell'innovazione tecnologica che incidono direttamente nei rapporti tra banca e cliente, cambiando, tra l’altro, in profondità le modalità con cui sono domandati i servizi e prodotti bancari, con conseguenti e ineludibili adattamenti da parte dell’offerta bancaria.

Una ulteriore discontinuità significativa è quella determinata dal contesto macroeconomico. Il nostro Paese sconta ancora una livello del Pil di 9 punti percentuali inferiore a quanto registrava prima della grande e profonda crisi. Gli altri principali Paesi europei da alcuni anni hanno pienamente recuperato e superato i livelli di inizio 2008. Di fatto, tra il 2008 e il 2015 siamo cresciuti per circa 12/14 punti percentuali in meno rispetto a Francia e Germania. Tale dinamica economica è un elemento essenziale per una corretta lettura di tutti gli altri fenomeni rilevanti che stanno impattando sul mondo bancario italiano.

A ciò si aggiunge una limitata capacità di crescere in termini potenziali della nostra economia, il cosiddetto PIL potenziale. Negli ultimi anni tale indicatore ha assunto un segno negativo, ora c’è una inversione di tendenza ma il valore oscilla su valori di poco superiori allo zero. Quindi una capacità di crescita potenziale dell'economia italiana ancora troppo contenuta.

Ma come far crescere la nostra economia? Serve proseguire nel processo di riforme avviato ma occorre tener conto anche dei vincoli che provengono dall’estero. Il rischio regolamentare può determinare una compressione della crescita dell’economia. Il rischio regolamentare si declina sotto tanti aspetti. I regolamentatori sono tanti, vengono in molti casi da distante e vengono prima delle norme nazionali, influenzando fortemente il grado di libertà delle decisioni nazionali.

Arriviamo così al secondo tema. L’approccio scelto da Vincenzo Visco è stato quello “la prendo da lontano”, con una puntuale e dettagliata analisi di ricostruzione storica degli eventi. Ritengo che occorre “prendere da lontano” anche in senso spaziale.

Molti sono i decisori e sono “distanti”. Solo per memoria, un elenco non esaustivo: i vari G20/G7, il Financial Stability Board, il Comitato di Basilea, l’EBA, la BCE, il Parlamento europeo, Commissione, Consiglio. L’ulteriore elemento di discontinuità di cui dobbiamo tener conto è che decidono prima, con forza particolarmente cogente, di quello che poi viene deciso all'interno di ogni singolo Paese.

Questo pone una riflessione essenziale e politica: quella del presidio, nella fase costitutiva, delle norme che ovviamente non sempre rappresentano - tengono in adeguato conto - correttamente strutture economiche come quella italiana che ha sicuramente alcune peculiarità. Occorre intervenire nella fase di avvio della regolamentazione o meglio nel momento in cui “culturalmente” si pongono le basi delle nuove regole. Il rischio è la presenza di ulteriori vincoli specifici per la nostra economia.

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Questo è un punto su cui sicuramente occorre una riflessione ampia, anche da parte della politica, proprio per individuare le modalità più adatte per presidiare in via anticipata alcuni campi di azione.

Un ulteriore tema sollevato è stato quello della pluralità.

Rispetto alle caratteristiche distintive delle banche italiane, focalizzando l’attenzione sui gruppi bancari oggetto della vigilanza Unica e sui grandi gruppi di Regno Unito e altri Paesi del Nord Europa, emerge un quadro europeo in cui - se nel numero prevalgono gli intermediari a vocazione di banca commerciale (oltre 2/3 del totale), principalmente di dimensioni medie o piccole - in termini di volumi di business poche grandi banche d’investimento detengono oltre la metà del mercato.

Queste sono concentrate prevalentemente nei Paesi del Centro-Nord Europa – in primis in Francia, Germania e UK, mentre negli Stati del centro-sud sono preponderanti i modelli riconducibili alla banca commerciale.

In Italia, gli intermediari bancari specializzati nell’attività bancaria tradizionale rappresentano sostanzialmente l’intero universo, sia in termini di numero di banche sia di volumi di attività bancarie.

Anche in questo caso emerge chiaramente una forte differenziazione. Differenziazione di cui bisogna tener conto quando vengono definite le nuove norme regolamentari. Solo a titolo di esempio, ricordo il tema del cosiddetto PMI supporting factor che permette di far assorbire meno patrimonio a fronte dei finanziamenti erogati a favore delle piccole e medie imprese. La proposta italiana accolta a livello europeo nasceva proprio da una attenta analisi delle caratteristiche specifiche sia della domanda di finanziamenti proveniente dal mondo delle piccole imprese sia dalla struttura dell’offerta bancaria in Italia. Ora occorre che tale previsione venga riconfermata a livello europeo. Un utile contributo in questo senso è stato fornito dai lavori svolti dal Parlamento italiano. Ora stiamo sensibilizzando sul tema gli esponenti del Parlamento europeo.

Di seguito un altro aspetto relativo a un approccio che deve esaltare la pluralità. La regolamentazione attuale è tutta concentrata sul rischio di credito. Questo è determinato anche dal fatto che storicamente le competenze, anche dei regolamentatori, si sono concentrate su questo campo. Tuttavia, ci sono altri fattori di rischio importanti, connessi ad elementi riconducibili ad aspetti finanziari piuttosto che creditizi. Per esempio, le componenti connesse con le attività illiquide, quelle di livello tre, come definite a livello tecnico, dove di fatto la regolamentazione è carente. Tale carenza potenzialmente tende a favorire le grandi banche di investimento. La sensibilità sul tema è molto limitata anche a livello europeo. Tuttavia, questo incide sulla capacità competitive delle banche, penalizzando le banche più tradizionali, e quindi penalizzando la capacità di sostenere le imprese e le famiglie. Occorre evitare che la regolamentazione favorisca una certa dimensione di banca a scapito di altre o una certa specializzazione.

Data la struttura imprenditoriale italiana, va valorizzata la presenza di una pluralità di soggetti bancari, per dimensione e specializzazione produttiva, creando le occasioni per un supporto adeguato e tarato sulle caratteristiche della domanda.

Altro tema segnalato in apertura è quello della trasparenza.

Nel corso degli ultimi anni sono stati emanati molti provvedimenti che sono andati a rafforzare gli elementi di trasparenza nel rapporto banca-cliente. In connessione a questo, l’Abi e le principali associazioni dei consumatori hanno avviato un progetto specifico denominato “trasparenza semplice”.

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Molto è stato fatto ma molto occorre fare. Basterebbe effettuare una semplice indagine di mercato tra di noi per cogliere spazi di miglioramento. Quanti ricordano di aver ricevuto le comunicazioni di trasparenza a inizio anno? Quanti le hanno lette velocemente? Quanti le hanno lette con cura, approfonditamente?

L’impegno profuso con le associazioni dei consumatori è stato quello di proporre ai regolamentatori informazioni semplificate di quanto in via obbligatoria occorre far avere al cliente. Occorre sintesi nella completezza e nella chiarezza delle informazioni da fornire. Il tutto per creare le condizioni per agevolare una scelta molto più consapevole rispetto a un obbligo che è diventato essenzialmente un obbligo di tipo amministrativo/legale.

L’esperienza ci insegna che iniziative di autoregolamentazione senza il supporto di chi le norme le definisce possono essere soggette ad un rilevante rischio legale.

Ultimo tema è quello delle sofferenze bancarie. Sulla dimensione del fenomeno incidono sia le dinamiche recessive sia l’inefficienza della giustizia civile.

C'è la necessità di effettuare degli interventi urgenti che possano contribuire a ridimensionare una situazione che già avevamo sperimentato nel corso degli anni ‘90 quando avemmo la cosiddetta “emergenza sofferenze”. Questa emergenza sofferenze fu risolta, tra l’altro, con l'emanazione nel 1999 della legge sulle cartolarizzazioni a cui si accompagnavano i principi contabili nazionali diversi dai principi contabili internazionali, e quindi con implicazioni di contabilizzazioni diverse dalle norme attuali. Dato l’attuale contesto contabile diverso, cioè quello internazionale, ora occorre agire sull’efficientamento dei tempi della giustizia civile, che contribuirebbero a ridurre la dimensione del fenomeno e a rendere un po’ più uguale il nostro Paese rispetto agli Paesi europei, rendendolo anche più attrattivo.

In chiusura, non posso non ricordare che proprio per contrastare le difficoltà che hanno registrato le imprese e le famiglie, l’Abi, le banche, sempre con le associazioni dei consumatori e con le rappresentanze delle imprese, in questi anni hanno messo in piedi una serie di strumenti volti a permettere di traghettarle verso la ripresa dell’economia. Ricordo le 450mila imprese che hanno potuto disporre di oltre 25 miliardi di maggiore liquidità. Ricordo le 100mila famiglie, ciascuna di loro in media ha avuto a disposizione 7.000 euro in più di maggiori di liquidità. Solo con l’impegno comune si superano le difficoltà, per riprendere a crescere.

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Rosario Trefiletti (*) Presidente di Federconsumatori Io farò un intervento popolare, non populista. Anche perché non ho la cultura sufficiente per intervenire sulle questioni di carattere strutturale. Poi c’è il mio amico e maestro Elio Lannutti che interverrà probabilmente sulle questioni di carattere strutturale.

Innanzitutto, ringrazio dell'invito a questo dibattito, ed anzi sono piacevolmente colpito che si discuta oggi in sede istituzionale; si discuta di partite importanti come quelle che oggi appunto stiamo discutendo. Quindi grazie a Sinistra Italiana di avere organizzato questa iniziativa.

Apro una parentesi. Non vorrei andare fuori tema, però voglio solo dire alla politica, per quello che posso dire alla politica, che sulle due gambe molto importanti della globalizzazione; noi oggi stiamo discutendo di una di queste due gambe: la finanza. Chiedo alla politica attenzione per l’altra gamba della globalizzazione, quella della comunicazione. Si stanno svolgendo cose molto importanti in questo settore nel nostro Paese; e chiudo lì perché oggi dobbiamo parlare di finanze e di banche.

Nel nostro Paese, e non solo nel nostro Paese, si sta svolgendo una grande riorganizzazione, una rivoluzione sulle questioni concernenti l'altra gamba della globalizzazione, e cioè nel mondo interconnesso, nelle comunicazioni. Vivendi, cito solo Vivendi per capirci. Ecco, la chiudo lì sulle questioni dell’altra gamba del globalizzazione.

Ritorniamo invece a questa questione fondamentale. Io faccio, appunto, una battuta di carattere popolare, non so se poi magari qualcuno la considererà populista. Allora, io da quando sono - ho fatto tante altre cose nella vita - ma da quando sono nell'associazione di cittadinanza, dei diritti dei cittadini, della difesa dei consumatori e via dicendo, da un po', forse da troppi anni, mi sono trovato di fronte a questioni piuttosto gravi, complicate, e che hanno avuto delle ricadute molto negative sulle famiglie.

Da sempre. Basterebbe citare l'anatocismo, le famiglie colpite dal crack argentino, più di ottocentocinquanta mila famiglie, mica poche. E poi tutte le altre questioni: Parmalat, Cirio e Monte Paschi di Siena, con My way for you, eccetera, eccetera.

Vi risparmio l'elenco lunghissimo dei casi in cui i cittadini sono stati colpiti nei loro risparmi. Quindi, io mi sono posto una domanda (per la verità sono i cittadini che me l'hanno posta): c'è qualcosa che non va? Perché se al di là delle questioni di carattere traumatico, come possono essere stati appunto il crack argentino e poi i subprime con la crisi del 2008, una serie incredibile di fatti hanno comportato delle ricadute molto negative sulle famiglie, sui risparmiatori, sui cittadini. Allora, bisogna vedere cos'è che non va e bisogna vedere anche come metterci le mani. Ripeto, non faccio l'intervento di carattere strutturale sulla differenza tra banche del territorio e banche di carattere nazionale, sull'internazionalizzazione, sulla quale lo stesso Paglia giustamente poneva una domanda, eccetera, eccetera. Non voglio intervenire su queste questioni, ma invece su alcune questioni proprio strettamente a difesa dei diritti e della cittadinanza.

Io qui sarò dirompente su una cosa. Guardate, parliamo dell'offerta di questi servizi; non parliamo, per cortesia, come ho già sentito tante altre volte, della domanda, della preparazione del cittadino. Questa storia per cui bisogna essere acculturati in materia finanziaria, sulle questioni di carattere finanziario, per non essere truffati, è una cosa che francamente mi fa inorridire.

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Ora, io so perfettamente, anzi sono uno di quelli a cui piace la cultura, informarsi, l’erudizione. Ma chi è contrario? Anche alla vecchiettina di novant'anni, alla pensionata, chi è contrario a dirgli “pensionata di novant'anni studia un pochino la differenza tra i buoni del tesoro e le azioni”? Si, certo glielo dirò anche.

Ma però, per cortesia… Perché poi se questo discorso viene portato all'eccesso si dovrebbe dire che ha ragione Volkswagen a farci le truffe perché noi non siamo ingegneri elettronici, non abbiamo capito nulla di quanto è stato fatto nel meccanismo della centralina, eccetera, eccetera.

Per cortesia, non andiamo in quella direzione. Perché altrimenti annacquiamo invece le cose che dobbiamo fare sul lato dell'offerta. E intervenire dal lato dell'offerta significa affrontare i comportamenti di chi fa servizio di intermediazione finanziaria.

E apro una parentesi per chiuderla subito, dicendo che io trovo assolutamente importante il ruolo del sistema bancario, del sistema finanziario, dell'intermediazione o che altro. Non sono certo uno che vuole ritornare al baratto, oppure fare altre operazioni che non stanno né in cielo né in terra.

Quindi bene che ci sia. E’ il titolo, il titolo del convegno: le proposte di Sinistra Italiana. Io direi, le proposte che si devono fare per avere una “ buona finanza”, per un buon sistema di intermediazione finanziaria.

Questo è il problema. Bisogna guardare dal lato dell’offerta, dei servizi.

Allora, vedete, anche qui, noi lo diciamo molto chiaramente, anche alla luce dell'esperienza che abbiamo fatto - e ho citato una serie di problematiche che hanno attraversato il Paese - e colpito le famiglie italiane.

Ma la domanda che io mi pongo è: ma chi faceva e fa verifica e controllo? Ma, per cortesia, non state tanto a discutere se abbiamo dei problemi di carattere, per così dire, di rapporti istituzionali o che altro.

Io dico che Banca d'Italia e la Consob sono colpevoli per quanto riguarda la vigilanza che non è stata fatta rispetto a questo sistema. E non è che faccio delle gradazioni tra chi è più colpevole, Banca d’Italia, è meno colpevole, Consob, o che altro.

Io mi trovo a dover dire così perché ritengo che non si sia fatto. C'è stata una forte carenza di controllo, di verifica e controllo del sistema bancario, del sistema finanziario. Allora questo è il primo punto.

Bisogna che le istituzioni svolgano fino in fondo il loro ruolo di verifica e controllo anche attraverso semplificazioni. Ma ho visto che tutti adesso, anche qui, si mettono a discutere di come deve essere il modello anche attraverso semplificazioni. Vedo che tutti qui si mettono a discutere di come deve essere il modello MiFID o che altro.

Ma certamente che bisogna modificare il sistema: anziché cinquanta pagine di prospetto è sufficiente una paginetta con dei colori, della bandiera d'Italia o che altro, oppure anche mettendo gli scenari probabilistici.

E santa pazienza, come vedete anch'io sono un pochino colto di queste cose, ho studiato in questi ultimi tempi.

Scenari probabilistici che non ci sono più, che sono stati cassati, non ci sono più, mentre invece potrebbero essere utili. Questo è il primo punto.

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La seconda questione, lo dico soprattutto ai miei amici che sono anche qui presenti, del sindacato dei lavoratori. Ma insomma, l'offerta passa anche attraverso tutto il sistema di impresa, il modello organizzativo.

C'è un problema di deontologia, c'è un problema di consapevolezza sociale da parte di chi opera in questi servizi, e quindi io sarei perché gli stessi lavoratori, lo stesso sindacato, così come alcuni lavoratori denunciano se le aziende modificano l'etichetta di un prodotto alimentare che poi fa male alla cittadinanza, lo stesso devono fare appunto i lavoratori che sono coinvolti nel ciclo.

Maggiore consapevolezza sociale, rapporto di correttezza, e di chiarezza, di trasparenza con il cittadino che va a chiedere oppure viene condizionato a chiedere determinati servizi finanziari.

Ecco perché io credo che queste siano le due problematiche importanti da portare avanti con grande determinazione: sono i controlli, sono le questioni della deontologia e della consapevolezza sociale.

Certo so anche io bene che c'è un problema. E’ già stato detto delle sofferenze. Ma anche qui, un ragionamento sulle sofferenze si può fare in termini articolati.

C'è una sofferenza che, per esempio, è dovuta a una crisi economica. In molte, tante famiglie, c’è chi ha perso il posto di lavoro. E c'è la sofferenza di risorse importanti date invece agli amici degli amici. C’è sofferenza e sofferenza.

E allora, anche qui, che tipo di controllo si fa per vedere la natura delle sofferenze che vengono messe in campo?

So benissimo che si sta discutendo proprio in queste ore. Stasera poi, c’è viceministro Morando che lo sa, stasera probabilmente ci saranno ragionamenti con i responsabili del sistema finanziario. Ma so benissimo anch’io che s’è questo, però lo si faccia in maniera più articolata.

Chiudo, ringraziando, e mi auguro, dato che c'è il ministro, che nel suo intervento magari porti qualche parola nuova rispetto alla soluzione concernente le quattro banche.

Perché non si può parlare sempre del sistema del credito italiano che è forte; ma insomma negli ultimi mesi dopo la sfilza di cose che ho letto sul sistema bancario nazionale forte, sono partite quattro banche con centotrenta mila cittadini coinvolti.

Oltretutto, non si parla a sufficienza della Banca popolare di Vicenza. Se ne parlava anche ieri a Report. Sembrava che avessero scoperto l'acqua calda.

Stavolta lo dico io, non lo dice Elio Lannutti, “la Gabanelli ha scoperto l'acqua calda”. Sono cinque anni che diciamo le cose che ieri ci ha detto Report, cinque anni, anzi qualcosa di più, perché nel 2008 già lo denunciavamo. Quindi sono otto anni. Hanno scoperto l'acqua calda dalla Banca di Vicenza al Banco Veneto.

E sono anche lì centotrentamila cittadini che hanno perso i loro risparmi: da sessanta euro ad azione sono andati a sei euro ad azione, con tutti i loro risparmi bruciati.

E purtroppo non posso parlare del segnale, magari velocemente proprio per chiudere. Il segnale che si è dato sulle quattro banche travalica la questione dei cittadini coinvolti. Si è dato un segnale al Paese che il risparmio può essere azzerato dalla sera alla mattina.

Per cortesia, non commettiamo più errori del genere. Sono tremendi questi errori per le famiglie, ma per tutte le famiglie non solo per quelle coinvolte.

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E poi ce ne sarebbero altre cose da dire ma purtroppo il tempo è tiranno.

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Vincenzo Comito Ex-docente di finanza aziendale presso l’Università di Urbino

Su alcune questioni sollevate da Clericetti e da Trefiletti.

- premessa

Prima di svolgere l’intervento che ho preparato e che riguarda alcuni aspetti della situazione complessiva del sistema bancario a livello occidentale, con alcuni collegamenti relativi a quello nazionale, volevo riprendere alcuni spunti sollevati da alcuni degli oratori precedenti, anche perché questo mi permette di fare riferimento ad alcune questioni importanti che sono oggi al centro delle nostre analisi.

- grande è bello?

Clericetti si chiedeva se, nel settore finanziario, grande sia veramente bello. Io ricordo intanto che nei manuali di economia e politica industriale c'è in effetti sempre almeno un paragrafo che parla delle economie di scala, così spesso ricordate dagli esperti del nostro governo, che spingono da tempo e in maniera decisa per l’accorpamento delle banche minori; ma vorrei ricordare che subito dopo, negli stessi testi, al paragrafo successivo, si parla anche di diseconomie di scala. Questo secondo paragrafo forse in pochi lo hanno letto, comunque nessuno lo cita e se ne ricorda quando scrive le leggi.

Nel caso, ad esempio, delle banche che si sono fuse negli ultimi dieci anni in Italia, è successo di tutto. Ci vogliono mediamente tre anni da noi prima che, in seguito ad una fusione, le banche vadano eventualmente a regime. I problemi che vengono fuori in tale lasso di tempo sono di solito tanti. Qual’è il sistema informativo che bisogna adottare, il mio o il tuo, chi deve comandare, quali filiali bisogna chiudere e quali no e così via. Intanto, nel frattempo, mentre si discute sulla distribuzione del potere e sulle questioni tecniche, nessuno pensa alla gestione corrente delle attività e così si perdono affari e margini di guadagno e delle economie di scala, che peraltro vengono sempre calcolate ottimisticamente a tavolino, non resta spesso traccia.

Si sa peraltro che, in generale, nella gran parte dei paesi, come mostrano le ricerche fatte in proposito, circa due fusioni su tre in tutti i settori, compreso quello finanziario, non funzionano. Questo significa che le specifiche integrazioni falliscono, o comunque ottengono risultati anche di molto inferiori alle attese.

Incidentalmente qualcosa di simile accade da noi anche nel comparto delle grandi società di servizi ex-pubblici, le cosiddette multiutility (imprese come Hera, Acea, Iren, A2A, ecc.). Anche in questo caso il governo spinge per ulteriori accorpamenti, portando avanti in particolare di nuovo il discorso delle economie di scala, che nel settore sono invece, per la gran parte, inesistenti. Intanto in tali magnifici organismi aumentano nel tempo i debiti e calano gli investimenti. Prima o poi essi potrebbero cadere preda dei mercati finanziari.

In sostanza, quindi, penso che abbia ragione Clericetti a dire che ci vogliono certamente le grandi banche, ma che abbiamo bisogno anche delle piccole, più legate al territorio e più capaci di interpretarlo e sostenerlo.

Del resto, si può fare riferimento anche ai manuali di strategia e/o di marketing, che ci ricordano che tutti i mercati sono segmentati, che nella clientela complessiva ci sono bisogni e problemi da soddisfare molto diversificati e che la risposta a questi bisogni deve essere dunque differenziata.

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Non succede quasi mai che una sola struttura imprenditoriale risponda a tutte le necessità del mercato. Le grandi banche, così, rispondono a bisogni diversi da quelli delle piccole.

Certo, sia le grandi che le piccole possono commettere errori; quelle legate al territorio possono sbagliare, ma peraltro lo possono fare anche quelle di maggiore dimensione. Solo che quando va in crisi una banca grande il fatto produce guai in maggior proporzione che nel caso di quelle piccole.

- dove sono i controllori?

La seconda cosa che volevo ricordare fa riferimento a quanto diceva prima Trefiletti, che si chiedeva dove fossero andati a finire a suo tempo le verifiche e i controlli sulle banche. In effetti il problema appare molto serio. Prendiamo il caso del Monte dei Paschi di Siena. Nessuno ha visto nulla, i consiglieri d'amministrazione, i membri del collegio sindacale, le fondazioni, la Consob, la Banca d’Italia (che per la verità è intervenuta, ma molto tardivamente), l’Abi, che anzi si è presa in casa Mussari, il sindaco e la giunta, la Provincia, la Regione, la stampa e le televisioni, il Governo, i partiti, i sindacati, tutti sono stati ciechi, sordi e muti.

Ma il caso non riguarda di nuovo soltanto il settore bancario. Prendiamo un altro esempio, quello dell'Ilva; anche lì per tanti anni nessuno ha percepito alcunché, nessuno ha segnalato nulla, eppure i fumi emessi dalle ciminiere erano ben visibili e facilmente analizzabili, così come erano evidenti le malattie e le morti anomale.

Questo è un Paese dove i controlli non funzionano pressoché mai.

- le sofferenze bancarie sono solo frutto della crisi?

Vorrei infine riprendere un secondo punto sollevato da Trefiletti, che sottolineava come ci siano sofferenze e sofferenze.

Intanto, bisogna mettere in evidenza che molte banche hanno denunciato le perdite su crediti con molto ritardo e di frequente solo perché stavano per arrivare i controlli della BCE; poi, appare opportuno ricordare che certamente la crisi del 2008 ha pesato moltissimo sulla crescita nel livello delle perdite, ma sono stati anche importanti a tale proposito, cosa che pochi sottolineano, il modello inadeguato di analisi che precede la concessione dei fidi e poi anche la corruzione e le relazioni d’affari “improprie”, come hanno mostrato con evidenza i casi di almeno alcune delle banche entrate in crisi di recente. Solo che tali fenomeni, prima dello scoppio della crisi, venivano affogati nelle pieghe del bilancio, cosa che successivamente non è più stato possibile fare, non permettendolo più i conti.

Alcune questioni relative al sistema bancario occidentale

E veniamo alla parte centrale del mio intervento, quella che riguarda alcuni aspetti attuali e importanti della situazione del sistema bancario occidentale ed in particolare di quello europeo. Sottolineerò tre questioni.

- occupazione e innovazione tecnologica

Vorrei ricordare al primo punto la situazione dell’occupazione. Vedo che in sala è presente Megale, segretario dei bancari CGIL e credo che il problema lo riguardi, ahimè, da vicino. Un recentissimo studio della Citigroup, mentre rileva che negli ultimi anni nelle banche europee e statunitensi si sono persi settecentotrenta mila posti di lavoro, prevede anche che nei prossimi

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dieci anni, soprattutto in Europa, continente il cui sistema bancario è messo peggio che al di là dell’Atlantico, si perderanno ancora un milione e settecento mila posti di lavoro, cifra pari a circa il 30% del totale degli addetti attuali al settore.

A che cosa è dovuto questo fenomeno?

Intanto certamente alla crisi, ma poi anche, se non soprattutto, alla forte dinamica dell'evoluzione tecnologica. E questo perché - e la questione è sotto l’occhio di tutti-, tale sviluppo permette di utilizzare la banca da casa o dall’ufficio, senza recarsi in filiale (ricordiamo a questo proposito che nel nostro paese di agenzie bancarie ce ne sarebbero troppe anche se non ci fosse l’evoluzione tecnologica). Così la gran parte delle sedi periferiche, con i loro dipendenti, tendono a diventare pressoché superflue. Ma poi si registra un altro fenomeno, in prospettiva forse più grave, quello dello sbarco sempre più massiccio delle aziende internet nel settore finanziario, fenomeno che in Italia si sta largamente sottovalutando. Queste imprese stanno adesso attaccando il cuore del mestiere bancario tradizionale, cioè i prestiti e i pagamenti, attività che comprendono in media circa i due terzi dei profitti bancari totali.

Voglio solo ricordare a questo proposito che in Cina la società Alibaba, la più grande del mondo nel settore delle vendite on-line, l'anno scorso ha ottenuto un fatturato di circa 450 miliardi di dollari (cito a memoria). Ebbene, solo il quattro per cento di queste vendite sono passate in qualche modo attraverso delle strutture di pagamento di tipo bancario.

Questo fenomeno tende anche ad acuire il livello già elevato della concorrenza nel settore. Diverse tra le più importanti banche europee, che hanno difficoltà a reggere tale concorrenza, sono attualmente in una fase di anche penosa ristrutturazione.

- il sostanziale fallimento delle politiche delle banche centrali

Dopo il tema dell’occupazione vorrei segnalare ancora la questione delle banche centrali e delle loro politiche. Certo senza l'intervento di tali organismi la situazione delle banche e dell'economia dei vari paesi sarebbe peggiore di quella che è oggi e quindi esso doveva essere varato, ma d'altro canto le azioni delle banche centrali sono ormai sempre meno efficaci. Esse non hanno portato a risultati consistenti né sul fronte dell’inflazione, né su quello dello sviluppo economico, quest’ultimo obiettivo attraverso in particolare la possibile svalutazione delle monete e attraverso i finanziamenti forniti a pioggia alle banche. Sembra anzi succedere che tali decisioni producano effetti contrari a quelli desiderati. Guardiamo il caso apparentemente paradossale del Giappone, dove più la Banca Centrale interviene con le politiche di quantitative easing e di tassi di interesse sempre più bassi e più lo yen si rivaluta, invece di svalutarsi. Del resto anche l’euro non si è molto deprezzato in seguito agli interventi della BCE.

Questo intervento delle banche centrali porta da una parte qualche beneficio al sistema bancario (oltre alla disponibilità di denaro, i bassi tassi di interesse dovrebbero rendere più appetibili i loro prestiti da parte della clientela, dovrebbero poi contribuire a ridurre i prestiti incagliati e così via), ma d’altro canto gli inconvenienti dovrebbero prendere il sopravvento. I tassi bassi riducono fortemente i margini degli istituti: in effetti le banche guadagnano tanto più quanto più i tassi di interesse (e quindi i margini tra tassi attivi e passivi) sono elevati; poi, gli stessi istituti sono soliti guadagnare anche prendendo a prestito denaro a breve termine e prestandolo a lungo, dal momento che i tassi relativi a prestiti con maggiore scadenza sono più alti di quelli a breve; ma oggi la situazione è tale che i due tipi di tassi sono sostanzialmente allineati.

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L’esistenza poi di tassi di interesse negativi pone le banche in una situazione insostenibile, dal momento che, tra l’altro, i depositanti cessano ovviamente dal prestare i loro soldi agli istituti. Non a caso in questo momento le Casse di risparmio tedesche, per bocca anche di Schauble, lanciano dei gridi di dolore e potrebbero morire. Ma dietro di loro verranno poi anche le banche di altri paesi. Tassi di interesse così bassi spingeranno poi le banche, oltre a ridurre il loro volume di attività, a cercare impieghi più elevati aumentando il livello di rischio e a individuare opportunità di business altrove invece che in patria. Per non ricordare poi le difficoltà che essi creano ai fondi pensione e alle società di assicurazione.

In ogni caso bisogna ricordare che appare molto difficile che le politiche monetarie accendano da sole lo sviluppo dell’economia; in ogni caso esse possono al massimo funzionare in qualche modo per affrontare problemi congiunturali, non delle questioni strutturali come quelle di cui stiamo ragionando.

Quello che manca crudelmente ai fini di una strategia di sviluppo dell’economia dei paesi occidentali è la politica, l’intervento dei governi con manovre economiche adeguate. Negli Stati Uniti tali strategie, pur impostate dal governo Obama nel 2009, sono però state subito bloccate dai repubblicani, che hanno il controllo del Parlamento. Nell’eurozona l’esperimento non è neanche partito e la sciagurata politica di austerità imposta dalla Merkel a tutti gli altri paesi da una parte, le inerzie o le strategie sbagliate dei singoli governi dall’altra, hanno ottenuto un risultato ancora peggiore.

Così in Italia l’attuale governo si trastulla con politiche come quella del job act, che comporta un rilevante trasferimento di ricchezza dall’operatore pubblico alle imprese private ed evita così di impiegare invece le stesse risorse per aumentare gli investimenti pubblici, ciò che porterebbe a risultati probabilmente migliori per quanto riguarda lo sviluppo economico e l’occupazione.

- Il sistema degli scandali

Il terzo punto che vorrei sollevare è quello della persistenza degli scandali nel settore finanziario, con dei nuovi annunci in proposito che si susseguono quasi ogni mese dallo scoppio della crisi ad oggi.

Non potevamo mancare l’ultimo, con le informazioni sui cosiddetti Panama Papers. Si tratta di un dossier probabilmente in parte fabbricato dalla CIA, ma che si basa comunque per la gran parte su dati reali. In queste rivelazioni sono coinvolte moltissime banche, in particolare di nazionalità tedesca, francese e belga. Ma si tratta appunto soltanto dell'ennesimo capitolo di una lunga serie di scandali.

Vorrei a tale proposito ricordare soltanto che molti di questi episodi non vedono un solo istituto come responsabile, ma una catena di banche coalizzate tra di loro, 7-8-10-13. Mi vengono, ad esempio, in mente a tale proposito il caso del Libor su Londra e quello della manipolazione dei tassi di cambio sempre su Londra.

Tenendo conto di tali fatti non appare azzardato sostenere che il sistema finanziario internazionale, almeno da un certo numero di anni in qua, non è nient’altro che un’associazione a delinquere, che prospera anche perché tollerata, se non incoraggiata, dai governi e dalle autorità di vigilanza. Lo stesso scandalo dei Panama Papers ci ricorda anche, incidentalmente, che i paradisi fiscali sono di nuovo sostenuti ed incoraggiati da molti paesi occidentali, a partire dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti.

- note su come riformare il sistema

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Vorrei anche sottolineare che, a fronte dei problemi sollevati dalla crisi del 2008-2009 e attribuibili, almeno in parte, al settore bancario e ai suoi comportamenti, si era quasi subito levato in tutto il mondo occidentale un coro di politici, di esperti, di professionisti del settore, che chiedevano a gran voce delle incisive riforme del settore.

Tra l’altro, si domandava una più elevata capitalizzazione degli istituti, la netta separazione tra banche ordinarie e banche di investimento, misure particolari per le banche più grandi too big to fail, un ripensamento del sistema degli incentivi ai manager, un rafforzamento degli organi di controllo, la messa sotto sorveglianza di alcuni strumenti finanziari quali i derivati e così via.

Di tutto questo nel frattempo è rimasta relativamente poca traccia; qualcosa si è fatto negli Stati Uniti, meno in Europa. Ma, alla fine, la situazione oggi non è migliorata molto. Così il commentatore più illustre del Financial Times, Martin Wolf, può scrivere ancora in questi giorni che le banche sono oggi degli organismi inefficienti, costosi e pieni di conflitti di interesse. Forse bisognerà aspettare la prossima crisi per intervenire in qualche modo.

Ancora un personaggio molto autorevole come Mervyn King, che è stato per dieci anni governatore della Banca d'Inghilterra, mentre conferma che le attuali misure delle banche centrali sono inefficaci, prevede che si svilupperà molto facilmente una nuova crisi a breve termine.

Il documento preparato da Paglia si inserisce positivamente nel filone di almeno alcune delle proposte di cui si era a suo tempo discusso ai fini della riforma delle banche. In più è da apprezzare l’idea, piuttosto innovativa, della creazione di un fondo immobiliare in cui inserire sotto qualche forma i beni pertinenti ai crediti in sofferenza per utilizzarli ai fini dello sviluppo del paese.

Voglio comunque a questo punto sottolineare come negli ultimi anni si vada formando una tendenza di pensiero che, se vogliamo, parla non tanto di riforme, ma di “rivoluzione”. Autorevoli studiosi sostengono ormai che il sistema bancario deve essere completamente ripensato. Si valuta che,tra l’altro, alle banche deve essere sottratto il potere di creare moneta (oggi circa il 90% della moneta creata lo è per opera appunto degli istituti privati), mentre le attività tradizionalmente svolte dalle banche devono essere frammentate e distribuite in modo nuovo. Agli istituti dovrebbe essere lasciato un ruolo molto più modesto e più controllato di oggi (ruolo cui si fa riferimento parlando di narrow banking). Tra l’altro, in Svizzera si dovrebbe presto svolgere un referendum che è indirizzato proprio in tale direzione.

La situazione del sistema bancario nazionale

Da ultimo qualche considerazione ulteriore sulle banche italiane.

Le difficoltà del nostro sistema sono secondo me molto pesanti.

Un relativamente recente studio della EBA, l’organismo messo in piedi per la sorveglianza delle banche dell’eurozona, mostra che quelle italiane risultano, nell’ambito dei paesi dell’area, tra quelle con i più bassi livelli di capitalizzazione, con la più bassa redditività, con i più alti livelli invece, e di gran lunga, di crediti dubbi. Questo dovrebbe bastare perché la si smetta con il ritornello che in tanti ripetono ormai da almeno da sei-sette anni e che racconta che il sistema bancario italiano è solido.

Il problema di adeguati livelli di capitale non so come si possa risolvere onorevolmente. Perché ci troviamo di fronte al solito sistema italiano del capitalismo senza capitale, nel quale si vuole

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mantenere il potere di governo delle strutture economiche e finanziarie senza metterci i soldi, o utilizzando i soldi pubblici, peraltro di solito con l’esplicito assenso dei pubblici poteri. Il nuovo fondo che si va configurando da parte del governo vede la partecipazione al 20% complessivamente della cassa Depositi e Prestiti e della Sga, la struttura a suo tempo varata per il salvataggio del Banco di Napoli. Ma il loro intervento rischia di essere solo una foglia di fico per coprire l’arrivo dei fondi stranieri, che sarebbero pronti a investire 30-40 miliardi nel nostro sistema bancario.

Ci vorrebbe invece un forte intervento pubblico per spingere il settore in direzione di una adeguata politica di sviluppo. Ma penso che di questo tema si discuterà nella terza sezione del seminario di oggi.

Infine, bisogna dire che il sistema bancario italiano non manca soltanto di soldi, mi sembra che esso manchi anche di strategie adeguate e di un adeguato management. Ricordiamo che si sono tenuti in casa per dieci anni un Mussari senza battere ciglio.

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Elio Lannutti Presidente Adusbef Buongiorno. Anzitutto grazie alla Sinistra Italiana per aver organizzato un dibattito sul sistema bancario, che in tutte le economie, se ben vigilato è fondamentale, importante e necessario per trasmettere al sistema economico, ad imprese e famiglie liquidità necessaria per la produzione. Noi però abbiamo purtroppo in Italia un sistema bancario che non ha svolto questo ruolo, un sistema vessatorio e caro, con i costi dei conti correnti più alti d’Europa pari in Italia a 318 euro l’anno, contro una media Ue di 114 euro. Non lo diciamo solo noi di Adusbef ma studi e ricerche universitarie, su un sistema bancario predatorio, inefficiente, vessatorio e pieno di buchi, che smentisce le favolette di Bankitalia, che per decenni ha certificato e spacciato la solidità di banche decotte o in decozione, in special modo Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (BpVi) di Zonin, lo spiccia faccende della Banca d’Italia e dei governatori di turno. BpVi, banca decotta, con 117.000 azionisti diventati tali spesso con metodi estorsivi pena la mancata concessione di mutui, prestiti, fidi, il cui valore fino a 62,50 euro ad azione era deciso da consulenti pagati dal CdA della banca, frodati da una gestione dissennata del credito e del risparmio, svalutate prima a 48 euro, ed in questi giorni, in occasione dell’aumento di capitale necessario per i parametri di solvibilità, tra 0,1 e 3 euro, senza che le autorità vigilanti come Consob e Bankitalia, siano intervenute per evitare una gigantesca frode, che ha distrutto valore per circa 10 miliardi di euro. Come ha già ricordato Trefiletti, non chiamatela inchiesta la puntata di Report andata in onda su Raitre, firmata da Giovanna Boursier, un coacervo di notizie copia-incolla già pubblicate e molto più approfondite, con molte omissioni e malcelate censure, che avevano già descritto la grande truffa consumata a danno di 117.000 azionisti forzati di Banca Popolare di Vicenza e 90.000 di Veneto Banca, una puntata confezionata con grande attenzione, per non disturbare le distratte Autorità di vigilanza, Bankitalia e Consob. Nessun cenno alle ripetute denunce, inoltrate da Adusbef alla Procura di Vicenza a partire dal 18 marzo 2008 sul valore gonfiato dei titoli illiquidi della Bpvi che segnalava a Consob e Bankitalia i metodi estorsivi per diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi; le rappresaglie subite dall’associazione con richieste risarcitorie di 2,5 milioni di euro, costretta a ricorrere in Cassazione per affermare i propri diritti; il sistema delle porte girevoli tra la Banca d’Italia e la Banca Popolare di Vicenza, che aveva assoldato fior di dirigenti direttamente da Palazzo Koch, il commissariamento di una banca con i conti in ordine, la Bene Banca Vacienna nel cuneese, per regalare liquidità a Zonin. Il caso che ha fatto più rumore, è quello di Gian Andrea Falchi, già stretto collaboratore di Mario Draghi quando era governatore, ingaggiato nel 2013 come consigliere per le relazioni istituzionali, che ha fatto compagnia ad altri funzionari di Bankitalia, approdati nella città del Palladio ed assoldati da Zonin come Mariano Sommella, assunto nel 2008 con i gradi di responsabile della segreteria generale, o Luigi Amore, ex ispettore della Vigilanza diventato responsabile dell’audit, i controlli interni. Sul Monte dei Paschi di Siena, sono d'accordo con le affermazioni del professore che mi ha preceduto in merito ad un sistema bancario-finanziario, vera e propria associazione a delinquere tollerata dai Governi, gli stessi che hanno delegato a cleptocrati ed oligarchi funzioni che nelle

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democrazie appartengono ai popoli, mediante la sovranità popolare e l’esercizio del voto. Abbiamo l’Europa della Troika, che dopo aver condannato primarie banche per la manipolazione dei mercati, nel caso di specie dell’Euribor, un parametro che incide su mutui e prestiti indicizzati, evita di pubblicare le sentenze per impedire ai cittadini che avevano mutui a tasso variabile, di rivalersi in giudizio contro le banche. Ma nel Paese alla rovescia, che ci vede ai primi posti delle classifiche internazionali per corruzione, agli ultimi per libertà di informazione, con il servizio pubblico Rai schierato a favore del Governo, ed i cinegiornali come il Tg1, che potrebbe essere chiamato ‘Telerenzi’, passano le veline della propaganda spacciate per informazione. Qualche giorno fa nel decreto di riforma delle banche di credito cooperativo, è stato approvato un emendamento di un deputato del Pd, che ripristina l’anatocismo, ossia gli interessi sugli interessi vietato dal codice civile, praticato con il rinvio agli usi dagli anni cinquanta e cancellato da 25 anni di lotte giudiziarie di Adusbef, in Tribunale, Cassazione, Corte Costituzionale. Ebbene la narrazione dei cinegiornali e dei mass media, ha spacciato per abrogata una norma che ripristina l’anatocismo, vietato definitivamente dal 1° gennaio 2014, con un emendamento del presidente della Commissione Bilancio Pd Francesco Boccia, che ha generato interessi illeciti per 5 miliardi di euro che dovrebbero essere restituiti. Avendo una certa dimestichezza con l’informazione, dopo essermi licenziato da una banca per fondare ‘Avvenimenti’ e diventare giornalista professionista di quel settimanale d’inchiesta, mi permetto di criticare le gravissime responsabilità di alcuni ventriloqui del potere, che specie dalla Tv pubblica, il cui canone saremo costretti a pagare sulle bollette elettriche, fungono da porgi microfono, evitando di fare domande ai rappresentanti di governo e maggioranza. L’informazione dovrebbe essere il cane da guardia delle democrazie, non il cane da riporto delle veline del potere. I crac bancari ed industriali, sono avvenuti anche con la complicità dell’informazione. Ricordo - e saluto il direttore Abi, Torriero, col quale abbiamo una vivace dialettica - il crac della Lehman Brothers e di altre istituzioni finanziarie. Ebbene, proprio sul sito dell’Abi ‘Patti Chiari’, venivano propagandati come affidabili le obbligazioni Lehman; altre decine di titoli tossici ed i bond bancari, gli stessi appioppati alle 130.000 famiglie espropriate di CariChieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria, mentre i titoli di Stato a lunga scadenza, venivano sconsigliati perché rischiosi. Molti hanno venduto quei Btp, seguendo i cattivi consigli delle banche, per acquistare bond bancari ad alto rischio e basso rendimento, con l’aggravante che sono stati definiti speculatori dai ventriloqui di Bankitalia, Consob, banche. E puntuale, ad ogni crac, rispunta la narrazione interessata della scarsa educazione finanziaria, la quale come ha già affermato il mio amico Trefiletti, non è l’antidoto ai truffatori. Anche io saluto il Vice Ministro Morando, auspicando che si trovino soluzioni alle 130.000 famiglie truffate, che non hanno bisogno di aiuti umanitari, né di elemosine arbitrali, ma di risarcimenti integrali, essendo stati truffati da Bankitalia e dallo Stato. Anche per restituire fiducia e reputazione ad un sistema bancario che vive proprio di fiducia. Le responsabilità di Consob e Bankitalia nell’esproprio del risparmio, sono evidenti. Come risulta da un appunto per il direttorio di Bankitalia del 30 dicembre 2015, con all'oggetto ‘titoli di debito subordinati emessi dalle banche italiane’, arrivato per posta all'Adusbef, laddove il dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia, fa il punto sui dati relativi ai bond subordinati, sulla consistenza e tipologia dei sottoscrittori, con un aggiornamento imposto per: "le recenti vicende legate alla risoluzione delle crisi aziendali di quattro intermediari, che hanno generato una forte richiesta di informazioni sull'ammontare dei titoli subordinati emessi dalle banche".

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Le obbligazioni subordinate in essere al 31 ottobre 2015- si legge nell'appunto - sono 67 miliardi, l'11 per cento del totale delle obbligazioni emesse dalle banche (623 miliardi). I principali emittenti di obbligazioni subordinate sono le due maggiori banche italiane, Unicredit ed Intesa San Paolo, con rispettivamente 22,8 e 14,4 miliardi di euro. Le obbligazioni emesse dalle prime 10 banche, rappresentano l'83% del totale. Ebbene, su 67 miliardi di euro di bond subordinati, il 3,3% era in mano ai Fondi di investimento, che conoscono perfettamente i rischi, ne valutano la rischiosità spalmata sui grandi volumi di risparmio gestito, al contrario delle famiglie, alle quali erano state appioppate il 46,1%, ossia 32 mld di euro. E la Banca d’Italia, sapeva bene che quei titoli sarebbero stati espropriabili dal 1° gennaio 2016,con l’avvento del bail-in, come è provato perfino da quel documento (classificato come riservato) sui rischi tangibili delle obbligazioni subordinate, senza che abbia attivato alcuna doverosa informazione a tutela delle famiglie, per offrire la possibilità ai sottoscrittori retail di tali bond spazzatura, i quali con la direttiva Ue BRRD del bail-in del maggio 2014, potevano essere truffate ed espropriate, come si è poi concretizzato col decreto salva banche emanato dal Governo Renzi il 22 novembre 2015. Altre banche centrali che avevano scoperto titoli tossici nei portafogli delle famiglie (che non dovevano esserci secondo le normative), hanno obbligato le banche a riacquistare quei titoli spazzatura, evitando così l’esproprio criminale del risparmio, previsto dal bail-in. Non è possibile che di fronte alla malagestio delle banche, debbano pagare gli azionisti (in Italia anche quelli minori e fatti fuori dalla gestione dai patti di sindacato), gli obbligazionisti subordinati ed i depositanti sopra i 100.000 euro, esonerando le evidenti, oggettive responsabilità delle autorità vigilanti, che come abbiamo visto, vanno a braccetto coi banchieri e non rispondono ad alcuno del loro operato. Occorre sciogliere il conflitto di interesse di una Banca d’Italia di proprietà delle banche, che ricevono dopo la rivalutazione delle quote da 156.000 euro a 7,5 miliardi di euro, 380 milioni di euro di cedole l’anno; rendere pubblica la banca centrale come in tutti gli ordinamenti mondiali; aggravare la responsabilità oggettiva del Governatore e del direttorio, che devono pagare i propri errori, anche con il carcere. Con una riforma della Banca d'Italia, alla stregua degli altri paesi europei, la sua pubblicizzazione e quella che doveva essere fatta con il MPS, si potrebbe dare un contributo per far ripartire l’economia del Paese dove le banche sono importanti, ma non possono essere considerate i dominus incontrastati, che hanno diritto di vita o di morte su imprese e famiglie, aduse a revocare il fido con un preavviso di 24 ore, in aperto contrasto con l’art. 47 della Costituzione per la quale la funzione sociale del credito e del risparmio rappresenta un pilastro, prive di regole, trasparenza ed esonerate da oggettive responsabilità, che caratterizzano il far west.

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Federico Mucciarelli Docente di diritto commerciale presso l’Università di Modena e l’Università di Londra

Ringrazio il gruppo parlamentare di Sinistra Italiana per questo invito, e in particolare gli Onn. Scotto e Paglia, e il dott. De Toni, per aver organizzato questo importante incontro.

Tante cose sono già state dette sinora; io cercherò, da giurista, di fare il punto della situazione sulle regole, riprendendo alcune cose che già sono state dette.

Tutto parte dalla paura del ‘bail-in’; l’idea del ‘bail-in’ nasce, non dimentichiamolo, nell'Unione Europea dall'esigenza di evitare o limitare gli aiuti di stato, infatti, il ‘bail-in’ venne introdotto già nel 2003 da una comunicazione della Commissione europea in materia di aiuti di stato che diceva sostanzialmente: ‘considereremo d'ora innanzi come aiuto di stato non accettabile tutti gli aiuti alle banche concessi quando ancora sussistono strumenti di patrimonializzazione, o capitale ‘tier 2’, da consumare’, ossia, sostanzialmente strumenti ibridi, obbligazioni perpetue e subordinate, le quali a certe condizioni ai fini di vigilanza prudenziale vengono considerate come ‘quasi capitale’. In sostanza, già dal 2003 la Commissione le considerava come un qualcosa che dovesse essere ‘eroso’ prima che lo Stato, e quindi la fiscalità generale, potesse intervenire.

Nel 2010, qualche anno prima della direttiva, il Comitato di Basilea propose meccanismi di ‘bail-in’ generalizzati ma ‘contrattuali’, ossia stipulati volontariamente dalla società emittente e dall’investitore. Questa proposta consente di cogliere un aspetto cruciale. Il Comitato di Basilea afferma che, in fondo, meccanismi efficienti di ‘costruzione’ del capitale proprio della banca potrebbero essere disegnati in questa maniera volontaria con il consenso dell’obbligazionista. In sostanza: da un lato c’è l’azionista che sa perfettamente di acquistare capitale di rischio e, quindi, è evidente come il problema sia vagliare a chi le azioni vengono vendute o offerte. Peraltro, taluni obbligazionisti potrebbero scegliere volontariamente di sottoscrivere o acquistare obbligazioni ‘subordinate’; quindi, a rigor di logica dovrebbe nascere un mercato di queste obbligazioni ‘rischiose’, mercato che, essendo per ipotesi ‘efficiente’ – ma lo dico ovviamente sorridendo – , darà un prezzo a tali strumenti e in cui il potenziale investitore potrà comprare coscientemente obbligazioni subordinate al loro giusto prezzo. L’obbligazione subordinata è, per intenderci, quella su cui sta scritto a chiare lettere: ‘Ti pago solo se ci sono i soldi’, è già di per sé un bail in contrattuale. La differenza tra il ‘bail-in’ della direttiva e questo ipotetico meccanismo semplicemente contrattuale sta nel fatto che la prima presuppone una decisione dell’autorità di vigilanza che scatta nel caso di ‘risoluzione’ bancaria. In definitiva, meccanismi simili sono realizzabili per via contrattuale, dicendo all'investitore scusate ‘stai comprando un titolo rischioso’.

Cosa significa questo? E’ vero che da sempre conosciamo questo problema, e in Italia sin dagli anni Ottanta, del rischio che il sistema finanziario possa spremere il ‘parco buoi’ degli investitori. I meccanismi giuridici attuali si fondano sulla logica della trasparenza e sull'idea che ci debbano essere delle regole di mercato che funzionino, ossia regole di trasparenza e regole che assicurino il ‘matching’ tra le esigenze e le capacità del singolo cliente e il prodotto offerto. Allora, andiamo a vedere come sono strutturate attualmente le regole italiane e della direttiva Mifid I al riguardo.

Veniamo alle competenze delle autorità di vigilanza. Il sistema italiano è chiaro riguardo al riparto di competenze tra Consob e Banca d’Italia: in base al testo unico della finanza la Banca d'Italia fa la vigilanza prudenziale, mentre la Consob si occupa della vigilanza su trasparenza e correttezza dei comportamenti (articolo 5 TUF). Quindi a rigore se il nostro problema è semplicemente che certe obbligazioni troppo rischiose sono state vendute all’investitore non ‘accorto’, non esperto di finanza e con poca capacità finanziarie (ma poi bisogna distinguere, il caso dell’investitore con scarse conoscenze dall’investitore con scarse capacità finanziarie), allora è un problema di trasparenza e

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correttezza dei comportamenti, quindi rientra nei poteri della Consob. Al limite ci si potrebbe porre la domanda se la Banca d’Italia abbia vigilato efficacemente sulla stabilità delle banche, anche se ovviamente non possiamo deciderlo in questa sede.

Carlo Clericetti

Però voglio dire, assolvere completamente la Banca d’Italia dal punto di vista delle porcherie accadute su cui non è intervenuta è un po' come se io vedo un tizio che sta scippando una vecchietta e rispondo ‘ma che c’entro io?

Federico Mucciarelli

No, no, non l'avrei assolta adesso; il punto è che non credo nei processi di piazza, semplicemente, è la mia formazione. E’ evidente che assolvere tutte le autorità in linea di principio non è una soluzione, però bisogna avere anche chiaro quali siano le competenze specifiche delle autorità, perché poi il sistema ha una sua logica. Magari ha delle grosse lacune, come vedremo tra un attimo, ma ha una sua logica, e allora le responsabilità devono essere cercate all’interno di quel riparto di competenze, a mio avviso.

Muoviamoci sulla trasparenza e la correttezza dei comportamenti, e poi affrontiamo in seguito la Banca d'Italia, e veniamo al testo unico dalla finanza; anzi faccio un salto indietro: per poco tempo, dal 2006 al 2007, ha vissuto in Italia una norma, introdotta dalla ‘riforma del risparmio”, legge 262/2005, in cui c'era un obbligo di classificare i prodotti finanziari e i potenziali investitori entro una griglia rigidissima, con la conseguenza che un prodotto poteva essere venduto solo all’investitore che corrispondeva a quei criteri. Questa disciplina ha avuto vita breve, appena un anno, perché era sostanzialmente incompatibile con la direttiva MiFID, poi attuata nel 2007. Ora, io non so se la soluzione prevista nella riforma del risparmio fosse la soluzione ideale al problema di evitare di vendere un prodotto sbagliato alle persone sbagliate, però era un tentativo di soluzione, ancorché molto rigido. La logica della direttiva MiFID, viceversa è fondata su regole di comportamento e organizzative, e qui entra in gioco la Banca d’Italia, perché dobbiamo parlarne quando c’entra, che dovrebbero evitare appunto di vendere alla persona sbagliata il prodotto sbagliato. Queste regole di comportamento, MiFID e testo unico della finanza attuale, sono di due tipi: regole di adeguatezza, ossia: il prodotto venduto o il servizio deve essere adeguato non solo alle conoscenze della persona ma anche alla sua capacità finanziaria (ossia: ce li hai i soldi?) cosicché le prospettive di rischio collimano con quello che ti sto offrendo. Queste regole, che la MiFiD 2 non cambia, si applicano soltanto alla gestione di portafogli e ai servizi di consulenza non all'attività relativa a un titolo, alla singola cessione o alla singola operazione, ma ai soli servizi complessi: ha un senso, ma è stata una scelta ben precisa di limitare questo dovere di adeguatezza a solo quel tipo di servizi in cui la propositività dell'intermediario finanziario verso l’investitore è maggiore. Viceversa, in generale i servizi di investimento devono seguire una somma di regole di semplice appropriatezza e cioè devono collimare con le conoscenze della persona.

Non c'è nessun pregiudizio: se l'intermediario si rende conto che c'è qualcosa che non va e che le informazioni non bastano, le operazioni, ossia la vendita dello strumento finanziario, possono essere compiute, purché la situazione venga segnalata al cliente. In altri termini, queste sono regole che si fondano sulla trasparenza, sul fatto che il cliente firma e basta – e qui c'è a mio avviso forse un problema su cui bisognerebbe riflettere, ma sta a monte: è nella MiFID e non credo che venga toccato nella nuova MiFID.

Seconda questione (e vengo alla Banca d'Italia): il conflitto di interessi. Il conflitto di interessi secondo la MiFID non è una regola di comportamento ma una regola di organizzazione. Questa fu

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la condizione che mise il Regno Unito per parteciparvi; era la richiesta delle banche inglesi perché il sistema inglese funziona in questa maniera. Cosa significa? Significa che se c'è un conflitto di interessi, e un sistema di banca universale con operatori polifunzionali crea inevitabilmente conflitti di interesse, è ovvio, lo strumento per evitare o limitare tale conflitto di interessi è solo la previsione che la banca, o l’intermediario finanziario, si deve organizzare per evitarlo, si deve organizzare il più possibile, e se non ci si riesce, se la banca o l’intermediario finanziario non è in grado di gestire il conflitto, basta la trasparenza nei confronti del cliente. Questa è una prescrizione precisa della direttiva MiFID. Non c'è più infatti nel sistema italiano, mentre invece c'era prima, un obbligo di eliminare o limitare conflitti di interesse, ossia un obbligo di comportamento positivo, mentre ora tale problema viene internalizzato nell'organizzazione della banca o dell'intermediario finanziario. E qui sta il problema. E a mio sommesso avviso qui entra in gioco la Banca d'Italia, perché la questione dell'organizzazione è gestita assieme da Banca d'Italia e Consob. Ossia: se il conflitto di interessi dipende da regole organizzative, e non da regole comportamentali, che si scaricano quindi non sul contratto, lo sappiamo, ma sulla responsabilità, o almeno in cui è più facile perseguire azioni di responsabilità, se sono regole organizzative, dicevo, allora la competenza è congiunta, ed infatti sono disciplinate da un regolamento congiunto di Banca d'Italia e Consob.

Carlo Clericetti Ma che sono? Sostanzialmente delle muraglie cinesi?

Federico Mucciarelli

Sì, sostanzialmente sono delle muraglie cinesi molto più elaborate, ma sono la logica e lo sviluppo delle muraglie cinesi. Però, questa è la legge; i giuristi hanno alle volte l'ingrato compito di ripetere, come dire, la volontà del legislatore: ‘vuolsi così colà’; e quindi vi racconto le cose così come stanno.

Quanti minuti ho? Ho finito, allora, però due cose vorrei dirle. A fronte di tutto questo, e questi secondo me sono i problemi, il sistema non è che non preveda forme di reazione.

Esiste l’azione di responsabilità. Esiste la possibilità di far valere l'azione di responsabilità civile nei confronti dei soggetti che violano queste regole.

Esistono le sanzioni amministrative: le sanzioni amministrative sono un’arma potente.

Terzo: chiaramente tutto questo potrebbe anche essere complesso e per semplificare la sanzione civile vi sono le procedure di conciliazione e arbitrato presso la Consob che sono uno strumento abbastanza efficace, o almeno potrebbe essere lo strumento efficace.

In definitiva: il sistema potrà avere delle lacune, ma è opportuno che le responsabilità della Consob e della Banca d'Italia, se ci sono, vengano evidenziate, ma sapendo quali sono davvero le responsabilità e i loro poteri. Il sistema non è privo di contromisure, come abbiamo visto esistono le sanzioni ed esiste la responsabilità civile. E allora la domanda è perché non si ritiene che queste misure insite nel sistema non siano sufficienti? Perché le reazioni della politica e di tutti i partiti in questa fase sembrano dire esattamente questo? Alla politica la risposta. Grazie.

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Carlo Clericetti

Grazie. Sì ci saranno queste misure, però quando vediamo che direttore generale di una di quelle due banche venete, l'ex direttore generale ha preso quattro milioni e mezzo di euro e mi pare che nessuno glieli stia chiedendo indietro: beh, insomma….

Federico Mucciarelli

Posso aggiungere una cosa? Sarò rapidissimo. Su questa vicenda degli amministratori, in realtà questa cosa che non gli venga chiesto indietro nulla, questa è una cosa strana perché c’è una comunicazione della Commissione di alcuni anni fa, in cui si prescrive una cosa ben precisa - ma vado a memoria - e cioè che qualora gli amministratori di banche che siano state salvate e abbiano ottenuto fondi pubblici debbano veder revocati i pagamenti dei compensi variabili. Quindi il meccanismo per cui l’amministratore ha preso i soldi ma l'impresa fallita è un problema che vale per le banche come così come per le imprese dei settori non finanziari. Il problema della revocatoria dei compensi eccessivi si presenta in tutte le imprese fallite perché la responsabilità limitata, cioè il fatto che i soci non paghino i debiti della società, crea inevitabilmente rischi di comportamenti opportunistici a danno dei creditori.

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Enrico Morando* Vice Ministro dell’economia e delle finanze

Intervengo dal mio posto. L'ultima volta che mi sono seduto lì in presidenza in questa sala era durante la legge finanziaria e ci sono stato trentadue ore di seguito senza mai potermi muovere e anche solo per questo bisogna che aspetti un anno prima di risedermi da quelle parti.

Ho accolto con piacere l'invito a partecipare a questa discussione perché conoscendo il deputato Paglia con cui, diciamo, si discute in Commissione Finanze della Camera, ero certo che il vostro approccio a questo tema non sarebbe stato quello che ho sentito enunciare in un sillogismo rapidissimo molto di recente in queste aule dalla deputata Savino (Forza Italia – NdR). La quale ha detto, all'inizio del suo intervento sul disegno di legge di conversione del decreto sulle banche di credito cooperativo, la seguente cosa: primo, questo decreto riguarda le banche, ed era difficile negarlo; secondo, le banche sono impopolari, ed anche questo, temo, che sia difficile negarlo in questo momento; terzo, quindi noi siamo contrari al decreto. E ha poi cominciato a sviluppare argomenti su questo. Non sto scherzando, potete controllare.

Ora a parte il fatto che questo, forse, è un piccolo episodio che dimostra che quello che dice Panebianco questa mattina sull'articolo di fondo del Corriere della Sera a proposito del centrodestra, qualche fondamento deve averlo. Consentitemi questa piccola osservazione.

Sono venuto volentieri perché sapevo che avrei trovato per l'essenziale argomenti magari con i quali io non riesco a convenire, ma argomenti condotti e sviluppati con serietà come sempre succede quando si discute con voi di questi argomenti.

Ora io non voglio occuparmene per molto tempo, ma il giorno dopo l'attacco frontale, clamoroso obiettivamente, di Schauble alla Banca centrale Europea, io non posso esimermi dal partire dal documento sulla politica economica e fiscale europea proposto dal Governo italiano qualche settimana fa, perché c'è un nesso fortissimo, a mio giudizio, e perché quel documento fornisce la base per una risposta alla iniziativa di Schauble e che credo faremmo tutti molto male a sottovalutare o a prendere le difese adesso della BCE con l'argomento, che già sento serpeggiare, dell’eterna partita Italia-Germania, quello della BCE italiano, Schauble tedesco. E quindi noi siamo con quello italiano.

Ora quel documento ha un obiettivo, un principio ispiratore e quattro caposaldi, almeno due dei quali riguardano esattamente la discussione di cui stiamo occupando questa mattina.

L'obiettivo è quello di determinare le condizioni perché attraverso una svolta di politica economica e fiscale, alla dimensione europea si costruisca una coerenza tra l'orientamento di fondo della politica monetaria della Banca centrale e l'orientamento della politica economica e fiscale. Perché in Europa noi stiamo pagando e molto duramente il divorzio, cioè la divergenza completa - a differenza di quello che è accaduto negli Stati Uniti - tra questi due orientamenti. Oggi la divergenza si è enormemente accorciata se guardiamo al fatto che l'avanzo primario dei bilanci degli Stati europei nel loro complesso si è ridotto rispetto agli anni precedenti.

Vediamo che una timida intonazione espansiva la sta prendendo anche la politica fiscale. Ma la sostanza è che all'orientamento di politica economica e fiscale del, tra virgolette, “modello austerità”, da un certo punto in poi ha fatto da contraltare (poi ci si stupisce se non ha particolare effetto) una politica monetaria che andava invece finalmente in direzione fortemente espansiva.

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Questo, dunque, è l'obiettivo che noi ci proponiamo. Creare le condizioni perché attraverso un confronto che non è una passeggiata ma è un confronto politico di primo ordine, si costruisca questa, non dico, convergenza piena - per la convergenza piena ci vuole il governo democratico dell'Europa, ci vuole l'Europa federale perché la BCE è un organismo federale, è l'unico veramente federale mentre il resto, invece, è una somma di governi in equilibrio instabile nel rapporto di forza ognuno con tutti gli altri - ma non c'è dubbio che una riduzione della divergenza è nelle cose possibili.

Il principio base del documento invece, se questo è l'obiettivo, è la responsabile e realistica condivisione del rischio. Capisco che si può non essere d'accordo con il carattere realistico della proposta, cioè non dire cose che sarebbero quelle che ci piacciono, ma dire cose che ci piacciono e si possono persino realizzare. Però questa è stata la scelta che il Governo ha fatto. E penso che chiunque sia al Governo abbia la responsabilità di assumere il riferimento al realismo come un riferimento difficilmente eliminabile.

Il documento si sviluppa, come dicevo, attorno a quattro capisaldi che richiamo rapidamente: primo, uno schema comune di assicurazione contro la disoccupazione. Non ne parliamo qui questa mattina ma è chiaro che questa proposta ha un ruolo centrale nel nostro disegno di politica economica e di coordinamento della politica economica, la dimensione europea.

Secondo, un coordinamento effettivo delle politiche economiche che assuma come obiettivo il superamento o almeno la riduzione del livello degli squilibri macroeconomici in entrambe le direzioni. Il che significa che lo squilibrio macroeconomico determinato da eccesso di avanzo commerciale vale, superato il limite previsto dalle nostre regole, quanto lo squilibrio contrario. Diciamo anche che se determinato qualcuno dice da virtù piuttosto che da vizio. Sarà anche una virtù individuale ma nella logica europea non lo è, perché alimenta la crisi europea invece di risolverla.

Terzo, ci vuole immediatamente, e non nel 2028, il fondo di garanzia sui depositi europei per completare l’Unione bancaria.

Quarto, ci vuole un fondo unico di risoluzione previsto dalle regole dell'Unione bancaria con una dotazione adeguata. Dotazione adeguata, cosa vuol dire? Abbiamo appena conosciuto una crisi drammatica dal punto di vista del sistema finanziario e del credito, quindi sappiamo che nel 2009-2010 per un intervento adeguato di questo Fondo di risoluzione ci sarebbero voluti 100 miliardi. Cento miliardi di euro! Ecco, l'idea di avere una dotazione decisamente inferiore è uno dei fattori di squilibrio, quindi ci vuole.

Ora come vedete due di queste quattro scelte, che noi consideriamo capisaldi di un orientamento da far valere in Europa, riguardano l'effettivo completamento dell'Unione bancaria. Che è forse la scelta più significativa sul versante della costruzione del processo comunitario che si sia compiuta nel corso della Grande recessione che si è aperta nel 2007-2008.

Ora, è evidente che la partita aperta - scusate se questo non c'entra proprio specificatamente con la vicenda delle nostre banche; non lo so se sia proprio fondato questo giudizio, io ho l'impressione che le cose che sto dicendo centrino molto - in ogni caso c'entra moltissimo con l'offensiva di cui l'intervento di ieri di Schauble. Esso non può non essere lo specchio di come cioè i conservatori europei vedono nell'orientamento ultra espansivo della Banca centrale europea un rischio e intendono aggredire quell'orientamento, non per farlo rientrare attraverso la costruzione di condizioni migliori sul versante del coordinamento della politica economica e fiscale, ma

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semplicemente intendono far venir meno quell'orientamento lasciando per il resto delle cose come stanno.

A me sembra questo il pericolo dei pericoli, l'avversario degli avversari in questo momento su cui concentrare l’iniziativa.

Perché è una linea legittima ma è una linea che ha conseguenze assai negative per il progetto comunitario del suo complesso e in ogni caso anche per noi.

In questo contesto, secondo me, bisogna - ho sentito gli interventi che ci sono stati a questo proposito - sì riconoscere che l'efficacia della politica monetaria ultra espansiva è parziale, ma la mia domanda è: ma quanto di questi risultati così ancora non soddisfacenti della politica monetaria sono dovuti al fatto che non c'è una politica economica e fiscale coerente in Europa e quanto invece sono dovuti ai limiti intrinseci di questa politica? Non vorrei, infatti, che con critiche, tra virgolette, da “sinistra” alla politica monetaria e alla sua inefficacia, si finisse per fare il gioco di quelli che la vogliono aggredire dal lato sbagliato, al di là delle intenzioni.

Questo è da considerare, come dire, un po' la cornice dentro cui sviluppare l'iniziativa di riforma, di ristrutturazione e riorganizzazione che ha poi a che fare con il sistema bancario nel nostro Paese. Dubito che al di fuori di quella cornice si possa avere successo con iniziative che programmaticamente assumono un orizzonte esclusivamente nazionale. Dentro questa discussione io collocherei il sacrosanto dibattito sull'introduzione delle regole nuove dell'Unione bancaria compreso il cosiddetto bail-in.

A proposito del quale è noto che io mi vado sempre a cercare guai; se non sto un po' in minoranza da qualche parte io non sono contento e quindi vado sempre a cercarmi dei problemi.

Fossi l'unico debbo dire la verità, che io queste critiche al bail-in che sono state avanzate, al di là dei limiti, al di là dei problemi di scarsa preparazione e di non adeguamento, le considero tutte cose serissime. Ma la regola in sé, scusate, io la trovo assolutamente ragionevole.

Sulla critica fondamentale che viene fatta, e cioè che la partita era in corso, le regole erano diverse, avete cambiato le regole con effetto retroattivo, io dico che uno non cambia una regola che nessuno ha mai scritto.

Perché sia chiaro, il bail-out non era scritto da nessuna parte, determina degli effetti ma non può seriamente venirmi a spiegare che ho la responsabilità di avere cambiato una regola che veniva assunta per esistente in nome di una parte enorme di quei conflitti di interesse che qui vengono denunciati con tanta energia, e che essa esplicita potenza.

Io sono per vedere, guardare la sperimentazione e così via. Però attenzione che anche di fronte a questa innovazione che è stata introdotta per decisione dei Governi nel 2012, sembrerebbe che il calendario di oggi dica che siamo nel 2016. E poi formalmente è stata introdotta l'efficacia nel 2014. Non è mica un caso che ci siano delle banche - se volete potete andare a vedere quali sono - che da quattro anni, cioè dal 2012, esaminato quello che stava accadendo, e non c'è solo Banca etica che ha fatto questo, ci sono anche altri istituti che hanno deciso autonomamente che le obbligazioni subordinate non le vendevano più al pubblico retail.

Perché era chiaro che nel nuovo contesto regolatorio, l'obbligazione subordinata non era più quella che era prima, quella che era in realtà, non quella che era sotto il profilo giuridico-formale. Perché sotto il profilo giuridico formale è sempre stata non parte del capitale ma, appunto, una

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obbligazione subordinata: “ti pago se ci sono i soldi”. Ha sempre voluto dire questo, “subordinata”. Solo che nella gestione di quel mega conflitto di interessi che nasceva dal fatto che la banca non può fallire e che ci penserà Pantalone, naturalmente si faceva anche questo.

Allora io sono per sperimentare, vedere, guardare, aggiustare quel che c'è da guardare ed aggiustare. Desidererei ardentemente non buttare via per l'ennesima volta il bambino con l'acqua sporca. Perché nel bail-in c'è una parte importante di soluzioni di quei maledetti conflitti di interesse che nel sistema bancario sono così diffusi. Il che non assolve nessuno da ciò che non ha fatto per preparare, per lavorare, per riorganizzare, per ristrutturare e per favorire la ristrutturazione. Questo è un altro discorso, ma bisogna secondo me partire dall'esigenza di vedere che c'è un'innovazione che sembrerebbe andare nella direzione di risolvere un problema che è di tipo strutturale, molto difficile da risolvere, come è stato spiegato anche sul piano tecnico giuridico poco fa.

Termino dicendo che per quello che riguarda le obbligazioni subordinate l’ho detto l'altro giorno in Parlamento e proprio rispondendo a un'interrogazione dell'Onorevole Paglia, e per questa ragione naturalmente rimasto completamente segreto. Perché in Italia le uniche cose assolutamente ignote e segrete sono quelle che si dicono in Parlamento. Tutte le altre sono notissime.

Io ho il, tutti dicono, vizio, ma ormai per me è un punto di principio, che se dico una cosa in una Commissione parlamentare, quando fuori dalla porta i giornalisti mi dicono: “ci può ripetere”, siccome c'è il verbale, gli rispondo “andate a leggere il verbale”. Capisco che è una, diciamo, idiosincrasia da pazzo. Detto questo, l'altro giorno in una Commissione parlamentare non in un talk show televisivo, ho detto che a proposito delle obbligazioni subordinate delle quattro banche risolte ci sono di fronte a noi novità importanti, non per gli azionisti, come ho spiegato ad un'Assemblea piuttosto impegnativa qualche giorno fa, degli azionisti e degli obbligazionisti di CariFerrara, perché naturalmente sono andato, sempre per la stessa ragione, a scegliermi l'unico posto dove gli azionisti sono di lunga più numerosi degli obbligazionisti. Ma lasciamo stare.

Ho detto che abbiamo raggiunto sostanzialmente un accordo per un significativo allargamento. Non so se per le altre ma per le banche italiane. Questa è una bella novità perché le conseguenze sul piano finanziario sono piuttosto chiare; ma abbiamo raggiunto un accordo che consente in via del tutto eccezionale proprio perché stavamo nella fase di prima applicazione delle nuove regole e così via, di considerare che si possano modificare le regole di accesso al ristoro rispetto a ciò che è previsto nella legge di stabilità.

A una platea informata non ho bisogno di dire che cosa è previsto e cosa non è previsto. La sostanza è che nella legge di stabilità si dice: sia chiaro o l'arbitro è messo nelle condizioni di almeno presupporre seriamente che ci sia stata violazione nel vendere quella obbligazione a quel cliente con violazione degli obblighi di correttezza e trasparenza nei confronti del cliente, obblighi fissati dal Testo unico bancario, oppure non si può procedere.

Cioè non c'è un “diritto soggettivo” tra virgolette dell’obbligazionista al ristoro nemmeno nel caso delle obbligazioni subordinate.

In cosa consiste “l'accordo” tra virgolette? Poi vediamo la traduzione operativa. L'accordo consiste nella possibilità di introdurre maglie più larghe per l'accesso al ristoro, cioè questa, tra virgolette, “violazione” può essere in larga misura, tra virgolette, “presupposta” e non una conseguenza da assumere a riprova della possibilità di ristorare a me personalmente. Pare una innovazione rilevante che si giustifica - non l'abbiamo fatto prima perché noi volevamo stare dentro le regole europee - perché se le avessimo violate non avremmo potuto condurre il confronto che poi abbiamo condotto, dicendo abbiamo fatto secondo le regole ma adesso, per

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favore, ragioniamo un attimo per vedere se c'è un margine, eccezionalmente e solo per questo caso. Per il resto, come voi sapete, stiamo discutendo nell'ambito di un disegno più generale che riguarda la finanza di impresa, di un intervento che ulteriormente si associ a quelle iniziative che abbiamo già preso per affrontare il nodo sofferenze che in Italia è la dimostrazione di un clamoroso fallimento del mercato. Lo dico perché in Europa se non dici prima che c'è il fallimento del mercato non ti stanno nemmeno sentire sul fatto che tu voglia far qualcosa attraverso un intervento pubblico. A nostro avviso il caso delle sofferenze bancarie in Italia è un caso clamoroso di fallimento del mercato. Questo mercato di fatto non c'è. Lo dico anche a quelli che hanno fatto una polemica politica. Io in politica accetto qualsiasi polemica. Però quando succedono delle cose e che coi numeri si dimostra che quella polemica era sbagliata io mi aspetterei almeno che la si smettesse. No invece sì rincara la dose. E cioè quando abbiamo detto che le sofferenze delle quattro risolte erano state valutate 17,5 per cento è stato detto da tutti “regalo!”, etc, etc… Perfetto, adesso è uscito lo studio sulle sofferenze collocate sul mercato in Italia negli ultimi tre anni dalle banche italiane: valutazione media 13,5. Tredici virgola cinque, dopo di che è chiaro che è enormemente poco e che dimostra, che spiega perché di fatto il mercato non c’è. Perché le banche si tengono queste sofferenze, perché non vogliono ovviamente iscrivere a bilancio le perdite per dimensioni troppo grandi. Quindi bisogna intervenire. Abbiamo fatto delle cose; sapete tutti quali sono. Non c’è bisogno che ad una platea come questa lo ricordi. Però non bastano. Lo sappiamo. Quelli che hanno detto, come l'Onorevole Paglia, guardate che le stime sono che aumenti il prezzo del 5 per cento. A parte il fatto che il 5 per cento quando siamo sotto il venti, è qualcosa. Ma comunque sono d'accordo con Paglia. E’ poco, e risulta efficace ma efficace ai margini. E’ molto probabile che in questo caso il fallimento del mercato sia stato determinato dal fallimento in Italia di una istituzione economica fondamentale che si chiama sistema giustizia. E’ inutile fare finta di non aver capito. Perché se continuiamo a far finta di non aver capito, il problema rimarrà esattamente dove stava. E cioè le banche hanno troppe sofferenze; se le aumentano devono aumentare i requisiti di capitale. Per questa ragione non fanno credito a quelli che hanno un margine anche soltanto molto laterale, diciamo, di rischio e noi continuiamo ad avere il credit crunch in un mondo nel quale l'unica cosa che non costa niente sono i soldi, cioè un paradosso del paradosso del paradosso. Quindi se vogliamo trasferire soldi all'economia reale dobbiamo aiutare le banche a ridurre il problema delle sofferenze.

Sono d'accordo anch'io, giuro che so fare un comizio contro i crediti concessi dalle banche che hanno dato luogo a sofferenze. Io ho degli esempi più belli di quelli che sanno fare altri. Per esempio, a un signore che costruiva palazzi, che non faceva altro che quello che vendere e comprare palazzi, che a un certo punto coi soldi delle banche a momenti riusciva a comperarsi il Corriere della Sera. Quindi volete che noi non sappiamo che ci sono state, ci sono, sofferenze e sofferenze e che è sacrosanto dire che non tutte meriterebbero. Sono d'accordo, ma la sostanza è che le banche sono piene di sofferenze e che non fanno credito quindi dobbiamo rimuoverle.

Per rimuoverle, se non basta ancora quello che abbiamo fatto, forse ci sono due interventi ulteriori: uno riguarda la finanza di impresa, la possibilità di implementare la forza dei soggetti che intervengono su questo mercato, l'altro riguarda le procedure concorsuali, naturalmente sapendo che anche qui in fatto di demagogia si possono dire cose magnifiche su questo argomento. Perché naturalmente rapide procedure concorsuali e rapide procedure esecutive, se sono fatte senza avere a riferimento le conseguenze, possono determinare conseguenze sociali molto negative.

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Giuro che lo so anch'io malgrado io sappia pochissime cose. E però, o continuiamo ad avere il gatto che insegue la propria coda all'infinito oppure dobbiamo aggredire con misure selettive questo nodo. Cercando di fare in modo che anche in Italia il tema sofferenze da un certo punto in poi sia affrontato in una logica di mercato, cioè si crei il mercato delle sofferenze. Ma finora il mercato delle sofferenze non si è creato, e se non facciamo qualcosa di preciso non si crea.

Rosario Trefiletti

Posso fare una domanda al Ministro Morando? Anche noi avevamo ascoltato e valutato la risposta che è stato data alla richiesta dell'Onorevole Paglia. Come vede siamo molto attenti alle cose. E per la verità aggiungo che avevamo dato anche un giudizio positivo pubblicamente. Il chiarimento ulteriore, un'informazione più che un chiarimento: quali saranno i tempi del decreto attuativo? Solo un’informazione.

Enrico Morando

I tempi saranno brevi perché l'accordo l'abbiamo fatto. Solo che siccome o non è vero quello che ho detto o bisogna cambiare la legge di stabilità. Perché nella legge di stabilità c'è scritto che si riesce ad arrivare al ristoro soltanto se, tra virgolette, “di fronte all'arbitro” si porta l'argomento, dico si porta l'argomento, non dico si riesce a provare, ma si porta l'argomento relativo alla violazione. Per superare questo non basta un DPCM o un decreto ministeriale, ci vuole una nuova norma che sostituisca quella che abbiamo dovuto scrivere ai tempi del decreto salva banche cioè della legge di stabilità. Oggi i commi della legge di stabilità, non mi ricordo più quali sono (commi da 842 a 861 dell’articolo 1 della legge n. 208 del 2015 - Legge di stabilità 2016 - NdR), quindi i tempi sono brevi, compatibilmente con il fatto che se facciamo questo decreto se c'è anche qualcosa d'altro sul versante di cui ci occupiamo stamattina da sistemare.

Io, di venire in Parlamento ogni quindici giorni a convertire un decreto legge ognuno per conto suo sulle banche penserei che è un po'esagerato anche solo per la mia salute. Capisco che a voi della mia salute non importa niente però bisognerebbe farne uno e chiudere la partita. I tempi sono comunque molto brevi.

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SECONDA SESSIONE - TRA HOME BANKING E FUSIONI: COME CAMBIA IL LAVORO Loris Campetti Giornalista – autore del libro “Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni” Mi sembra che sia saltata la relazione introduttiva prevista per questa sessione e se ho ben capito tocca a me dire alcune cose introduttive. In questa sessione parliamo di lavoro e di quali sono le ragioni che hanno portato a una crisi pesantissima nel settore bancario che ha visto crollare per la prima volta l'occupazione al di sotto delle trecento mila unità. E che siamo a una quantità di esuberi, diciamo certi, intorno alle 23mila unità con un work in progress piuttosto preoccupante. Il Fondo esuberi dei bancari ha sin qui funzionato egregiamente per salvaguardare i lavoratori più anziani penalizzati dalla crisi delle Banche e dalla Legge Monti/Fornero e consentire un po’ di flessibilità con un'uscita anticipata dal lavoro. Progressivamente, però, il fondo darà una copertura economica minore di quella attuale, cioè si scenderà intorno al sessanta per cento del salario per chi accetta di andarsene prima, in conseguenza della crescita dell’incidenza del contributivo. Su questo punto Agostino Megale potrà correggermi se lo riterrà necessario.

I due elementi centrali che hanno determinato la crisi occupazionale nel settore bancario sono da un lato legati al fatto che il cinquanta per cento grossomodo delle operazioni bancarie può essere fatto da casa individualmente, via web, in tutte le forme che conosciamo e questo ovviamente riduce la quantità di lavoro vivo necessario. Il secondo aspetto è quello che riguarda ora, ma in prospettiva ancora di più mi pare, le fusioni. La fusione tra due banche significa che una certa quantità di filiali viene chiusa e che un bel numero di lavoratori resta senza lavoro. C'è però un altro elemento che determina la crisi del settore, se n'è parlato anche nella prima sessione di questo convegno: è ovviamente la totale mancanza di rispetto delle forme minime della morale, per la mole spaventosa di soldi che va a finire nelle tasche dei dirigenti, a prescindere dal fatto che abbiano condotto una vita lavorativa utile alla collettività e al settore, oppure che abbiano fatto fallire la banca dove lavoravano. Ma c'è ancora un aspetto importante sul quale mi piacerebbe sentire sia punto di vista dei sindacalisti che del presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano e riguarda la modifica dell'organizzazione del lavoro nel settore, indotta dalla modifica del funzionamento e delle finalità del sistema bancario. Le banche originariamente raccoglievano il risparmio e lo utilizzavano per finanziare le famiglie e le imprese, ma progressivamente tutto questo è in qualche modo sfumato quando l’attività principale è diventata la speculazione finanziaria. Ciò ha determinato una modifica anche della mansione del bancario, il cui lavoro è diventato più povero da un punto di vista della professionalità, ed essendo più povero verrà pagato di meno. Così non si è svalorizzata soltanto la figura del bancario, è saltato anche l’antico ruolo che la banca ricopriva all'interno del territorio, di interlocuzione, che ha consentito per tanto tempo ai territori di crescere nelle situazioni di espansione e di resistere nei momenti di difficoltà. E’ vero, come accennava prima Visco, che esiste un rischio nella prossimità della banca al territorio, per l’ingerenza della politica se il territorio è controllato dai gruppi di potere e soprattutto politici che hanno le mani sulle istituzioni, sull’economia e, mi verrebbe da dire, anche sull'informazione. Il risultato può essere, come è stato, devastante, cioè l’opposto dei vantaggi che una territorialità della banca dovrebbe garantire. Per fare solo un esempio, tanto per non far nomi mi viene in mente il rapporto tra Banca Marche e Antonio Merloni. Vediamo dunque che sono molti i nodi che determinano la crisi occupazionale nel settore bancario. Per affrontarli bisogna mettere al centro proprio la modifica del ruolo che la banca svolge.

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Potrebbe sembrare che io stia per abbandonare quel realismo a cui ci invitava il viceministro Morando nel suo intervento, ma non credo sia così e una cosa vorrei dirla: cioè io mi chiedo se anche con le banche non si dovrebbe fare qualcosa di analogo a ciò che negli Stati Uniti Obama ha fatto con l'industria dell'auto. Se la collettività giustamente decide di intervenire per salvare una banca, non si dovrebbe pensare a nazionalizzare quella banca? E mi chiedo se una banca pubblica non possa svolgere un ruolo anche in funzione del lavoro nel territorio, fissando delle regole, dandosi dei vincoli sociali e occupazionali, oltre che di tutela dei risparmiatori. Se è vero come ci ripetono che la competizione è il motore del mercato, in tali rinnovate condizioni si potrebbe mettere in moto un circolo virtuoso nel sistema bancario. Mi sembrerebbe un buon modo per affrontare il problema. Io comincerei dando la parola ad Agostino Megale, segretario generale della categoria dei bancari della CGIL.

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Agostino Megale (*) Segretario generale Fisac-Cgil

Direi che hai messo l'accento sulle questioni vere e centrali che noi stiamo affrontando. Una sola considerazione che riguarda anche la discussione fatta prima ma che serve. Per quanto ci riguarda come CGIL abbiamo lanciato il diciannove di febbraio, io e Susanna Camusso, nel salone Di Vittorio della Confederazione una serie di proposte il cui cuore però si possono sostanziare nel fatto che i bancari non sono banchieri. E questa semplificazione serve perché troppo spesso l'opinione pubblica, dobbiamo riconoscerlo, con il precipitare della crisi e le difficoltà dei risparmiatori, non mantiene tutte le distinzioni necessarie.

Quell'intervento è essenziale perché abbiamo ritenuto indispensabile rilanciare un'idea. Lo richiamava prima il mio amico Rosario Trefiletti. I lavoratori del settore e i risparmiatori non possono che procedere in un'azione comune e costante. Nell’azione anche nei confronti dei veri responsabili. Cito solo due fatti. Primo, sono uno di quelli che ha sollevato non solo una perplessità ma, insomma, una valutazione negativa sul fatto che gli azionisti convocati in assemblea di Popolare vicentino, un 18 per cento di quegli azionisti, pari al cinque per cento dell’insieme, e grazie al 40 per cento di astensioni di questi centocinque mila risparmiatori di cui parliamo, hanno negato la possibilità di un'azione di responsabilità verso Zonin e gli ex dirigenti che di responsabilità ne hanno. E non una sola, ma la quasi totalità avendo guidato per un ventennio l’istituto. E questo richiama all'idea che tu citavi da ultimo. Non solo delle azioni di responsabilità, ma delle dinamiche, dei top manager, delle diseguaglianze. Io la sintetizzo come il fallimento di una classe dirigente che investe la classe dirigente d'Italia, perché Banche e Paese sono lo specchio di una realtà in cui non solo sono contaminate le banche ma hanno accompagnato il declino del nostro Paese nella situazione generale che vediamo.

E questa parte di classe dirigente, non è che si dice che tutti i banchieri hanno questa caratteristica, però, insomma, non c'è bisogno di fare l'elenco da Ligresti a Mussari, a Ponzellini. Come si capisce, non dipende se sono popolari, se sono SpA, se sono BCC. Prescinde dal modello stesso ed è molto più ancorato a quella dinamica di sottopotere, di logiche clientelari del territorio o anche ad una dimensione più ampia, che in questo caso sì, senza nulla togliere anche alle dinamiche che hanno coinvolto tramite stampa il vice di UniCredit, Palenzona.

Però è evidente che più sei grande e meno sei soggetto a poteri ramificati ed a un sottobosco che per troppo tempo ha agito a livello locale. Quindi va restituita una dimensione industriale ad un'industria che è vero che è privata, ma che insomma è un bene comune. Perché senza rilancio del sistema bancario non si rilanciano gli investimenti, non si rilancia la crescita e non si crea occupazione. E questa dimensione è quella che mi ha portato, a differenza di altri, a ritenere il decreto del 22 novembre sulle quattro banche giusto e necessario. Poi ho ritenuto che l'azione svolta nell’affrontare il problema delle subordinate dei risparmiatori non fosse quella adeguata. Il vice ministro Enrico Morando se ne ricorda. Anche delle discussioni in quel momento sull'eventuale possibilità di giungere in fondo ad una soluzione che quella che si potrebbe determinare ora attraverso un rimborso della gran parte dei risparmiatori coinvolti nella distinzione tra i risparmiatori delle subordinate e il resto degli azionisti.

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Perché anche qui fare di tutta un'erba un fascio e fare confusione in genere non aiuta. Non sono la stessa cosa i dieci mila coinvolti sulle subordinate e una parte degli azionisti, pur essendoci dentro anche gli stessi lavoratori, o gli azionisti di Popolare vicentino o Veneto Banca. Sono dinamiche che per uno come me richiama non solo la cultura antica di Di Giulio, responsabile economico del PCI. In quel lontano ‘72 avevo diciannove anni, e già allora ci insegnava alle Frattocchie che le aziende, ed anche le banche, solo nella misura in cui erano quotate in borsa uscivano da una dinamica in cui erano ancorate a logiche di poteri locali. Esse potevano ancorarsi ad una dinamica di mercato pur falsata. Lezioni antiche che possono in qualche misura servire oggi.

Dico solo che occorre aver presente, in questa vicenda delle quattro banche, i risparmiatori, ma anche avere presente quella che io chiamo, lo dico al Vice Ministro e al Presidente della Commissione lavoro, una “clausola sociale” nella vendita. Il che vuol dire tutela dell'occupazione, impatto col territorio. Sappiate che non solo la CGIL ma tutto il sindacato unitariamente la pone.

Noi abbiamo gestito unitariamente nel corso di questi anni, dal 2008 ad oggi qualcosa come 48mila esuberi nel settore. E come tu dicevi bene sono attualmente dai 19 ai 22-23mila. Dovremo vedere effettivamente l'impatto dei processi di aggregazione, l'impatto della trasformazione del fenomeno delle BCC dentro una dimensione di holding. E bisognerà anche vedere come finirà una realtà, dopo la cura da cavallo come quella che è intervenuta in Monte dei Paschi, col contributo essenziale dei lavoratori. Io ricordo sempre che in quella realtà si è configurata un'intesa per otto mila esuberi. Quando si è fatto, ho detto che era come se si chiudesse Mirafiori. Sarebbe dovuto scoppiare una rivolta. Ma quella dinamica non ha prodotto questo impatto. Altri otto mila esuberi sono stati gestiti in Banca Intesa, di cui quattro mila riconvertiti e da riconvertire in termini professionali. E non ultimo gli stessi diecimila nel gruppo di UniCredit con l'ultima coda relativa agli stessi dirigenti. Ora è evidente, e anche qui è stato ricordato, che la crisi in questo settore è stata prodotta dalla cattiva finanza americana e inglese. Adesso possiamo anche trarre la conclusione che gli effetti di ritorno sono che le sofferenze, al netto dei crediti agli amici degli amici, riguardano il fatto che un'economia come la nostra è basata su quattro milioni e trecento mila imprese con la media di tre dipendenti e mezzo, sottocapitalizzate, dipendenti al novanta per cento dal sistema bancario, e ti riporta al fatto che, al di là degli interventi pubblici spesi in Germania e non spesi in Italia, la stessa dimensione di impresa in Germania con una media di 13 dipendenti, settecento mila imprese dipendenti dal sistema bancario al 42 per cento, configura una differenza notevole.

Quindi, nel nostro Paese, sei di fronte ad una crisi che alla fine investe direttamente un sistema industriale, il quale fatto salvo il quarto capitalismo, otto mila imprese che esportano, non ha innovato, si è basato sulla competizione da costo. E’ il Paese che in Europa ha la maglia nera con tre milioni e mezzo di lavoratori sommersi, illegali e in nero. Essi rappresentano non solo nel Mezzogiorno, ma anche nel Veneto e dintorni, un problema dell’economia italiana.

E’ per questa ragione che noi dobbiamo continuare a gestire i problemi occupazionali così come abbiamo fatto in questo periodo. Quarantotto mila uscite ma dieci mila entrate. Come? Questa è l'unica categoria al mondo che si è inventata nel contratto nazionale il cd. “FOC”, il Fondo per l'occupazione del credito, con cui i lavoratori e le banche hanno finanziato l'assunzione di circa dieci mila giovani.

Quando ancora non si poneva il problema, avendo lanciato nel 2010 un piano per l'occupazione giovanile nel settore. Quindi si riduce ma eppur si muove. Vi sono degli ingressi e in questi ingressi andrebbe valutato anche il rapporto tra crisi e innovazione, tra posti di lavoro scomparsi per effetto della crisi e posti di lavoro che scompaiono per effetto del digitale o del web.

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Bisognerebbe anche saper valutare con attenzione il piano di mille assunzioni annunciato da Intesa proprio nell'ambito di nuove attività. Perché l'innovazione, come è sempre accaduto nelle tre rivoluzione industriali precedenti, taglia posti di lavoro, fa scomparire professioni, mansioni il cassiere come l'abbiamo conosciuto, ma ne crea di nuove. Perché la tecnologia comporta in se non solo distruzione ma anche creazione, e bisogna saperlo valutare. Perché, per esempio, diventa essenziale da parte nostra nel governo anche degli esuberi futuri.

Io interloquivo rispetto al sessanta per cento per la semplice ragione che attualmente il fondo di solidarietà, anche questo unico in Italia ed in Europa, non è a carico dell'intervento pubblico. E’ a carico interamente del sistema creditizio.

Io dico solo a chi paventa eventuali correzioni perché costa troppo alle banche, perché magari le banche pagano l'indennità di disoccupazione, e licenziamenti non ce ne sono, e quindi per questa via si immagina un intervento pubblico alla stregua di quanto avviene per il resto degli ammortizzatori sociali.

Io dico che in un momento, in cui reperire risorse sul piano pubblico non è semplice, bisogna difendere lo strumento così com’è. Utilizzarlo bene e nell'utilizzarlo bene, immaginare che con i processi di riqualificazione, laddove vengono evidenziati degli esuberi, non si tratta solo di gestire le persone che escono col Fondo ma anche le persone che vengono riqualificate, reimpiegate e riutilizzate nell'ambito delle innovazioni.

Che cosa possono comportare i processi di fusione e di aggregazione? Diciamo anche qui due cose. Il primo problema è che, insomma, si è parlato molto stamattina di sofferenze e poco di ricapitalizzazione. Nella fusione Banco Popolare e BPM, sulla quale ho detto che non ci sono ragioni per contrastarla, misureremo il progetto industriale e occupazionale. Bisogna aver chiaro che lì però si è già parlato di ricapitalizzazione.

Se il sistema, nel rapporto con la BCE, avverte che per aggregarsi e fondersi c'è una tassa in più da pagare, che è una tassa di capitale, è evidente che questo di per sé non agevola. Semmai il problema è che dovremo valutare gli impatti occupazionali, i progetti industriali, il ruolo dei fondi che non possono essere ipotizzati come quello su Carige.

La partita è totalmente aperta, noi intendiamo giocarla. Per questo debbo dire che abbiamo chiesto al Governo di aprire un tavolo di confronto sulla riforma del sistema bancario perché di decreto in decreto non si va alla soluzione.

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Cesare Damiano (*)

Presidente della Commissione Lavoro – Camera dei deputati

Vi ringrazio per l’invito. Naturalmente questa parte è dedicata più al tema del lavoro. Mi ha fatto piacere che Agostino adesso ricordasse Mirafiori e prontamente si è inserito Loris, eravamo insieme a Torino al tempo in cui a Mirafiori c’erano sessanta mila dipendenti in uno stabilimento, poi a Rivalta, Chivasso e Lingotto altri quaranta mila, quindi Torino fabbricava automobili e c’erano cento mila persone. Adesso di quelle cento mila persone ne sono rimaste sì e no dieci mila, diciamo precarie, quindi il processo di trasformazione è stato violento.

Ricordo anche, come aneddoto, che quando andavo nella mia banca, la banca di credito del Piemonte (non so se c’è ancora), era considerata la Banca del sindacato; parlavo con il direttore della piccola filiale e gli dicevo: “adesso tocca ai metalmeccanici, ai siderurgici e ai lavoratori dell’auto, nel terzo millennio sarete voi i nuovi siderurgici”. Lo dicevo un po’ scherzando ma in fondo avevo fatto una previsione, come si dice, “azzeccata”, anche perché non era difficile fare quella previsione. Ora io tralascio ovviamente tutte le argomentazioni che sono state fatte in precedenza sul ruolo del sistema bancario, vi risparmio le mie tesi anti liberiste sulla dominanza o sul dominio della politica nei confronti del capitalismo industriale perché ci porterebbero lontano, ma avremo sicuramente altre occasione di confronto. E’ evidente che il ruolo del sistema bancario è notevolmente cambiato, è sotto gli occhi di tutti, adesso Loris introducendo parlava anche di un ruolo territoriale. Se io devo dire, guardando gli ultimi esempi, penso a Banca Etruria o da altre situazioni che si sono determinate, la banca di prossimità, la banca territoriale, non è propriamente la banca amica del bel tempo andato. La banca amica del tempo di quando ero piccolo, quella dei miei genitori, era una banca accogliente che ti dava buoni consigli. Mi pare che con le logiche del profitto a tutti i costi, i buoni consigli non vengono dati soprattutto ai soggetti deboli che si recano in banca. Diciamo che le clausole sono state piuttosto opache. Così come per quanto riguarda la questione del bail in, ho sentito l’opinione di Enrico. Io anche qui faccio una notazione, sempre sui miei genitori. Scusate le mie nostalgie. M i dicevano una cosa banale: “Cesare, l’unica cosa che non può accadere è che le banche falliscano”. I o sono cresciuto con questa convinzione. Col bail in questa convinzione è venuta meno. Perché capisco che devo concorre al fallimento della banca in quanto correntista. Non lo trovo sensato ma naturalmente siamo dentro a delle logiche completamente nuove. Queste logiche nuove non risparmieranno neanche il futuro per quanto riguarda il lavoro di questo settore. Mi sembra che, come dice questo panel, c’è l’home banking, ci sono le fusioni, quindi da un lato c’è l’accorpamento, possono essere banche di credito cooperativo con le banche popolari, e si sa che quando c’è una fusione, c’è un esubero, c’è una riorganizzazione, c’è una nuova organizzazione del lavoro, c’è una semplificazione, uno più uno non fa mai due, questo lo sappiamo dolorosamente. In secondo luogo, l’home banking, l’irruzione del digitale, sicuramente cambia il lavoro, la nozione stessa del lavoro. Io sono di quella generazione nata all’ombra del fordismo e del taylorismo della grande fabbrica, della fabbrica industriale. Naturalmente ho imparato che i mondi si sono evoluti. Anch’io ho fatto il mio percorso però, in fondo, il ragionamento che io faccio, e che ai miei tempi l’innovazione nel ciclo della tecnologia dell’organizzazione del lavoro era fatta di evoluzione. Non era ergonomico lavorare in una fossa a mani alzate per montare un’automobile. Meglio avere un robot che te la gira e tu la monti con le braccia orizzontali; vuol dire risparmiare una grande fatica

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in otto ore di lavoro. Verniciare a spruzzo con la mascherina oppure avere un robot per la verniciatura, vuol dire salvare la pelle o vivere quattro anni di più, dopo la pensione ovviamente. A vere il digitron della Comau che ti monta i pezzi di u n particolare di motore sottraendo al lavoratore mansioni da dieci secondi, vuol dire anche superare un certo stress; quindi, erano innovazioni ergonomiche. In secondo luogo, eliminavano posti di lavoro, erano labour saving, era una tecnologia che era a risparmio di manodopera: da una parte alleviava la fatica, dall’altra parte diminuiva, purtroppo, l’occupazione, come abbiamo visto nei processi di cambiamento dei settori industriali. Qui, secondo me, siamo di fronte non ad una evoluzione, ma siamo di fronte ad una rivoluzione. Il digitale, per il modo col quale irrompe nella nostra vita quotidiana, nelle nostre relazioni sociali, nelle nostre relazioni personali, nelle relazioni d’ambiente, nelle relazioni della comunità di lavoro e nel modo di organizzare il lavoro, sarà una rivoluzione alla quale purtroppo io credo che non siamo ancora del tutto preparati. Cominciamo a percepire lo smartworking, piuttosto che altre forme di lavoro, l’home banking, come incombenti, presenti, ma non ancora sufficientemente analizzate. Perché dico rivoluzione? Io lo vedo su me stesso, io sono la segretaria di me stesso, cioè il vecchio ruolo della segretaria, dell’assistente parlamentare che faceva dei compiti elementari, “scrivimi il comunicato”, ora lo faccio io sull’iPad, ma anche sul telefonino, me lo mando, entro in contatto, supero quella mansione, supero una serie di mansioni. Questo non so se migliora la mia vita. Francamente non me lo sono chiesto, ma inevitabilmente ad un certo punto sono costretto anch’io, alla tenera età di sessantotto anni, a sapere che cos’è uno smartphone, che cos’è un iPad, come si manda una mail. E’ stata per me è una grande fatica, però ho dovuto in qualche modo nuotare in questo nuovo mare perché non è che potevo obbedire alle vecchie logiche. Io sono sempre dell’idea che bisogna stare sulla trincea e alla frontiera perché se no soccombi, e così anch’io mi sono adattato. La mia vita non è migliorata. Io vedo quando viaggio in sul treno Frecciarossa, siamo ognuno chiusi nel proprio abitacolo, con l’iPad attaccato, col telefonino sempre attivo, con le mail che arrivano, che vengono mandate; insomma, siamo degli individui, ma non ci si parla più. Alle volte capita anche in famiglia; non smetti mai, come vedi, anche tu stai compulsando sul telefonino, quindi è una novità che io non so se sia positiva; probabilmente non lo è, e impareremo a discernere ed utilizzare meglio questi strumenti anziché esserne schiavi. Comunque, per tornare al ragionamento, si tratta di una rivoluzione nel modo di lavorare. Come rispondere? I o mi auguro che in questo settore si riesca a preservare, sempre che il settore sia in grado di farlo, questo livello di concertazione tra sindacati e imprese del settore per quanto riguarda i temi occupazionali. Ricordava Agostino, con il nostro fondo per l’occupazione, il fondo di solidarietà, da una parte ed il fondo per l’occupazione dei giovani, dall’altra, non solo si è gestito un passaggio travagliato di quarantotto mila esuberi, ma andranno gestiti anche gli altri che verranno. Ma mentre c’erano gli esuberi, ci sono state dieci mila assunzioni di giovani attraverso l’utilizzo di strumenti e di risorse che non erano pubbliche ma pagate dai lavoratori occupati nel settore bancario e dalle aziende di credito. Quindi, io credo che questa esperienza vada assolutamente preservata perché l’impatto delle fusioni da un lato e del digitale dall’altro sarà temibile.

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Sto riflettendo al modo col quale sullo smartworking, la legge da un lato e la contrattazione sindacale dall’altro, si propongono di intervenire. Sui classici cinque giorni di lavoro, dal lunedì al venerdì, ammesso che rimangano quei classici giorni di lavoro e non sia un nastro continuo, tre li passo a casa mia o nella piazzola dell’autostrada mentre accosto per svolgere il mio lavoro, e due li passo nella comunità aziendale per apprendere, come si dice, le notizie e correlarmi con i miei colleghi, per riferirmi al mio dirigente che mi dà gli obiettivi. Scompare in qualche modo la fisicità del luogo di lavoro come elemento di scambio e di relazionalità. Questo è un problema chiaramente, lo so anch’io, non porteremo la catena di montaggio in camera da letto, ma sto parlando di lavori che possono essere svolti in qualsiasi luogo attraverso la nuova strumentazione digitale. Dall’altra parte è stato già posto il problema della remunerazione di quel lavoro. Noi eravamo abituati a contare le ore di lavoro moltiplicate per un valore di dieci, quindici, venti euro all’ora. Probabilmente dovremmo sostituire questa nozione con il prodotto del nostro lavoro, la cosa che produciamo, l’obiettivo che abbiamo raggiunto indipendentemente dal tempo che impieghiamo per arrivare a quell’obiettivo; sono sfide nuove. Io non so se il futuro sarà all’americana o in altra direzione, per cui mentre in Italia, col Jobs Act, abbiamo teso, anche giustamente, a distinguere in modo molto più marcato il lavoro dipendente dal lavoro autonomo, in realtà nel futuro avremo un mescolamento della nozione del lavoro autonomo e lavoro dipendente. Ci sarò una sorta di confine mobile difficilmente individuabile. Sono tutte sfide che impongono alla legge di tracciare delle regole fondamentali perché altrimenti andiamo a finire nel contratto individuale. Questo è quello che io temo, il contratto individuale. Io ti dò quello che decido di darti in quel momento, nella relazione fra impresa e lavoratore, al di là di contratti aziendali o nazionali, al di là di qualsiasi regolazione, se non quella dello scambio delle valutazioni e delle convenienze che abbiamo in quel momento. Chi è più forte e c h i più debole. O vviamente porta a casa la soluzione chi è più forte in quel momento, può essere un lavoratore, difficile di questi tempi, di solito, come dice il diritto del lavoro - quello antico - un po’ superato dalla logica commerciale del lavoro attuale, lo è il datore di lavoro. Sono, diciamo, delle sfide molto importanti. L’ultima notazione che io faccio è questa. Agostino Megale ha fatto riferimento al tema della clausola sociale. Io credo molto a questo. Però so quant’è difficile affermare il tema della clausola sociale. I o mi sono battuto con qualche successo, che viene messo continuamente in discussione, perché nella scrittura delle deleghe dei decreti attuativi del Jobs Act, ci fosse la clausola sociale. Di recente, ad esempio, nel settore dei call center, si deve applicare la clausola sociale, quella clausola che nel caso di un cambio di appalto per svolgere la medesima attività consente di mantenere quei lavoratori applicando loro il contratto vigente al momento del cambio dell’appalto. Il contratto nazionale, e non mi sono addentrato in quello aziendale o territoriale che può essere rinegoziato, messo in discussione. Lo vedranno i sindacati e le imprese di ogni luogo di lavoro. Però, di fronte a questa posizione che è passata con un emendamento e che è già legge dello Stato, si cerca di rimetterla in discussione. Alcuni parlamentari hanno, ad esempio, fatto appello all’Unione Europea per domandarsi se la clausola sociale sia compatibile con le logiche della concorrenza. Questa questione della concorrenza, che qui veniva sollevata sulla clausola sociale nel caso delle

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fusioni, clausola sociale che io condivido, va discussa perché io quel tipo di concorrenza lo combatto. La concorrenza senza regole che sacrifica inevitabilmente l’occupazione, le condizioni di lavoro, credo che sia una questione che da sinistra noi dobbiamo battere culturalmente e politicamente perché altrimenti è evidente che prevarranno, in queste rivoluzioni in corso, logiche che sacrificheranno nell’immediato il lavoro. È vero quello che diceva Agostino, di solito la nuova tecnologia distrugge e crea. Temo che nell’immediato sia maggiore la necessità della salvaguardia, di una clausola sociale, di un regime di transizione che sia in grado di accompagnare nei processi i momenti nei quali il vuoto non viene compensato da un pieno corrispondente. Faccio un ultimo esempio: tre settimane fa ero da Sergio Chiamparino, abbiamo avuto un confronto con la Regione Piemonte. A giugno cento mila lavoratori piemontesi saranno senza ammortizzatori sociali e non hanno più il lavoro, sono i nuovi disoccupati, se non c’è una transizione, un accompagnamento di fronte ad una crisi che non è ancora del tutto superata perché siamo ancora ad una crescita contraddittoria e non così evidente al punto di vista occupazionale, noi avremo delle gravi ripercussioni. Quindi porsi il problema, non di contrastare i processi e le innovazioni, come vedete anch’io uso i nuovi strumenti, ma di non essere semplicemente subordinati alle innovazioni e di non tenere conto ovviamente delle ricadute, dei riflessi sociali di queste innovazioni, quindi legislazione, contrattazione, concertazione dei settori, possono aiutare a superare queste situazioni attraverso quegli strumenti di transito, di protezione, che si rendono necessari.

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Roberto Telatin (*) Responsabile Ufficio studi Uilca – nel 2014 ha realizzato un indagine sulle retribuzioni dei manager bancari e assicurativi In effetti, sta diventando forse anche una “barzelletta” perché ci preoccupavamo delle retribuzioni variabili legate magari gli obiettivi; adesso vediamo che ci sono gli incentivi per andare a lavorare in quella banca ed è una cosa effettivamente un po' diversa. Io non è che conosca, come sistema, molti giovani che quando vengono assunti in un'azienda e gli danno mila euro solo perché sei venuto da me, ma forse qualche figura c’è. Quindi sembra che ogni volta che fatta la legge sia trovato l'inganno, questo può essere il dato. Bisogna capire se effettivamente, e questo è anche un problema, io pago uno così tanto per venire in una banca perché o è tanto bravo o la banca è tanto dissestata anche, perché bisogna anche capire che se io lavoro in un'azienda che poi fallisce è difficile che qualcun altro mi prenda sul mercato. Quindi dipende da dove la vogliamo vedere. Noi ogni anno curiamo una ricerca che riguarda il compenso degli amministratori delegati delle prime dieci banche italiane e abbiamo visto che anche l'anno scorso la retribuzione media era cinquantaquattro volte lo stipendio medio di un impiegato bancario. Nel settore assicurativo, avendo anche meno assicurazioni in Italia anche quotate, il valore più o meno si attesta anche quello su quei valori. Abbiamo notato che tra una banca grande è una banca piccola la soglia d'entrata è attorno al milione di euro, quindi che tu debba gestire mila dipendenti o cento mila dipendenti non è che ci sia proprio questa grande differenza di valore. Ma la cosa che, al di là di tutto, non si riesce a comprendere, o si comprende in maniera un po' particolare, è che nonostante che le normative europee prevedano dei minimi e dei massimi sulla parte variabile, il compenso complessivo rimane inalterato nel tempo, cioè non c'è grande differenza tra avere una retribuzione prima dell'entrata in vigore della legge e dopo. Quindi diciamo che c'è una volontà, soprattutto anche degli azionisti, di voler mantenere questo status quo e su questo effettivamente bisogna riuscire a capire, perché non c'è correlazione tra andamento aziendale e retribuzione. La maggior parte del sofferenze bancarie che abbiamo sono superiori al milione di euro quindi non vengono deliberate dai direttori di filiale ma vengono deliberate dal Consiglio di amministrazione o da qualche super mega direttore e quindi la responsabilità fondamentalmente è dell'alta dirigenza. Negli ultimi dieci anni ci sono state rettifiche sui crediti nel sistema bancario per duecento miliardi di euro, oltre il quindici per cento del prodotto interno lordo; ma non ho visto molti direttori generali, amministratori delegati o presidenti che siano arrivati, come fanno i giapponesi, a far le scuse pubbliche “ho sbagliato c'è qualcosa che non va”. Tutti hanno preso e nessuno ha detto nulla. O ra bisogna capire: è un problema di regole, è un problema di governance? Questo è un problema che dobbiamo comprendere, quindi il problema della remunerazione, secondo me, è anche un falso problema. Dietro quella remunerazione bisogna capire se c'è valore oppure se non c'è valore. Se noi andiamo a vedere l'indice Dow Jones nel 1980 e lo confrontiamo con le azioni delle società che ci sono adesso, vediamo che moltissime sono sparite. Allora vuol dire che c'è anche nella grande corporation americana un cambiamento, ma questo cambiamento è determinato da un

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fatto di processo, di prodotto o di management? Anche qui dobbiamo capire se la logica, a questo punto, che spinge anche nelle fusioni risponde a questi requisiti e da qui anche c’è il discorso delle remunerazioni perché molto spesso, come dicevo all'inizio, il fatto di accettare il ruolo in determinati istituti di credito presuppone anche qualche domanda. Io faccio l'esempio pubblico, quello di Carige, l'amministratore delegato è arrivato, ha chiesto un bonus e dopo un anno va già via. Ora è vero che è cambiato l'azionista di riferimento, sono cambiate delle cose, ma qui gli azionisti, gli stakeholder, chiamiamoli così, hanno sostenuto un costo che doveva essere pluriennale e invece questo è stato un costo annuale. Allora ha senso? Potremo anche discutere che è corretto, un calciatore lo prendiamo da un'altra squadra perché ci fa segnare tanti goal, posso anche capire che gli devo dare un premio; ma dopo un anno questo qui se ne va; al di là della persona, quanti casi, magari minori che non sono noti, ci sono in altre realtà che non sono solamente le banche. Pensiamo al caso Luxottica è un altro elemento clamoroso di come un amministratore delegato abbia guadagnato tutti questi soldi, anche qui il famoso stipendio d'entrata più anche quello di uscita. È un problema generale non solamente del sistema bancario, è un problema del sistema economico, un po' come quando si parlava di pressioni commerciali. Io spesso, sentivo prima Trefiletti che diceva c he la responsabilità è anche degli operatori, e il fatto che i clienti non sono obbligati ad avere una laurea o un master in Economia per acquistare dei titoli. Si è vero, ma è anche vero che bisogna ragionare anche in termini di aumentare le proprie conoscenze. Perché io possa capire che l'impiegato che ho davanti mi racconta una cosa non vera, io devo possedere un po' di strumenti. Quando acquisto una macchina, io che non sono un ingegnere, acquisto tre o quattro riviste, chiedo a degli amici, chiedo a qualcuno, mi informo, perdo dieci ore per spendere quindici mila euro. Io sfido chiunque a chiedere quanto tempo impiega per documentarsi per investire quindici mila euro. Ora l'educazione finanziaria non è una masturbazione, passatemi il termine, è un problema reale. Un problema perché basta pensare al ruolo che può avere la previdenza integrativa, lo sviluppo delle polizze sanitarie. Parliamo di welfare aziendale, facciamo normative che facilitano questo e alla fine ci troviamo in una situazione in cui le persone non sanno neppure che cosa è una polizza sanitaria. Quindi conoscere e scegliere anche che tipo di vita avere, è tutto un meccanismo che deve essere oliato per riuscire a trovare di per sé una quadratura, e il management, con le sue retribuzioni, avrebbe anche il ruolo di diffondere questa cultura della conoscenza sia all'interno delle aziende che soprattutto nella società.

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Loris Campetti

E’ sicuramente vero che non è un problema che riguardi soltanto i bancari, quello delle altissime retribuzioni e buonuscite dei manager, a prescindere persino dai risultati raggiunti. Ma non credo che si tratti di un falso problema.

Faccio solo un esempio, una vicenda importante che ho seguito come giornalista. Non era noto certo per il suo tasso di democrazia o addirittura di socialismo il ragioniere Vittorio Valletta, amministratore delegato della FIAT in un’altra epoca: ebbene, lui guadagnava venti volte di più di un suo operaio. Adesso chi ricopre il suo ruolo in Fiat, che nel frattempo è diventata FCA, Sergio Marchionne, guadagna cinquecento volte di più di una tuta blu di Mirafiori.

Questo è un problema di democrazia. Prima si è parlato di un dirigente bancario con entrate cinquantaquattro volte più alte di un impiegato, credo si facesse riferimento soltanto a una parte della sua retribuzione, escluse altre voci e i numerosi benefits aggiunti alla busta paga che fanno parte della retribuzione reale.

Io però avevo posto all'inizio una questione di cui si continua a non discutere: riguarda la possibilità di costruire una banca pubblica, chiedo se sia utile, possibile, auspicabile, se potrebbe svolgere un ruolo regolatore nel funzionamento delle banche, o se invece sia una ipotesi irrealistica. Non mi pare che abbia suscitato grande interesse tara chi siede a questo tavolo.

La parola a Alessandro Messina, direttore generale di Banca etica. La prima volta che mi sono posto il problema di che cosa fosse la Banca etica, sinceramente ho pensato che fosse un ossimoro, solo dopo un po’ ho capito che aveva invece un ruolo importante, dentro il processo di trasformazione del sistema bancario.

Alessandro Messina (*) Direttore generale di Banca Etica Grazie. Buongiorno a tutti. Cercherò di essere rapidissimo per non intorpidirvi ulteriormente. Innanzitutto, rispondo alla sollecitazione perché negli ultimi giorni ci ho pensato, è scomparso Marcello De Cecco e mi sono ricordato di quando nel ’97-’98 lo incontrai in treno. Io tornavo da una delle prime assemblee di Banca etica; superai la mia timidezza e cominciai raccontargli di questa cosa. Io lo conoscevo come professore, avevo studiato all’università e lui fu molto, da un certo punto di vista, duro, com’era nel suo rigore, nella sua lucidità di analisi. Appunto, finanza ed etica vanno poco d’accordo, però poi alla fine capì che c’era un giovanotto che ci ha messo un po’ delle aspettative su questa cosa e disse “però vale la pena provarci” e mi lasciò con questa frase di incoraggiamento. Ora, che dire. Innanzitutto oggi quando parliamo di etica ci si riempie un po’ la bocca. La nostra idea di Banca etica non è q u e l l a d i una banca delle buone intenzioni o d i una banca di opere caritatevoli. In un qualche modo la interpretiamo come un’incorporazione delle esternalità negative di una banca nel modello di business. E quindi è un modello alternativo di impresa bancaria. Quindi come modello alternativo analizziamo in termini di input/output. Quali sono gli input? L’obiettivo è finanziare i non finanziabili. Banca etica ha iniziato in Italia a finanziare le organizzazioni non profit che le banche non finanziavano; oggi continua a fare questo, ma tante altre banche lo fanno e quindi in diciassette anni di vita non solo ha dimostrato che era possibile ma ha anche contaminato al mercato.

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Una trasparenza vera dei finanziamenti. Siamo l’unica banca in Italia, e tra le uniche due in Europa, che pubblica sul proprio sito web tutti i finanziamenti erogati. Quindi voi trovate la ragione sociale, l’importo, la finalizzazione ecc. Integriamo, nella valutazione economico finanziaria, l’impatto sociale e ambientale dei finanziamenti quindi un’analisi anche di questo tipo. Venendo alla governance, abbiamo un limite rigoroso sui mandati per cui il vertice della banca non può essere in carica più di dodici anni. Questo tema che non è uscito fuori oggi. Parlando di alcuni casi eclatanti, spesso c’è una correlazione molto diretta tra nefandezze compiute e quantità di tempo passata al vertice di una banca. Abbiamo una regola interna sullo spread delle remunerazioni per cui in base al nostro statuto la remunerazione più alta non può allontanarsi da quella più bassa per sei volte. La nostra media oggi è quattro virgola cinque rispetto alla remunerazione. Se la calcolo, come il collega della UILCA, sul valore medio delle remunerazioni diventa tre virgola due. Non abbiamo un sistema incentivante che spinge i dipendenti a collocare certi prodotti piuttosto che altri. Stiamo affrontando anche il tema collaterale a quello dell’inclusione finanziaria che è quello dell’inclusione assicurativa. Abbiamo iniziato quest’anno a collocare RC auto con l’obiettivo di ridurre le grandi iniquità che ci sono nel mercato, che voi conoscete bene, l’offerta ai giovani, a chi ha preso la patente da poco o in alcune località del Paese. Qual è l’output? Di fronte a questo sintetico schema di input qual’output? Esso è rappresentato da una crescita annua media del dieci per cento. Oggi un “Cet1”, quindi un indicatore del nostro livello di patrimonializzazione core all’undici virgola trentadue per cento, sofferenze nette allo zero sessantacinque per cento, mentre la media Italia è quattro e mezzo. Dopo diciassette anni di vita circa tre miliardi di euro di risparmi degli italiani affidati tra la nostra banca e la Società gestione del risparmio ETICA SGR che è parte del nostro gruppo con cui consolidiamo il bilancio; da un anno abbiamo aperto anche in Spagna dove confidiamo di sviluppare rapidamente un modello corrispondente a quello fatto in Italia. Oggi però tutti ci dicono avete bisogno di più patrimonio, non devi vendere i subordinati, non devi dire che sei solido. Chi ce lo dice? Lo dice la vigilanza, ce lo dicono coloro che fanno il loro lavoro ma in un certo senso hanno delle lenti mono focali, non sanno distinguere la differenza tra le derive di un certo tipo di banca e un modello completamente diverso. Per cui io non posso dire che sono solido, mi è stato proibito dall’autorità di vigilanza, perché se no distorco l’attenzione del risparmiatore. Però credo che tutti noi abbiamo visto un signore che traccia cerchi sulla sabbia che continua a dirlo sulla radio, la televisione, i giornali. Non so se lo fa in violazione di un dettato della vigilanza oppure è più furbo di noi e ha capito un modo come farlo. In ognuno dei due casi il risparmiatore non è tutelato. Ci sono delle perversioni che però è importante citare perché poi accomunano discorsi che sono stati fatti oggi sulla capacità della classe dirigente di questo paese non solo a livello bancario. Sempre a noi la vigilanza ci ha chiesto di non pubblicare i dati dell’ultimo bilancio 2015 perché il prospetto informativo non è ancora stato approvato. Noi stiamo facendo raccolta di capitale sociale. Nella nostra raccolta di capitale sociale dobbiamo pubblicare i dati del bilancio 2014 perché la vigilanza non ha ancora vagliato quello del 2015. È un esempio, se volete, di come si

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può scegliere una strada di buonsenso rispetto a una di pura forma e che credo sia uno dei problemi oggi della nostra vigilanza. Noi nasciamo come progetto che nel suo essere un ossimoro, nel suo essere spinto da una sicuramente da una voglia di grande cambiamento, e quindi anche da un certo grado di utopia, vuole andare alla sostanza delle questioni. E chiudo con un riferimento a come si sta affrontando la rivoluzione digitale. Per noi rappresenta una grande opportunità, perché siamo una piccolissima banca, abbiamo diciassette filiali in Italia e una in Spagna, ma abbiamo un’operatività a livello nazionale, non possiamo sostenere i costi di aprire nuove filiali, non possiamo allargare la nostra presenza fisica sui territori, ma anzi oggi dobbiamo usare il digitale per sviluppare u n ’ offerta che vada incontro alla domanda crescente perché i cittadini sempre di più si rivolgono a noi, piuttosto che a Intesa San Paolo o ad altre grandi banche. Nei primi tre mesi di quest’anno abbiamo aperto due mila conti correnti, la metà on line da gente che è ovunque e devo dire non solo in Italia. Questo succede perché stiamo aprendo delle opportunità; allora per noi le nuove tecnologie sono una grande possibilità di risposta a una domanda che cresce. Lato consumatori sono una grande occasione. E non perché oggi le nuove tipologie vengono utilizzate molto per blandire i giovani sui social network o anche semplicemente per accelerare il modello di consumo. P er cui, sempre venendo ai paradossi della vigilanza, oggi io - mi dicono - devo essere cauto ad emettere un subordinato. Però chiunque di noi se va su un sito on line può scommettere in derivati in tempo reale a prescindere dal suo profilo MIFID. Noi crediamo molto nelle nuove tecnologie come strumento di crowdsourcing e non solo crowdfunding. Tutto ciò ci consente di dare valore alle relazioni che stanno sotto la banca cooperativa come siamo, con oltre quarantasette mila soci che sono spesso persone attive. Duecento di questi nostri soci sono attivi nella valutazione sociale dei finanziamenti e lo fanno in modo gratuito essendo formati da noi e contribuendo con il loro lavoro al mantenimento del presidio dal rischio di credito. Ovviamente sono una piccola componente perché gli altri non hanno tempo, non possono, e allora le nuove tecnologie ti possono aiutare a contribuire perché hai un’app, un sito internet ecc. Contribuire a questa condivisione di informazioni, che riducono le asimmetrie informative, e per una banca sono preziose anche nel 2016. Dunque chiudo dicendo che noi facciamo parte di una associazione mondiale di banche alternative, chiamiamole così, la GABV Global Alliance for Banking on Values; in questa associazione ci sono banche anche molto diverse. Sono ventisette banche operative in tutti i continenti, dall’Australia all’America latina passando per l’Asia. Oggi queste banche servono venti milioni di risparmiatori, hanno un attivo di circa cento miliardi di dollari e fanno lavorare trenta mila persone. Crediamo che questo modello non solo sia efficace ma anche destinato a crescere molto e siamo per l’alleanza: trasversale, strategica. Quindi per chiudere colgo l’occasione della presenza qui dei sindacati per dire che sono da sempre un nostro alleato sotto vari profili. Forse possiamo rilanciare anche su questo piano, ad esempio, sulla materia dei fondi pensione, sulla materia dell’offerta di prodotti di credito al consumo o altre cose del genere. Forse oggi la finanza etica è ancora troppo poco presente nella cultura del sindacato italiano. Grazie

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Agostino Megale (*)

Intervengo di nuovo semplicemente in rapporto all'eventuale intervento pubblico. Insomma, sul piano pubblico bisogna far delle cose. E abbiamo già ricordato che, per esempio il professor Monti, avrebbe dovuto fare la bad bank, come si fece in Spagna ed in Irlanda

Quella fase dello spread a 520 punti porto tutti, e diciamo la verità, ad un atteggiamento di grande incertezza. Il rischio era il default, il fallimento. Però non si fece una cosa che si doveva fare. Perché se allora fosse stato fatto un intervento in quella direzione, piuttosto che teorizzare che il sistema delle banche italiano era solido - la solidità la si sta vedendo oggi, e come al solito le bugie hanno le gambe corte – oggi staremmo meglio.

Di questo si parlò in uno dei luoghi in cui si è ragionato già nel 2012 - io stesso intervenni allora sul Presidente del Consiglio di allora, Letta - attorno al problema di Montepaschi. Una serie di azioni fino al 2011 i tedeschi le hanno fatte per tutte le casse di risparmio tedesche, compresi anche gli interventi.

Non come da noi con un prestito, ma diciamo come vera e propria fonte di finanziamento pubblica. Non è un caso che da noi vi sono stati i soli quattro miliardi di prestiti in gran parte restituiti e in Germania abbiamo visto 223 miliardi di intervento sul sistema bancario e così via.

Il senso di questo riferimento è che ogni intervento richiede il suo tempo. Non era possibile immaginare che dopo il varo dell'Unione bancaria europea tu potessi fare quelle cose senza incorrere nel problema che abbiamo cominciato ad avere con Banca Tercas e poi con le quattro banche, addirittura con il casino combinato sui dieci mila risparmiatori delle subordinate. E’ evidente che lo scenario è cambiato. Che cosa si può fare invece adesso? Innanzitutto, non avere alcun timore, alcuna incertezza, se in Montepaschi, che a mio parere presenta fondamentali sani, si dovessero delineare le condizioni per un intervento sul tema sofferenze. Si potrebbe anche essere in grado di aprire una qualche discussione con la BCE sulla necessità di aggregazioni. Ma in ogni caso, immaginando che anche la quota di rimborso degli interessi sul prestito avvenga in azioni e che il Tesoro, che oggi è il secondo azionista, diventasse il primo azionista al sette per cento, penso che questo non debba produrre nessun problema o incertezza o rischio di impatto con l’Unione europea.

Comunque, anche nell'idea di rilancio e di consolidamento si possono immaginare operazioni di carattere privato in cui però il ruolo del Tesoro, della quota pubblica, sia rilevante. E sia rilevante in modo tale da poter garantire successo sul piano del rilancio del terzo gruppo bancario italiano - perché ancora lo è - e successo anche nell’evitare impatti occupazionali o quel che si paventa.

Siccome la questione bancaria italiana è una delle questioni, se non la questione centrale per il governo Renzi, e non c'è di mezzo solo Etruria, e non c'è di mezzo solo il pezzo delle BCC toscane, c'è di mezzo anche un epicentro Toscana in questa vicenda, ed è indubbio che il Governo deve dedicare la massima attenzione non semplicemente a liberarsi del problema, ma per dare le giuste ed equilibrate soluzioni, perché sono situazioni che coinvolgono migliaia di lavoratori ma coinvolgono oltre sei milioni di clienti e coinvolgono effettivamente il ruolo dell'Italia.

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TERZA SESSIONE – COSTRUIRE UN SISTEMA DI CREDITO (PUBBLICO?) PER LO SVILUPPO

Mario Pianta Docente di Politica economica presso l’Università di Urbino

Perché serve una nuova banca pubblica d’investimento italiana

Il ruolo istituzionale del sistema bancario è quello di raccogliere il risparmio e indirizzarlo verso investimenti reali e finanziari, privati e pubblici, che rispondono alle necessità del paese. La lunga depressione che ha colpito l’Italia ha fatto crollare gli investimenti delle imprese; le politiche di austerità hanno drasticamente tagliato gli investimenti pubblici. La grande liquidità offerta dalla BCE al sistema bancario non si sta traducendo in nuovi investimenti perché le scelte delle banche favoriscono impieghi a basso rischio e di breve termine.

Tutto questo evidenzia un grave vuoto del sistema bancario e finanziario del paese: l’assenza di una banca pubblica d’investimento che alimenti un flusso di risorse verso la ricostruzione di capacità produttive avanzate, infrastrutture necessarie e le capacità di fornire beni pubblici adeguati alle esigenze del paese. Negli ultimi anni a coprire alcune di queste funzioni – in modo improprio – è stata chiamata la Cassa Depositi e Prestiti, che ne breve periodo potrebbe essere riorganizzata per svolge un ruolo simile, ma nel medio termine è necessario che si costruisca un soggetto specifico adatto a operare in modo flessibile come banca pubblica d’investimento – analogamente a quando già esiste in quasi tutti i paesi.

La nuova banca pubblica d’investimento avrebbe un ruolo centrale nello sviluppo di una nuova politica industriale che permetta al paese di trovare una nuova traiettoria di sviluppo dopo la lunga depressione. In effetti, negli ultimi anni la politica industriale è tornata al centro dell’interesse dei governi come strumento chiave per uscire dalla crisi e definire un nuovo modello di sviluppo economico e sociale verso cui indirizzare il sistema produttivo, rendendo disponibili grandi risorse finanziarie da utilizzare per la ricostruzione della base produttiva europea.1

In quali attività intervenire?

I principi generali della nuova politica industriale – e dei criteri di azione della nuova banca pubblica d’investimento - sono piuttosto semplici: essa dovrebbe favorire quelle attività e quelle industrie caratterizzate da forti processi di apprendimento, da un rapido cambiamento tecnologico, da un miglioramento delle condizioni economiche, sociali e ambientali. Si possono considerare tre aree di intervento:

Ambiente e energia. L’attuale modello industriale deve riorientarsi verso una maggiore sostenibilità ambientale. Il paradigma tecnologico dei prossimi decenni sarà centrato sullo sviluppo di beni e metodi di produzione eco-sostenibili e a basso impatto ambientale; su processi e produzioni che sfruttino meno energia, meno risorse, meno suolo, e con un impatto minore sul clima e sugli eco-sistemi; sullo sfruttamento delle energie rinnovabili; su sistemi di trasporto che vadano oltre il predominio delle automobili, con sistemi di mobilità integrata con un impatto ambientale ridotto; sulla riparazione e sulla manutenzione di beni esistenti e di infrastrutture che proteggano la natura e la Terra. Tale prospettiva offre grandi opportunità per la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico,

1 Mazzucato (2014) ha sottolineato il ruolo chiave dell’azione pubblica nel favorire l’innovazione e il cambiamento industriale. Si veda anche Pianta (2010), Lucchese, Nascia e Pianta (2015).

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l’innovazione e la nascita di nuove attività economiche e sociali, che possono svilupparsi sia nella sfera delle attività di mercato, sia in quella delle attività gestite direttamente dal pubblico. Un insieme di politiche coerenti dovrebbe essere dedicato ad affrontare queste sfide così complesse e importanti per il futuro.

Conoscenza e ICT. L’attuale modello industriale è dominato dalla diffusione del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT). L’Europa dovrebbe sfruttare il potenziale applicativo delle nuove tecnologie in diversi campi - comprese le industrie tradizionali - così da ottenere guadagni di produttività, un abbassamento significativo dei prezzi, lo sviluppo di nuovi prodotti, nonché tutti i benefici conseguibili sul piano sociale. L’ICT e le attività basate sul web stanno ridefinendo le frontiere tra la sfera economica e quella sociale, come mostra il successo del software open source, del copyleft, di Wikipedia e del peer-to-peer. Le politiche pubbliche dovrebbero incoraggiare l’innovazione vista come un processo sociale, cooperativo e aperto, in cui siano facilitate le regole sull’accesso e la condivisione della conoscenza, piuttosto che rafforzati i diritti di proprietà intellettuale.

Salute e welfare. L’Europa è un continente segnato dall’invecchiamento della popolazione e dotato dei migliori sistemi sanitari al mondo, sviluppati sulla base di una concezione della salute come servizio pubblico. Gli avanzamenti nei sistemi di cura e assistenza, nella strumentazione medica, nelle biotecnologie, nella genetica e nella ricerca farmacologica devono essere finanziati e regolamentati avendo chiare le possibili conseguenze etiche e sociali (come nel caso degli organismi geneticamente modificati, della clonazione, dell’accesso ai farmaci nei paesi in via di sviluppo, etc.). L’impegno per l’innovazione potrebbe essere orientato verso obiettivi “sociali”, come quelli legati all’invecchiamento della popolazione o al miglioramento dei servizi di welfare, con una partecipazione diretta da parte dei cittadini e delle organizzazioni non profit e con la possibilità di rilanciare il ruolo della fornitura pubblica dei servizi e/o di nuove forme di auto-organizzazione delle comunità.

Lo sviluppo di queste aree sarebbe caratterizzato da produzioni ad alta intensità di lavoro, dalla richiesta di competenze elevate, dalla creazione di posti di lavoro qualificati e ad alti salari.

Quali strumenti adottare?

A partire dalle esperienze passate, una nuova politica industriale per la Ue e l’Italia potrebbe basarsi su tre strumenti:

a. Potenziare la ricerca pubblica e l’innovazione. L’università e i centri di ricerca pubblici, spesso finanziati anche dai programmi di ricerca dell’Unione, sono stati un fattore chiave per la crescita dell’Europa. Oggi però è necessario rafforzare i centri di ricerca pubblici in tutti i paesi della Ue, puntando sulle aree di ricerca descritte sopra. Al fine di risolvere problemi specifici e favorire il trasferimento di conoscenza nelle imprese, potrebbero essere create specifiche agenzie europee dedicate all’innovazione - sul modello del Fraunhofer tedesco. Il rafforzamento dei centri di ricerca pubblica esistenti - o la nascita di nuovi centri a livello europeo - potrebbe valorizzare le migliori competenze scientifiche nelle varie discipline. Poli tecnologici diffusi sul territorio potrebbero trasferire conoscenza e formazione dalle università alle imprese, sul modello dei “manufacturing hubs” recentemente istituiti negli Stati Uniti. Il dibattito sulle priorità delle politiche industriali non dovrebbe tuttavia essere lasciato ai soli interessi privati, orientati più ai risultati economici che ai benefici sociali delle loro azioni. E’ l’insieme della società che deve esprimersi sulla direzione del cambiamento da perseguire.

b. Aumentare gli investimenti pubblici. E’ essenziale che la ricerca e l’innovazione nelle tre aree

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descritte sopra sia accompagnata da un esteso piano di investimenti pubblici. Lo Stato può svolgere direttamente alcune nuove attività che si presentano come produzione di beni pubblici - è il caso del risanamento e della tutela ambientale, dell’istruzione alle nuove tecnologie, degli ospedali e dei servizi di welfare. In Europa c’è una grave sottoproduzione di questi beni pubblici, e la politica industriale dovrebbe lasciare che le istituzioni pubbliche investano e amplino la quantità e la qualità dei loro servizi. L’effetto moltiplicatore di tali investimenti alimenterebbe una crescita parallela delle attività di mercato.

Altre attività sono caratterizzate da produzioni private per il mercato, come nel caso dei pannelli fotovoltaici, del software e delle apparecchiature medicali. Le imprese che operano in questi campi, tuttavia, tendono a non investire adeguatamente in queste attività a causa dell’elevata incertezza sugli sviluppi tecnologici e di mercato. In tali condizioni, la finanza privata è restia a fornire prestiti a tassi accessibili. Così, una banca pubblica di investimento potrebbe finanziare investimenti privati a lungo termine con redditività differita, o entrare direttamente nel capitale di nuove imprese attive in questi campi, finanziandone la crescita e le potenzialità occupazionali. Con la crescita delle imprese e l’espansione del mercato, la finanza privata potrebbe essere poi attratta dalle opportunità di investimento e sostituirsi in un secondo momento al supporto iniziale fornito dalle banche pubbliche.

Ci può essere infine la necessità di creare nuove imprese - siano esse imprese transnazionali o imprese con un raggio d’azione locale – orientate verso specifici obiettivi di innovazione e di produzione - come nel caso dell’attuale assenza di produttori europei di pannelli fotovoltaici. In questi casi, le banche di investimento pubblico potrebbero assumere un ruolo più imprenditoriale, mettendo in comunicazione le competenze dei laboratori di ricerca pubblici con le imprese private, creando nuove imprese che rispondano alla domanda di prodotti strategici espressa dal governo attraverso le commesse pubbliche, o alla necessità di esplorare mercati emergenti. Anche qui, la finanza, attratta dal successo di queste iniziative, potrebbe entrare in seguito in queste attività.

c. Innovazioni “mission-oriented” e commesse pubbliche. Dal lato della domanda, una nuova politica industriale europea potrebbe identificare specifici obiettivi scientifici e tecnologici - da raggiungere in campi come quelli dell’efficienza energetica, delle energie rinnovabili, della prevenzione e cura di particolari malattie - attraverso programmi “mission-oriented”, al fine di sviluppare nuovi prodotti e processi che dispongono di importanti opportunità di mercato. I fondi pubblici per la ricerca e l’innovazione potrebbero stimolare l’impegno delle imprese in determinate aree di ricerca, sviluppando le competenze necessarie alle produzioni future. Lo Stato potrebbe inoltre sostenere la produzione di particolari beni attraverso programmi di public procurement - soprattutto di tipo pre-commerciale -, la regolamentazione e la definizione di standard tecnici in mercati con un alto potenziale di crescita, e sussidi e incentivi ai primi utilizzatori di nuove tecnologie. Politiche di questo tipo sono state a lungo adottate negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’Ue, in campi che vanno dalla difesa, alla ricerca aerospaziale, alla ricerca sanitaria (Mazzucato, 2014).

Infine, altri strumenti di intervento possono essere immaginati, dal supporto ad attività non di mercato che abbiano una rilevanza sociale e ambientale, a misure che, assegnando maggior potere agli utilizzatori, permettano di definire specifiche applicazioni delle tecnologie esistenti. Queste politiche dovrebbero essere realizzate all’interno dei “sistemi di innovazione” nazionale ed europeo - coordinando le decisioni di imprese, istituzioni finanziarie, università e governi (Nelson, 1993).

Come realizzare questi interventi?

Una nuova politica industriale europea potrebbe essere sviluppata sulla base delle seguenti

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istituzioni, forme di finanziamento e meccanismi di governance.2

Il piano istituzionale. E’ necessario che la politica industriale sia coordinata con le altre politiche dell’Unione - quelle macroeconomiche, monetarie, fiscali, di commercio estero, della concorrenza, di regolamentazione dei mercati. In particolare vanno cambiate le direttive Ue laddove prevengano l’azione pubblica dal “distorcere” l’azione dei mercati. Lo sviluppo di quelle attività economiche che i mercati si rivelano non in grado di realizzare dovrebbe diventare un obiettivo esplicito della politica industriale dell’Unione. Poiché questi interventi incontrerebbero l’opposizione di alcuni paesi Ue, è possibile ipotizzare forme di partecipazione a “geometria variabile”, che escludano i paesi che non desiderino partecipare.

E’ necessario coordinare la dimensione europea - che deve assicurare la necessaria coerenza tra le misure adottate, identificare le priorità e fornire parte dei finanziamenti - con la dimensione nazionale - in cui operano le agenzie pubbliche e dev’essere definita la strategia di realizzazione degli interventi - e con quella locale - dove devono essere individuati e coinvolti gli attori pubblici e privati. Nell’immediato potrebbe essere possibile adattare a politiche di questo tipo l’azione di istituzioni esistenti – come i Fondi strutturali e la BEI – ma nel lungo periodo c’è la necessità di definire un’istituzione specifica - una Banca europea degli investimenti pubblici - con il mandato di modificare la struttura industriale dell’Europa, che sia capace di integrare gli interventi nei sistemi produttivi e valutare le complementarità delle specializzazioni produttive dei singoli paesi.

Si potrebbe prevedere un assetto istituzionale in cui i governi Ue e il Parlamento Europeo si accordino sulle linee guida e il finanziamento della politica industriale, affidando alla Commissione Europea la loro concretizzazione con appropriati strumenti di intervento e meccanismi di spesa. In ogni paese un’istituzione specifica - già esistente o nuova, una Banca pubblica d’investimento appunto - potrebbe assumere il ruolo principale nel coordinamento delle azioni di politica industriale a livello nazionale, interagendo con il sistema innovativo nazionale. Agenzie più specifiche, o consorzi di imprese, dotate di uno status flessibile ma con un forte orientamento pubblico, potrebbero essere create (o adattate) per intervenire a livello locale o regionale e per promuovere iniziative in aree specifiche. Le istituzioni a livello locale e nazionale avrebbero la responsabilità nelle decisioni di spesa, identificando le imprese che possono essere sostenute - con commesse, la concessione di prestiti o una diretta partecipazione nelle imprese -, i progetti che possono essere sviluppati e le attività pubbliche che sono richieste. Naturalmente è essenziale che le iniziative siano accompagnate da uno stretto monitoraggio e da istituzioni credibili; misure di condizionalità degli aiuti al raggiungimento dei risultati dovrebbero essere messe in atto.

Il finanziamento. Il finanziamento di questi interventi dovrebbe avvenire con risorse proprie dell’Unione. E’ essenziale che i bilanci pubblici non siano gravati ulteriormente dalla necessità di fornire risorse addizionali e che il debito pubblico non aumenti. L’ordine di grandezza per il finanziamento di un programma di politica industriale come quello che stiamo descrivendo è quello immaginato dal piano della Confederazione dei sindacati tedeschi (DGB) e dalla Confederazione sindacale europea (ETUC), il 2% del Pil dell’Ue, circa 260 miliardi di euro da investire ogni anno per dieci anni. Per fare un paragone, la Banca Centrale Europea ha fornito nel periodo Dicembre 2011 - Marzo 2012 la cifra di 1000 miliardi di fondi speciali alle banche private al tasso di interesse dell’1%, con risultati nulli in termini di impatto sull’economia reale; i Fondi Strutturali Europei nel periodo 2007-2013 hanno raggiunto i 347 miliardi; i prestiti da parte della BEI nel 2013 sono stati pari a 72 miliardi. Uno sforzo di investimento di circa il 2% del Pil Ue appare quindi praticabile - 2 Precedenti proposte sono state sviluppate in Pianta (2010), Lucchese e Pianta (2012), DGB (2012), ETUC (2013), Dellheim e Wolf (2013), EuroMemo Group (2013).

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considerando la dimensione e il potere delle istituzioni europee - e sarebbe sufficiente a compensare - a livello macroeconomico - la carenza di investimento privato e il basso livello delle esportazioni, contrastando in maniera efficace la stagnazione in Europa.

Si potrebbe pensare a diverse forme di finanziamento. Come suggerito dalla DGB, i fondi potrebbero essere recuperati sui mercati finanziari da una nuova Agenzia pubblica europea; potrebbero venire da una tassa sulla ricchezza o dalla Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Risorse di questo tipo potrebbero coprire il pagamento degli interessi per progetti ad alta priorità ma non capaci di essere immediatamente redditizi. Questi interventi non graverebbero sulle finanze pubbliche nazionali e potrebbero allo stesso tempo ridurre l’eccessivo peso della finanza nell’economia europea. Un’alternativa potrebbe venire da una profonda riforma del sistema fiscale europeo, introducendo una imposta europea sulle aziende, annullando così la concorrenza fiscale tra i paesi Ue. Il 15% dei ricavi potrebbe andare al finanziamento della politica industriale, agli investimenti pubblici, alla generazione e alla diffusione di conoscenza nell’Ue; il resto delle entrate potrebbe essere trasferito nei bilanci dei paesi membri. Inoltre, per il gruppo dei paesi dell’eurozona, il finanziamento potrebbe avvenire attraverso i meccanismi dell’Unione Monetaria Europea. Strumenti come gli Eurobond potrebbero essere impiegati per finanziare la politica industriale; una Banca d’investimento pubblica europea potrebbe prendere a prestito fondi direttamente dalla BCE; oppure la BCE potrebbe fornire direttamente fondi alla politica industriale attraverso le agenzie di spesa interessate.

I piani di finanziamento potrebbero essere differenti secondo l’importanza della dimensione pubblica esistente:

a) la priorità dovrebbe andare all’investimento pubblico in attività non di mercato, come la fornitura di beni pubblici, la creazione di nuove infrastrutture, la diffusione della conoscenza, i programmi di istruzione, il sostegno alla sanità e al welfare;

b) capitali pubblici dovrebbero aggiungersi ad investimenti privati nel finanziamento di attività di mercato “strategiche”, nei settori emergenti;

c) un sostegno pubblico all’azione dei mercati finanziari nel finanziamento di imprese private e organizzazioni non profit potrebbe andare ad attività di mercato che abbiamo una rilevanza sociale e ambientale, e che potrebbero ripagare l’investimento privato.

In ogni caso, il criterio per l’impiego delle risorse destinate alla politica industriale non può essere quello “privatistico” del profitto sugli investimenti. Occorre naturalmente evitare sprechi e assicurare l’efficienza nella realizzazione dei programmi previsti, ma – coma ha mostrato Mazzucato (2014) – la logica dell’azione pubblica in questo campo è quella di creare e diffondere conoscenze all’intero sistema economico, di assumere rischi che le imprese e le banche private non sono disponibili a sostenere, di effettuare ricerca e innovazione di frontiera in modo da ridurre l’incertezza sugli sviluppi dei settori emergenti, aprendo così la strada ad attività private. Inoltre, i benefici in termini di qualità ambientale, di benessere sociale, di una maggiore coesione territoriale e di una più diffusa crescita a livello europeo dovrebbero essere considerati appieno.

Il sistema di governo. Le articolazioni dell’intervento pubblico qui proposto sono associate a diversi modelli di governance nella politica industriale dell’Ue. Si potrebbe, ad esempio, creare una Banca o un’Agenzia europea per gli investimenti pubblici. Essa dovrebbe rispondere al Parlamento europeo, il quale nominerebbe i suoi vertici; qui imprese, centri di ricerca, sindacati, organizzazioni ambientali e della società civile dovrebbero essere ugualmente rappresentati, con un sistema che escluda rigorosamente la possibilità di passare con disinvoltura – come avviene ora – da

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responsabilità ai vertici delle imprese e delle banche alla guida di istituzioni pubbliche. Questa Banca o Agenzia pubblica dovrebbe coinvolgere gli attori politici, economici e sociali della Ue nella definizione di proposte specifiche per gli interventi di politica industriale. I fondi resi disponibili – votati dal Parlamento europeo - potrebbero essere assegnati alle diverse istituzioni nazionali che operano di concerto con la Banca o Agenzia europea per realizzare progetti specifici con le caratteristiche delineate in precedenza. I finanziamenti potrebbero essere impiegati, dove possibile, in combinazione con investimenti privati. L’azione pubblica potrebbe inoltre finanziare e organizzare reti di innovatori, produttori e utilizzatori in nuove attività, allo scopo di consolidare le relazioni economiche e creare nuovi mercati, oltre a continuare a fornire un supporto “orizzontale” alle imprese con gli strumenti di intervento già esistenti.

Oltre alle esperienze di successo della politica industriale europea dei decenni passati, è possibile guardare oggi a nuove esperienze realizzate fuori dall’Europa, come l’ARPA-E negli Stati Uniti o la Banca nazionale brasiliana per lo sviluppo (BNDES) – casi discussi in dettaglio da Mazzucato (2014).

Una delle obiezioni più frequenti – specialmente in Italia - alla realizzazione di interventi pubblici di questo tipo riguarda la difficoltà di evitare un uso improprio delle risorse pubbliche, un controllo clientelare da parte dei partiti di queste attività, fenomeni di corruzione e sprechi. La dimensione europea di tale iniziativa di politica industriale potrebbe ridurre notevolmente i rischi di questo tipo. Sarebbe naturalmente richiesta una forte trasparenza nelle decisioni, oltre che procedure di monitoraggio e di valutazione simili a quelle richieste dalla Ue per i Fondi Strutturali. La presenza di una pluralità di soggetti sociali all’interno delle sedi di decisione e la logica partecipativa che deve ispirare la politica industriale contribuirebbero a ridurre i rischi di questo tipo. Un nuovo modello di governance – dinamica, efficiente e democratica - dell’azione economica pubblica e una nuova cultura dell’intervento dello Stato potrebbero emergere dall’impegno a livello europeo in questa direzione.

A livello nazionale il sistema di governance per la realizzazione dei progetti potrebbe riprodurre quello delineato a livello europeo. Un organismo nazionale per gli investimenti pubblici – una nuova Banca pubblica, un’Agenzia, o la Cassa Depositi e Prestiti radicalmente trasformata - potrebbe ricevere i fondi europei, definire i progetti d’investimento da realizzare all’interno delle aree di descritte sopra, identificare i partner - privati, non profit e pubblici - che operano a livello locale e che potrebbero diventare attori chiave nell’attuazione di investimenti specifici.

La distribuzione delle risorse per questo programma di investimenti pubblici dovrebbero essere coerente con l’obiettivo esplicito di ridurre la polarizzazione che sta indebolendo la base produttiva della “periferia” d’Europa. Ad esempio, il 75% dei fondi europei potrebbe andare ad attività localizzate nei paesi della “periferia” (Europa del Sud, Europa dell’Est e Irlanda); almeno il 50% dei fondi dovrebbe essere investito nelle regioni più povere in questi paesi; il restante 25% dei fondi europei potrebbe invece andare alle regioni più povere dei paesi del “centro”. Automatismi di questo tipo ridurrebbero i rischi di paralisi nei processi decisionali europei e nazionali e creerebbero una domanda localizzata che potrebbe stimolare le energie produttive e la creazione di nuove attività nelle aree più colpite dalla crisi.

La trasparenza nei processi decisionali e nelle procedure di realizzazione, la rendicontabilità di fronte al Parlamento Europeo e ai cittadini europei potrebbero permettere di evitare i rischi di intrecci illeciti e clientelari tra politica industriale e poteri politici ed economici che avevano caratterizzato alcune esperienze passate, specie in paesi come l’Italia. La nuova politica industriale europea dovrebbe comunque fondarsi su un grande dibattito democratico su che cosa e come produrre nell’Europa di domani, con una larga consultazione pubblica che allarghi il consenso e la

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legittimità della Ue e dell’azione pubblica.

Di fronte al prolungarsi della crisi, è urgente aprire un dibattito sul futuro produttivo dell’Europa e sulle politiche necessarie in questo campo. Gli ostacoli politici su una strada di questo tipo sono enormi e grandi cambiamenti sarebbero necessari nella cultura politica sull’intervento pubblico in economia e nella struttura stessa dell’Unione Europea, con una maggior integrazione delle politiche economiche dei paesi membri. Tuttavia, rinunciare a questo tentativo in nome di un malinteso “realismo” vorrebbe dire assistere passivamente alla perdita di buona parte della base produttiva in molti paesi europei, all’aggravarsi della depressione e della disoccupazione di massa, con gravi rischi di polarizzazione economica e sociale e di frammentazione politica dell’Europa.

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Massimo Mucchetti Presidente Commissione Attività produttive del Senato Ho accolto con piacere questo invito specialmente quando è stato fatto ma che è aumentato in ragione delle notizie di cronaca di questi giorni che ci possono indurre ad alcune riflessioni di politica finanziaria che partono dall'attualità e ci consentono di ripensare il nostro recente e meno recente passato per poter traguardare il futuro.

In questi giorni, il Governo e soprattutto alcuni grandi attori del sistema bancario dovrebbero mettere a punto un fondo che affronti i due nodi principali senza risolvere i quali le questioni, finanziamento degli investimenti, modernizzazione del sistema del credito, credit crunch, tutto, rischia di sgonfiarsi come una palla bucata. Parto dalla questione della capitalizzazione delle imprese bancarie fino a prima della crisi del 2008 le banche non avevano alcuna spinta da parte dei regolatori a capitalizzarsi in modo rilevante, anzi in alcuni casi abbiamo visto banche con forte reputazione diminuire il proprio patrimonio erogando maxi dividendi , e il caso di Intesa San Paolo, o, come dire, gestendo i propri crediti deteriorati , caso Capitalia, facendo passare le perdite delle cartolarizzazioni che via via si andavano accumulando nel tempo direttamente dal patrimonio. Questo non veniva considerato un errore, il mercato applaudiva, il regolatore applaudiva, la politica applaudiva, il sindacato non si preoccupava. Non aveva capito niente nessuno, tranne pochi passatisti che usando la saggezza contadina che, durante le vacche grasse si mette il fieno in cascina, perché non si sa mai come il futuro. Ma questo era considerato un modo vecchio della gestione del sistema del credito. Come spesso accade alla politica, che ha degli andamenti pendolari, da questo estremo, tutto volto ad esaltare la redditività si passa ad un altro estremo che è centrato sul patrimonio ed allora ai giorni nostri sempre di più si chiede alle banche di avere un patrimonio importante. Questo è stato fatto, sono stati fatti importanti aumenti di capitale in Italia e all'estero, soprattutto, si è fatto sia questo, in misura molto più rilevante, un intervento degli Stati per patrimonializzare le banche, che ne hanno tratto un beneficio. La vigilanza unica sta adottando dei criteri di contabilizzazione degli attivi in base ai quali poi dopo si devono calcolare i requisiti patrimoniali che penalizzano le banche dell'Europa mediterranea, in particolare le banche italiane, molto vocate, per come sono fatte, per la loro storia, per la storia del Paese, al credito commerciale e meno alle attività finanziarie. Ma al di là del fatto che questa per esempio è una partita non ancora conclusa, perché dobbiamo stabilire come valuteremo le attività finanziarie che sono rimaste per ora fuori dal gioco. Le ultime de la nuit dei giorni scorsi, c'è un articolo dei giorni scorsi che non ha avuto una grande enfasi sui giornali ma che a me ha molto preoccupato, e che si dice che per i derivati verranno adottati non particolarmente restrittivi. Cioè restrittivi sul credito all'economia reale e non restrittivi sui derivati. Poi si chiedono aumenti di capitale, ma a chi verranno chiesti? Soprattutto a chi fa credito commerciale, ma questa è una linea di intervento che riassumo così in modo sintetico, che contraddice in profondità il quantitative easing della Bce. Perché da una parte abbiamo una banca centrale che stampa moneta non a favore direttamente del pubblico perché i Trattati non glielo permettono, ma a favore delle banche, nella speranza che le banche le girino poi presso l'economia reale e le banche non possono farlo perché devono ottemperare a vincoli patrimoniali. Domani mattina tuttavia non è possibile modificare questo stato di cose, possiamo intraprendere una battaglia politica che nel tempo forse arriverà da qualche parte, ma domani non è così, neanche dopo domani. Quindi adesso dobbiamo dare una risposta pratica che ci consenta di guadagnare tempo necessario per arrivare ad una correzione di più ampio respiro, e quindi la costituzione di questo fondo come idea generale, poi bisognerà vedere all'atto pratico i vincoli, le risorse, è un'idea convincente. Non a caso i mercati hanno restituito in questi giorni un po’ di credibilità alle banche italiane e questo può comportare che se dovrai andare a fare delle ricapitalizzazioni potrai provarci, quindi bisogna sperare che questa iniziativa vada in porto, perché

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non andasse in porto viene giù tutto. Però, toccare le sofferenze e il capitale, con un intervento che ha sostanzialmente una regia pubblica ma che viene poi dopo portato a compimento da soggetti privati, non è una partita qualsiasi, perché contano molto anche i soldi che vengono messi su questo piatto. Di quanti denari sarà dotato questo fondo e fin dove potrà ancora spingersi. Mi viene una grande nostalgia dell'occasione sprecata dal sistema bancario e politico italiano in occasione della riforma del capitale della Banca d'Italia. Venne presentata nell'autunno del 2013 e diventò legge nel febbraio 2014. Quella è stata un'occasione sprecata perché in realtà quelle quote, la riforma del valore di quelle quote, poteva offrire il volano per qualche operazione di grande respiro, viceversa si è operato in modo tale da non risolvere nulla. Perché il compromesso a quei tempi era facciamo questa cosa che così ci tiriamo su due soldi e finanziamo la riduzione delle tasse sulla prima casa. Devo dire che anche il Pd che esprimeva il presidente del Consiglio non si fece sentire nonostante qualcuno avesse fatto presente che era il momento di battere un colpo. Che cosa si sarebbe potuto fare in quella circostanza? Non bisognava tanto stabilire quale era il valore reale delle quote di Banca d'Italia. Poteva essere 1 miliardo di euro così come poteva essere 25 miliardi di euro. La domanda da porsi era quanti soldi posso togliere alla Banca d'Italia senza far male alla Banca d'Italia e che uso ne possiamo fare attraverso il sistema bancario. Governare vuol dire porsi queste domande e darsi delle risposte. Che uso avremmo potuto fare di quei soldi? Esattamente quello che stiamo facendo adesso col fondo. Chi sarebbero stati i beneficiari di questi soldi? Esattamente le banche che stanno costituendo adesso il fondo. Abbiamo perso un treno, ma soprattutto abbiamo perso tre anni e il tempo è denaro. Avremmo potuto muovere quantità di denaro superiori a quelle che stiamo muovendo adesso. E avremmo potuto intervenire tre anni fa su problemi meno incancreniti di quelli attuali. Quel treno è stato perso ma anche oggi bisogna domandarsi: le garanzie sulle ricapitalizzazioni fin dove si possono spingere? Le banche che dati i criteri di vigilanza europei possono essere considerate in una posizione difficile sono le due venete, il Monte dei Paschi, più altra roba sparsa. Voi vi rendete conto che anche qui abbiamo perso dei treni. Il Monte dei Paschi aveva in pancia i Monti bond. C'è stato un momento nel quale guardando al domani si poteva fare l'aumento di capitale che venne fatto non per rimborsare i Monti bond ma per aggiungersi ai Monti bond convertiti in azioni, con il risparmio di alcuni centinaia di milioni di interessi per la banca. Insomma avremmo portato il Monte dei Paschi fuori dalle difficoltà. Così come le popolari venete non dimentichiamo che erano in rapporti con il resto del mondo della finanza italiana e non vivevano da sole là. E qualche volta le azioni sopravvalutate che venivano assegnate ai clienti consentivano agli stessi di avere dei finanziamenti sulla base di queste medesime azioni. Cioè il giro era completo. Quindi c'erano certamente gravi problemi di governance. E' saggio oggi non accanirsi prima che non ci siano evidenze concrete su un altro vicepresidente di Unicredit che sta nei panama papers. Cioè ci vuole anche serietà e prudenza. Io ho l'impressione che i denari rischino di essere sempre pochi, perché il capitale in una banca non può tamponare una crisi di fiducia. Se la gente va agli sportelli e vuole indietro i depositi non c'è capitale che tenga. Quindi il compito del sistema è di tenere viva la fiducia perché altrimenti i castello viene giù e non c'è capitale che tenga. Chiudo con un punto, in ogni caso non sarà un ulteriore e maggiore disponibilità di credito a sbloccare il ciclo degli investimenti se qualcuno non comincia ad investire senza sentire come imprescindibile l'obbligo di avere chiarezza per i prossimi sei mesi perché il soggetto privato fino a lì non ci arriva. Quindi gli investimenti li deve far ripartire la mano pubblica. Viceversa rischiamo di aumentare le potenzialità monetaria di investimento per un sistema che poi non ha le capacità per farlo.

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Alfonso Gianni Ex-deputato e saggista Innanzitutto grazie per l’invito a questo stimolante convegno. Nella sostanza sono d’accordo con quanto ha sostenuto Mario Pianta. Proverò soltanto ad aggiungere qualche considerazione. La prima, e forse la più importante, è che per fare tutte le cose che Mario Pianta ha qui detto e che sono assolutamente indispensabili, abbiamo bisogno di un processo di riforma delle istituzioni finanziarie e politiche esistenti a livello europeo che somiglia molto da vicino a una rivoluzione. Vorrei anche rassicurare il viceministro Morando che, come diceva il poeta, tra cielo e terra c’è molto di più della nostra filosofia e di quanto noi stessi possiamo immaginare. Nella fattispecie voglio dire che criticare Mario Draghi non significa necessariamente schierarsi dalla parte della Bundesbank. C’è una gradazione di valori che ho ben presente. So bene che la Merkel è meglio di Schauble. Chi fa politica da anni sa che non tutti gli avversari, quando lo sono, sono uguali. Nello stesso tempo che si possono, e si devono, fare critiche costruttive e non solo distruttive, senza sentirsi accusare di sposare le tesi più lontane dalle proprie intenzioni reali. Ma vorrei rammentare a Morando, che lo sa meglio di me naturalmente, che il primo a insistere sul fatto che la politica monetaria più di tanto non può dare è stato ed è lo stesso Mario Draghi. Anche se poi le mie convinzioni su ciò che effettivamente bisognerebbe fare nel campo dell’economia reale sono probabilmente molto diverse dalle sue, non posso fare a meno di riconoscergli questa consapevolezza in merito ai limiti intrinseci di una politica fondata esclusivamente sugli stimoli monetari.

Questa non basta per uscire dalla grande crisi, anche se il famoso whatever it takes di Mario Draghi ha, per ora, fermato il possibile crollo dell’euro e dell’eurozona. Ma qui siamo di fronte alla più grande crisi che il capitalismo europeo abbia mai conosciuto. Quindi ci vorrebbe e ci vuole ben altro per affrontarla.

Anche il tentativo di Draghi di tirare all’estremo la corda dello Statuto della BCE è arrivato probabilmente al limite possibile e praticabile, all’interno di un quadro immutato di regole. Alcuni dicono ce n'è ancora, altri dicono è arrivato al fondo. Non sono un banchiere e quindi non ho una conoscenza così profonda della macchina bancaria europea, per dire con certezza se questa ha ancora consistenti margini di azione oppure no. L’impressione è che comunque siamo agli sgoccioli. Sono rimasto stupito che un giornalista attento, come Danilo Taino, scriva sul Corriere della Sera che è la prima volta che c'è un attacco a Draghi di queste proporzioni. In effetti è da quando Draghi è partito con gli interventi di forte stimolo monetario che le decisioni nel board della BCE sono prese a maggioranza, con il voto stabilmente contrario del rappresentante tedesco. Era arcinoto che le banche tedesche - soprattutto dei Länder visto che non sempre sono le grandi banche a comportarsi nel modo peggiore, anche quelle locali non scherzano - erano preoccupate che la politica dei bassi tassi di interesse rovinasse la loro profittabilità. Si prevedeva che questo timore generasse non solo un conflitto con la Bce, ma provocasse risultati elettorali avversi alla coalizione di governo e soprattutto alla Merkel. Il che è puntualmente avvenuto.

Ma al di là di queste considerazioni sull’immediato, il problema vero è che in Europa c'è una grande questione democratica. Perché l'Europa è un'istituzione a-democratica, neanche antidemocratica; semplicemente della democrazia non gliene può importare di meno; la sua strutturazione e la sua governance prescindono completamente dalla preoccupazione di assicurare un sistema di decisioni democratico. Questo aspetto riguarda anche direttamente quello che stiamo discutendo qui

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stamattina. Una parte della questione democratica di cui ho detto è quella che vede un aperto contrasto tra la democrazia di voto e la politica monetaria, ovvero il governo, il potere sulla moneta. Datemi credito sul fatto che per politica qui non intendo la politique politicienne, tantomeno la politica partitica, quanto una vera politica economica a 360 gradi, un indirizzo programmatorio generale.

A questo punto non possiamo perciò fare a meno di toccare questo aspetto, quello delle politiche economiche reali in Europa. Qui i sindacati se lo volessero potrebbero fare molto. E dovrebbero farlo. Il punto da cui deriva tutto il resto è se vogliamo o no arrivare a rimettere in discussione i Trattati e il loro impianto. C’è chi dice che non è possibile. Eppure questo già avviene. Ma da destra. Non è forse vero che c’è chi vuole fare entrare stabilmente nei Trattati il fiscal compact, che non a caso è per ora un trattato a parte? Forse non è questo il senso della pressione che gli inglesi stanno producendo sulla Ue? L’accordo che governi e istituzioni europee hanno raggiunto con Cameron per cercare di fargli vincere referendum sul Brexit, non è forse la promessa di una revisione in senso regressivo, cioè ultraliberista dei Trattati. Una curvatura contraria anche ai principi di umanità, visto che si tratta dei diritti umani dei migranti che vengono esclusi dai benefici del welfare state britannico per almeno quattro anni.

Bisogna che le competenze giuridiche, quelle politiche, quelle economiche, quelle sociali si mettano un attimo insieme, perché è proprio nella separatezza delle culture e delle competenze che si producono dei veri e propri mostri.

Ad esempio, mi domando se possiamo andare avanti con un articolo come il 130 del Trattato consolidato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), che testualmente dice che nell'esercizio dei poteri e l'assolvimento dei compiti e dei loro doveri né la Bce né una banca centrale nazionale possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni e dagli organi comunitari né dai Governi degli Stati membri. Cioè, possiamo accettare una fissazione così maniacale, così rigidamente e stupidamente codificata di separazione tra politica e moneta, quando peraltro in senso inverso queste “istruzioni” vengono abbondantemente usate e date dalle autorità monetarie ai singoli governi? Così precisamente accadde nella famosa lettera firmata da Draghi e Trichet del 5 giugno del 2011, in limine mortis del governo Berlusconi che dettò a quel governo e a tutti i successivi la politica economica e sociale che dovevano condurre, si può dire fin nei minimi particolari.

Mario Pianta prima richiamava un’idea di sviluppo del tutto diversa da quella che è stata fin qui realizzata e che è in profonda crisi. Questo nuovo tipo di sviluppo può essere garantito da un intervento pubblico consistente e intelligente. E’ stato prima qui richiamato il libro di Mariana Mazzucato. In un dibattito al quale ho partecipato qualche tempo insieme a lei, l’ho sentita lamentarsi della traduzione del titolo nella edizione italiana. Lei avrebbe voluto titolare “Lo Stato imprenditoriale” (nell’originale The Entrepreneurial State. Debunking Pubblic vs. Private Sector Myths ) non “innovatore”, non perché l’innovazione non sia necessaria, anzi indispensabile, ma perché voleva sottolineare l’importanza di un intervento diretto dello Stato nell’economia reale e produttiva. Solo lo Stato ha la forza per potere dare il via a investimenti a redditività differita, in settori innovativi proiettati verso il bene comune sociale e non solo votati alla profittabilità del capitale immediatamente investito. Questo è il grande problema che abbiamo di fronte. Tuttavia mi si potrebbe obiettare che io stia solo pensando alla riforma radicale dei Trattati europei e che niente si possa fare nel frattempo. Non è vero. Intanto ci si può muovere da subito nella giusta direzione. Come con la separazione delle banche d’investimento dalle banche commerciali; con una

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limitazione drastica dell’uso dei derivati; intervenendo anche sul sottostante i medesimi (ma qui il discorso si fa più complicato e tecnico e quindi lo indico solo, senza svolgerlo). Bisognerebbe colpire la finanza ombra, cioè i vari fondi che prestano denaro a condizioni favorevoli e quindi lo creano come scriveva Luciano Gallino in uno dei suoi ultimi libri.

C’è insomma un carnet di riforme, non certo rivoluzionarie, che possono essere pensate ed attuate da subito. Anche sul versante degli investimenti a livello europeo. Ad esempio l’economista tedesco Andrew Watt propone di aggirare l’ostacolo del divieto per la Bce di finanziare in modo diretto la spesa pubblica dei singoli stati, prevedendo che la Bei, la banca per gli investimenti europei, possa emettere dei bond, acquistabili dalla Bce sul mercato secondario, finalizzati proprio a investimenti pubblici.

La signora Yellen che dirige la Federal Reserve, quando decide se alzare o abbassare i tassi di interesse, guarda alle variazioni intervenute nel livello della disoccupazione statunitense. Mario Draghi si può invece disinteressare completamente del tasso di occupazione o di disoccupazione. Proprio non è un suo problema dal punto di vista istituzionale, anche se forse lo è per lui da un punto di vista culturale visto che in fondo è un vecchio allievo di Federico Caffè. Ma l'unica cosa che è obbligato a seguite è il tasso di inflazione, perché quello fa parte del suo compito. Solo che questo, non a caso, si allontana sempre di più da quel due per cento che istituzionalmente sarebbe compito della BCE mantenere, proprio perché tra la politica monetaria e la politica economica, è la prima ad avere il sopravvento sulla seconda e a orientarla, con il conseguente disastro sociale che tutti abbiamo sotto gli occhi. Grazie per l’attenzione.

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Sergio Gatti (*) Direttore generale di Federcasse – Federazione delle banche di credito cooperativo – casse rurali e artigiane Grazie, ringrazio molto l’onorevole Paglia per questo invito. Cercherò di essere sintetico e soprattutto di focalizzare i l m i o i n t e r v e n t o rispetto a delle proposte che poi sono alla base di questa mattinata. Intanto, riguardo alla proposta di legge sull'educazione finanziaria, totale appoggio. Per quanto concerne la separazione tra banche commerciali e banche d'affari, totale appoggio, con il caveat che esiste un terzo genere di banche che sono quelle che appartengono ai network. E qui l'ispirazione molto concreta può essere quello dell'articolo 13.5 della proposta di direttiva della Commissione europea dopo il lavoro della Commissione Liikanen, che forse l'onorevole Paglia ricorda, perché tutto il mondo non è soltanto bianco o nero. Ci sono poi delle piccole banche, in genere cooperative, che si radunano attorno a dei network o attorno a delle banche centrali che hanno bisogno di un tipo di normazione diversa. Terza proposta emersa nella mattinata, il fondo immobiliare pubblico per una gestione razionale dei non performing loans: mi sembra interessante. Bisogna, ovviamente, valutare tutti gli aspetti che hanno a che fare con il rischio di aiuti pubblici compatibili o incompatibili, non vado oltre. Aggiungo una proposta affinché possa essere valutata da parte di Sinistra Italiana e che ha a che fare anche con il tema in senso ampio di questa terza sessione e che è quella di valutare una nostra proposta che abbiamo presentato insieme a Ugo Biggeri di Banca Etica e non solo. Un inserimento nel Crr (Capital requirements regulation - NdR), quindi vado veramente nel dettaglio per essere il più possibile concreti e se possibile incisivi. Nel Crr, uno degli strumenti con cui è stato recepito in Europa Basilea 3, all’articolo 501, ora in revisione, come tutta la normativa bancaria europea tra il 2016/2017, si può estendere lo Sme supporting factor3 al Social enterprises supporting factor, cioè la previsione di un assorbimento patrimoniale a favore delle banche, cioè a favore delle banche che erogano credito all'economia reale, in particolare all'economia che crea impatto sociale. Uno strumento patrimoniale che invece di essere il cento per cento noi proponiamo al sessanta per cento, a costo zero per le finanze pubbliche, ed un efficacia come incentivo sicuramente notevole, così come è documentato per lo Sme supporting factor.

Infine, studiamo, proprio per riprendere ciò che diceva Alfonso Gianni poco fa, le possibilità di aggregare consenso sulla base di una proposta tecnica solidamente impostata affinché si possa rivedere lo Statuto della BCE con l'inserimento del secondo parametro, cioè quello della disoccupazione. Un parametro che non sta sulla luna o no? Gli Stati Uniti sono, come dire, un grande Paese che sta nel mercato capitalistico; insomma, per quale motivo non bisogna prendere ispirazione qualche volta per le cose che funzionano anche dall'altra parte dell’Atlantico.

3 NdR: Si tratta di un fattore di ponderazione da applicare ai soli finanziamenti alle piccole e medie imprese che permette di compensare l’aumento dei requisiti di capitale per gli istituti di credito imposto dalla nuova regolamentazione lasciandolo invariato al livello pre-crisi dell’8% (mentre attualmente sul mercato si trova già al 10,5%).

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Sarà difficile, ma se non si comincia mai, si arriverà comunque troppo tardi. Due cose molto rapide nei cinque minuti che sono rimasti. Uno, che cosa c'entra in questa sessione il credito cooperativo? Primo, c’entra perché è stato oggetto di una riforma completata la settimana scorsa e c'è un riconoscimento della sua funzione pubblica su cui arrivo fra un attimo; e s e c o n d o , sono poi le quote di mercato, in termini di credito erogato all'economia reale, quella che produce occupazione, tema che è stato al centro della seconda sessione, e che produce reddito, il motivo per cui esistono le nostre banche mutualistiche. Vi do quattro numeri: il 23% del totale dei crediti alle imprese artigiane o alle imprese manifatturiere di piccola dimensione, il 18% per cento abbondante alle imprese della agroindustria, il 17% abbondante alle imprese dell'alloggio e della ristorazione, chiamiamolo anche turismo, e infine, il 13% alle imprese sociali, vengono dalle banche di credito cooperativo: Questo è un contributo in termini “pubblici”, a costruire parte dell'interesse pubblico, e cioè a resistere nelle fasi cicliche in termini di salvaguardia dei livelli occupazionali e anche indirettamente a crearne nelle fasi di sviluppo, che speriamo prima o poi arrivino sicuramente con caratteristiche diverse da quelle che conoscevamo. I cinque valori e i cinque obiettivi che si sono raggiunti, non in maniera sempre brillante, ma insomma che si sono raggiunti, con la riforma delle banche di credito cooperativo. Le banche di credito cooperativo sono trecentosessanta, con un milione e duecento mila soci, trentasette mila dipendenti, sei milioni di clienti. Intanto, un valore politico è rappresentato dalla scelta, in termini di sistema paese, indipendentemente dal ruolo di Parlamento, Governo, autorità di supervisione, dalla scelta di proteggere la mutualità bancaria. I sei marcatori mutualistici, i sei marcatori di mutualità delle banche di credito cooperativo sono intonsi, assolutamente non toccati. Questa è la condizione per le trecentosessanta banche di credito cooperativo, che mantengono le loro licenze bancarie, che mantengono la possibilità di eleggere i propri esponenti, di far parte di un gruppo bancario cooperativo aventi forma di S.p.A. Questo è un valore politico, la terza realtà bancaria italiana che nascerà nell'arco di un anno e mezzo avrà le caratteristiche, nei territori, di banca mutualistica con degli obiettivi che voi sapete non sono certo quelli della finalità lucrativa. Dal punto di vista giuridico nasce una nuova forma di banca che è il gruppo bancario cooperativo dove il gruppo bancario cooperativo ha una capogruppo che è posseduta dalle singole BCC che a loro volta sono controllate su base contrattuale; è un modello nuovo con alcuni rischi ma intanto intellettualmente è passato, giuridicamente è passato. Dal punto di vista della realizzazione la responsabilità è nostra. Se il Parlamento ci segue, in particolare chi è più sensibile, ovviamente questo non può che aiutarci. C’è poi un valore metodologico; si è potuto cioè collaborare alla scrittura di questa norma e in questa fase in particolare, ed anche in generale, il fatto che i destinatari di una riforma possano accompagnare, suggerire in qualche modo gli obiettivi ed anche, previa una verifica della solidità tecnica, della coerenza, della compliance con norme complicatissime, è di per sé una buona notizia.

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Si potevano evitare incidenti. Sappiamo anche di alcuni autogol, ma insomma alla fine avevamo dieci obiettivi assolutamente trasparenti presentati in Parlamento e dieci sono stati raggiunti. Ripeto, non sempre con la stessa brillantezza ma comunque dobbiamo anche guardare la realtà delle cose. Un valore socio-economico che è quello di mantenere nei territori la potestà decisionale in materia di risparmio e di gestione del credito e qui mi permetto di dissentire, mi dispiace che non ci sia, con Megale, almeno in parte, perché quando lui tende a cadere nell'equivoco che Banca di territorio è uguale a Banca condizionata in senso negativo, secondo me siamo veramente sulla cattiva strada. Perché mi sembra che si possa anche parlare del contrario, e banca “condizionata” perché figlia di quel territorio e ovviamente nel rispetto delle regole, senza conflitti di interesse, essa può andare incontro all'esigenza di quel territorio all'interno di un contesto normativo sempre più complicato. I cinque obiettivi che si sono realizzati: il primo è la valorizzazione e l'esaltazione dei principi mutualistici nell'attività bancaria che è un principio dell'ottocento ma che continua a vivere. Ne cito soltanto due di quei sei marcatori: erogare il credito prevalentemente ai soci e erogare almeno il novantacinque per cento dei crediti nell'area di competenza cioè dove è raccolto il risparmio, senza portarlo altrove, mi sembra che sia qualche cosa di particolarmente significativo nell'interesse “pubblico”; secondo obiettivo, la difesa delle autonomie locali; terzo, la salvaguardia e la partecipazione delle comunità; quarto, maggior peso specifico complessivo per questa realtà che presa in maniera spezzettata ovviamente conta nei territori ma non in termini nazionali od europei; quinto, una maggiore efficienza economica che porta comunque ad avere il patrimonio più grande nell'industria bancaria italiana, totalmente italiano, perché 20,5 miliardi di patrimonio distribuito ad un milione trecento mila soci mi sembra che rappresentino un valore. Finisco rispondendo alla domanda dell’Onorevole Paglia fatta all’inizio. Può perdere un grande Paese i l controllo di una banca? Bene, il 20 gennaio 2015 quando c'è s t a t a la prima bozza di decreto sulle BCC, oltre che sulle popolari, il decreto prevedeva due cose che sono state migliorate, superate: primo, la soglia minima di partecipazione al capitale della capogruppo del gruppo del mercato cooperativo era al 33% adesso è al 50,1%; secondo, il potere di abbassare quella soglia per far entrare capitale da fuori, proveniente dall'estero, era nelle mani della Banca d'Italia, adesso è nelle mani del MEF in consultazione con la Banca d'Italia. Si poteva forse fare ancora meglio, come suggerisce l’Onorevole Paglia, ma intanto abbiamo evitato un rischio enorme. Infine, il gruppo bancario cooperativo è in qualche modo un presidio alla perdita di controllo sui gruppi bancari. Questo punto ritengo che vada valutato ed anche attentamente monitorato come può fare il Parlamento.

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Angelo Marano Economista e dirigente pubblico Cercherò di essere il più breve possibile, anche a costo di apparire schematico. Naturalmente, le considerazioni che andrò ad esporre sono prettamente personali. Mi sembra che negli interventi che mi hanno preceduto si mescolino tre tipi di problematica. Il primo riguarda gli effetti della crisi, prima finanziaria, poi economica, che ha avuto effetti molto forti sul sistema bancario. Il secondo riguarda le inadeguate risposte di policy a livello europeo e nazionale. Il terzo è relativo alla situazione di alcune banche, minate alla radice, in un contesto di generale e prolungata crisi, da una cattiva gestione e da situazioni patologiche; tale problematica ha, di fatto, messo in discussione lo stesso ruolo che, in prospettiva, il sistema bancario può svolgere nel convogliare risorse verso l’economia reale. 1. La crisi. Sulla crisi non è necessario dilungarsi, essendo già intervenuti prima di me Mario Pianta e Alfonso Gianni, che hanno ben descritto la situazione. Mi preme evidenziare un unico aspetto. Una politica monetaria iper-espansiva, qual è l’attuale, è condizione necessaria, ma non sufficiente, alla ripresa economica. Il credito è, infatti, fermo: ai due lati del mercato, banche e imprese hanno paura, ritengono eccessivi i rischi, cosicché, se le prime non prestano, le seconde neanche chiedono. Se qualcuno non rompe l’impasse, sarà difficile uscirne. Con la domanda estera in sofferenza e i redditi fermi, mi sembra che l’unica ipotesi sia l’intervento pubblico, a livello nazionale o, ancor meglio, europeo. Deve essere un intervento forte e diretto, di dimensioni ben diverse da quelle effettive del piano Junker. 2. Le inadeguate risposte di policy. Nel mezzo di una crisi che, da finanziaria, diventava economica, cosa si sono inventati a livello europeo? L'aumento dei requisiti patrimoniali delle banche ed una più stretta regolamentazione, laddove poi alcuni pezzi del sistema finanziario riuscivano a sottrarsi ad essa, creando un sistema parallelo. Il risultato è stato particolarmente penalizzante per un paese come l'Italia, nel quale il ruolo del sistema bancario, rispetto al mercato, nell’intermediare il risparmio è particolarmente forte. Così le banche italiane, che pure erano emerse abbastanza bene dalla crisi finanziaria (anche a causa di una – provvidenziale - arretratezza nello sviluppo e nella distribuzione di alcuni prodotti finanziari particolarmente critici), sono state duramente colpite dalla successiva crisi economica e dal nuovo quadro regolamentare. La reazione sembra essere stata, estremizzando, un generalizzato ritrarsi dalla propria attività fondante, ovvero prestare risorse a imprese e famiglie, interrompendo il flusso di erogazioni e cercando di rientrare rispetto alla propria esposizione. In tale contesto la politica settoriale nazionale ha cercato sostanzialmente di ridare, artificialmente, profittabilità al sistema bancario. In soccorso è arrivata la stessa politica della BCE, perché, anche se i tassi sono andati via via calando, le banche hanno potuto lucrare sul differenziale fra i tassi di rifinanziamento della BCE e i tassi sul debito pubblico, senza rischi e senza doversi esporre nei confronti dell’economia reale. Emblematico è anche il caso della rivalutazione del capitale di Banca d'Italia. In un precedente intervento l’on. Mucchetti ha lamentato i trecentottanta milioni annui di dividendi che ora la Banca eroga ai propri azionisti, evidenziando come tale somma dovrebbe logicamente essere destinata a quanti hanno perduto i propri risparmi a causa dell’inadeguata vigilanza. Ma quei dividendi hanno una precisa funzione, che solo adesso risulta evidente. Con l’approvazione del provvedimento di rivalutazione di Banca d’Italia il percorso non era ancora completo e il governatore Visco ha avuto

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buon gioco nel dire che l’aumento del valore delle quote detenute dalle banche non ha comportato alcun esborso pubblico. Ora, però, si conclude l’operazione, con amministrazioni pubbliche, in particolare le casse dei liberi professionisti, che acquistano, coi contributi dei propri iscritti, le quote in eccesso detenute dalle due maggiori banche del paese. E’ un investimento reso possibile proprio dal flusso costante e sicuro di dividendi che Banca d’Italia assicura. Così, alla fine, la rivalutazione delle quote in mano alle banche è avvenuta almeno in parte con risorse pubbliche, sottratte ad altri usi produttivi, che pure erano stati ventilati. In tal senso, anche alcuni accenni fatti dal vice ministro Morando nel proprio intervento, che riprendono ipotesi contenute anche nel DEF 2016, destano preoccupazione. Mi riferisco all’ipotesi governativa di alleggerire il problema dei non performing loans ed aumentarne il valore di mercato mediante interventi normativi volti a velocizzare l’escussione delle garanzie da parte delle banche, sia con riferimento ai mutui delle famiglie che ai prestiti alle imprese. Nell’attuale contesto i problemi di imprese e famiglie non sono idiosincratici, bensì sistemici: il problema non è di imprese o famiglie non più in grado di restituire quanto avuto perché hanno fatto investimenti sbagliati o comunque sfortunati, ma di un sistema nel quale le insolvenze sono in gran parte determinate da una crisi feroce e prolungata. Da questo punto di vista, l’operazione ipotizzata rischia semplicemente di esportare il problema dalle banche a imprese e famiglie, all’economia reale, peggiorando, anziché migliorando, le cose. 3. Tramonto del relationship banking? L’attività di finanziamento all’economia reale è considerata nella modellistica economica l’attività principe delle banche; eppure sembra la grande assente dalle politiche economiche, europee e nazionali. Esse sono, piuttosto, focalizzate sullo spostare le fonti di finanziamento delle imprese, anche quelle di dimensioni medie e piccole, sul mercato. Alle banche si permette invece (salvo qualche tentativo, di dubbia efficacia, da parte della BCE, di orientare i finanziamenti) di stringere i cordoni della borsa e concentrarsi sulla ristrutturazione dei propri attivi, rinviando ad una fase successiva la ripresa dei finanziamenti al sistema economico. Questa scelta, però, fa venire meno un elemento tradizionalmente considerato un vantaggio competitivo italiano (invero, non solo italiano) rispetto ai sistemi anglosassoni: il relationship banking, la possibilità di sfruttare i vantaggi conoscitivi che un intermediario come quello bancario può avere rispetto al mercato, sia nella conoscenza del territorio che della singola impresa, per offrire finanziamenti e prodotti adeguati alla clientela, anche in contesti avversi. Di fatto, il relationship banking non si è rivelato, all’atto pratico della crisi, capace di garantire continuità ai flussi di finanziamento alle imprese. Di più, nei casi sotto i riflettori in queste settimane, il suo abuso ha minato alla base la solidità di alcuni istituti creditizi. Eppure, la presenza di un diffuso e capillare sistema bancario sul territorio potrebbe ancora costituire un vantaggio competitivo rispetto a sistemi finanziari nei quali le imprese di minori dimensioni non sono in grado di trasmettere e far valutare appieno dal mercato tutte le informazioni necessarie alla corretta valutazione del proprio business. Ma sfruttare tale potenziale vantaggio richiederebbe innanzitutto una vigilanza tecnicamente adeguata e ben più attenta che in passato, in secondo luogo una politica nei confronti delle banche meno rinunciataria, infine, una politica di rilancio economico che, come detto, non può prescindere da un intervento pubblico diretto.

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Guido Iodice Fondatore e curatore del Keynes, blog “Vorrei vedere che lo Stato, che è in condizioni di calcolare l'efficienza marginale di beni capitali in base a considerazioni di lunga portata e in vista del vantaggio sociale generale, si assumesse una sempre maggiore responsabilità nell'organizzare direttamente l'investimento”. Queste sono le parole finali del XII Capitolo della “Teoria generale” di John Maynard Keynes.

In questo capitolo Keynes analizza i mercati finanziari e spiega perché lo Stato deve mettere la sua “mano visibile” nel settore del credito. Il motivo è che l'incertezza domina la finanza e l’investimento. Quando le cose vanno bene, quando tutti pensano che le cose vadano bene, tutto sommato lo Stato potrebbe anche ritirarsi – ma in realtà non è così. Quando le cose vanno male, vale a dire quando gli imprenditori non hanno fiducia nel futuro, quando i consumatori non consumano, beh allora qualcuno deve sopperire a questa carenza di domanda aggregata. Ma non c’è solo un problema sul lato della domanda di credito – che si affronta quindi con politiche di gestione della domanda attraverso la spesa pubblica, cioè con politiche fiscali espansive - ma serve anche un impulso dello Stato sul lato del credito, quella che Keynes chiamava “socializzazione dell'investimento”. In un libro che ho scritto insieme a Thomas Fazi, pubblicato recentemente, intitolato “La battaglia contro l’Europa” (non si tratta però di un libro euroscettico), abbiamo tra le altre cose analizzato alcuni noti esempi di credito pubblico, come la KfW, che diciamo è il corrispettivo tedesco della Cassa depositi e prestiti, la quale ha appunto la funzione di indirizzare l'investimento. Un suo braccio, chiamato Förderbank, investe in edilizia residenziale e ambiente, promuovendo l’edilizia ecosostenibile e l’uso di pannelli fotovoltaici. Un secondo braccio, la Mittelstandsbank, è invece attivo nel sostegno alla piccola e media impresa, che ha più difficoltà nell’accesso al credito rispetto all’impresa di grandi dimensioni. Infine, una sussidiaria della KfW, la IPEX-Bank, si occupa di finanziare imprese e progetti legati alle esportazioni, il chiodo fisso dei tedeschi. Non c'è solo questo esempio c'è anche la Banca Nazionale per lo Sviluppo Economico e Sociale del Brasile che ha avuto un ruolo fondamentale anche nel recente miracolo economico brasiliano sotto Lula. Dico questo per dire qual è la mia idea e la predisposizione sul credito pubblico.

Con qualche caveat però che voglio aggiungere: il primo è che qualsiasi politica di offerta del credito e qualsiasi politica monetaria anche non ha senso se non è inserita in un piano generale di ripresa della domanda. Perché è evidente che se sono un imprenditore, anche se mi si offre un credito a tasso zero, se non addirittura a tasso negativo, non mi indebito necessariamente, visto che quel capitale deve essere restituito, e se prevedo che i flussi di cassa non saranno sufficienti a rimborsare le rate del prestito che mi è stato concesso, non mi indebiterò. L’altro caveat è che non c’è solo un problema per gli imprenditori, quindi per i profitti, ma anche un problema salariale. Cioè noi non dobbiamo dimenticare che tutti gli anni Novanta sono stati incentrati sull’idea che credito avrebbe dovuto sostituire il reddito. E quindi ci sono state le bolle immobiliari, non tanto nel nostro Paese ma in altri, che sostanzialmente nascono da questo. Quindi noi dobbiamo tenere insieme più cose. Una politica dei redditi, una politica dei salari è assolutamente necessaria alla stabilità finanziaria se noi non vogliamo fare in modo che la gente si indebiti e poi non abbia di che ripagare quei debiti generando fallimenti bancari a catena. Se non siamo attenti finisce come è successo negli Stati Uniti, dove due banche pubbliche hanno contribuito a creare la bolla immobiliare invece di prevenirla.

Il problema che credo la sinistra dovrebbe affrontare quando parla di relazione con le banche, con il credito, è quello di superare nell'ideologia che si è portata negli anni Novanta di sostituzione del

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reddito con il credito. E questa ideologia nasce da una un preciso modello, quello cosiddetto mainstream, secondo cui esistono due tipi di agenti economici: quelli che sono vincolati dalla liquidità e quelli che invece non sono vincolati dalla liquidità. Quelli che non sono vincolati dalla liquidità possono spendere, programmare la loro vita, accedendo al credito. Gli altri invece vanno aiutati a farlo attraverso politiche pubbliche. Negli anni Novanta si diceva, a sinistra, che il problema non è la precarietà, il problema è che il precario non può farsi il mutuo. Allora si diceva che avremmo dovuto incentivare le banche a dare i mutui ai precari. Ecco, meno male che non l’abbiamo fatto, altrimenti avremmo avuto una crisi bancaria devastante come la Spagna.

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CONCLUSIONI

Giovanni Paglia4 Il sistema bancario è oggi certamente indirizzato in modo determinante dal quadro regolatorio comunitario. Questo è vero tanto sul piano normativo e istituzionale, dato il ruolo preponderante della BCE, quanto su quello economico e fattuale, dato lo stretto controllo delle istituzioni comunitarie sui bilanci nazionali. Questo non è necessariamente un male, ma rischia di diventarlo nel momento in cui intervengano troppe asimmetrie nel sistema, come di fatto accade in questo momento. Pensiamo ai sistemi di valutazione del rischio in relazione alla tipologia di impieghi, che tanto incidono sulla necessità degli istituti di reperire capitali sul mercato, e a come questi siano penalizzanti per economie industriali fondate sulle PMI e banco centriche come la nostra. Pensiamo all'introduzione della BRRD (Bank Recovery And Resolution Directive), che ha avuto di fatto corso persino anticipato relativamente alla procedura di risoluzione e al regime di bail in, anche se questo ha significato mettere a rischio la stabilità del sistema bancario italiano, ma non riesce a procedere verso il Fondo Unico di Risoluzione, per l'opposizione dei paesi del Nord, a partire dalla Germania. Pensiamo al Quantitative Easing, che ha avuto un ruolo determinante nello stabilizzare al ribasso il rendimento dei titoli di Stato dei paesi più stressati, ma non è riuscito a diventare uno strumento per la crescita economica, data l'assenza di una politica fiscale comunitaria e di una capacità di indebitamento a livello UE. Noi riteniamo che l'Italia si debba fare carico di un forte intervento a livello comunitario, per ottenere una modifica del RWA (Risk Weighted Assets), una modifica del bail-in che lo renda derogabile, laddove si riscontri un pericolo per la stabilità sistemica del paese di residenza della banca in crisi, l'introduzione di forme di euro bond e una parziale mutualizzazione del debito. Riteniamo invece si debbano respingere ad ogni costo ipotesi come quelle adombrate frequentemente dal ministro tedesco Schauble, che prevedano un tetto massimo alla detenzione di titoli di Stato da parte degli istituti di credito o la loro diversa valutazione in termini di rischiosità, con conseguente differenziazione degli accantonamenti necessari per Bund o Btp. Tali misure metterebbero infatti in forte crisi tanto la sostenibilità del debito pubblico italiano, quanto la stabilità del sistema bancario nazionale, e devono pertanto essere ritenute inammissibili persino nel dibattito pubblico europeo, pena la fine della UE. Crediamo, inoltre, che questo dibattito debba essere affrontato ora, perché il tempo stringe e le contraddizioni fra politiche monetarie espansive e politiche fiscali restrittive, nonché una rigidità a senso unico nell'approccio ai bilanci delle banche e quindi alla loro capacità di credito, rischiano di impedire all'Italia di cogliere le opportunità di una fase moderatamente espansiva, e quindi di arriva in condizioni inadeguate ad affrontare la prossima crisi. Proponiamo, inoltre, che si proceda anche a livello nazionale a separare banche commerciali e banche di investimento, ponendo questo tema anche in sede comunitaria, per rafforzare la solidità del sistema e la trasparenza nei rapporti fra banche, risparmiatori e imprese. 4 Intervento scritto.

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A noi servono certamente canali di finanziamento alternativi al sistema bancario, ma non possiamo fingere di ignorare che la preponderanza delle PMI, quando non delle micro-imprese, non può prescindere da linee di credito tradizionali e da istituti che riescano ad accompagnare gli imprenditori nella pianificazione finanziaria. É assolutamente necessario anche per questa ragione ripristinare la fiducia dei cittadini nel sistema bancario, scossa da anni di scandali e ora da una stagione di polverizzazione degli investimenti e del risparmio. Per questo riteniamo indispensabili manovre come l'introduzione di limiti alla retribuzione degli amministratori, che non possono apparire responsabili nel momento in cui si tratta di intascare bonus milionari, e irresponsabili quando il valore delle azioni si azzera e si arrivano a perdere i risparmi investiti in obbligazioni subordinate. La vicenda delle quattro banche poste in risoluzione resta un macchia indelebile sulla reputazione del Governo, delle istituzioni comunitarie e di quelle preposte alla vigilanza, per non parlare dei vertici degli istituti. Abbiamo permesso che nel momento in cui massima dovevano essere la fiducia e la presa di consapevolezza, perché ci si avviava al bail-in, si precipitasse improvvisamente nell'applicazione del meccanismo di risoluzione, bruciando in una notte i risparmi di decine di migliaia di famiglie e la liquidità di centinaia di imprese. Noi continuiamo a chiedere con forza che si rispetti almeno la promessa di una Commissione di inchiesta, che la maggioranza sembra invece aver dimenticato, e che si arrivi al ristorno pieno delle obbligazioni bruciate, anche se nessun intervento postumo metterà rimedio al danno reputazionale già provocato. Chiediamo, inoltre, che si garantisca una clausola sociale a tutela dei lavoratori delle quattro banche ora avviate a cessione e che si eviti una cessione in blocco al miglior offerente, soprattutto se questo dovesse essere un fondo di investimento estero, evidentemente interessato alla massima valorizzazione degli asset e non a garantire un piano industriale, fondato su raccolta e impieghi di prossimità, come si converrebbe a quelle che erano e dovrebbero continuare a essere banche di territorio. Non ci convince infatti la vulgata per cui grande è bello, che porta ad un unico modello di istituto, grande e iper capitalizzato, in nome di una supposta solidità che l'ultima crisi ha peraltro dimostrato essere più supposta che reale. Preferiamo che si mantenga la biodiversità bancaria e che al suo interno si valorizzi il lavoro come presidio fondamentale di qualità, legalità e relazioni corrette con la clientela. La recente riforma delle Banche di credito cooperativo apre l'opportunità di rendere più solido un sistema fondato sulla prossimità territoriale, ma comporta anche un rischio evidente di omologazione, di perdita di autonomia da parte delle banche aderenti, che andrebbe invece conservata. É indispensabile che Governo e Parlamento presidino il delicato passaggio che si apre con la definizione e poi l'adozione del patto di coesione, per garantire che la pressione della BCE verso una governance centralizzata non comporti uno stravolgimento della riforma appena adottata. I lavoratori del credito devono essere i primi alleati dei risparmiatori e del sistema delle imprese, e non strumenti di politiche commerciali esasperate e finalizzate esclusivamente ai massimi profitti. Intendiamo quindi lavorare ad una proposta di legge, da concordare con le organizzazioni sindacali,

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che cancelli la pratica delle pressioni commerciali sulla rete e spinga invece a formare lavoratori capaci di presidiare ogni tipo di rischio. Crediamo che così si possano limitare fenomeni sbagliati tanto sul lato della vendita di prodotti finanziari, tanto su quello dell'erogazione di credito a soggetti non meritevoli, che hanno portato a bruciare risparmi e a creare il problema delle sofferenze. Siamo favorevoli allo sviluppo dell'educazione finanziaria, ma questa non può diventare un alibi per coprire pratiche commerciali scorrette. Non chiediamo a chi compra un'auto di essere un esperto di motori, ma copriamo con una garanzia eventuali danni di fabbricazione. Lo stesso si deve fare nel rapporto banca/cliente, che deve essere improntato a correttezza e fiducia, fatto salva appunto la positività di una più diffusa alfabetizzazione finanziaria. Vanno ripristinato gli scenari probabilistici all'interno di prospetti informativi sintetici e chiari, in cui la precisione dell'informazione non produca una tale mole cartacea da rendere impossibile una reale fuizione. Venendo ai bilanci delle banche, rimaniamo dell'idea che non si debba creare un mercato degli Npl (Non Performing Loans), ma piuttosto valutare come l'intervento pubblico possa trasformare un problema in opportunità, anche se necessario aprendo un conflitto con la UE. Non siamo ostili ad un veicolo come il Fondo Atlante, se serve ad evitare raid stranieri sulle nostre banche più esposte, ma riteniamo sbagliato che esso punti a redditività del 6%, se questo significa dover colpire duramente famiglie e imprese in difficoltà coi pagamenti a seguito della crisi. Non dovrebbe essere la finanza a lucrare sugli Npl, dopo aver lucrato sul credito facile negli anni dell'espansione, ma lo Stato a recuperare a prezzo di saldo immobili per restituirli a un utilizzo sociale, garantendo al contempo continuità abitativa e produttiva ai debitori. D'altra parte lo Stato ha riconosciuto relativamente ai propri crediti fiscali la prevalenza di interessi come il diritto ad abitare e a svolgere un'attività lavorativa rispetto all'esigenza della riscossione, rendendo impignorabili la prima casa e i beni strumentali. La finanza non può che essere un ambito di servizio ad un ordinato sviluppo economico, regolando e stimolando la trasmissione del risparmio agli investimenti produttivi e alle necessità sociali. Va investigato e messo a tema il possibile ruolo di istituti finanziari pubblici al servizio dell’interesse collettivo. Abbiamo bisogno di capitali pazienti che possano finanziare ricerca e sviluppo, riassetto idrogeologico, messa in sicurezza delle infrastrutture esistenti e sviluppo di quelle di nuova generazione, a partire dalla banda ultra-larga per tutti, rafforzamento del welfare, riconversione ecologica dell’economia. É impensabile che questo possa avvenire per la sola via del mercato creditizio privato, anche se assistito da strumenti come il sistema dei confidi. Un mezzo può essere la Cassa Depositi e Prestiti, che deve essere ricondotta alla sua funzione di banca degli enti pubblici, tanto più in una fase di bassi tassi di interesse e di ripensamento del patto di stabilità interna, e rafforzata nella dimensione di private equity, finalizzata tuttavia non all'acquisizione di quote di aziende capaci di autofinanziamento come è accaduto in questi anni, ma al rilancio di aziende in crisi, al supporto di situazioni in cui squilibri finanziari rischino di compromettere l'attività produttiva, al lancio e consolidamento di nuove iniziative imprenditoriali, allo sviluppo di reti di impresa e di crescita dimensionale delle aziende.

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In questo senso si può pensare anche a una riarticolazione territoriale dell'istituto, che possa renderlo più vicino alla realtà del paese, sul modello dell’omologa francese. Lo Stato dovrebbe inoltre assumere come un'opportunità l'attuale posizione di primo azionista della terza banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena. Molto più che pensare ad una cessione ad altri istituti nazionali, che rischierebbero di non reggere il peso delle sofferenze accumulate dalla banca toscana, o a investitori esteri, cui si dovrebbe evitare di cedere un asset di questa rilevanza, sarebbe utile un intervento pubblico diretto che riporti lo Stato all'interno dell'attività creditizia, potendo agire anche da soggetto in grado di determinare i benchmark di mercato, a favore di imprese e famiglie. L'errore politico è pensare che il pubblico vada bene per immettere capitale di rischio alla bisogna, ma rimanendo sempre fuori dalla responsabilità amministrativa, sulla base di un pregiudizio ideologico che ne postula l'inefficienza e l'inefficacia. L'intervento pubblico dovrebbe al contrario essere incisivo, diretto, volto ad assicurarsi la governance e collegato ad una forte azione di responsabilità nei confronti di amministratori precedenti che abbiamo provocato guasti. Su questo saremo inflessibili anche nei prossimi, eventuali passaggi parlamentari. In conclusione, noi crediamo ci siano le condizioni per un intervento riformatore a largo spettro sul sistema finanziario e del credito, che abbia l'obiettivo di rimettere al centro il lavoro, la trasparenza e correttezza nel rapporto con il cliente, lo sviluppo economico dell'Italia e dell'Europa. Non è facile, visti gli interessi in gioco, ma è indispensabile provarci.

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ALLEGATI

Le Proposte di legge di Sinistra Italiana

1) PAGLIA ed altri: "Istituzione di un Fondo per le politiche abitative" (2133) http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0021240.pdf

2) PAGLIA ed altri: "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del dissesto della Cassa di risparmio di Ferrara Spa, della Banca delle Marche Spa, della Banca popolare dell'Etruria e del Lazio - Società cooperativa e della Cassa di risparmio della Provincia di Chieti Spa" (3508)

http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0038230.pdf

3) PAGLIA ed altri: "Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento bancario mediante la separazione tra banche commerciali e banche d’affari” (3647)

http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0039890.pdf

4) PAGLIA ed altri: "Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e altre disposizioni in materia di trattamento economico degli amministratori e dei dirigenti delle società quotate in mercati regolamentati” (3648)

http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0039930.pdf

5) PAGLIA ed altri: "Disposizioni per la diffusione dell'educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale" (3662)

http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0039920.pdf