Atti del 2° raduno del volontariato padovano

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2° raduno del Volontariato padovano “Il valore del volontariato” Atti Jesolo – Villaggio Marzotto 19-20 maggio 2012

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19-20 maggio 2012 - Jesolo

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2° raduno del Volontariato padovano

“Il valore del volontariato”Atti

Jesolo – Villaggio Marzotto 19-20 maggio 2012

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2° raduno del volontariato padovano - maggio 2012

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INDICE

Parte prima – il tema del raduno

Premessa metodologica 4Premesse per un lavoro comune – Giorgio Ortolani 4Bisogni sospetti - Emilio Vergani 6Senza visione - Emilio Vergani 13

Parte seconda – i lavori di gruppoGli stimoli di Emilio Vergani 17Le tracce di lavoro 18L’esito dei gruppi di lavoro 19

Parte terza – conclusioni e apertureVolontariato e terzo settore in tempo di crisi

I contributi di Giovanni Grillo, Giorgio Baldo, Giovanni Serra, Ugo Campagnaro

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Consoluzioni – Alessandro Lion 30

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Premessa metodologica

Nella prima parte del report sono riportati due contributi che ci ha fatto pervenire il dott. Emilio Vergani in preparazione al raduno. Si tratta di un estratto della sua pubblicazione “Bisogni sospetti”, Marsilio Editore e di un articolo pubblicato sulla rivista “Sottotraccia. Saperi e percorsi sociali”, Navarra editore.Nella seconda parte è riportata una sintesi dell’intervento del dott. Vergani nella mattinata di sabato per introdurre il tema dell’analisi dei bisogni nella progettazione sociale e, a seguire, le tracce dei lavori di gruppo che si sono svolti nel pomeriggio di sabato e le relative relazioni. Per ciascun gruppo è riportato l’elenco delle associazioni presenti (alcune associazioni erano presenti con più rappresentanti).Infine, nella terza parte sono riportati gli interventi dei partecipanti alla tavola rotonda promossa in collaborazione con la Conferenza Regionale del Volontariato.

Gli scritti sono frutto della trascrizione degli interventi registrati su file audio. Ci scusiamo con i relatori per eventuali errori di trascrizione o di interpretazione di quanto detto.

© 2012 - CSV Centro di Servizio per il Volontariato della Provincia di Padovavia dei Colli, 4 - 35143 Padovatel. 049 8686849 - 049 8686817fax 049 8689273www.csvpadova.org - [email protected]

Direzione editoriale: Alessandro LionImpostazione grafica: Anna Donegà

Tutti i diritti sono riservatiFinito di stampare a dicembre 2012

PARTE PRIMA – IL TEMA DEL RADUNO

Premesse per un lavoro comune

Giorgio Ortolani - Presidente CSV Padova

Il ruolo politico del volontariato è sempre stato complesso e lo è ancor più oggi in quanto viene chiamato a coprire i problemi di un’economia allo sfascio e di una società in grande difficoltà.Ruolo politico, per altro, da molto assopito a causa dell’appiattimento dell’attività associative sul versante dei servizi da svolgere. Ruolo politico condizionato dalla necessità economica che i servizi gestiti continuino, in quanto - divenuti ormai strutturali - obbligando le associazioni a perseverare su questa strada, per non dover licenziare il proprio personale.

Per paradosso era più semplice quando il volontariato era sulle barricate: movimentisti spensierati realizzavamo l’innovazione sociale sbeffeggiando un ente pubblico ottocentesco (prima della riforma della legge Crispi) ma avevamo certezze di finalità da raggiungere e occhio lungo per vederle.

E’ con queste premesse che abbiamo pensato al secondo raduno del volontariato padovano tenutosi a Jesolo nei giorni del 19 e 20 maggio 2012, presenti 152 persone per 48 associazioni.Un raduno realizzato su due livelli:

capire quali sono i reali bisogni su cui intervenire, - ed ecco il tema bisogni sospetti.capire come il terzo settore unito possa intervenire - per arginare la deriva della crisi economica, incontro tenuto dalla Conferenza Regionale del volontariato domenica 20 maggio.

Temi difficili in tempi difficili, ma il volontariato è da sempre impegnato su questioni impegnative e, con la sua caparbietà, è riuscito molte volte a cambiare il corso della storia, allora perché non provare ancora. Siamo sempre un po’ “armata Brancaleone”, ma lo siamo con il cuore e, quindi, le cose ci riescono lo stesso.

E’ con questo auspicio/prospettiva che ci accingiamo a valutare i risultati di questa due giorni nella speranza di aver almeno ricaricato di motivazioni e speranze le associazioni che hanno partecipato.

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Programma del raduno

Sabato 19 maggio 2012

Ore 9.00-10.00 Arrivo partecipanti e sistemazioneOre 10.30 Plenaria.

Bisogni sospetti. Esplorare le mappe che portano all’individuazione dei bisogni

Emilio Vergani - formatore, consulente, progettista e valutatore per la PA e il terzo settoreOre 13.00 PranzoOre 14.30 Rispondere ai bisogni per produrre cambiamento

Preparazione ai lavori di gruppo con Emilio VerganiOre 15.30-17.00 Lavori di gruppo – 1^ parte

Gruppi suddivisi per ambito territorialeOre 17.00-17.30 PausaOre 17.30-19.00 Lavori di gruppo – 2^ parte

Gruppi suddivisi per ambito territorialeOre 20 CenaSerata Animazione

Domenica 20 maggio 2012

Ore 8-9 ColazioneOre 9.30 Restituzione lavori di gruppoOre 10.15 Volontariato e terzo settore in tempo di crisi

“Quali politiche e quale ruolo del volontarato veneto in questa fase di cambiamento della societa’ e di crisi del sistema economico, sociale e valoriale”

Interventi di

• GIORGIO BALDO Fondazione Venezia

• GIOVANNI SERRA Segretario nazionale CONVOL

• UGO CAMPAGNARO Confcooperative

Conduce GIOVANNI GRILLOOre 13.00 Chiusura dei lavoriOre 13.15 PranzoOre 14.30 Rientro

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Bisogni sospetti (estratto)

Emilio Vergani

Capitolo IUno sguardo sospettoso sui bisogni1

Questo capitolo è dedicato all’esercizio del dubbio. Ritengo infatti che sia legittimo, oltre che salutare, dubitare tutte le volte che si può dell’obiettività di quelli che vengono presentati come i bisogni delle persone. A dire il vero, finora almeno, i fatti mi hanno dato ragione dato che tutte le volte che ho sospeso il giudizio su di un bisogno che mi si presentava di fronte e ho scavato un poco per vedere se vi fosse davvero un fondamento solido ho sempre trovato un terreno friabile. Detto altrimenti, ciò che mi veniva rifilato come il “vero” bisogno in questa o quella situazione in realtà era soltanto la formulazione sbrigativa e, spesso, di comodo di qualcuno che poco interesse aveva nell’avviare un processo di discussione e di problematizzazione. Definire quali siano i reali bisogni degli altri infatti è uno straordinario esercizio di potere in quanto gli uomini e le donne sono costituiti dai bisogni che esprimono, nel senso che si modellano sulla base dei bisogni formulati e sulla ricerca della loro soddisfazione. Per questo i designer dei bisogni, nell’indicare ciò di cui le persone necessitano, in realtà le progettano – spesso con l’intenzione di favorire gli interessi e gli scopi di pochi. Nel seguito propongo alla riflessione alcuni casi di presunti bisogni che però, alla luce di un cambio di prospettiva o di una presa di distanza, mostrano tutta la propria parzialità se non falsità. Va da sé che facendo questo esercizio di “smontaggio” del bisogno presentato a mia volta indico un altro bisogno, a mio giudizio più vicino al vero o, quanto meno, più distante da semplificazioni di comodo. Ma quel che va acquisito non sono tanto le conclusioni a cui arrivo quanto il movimento che l’esercizio del dubbio attiva; di conseguenza anche le mie riformulazioni del bisogno devono sopportare il medesimo esame critico. Solo così avrò ottenuto il mio vero scopo. I casi che propongo di seguito sono cinque e anche se avrebbero potuto essere molti di più mi sembrano comunque sufficienti, anche per non abusare della pazienza del lettore. Riguardano i temi della casa, della sicurezza, dei servizi, della formazione e della salute, tutti ambiti in cui viene dato come scontato il vero bisogno da soddisfare, sempre le cose non si guardino con un po’ di sospetto.

1 Capitolo tratto dal saggio di Emilio Vergani bisogni sospetti. Maggioli 2010.

Alloggiare o abitare?

Il bisogno di disporre di una casa è tra i più immediati e diffusi: chiunque voglia perseguire un minimo progetto di vita, almeno in occidente, deve poter fare conto su una casa, anche se piccola, disagiata o periferica. Questa impellenza generale viene però comunemente presentata come un problema volumetrico ed edilizio che a sua volta porta a due ovvie soluzioni: costruire e vendere nuovi edifici per fornire gli alloggi a chi ne faccia richiesta (volendo spesso diventarne il proprietario) e, grazie a questo, fare crescere l’economia legata al mattone e così sostenere i profitti di chi investe e i guadagni di chi lavora (non è un caso che la figura imprenditoriale emergente nell’Italia del anni 2000 sia proprio l’immobiliarista). Ora, quel che possiamo legittimamente problematizzare è la sostituzione della richiesta di poter disporre di un luogo abitativo con il bisogno di comprare e possedere (e, prima ancora, di costruire) una casa. Non si tratta tanto di discutere presunte politiche abitative quanto di sospendere, per così dire, il giudizio e valutare se l’equazione “luogo abitativo” uguale “costruzione e acquisto di un alloggio” sia corretta o se invece non vi sia qualche implicito di troppo. Tanto per cominciare domandiamoci chi si occupa di promuovere a livello pubblico la liceità di questa equazione. Da un lato certamente i costruttori e gli immobiliaristi, coloro cioè che traducono in oggetto di mercato una impellenza diffusa come quella abitativa. Dall’altro troviamo gli architetti e gli urbanisti, vale a dire di coloro che ritengono di possedere la verità sulla città e sulla forma migliore dei suoi luoghi. L’alleanza di queste due forze (economica e tecnica) impone a livello pubblico la forma che deve assumere il bisogno riguardante il tema abitativo. Forse non è superfluo ricordare al lettore che nel momento in cui scrivo – estate 2009 - è in via di approvazione un nuovo “piano casa” voluto dal governo in carica il quale, per come è stato pensato, permetterà una deregulation edilizia che abbatterà una nuova ondata di cemento sull’Italia, ondata che secondo l’Istat in un paese come il nostro “non può essere considerata in nessun caso un fenomeno sostenibile”2. Si tratterebbe in buona sostanza di estendere la controriforma urbanistica già avviata nella città di Milano e basata sul principio dell’edilizia contrattata direttamente dai privati, a totale svantaggio del principio di governo pubblico del territorio. Un punto centrale nella rappresentazione fornita da tecnici e imprenditori del settore è quello secondo il

2 Cit. in Paolo Boldani, una cascata di cemento. L’espresso, 6 agosto 2009, p. 30

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quale, poiché le città crescono in numero di abitanti (oramai contengono la maggior parte dell’umanità), occorrerebbero sempre nuovi edifici e nuovi proprietari di case. Ma le persone hanno davvero bisogno di un investimento che le vedrà impegnate per tutta la vita a pagare il debito contratto per l’acquisto di una casa? E prima ancora: le persone hanno bisogno di alloggi o di luoghi dove abitare, vale a dire luoghi dove socializzare, studiare, amare, lavorare e riposarsi siano attività umane dotate di un senso?3 Il concetto di abitare infatti ha a che fare con la qualità della vita e non con il contenitore della stessa (quello che appunto è l’alloggio). Il che non significa che le persone possano fare a meno degli appartamenti. Significa che ad un’idea edilizia di città le persone potrebbero voler sostituire un’idea relazionale di città, ossia una città che dispone sì di luoghi sicuri ma anche di luoghi ambivalenti dove sperimentare nuove esperienze, di spazi per socializzare nei modi che si crede migliori e non solamente per acquistare, di occasioni per poter attribuire significati e forme autonome alle piazze come alle strade senza una pianificazione tutta decisa dall’alto4. Colin Ward, esponente di spicco del pensiero libertario, ha scritto anni fa un libro intitolato “il bambino e la città”5, in cui rilegge tutta la città e il suo funzionamento dal punto di vista dell’infanzia, mostrando così le contraddizioni dell’urbanizzazione pensata solo per gli adulti e dagli adulti. Ecco come l’infanzia ci aiuta a decentrare il nostro modo di guardare e ci fa comprendere come i bambini non hanno soltanto bisogno di una casa ma di un’intera città in cui fare esperienze, esprimersi, muoversi sicuri, apprendere e, perché no?, anche sbagliare. Questa idea della città come luogo delle relazioni e delle esperienze mostra quanto sia superato il pensiero dominante secondo il quale sono gli urbanisti – con gli architetti – gli unici titolati a poter formulare progetti e interventi di un qualche valore. È’ il consueto meccanismo che delega ai tecnici la soluzione di problemi che sono di tutti – e per questo possono definirsi problemi sociali – e che in questo caso porta a pensare che organizzando adeguatamente gli spazi e gli edifici si possa cambiare in meglio la vita delle

3 Per un ragionamento utilissimo in tema di città e luoghi dell’abitare, oltre che per una critica originale e fondata nei confronti dell’architettura come disciplina oramai desueta, si veda F. La Cecla. Contro l’architettura. Bollati Boringhieri, 2008.

4 Si veda su questo, Marianella Scavi. Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, Eleuthera, 2002. Ma per una idea della città come luogo dell’esperienza si veda senz’altro W. Benjamin. Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, 1986

5 C. Ward. Il bambino e la città. L’ancora del Mediterraneo, 2000

persone. Un esempio drammatico ma decisivo ci viene ancora oggi dalle periferie, luoghi progettati da famosi esperti del settore che, convinti di interpretare il miglior spirito razionalista e illuminato, hanno costruito delle mostruose discariche umane. Come se la rivolta delle banlieue parigine o di Los Angeles (dove la periferia è nel centro della metropoli) possano essere ricondotte a bisogni diciamo urbanistici e architettonici6.

Luoghi sicuri

Palermo è una grande città del sud Italia che va senz’altro conosciuta, oltre che per il singolare stile di vita dei suoi abitanti, per la quantità di tesori straordinari dell’arte e della cultura di ogni tempo che custodisce. Nel cuore di Palermo, a pochi passi dal centralissimo teatro Politeama, si trova villa Malfitano, una palazzina tardo ottocentesca che mantiene intatto il suo prezioso arredo ed è circondata da un bellissimo giardino, un vero orto botanico, di circa cinque ettari. La villa, che fu voluta da Giuseppe Whitaker – un imprenditore discendente da una famiglia inglese stabilitosi in Sicilia – oggi è gestita dalla fondazione omonima. La villa è una struttura museale mentre il giardino è accessibile solo il venerdì e il sabato mattina dalle 9 alle 12. Qui il bisogno sembrerebbe in primo luogo la salvaguardia della struttura e della sua bellezza. Ma se allarghiamo il campo, come accade al cinema, e guadagniamo una visione più ampia allora capiamo che la situazione è un po’ diversa, ed è più o meno questa: nel centro di una città del sud popolata da quasi un milione di abitanti, in un quartiere dove non vi sono parchi pubblici per bambini né luoghi di riposo per anziani o spazi all’aperto per studiare o incontrarsi – e dove l’estate è davvero calda – si trovano un giardino meraviglioso, che però non è fruibile dagli abitanti del quartiere (gli orari sono ridicoli e lo spazio non è organizzato per la fruizione pubblica), e una villa da sogno che viene utilizzata dagli enti locali per i convegni. Ma non è ancora tutto. Nella primavera del 2009 le forze dell’ordine scoprono che all’interno del giardino viene custodito un vero e proprio arsenale (mitraglie, pistole, granate, proiettili) della mafia. Il custode viene arrestato in quanto considerato uno dei criminali a capo della riorganizzazione di Cosa nostra. Gli abitanti del quartiere, non avendo mai considerato di avere qualche diritto sulla villa e il giardino, non

6 Su queste tematiche Casabella, rivista colta e intelligente, ha aperto una riflessione critica a partire dal social housing e dalla sua relazione con il welfare. Cfr. Casabella, n.774, febbraio 2009.

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hanno avuto nessuna reazione degna di nota. Questo fatto reale è, nel contempo, una perfetta metafora per comprendere quello che succede in tante nostre città e per spiegare l’origine di molta insicurezza sociale. Il tema della sicurezza è certamente un bisogno che accoglie e porta a sintesi molte richieste sociali che provengono da tutti i ceti. Di certo occorrono luoghi in cui una donna non rischi di subire un’orribile violenza, un anziano non debba temere una coltellata o uno scippo e così via. Il punto sta nell’origine dell’insicurezza dei luoghi, problema che a seconda di come viene impostato porta a differenti soluzioni. Al momento la risposta più sbandierata dalla politica in tema di sicurezza sono le ronde di volontari che dovrebbero vigilare su strade e spazi pubblici. Ma questo tipo di soluzione (al netto del suo valore mediatico utile ai fini dell’addomesticamento delle coscienze) deriva dalla impostazione che si dà al problema e che in sintesi imputa la crescita dell’insicurezza all’incremento dei migranti e allo scarso controllo militare del territorio, oltre che all’incertezza della pena per chi viola la legge. La lezione appresa dal caso – vero – di villa Malfitano mi permette di avanzare qualche dubbio sull’adeguata interpretazione del bisogno di sicurezza data dalla politica e sulla conseguente forma di soddisfazione del bisogno stesso. Quel che capisco è che se i luoghi vengono progressivamente resi inabitabili o se vengono abbandonati non si crea nessuna forma di cura sociale dei territori e in questo modo la mala pianta della violenza e dell’illegalità mette radici. Nessuno oggi pensa che le strade siano luoghi in cui stare, vivere, conoscere e conoscersi. La mobilità (e la relativa protezione) offerta dalle automobili che ci fa muovere da un posto all’altro trasforma la città in una collezione di luoghi inabitati e quindi inabitabili. Le stazioni, le piazze, le spiagge, i centri commerciali sono tutti luoghi di transito, hanno solo un valore strumentale e null’altro. Ma se i luoghi non si abitano, se le persone non ci stanno e non trovano la maniera di inventarvi modi di vivere, di socializzare – modi ambivalenti quanto si vuole ma pur sempre vitali – allora i luoghi diventano o strutture museali oppure, nel peggiore dei casi, “discariche sociali”. Non è un caso che la violenza maggiore si consumi proprio nel chiuso delle case, magari della provincia opulenta; è proprio lì infatti il luogo in cui si svolge oggi per la maggior parte la vita (privata) delle persone. Va da sé che la stessa violenza ambientale è frutto della medesima “privatizzazione” della vita e della conseguente erosione della dimensione pubblica, vale a dire di tutti, del vivere. Ed è per questo che la politica lavora senza disturbo alla distruzione di tutto ciò che è pubblico (nonostante i

proclami retorici) a vantaggio di un privato sempre più asfittico, impaurito, perverso. Mi pare corretto riaffermare quindi che il bisogno di sicurezza urbana, che non è certo un’astrazione, occorre “costruirlo” secondo una prospettiva che vada oltre i fatti di cronaca per collocarlo in una cornice attenta a variabili spesso non considerate. Ma si tratta di un’attenzione che spetta anzitutto ai diretti interessati, vale a dire i cittadini, i quali devono resistere agli effetti perversi indotti delle armi di distrazione di massa e rendersi conto che per rendere sicuri i luoghi occorre prima di tutto abitarli.

Bambini in lista d’attesa

Vediamo un esempio di bisogno costruito in questo caso dall’istituzione e relativo al tema dei servizi alla prima infanzia. Si tratta di un esempio straordinariamente indicativo di quella che si può definire “rappresentazione istituzionale del bisogno” ma che può estendersi a moltissimi altri casi. L’esemplificazione viene riportata come esperienza di ricerca in un libro di Luca Fazzi dedicato alle politiche sociali7; il caso si riferisce a un’esperienza di riformulazione delle politiche familiari realizzata in un comune del centro Italia. Il contesto quindi è dato dal processo di costruzione del piano di politica familiare voluto del comune. Tra le varie sollecitazioni che provenivano dai servizi dello staff responsabile della stesura del piano, Fazzi segnala quella della valutazione dell’adeguatezza dei servizi di asilo nido ai bisogni delle famiglie. «La decisione di riflettere sui bisogni di sostegno alle famiglie era stata presa inizialmente sulla base dell’ipotesi che vedeva la lista di attesa degli asili nido come un sintomo esplicito di una domanda insoddisfatta di servizi di supporto alla famiglia con figli in età 0-3 anni. Il presupposto era che per sostenere le funzioni di famiglie con figli in età infantile la soluzione fosse da ricercare nell’organizzazione dei servizi di asili nido. […] Questo approccio si può definire istituzionale, perché si basa su un’analisi incentrata sulle categorie di bisogno e risposta esistenti. L’approccio istituzionale può essere considerato funzionale agli obiettivi di costruzione del piano sociale se non sussistono segnali o indizi che inducono ad innalzare il livello di attenzione nei confronti del fenomeno sociale». Ecco quel che in sintesi accade: da un lato si ha un numero di bambini in lista d’attesa e dall’altro un numero insufficiente di posti nei nidi per dare il servizio

7 Luca Fazzi. Costruire politiche sociali, Milano, Franco Angeli 2003

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a tutte le famiglie che lo richiedono. La strutturazione del bisogno da parte dell’istituzione è immediata, occorrono nuovi asili, dato che la lista d’attesa lo segnala inequivocabilmente8.Fazzi e il suo gruppo di lavoro invece sospendono il giudizio e provano a problematizzare questa categorizzazione del bisogno e lo fanno perché «in questa prospettiva, il numero dei bambini in lista d’attesa era considerato esprimere la domanda di un certo tipo di servizio, non il bisogno di sostegno delle famiglie alle proprie funzioni di cura». Così il gruppo di lavoro dà avvio ad una ricerca sul campo per capire se le diverse istanze espresse dalle famiglie possono ricondursi al bisogno di un servizio di asilo nido o se invece dietro non vi sia dell’altro. «Furono organizzate, in collaborazione con i Consigli di circoscrizione cittadini, assemblee pubbliche alle quali erano invitati tutti i cittadini residenti. I livelli di partecipazione erano risultati molto elevati, con tassi di presenza nelle singole assemblee superiori a duecento persone. Dall’analisi dei dati si deduceva chiaramente che le esigenze ed i problemi delle famiglie con figli in età infantile eccedevano ampiamente i bisogni dei servizi di nido. Scorrendo la lista di problemi ed esigenze prodotta dai gruppi di cittadini, il bisogno di asili nido risultava nettamente meno significativo rispetto ad esigenze che solo marginalmente venivano raffigurate come tali nelle rappresentazioni istituzionalizzate dei servizi. Le richieste più frequenti avanzate dai gruppi di lavoro erano relative alla messa a disposizione di spazi di incontro tra genitori, per poter parlare dei problemi dei propri figli, ad una maggiore vigilanza dei punti di incontro e svago pubblici (parchi, giardini ecc), all’attivazione di servizi Tagesmutter, alla possibilità di usufruire di trasporti pubblici con percorsi ed orari più adatti alle esigenze delle famiglie»9.Se il lavoro di ascolto e di ricerca non fosse stato svolto, tutta la ricchezza dei bisogni legittimamente espressi dalla cittadinanza di sarebbe perduta nella semplificazione istituzionale. Purtroppo è questo il modo comune di lavorare negli enti pubblici ed è totalmente legittimato dalle comunità di cittadini che invece avrebbero tutto il diritto – e il vantaggio – di farsi ascoltare. Si può aggiungere che non servono soltanto più servizi educativi ma soprattutto maggiore educazione nella progettazione dei servizi.

8 Non è difficile osservare come questo schema di pensiero agisca in moltissimi altri ambiti; si pensi ad esempio al caso del sovraffollamento nelle carceri e al “rimedio” proposto di costruire nuovi istituti di pena.

9 op. cit. pp. 54-56

Bisogni formativi

Fra i tanti bisogni che vengono trattati all’interno delle organizzazioni i più citati sono senza dubbio i bisogni formativi, detti comunemente fabbisogni. Anche in questo caso possiamo cercare di problematizzare la rappresentazione più ovvia e ricorrente che viene data del bisogno formativo e tentare di guadagnare una prospettiva più ampia e, forse, meno ingenua.

Quando parlo di organizzazioni mi riferisco, in questo paragrafo, alle imprese come alle amministrazioni, ai servizi come alle cooperative; a tutti quei luoghi insomma dove si esplicano attività produttive e quindi lavorative. In tutte queste organizzazioni si realizzano, periodicamente, delle attività formative mirate a potenziare la professionalità di chi vi lavora allo scopo di migliorare l’efficienza e l’efficacia complessive. Ora, il processo formativo vede al primo posto, di solito, la raccolta dei cosiddetti fabbisogni formativi; si tratta di un tipo di ricerca che, pur avvenendo con metodi differenti, in generale prevede di conoscere il contesto lavorativo (produttivo e relazionale), di valutarne l’adeguatezza, di conoscere le esigenze del personale e gli obiettivi del management e, alla fine, di formulare la tavola dei bisogni formativi sui quali, in un secondo tempo, interverrà del personale specializzato – i formatori – per costruire un setting adatto alla riflessione e al trasferimento delle competenze richieste. Fatto salvo il caso in cui non si tratti di addestramento puro – l’uso di una macchina, la conoscenza di una tecnica, la preparazione ad una prova – la formazione oggi si concentra sulla conoscenza e sul significato di ciò che viene già svolto, sulle pratiche in uso e sul contesto in cui queste pratiche si esplicano, sul rapporto tra colleghi e dirigenti e così via. Le stesse logiche di azione formativa – almeno nell’ambito aziendale – poggiamo oggi su indirizzi che vanno dalla psicosociologia all’analisi antropologica e culturale.

Ora, senza addentrarmi troppo nell’analisi di un tema estremamente complesso come quello della formazione, ciò che vorrei segnalare qui è un fenomeno che non sempre viene osservato o che comunque non viene chiaramente identificato nei suoi contorni principali, soprattutto dagli esperti della formazione – i quali, peraltro, non hanno alcun interesse a farlo. Spesso, troppo spesso direi, il bisogno formativo altro non è che lo spezzettamento, la neutralizzazione e, alla fine, l’occultamento di una profonda crisi che investe

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l’intera l’organizzazione e che può a buon diritto indicarsi come crisi di senso dell’organizzazione. Non sto sostenendo che i problemi organizzativi non possano essere affrontati in sede formativa; sto dicendo che se il nodo è dato da una crisi di senso dell’organizzazione, questa travolge la stessa attività formativa come modo di intervento, migliorativo o riflessivo che sia.

Non sarà inutile proporre qualche esempio di quella che ho definito crisi di senso di un’organizzazione e che si riferisce al venir meno del senso di un’organizzazione quando il mondo in cui questa è inserita cambia a tal punto da renderla un dispositivo insensato. Il fenomeno, per semplificare, è simile a quello che è accaduto alle cabine telefoniche dopo il travolgente successo dei telefoni mobili.

Un primo esempio lo forniscono i Ser.t., servizi per le tossicodipendenze istituiti con la legge 162 del ’90. Si tratta di un servizio pubblico del sistema sanitario nazionale dedicato alla prevenzione, alla diagnosi e alla cura delle tossicodipendenze (droghe e alcool). L’organico prevede il medico, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere nonché l’educatore professionale e di comunità. Il ser.t dunque è un servizio strutturato prevalentemente in senso sanitario e fortemente istituzionalizzato nel suo funzionamento. Dov’è quindi il problema? Nel mutamento radicale che ha subito negli ultimi dieci anni il mondo della tossicodipendenza. I consumatori di droghe oggi sono sempre meno soggetti esclusi socialmente, al contrario sono perfettamente inseriti, spesso con un lavoro, una famiglia ecc; il consumo – che si avvale di un meccanismo analogo alla grande distribuzione di merci, con prezzi accessibilissimi - avviene la sera, oppure durante raves o feste o persino sul posto di lavoro10. Inoltre, si è imposto il consumo di droghe performative (cocaina e sintetiche) a fronte di una significativa diminuzione di quelle sedative (come ad esempio l’eroina) e, differenza non da poco, la droga viene consumata sempre più in pasticche o polvere, evitando così quelle forme di contagio che portarono, tra l’altro, all’assillo dell’HIV. Peraltro, il consumo di droghe oggi – come molti altri aspetti del vivere sociale – è molto legato a ciò che rappresenta in termini di tendenza e di moda11.

10 Anche il doping nello sport è una forma di dipendenza, forse consapevole, che mostra come il fenomeno del consumo si sia molto diversificato.

11 L’osservatorio di Bru xelles sulle droghe segnala come “l’Ita-

E’ evidente che un servizio, nato su altre basi, farà di tutto per aggiornare il proprio personale, per migliorare il lavoro d’équipe, per rendersi più accessibile, investendo quindi molto sulla formazione. Ma rimane il fatto che è il sistema organizzativo del ser.t. a non poter rispondere in forma adeguata ai reali bisogni (sanitari, informativi, d’aiuto, culturali) di chi oggi consuma sostanze con forme di dipendenza e ferite dell’esistenza quantomeno differenti dai tossicodipendenti degli anni ’70 e ’80.

Un secondo esempio lo troviamo in tutt’altro settore, ossia nella vicenda delle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni; si tratta invero di una storia tutta da scrivere e che porterebbe alla luce molti aspetti significativi del cammino italiano dentro la modernità e le sue contraddizioni12.

La storia inizia nel 1906 quanto Giorgio Enrico Falck, nipote di Georges Henri, fondò la Società Anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde e spostò l’attività imprenditoriale a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano; qui si realizza il primo stabilimento (chiamato Unione e che rimarrà sempre il più grande del complesso con tre treni di laminazione e un numero di occupati che nel 1948 raggiunge le 5.000 unità) dove nel 1908 inizia a funzionare un forno Martin-Siemens. Tra il 1917 e il 1924 sorgono altri tre stabilimenti, il Concordia dove si laminano a caldo e a freddo blumi, vergelle e lamiere dell’Unione; il Vittoria destinato alla laminazione e il Vulcano dove si producono ghisa e ferroleghe ai forni elettrici. Fino al 1943 la società ha uno sviluppo costante, ma da quell’anno si manifestano alcuni sintomi di

lia sia fra i cinque paesi che consumano più cocaina in Eu ropa, insieme alla Spagna, la Gran Bretagna, la Danimarca, l’Irlanda. […] Per capire meglio: […]non c’è pa ragone fra la cocaina che si con suma a Milano e a Londra. Mi lano stravince. Le analisi le hanno fatte al l’Istituto Mario Negri di Mila no, analizzando le acque reflue delle città (oltre Milano e Lon dra anche Lugano e altre quat­tro città italiane). I risultati li spiega Silvio Garattini, respon sabile della ricerca: «Abbiamo calcolato che a Milano si consu mano ogni giorno una media di 9,1 dosi di cocaina per mille abitanti, contro le 6,9 di Lon dra […]. Siamo rimasti dav vero sorpresi. Non ce lo aspet tavamo». Milano sorprende e spiazza. Sempre. E non è un caso che la Lombardia guida (dati Cnr) la classifica delle regioni che con sumano più cocaina: 3,4% del le persone fra i 15 e i 64 anni, seguita dal 3,2% del Lazio, 3% del Piemonte, 2,6% della Ligu ria. Non è un caso che proprio qui sia nato il primo centro di recupero dedicato e mirato al la cocaina. Una comunità mista fra pub blico e privato sociale […]”. Alessandra Arachi, Corriere della Sera, 9 novembre 2009.

12 Notizie sulla Falck si trovano nel sito www.falck.it, altre informazioni relative alla produzione si trovano invece nel sito www.mdlsestosg.it/citta/industria/falck.htm .

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crisi causati dall’arretratezza degli impianti e dalla difficoltà di reperire materie prime. In ogni caso, dopo la II Guerra Mondiale, la rinascita sostenuta dal Piano Marshall, permette alla Falck, ormai alla quarta generazione di imprenditori, di avviare una nuova stagione di crescita. Alla fine degli anni Quaranta negli stabilimenti del Gruppo Falck (nove, di cui quattro a Sesto San Giovanni) lavorano 15.000 persone (9.000 a Sesto provenienti soprattutto dalle Prealpi lombarde e da altre zone a vocazione siderurgica: Genova, Piombino, l’area di San Giovanni Valdarno). Nel 1963 l’impresa viene quotata alla Borsa di Milano e nel 1971, Falck diventa il maggiore produttore siderurgico privato in Italia. Fino all’inizio degli anni Settanta la società continua a produrre tra l’altro ghise normali e speciali, acciaio, tubi saldati e non, bulloneria. Le crisi della siderurgia mondiale nel 1971, e petrolifera nel 1974, creano però serie difficoltà alla Falck che nel 1976 chiude lo stabilimento Vulcano. Da allora la crisi ha investito lentamente tutto il gruppo: nel 1980 gli occupati erano ancora 11.400, ma nel 1986 si riducono a 4.800 unità. I forni della Falck si spengono definitivamente nel 1995. Oggi la produzione di energia da fonti rinnovabili è divenuta l’attività principale del Gruppo mentre le aree dismesse di Sesto sono state riprogettate da Renzo Piano con l’intento di fare, nella città che fu delle fabbriche, una fabbrica delle idee.

Questa storia, dimenticata troppo in fretta, esibisce benissimo che cosa ha significato, in questo caso, crisi di senso per una gigantesca organizzazione che ha inciso sulla vita di migliaia di famiglie (compresa quella di chi scrive) e che ha dovuto chiudere e cambiare completamente tutto per poter riacquistare un senso (facendo pagare a molti un prezzo altissimo in quanto le chiusure dei grandi stabilimenti non sono mai indolori né facili esiti da digerire per chi vi lavora, nonostante la durezza e la fatica profusavi). E’ evidente che le competenze delle maestranze, forse molto più preziose di quelle del management, sono state dissipate ma è altrettanto evidente che a far fronte a un cambio radicale di scenario non poteva essere di certo l’attività formativa che riprogetta sistemi produttivi, saperi o modi di lavorare in squadra.

Questi due casi li ho voluti ricordare proprio per mostrare come le organizzazioni, a seguito dei cambiamenti sociali e storici che si trovano a vivere, alle volte perdano di senso (senza disconoscere che ciò accade forse anche perché hanno assolto il compito

per cui sono nate), e la scelta di mettere insieme le conseguenze della fine del fordismo (la chiusura della grande fabbrica) con l’inefficacia di servizi nati (probabilmente a loro stessa insaputa) seguendo logiche non distanti da quelle fordiste (come i ser.t) mi fornisce un effetto di campo su vasta parte del mondo delle organizzazioni italiane di oggi e mi convince ancora di più del fatto che troppo spesso le difficoltà, i ritardi, i fallimenti che si registrano nel mondo del lavoro non siano da imputare al mancato investimento nella formazione quanto all’assenza di visione delle classi dirigenti – assenza che, beninteso, non si colma con un percorso formativo ma a seguito di un iter intellettuale ed umano autentico e non standardizzato che un tempo veniva raccontato dalla letteratura (di formazione).

Il virus dell’indifferenza

L’ultimo caso che vorrei discutere riguarda il mondo della salute e in particolare il tema del virus HIV. Nel 1996 la ricerca metteva a punto una cura, gli inibitori della proteasi, che finalmente restituiva timide speranze di vita alle persone malate di Aids. Fino a quel momento però cure efficaci non ve n’erano state e le persone a cui veniva diagnosticata l’infezione entravano in un tunnel senza speranza. Per la medicina il bisogno principale era ovviamente la guarigione (o, in alternativa, la cronicizzazione della malattia senza arrivare alla morte della persona). Anche in questo caso però la problematizzazione del bisogno codificato dal mondo medico non risulterà inutile. La base per la presa di distanza dalla codificazione immediata del bisogno la troviamo in un’esperienza tanto straordinaria quanto reale che viene dal mondo dell’associazionismo attivo. Un gruppo di persone calabresi impegnate fin dall’inizio degli anni ’90 nel sostegno ai malati di Aids – sostegno espresso anche, ma non solo, mediante battaglie civili per i diritti dei malati, con tanto di occupazione pacifica ma determinata dei reparti di malattie infettive – costruisce per la prima volta un dispositivo che dà voce proprio ai malati e agli infettati dal virus. Il metodo è quello messo a punto da Don Milani nella celebre lettera a una professoressa, vale a dire un lavoro di collage ragionato di tanti pensieri, emozioni, vissuti scritti su pezzi di carta dai malati e trasformati poi in forma di missiva al mondo medico. Qui, come si vedrà, le richieste molteplici riportare nella lettera

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danno forma non tanto ad un bisogno di guarigione quanto ad un bisogno di riconoscimento e quindi di relazione umana, esprimendo nel contempo un critica serrata allo stile professionale agito dai medici. La lettera è dunque il documento straordinario e vero della sofferenza e della speranza di tante persone e per questo è d’obbligo riportarlo per intero. Chiunque può trarre da sé le conclusioni che ritiene opportune e valutare l’attualità, ancora oggi, della lettera (datata 1997), vista la crescente disumanizzazione del mondo della medicina in atto nel nostro paese e non solo.

«Caro Medico, vogliamo parlarti delle difficoltà che incontriamo ogni volta che, io sieropositivo e io sieropositiva, ti chiediamo consulenza, chiarimenti, interventi, e di come e quanto questo ci mortifichi considerato che tu, per professione, dovresti essere dalla nostra parte. Riconosciamo che il tuo lavoro è indispensabile per noi, è uno dei pochi aiuti che riceviamo eppure non ci sentiamo rispettate come persone quando ti incontriamo e, in alcuni casi, abbiamo anche dei dubbi sulla tua preparazione, sulla tua cultura riguardo alla nostra malattia. Talvolta ci sentiamo usati, uno strumento attraverso il quale ottenere chissà quali vantaggi e guadagni. In alcuni casi ci sembri anche condizionato dalla tua appartenenza politica che con c’entra molto con la salute delle persone e, nel nostro caso, dell’Aids. Sarebbe bello incontrarsi innanzitutto come amici e non come sconosciuti: siamo un uomo e una donna, siamo persone non oggetti e abbiamo il diritto di conoscere la verità sulle nostre condizioni con tutta la delicatezza, il rispetto, l’attenzione, la discrezione che qualsiasi patologia richiede. Lo sappiamo bene: sul virus HIV non c’è nessun dato certo e definitivo ma questo non giustifica il fatto che ci sentiamo dire cose diverse a seconda del medico che incontriamo. Per noi sarebbe meglio se questa incertezza non si aggiungesse al già grave senso di precarietà e impotenza che la nostra sieropositività ci causa. Senso di precarietà e impotenza che avvertiamo in ogni istante, che crescono con il passare dei giorni e ci fanno tanto paura. Non riusciamo a trovare fiducia né pace ma avvertirti e vederti più disponibile potrebbe non farci sentire delle nullità, potrebbe darci speranza. Almeno ascoltaci. Ti chiediamo molto?Tu hai paura come noi della nostra malattia e te lo leggiamo negli occhi che tutto dovrebbero trasmettere

tranne che questo; non cercare di nasconderla la tua paura, non serve. Noi la vediamo, è uguale alla nostra e questo dovrebbe farti avvicinare a noi, dovrebbe farti essere capace di maggiore umanità e umiltà nei confronti di chi, a differenza di te, questa malattia se la porta nel sangue. Non siamo cavie e, oltre ai farmaci, abbiamo bisogno di calore umano e non di indifferenza, freddezza e distacco. Vorremmo sentirci dire ”come stai?” con sincerità e non come una domanda di rito e perciò fatta in fretta e con disinteresse. Desidereremmo avere più informazioni e spiegazioni possibili sull’esito delle nostre analisi e cui periodicamente dobbiamo sottoporci e sentirti parlare chiaro senza dover cogliere il tentativo di nascondere la verità per pietismo oppure sentirti urlarla ai quattro venti quando ti incontriamo in reparto. Ti sei mai fermato a pensare cosa possiamo provare noi? Come ci sentiamo e come viviamo la malattia? Non credi ci faccia male il solo fatto di essere “costretti” a venire in ospedale e scorgere gli sguardi sospetti, curiosi e impauriti? Cosa pensi si possa provare a sentirsi schivato dagli altri? Hai mai pensato alla nostra fatica di andare avanti giorno dopo giorno? Pensiamo proprio di no, tu non vivi il dramma della sieropositività. Se solo capissi cosa significa per noi, ci comunicheresti con più garbo il nostro stato di salute e useresti termini più comprensibili senza trincerarti dietro il tecnicismo della terminologia medica. Ti chiediamo di essere più umano e di imparare a rispettare i nostri sentimenti, riconoscerci la dignità di persona perché, come tutti i malati, siamo prima di tutto persone. Abbattiamo il muro che c’è tra noi e te. Io sieropositivo e io sieropositiva, siamo disposti a dare il nostro contributo per farlo visto che sono in gioco le nostre vite e le nostre sofferenze fatte anche di discriminazione, emarginazione e segregazione a cui siamo costantemente costretti. Insieme possiamo farcela e così potremo anche sperare in un futuro migliore. Cos,ì quanto ti incontreremo, non ci tremeranno più le gambe per la paura di sentirti dire che abbiamo i giorni contati e, stringendoti la mano, non sentiremo più sfuggire la vita. Pensando di essere sempre e ancora in lista d’attesa ti salutiamo e ti auguriamo buon lavoro»13.

13 Cit. in M. Galati, A, Samà, E. Vergani (A cura di), Rapporto di fiducia. Rubbettino, 2002, pp. 29-32

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Senza visione14

Riflessione tascabile sul vivere pratico

Emilio Vergani

Ad Ambra, “i lampi nta l’occhi:

chissi non ni ponnu rubari”(I. Buttitta)

Un sentimento diffuso

Da anni lavoro come formatore per i dirigenti e i quadri della PA e del terzo settore e devo dire che si tratta di un punto di osservazione altamente privilegiato in quanto permette di conoscere aspetti del vivere che altrimenti, nel fluire della prassi e nella fretta del quotidiano, verrebbero trascurati o comunque passati in secondo piano. Di cose in formazione (così come nella consulenza organizzativa) se ne colgono parecchie ma una fra tutte ritorna con continuità in questi anni e riguarda, per dirla in breve, il tema della visione o meglio dell’assenza di visione. Se da un lato si tratta di un tema facilmente intuibile, dall’altro nasconde asperità e profondità poco indagate. Infatti questa parola, “visione”, è usata - come spesso accade per altri termini - più come un “modo di dire”, una comoda via di uscita da un groviglio concettuale e pragmatico, mentre se ne sa poco o pochissimo. Così mi sono trovato infinite volte a sentirmi dire che “sì è vero, quel che manca è la visione” senza però riuscire ad andare oltre questa formula per fare qualche passo in avanti. E non basta certo dire che la visione è ciò “verso cui” vogliamo andare, il mondo che verrà. Così abbiamo solo detto qualcosa sul futuro che vogliamo – anche se è già qualcosa, perché riporta nel tempo un télos, una direzione che è ispirata ad una progettualità. Ma forse questo non è tutto.Ad ogni modo, qualunque cosa possa indicare o significare il termine visione, la sua assenza pare connoti in generale la vita pubblica, quantomeno nel nostro paese; se si osserva il modo di presentarsi, di prendere decisioni, di agire di moltissime organizzazioni come ad esempio i partiti, i sindacati, le imprese, i ministeri, le università e così via, non si tarda ad arrivare alla medesima conclusione, vale a dire la mancanza di una visione che ne guidi il funzionamento, segnandone così il rango.

14 Articolo pubblicato sul n° 6 della rivista Sottotraccia. Saperi e percorsi sociali. Navarra editore, gennaio-giugno 2010.

Astuzie del vivere?Ora, può anche darsi che la mancanza di visione sia il modo migliore, il più adatto per stare nel mondo liquido di cui parla Bauman, vale a dire un paesaggio sempre più simile a quello dipinto da Salvador Dalì, nel quale gli orologi che si adagiano come formaggi molli non scandiscono più il fluire del tempo giacché quest’ultimo ha lasciato il posto ad un desolante eterno presente, nel quale ogni forma si scioglie, come sfinita. Può anche darsi che la mancanza di visione corrisponda alla chiamata di quel “pensiero debole” che lungi dal voler dominare con l’arroganza logocentrica e illuministica la storia e il suo corso, si limita a lasciar essere le cose, esprimendo soltanto delle vaghe interpretazioni – scevre però da qualsiasi principio di verificazione. Può anche darsi che la mancanza di visione sia l’unica opzione possibile per non scatenare guerre di religione, conflitti sociali, scontri generazionali, lasciando a ciascuno la possibilità di trovare una propria collocazione nell’orizzonte del relativismo valoriale o nel politeismo del ventunesimo secolo.Può darsi. Ma io penso che valga comunque la pena conoscere quali siano i reali condizionamenti e le reali possibilità che conseguono ad una vita senza visione. Non sono affatto convinto infatti che l’assenza di visione sia un buon modo di stare al mondo e sono invece abbastanza certo che questa assenza – o perdita - derivi in buona sostanza da una deprivazione di forza – la quale è inversamente proporzionale alla violenza – del pensiero, dell’immaginazione e della volontà. Deprivazione che nasce all’interno di quel fenomeno che Ernesto De Martino ha chiamato “apocalisse culturale” e che genera crisi della presenza del sé, espulsione dal corso della storia e da qualsiasi orizzonte di senso. Ma conoscere, o per lo meno iniziare a conoscere, le conseguenze di una vita senza visione – conseguenze per i singoli ma soprattutto per gli aggregati sociali progettati per conseguire scopi, vale a dire le organizzazioni – non può avvenire senza che prima non si sia fatta un poco di chiarezza su che cosa sia, su che si intenda per “visione”. Come ho già detto infatti, troppo spesso questa parola è diventata un mero modo di dire, come è accaduto ad altre parole quali ad esempio “filosofia” (per cui si può dire che vi è la filosofia di un’azienda o di un’associazione) o “paradigma” (per cui ci sono tanti paradigmi quanti sono i punti di vista) o ancora “bisogno” (laddove siamo invece in presenza di eterogenee istanze sociali

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che andrebbero ricomposte e orientate). Il parlare quotidiano è spesso prova dell’irresponsabile impiego che facciamo del linguaggio il quale, se è vero che è di tutti e tutti ne fanno l’uso che meglio credono, è anche un formidabile dispositivo di distrazione. Per non essere complici nell’uso irresponsabile del linguaggio proviamo allora ad esplicitare qualche elemento chiarificatore, al modo di un abbozzo.

Per distinzioneVisione vs idea - Cominciamo col dire che di visione non si parla a caso e in senso metaforico. In greco antico il termine idèa è connesso al vedere (ìdein), ossia con il cogliere l’immagine di un oggetto. Con ciò, il tema del vedere e la predominanza del senso della vista su altri (per esempio l’udito) ha una sua fondatezza; e tuttavia la visione non è riconducibile ad un’idea, dire visione non significa dire idea, non sono sinonimi. La visione rimanda a una linea d’orizzonte da raggiungere, ad un mondo a venire. Perciò la visione si colloca in una linea temporale e si fonda sull’incompletezza del presente. Se il presente fosse completo, e quindi perfetto, non vi sarebbe nessun divenire, mentre la visione lascia intendere che è proprio da essa che il presente riceve il suo senso in quanto ne è la destinazione possibile. Visione vs veduto. Com’è noto, il vedere ha come suo correlato un veduto. Ma questo non va confuso con la visione perché ogni atto del vedere è sempre orientato e se il veduto è un oggetto, la visione ne è l’esito intenzionale. Tutto questo lo si capisce subito con un semplice esempio. Che il veduto sia il quadrato a due colori che trovo sotto è subito chiaro; quale sia la visione che mi appare invece dipende dall’intenzionalità del mio sguardo (volti o anfora?).

Visione vs punto di vista – il punto di vista (sempre che possa esistere) è come un’opinione individuale, o un’irritazione personale, riguarda solo me – e quindi è poco interessante; la visione invece è lo sviluppo di una linea d’orizzonte entro cui si possono comporre infiniti sguardi. Visione vs utopia – ma allora la visione coincide con quel che abbiamo imparato a chiamare utopia? L’utopia

potremmo definirla una fantasia razionale, unendo due termini tra loro in apparente contrapposizione e creando così un ossimoro. Storicamente15, ogni utopia si è sempre raffigurata come un progetto compiuto (di stato, di città, di società), già deciso fin nei suoi dettagli, con una razionalità spesso ferrea (quella del pensiero che l’ha generata), sebbene sviluppata – di solito da un solo individuo, pensatore, teologo, scrittore – sul piano della fantasia. Se così stanno le cose, la visione non è riconducibile a nessuna città ideale. Essa forza le maglie del presente per ampliare gli spazi di pensiero e d’esperienza ma lungi dall’essere un’immagine della totalità, allarga i confini del finito e del possibile.

Per esempioL’esempio più potente e moderno di visione a cui guardo spesso è rintracciabile nelle pagine di Giordano Bruno (1548-1600), in particolare in quelle dedicate all’infinità dei mondi. A partire dal rivolgimento operato da Copernico - il Sole e non la Terra è al centro dell’universo - Bruno arriva a concludere che la nozione stessa di “centro” dell’universo è del tutto inutile e che ciò ha un senso solo in uno spazio infinito. Vi saranno dunque infiniti mondi, abitati e no, e dunque non è sbagliato domandarsi in un universo siffatto che diritto abbiano gli abitanti della terra di ritenersi i detentori della vera religione. Con i suoi eroici furori Bruno inaugura una volta e per sempre l’orizzonte della modernità e lo fa senza lo sviluppo di algoritmi o atti di fede, ma con la forza di una visione costruita sulla base di un pensiero che sa sviluppare in modo vertiginoso un principio. Ora, quel che conta qui non è tanto l’indubbio spessore filosofico dell’opera di Bruno quanto la forma con cui questa ci viene consegnata – quella appunto di una visione o addirittura di più visioni una dentro l’altra. Con il suo lavoro speculativo (pagato con il prezzo più alto, la vita) Bruno ci affida l’esempio di una visione altissima, composta di compito immaginativo coniugato ad una struttura che connette molteplici variabili e che ne dispone l’ordine e lo sviluppo, superando d’un balzo i limiti del presente. Immaginabilità e principio che connette: sono questi due tratti costitutivi della visione. Una principio che riesce a connettere tra loro le parti che conosciamo e le riconduce ad struttura finora ignota ma capace di proporre sviluppi, possibilità anche radicali; una struttura – originata dall’applicazione di un principio – che assume una configurazione capace di fornire senso

15 Cfr. J. Servier. Storia dell’utopia. Il sogno dell’Occidente da Platone ad Huxley, edizioni mediterranee, 2002.

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e rendere visibili potenzialità e parti di mondo altrimenti invisibili – anche se talvolta si tratta di configurazioni che ci sottopongono a sforzi immaginativi inauditi – come si dice in una bella canzone: “la teologia vi invita, anzi vi impone di immaginare una pietra infinita” (Battiato, 1995). Così intesa e precisata, la visione ha certamente tratti pro-gettuali, anche se invece di essere un progetto è un orizzonte che rende possibili infiniti progetti, ne è la condizione di possibilità e di senso. Se un progetto prescinde da una visione è solo un dispositivo meccanico per raggiungere un obiettivo ma rimane come sospeso tra terra e cielo, scollegato sia dai fatti che dai significati. La visione, intesa allora come sviluppo di un principio che genera una struttura configurante, appartiene come possibilità a tutti i domini umani: scienza, politica, lavoro, relazioni sociali, arte, gioco, linguaggio ecc. In altre parole abbiamo avuto visioni in tutti i domini, mentre nel tempo presente sembra che su tutto prevalgano i fatti spogliati di qualsiasi struttura che li connetta in un modo da comporre un’immagine sensata e riconducibile a un principio – ossia una regola sorgiva ordinante; oppure accade che la visione ci sia ma è talmente spaventosa che non osa mostrarsi: com’è stato nel caso della guerra preventiva.

Senza visioneQuando si prosciuga una visione e rimangono i soli fatti succede che diventiamo un po’ tutti uomini e donne di fatto – e non più di senso. Succede allora che ciascuno va un po’ per la sua strada, si affida al già visto, al già detto. Succede che il lavoro diventa solo sforzo e sacrificio e non si colloca più entro una cornice che può farne un processo sociale volto a uno scopo condiviso. È una perdita per tutti, che alle volte causa profonde crisi personali e collettive. La cultura - Che cosa succede ad esempio alla cultura quando perde la visione, ossia quando coloro che la producono e la interpretano per conto di una società vengono spogliati di essa o, come anche può accadere, smarriscono la capacità di riconoscere una visione? In quel caso la cultura si trasforma in retorica e, nei casi peggiori, in ideologia. La cultura diviene retorica vuota quando ripete ciò che ha appreso senza saperlo più collegare alla realtà: è il caso della cultura “libresca” e autoreferenziale. Nel medioevo accadeva ad esempio che i dotti votati alla medicina, invece di dissezionare il corpo umano per conoscere il reale funzionamento degli organi, leggessero le pagine

di medicina tratte dai libri antichi nella persuasione che lì fosse già enunciata la verità, invece di cercarla sperimentalmente e così facendo sovrapponevano un testo al corpo, occultando quest’ultimo alla vista diretta dell’esperienza. Ma quando la cultura non è più proiettata entro una visione può trasformarsi anche in qualcosa di peggio della vuota retorica, vale a dire in una ideologia, ossia in un sistema di idee utile solo a mantenere in vita un sistema di potere – al punto che i due sistemi (di idee e di potere) diventano speculari. Si pensi al sistema di idee che sta alla base del liberismo (l’intrapresa economica non deve avere regole e limiti affinché possa sprigionare tutto il proprio potenziale di crescita) e che ha permesso a determinati ceti sociali di arricchirsi senza dover dare conto dell’impatto sociale e ambientale conseguente. O si pensi al sistema di idee che giustifica l’esistenza del peccato e che ha permesso alle gerarchie ecclesiastiche di governare il desiderio dei singoli fino ad arrivare al controllo sullo sviluppo scientifico (come la fecondazione assistita o la ricerca sulle cellule staminali): tutto ciò, lungi dall’essere un orizzonte aperto che rende possibili infiniti progetti è invero un mondo chiuso che annichilisce la volontà dei singoli a vantaggio dei sistemi di potere costituiti (università, chiesa, editoria e così via). La politica – la politica deprivata di visione si riduce a traffico intorno ai programmi e alle regole, e siccome la politica nutre le proprie ragioni di passioni, quando dispone solo di un programma assomiglia ad un burattino inanimato che viene comandato da chi segue una sceneggiatura già scritta. Un burattino che diventa addirittura patetico quando prima dello spettacolo reclama un accordo con gli altri burattini sulle regole della rappresentazione, mentre le regole - come sa chiunque non abbia smarrito del tutto il lume della ragione - sono mezzi per conseguire dei fini, per cui pretendere di discutere delle regole in politica come di un oggetto neutro che metta tutti d’accordo è una sciocchezza inaudita. Quando invece la politica sa lanciare grandi visioni può addirittura venire premiata. È il caso del riconoscimento alle capacità del presidente Obama, il quale per la propria visione della politica internazionale è stato insignito del premio Nobel per la pace (2009) da una giuria di statura internazionale. Le istituzioni – Nelle democrazie mature le istituzioni trovano il principio delle proprie visioni nelle Costituzioni scritte (distinte da quelle materiali, cioè scaturite dalla prassi) mentre quando le costituzioni vengono cristallizzate e perdono potenza le istituzioni

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finiscono per dedicare tutta la propria attenzione alle procedure, smarrendone completamente il senso. Le istituzioni senza visione diventano montagne incantate dalla magia della burocrazia e ad essa si affidano per qualsiasi cosa. È una responsabilità in primo luogo di chi è a capo delle istituzioni sapere che queste devono sì seguire le leggi ma che ricevono il proprio spirito, al pari di un vento, dalla Costituzione che ne è il fondamento civile e culturale e che proprio come il vento questo spirito va colto per andare avanti, non per stare dove ci si trova.

Si può imparare?Concludo questa riflessione tascabile con un interrogativo: ci si può formare alla visione? è pensabile una “scuola” o un’agenzia che prepari a costruire visioni? Non è una domanda oziosa: le grandi istituzioni che formano le classi dirigenti destinate, a tempo debito, a prendere le decisioni più importanti e incisive non possono non avere questo problema – e quando non se lo pongono diventano irresponsabili16. Ma in fondo è un problema che riguarda tutti, in primo luogo i più piccoli. Non è un caso che molta grande letteratura si sia concentrata proprio sui ricordi dell’infanzia (da Proust a Benjamin a Canetti la lista è lunghissima). È lì che si rende possibile la fase aurorale che predispone alla visione, ed è dunque lì che si annidano i pericoli maggiori, come ha insegnato Freud. Prendiamo in mano un giocattolo, ad esempio una bambola, oppure un’automobile o un robot e proviamo a chiederci quale sia la sua funzione. Superati i primi mesi di vita (quando gli oggetti investiti di affettività hanno una funzione transazionale), notiamo che il giocattolo costituisce un dispositivo per introdurre il bambino in un mondo “altro” e quindi per allargare, grazie alla capacità di immedesimazione del bambino, i confini del suo mondo. Ciò è possibile perché il giocattolo è un “ponte” che porta il bambino a vivere esperienze emotive, mnemoniche, corporee e così via. Il valore pedagogico del giocattolo è un problema per l’adulto, al bambino importa che il giocattolo sia divertente, eccitante, coinvolgente. Il giocattolo dunque – quando inizia l’atto del giocare - avvince il bambino e lo porta nel proprio mondo, così come avviene con le storie o

16 «Ciò che mi colpisce, infine, è che quasi nessuno sembra stabilire un legame tra la crisi attuale e la formazione che abbiamo ricevuto noi, la cosiddetta “élite economica”». Florence noiville. Ho studiato economia e me ne pento. Bollati Boringhieri, 2010, p. 48

l’uso di una lingua straniera, perché quando iniziamo a parlarla siamo condotti dentro un’altra cultura, quella che l’ha prodotta. Ma allora in quale mondo conduce il giocattolo? Nel mondo di chi, consapevolmente o no, lo ha ideato. Per alcuni giocattoli, come la palla, l’inventore si perde nei secoli; ma si tratta di un caso sempre più raro. Oggi tutto è nelle mani sapienti e pericolose di coloro che chiamo designer del desiderio – molto attenti all’infanzia come all’adolescenza. È lecito domandarsi allora verso quale “mondo” viene condotto il bambino dal suo giocattolo O, detto in altre parole, con il giocattolo quale visione è chiamato ad abitare il bambino oggi? Ma la stessa domanda la possiamo formulare per l’adulto e chiederci: con il loro progetto tra le mani, che visione abitano l’operatore, l’educatore, l’insegnante, l’architetto, il ricercatore?

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PARTE SECONDA – I LAVORI DI GRUPPO

Gli stimoli proposti da Emilio Vergani

Il dott. Emilio Vergani ha aperto il raduno del volontariato di Jesolo con un intervento dal titolo “Bisogni sospetti. Esplorare le mappe che portano all’individuazione dei bisogni”.

Il tema e il titolo dell’intervento nascono dalla pubblicazione, della quale è riportato un capitolo nella prima parte del report.

Con il termine “bisogni sospetti” il dott. Vergani intende “focalizzare l’attenzione sul fatto che nella progettazione sociale generalmente si parla poco e male di bisogni ed è sempre necessario ‘sospettare’ di quelli che vengono definiti bisogni, perché in realtà dei bisogni si sa poco.”

Per parlare di bisogni è necessario, quindi, parlare prima di tutto di progettazione, ed in particolare di come nasce un progetto.

Il relatore infatti stimola la riflessione sul fatto che “purtroppo la progettazione precipita il più delle volte sulle azioni. E’ necessario invece prendersi tempo, indugiare, anche se nella nostra cultura il pensare è ritenuta una perdita di tempo. Prima delle azioni nella progettazione devono necessariamente esserci delle premesse.”

Come nasce quindi un progetto?

Vergani si chiede e ci chiede “quanto tempo viene speso per fare una ricerca sui bisogni di un territorio/di un gruppo target?” e propone quattro preziosi concetti chiave che possono farci da guida nella predisposizione di un intervento sociale.

Cercare i1) luoghi del racconto

Per introdurre questo argomento Vergani cita il sociologo Aldo Bonomi e il suo libro “La malaombra” che tratta il difficile argomento dei suicidi nella valle di Sondrio, in Lombardia.

Per capire da dove origina questo fenomeno infatti Bonomi si interroga su dove e come poter raccogliere indizi e informazioni utili.

La risposta che ne dà Bonomi è che è necessario

ricercare i “mercanti di liquore” ovvero quei luoghi di socialità informale in cui la gente si racconta.

E Vergani insiste su questo aspetto. “Bisogna scoprire quali sono i luoghi del racconto di ciascun territorio per riuscire ad acciuffare le radici profonde di un malessere.

Molta gente soffre ancora di più perché mancano quei luoghi di socialità in cui è possibile condividere la propria sofferenza…Su questi temi (suicidio ndr), come su altri, non è possibile chiedere direttamente qual è la causa o quale il bisogno…bisogna servirsi dei racconti, dei simboli, della rappresentazione dei propri vissuti…”

I bisogni non possono essere, per Vergani, frutto di una “rilevazione, ma di una “relazione, sono frutto di una co-costruzione che nasce dall’incontro con l’altro. Quanto si lavora con le persone, per cercare di capire quali sono i loro bisogni, non ci si deve preoccupare tanto di quello che viene detto, ma di chi parla, di chi ho di fronte. Come faccio a sapere qual è la storia di questa persona? Qual è lo sviluppo del suo essere, qual è il contesto dal quale viene?”

Da qui nasce il secondo spunto.

Individuare le 2) apocalissi culturali

Il termine “apocalissi culturali” è introdotto nella prima metà del ‘900 dall’antropologo Ernesto De Martino e Vergani lo utilizza per spiegarci che capire le “apocalissi culturali” vissute dalle persone e, quindi, capire il vissuto di ciascuno, ci aiuta a capire da dove vengono e di quali bisogni reali sono portatori.

“Se c’è un mondo in cui ti sei formato e ad un certo punto questo mondo culturale viene meno, bisogna fare i conti con il nuovo, che deve essere capito, decifrato,… in questi contesti, o la comunità c’è, oppure nascono i problemi”.

Si pensi ad esempio alle apocalissi culturali vissute dai migranti, da chi finisce in carcere, da chi perde il lavoro…Senza la conoscenza di questi pezzi di storia di ciascuna delle persone a cui voglio rivolgermi con il mio intervento non è possibile pensare ad un progetto con basi solide.

E Vergani aggiunge “Non è importante ingaggiare esperti per capire con chi sto parlando, è necessario costruire ponti, costruire un linguaggio comune. Occorre fermare le macchine della progettazione

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e capire le persone che ho di fronte, con cui sto parlando…Occorre rimettere in discussione la propria cassetta degli attrezzi, le proprie convinzioni”.

Avere 3) Visione

Il terzo concetto che ci porta il dott. Vergani è quello della visione.

La domanda di fondo è “Qual è la rappresentazione delle cose che ti dai alla fine di quel progetto?

Come ti immagini quel gruppo di persone, quel quartiere, quella città dopo il tuo intervento?

Purtroppo manca profondamente nella nostra società questa capacità di avere una visione…

Eppure tutti abbiamo il senso del possibile, perché siamo creature di senso. Dobbiamo quindi imparare a ri-attivare questa capacità visionaria”.

Per esplicitare meglio il concetto della visione, il relatore ci riporta l’esempio di tre persone che, in ambiti diversi, hanno avuto visione:

Franco Basaglia ha lavorato attorno ad una visione di un diverso modo di concepire la psichiatria;

Don Milani ha una visione di una nuova scuola, quando scrive “Lettera ad una professoressa”; Olivetti ha una nuova visione di produzione, che parte dal concetto che la fabbrica produce risorse per riportarle alla comunità.

Riscoprire la capacità di 4) desiderare

L’introduzione al quarto e ultimo stimolo è una citazione di Massimo Recalcati, psicanalista dal suo ultimo libro “Ritratti del desiderio”, Raffaello Cortina Editore.

“Il nostro tempo è il tempo del godimento, non del desiderare”. La capacità di desiderare è fondamentale nella progettazione e si lega strettamente alla visione, perché come sottolinea Vergani la “visione nasce da un una capacità desiderante”.

Il dott. Vergani conclude il suo intervento sottolineando l’importanza che hanno le associazioni di volontariato nella co-costruzione di una nuova visione e esortando alla sperimentazione.

Le tracce di lavoro

Gruppo 1 – Saccisica e Bassa Padovana

In ragione di una revisione approfondita dei metodi utilizzati per la costruzione e interpretazione dei bisogni, il gruppo provi a formulare una proposta di metodo innovativa per lavorare sui bisogni degli anziani di una città del nord-est.

Quali sono gli eventi basilari che aiutano a circoscrivere l’origine dei bisogni? Che domande porsi? Come avvicinare il gruppo target? Quali possono essere le variabili critiche? Con che tecniche elaborare i bisogni? Come utilizzarli all’interno di un progetto/intervento? Come valutare la risposta prodotta dal progetto sui bisogni? Queste alcune delle domande che possono aiutare il gruppo a elaborare una ipotesi di lavoro.

Al termine del lavoro sarà necessario produrre una sintesi scritta.

Gruppo 2 – Padova uno

In ragione di una revisione approfondita dei metodi utilizzati per la costruzione e interpretazione dei bisogni, il gruppo provi a formulare una proposta di metodo innovativa per lavorare sui bisogni degli adolescenti di una città del nord-est.

Quali sono gli eventi basilari che aiutano a circoscrivere l’origine dei bisogni? Che domande porsi? Come avvicinare il gruppo target? Quali possono essere le variabili critiche? Con che tecniche elaborare i bisogni? Come utilizzarli all’interno di un progetto/intervento? Come valutare la risposta prodotta dal progetto sui bisogni? Queste alcune delle domande che possono aiutare il gruppo a elaborare una ipotesi di lavoro.

Al termine del lavoro sarà necessario produrre una sintesi scritta.

Gruppo 3 – Padova due

In ragione di una revisione approfondita dei metodi utilizzati per la costruzione e interpretazione dei bisogni, il gruppo provi a formulare una proposta di metodo innovativa per lavorare sui bisogni dei migranti di una città del nord-est.

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2° raduno del volontariato padovano - maggio 2012

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Quali sono gli eventi basilari che aiutano a circoscrivere l’origine dei bisogni? Che domande porsi? Come avvicinare il gruppo target? Quali possono essere le variabili critiche? Con che tecniche elaborare i bisogni? Come utilizzarli all’interno di un progetto/intervento? Come valutare la risposta prodotta dal progetto sui bisogni? Queste alcune delle domande che possono aiutare il gruppo a elaborare una ipotesi di lavoro.

Al termine del lavoro sarà necessario produrre una sintesi scritta.

Gruppo 4 – Alta Padovana

In ragione di una revisione approfondita dei metodi utilizzati per la costruzione e interpretazione dei bisogni, il gruppo provi a formulare una proposta di metodo innovativa per lavorare sui bisogni dei dipendenti dall’uso di sostanze stupefacenti di una città del nord-est.

Quali sono gli eventi basilari che aiutano a circoscrivere l’origine dei bisogni? Che domande porsi? Come avvicinare il gruppo target? Quali possono essere le variabili critiche? Con che tecniche elaborare i bisogni? Come utilizzarli all’interno di un progetto/intervento? Come valutare la risposta prodotta dal progetto sui bisogni? Queste alcune delle domande che possono aiutare il gruppo a elaborare una ipotesi di lavoro.

Al termine del lavoro sarà necessario produrre una sintesi scritta.

L’esito dei gruppi di lavoro GRUPPO SACCISICA

Partecipanti

ASSOCIAZIONE ISCRIZIONE R.R.Auser Millecampi PS/PD376Aiutiamoli a vivere Brenta Saccisica

PD0690

Anteas Mario Cappellari PD0606/3AVO Piove di Sacco PD0178Aido Legnaro PD0124ANIPI PD0651AVO Conselve PD0189Auser Barbara Pettenello PD0218/036

Sintesi

Osservazioni introduttive

Nella fase iniziale i presenti hanno illustrato caratteristiche e finalità della propria associazione: si è trattato di uno scambio molto interessante e produttivo, considerato da tutti alla fine come l’elemento più significativo e pregnante del lavoro di gruppo (parlarsi ed ascoltarsi come momento imprescindibile).

Circa il tema in questione - i bisogni degli anziani -, sono state evidenziate in premessa alcune considerazioni, che vengono riportate schematicamente:

l’argomento si presenta assai complesso, data - la varietà delle situazioni, che caratterizzano l’universo degli anziani, che evidenzia sfaccettature e particolarità rilevanti.Si segnalano in primo luogo: -

a) difficoltà operative per le associazioni, dovute essenzialmente alla mancanza o quasi di una “ rete “ tra le stesse: da qui la necessità di creare sintonie;

b) difficoltà per il volontario che opera: da qui la necessità di un’autoanalisi circa la mission ed il ruolo del volontario stesso e di rimettersi continuamente in discussione, per esempio passaggio dal solo assistenzialismo alla relazione;

c) difficoltà generali nell’approccio agli anziani, dovute a problemi di varia natura, anche di tipo organizzativo, e collegate spesso ad una serie di

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Il valore del volontariato

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abitudini acquisite, di non facile superamento, per cui si tratta di trovare il “senso” vero di bisogni che si nascondono dietro comportamenti consolidati ed appunto abitudinari ( si portava l’esempio di chi si ritrova solo per giocare a carte o a tombola: alla base non c’è forse il bisogno di relazione che si può realizzare anche in forme diverse, anch’esse gratificanti e meno spersonalizzanti? ).

Nella discussione sono emersi alcuni spunti ed osservazioni da tutti condivise:

Considerare l’anziano innanzi tutto come persona•Farlo sentire utile e partecipe alla vita •comunitaria e, quindi, considerarlo una risorsaNell’operare concreto cercare di tenere conto •degli interessi, proponendone possibilmente di nuoviRitenere fondamentale il bisogno di relazione.•

Sono stati poi prospettati almeno quattro possibili ambiti di intervento, che evidentemente presuppongono itinerari di lavoro diversificati:

Il piano socio – sanitario: assistenza/sostegno per a. il soddisfacimento di bisogni primariIl piano della relazione, da sviluppare – nel b. rispetto delle varie caratteristiche delle associazioni – con percorsi diversiIl piano della cittadinanza attiva nei suoi c. molteplici aspetti: culturali, ricreativi, di utilità sociale…Il piano della solidarietà tra le generazioni, d. tra anziani, giovani, famiglie, associazioni, istituzioni…

Successivamente, dovendo sintetizzare quanto fatto, abbiamo stabilito di ritornare alla traccia iniziale, analizzando e rispondendo alle domande proposte.

Abbiamo prima di tutto deciso di ipotizzare la realtà di una città del nord-est di ca 18000-20000 abitanti, per semplicità paragonabile a Piove di Sacco che tutti i partecipanti conoscono.

Quali sono gli eventi basilari (“apocalissi culturali” ndr) che aiutano a circoscrivere l’origine dei bisogni?

Composizione nucleo familiare (da famiglia o patriarcale a famiglie non numerose)Cambiamenti culturali-tecnologicio

Che domande porsi?Come ricreare spazi di socialità?o Quale ruolo è dato oggi agli anziani? (messi da o parte?)

Quali opportunità esistenti nel territorio?o Come avvicinare le persone sole?o

Come avvicinare il gruppo target?Relazione diretta e passa parola fra anzianio Rete associativa/territoriale (es. parrocchie, ecc)o webo

Quali possono essere le variabili critiche?Pochi volontario Diffidenza di fondo da parte degli anzianio Mancanza di strutture/spazi/risorseo Mancanza risposte istituzionalio Mancanza formazione volontario

Con che tecniche elaborare i bisogni (tecniche)?Condividendo i bisogni con le altre associazioni o (rete)

Come utilizzarli all’interno di un progetto/intervento?Centro polivalente (multi associativo e multi o “interessi”), magari con attività itineranti fra i paesi contigui e/o associazioni affiniOrti sociali (per mantenere vita attiva e possibilità o di fornire prodotti a chi ne ha bisogno)Cura del territorio e/o pubblica utilità (es. nonni o vigili, gestione parchi, siti culturari-turistici, ecc)Scambi intergenerazionali, es. racconti degli o anziani per i giovani (nello stile delle biblioteche viventi) e spettacoli/esibizioni dei giovani per gli anziani

Come valutare la risposta prodotta dal progetto sui bisogni?

Ritorno (feed-back) dagli anzianio Capacità di dare risposte condivise (dalle o associazioni)Riduzione ansia degli anziani?o

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GRUPPO BASSA PADOVANA Partecipanti

ASSOCIAZIONE ISCRIZIONE R.R.La Goccia PD0661Anteas informanziani PD0606/5Afi - Monselice PD0561Il ponte PD0680I fiori de testa PD0171Associazione Filo d’Argento PD0606/8

Sintesi

Il gruppo ha deciso di orientare la propria discussione sui “bisogni delle persone in genere” dato che gli interventi delle singole associazioni riguardano: bambini, famiglie, anziani.

Dalla propria esperienza ogni associazione ha potuto riscontrare dei bisogni delle persone con cui hanno a che fare:

ascolto relazioni positive tra ragazzi italiani (e le loro famiglie) ed i loro coetanei stranieri (e le loro famiglie) nei luoghi di aggregazione (patronato, ecc)perdita del lavorosuperare la fatica, la paura, l’ansia per il domani che si vede minaccioso (crisi=apocalisse culturale)

Diverse associazioni hanno sottolineato i propri bisogni:

creare rete con le altre associazioni per dare maggiori risposte, farsi conoscerechiarire il proprio ruolo di Associazione libera ed autonoma rispetto alle varie Istituzioni (Parrocchia, Comune, ecc)volontariato prenda forza

Le Associazioni hanno provato a condividere la loro visione della realtà a cui fanno riferimento, cioè il proprio sogno rispetto le persone, la società, l’ambiente in cui vivono. Qualcuno ha sottolineato che la visione è la sostanza ed il fine del proprio intervento, portando l’esempio di Michelangelo che, guardando il pezzo di marmo vedeva La Pietà, il Mosè, le sue opere d’arte.

Qui l’impresa è stata più ardua perché occorreva staccarsi dalla logica del fare, delle azioni che da tempo l’associazione fa, per andare oltre e tentare di riscoprire il proprio essere volontari dentro e oltre la crisi.

In sintesi le Associazioni sognano:una società serena, in cui le famiglie si salutano, si parlano, si aiutanoun territorio sicurouna comunità dove i bambini non soffrano (per malattie ma anche a causa di adulti di riferimento poco attenti)delle Istituzioni che s’impegnino di più verso chi è in difficoltà di coinvolgere i ragazzi disabili o malati psichici nelle proprie attività teatrali per far emergere le loro risorse

Infine le associazioni hanno provato a immaginare “nuovi” possibili interventi, per realizzare i sogni citati e per rispondere ai bisogni emergenti. Qui è emersa un’enorme difficoltà a staccarsi dai propri vissuti, così faticosamente raggiunti (numero di volontari, richieste da esaudire, mezzi da utilizzare, denaro che non basta, sussistenza dell’associazione… insomma il proprio fare quotidiano). Sicuramente il tema di porsi dentro ed oltre la crisi le ha spiazzate. Serve allora altro confronto tra associazioni, serve mostrare che è possibile, magari portando qualche esempio di “buona prassi innovativa” escogitata da qualche associazione visionaria. Serve rinforzare la rete tra associazioni ma serve anche riscoprire la dimensione del dono. Guardando i visi dei partecipanti si fa presto a capire che il volontario non può essere solo l’ultrasessantenne, occorre coinvolgere i giovani, più propensi a lanciarsi su nuove sfide con entusiasmo e magari un po’ di incoscienza. Solo risolvendo questi nodi il volontariato potrà rinnovarsi e rinnovare la società, aiutandola ad uscire dalla crisi

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GRUPPO PADOVA UNO

Partecipanti

ASSOCIAZIONE ISCRIZIONE R.R.Cana PD0185Noi e il cancro - Volontà di vivere PD0050Auser provinciale di Padova PD0218Associazione San Pio X Pescarotto PD0606/22Vada civitas vitae PD0603Amministrazione di sostegno PD0157Per una nuova vita PD0544Amici dei popoli PD0541Movi Padova PD0027Vada civitas vitae pd0603CEAV PD0052Gioco e benessere in pediatria PD0192

Sintesi

Sono presenti nel gruppo tante persone e tanti enti di appartenenza diversi, tanti tipi di volontariato: forse è una cosa un po’ voluta.Il gruppo parte dalla domanda: Quali potrebbero essere i bisogni di un adolescente? Per riuscire a dare risposta a questo quesito è necessario prenderlo un po’ alla larga, usare altri strumenti così che l’adolescente si senta libero di raccontare, di raccontarsi…È anche vero i ragazzi si raccontano spesso fra coetanei e non se la sentono di raccontarsi ad altre persone più grandi che vedono molto diversi da loro: è una bella sfida.Il gruppo risponde alla domanda iniziale a ruota libera. Si riportano le risposte emerse e, al termine, una sintesi del lavoro.

Quartiere Anelli: coinvolgere e far socializzare - prematuramente, prima ancora dell’adolescente (14-15 anni) in preadolescenza. “Noi veneti siamo dei razzisti” (affermazione poi contestata da altri) se invece le famiglie si impegnassero a integrare gli amici dei figli (es.: ragazzino padovano a ragazzino cinese: vuoi venire a pranzo da me??). Una certa disponibilità a integrarli prima che si ghettizzassero. Ci sono esempi positivi ad es. una festa sul prato sotto casa.Chiariamo però il focus sull’età adolescenziale. Io - credo che sia molto difficile entrare in rapporto con gli adolescenti adesso perché loro non parlano

con gli adolescenti ma fra loro perché i familiari non ci sono a casa e passano le giornate intere fra di loro.Noi stiamo dando delle risposte ai bisogni degli - adolescenti da punti di vista nostri: da mamme, da adulti facendo riferimento alla nostra adolescenza. Ma noi eravamo adolescenti in tempi diversi con famiglie diverse. Per cercare di rispondere ai bisogni degli adolescenti devo mettermi nella loro ottica. La difficoltà della nostra società è l’adolescenza, il giovane. Noi non diamo delle risposte ai bisogni degli adolescenti, è un errore pensare al bisogno dell’altro con la nostra testa. Capire quali strumenti per carpire i bisogni degli - adolescenti. Ascoltiamo un po’ i loro bisogni. Come riusciamo ad avvicinare il target?Bisogna avere una cornice di riferimento: per lo - più ci troviamo in una società molto eterogenea. Già da una scuola all’altra cambiano i bisogni, bisogna averne tante di visioni, ma occorre anche condividerle. In più non possiamo proiettare. Di quali adolescenti vogliamo parlare?quelli che frequentano la scuola? gli immigrati? di che gruppo stiamo parlando.Bisogna fare una lettura non solo delle carenze, - verificare il potenziale umano da esprimere.Bisogna capire cosa significa l’adolescenza: è un - punto di passaggio, distacco dalla famiglia alla società, non solo da un punto di vista affettivo. I ragazzi non sanno più chi sono, hanno bisogno di riferimenti. I bisogni sono di differenziarsi e capire quello che saranno. Noi adulti possiamo essere meno impazienti, ricordare come eravamo, non possono per forza rispondere alle nostre aspettative. Da educatore professionale credo ci sia bisogno - nella scuola di credibilità perché gli insegnanti non sono trasparenti. I ragazzi fanno se hanno di fronte delle persone coerenti e con l’esempio (idea di guida). Per gli adolescenti è importante avere vicino degli adulti che hanno credibilità.Lancio di proposte semplici e di utilità per fare - cose con senso: bisogno di essere valorizzati. Utile lanciare stimoli.Bisogna indagare i bisogni veri: se si individua il - metodo sarebbe unico per tutti anche se cambiano i destinatari.Devo essere io che vado nel luogo dove loro - stanno e mi vesto come loro per avvicinarli, non per giudicare, ma per ascoltarli, facilitare dinamiche.I bisogni sono diversi uno dall’altro.-

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Utilizzare un insegnante e dargli un questionario - perché lui rilevi i bisogni. Posso arrivare a loro tramite il mezzo insegnante. È un discorso di vicinanza, a fianco ai ragazzi, avere pazienza di fermarsi un attimo e sentire quello che vogliono. Non andiamo per giudicare ma per sentire, per valorizzarli. ” All’inizio si dava regole, alla fine ci hanno visto come amici e c’era una voglia di rispettarla.” Il ragazzo deve essere coinvolto in un’attività, il servizio, il rispetto del servizio. Il senso di utilità. Creare dei servizi nei quali loro si sentono di - esprimere i loro bisogno. Es chi ha bisogno di un adulto lo può ritrovare nel nonno che vanno a trovare. Lo stage alternanza scuola lavoro in un’associazione di volontariato.Utilizzare competenze dei giovani per poter - rapportarsi alle altre generazioni. Perché non utilizzare i loro interessi? tipo la musica! Perchè non la usiamo? Il capire i loro bisogni non significa per forza capire come intervenire! Prima capiamo i bisogni! Creiamo un rapporto di fiducia, parliamoci.Manca il dialogo, crea un malessere, insegnare a - fare i genitore, a parlare con i figli. Scarso dialogo in famiglia. L’intemperanza dei genitori è una richiesta in realtà. Gli adolescenti vivono una crisi che anticipa un - cambiamento positivo. L’autoaffermazione, hanno quindi bisogno di autonomia, ma con delle regole: “occorrono più nonni”.Oggi non sono incoraggiate le relazioni, ne’ - intergenerazionali, ne’ in famiglia.I temi sono, vedendo anche i CIC: - autoaffermazione, regole, emulazione (cellulare e TV), società frettolosa. Gli adolescenti sono il fine non lo strumento. Utilizziamo delle conoscenze già acquisite tipo inchiesta OMS per il Veneto: il primo valore per i giovani è la famiglia che per paradosso è la cosa contro cui combattono, poi la salute, avere amici e il lavoro per guadagnare. Tutto si basa sulla fiducia, l’autorevolezza.Puntare sulla scuola, rendere attori i ragazzi, - portare testimonianze, incentivare il confronto con altri giovani, non far vedere conflittualità fra genitori ed insegnanti che sono riferimenti autorevoliNon fermatevi all’apparenza, non limitatevi a ciò - che chiedono i vostri utenti. Fermatevi e ditevi: è proprio questo di cui hanno bisogno i nostri utenti? Ci sono bisogni primari che in realtà forse nascondono altri bisogni (bulimica cibo).

C’è bisogno di fermarsi, chiedersi cosa si sta - facendo, dove si sta andando,la rilevazione dei bisogni serva a dare animo e vita alle associazioni.

Di seguito si riporta un documento di sintesi di tutti i contributi proposti dai partecipanti:

Quali potrebbero essere i bisogni di un adolescente? Come noi adulti possiamo essere guida e sostegno ai ragazzi che attraversano questa età così complessa e allo stesso tempo ricca di potenzialità?

Ascoltare e mettersi affianco ai giovani è la prima cosa indispensabile da fare per riuscire a capirli e conoscerli. Trovare formule per sentire il loro linguaggio e stare con loro per guardare e scoprire tutte le potenzialità dell’adolescente.

All’adulto viene chiesto di non individuare “il bisogno” solo come carenze ma di guardare al potenziale umano, di vedere l’adolescenza come periodo crescita e non di crisi.

La società deve impegnarsi ad educare adulti significativi e credibili. Per gli adolescenti è fondamentale avere accanto una guida, intesa, non come imposizione di regole, ma capace di offrire nuove vie. Gli adulti che entrano in contatto con l’adolescente devono sapersi mettere in discussione, è pertanto importante lavorare con i genitori e con le scuole.

Gli adulti non conoscono quali sono i luoghi di socializzazione dei ragazzi, ne li capiscono.

Incontrare gli adolescenti in spazi non giudicanti, come ad esempio potrebbero essere le associazioni, potrebbe legittimare il bisogno dei giovani anche quando non viene comprese dagli adulti.

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GRUPPO PADOVA DUE

Partecipanti

ASSOCIAZIONE ISCRIZIONE R.R.Casa pd0199UPEL - Università padovana età libera

PD0215

Anziani a casa propria PD0624Torreglia Solidale Anteas PD0606/13V.A.D.A. - Volontari amici degli anziani

PD0597

Centro di ascolto padova nord PD056Gli amici del villaggio PD0605Selvazzano for children PD0473Granello di Senape PD0687A.M.A.P. PD0464ADVS Fratres PD0161

Sintesi

Per capire i bisogni dei migranti di una città del nord-est è necessario comprendere quali siano le motivazioni che spingono uno straniero ad arrivare nel nostro paese. Innumerevoli sono le cause per cui lasciano le loro case: guerra, povertà, crisi economica. Cosa bisogna dunque fare per integrarli nel migliore dei modi? Se in primis la risposta è stata che sono gli immigrati a doversi adattare alla nostra cultura e ai nostri valori in quanto sono loro ad essere ospiti, dopo varie riflessioni si è giunti a conclusioni diverse perché non esiste una sola cultura, la nostra, ma esistono anche dei nuovi modi di vedere ed affrontare le cose che meritano il nostro rispetto e la nostra curiosità. Il gruppo, col passare del tempo, ha cominciato ad utilizzare ciò che è definita l’assunzione di prospettiva mettendosi nei panni delle persone immigrate. E’ stato ipotizzato di aprire dei centri di ascolto, di svolgere delle riunioni locali e organizzare corsi di italiano. Inoltre si vogliono riferire ai gruppi le informazioni in diverse lingue e cercare di coinvolgere gli italiani nelle loro attività per conoscerne le tradizioni e i costumi. Questo permetterebbe di attivare un buon lavoro di ascolto e di ricerca che consentirebbe di conoscere i diversi bisogni legittimamente espressi. Quali potrebbero essere però in questo percorso le difficoltà e le variabili critiche? Tra le prime criticità vi è quella dovuta al fatto che numerose culture che convivono possono generare e

creare momenti di conflitto che possono scatenare ciò che è definito “etnocentrismo”. Ci si è infine interrogati sul come individuare i diversi bisogni degli immigrati e si è giunti alla conclusione che è fondamentale attivare e promuovere dei processi di empatia. Inoltre è necessario la presenza costante di mediatori culturali.

GRUPPO ALTA PADOVANA

Partecipanti

ASSOCIAZIONE ISCRIZIONE R.R.Club tre PD606/19Benessere e società PD0611AIDO Loreggia PD0703Auser volontariato Luparense PD0218/042AIDO curtarolo PD009Auser volontariato Luparense PD0218/042Ass. protezione civile La Certosa PD0145Aiutiamoli a vivere del camposampierese

PD0727

Sintesi

E’ eterno anche un minuto,/ ogni bacio ricevuto dalla gente che ho amato.

Siamo Dei – Lucio Dalla

(L’aver usato il testo di questa canzone è ispirato dalla grande difficoltà di dare risposta ai reali bisogni, ed è dedicato a quei momenti dove l’impegno ha ricevuto gratificazione, ed è divenuto speranza per un futuro realizzabile).

Sono emersi, in una prima fase di lavoro, i maggiori fattori di rischio alle dipendenze giovanili: carenze della famiglia, bombardamento su alcune tematiche da parte dei media, frequentazioni sbagliate, mancata educazione all’utilizzo del denaro.

Sulle cause che potrebbero essere l’origine dei bisogni che portano oggi un individuo a entrare nella dipendenza, vi è sicuramente, per il gruppo di lavoro, il rapporto figlio-genitore. «Mamma: mi vuoi bene? Figlio ti compro …. qualcosa, oppure figlio se ti compro … ti metti tranquillo? e se ti compro qualcosa di più, mi lasci in pace due settimane?».

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In questo “ti compro” non vi è la risposta al reale bisogno di relazione, da qui comincia quindi la escalation della violenza espressiva fino all’isolamento che porta alla ricerca di altre cose, che possono divenire dipendenza. I giovani, per carenza di comunicazione, in ambiente familiare e scolastico tendono - per farsi notare - nella fase di formazione della propria personalità (adolescenza) ad eccedere nell’uso di sostanze o azioni di altro tipo. Ma l’origine dei bisogni potrebbe essere per altre categorie di persone - per esempio gli stranieri - il consumismo, con la necessità di colmare una differenza di censo o insicurezze personali derivanti dallo status più che dalla famiglia.

Sicuramente tra le conseguenze a queste situazioni vi è un senso di isolamento ed emarginazione, paura degli altri, del contesto, del futuro. Tutto ciò sfocia in una incomunicabilità fra generazioni. L’ascolto attivo e la qualità del tempo dedicato dalla famiglia a se stessa, potrebbe essere la tecnica indispensabile per capire i reali bisogni dei genitori e dei figli

La risposta e il ruolo delle associazioni potrebbe trovarsi nelle tre C:

Comunicazione: il comunicare ha bisogno di pazienza e di un linguaggio corretto ed adeguato che tenga conto della cultura delle parti. Comunità: la risposta deve essere data da una comunità, sia essa allargata o familiare, in quanto i problemi ricadono su quella comunità che deve sapersi interrogare e trovare forza nel dare le risposte giuste anche se difficili. Cura: aver cura è la modalità di intervento delle associazioni nei confronti della comunità, nel caso specifico il lavoro si divide in due momenti: un programmazione di intervento diretto con gli adolescenti e un altro momento con i genitori, completando l’operato con l’avvio di un dialogo fra generazioni.

PARTE TERZA – CONCLUSIONI E APERTURE Volontariato e terzo settore in tempo di crisi Tavola rotonda

Giovanni Grillo – Conferenza Regionale del volontariatoLa Conferenza regionale del volontariato, che rappresento dal 2010, sta iniziando una serie di iniziative con l’obiettivo di rafforzare la funzione della Conferenza stessa. Ci auguriamo che questo appuntamento realizzato in collaborazione con il CSV di Padova sia il primo di una serie di incontri che ci permettano di entrare in contatto con il territorio regionale per fare in modo che il volontariato esca da una funzione puramente organizzativa e strutturale che fa perdere quella vivacità che è patrimonio del volontariato.La Conferenza regionale del volontariato è prevista dalla L.R. 40/93, e siamo convinti che il suo ruolo abbia senso e valore nel momento in cui questo organismo è condiviso da tutte le associazioni di volontariato.La Regione Veneto è sempre stata anticipatrice in tema di volontariato e l’istituzione della Conferenza regionale ne è una prova. Questo sistema può essere anticipatorio anche per altre regioni, ma è necessario che la Conferenza non sia un’emanazione della Regione fine a sé stessa e che sia occasione di dialogo con le associazioni da una parte e con le istituzioni dall’altra.Con questo incontro, e con quelli che speriamo seguiranno, vorremmo lavorare sul sogno e sulle prospettive del volontariato, altrimenti restiamo ingabbiati dai problemi legati alla mancanza di risorse economiche e non valorizziamo quel patrimonio enorme che è la risorsa umana. E’ qui che dobbiamo investire, per far valere questo patrimonio, che è un patrimonio di comunità, di sostegno e soprattutto, oggi, di relazione.La Conferenza vuole confrontarsi con le associazioni per trovare le soluzioni migliori per uscire da questo momento di difficoltà e siamo stimolati in questo percorso dalla Conferenza nazionale del volontariato in programma dal 5 al 7 ottobre 2012 a L’Aquila. Questo evento nazionale può essere un appuntamento di carattere formale e non cambiare nulla sullo stato delle cose, oppure possiamo decidere che è un

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appuntamento che non vogliamo perdere e nel quale vogliamo far transitare tutte le nostre idee e le nostre visioni di prospettiva, perché dobbiamo essere noi i conduttori del cambiamento del volontariato.Speriamo quindi, a partire da oggi, di riuscire a condividere quello che pensiamo e portarlo alla Conferenza Nazionale, per contaminare ed essere d’esempio.Ci accompagnano nel percorso di oggi il dott. Giorgio Baldo, della Fondazione Venezia, che ci illustrerà la situazione con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni, il dott. Giovanni Serra, segretario nazionale della ConVol, che aprirà nuove visioni per il volontariato organizzato e il dott. Ugo Campagnaro, rappresentante di Confcooperative, che ci aiuterà a capire se e come volontariato e cooperazione sociale possono ritrovare oggi percorsi comuni.

Giorgio Baldo - Fondazione VeneziaRingrazio dell’invito che mi permette di sviluppare alcuni elementi di riflessione che derivano da due esperienze, quella della Fondazione Venezia e quella del Co.Ge. di cui faccio parte per due anni.Il tema del convegno è il tema centrale di questa fase che stiamo vivendo e cioè l’elemento di crisi e come questo costringe tutto il mondo del volontariato e delle fondazioni a interrogarsi sullo scenario futuro.La prima questione da individuare con certezza è quella di circoscrivere le dimensioni della crisi. Cercherò di portare alcuni elementi che permettono di vedere che la crisi non è di breve periodo. Alcuni mutamenti avvenuti negli ultimi due anni fanno capire che è necessario proporre un approccio completamente diverso.Le risorse per il volontariato saranno radicalmente minori rispetto a quanto siamo stati abituati in particolare negli anni 2007-2008-2009. Se guardiamo le risorse a disposizione vediamo che tiene forse il 5 per mille per quelle organizzazioni che riescono ad accedere; le risorse degli enti locali per il sociale sono notevolmente ridotte; a livello regionale è altrettanto evidente una riduzione di fondi per il sociale e sanitario; per le fondazioni di origine bancaria la crisi è più grave di quello che appare. Guardando solo i finanziamenti al Co.Ge., vediamo che erano circa 11 milioni di euro all’anno dal 2005 al 2009, nel 2011 sono scesi a 7, quest’anno siamo a 3 milioni di euro.

Questi 3 milioni di euro sono quelli sui quali contare fino al 2015. Il capitale sociale delle fondazioni è dimezzato e di conseguenza gli utili sono notevolmente diminuiti.Una prima conclusione che possiamo portare è quindi che la crisi non è un problema dei modelli politici. Dobbiamo avere chiara la consapevolezza che le risorse rispetto ad un recentissimo passato sono crollate e questo deve essere un punto che viene definitivamente acquisito.Oltre a questo scenario ce n’è un altro molto importante.La crisi morde più a fondo di prima.Questo porta ad un aumento della disponibilità al dono e ad un incremento di quei servizi che il mondo del volontariato in questi anni ha dato. C’è un aumento esponenziale di richieste e bisogni. C’è quindi più bisogno di volontariato e di propensione al dono inteso in senso generale, in termini di nuove persone, di tempo e di disponibilità.Suggerisco alcuni temi su cui si sta lavorando.Un’analisi promossa dal Co.Ge. e che verrà presentata il mese prossimo a Venezia, mette in evidenza alcuni elementi su cui vorrei richiamare l’attenzione:

E’ tempo di1) idee nuove. E per questo è necessario chiamare in causa i giovani. Nel veneziano il numero di giovani coinvolti nel volontariato è il 5%. Non è più semplicemente l’educazione nelle scuole che serve, bisogna fare di più. E’ necessario investire sul Servizio Civile. Quando diminuiscono le risorse e aumentano 2) i bisogni è necessario cercare qualcos’altro: l’entusiamo. L’entusiasmo nasce nelle terre di confine. Dobbiamo riuscire a mettere all’interno delle progettualità gli elementi di frontiera, i nuovi disagi, gli aspetti più difficili. E’ su questi elementi di frontiera che è possibile puntare la comunicazione per incentivare i cittadini all’impegno e al dono.

Giovanni Serra – ConVolRingrazio il dott. Baldo per la chiarezza con cui ha presentato lo scenario attuale e futuro. Fa bene prendere atto delle cose e non nascondersi la situazione. Ed è giusto per decidere che cosa vogliamo

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2° raduno del volontariato padovano - maggio 2012

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fare di noi e non solo di noi, perché il volontariato deve superare il limite di essere troppo proiettato su sé stesso, finendo a volte di dimenticare che il volontariato è uno strumento, ed è uno strumento a termine: agisce per sparire. E’ l’essenza della gratuità che attraversa le nostre organizzazioni.Dobbiamo essere attenti ad uscire da una logica un po’ troppo referenziale che ci ha accompagnato in questi anni, anni in cui abbiamo dato per scontato che le risorse sarebbero sempre state tali, che non ci sarebbero stati mutamenti tali da richiedere un cambiamento di prospettiva. Ma la società non è stabile, sta cambiando e ci troviamo su questo crinale: dobbiamo prendere posizione.E’ importante anche ricordare la Conferenza nazionale dell’Aquila, alla quale spero possiate tutti partecipare. Una serie di domande farà da linea guida rispetto al tema centrale, che è il medesimo del convegno, ovvero il ruolo del volontariato in tempo di crisi.Ciò che dirò oggi è presente anche nel documento che ho curato per il laboratorio nazionale del Mo.V.I. del prossimo giugno.Prendiamo atto che la crisi c’è e ci sarà, e non solo nei prossimi due-tre anni, perché è una crisi strutturale del mondo occidentale e, in generale, del pianeta. E’ bene comprenderla perché quando ragioniamo sui bisogni sociali tendiamo a ragionare considerando che questi riflettano la condizione di una società stabile.In una società che muta rapidamente come è quella odierna, non si può ragionare in termini schematici di bisogni, perchè si rischia di non comprendere ciò che dobbiamo fare. Il nostro tempo di volontari è per definizione un tempo limitato e questo tempo è prezioso ed è importante capire dove orientare la nostra risorsa tempo.La prima considerazione che vorrei fare oggi è la seguente: se la società sta cambiando e il meccanismo non è più quello di un insieme di persone che vivono in una condizione di benessere accettabile e stabile e alcuni che vivono in una situazione peggiore, la domanda più profonda è: cosa cercano le persone? Cercano la soddisfazione ad un bisogno specifico? Cosa ci fa star bene?In maniera radicale è questa la domanda che dobbiamo imparare a ri-farci in un momento in cui sta cambiando il mondo: Cos’è che ci rende felici? E’ la quantità di beni materiali? Di fruizione di comunicazione? Su

quale partita dobbiamo giocare il nostro tempo di volontari?Nel volontariato negli ultimi decenni abbiamo imparato che c’è una grande ingiustizia nel mondo. In questi nostri paesi occidentali, in cui vive il 20% della popolazione si consuma l’80% delle risorse del pianeta il che significa che il restante 80% di popolazione vive con il 20% delle risorse. Ce lo diciamo da tanti anni, ma è un’ingiustizia. E dobbiamo ricordarcelo.E non solo è un’ingiustizia. E’ anche una situazione che sta cambiando, perché negli ultimi decenni stanno emergendo alcuni paesi (i cosiddetti paesi BRIC – Brasile, Russia, India, Cina che rappresentano il 42% della popolazione mondiale) e stanno crescendo ad un ritmo elevatissimo (pil in crescita al 7-8% all’anno, mentre nei nostri paesi è sull’ordine del 0, qualcosa). C’è quindi un sorpasso da parte dei paesi emergenti nella capacità di generare ricchezza. Se il pianeta fosse infinito ciò non sarebbe un problema. Ma il pianeta è finito e le risorse elementari (suolo, energia estraibile, materie prime,…) sono limitate. Ciò vuol dire che ad un certo punto le risorse finiranno e non ci saranno per tutti in parti uguali.Significa quindi che anche per i nostri paesi ci sarà una prospettiva di riduzione della produzione di ricchezza. La prospettiva è quindi una prospettiva di impoverimento.A molti questa prospettiva fa paura. La paura è la reazione più facile che si svilupperà quando ci renderemo conto che questo è il destino che abbiamo davanti. Può succedere che nei paesi ricchi come il nostro si creino maggiori disuguaglianze, perché chi ha la ricchezza ha il potere di trattenerla. Questo può far salire il numero di persone povere e anche far salire meccanismi di tensione, di conflitti all’interno della società; c’è infatti una percentuale molto rilevante e in crescita di persone in vulnerabilità. Oltre ad una riduzione economica queste persone stanno perdendo relazioni sociali e quindi anche la capacità di costruire benessere a partire dalla comunità. Questa fascia di persone rischia di sviluppare sentimenti di ostilità verso i più poveri perché il sentimento che può diffondersi è che “se si smettesse di buttar via soldi per i poveri per noi ce ne sarebbero di più”. Queste persone potrebbero quindi anche accettare, per assurdo, che ci sia una riduzione di fondi per il welfare e questo sentimento porta ad un aumento delle tensioni sociali.

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Dobbiamo renderci conto che siamo in un clima di questo tipo. Quando si scatenano questi meccanismi, che fine fanno quelle persone con diritti più deboli, con diritti negati/compromessi alle quali il volontariato generalmente si rivolge? Sono le prime che non hanno gli strumenti per difendersi da sé. Sono quindi le prime a finire nell’emarginazione e nell’area di quelli accusati di essere i responsabili delle cose che non vanno.Come volontariato quindi cosa dobbiamo fare? La sfida del volontariato è la ri-costruzione delle ragioni della solidarietà. Dobbiamo ricostruire il perché della coesione sociale, il perché della cura anche se questo è sempre più difficile perché siamo attraversati da una cultura individualista. Il primo “nemico” da affrontare è quindi proprio l’individualismo, questa cultura che ci fa essere gli uni contro gli altri.Possiamo uscire dalla crisi se iniziamo a pensare ad una società più solidale ed iniziamo a costruirla pezzo per pezzo, il che vuol dire innanzitutto fare cultura. Il problema è che noi volontari siamo abituati a fare cultura attraverso i gesti, attraverso il fare, ma quel fare è prezioso quando è un fare che educa, non è utile quando è un fare fine a sé stesso. Se ci raccontiamo quello che facciamo solo per glorificarci non serve a nulla, se ciò che facciamo è un passaggio per fare cultura, cioè per mostrare ad altri che è possibile fare lo stesso, allora funziona. Dobbiamo quindi uscire, come volontari, dalla ricerca della soddisfazione intima di essere migliori degli altri. Siamo cittadini come gli altri. Dobbiamo mostrare che fare volontariato, prendersi cura della comunità è una cosa che possono fare tutti. Non siamo eroi, siamo persone che hanno scoperto la bellezza di prendersi cura degli altri, e questo dobbiamo condividerlo, dobbiamo contaminare tutti.A questo primo passaggio fondamentale è necessario aggiungere altri punti di discussione che vi riporto in breve:

dobbiamo capire di più. Abbiamo la necessità di 1) formarci di più. Dobbiamo quindi come volontari cercare la formazione, che non è solo formazione tecnica, ma serve a capire il contesto in cui viviamo, serve per formare la nostra coscienzaè necessario adottare una2) logica glocale. Dobbiamo cominciare da noi, come persone e come organizzazioni, a scegliere stili di vita che vanno bene per costruire una comunità migliore

nel piccolo ma anche nei grandi processi di cambiamento del mondo (ad esempio si veda il tema del consumo). Democrazia3) . Occorre imparare stili di vita differenti. Il luogo dove si prendono le decisioni è luogo per tutti. E’ necessario sviluppare la disponibilità di tempo e attenzione ai temi delle decisioni che si prendono nella pubblica amministrazione;,è una cosa che può contribuire a far cambiare il mondo. Società più democratiche perché più partecipate sono meno preda di pochi speculatori.Attenzione alla dimensione del benessere delle 4) persone. Possiamo continuare a pensare che tutto dipenda da un meccanismo di di trasferimento di soldi dall’amministrazione pubblica? Dobbiamo pensare ad un modello di comunità inclusivo che non dipenda unicamente dal fatto che c’è una disponibilità economica da parte dell’ente pubblico. Bisogna imparare a fare il sociale senza dipendere dalle risorse. Il che vuol dire ricostruire le relazioni sociali e noi su questo, come volontari, abbiamo grandi opportunità. E’ il nostro “mestiere”. Ha senso, ad esempio,che il tema della solitudine degli anziani sia gestito da un servizio (attività strutturata con personale retribuito a carico dell’amministrazione pubblica o per la quale si cercano finanziamenti appositi)? Perché l’anziano solo non deve essere cura della mia famiglia, del vicino di casa? Questo significa avere un modello di welfare che mette in gioco anche le responsabilità dei cittadini, non solo della pubblica amministrazione. Anche rispetto al tema dei servizi che sono diventati strutturati anche grazie anche alla cooperazione sociale. Che ne facciamo di quei servizi nel momento in cui i soldi pubblici finiscono? Di chi sono quelle cooperative sociali? Sono dei soci? O sono della comunità? Dobbiamo imparare a farcene carico. E’ il nostro compito di volontari porci questa domanda. E’ compito della cooperazione sociale essere credibile soggetto nel territorio.Decisioni della politica5) . Quando si dice che sono finiti i soldi si dice una mezza verità. Compito della politica è fondamentalmente decidere come si distribuiscono i soldi che ci sono. Perché quando i soldi diminuiscono, i primi soldi che si tagliano sono quelli che hanno a che fare con i diritti delle persone più deboli? Dove è scritto che deve essere

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cosi? Noi abbiamo responsabilità, come cittadini responsabili, di fare pressione sulla politica. Dobbiamo spiegare che dobbiamo avere voce quando si decide che cosa si taglia e cosa no. Se quando facciamo volontariato non spieghiamo il senso di quello che facciamo, non potremo mai avere un peso “politico”, non passerà mai la cultura che sta dietro l’azione volontaria.

Ugo Campagnaro – Confcooperative

Nel nostro territorio, già ricco di iniziative imprenditoriali prettamente commerciali (industriali, artigianali, di scambio delle merci, di trasporto e di servizi finanziari, innovativi, ecc.), le organizzazioni non protit - o enti non economici, non commerciali e senza fini di lucro - si stanno diffondendo e stanno sviluppandosi assumendo dimensioni rilevanti e/o stabilendo relazioni di rete piuttosto complesse, con altre organizzazioni non profit, con imprese e con la Pubblica Amministrazione.

Tale diffusione e tale sviluppo alimentati da agevola-zioni fiscali e non solo, si sono verificati nell’ambito di una legislazione civile, amministrativa - anche a livello regionale - e fiscale che, soprattutto dal 1997, ha com-portato forti innovazioni nel comportamento degli at-tori del terzo settore, ma si tratta di un complesso non ancora coordinato di norme che si rende necessario ora razionalizzare, sulla base di nuovi principi generali, che sono ancora da rielaborare sul piano legislativo.

Gli enti non protit (associazioni riconosciute e non, fondazioni, ecc.J comunque continuano a costituire e a gestire delle combinazioni organizzate di persone e beni, ovvero delle vere e proprie aziende, a destinazione commerciale gestite dagli imprenditori. Tuttavia gli enti appunto non lucrativi, a differenza degli imprenditori, perseguono uno scopo diverso da quello della realizzazione di un profitto e, soprattutto, si distinguono dalle imprese perché non svolgono un’attività economica in via principale: infatti perseguono finalità istituzionali di carattere morale, sociale, culturale, religioso, ecc. attraverso lo svolgimento di attività - necessariamente prevalenti - di natura diversa da quella commerciale o agricola.

Sono numerosi i provvedimenti legislativi più rilevanti tutt’ora invigore che, negli ultimi 20 anni, hanno modificato, ma sempre in modo non esaustivo e non

organico, la disciplina civile e fiscale delle associazioni del terzosettore e, cioè, nell’ordine:

- la disciplina delle organizzazioni di volontariato L. n.266/’91;

- la disciplina fiscale speciale delle attività sportive dilettantistiche, culturali,ecc. L. n. 398/’91;

- la disciplina delle o.n.l.u.s. l - organizzazioni non lucrative di utilità sociale - e contestuale riforma generale degli enti noncommerciali D.l.gs. n.460/’ 97;

- la riforma delle persone giuridiche private D.P.R. n. 361/2000;

- la nuova disciplina delle associazioni di promozione sociale (L. n. 383/2000);

- la riforma fiscale dell’attività sportiva dilettantistica [con la L. n. 282/2002);

- la riforma (peraltro noncompletata) del sistema fiscale statale L. n. 80/2003 e relativi vari decreti legislativi di attuazione;

A ciò vanno ad aggiungersi numerose modificazioni alta legislazione nazionale apportate quasi ogni anno con varie leggi di manovra fiscale.

Perciò a volte gli enti non profit risultano addirittura più complessi di una società commerciale, dal punto di vista contabile e gestionale (a volte anche dal punto di vista fiscale). Infatti, le organizzazioni non lucrative combinano spesso le attività istituzionali, di natura non commerciale [quindi nei settori dello sport, della cultura, dell’assistenza sociale, ecc.), con attività connesse, accessorie, ecc. che sono tuttavia rilevanti dal punto di vista finanziario (dai corsi di formazione, alle pubblicazioni editoriali, la consulenza., ecc., fino alla commercializzazione o intermediazione di prodotti e servizi se non anche alla produzione di oggetti destinati alla vendita, ecc.) e che spesso sono oggettivamente commerciali e che devono essere coordinate con le attività “istituzionali” non economiche.

In questo contesto, già difficile di per sè, si aggiunge il momento di crisi che sta attraversando tutto il sistema di welfare. Credo sia importante ricordare che il volontariato non è solo welfare, ma si occupa anche di altri temi, quali quello ambientale, quello culturale, ecc… e anche in questi campi la crisi economica si fa sentire.

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Al di là dei problemi burocratici/amministrativi ed economici, è importante continuare a interrogarsi sul senso di ciò che ciascuno di noi fa come cittadino, nei suoi diversi ruoli (politico, imprenditore, lavoratore, volontario,…).

Quello che facciamo è importante per gli altri? È utile? Se riusciamo a darci una risposta, riusciamo a preservare quello che facciamo. Se invece la nostra azione è mossa solo da risorse economiche, cosa succede nel momento in cui queste risorse vengono meno?

CONSOLUZIONI Alessandro Lion - Direttore CSV Padova

Non so se possiamo trarre delle conclusioni dalla due giorni di Jesolo, in quanto abbiamo gettato le basi per un lavoro futuro, più che la sintesi del passato.Il lavoro sulla valutazione d’impatto sociale ha permesso alle associazioni di interrogarsi, assieme, sulla progettazione. La speranza è che tale analisi instauri sinergie e azioni più mirate in quello che potremmo definire lo “spontaneismo benevolo” del volontariato.Valutare l’impatto della propria progettualità ha bisogno di una grande capacità di astrarsi rispetto a se stessi, quasi estraniandosi; saper vedere la finalità reale alla quale tendere - magari la stessa finalità che l’associazione ha identificato nel momento costitutivo - e da quella ripartire, rinforzati, per lo svolgimento del proprio servizio. Con l’incontro di domenica è stato anche avviato il dialogo con altri componenti del terzo settore, presenti con un rappresentante del Forum del Terzo settore, nella finalità di cercare, anche qui, sinergie possibili per sostenere tutto questo mondo, un percorso che dovrà essere coltivato per non perdere i passi fin qui fatti.

E’ vero, per altro, che di fronte a questi grandi cambiamenti non è sufficiente avviare solo rapporti locali ma, tenuto conto che l’Europa ha un bagaglio culturale e sociale invidiabile al mondo, la stessa Europa dovrebbe essere in grado di esportare “eguaglianza sociale”, in quanto non è più possibile tutelare i diritti del primo mondo a scapito dei paesi emergenti; bensì i diritti devono essere globalizzati, solo così si riequilibrerà lo scambio tra manodopera e profitto, non per una nuova rivoluzione proletaria, ma affinché tutti i poveri e i loro diritti siano al centro del mondo globalizzato.

Un ruolo che deve essere vissuto anche dal volontaria-to. Al motto “volontari di tutto il mondo unitevi” non dovremmo più operare per i soli diritti locali, ma an-che per i diritti di tutta l’umanità.

Una nuova socialità, una nuova “vision”, che potrebbe contrastare questa ondata di egemonia del profitto e che potrebbe mantenere in moto la gratuità, patrimo-nio indiscusso del volontariato.

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