Astrofisica Stellare: Capitolo 1

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Capitolo 1 Evidenze evolutive nell’Universo stellare 1.1. Gli osservabili stellari La prima antichissima evidenza di quella vasta e strutturata distribuzione spaziale di materia cui diamo il nome di Universo risiede nel flusso luminoso che ci proviene dalle sorgenti stellari. La consapevolezza che tali sorgenti debbano essere riguardate come corpi celesti analoghi al vicino Sole, pi` u volte adombrata nel corso della storia del pensiero scientifico e certamente gi` a fatta propria da Galileo, ` e alla base di una svolta conoscitiva nello studio dell’Universo: dalla Astronomia, intesa come semplice analisi delle posizioni e dei movimenti apparenti delle stelle sulla volta celeste, si apriva la strada all’ Astrofisica ed allo studio delle propriet` a fisiche degli oggetti stellari. Tale studio non pu` o peraltro che essere basato sull’analisi della radiazione elettromag- netica che da tali oggetti ci giunge e quindi, in termini operativi, sulla analisi dei fotoni raccolti da telescopi e focalizzati su opportuni rivelatori. In linea generale, ci attendiamo che una sorgente stellare sia caratterizzata dalla quantit` a di energia luminosa emessa nell’unit` a di tempo sotto forma di fotoni e dalla distribuzione dei fotoni stessi alle varie frequenze o lunghezze d’onda (”distribuzione spettrale” o ”spettro” della radiazione). Fortunatamente, si trova che nella grande maggioranza dei casi tale distribuzione risulta con buona approssi- mazione assimilabile a quella attesa da un corpo nero (A1.1) di opportuna temperatura. Potremo dunque parlare di una “temperatura della sorgente”, e caratterizzare tali temper- ature attraverso opportune definizioni delle “magnitudini” stellari e dei relativi “indici di colore” (A1.2). Le osservazioni mostrano che le temperature stellari risultano tipicamente contenute in un intervallo non molto esteso, orientativamente tra i 3.000 ed i 30.000 gradi Kelvin (K). La distribuzione spettrale della radiazione non dipende dalla distanza della sorgente, dis- tanza da cui dipende peraltro il flusso di energia che raggiunge la Terra. Pi` u problematico risulta quindi risalire dall’energia raccolta alla superficie della Terra all’energia emessa per unit` a di tempo (luminosit` a intrinseca) da una sorgente di cui sovente ` e difficile valutare con precisione la distanza. Metodi diretti (parallassi trigonometriche A1.3) applicati sia da terra che da veicoli spaziali consentono oggi di conoscere con buona precisione la distanza degli oggetti pi` u vicini al nostro sistema solare, che rappresentano peraltro una frazione min- imale dell’Universo osservato. Al di l` a di tale campione locale, la valutazione delle distanze riposa sulla diponibilit` a di opportune “candele standard”, cio` e sull’utilizzo di particolari 1

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Capitolo Primo del libro "Astrofisica Stellare" di Vittorio Castellani.Info e copyright qui:http://snipurl.com/astellare

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Capitolo 1

Evidenze evolutive nell’Universostellare

1.1. Gli osservabili stellari

La prima antichissima evidenza di quella vasta e strutturata distribuzione spaziale di materiacui diamo il nome di Universo risiede nel flusso luminoso che ci proviene dalle sorgenti stellari.La consapevolezza che tali sorgenti debbano essere riguardate come corpi celesti analoghi alvicino Sole, piu volte adombrata nel corso della storia del pensiero scientifico e certamentegia fatta propria da Galileo, e alla base di una svolta conoscitiva nello studio dell’Universo:dalla Astronomia, intesa come semplice analisi delle posizioni e dei movimenti apparentidelle stelle sulla volta celeste, si apriva la strada all’ Astrofisica ed allo studio delle proprietafisiche degli oggetti stellari.

Tale studio non puo peraltro che essere basato sull’analisi della radiazione elettromag-netica che da tali oggetti ci giunge e quindi, in termini operativi, sulla analisi dei fotoniraccolti da telescopi e focalizzati su opportuni rivelatori. In linea generale, ci attendiamo cheuna sorgente stellare sia caratterizzata dalla quantita di energia luminosa emessa nell’unitadi tempo sotto forma di fotoni e dalla distribuzione dei fotoni stessi alle varie frequenze olunghezze d’onda (”distribuzione spettrale” o ”spettro” della radiazione). Fortunatamente,si trova che nella grande maggioranza dei casi tale distribuzione risulta con buona approssi-mazione assimilabile a quella attesa da un corpo nero (→ A1.1) di opportuna temperatura.Potremo dunque parlare di una “temperatura della sorgente”, e caratterizzare tali temper-ature attraverso opportune definizioni delle “magnitudini” stellari e dei relativi “indici dicolore” (→ A1.2). Le osservazioni mostrano che le temperature stellari risultano tipicamentecontenute in un intervallo non molto esteso, orientativamente tra i 3.000 ed i 30.000 gradiKelvin (K).

La distribuzione spettrale della radiazione non dipende dalla distanza della sorgente, dis-tanza da cui dipende peraltro il flusso di energia che raggiunge la Terra. Piu problematicorisulta quindi risalire dall’energia raccolta alla superficie della Terra all’energia emessa perunita di tempo (luminosita intrinseca) da una sorgente di cui sovente e difficile valutare conprecisione la distanza. Metodi diretti (parallassi trigonometriche → A1.3) applicati sia daterra che da veicoli spaziali consentono oggi di conoscere con buona precisione la distanzadegli oggetti piu vicini al nostro sistema solare, che rappresentano peraltro una frazione min-imale dell’Universo osservato. Al di la di tale campione locale, la valutazione delle distanzeriposa sulla diponibilita di opportune “candele standard”, cioe sull’utilizzo di particolari

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Fig. 1.1. Rappresentazione schematica della struttura della nostra Galassia. Le distanze sonomisurate in parsec (1 pc ∼ 3.3 anni luce → A1.3)

sorgenti stellari di cui si ritiene di poter conoscere a priori la luminosita intrinseca dellastruttura.

A questi due osservabili “macroscopici” delle proprieta radiative di una stella si ag-giunge una ulteriore e preziosa informazione a livello microscopico. La non esatta corrispon-denza tra gli spettri stellari e la distribuzione di corpo nero e infatti da attribuirsi in largamisura alla presenza di righe e bande oscure variamente distribuite lungo lo spettro, causatedall’assorbimento selettivo di radiazione (→ A1.4) da parte degli atomi o molecole di cui ecomposta la porzione piu superficiale di una struttura stellare (atmosfera stellare). La teo-ria delle atmosfere stellari consente oggi di risalire con buona precisione dagli assorbimentiosservati all’abbondanza delle varie specie atomiche, fornendoci la preziosa (e per lungotempo insperata) opportunita di acquisire informazioni sulla composizione chimica di taliatmosfere.

1.2. Le galassie: evidenze di evoluzione dinamica

Pur limitandosi al solo osservabile “temperature”, l’esame delle sorgenti stellari suggeriscetutto un insieme di evidenze evolutive collegabili alla storia della materia nella nostraGalassia e, piu in generale, ad una storia dell’Universo stesso, delle sue strutture e dellamateria in esse contenute. E’ su tale quadro di evidenze che l’Astrofisica Stellare e chiamataad operare, al fine di raggiungere valutazioni quantitative che consentano di svilupparel’ambizioso programma di ricostruire nei dettagli la storia dell’Universo nel suo insieme,ricavando tale storia dall’analisi delle testimonianze stellari che sopravvivono disseminatenello spazio.

E’ ben noto come la fascia luminosa che attraversa il cielo notturno, detta “Via Lattea”,debba essere interpretata come evidenza che il Sole faccia parte di un sistema strutturato distelle detto Galassia, dal greco Γαλαξιασ = “Latteo”, ove e sottinteso il termine “circolo”.L’osservazione ha portato a riconoscere nella Galassia tre componenti principali che sonoqui elencate in ordine di rilevanza osservativa (fig.1.1):

1. Un disco, di raggio '15 chiloparsec (kpc) e spessore '300 pc, popolato da stelle e nubi dimateria diffusa sotto forma di polveri e gas. Caratteristica la presenza di ammassi stellariaperti (fig. 1.2), tipicamente formati da non piu di qualche migliaio di stelle, non legategravitazionalmente e senza evidenti simmetrie . Numerose evidenze indicano l’esistenzanel disco di una sottostruttura a spirale, in analogia a quanto osservato direttamente inaltre galassie (fig. 1.3).

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Fig. 1.2. Distribuzione sulla volta celeste degli ammassi stellari aperti della nostra Galassia chemarcano la collocazione del disco galattico. Sono utilizzate coordinate galattiche ove la latitudinegalattica (b) e misurata con riferimento al piano definito dalla Via Lattea e per la longitudine (l) siassume come origine la direzione del centro galattico.

Fig. 1.3. Mappa della posizione sul piano del disco galattico di alcuni tracciatori di spirale neidintorni del Sole. I simboli rappresentano giovani ammassi stellari aperti (cerchi pieni) e nubi diidrogeno ionizzato dalla radiazione di contigue stelle giganti blu (cerchi vuoti). Le concentrazionidegli oggetti lungo fasce evidenziano porzioni locali delle braccia a spirale della nostra Galassia.

2. Un nucleo (bulge), centro di simmetria per il disco, particolarmente ricco di stelle e dimateria diffusa.

3. Un alone sferico, di raggio comparabile a quello del disco, nel quale sono presenti essen-zialmente solo oggetti stellari, distribuiti con buona simmetria attorno al nucleo galattico.Caratteristica la presenza di oltre cento ammassi globulari (→ A1.5), formati da sino adun milione di stelle, gravitazionalmente legate in strutture a spiccata simmetria sferica.

Strutture di questo tipo sono riconosciute per ogni dove nell’Universo, a partire da quandoi primi grandi telescopi riuscirono a risolvere un antica controversia, mostrando come lenebulose spiraleggianti intraviste con i cannocchiali ottocenteschi dovessero essere riguardaticome strutture dalle dimensioni e strutture analoghe a quelle della nostra Galassia poste adenormi distanze. Per la galassia a noi piu vicina (M31 = Andromeda) stimiamo oggi, peresempio, una distanza di ∼700 kpc.

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Fig. 1.4. Schema evolutivo della Galassia. I punti rappresentano il gas, le crocette le stelle edammassi di alone, i cerchi aperti le prime stelle di disco. Gli asterischi rappresentano l’esplosione disupernovae ed i cerchietti pieni stelle arricchite di elementi pesanti. R rappresenta l’asse di rotazionedella Galassia. Il raggio dei cerchi e di circa 15 kpc. Nella fase b sono indicate alcune orbite dellapopolazione di alone (stelle od ammassi).

Di particolare rilevanza appare la differenza di temperatura tra stelle di disco e di alone.Nella nostra Galassia e, per quanto e possibile verificare, in tutte le galassie simili alla nostra(galassie a spirale), si ha infatti che:

1. Tra le stelle che popolano il disco, le piu luminose appaiono tipicamente stelle ad altatemperatura (stelle blu, T∼10.000 K).

2. L’alone galattico e invece dominato da stelle a temperatura nettamente inferiore (gigantirosse, T∼5.000 K).

Da queste osservazioni scaturisce, sia pur a livello di ipotesi di lavoro, un quadro inter-pretativo che collega evidenze stellari ed evoluzione galattica. Dovendosi assumere che lestelle siano il risultato della condensazione di materia diffusa sotto l’influenza del campogravitazionale, e innanzitutto evidente che nell’alone della Galassia, ove tale materia diffusae praticamente assente, il processo di formazione stellare e al presente inibito. Le stelle chepopolano l’alone devono quindi essere il ricordo di una fase precedente, in cui l’intero aloneera occupato da una nube di materia diffusa a simmetria tipicamente sferica (protogalassia).

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Alla formazione di una prima generazione stellare nel corpo di questa protogalassia deveaver fatto seguito il collasso del gas residuo (fig. 1.4) a formare il disco, con tempi scalacaratteristici di ∼ 3 × 108 anni per un collasso in caduta libera (collasso non dissipativo).Nel disco cosı formatosi sono restati e restano attivi i processi di formazione stellare a spesedella materia diffusa ivi addensata. Se cio e vero, le popolazioni stellari di alone devono esserele piu antiche della Galassia, e la differenza di stato fisico delle strutture stellari potrebbeessere messa in relazione proprio alla differente eta. Cosı varrebbero le relazioni:

Alone → Predominio di giganti rosse → strutture stellari antiche.Disco → Predominio di stelle blu → strutture stellari giovani.

Pur senza entrare in casistiche dettagliate (→ A1.6) ricordiamo d’altronde comenell’Universo, sia pur nel quadro di una gran varieta di forme e dimensioni, si osservinodue tipi fondamentali di agglomerazioni di materia su scala galattica:

1. Galassie a spirale, quali la nostra e M31, nelle quali e presente un disco (con spiraliregolari o barrate) immerso in un alone dominato da giganti rosse.

2. Galassie ellittiche, nelle quali e presente solo una componente sferoidale di alone.

E’ interessante notare come le galassie ellittiche mostrino di essere dominate da unacomponente stellare a bassa temperatura, come chiaramente indicato dal loro colore. Questaosservazione sembra integrare il quadro evolutivo precedente, suggerendo che le prime gen-erazioni stellari siano nate, in ogni caso, da nubi protogalattiche sferoidali ed in un lontanopassato. Solo se, per motivi al momento imprecisati, tale processo di generazione stellarelascia nella struttura del gas residuo, tale gas si condensa lungo un disco ove rimangono ef-ficienti ulteriori processi di formazione stellare. Notiamo che da queste semplici osservazioniemerge che l’Universo ha una storia: c’e stata nel passato un era per la formazione dellegalassie, e cio contraddice quella teorie che vorrebbero l’Universo sempre eguale a se stesso(teorie dello stato stazionario).

Il quadro evolutivo cosı delineato e peraltro suscettibile di modifiche anche sostanzialisulle quali e ancora vivo il dibattito: il collasso del protoalone potrebbe essere stato di tipodissipativo, e quindi su tempi scala termodinamici, o - ipotesi ancor piu radicale - nellaformazione degli aloni potrebbero aver giocato un ruolo processi di cattura e di mergingdi sistemi stellari preesistenti. Le teorie di evoluzione stellare sono chiamate a precisare,definendoli quantitativamente, tali scenari evolutivi, fornendo risposte che - come abbiamovisto - coinvolgono non solo la storia della nostra Galassia ma anche la storia del piu generalestrutturasi in galassie dell’Universo nel suo insieme.

1.3. Diagramma HR e isocrone di ammasso.

Per integrare il quadro osservativo sul quale le teorie dell’evoluzione stellare sono chiamatead operare, dobbiamo ora aggiungere le informazioni riguardanti le luminosita intrinsechedegli oggetti stellari. A tale scopo appare naturale organizzare in un diagramma le duecaratteristiche che definiscono le proprieta radiative di una struttura stellare: la luminosita L(energia emessa per unita di tempo) e temperatura efficace Te (→ A1.1). Un tale diagrammaprende il nome di diagramma di Hertzsprung Russel o diagramma HR dal nome dei duericercatori che agli inizi del novecento per primi ricorsero a tale rappresentazione . Quando alposto delle grandezze fisiche L, Te si usano le correlate grandezze osservative “magnitudine”e “indice di colore” tali diagrammi prendono anche il nome di diagrammi Colore Magnitudineo diagrammi CM.

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Fig. 1.5. Magnitudini visuali assolute MV in funzione del colore B-V per stelle con distanza dalSole minore di 20 pc, parallassate trigonometricamente dal satellite astrometrico Hipparcos. Lafreccia indica la magnitudine assoluta del Sole (MV =4.8). Luminosita e temperatura delle sorgentidecrescono all’aumentare, rispettivamente, di MV e B-V.

Organizzando in tale diagramma i dati magnitudine assoluta-colore per le stelle neidintorni del Sole, le cui distanze sono note grazie alle parallassi trigonometriche, osserviamoche la maggior parte delle stelle si dispone lungo una sequenza monoparametrica che vadalle alte luminosita e alte temperature verso valori decrescenti di ambedue questi parametriosservativi (fig. 1.5). Non sorprendentemente, a tale sequenza viene dato il nome di SequenzaPrincipale o, con terminologia inglese, Main Sequence sovente abbreviata in MS. Nello stessodiagramma si notano alcune stelle che si distaccano sensibilmente dalla sequenza, posterispettivamente a alte temperature e minori luminosita o a basse temperature e maggioriluminosita. Ricordando che la temperatura regola l’emissivita del corpo nero, e immediatodedurne che le prime devono essere sensibilmente piu piccole e le seconde piu grandi, evidenzache giustifica i nomi di Nane Bianche (White Dwarfs = WD) per le prime e di Giganti Rosse(Red Giants = RG) per le seconde. Da segnalare infine la presenza di alcune, rare, stelle chesi collocano al di sotto della MS, note come ”Subnane di campo” (Subdwarfs = SD)

Informazioni analoghe sono anche ottenibili tracciando il diagramma HR per stelle ap-partenenti ad un ammasso: e lecito infatti assumere che le mutue distanze tra le stelledell’ammasso siano molto minori della distanza dell’ammasso stesso dal Sole. In tale caso siconservano i rapporti delle diverse luminosita. Ricordando che nelle magnitudini appaionoi logaritmi delle luminosita, se ne trae che le magnitudini osservate si distribuiscono in talediagramma esattamente come le magnitudini assolute, differendo da esse per una costantedi scala additiva dipendente dalla distanza dell’ ammasso (modulo di distanza dell’ammasso→ A1.2).

Costruendo cosı diagrammi HR per ammassi contenuti nel disco o nell’alone galattico(fig. 1.6 e fig. 1.7) si osserva la costante presenza di sequenze monoparametriche, la cuitopologia varia peraltro sensibilmente al variare della collocazione galattica. Gli ammassi didisco mostrano diagrammi HR per molti versi analoghi a quello delle stelle nella vicinanzadel Sole. Gli ammassi globulari dell’alone galattico se ne discostano invece sensibilmente:sono assenti le giganti blu (come gia avevamo indicato) ed appaiono nuove sequenze indicaterispettivamente come “Ramo delle Giganti Rosse” (RGB = Red Giant Branch), “Ramo

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Fig. 1.6. Diagramma HR dell’ammasso aperto delle Iadi, tipico di ammassi aperti del disco galat-tico. In ordinata le magnitudini assolute (MV ) come ricavate dalle magnitudini relative e dal modulodi distanza (DM =3.33) fornito dal satellite astrometrico Hipparcos (→ A1.2). In ascissa i coloriB-V. Per opportuno confronto la freccia riporta la magnitudine assoluta del Sole.

Fig. 1.7. Magnitudini visuali V in funzione del colore B-V per le stelle dell’ammasso globulareM5 di alone. La freccia riporta la magnitudine V del Sole posto alla distanza dell’ammasso (DM ∼15.07 )

Orizzontale” (HB = Horizontal Branch) e “Ramo Asintotico” (AGB = Asymptotic GiantBranch).

Recentemente il grande progresso osservativo portato da Telescopio Spaziale Hubble(HST= Hubble Space Telescope) ha consentito di estendere le osservazioni degli ammassiglobulari a stelle di debole luminosita non rivelabili da Terra, integrando notevolmente lenostre conoscenze del diagramma CM di tali oggetti. La fig. 1.8 mostra come le fasi evolutiveraggiunte da Terra siano quasi la “punta di un iceberg”, al di sotto della quale si estendeuna lunga Sequenza Principale che raggiunge stelle con luminosita anche inferiori a 1/100di quella solare.

L’evidenza di diagrammi HR con sequenze monoparametriche conduce ad una rilevantededuzione. In linea del tutto generale ci si attende infatti che le caratteristiche evolutive dellestelle debbano dipendere da molti parametri e, in particolare, dalla composizione chimica

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Fig. 1.8. Diagramma CM delle stelle nell’Ammasso Globulare M92 ottenuto combinando le osser-vazioni da Terra con le osservazioni HST

della materia da cui si sono formate, dalla massa e dall’eta delle strutture, non escludendol’intervento di altri fattori quali, ad esempio, lo stato di rotazione delle strutture medesime.L’evidenza di sequenze monoparametriche indica che nelle stelle di un ammasso solo unodi tali parametri varia in maniera indipendente, governando la collocazione nel diagrammaHR delle varie strutture. Se le stelle di un ammasso sono nate in un comune processo diformazione, nulla osta a che le stelle abbiano avuto in origine una comune composizionechimica e una comune eta. Pare invece irrealistico che processi di fragmentazione del pro-toammasso gassoso abbiano portato a valori fissi per la massa degli oggetti stellari formati,cpsi da suggerire che la massa stellare debba essere il parametro che governa la distribuzionenel diagramma HR.

Il diagramma HR conferma in tal modo l’ipotesi che le stelle di un ammasso si sianoformate da un unica nube ed in una determinata epoca, in un intervallo di tempo piccolorispetto all’eta dell’ammasso. Il diagramma HR delle stelle di un ammasso deve quindi essereinterpretato come il luogo, nel piano luminosita - temperatura, di stelle aventi massa diversae costante eta e composizione chimica (isocrona di ammasso).

Nel quadro evolutivo che siamo andati delineando, la differenza tra i diagrammi degliammassi di alone e di disco dovrebbe essere, almeno in parte, attribuita a differenze di eta.Se ne puo trovare una conferma indiretta nello studio di sistemi binari per i quali e possibilevalutare massa e luminosita delle stelle (→ A1.7). Si trova infatti che in stelle di sequenzaprincipale la luminosita e direttamente correlata alla massa, crescendo al crescere di questa.Di particolare rilevanza e la constatazione che la luminosita cresce secondo potenze superioridella massa (orientativamente L∼M3.5 - fig. 1.9). Se ne trae infatti l’evidenza che la quantitadi energia emessa da una stella per unita di tempo e di massa cresce anch’essa rapidamentecon la massa della stella.

Cio suggerisce che le stelle a massa maggiore debbano esaurire piu rapidamente la lororiserva di energia, qualunque essa sia, e che, quindi, abbiano tempi evolutivi piu rapidi e vita

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Fig. 1.9. La relazione massa-luminosita per stelle di sequenza principale in sistemi binari.

totale piu breve. Non stupisce quindi l’assenza di stelle luminose blu di sequenza principalenell’alone: se le stelle di alone sono sensibilmente piu antiche di quelle di disco ci si attendeappunto che le stelle piu massicce abbiano esaurito il loro tempo di vita, scomparendo dallasequenza principale. Resta naturalmente da identificare l’origine delle osservate sequenze diGiganti Rosse e di stelle di Ramo Orizzontale.

Colore, luminosita e spettri delle stelle contribuiscono quindi a suggerire un quadro evo-lutivo di notevole interesse per la storia della nostra Galassia, quadro che una opportunateoria delle strutture e della evoluzione stellare e chiamata a confermare e precisare.

1.4. La Galassia: evoluzione nucleare. Popolazioni stellari

Il quadro che siamo andati delineando nei punti precedenti si amplia quando si aggiunganole informazioni provenienti dall’analisi spettroscopica. Dalle righe di assorbimento dei varielementi e possibile risalire con buona precisione alla abbondanza degli elementi stessi nelleatmosfere stellari. Il quadro che se ne evince si salda direttamente alle analisi precedentiampliando le ipotesi ivi avanzate. La materia dell’Universo risulta per la maggior parte(oltre il 98 % in massa) sotto forma di idrogeno ed elio. Ovunque sono peraltro presentigli elementi piu pesanti , ma con la caratteristica che negli ammassi dell’alone galattico talielementi risultano di 1-2 ordini di grandezza meno abbondanti di quanto riscontrabile nellestelle di disco e, in particolare, nel nostro Sole (fig. 1.10).

E’ invalso l’uso in astrofisica di indicare col termine “metalli” l’insieme di tutti gli ele-menti con nuclei piu pesanti di quello dell’elio, e quindi con numero atomico A > 4 (→ A1.8),e di indicare con Z l’abbondanza in massa di tali elementi, cioe la massa che in un grammodi materia e sotto forma di “metalli”. Le abbondanze in massa di idrogeno e elio vengonorispettivamente indicate come X o Y, valendo per definizione X+Y+Z =1. Utilizzando talenotazione, nella Galassia risulta indicativamente:

Alone → Zalone ∼ 10−4 − 10−3.Disco → Zdisco ∼ 10−2 (Sole → Z ∼ 2 · 10−2).

Assumendo lo schema di progressione temporale protogalassia → alone → disco, risul-terebbe cosı che gli oggetti piu antichi della nostra Galassia sono nel contempo caratterizzatida una netta sottoabbondanza di elementi pesanti. Cio suggerisce che la composizione nucle-are della materia nell’Universo non sia immutabile, e che al fluire del tempo si sia modificatanon solo la morfologia delle strutture ma anche la distribuzione delle specie nucleari nella

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Fig. 1.10. L’abbondanza dei vari elementi nell’ atmosfera del Sole, graficata in funzione del numerodi massa A: La distribuzione e normalizzata ponendo l’abbondanza del Silicio pari a 106. Si notacome l’idrogeno risulta almeno 1000 volte piu abbondante di tutti gli altri elementi, fatta eccezioneper l’elio. Si notino le peculiari abbondanze dei nuclei di 12C e dei successivi multipli del nucleo dielio (O, Ne, S ...). Si notino infine i picchi nella distribuzione in corrispondenza del ferro e per inumeri magici di neutroni N 50, 82, 126. Nelle stelle di alone si hanno distribuzioni simili ma conminore complessiva abbondanza di elementi pesanti.

materia da cui tali strutture si sono formate, materia che nel tempo deve essersi andata ar-ricchendo di elementi pesanti. Poiche la produzione di nuovi elementi implica l’efficienza direazioni nucleari, e quindi di materia in condizioni altamente energetiche, pare naturale indi-viduare nell’interno delle stelle la sede preferenziale per l’efficienza di tali processi. Previsioneche mostreremo essere ampiamente confermata da dettagliate valutazioni teoriche.

L’informazione spettroscopica diviene tanto piu rilevante quando ci mostra come le stelleche compongono un “ammasso stellare”, pur presentando una varieta di fasi evolutive (cioedi luminosita e temperature superficiali), mostrino una sensibile uniformita di composizionechimica. Cio non solo conferma l’ipotesi che tali aggregati di stelle si siano formati da unaoriginaria comune nube di materia protoammasso, ma indica anche che l’evoluzione dellestrutture stellari non modifica sensibilmente la composizione chimica degli strati piu super-ficiali, che di conseguenza deve essere rimasta ancora quella della nube originaria. Poiche eimmediato riconoscere che alla superficie di una stella - a causa delle limitate temperature- non possono mai essere state efficienti reazioni nucleari, l’indicazione precedente va lettacome una evidenza che nel corso dell’evoluzione di una struttura stellare non si verificanoin genere rimescolamenti profondi in grado di alterare macroscopicamente la composizionedegli strati superficiali.

In questa luce, risulta quindi che una struttura stellare, all’atto della sua formazione,“congela” alla sua superficie la composizione nucleare della materia interstellare dalla qualela stella stessa si e formata. Acquisendo quindi informazioni sull’eta di strutture stellariattualmente osservabili ricaviamo nel contempo informazioni sulla storia della composizionedella materia interstellare, mappandone l’evoluzione non solo nello spazio ma anche neltempo. Le teorie di evoluzione stellare sono chiamate a confermare un tale quadro evolu-tivo, producendo nel contempo quelle informazioni quantitative che consentano una dettagli-ata ricostruzione conoscitiva del passato, ricollegando le evidenze osservative del presenteUniverso ad una catena di avvenimenti che ci conduca alla comprensione della storia dellanostra Galassia in particolare e, piu in generale, dell’Universo nel suo insieme.

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E’ importante notare che la bassa metallicita degli ammassi globulari dell’alone si rac-corda con una piu generale differenza nelle caratteristiche delle strutture stellari che com-pongono la Galassia, come portata alla luce dallo studio della dinamica degli oggetti stellaridi campo, non appartenenti cioe ad ammassi. Per discutere questo punto e da premettereche il Sole, in quanto stella del disco, ruota attorno al centro galattico, con una velocita dicirca 220 km/sec, compiendo dunque un’intera orbita in circa 200 milioni di anni. Le stellenei dintorni del Sole che partecipano alla rotazione del Sole attorno al centro galattico, eche hanno quindi piccole velocita relative al Sole, hanno sempre metallicita simili a quellesolari. Il disco e peraltro attraversato anche dalle orbite di stelle di alone che non partecipanoalla rotazione del disco e che nei pressi del Sole si manifestano come un gruppo di stelle adalta velocita, conseguenza del moto riflesso del Sole. Queste stelle di alone risultano sempredi piccola massa (e quindi a lunga vita media) e tipicamente sottoabbondanti in metalli,collocandosi nel diagramma CM al di sotto della MS, nel gruppo delle Subdwarf.

Sommando tali evidenze a quelle fornite dagli ammassi stellari si conclude che glioggetti stellari, indipendentemente dalla loro appartenenza ad ammassi, possono dividersiin ”famiglie” caratteristiche per la loro collocazione galattica, per l’eta, per il contenuto inmetalli e per la morfologia dei rispettivi ammassi stellari. A tali caratteristiche si associaanche una ulteriore differenza in stelle che mostrano una regolare e periodica variazionedi luminosita (stelle variabili). Nelle stelle di alone appaiono infatti variabili di tipo RRLyrae, con periodo minore di un giorno, mentre nel disco si trovano solo variabili Cefeidi,con periodo molto piu lungo, sino ad alcuni mesi.

Si giunge cosı al concetto di popolazioni stellari galattiche, secondo lo schema:

1. Popolazione I → disco galattico: stelle giovani (giganti blu), abbondanza solare, ammassiaperti, variabili Cefeidi.

2. Popolazione II→ alone galattico: stelle anziane (giganti rosse), povere di metalli, ammassiglobulari, variabili RR Lyrae.

Tale schematizzazione non deve peraltro essere riguardata come una evidenza per unanetta bimodalita nelle popolazioni stellari della Galassia. Essa rappresenta invece i duecasi estremi ed evidenti di una piu graduale distribuzione delle proprieta stellari al variaredella collocazione galattica. Gradualita che si riflette nel definire una Popolazione estrema odintermedia ed una Popolazione I di disco, vecchia o estrema, in ordine di crescente metallicita,crescente appiattimento sul disco e decrescente eta. Distribuzione che e evidentemente dacollegarsi alla storia dinamico-chimica della materia nella galassia medesima.

E’ da notare che le popolazioni stellari cosı definite descrivono le caratteristiche delsistema alone-disco nella nostra Galassia con categorie non necessariamente estendibili atutti gli altri sistemi stellari. Nello stesso nucleo galattico troviamo infatti, ad esempio,ammassi globulari antichi ma ricchi di metalli, e nelle vicine Nubi di Magellano troviamoinvece ammassi globulari giovani ma poveri di metalli, che non rientrano nelle precedenteclassificazione. Il concetto di popolazione stellare puo mantenere una sua generalita quandosi svincoli dall’eta collegandolo esclusivamente al contenuto in elementi pesanti, cioe alladistanza genetica che separa la formazione di una popolazione stellare dalla materia priva dimetalli emersa dal Big-Bang (→ 1.5). In questa accezione, nel nucleo galattico potremo alloraparlare di una popolazione I vecchia e nelle Nubi di Magellano di ammassi di popolazioneII giovani.

1.5. L’Universo: evoluzione dinamica ed evoluzione nucleare

Lo scenario evolutivo sin qui suggerito da un esame delle evidenze fornite dagli oggetti stellarisi salda con impressionante coerenza ad un parallelo scenario evolutivo fornito dall’ evidenza

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osservativa del fenomeno di “recessione” delle galassie ( → A1.9). L’evidenza di un Universoin espansione porta con semplici argomenti dinamici ad ipotizzare, tornando indietro neltempo, un Universo sempre piu denso e piu caldo, sino a giungere - circa 1010 anni or sono- in prossimita di uno stato in cui densita e temperatura tendono a divergere. L’osservataradiazione di fondo cosmico, a circa 3 K, supporta tale ipotesi, talche oggi e pressocheunanimemente accettato che l’Universo attuale abbia preso origine da una fase nella qualemateria e radiazione erano fortemente accoppiate, raggiungendo valori che in prossimita deltempo zero (Big-Bang) possono essere seguite sino ad almeno T∼1013 K, ρ∼1015 gr/cm3.La storia dell’Universo nel suo insieme risulta cosı la storia della progressiva espansione eraffreddamento di materia e radiazione che componevano tale iniziale “sfera di fuoco”.

Per quanto inaspettato possa apparire, ne consegue che e possibile operare previsioni sulladistribuzione delle specie nucleari emerse dalla sfera di fuoco per costituire la composizionechimica iniziale della materia nel nostro Universo. Alle condizioni estreme di temperatureindicate, l’energia media per particella risulta infatti dell’ordine del GeV (109 eV), moltomaggiore delle energie di legame dei nuclei. A tali livelli di energia non potevano quindiesistere strutture nucleari, esistendo solo un ”brodo” di quark, leptoni e fotoni in equilibriotermodinamico. Ne segue che in tali condizioni la materia non conserva memoria del propriopassato e in questo senso dobbiamo concludere che la storia del presente Universo inizia dalBig-Bang.

E’ possibile seguire il destino di questo gas primordiale per scoprire che la composizionedella materia uscita dal Big-Bang non poteva contenere elementi piu pesanti dell’elio, lim-itandosi anzi essenzialmente a idrogeno ed 4He. Per mostrare cio occorre seguire il destinodei nucleoni (protoni (p) e neutroni (n)) sino al momento in cui la temperatura scende avalori (∼109 K) ai quali l’energia media di particelle e fotoni scende al di sotto dell’energiadi legame del primo nucleo complesso possibile, il deuterio (D= 2H), cosı che i nuclei diD eventualmente formati non vengano immediatamente distrutti da processi di fotodisinte-grazione.

A 1011 K (10−2sec dalla discontinuita iniziale) vi sono a disposizione ancora circa 10 Mevper particella, cioe un’energia sensibilmente superiore all’ energia del decadimento spontaneodel neutrone.

n → p + e+ + ν (+1.2

In tali condizioni ci si attende che il numero di neutroni sia paragonabile a quello deiprotoni ( → A1.10). A 1010 K (10 sec) l’energia media delle particelle e dei fotoni diventaparagonabile all’energia del decadimento, l’equilibrio e spostato a favore dei protoni ed ineutroni cominciano a decadere in protoni. In tutto questo arco di tempo la fusione direttaprotone-neutrone in deuterio (D)

n + p → 2D + γ

e vanificata dalla immediata fotodisintegrazione del deuterio. A 109 K (∼10 sec) il Ddiviene finalmente stabile, ma l’equilibrio e ormai definitivamente spostato a favore deiprotoni. Il neutrone libero ha peraltro una vita media dell’ordine di 15 minuti, cosı che a 109

K - quando il deuterio diventa stabile - sopravvive una frazione consistente di neutroni checoncorrono con i protoni alla formazione per fusione nucleare di nuclei di deuterio. Cio dainizio ad una serie di reazioni nucleari particolarmente favorite, quale - ad esempio - quelladi D + D che ha una probabilita 1022 maggiore della protone-protone, che conducono allaformazione dell’isotopo 4 dell’ elio:

n + p → D + γ2D + 2D → 3He + n

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3He + n → 3H + p2D + 3H → 4He + n

Non e peraltro possibile costruire nuclei piu pesanti dell’ elio 4 poiche in natura nonesistono isotopi stabili con numero di massa 5, e la possibile reazione

42He + n → (52He)∗)→ 4

2He + n

e seguita da un decadimento con vita media 10−21 sec, che riconduce inevitabilmente all’elio 4.

Curiosamente, le proprieta dei nuclei sembrano disegnate per precludere ogni possibilitadi superare il limite dell’elio 4. Non esistono infatti nuclei stabili anche, e solo, per il numerodi massa 8. Ne consegue che per superare il “muro” dell’elio 4 non servono nemmeno lepossibili reazioni tra i nuclei gia prodotti

3He + 4He → 7Be + γ4He + 4He → 8Be + γ

perche la prima indirettamente e la seconda direttamente portano alla formazione diberillio 8 che con tempi caratteristici di 10−16 sec ridecade in due α

8Be → 4He + 4He.

Furono proprio queste curiose proprieta dei nuclei a convincere a suo tempo Gamowa desistere dal tentativo di giustificare la presenza in natura di elementi pesanti tramiteil Big-Bang. Se ne trae invece l’evidenza che la materia, cosı come uscita dalla sfera difuoco, doveva essere essenzialmente composta da H ed He, con tracce di D, 3He e pochi altrielementi leggeri.

La valutazione delle quantita di elementi prodotti da questa nucleosintesi primordialedipende criticamente dai particolari dell’evoluzione temporale della sfera di fuoco. La quan-tita di elementi leggeri cosı prodotti sono quindi correlate al modello di Big-Bang e, at-traverso questo, alle caratteristiche del passato e presente Universo (fig. 1.11). Calcoli det-tagliati basati sul “modello standard” del Big-Bang conducono in particolare a correlarel’abbondanza dell’ elio (elio cosmologico) alla densita nell’ Universo attuale di materia bar-ionica, secondo la relazione

YC∼ 0.23 + 0.094 (ρ/ρcrit)

dove YC rappresenta l’abbondanza in massa dell’elio cosmologico, ρ la densita attualedell’Universo e ρcrit ( ∼ 10−29 gr/cm3) e la densita critica, cioe la densit media dell’Universoattuale (→ A1.11) al di sotto della quale l’energia cinetica del moto di espansione superal’energia gravitazionale e l’Universo sarebbe costretto ad espandersi indefinitamente.

Poiche la nucleosintesi di origine stellare, che aggiungera i suoi prodotti agli elementi cos-mologici, puo solo aumentare l’abbondanza di elio, l’elio presente nella materia dell’attualeUniverso rappresenta un limite superiore per l’abbondanza di elio cosmologico. La cosmolo-gia del Big-Bang prevede dunque che nell’Universo intero l’idrogeno appaia sempre mescolatocon una non trascurabile quantita di elio, la cui minima abbondanza e fornita dalla relazioneprecedente.

Le osservazioni confermano l’esistenza per ogni dove di tale elio cosmologico, fornendoun valore che si aggira attorno a Y ∼ 0.23. Se ne deve concludere che la densita di barioninell’Universo attuale e circa un fattore 100 al di sotto del valore critico ρcrit ( ∼ 10−29

gr/cm3), valore confortato anche dalle abbondanze cosmologiche degli altri elementi leggeri ein buon accordo con le stime di densita ricavabili dalla distribuzione delle galassie. Dovremmo

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Fig. 1.11. La produzione di elementi nel big bang come funzione della densita di barioninell’Universo attuale.

quindi concludere per un Universo e aperto, a meno che non vi sia il contributo di massasotto forma non barionica (materia oscura). Eventuale massa posseduta dai neutrini odaltre particelle, quali le ipotizzate WIMPS (Weak Interacting Massive Particles) potrebbeperaltro concorrere a chiudere l’Universo.

I recenti risultati del satellite WMAP, lanciato nel 2001 dalla NASA per studiare la ra-diazione di fondo cosmico, hanno confortato un tale scenario, portando peraltro nuove edimportantissime informazioni. L’Universo, con un’eta di 13.7 miliardi di anni, appare pi-atto, e la densita critica viene raggiunta grazie al contributi di un 4% di materia barionica,23% di materia oscura non barionica e un ulteriore 73% di “energia oscura”, un compo-nente tuttora misteriosa cui talvolta si da anche il nome di “Quintessenza”. Un esempiodi come ormai astrofisica, cosmologia e fisica fondamentale debbano essere riguardate comemomenti conoscitivi strettamente correlati nel comune obiettivo di svelare la storia ed ilcomportamento dell’Universo.

1.6. Gli obiettivi dell’astrofisica stellare

Il quadro di ipotesi evolutive che siamo andati tratteggiando fornisce nel contempo le indi-cazioni dei principali obiettivi che si pone la ricerca astrofisica stellare. Un primo obiettivo edi rendere conto dell’attuale presenza di elementi pesanti che devono essersi formati in fasisuccessive al Big-Bang per processi di fusione nucleare a partire dall’idrogeno ed elio cosmo-logici. Si e gia indicato come sia difficile sfuggire alla conclusione che l’interno delle stelle siala sede preferenziale per i processi in questione. Previsione che sara ampiamente confortatadai risultati teorici, talche oggi abbiamo raggiunto la ragionata convinzione che ogni nucleopiu pesante dell’elio esiste nell’Universo solo ed in quanto e stato a suo tempo sintetizzatoall’interno di una struttura stellare. La presenza di tali nuclei nella materia interstellare,come nel nostro stesso pianeta Terra, e evidenza di un fenomeno di riciclaggio della mate-ria elaborata nelle strutture stellari ed espulsa dalle medesime secondo meccanismi di cuil’esplosione di una “supernova” puo essere solo un esempio.

Ma abbiamo nel contempo anche gia indicato come si possa riguardare alle strutturestellari che oggi popolano gli spazi come testimoni dell’evoluzione nello spazio e nel tempodella materia dell’Universo. Ne segue che, nel suo aspetto piu generale, l’astrofisica stellare

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si pone due obiettivi sinergici, leggere nelle stelle attuali la storia evolutiva delle galassiee ricostruire il contributo delle ormai scomparse generazioni stellari all’evoluzione nuclearedella materia. Con il fine ultimo di ricavare una storia ragionata dell’Universo nel suo insieme,che ci consenta di comprendere come e perche l’Universo di nubi di materia, di stelle e digalassie si presenti oggi ai nostri occhi cosı come e.

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Approfondimenti

A1.1. Termalizzazione. Radiazione di corpo nero. Emissivita stellare.

Come mostrato da Planck, la radiazione elettromagnetica deve essere considerata come compostada unita elementari (quanti di energia, o fotoni) ad ognuno dei quali risulta associata una energiaE = hν, dove:

h= costante di Plank= 6.62 ·10−27 ergν= frequenza della radiazione Hz (=cicli/sec)

Un campo di radiazione elettromagnetica (quale e la luce) puo quindi essere visto come un gas difotoni tra loro non interagenti. In presenza di materia a temperatura T, i fotoni interagiscono perocon le particelle attraverso tutta una serie di processi che conducono i fotoni verso una situazioneenergetica di equilibrio, retta dalla legge di distribuzione di Planck:

u(ν) =8πhν3

c3

1

[exp(hν/kT )− 1](1)

ove u(ν)dν e la densita di energia della radiazione con frequenza tra ν e ν+dν, k la costante diBoltzmann.

Nel suo aspetto piu generale la distribuzione di Plank e una conseguenza delle necessita chediscendono dalla meccanica statistica. Un gas di particelle, se le particelle possono scambiarsi energiatramite mutue interazioni, deve evolvere verso una situazione di equilibrio nella quale la velocitadelle particelle e retta dalla nota formula di Maxwell-Boltzmann (fig. 1.12): in queste condizioni sipuo parlare di equilibrio termico e definire una temperatura T del gas cosı termalizzato.

Analogamente, una radiazione elettromagnetica che possa interagire con un sistema di particelletermalizzato evolve verso la situazione di equilibrio descritta dalla legge di Plank. In tutti e due i casi,il raggiungimento della termalizzazione della materia e della radiazione sara tanto piu rapido quantopiu efficienti sono i meccanismi di interazione e scambio energetico materia-materia e materia-radiazione.

Si puo mostrare che l’energia S irradiata in un secondo nell’ angolo solido 2π dalla unita disuperficie di un corpo in equilibrio termodinamico (corpo nero) risulta

S =c

4u (2)

e quindi, indicando con Sνdν l’energia irraggiata nell’intervallo di frequenza ν e ν + dν

Sν =2πhν3

c2

1

[exp(hν/kT )− 1]= πBν (3)

dove Bν e nota come funzione di Plank.Poiche per la lunghezza d’onda λ e λ=c/ν si ha dλ =- (c/ν2) dν e dν=-(ν2/c)dλ= -(c/λ2)dλ, il

flusso energetico per unita di superficie e di lunghezza d’onda (emittanza) risulta (fig. 1.13)

Sλ =2hc2

λ5

1

[exp(hν/kT )− 1]= πBλ (4)

Per l’energia irraggiata per unita di superficie e di tempo da un corpo nero si ha

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Fig. 1.12. La distribuzione Maxwelliana delle velocita U delle particelle di un gas segue la leggedNN

= 4π(

m2πkT

)3/2exp

(−mU2

2kT

)U2dU , dove dN e il numero di particelle nell’intervallo di velocita

dU, m la massa delle particelle e T la temperatura del gas.

Fig. 1.13. L’emissivita di un corpo nero per varie temperature in funzione della lunghezza d’ondaλ (in 103 Angstrom). La curva a tratti riporta schematicamente l’andamento dello spettro solare.

W = π∫∞0

Bλdλ = σT 4 (legge di Stefan-Boltzman)

con σ = 5.6710−5 erg/cm2sec.

Annullando nella (4) la derivata dBλ/dλ si ottiene per la lunghezza d’onda cui corrisponde ilmassimo di emissione

λmaxT= cost = 0.2898 cm K (legge di Wien).

L’emissione delle superfici stellari approssima in generale distribuzioni (spettri) di corpo nero. Intal senso si puo parlare di temperatura della radiazione e delle superfici stellari. La fig. 1.14 pone adesempio a confronto lo spettro della radiazione solare con la distribuzione di corpo nero, mostrandocome alla superficie del Sole debba essere attribuita una temperatura che si aggira attorno a T∼6000 K.

Di particolare importanza per le stelle e la temperatura efficace Te, definita dalla legge di Stefan-Boltzmann

L = 4πR2σT 4e

dove L e R indicano rispettivamente Luminosita e Raggio della stella. La temperatura efficace edunque la temperatura che avrebbe la superficie della stella se emettesse esattamente come un corponero.

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Fig. 1.14. Spettro del Sole al di fuori dell’atmosfera (punti) confrontato con il corpo nero a 6000K (tratto e punto) e con lo spettro della radiazione raccolta alla superficie della Terra. Si notinoin questo ultimo spettro, al di la di 8000 A, le bande degli assorbimenti causati da H2O, O2, H2 eCO2.

Fig. 1.15. Curve di trasmittanza dei filtri U, B e V del sistema di Johnson

A1.2. Magnitudini e indici di colore. Arrossamento

La luminosita delle sorgenti stellari, cosi come esse appaiono ad un osservatore terrestre, viene inastrofisica misurata secondo una scala logaritmica delle magnitudini ”m”, definita dalla relazione

m = −2.5 log W + cost (5)

ove W e l’energia raccolta e misurata dai rivelatori. L’energia W dipendera peraltro non solodal flusso della radiazione ma da molti altri fattori quali le dimensioni del telescopio, il tempo diesposizione, la sensibilita del rivelatore. Ci si libera da tutti questi fattori aggiuntivi attraverso lacostante che fissa il punto zero della scala delle magnitudini ed e definita prefissando la magnitudinedi una o piu stelle ”standard”. Nella pratica delle osservazioni si misurano sempre differenze dimagnitudine tra gli oggetti in studio e opportune standard, talche

m = ms − 2.5logW/Ws (6)

e la misura di una magnitudine si riduce alla misura di un rapporto di flussi.L’energia misurata dipende peraltro dalla risposta (sensibilita) del rivelatore alle varie lunghezze

d’onda convoluta con lo spettro (temperatura) della sorgente. In passato furono cosi definite, adesempio, le “magnitudini fotografiche” che facevano riferimento alla sensibilita delle emulsioni fo-tografiche. Per liberarsi per quanto possibile da tale dipendenza oggi e d’uso misurare l’energiacorrispondente solo a prefissate porzioni (bande) dello spettro. Molto usate le bande U, B, V(Ultravioletto, Blu, Visuale) di Johnson definite attraverso curve standard di trasmissione dei rel-ativi filtri (fig. 1.15). Accanto a tale sistema sono in uso anche altre bande, quali le R, I, J, H,

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Fig. 1.16. Andamento alle varia lunghezze d’onda del coefficiente di assorbimento A(λ) che misurala variazione di magnitudine causata da un arrossamento E(B-V) unitario.

K, L che coprono porzioni dello spettro a lunghezze d’onda ancora maggiori. Per ogni banda sidefiniscono le relative magnitudini

mi = −2.5logWi + cost (7)

dove Wi e l’energia raccolta nella banda ”i” e la costante e’ ancora determinata fissando lamagnitudine ”i” di stelle standard. In corrispondenza delle tre bande indicate ogni stella e cosi’caratterizzata dalle tre magnitudini mU , mB e mV , sovente indicate semplicemente con U, B e V.Scala e punto zero delle magnitudini visuali sono state fissate in maniera da risultare in ragionevolecorrispondenza alla antica classificazione delle stelle visibili ad occhio nudo in sei classi di grandezzeapparenti. Si ponga attenzione al fatto che al diminuire della luminosita apparente aumenta lamagnitudine.

Per familiarizzarsi con tale scala, notiamo che un aumento di 5 magnitudini corrisponde ad unariduzione del flusso di un fattore 100. La stella piu brillante del cielo, Sirio, ha una magnitudinevisuale V=-1.6, la luna piena -12.6, il Sole -26.7. L’osservazione del cielo ad occhio nudo si limita amagnitudini inferiori a 6, ma telescopi anche modesti possono raggiungere almeno V=15. I granditelescopi accoppiati con i sensibili moderni rivelatori CCD giungono a V∼ 24 e il telescopio spazialeHubble si spinge oltre V∼28. Si puo realizzare la debolezza di tali sorgenti ricordando, ad esempio,che ad una sorgente di magnitudine 21 corrisponde alla superficie della Terra un flusso di circa 510−3 fotoni per cm2 e per secondo. Occorre cioe attendere piu di tre minuti perche su un centimetroquadro giunga un singolo fotone. Questi numeri bastano per far chiaro come i telescopi non servano,come talora ingenuamente si ritiene, a ”ingrandire” le immagini celesti, ma a raccogliere da unasorgente quanti piu fotoni possibile, il numero di fotoni crescendo col quadrato della superficie dellospecchio. E’ cosi facile ricavare che i fotoni raccolti da uno specchio di 5 metri di diametro, qualequello del famoso telescopio del Monte Palomar, sono piu numerosi di circa un fattore 107 di quelliraccolti bello stesso tempo dalla pupilla di un occhio umano.

E’ di grande importanza osservare come confrontando l’energia raccolta in bande diverse sipossa investigare la distribuzione energetica del flusso, e quindi la temperatura del corpo nero. Ladifferenza tra due di queste magnitudini prende il nome di indice di colore e misura il rapporto tra iflussi nelle due prescelte bande. Dalle caratteristiche del corpo nero e subito visto che al crescere dellatemperatura ci si attende che crescano ambo i rapporti WU/WB e WB/WV , e diminuiscano quindigli indici di colore U-B e B-V. La esatta relazione tra indici di colore e temperatura dipendera siadalla composizione chimica che dalla gravita alla superficie della stella, poiche ambedue tali fattorimodulano le righe di assorbimento negli spettri stellari e,quindi, il flusso emesso nelle varie bande.Tali relazioni colore-temperatura possono essere ricavate sia per via empirica (sperimentale) cheattraverso modelli teorici di atmosfere stellari.

Si definisce inoltre magnitudine bolometrica mbol la magnitudine riferita all’ intero flusso dienergia emessa, compresa quindi anche tutta la radiazione che non giunge alla superficie dellaTerra a causa di assorbimenti atmosferici e, talora, interstellari. Nota la magnitudine bolometrica

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e la distanza di una stella si risale alla luminosita intrinseca della sorgente L. La magnitudinebolometrica e sovente posta in relazione con quella visuale attraverso la relazione

mbol = mV + BC (8)

ove BC (correzione bolometrica) sara una funzione di temperatura gravita e composizione chim-ica. La scala delle magnitudini bolometriche non ha peraltro, sinora, standard definiti. e quindi deveessere utilizzata con grande precauzione.

Si definiscono infine magnitudini assolute, sia bolometriche (Mbol) che nelle varie bande (MB ,MV etc), le magnitudini che avrebbero le stelle se poste ad una comune prefissata distanza di 10 pcdalla Terra. Nota la magnitudine relativa e la distanza di una stella e facile ricavarne la rispettivamagnitudine assoluta. Infatti, l’energia che attraversa nell’unita di tempo una superficie sferica aduna qualunque distanza r dalla sorgente deve essere costante e pari alla luminosita’ della sorgente,definita come energia emessa per secondo. Si ha dunque a due generiche distanze r1 e r2

φr21 = φ2r

22 (9)

ricordando che m=-2.5logφ + cost, ponendo r1 pari alla distanza della stella e assumendo r2 =10 pc, si ottiene

m = M − 5 + 5 log r (10)

dove r e misurata in parsec. La differenza m-M viene sovente indicata come DM, modulo didistanza.

Per le magnitudini assolute bolometriche, poiche il rapporto tra i flussi di due stelle poste allastessa distanza e pari al rapporto delle luminosita intrinseche degli oggetti, potremo infine scrivereper una generica stella con luminosita L

Mbol = −2.5logL/L + cost (11)

ove con L si indica la luminosita del Sole ( 3.9 1033 erg/sec) e la costante e la magnitudinebolometrica assegnata al Sole.

I modelli teorici di atmosfere stellari consentono di correlare le grandezze osservative sin quidefinite con la luminosita L e la temperatura efficace Te delle strutture, fornendo per ogni assuntovalore di Te e di gravita lo spettro emergente dalla superficie e, da questo, i flussi nelle varie bande,gli indici di colore e la correzione bolometrica.

Notiamo infine che in linea di principio gli indici di colore, in quanto rapporto tra due flussi, nondipendono dalla distanza della sorgente. In quanto sinora esposto si e peraltro sottaciuto il caso,frequente quando si osservi lungo la direzione del disco galattico, che nel suo tragitto verso la Terrala radiazione sia soggetta a fenomeni di assorbimento dovuti alla presenza di materia (gas e polveri)interstellare. L’effetto di un tale assorbimento risulta in genere tanto maggiore quanto minore e lalunghezza d’onda, e viene misurato in termini dell’ arrossamento E(B-V), definito come la variazionedell’indice di colore intrinseco (B-V)0 causato dal maggior assorbimento della radiazione nella bandaB.

Per ogni dato arrossamento si ha dunque

(B − V )oss = (B − V )0 + E(B − V ) (12)

mi,oss = mi,0 + Ai (13)

dove, Ai e l’aumento di magnitudine nella banda i estinzione, proporzionale all’arrossamento.Ad esempio, per la banda V risulta AV∼3.1 E(B-V) da cui V = V0 + 3.1 E(B-V).

La fig. 1.16 mostra l’andamento alle varie lunghezze d’onda della variazione di magnitudineprodotta da un arrossamento unitario, mentre la Tabella 1 riporta le estinzioni Ai in varie banderiferiti all’assorbimento nella banda V. La precisa valutazione degli arrossamenti e uno dei capitolipiu delicati della pratica osservativa astronomica. L’entita dell’arrossamento puo essere valutatadalla posizione della sorgente nel diagramma a due colori (U-B), (B-V). Qui notiamo che ovesi disponga di uno spettro che si estenda nella regione dell’ultravioletto assorbita dall’atmosfera,come ottenibile dunque solo da strumentazione nello spazio, l’entita dell’arrossamento e facilmentericavabile dalla caratteristico “bump” nell’assorbimento a 2200 Angstrom.

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Tab. 1. Assorbimenti relativi nelle varie bande fotometriche riferiti all’assorbimento nella banda V

Filtro < λ > A(λ)

U 3600 A 1.569B 4400 A 1.337V 5500 A 1.000R 7000 A 0.751I 9000 A 0.479J 1.25µ 0.282H 1.60µ 0.190K 2.20µ 0.114L 3.40µ 0.056

Fig. 1.17. Traguardando una stella a sei mesi di distanza ci si attende che la sua posizione sulla volta celestevari di un angolo 2 π, ove π e la parallasse dell’ oggetto, definita come l’angolo sotto il quale l’oggetto vede ilsemiasse ”a” dell’orbita terrestre.

A1.3. La parallassi stellari. Seing.

Sulla superficie della Terra, per valutare la distanza di un qualunque oggetto non altrimenti rag-giungibile e d’uso ricorrere a semplici metodi trigonometrici, traguardando l’oggetto da due diverseopportune posizioni. Procedure simili sono possibili anche per valutare la distanza delle stelle, uti-lizzando come base della misurazione la posizione della Terra sulla sua orbita a distanza di sei mesi(fig. 1.17).

Per stelle che giacciono sul piano perpendicolare alla base di traguardo cosi’ definita si ha

r= a/tgπ ∼ a/π

dove ”a” e il semiasse dell’ orbita terrestre (unita astronomica) e l’angolo π e misurato in radianti.Essendo 1 rad = 57o 17’ 44” pari a 206.265 secondi d’arco

r= a (206 265/π)

se π e misurato in secondi d’arco. Poiche a=1.49598 1013 cm

r = 3.1 1018/π cm

Assumendo come unita di misura delle distanze stellari quella cui corrisponde una parallasseannua di 1” (1 parsec (pc)= 3.1 1018 cm) si ha direttamente

r (pc)= 1/π.

Poiche la velocita della luce e c∼3 1010 cm/sec, un parsec corrisponde a 3.26 anni luce, cioe allospazio percorso dalla luce in 3.26 anni (1 anno∼3.1 107 secondi).

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La misura delle parallassi e argomento delicato, perche e innanzitutto da notare che ogni tele-scopio non puo restituire immagini puntiformi, creandosi in ogni caso una figura di diffrazione, tantopiu estesa quanto minore e il diametro del telescopio. L’ottica ondulatoria ci assicura che il discocentrale della figura, sino alla prima frangia oscura, ha un raggio angolare

α = 1.22 λ/D

dove α e espresso in radianti. Nel visibile (λ ∼5500 A) ed esprimendo D in centimetri si ottiene

α = 14”/D in secondi d’arco.

Le maggiori limitazioni nella misura delle parallassi provengono peraltro dalla turbolenza at-mosferica (seing) che produce variazioni temporali dell’indice di rifrazione atmosferico e, quindi, delcammino ottico dei raggi luminosi, disperdendo l’immagine di una stella su un area che in condizioninormali e dell’ ordine di almeno alcuni secondi d’arco. E’ per questa ragione che risulta di grandeimportanza collocare gli osservatori astronomici ad alta quota, in regioni contraddistinte da limitataturbolenza atmosferica, dove il seing puo scendere anche sotto il secondo d’arco. Quando si consid-eri che la stella piu vicina al Sole, αCen (αCentauri), ha una parallasse di soli 0”.76 si comprendeperaltro la difficolta di precise misure di parallasse. Il metodo trigonometrico ha consentito cosi’ diavere indicazioni abbastanza precise sulla distanza solo qualche centinaio di stelle nei dintorni delSole.

Un notevole miglioramento si e ottenuto grazie all’ utilizzazione di telescopi nello spazio e, inparticolare, dal satellite astrometrico Hipparcos, lanciato nel 1989 dall’Agenzia Spaziale Europea,che ha misurato la parallasse di molte migliaia di stelle con precisioni dell’ordine del millesimo disecondo d’arco. Un telescopio spaziale risulta infatti limitato dal solo fenomeno della diffrazione(diffraction limited), sempreche la piattaforma spaziale sia adeguatamente stabilizzata.

Si noti che l’immagine di seing oltre che limitare la misura delle parallassi introduce pesantilimitazioni anche sul limite inferiore dei segnali luminosi rivelabili. Il cielo ha infatti una luminositadiffusa (fondo) valutabile nella banda V a circa 22 mag per secondo d’arco quadrato. Se l’immaginedi una stella viene dispersa dal seing su una superficie analoga, ne segue che per oggetti con mag-nitudine superiore a V=22 il rapporto segnale-rumore scende sotto l’unita, rendendo sempre piudifficoltose le misure. All’aumentare della figura di seing diminuisce quindi la magnitudine limiteraggiungibile da un telescopio, ed e’ questo uno tra i principali motivi per cui e vitale scegliereper gli osservatori astronomici siti contraddistinti dal minimo possibile seing. Ed e questo ancorail motivo per cui la tecnologia dei moderni telescopi ha sviluppato tutta una serie di procedureinformatiche (ottiche adattive e ottiche attive) volte a minimizzare le dimensioni delle immaginistellari.

A1.4. Spettri stellari e tipi spettrali

Abbiamo indicato come lo spettro di una sorgente stellare corrisponda in genere ad una distribuzioneenergetica di corpo nero solcata da righe o bande di assorbimento. La distribuzione di corpo neroci assicura che la radiazione proviene da strati stellari in cui le interazioni tra particelle e fotonisono sufficienti ad assicurare l’equilibrio termodinamico tra materia e radiazione. Risulta peraltroovvio che prima di lasciare la stella tale radiazione debba fatalmente attraversare strati di bassae bassissima densita ove le interazioni radiazione particelle finiscono col diventare sporadiche el’equilibrio termico non puo piu essere realizzato. A conferma di cio si consideri che negli ultimi stratisuperficiali si e in presenza di un flusso di radiazione uscente, mentre l’equilibrio termodinamicorichiederebbe una radiazione isotropa.

Una radiazione elettromagnetica che attraversi un gas subisce peraltro fenomeni di assorbimento,secondo la regola che vuole che ogni gas sia in grado di assorbire la radiazione che sarebbe in gradodi emettere spontaneamente. A livello microscopico sappiamo che tale regola e collegata ai livellienergetici degli elettroni legati ai nuclei: portando un elettrone su un livello eccitato esso ritorna sulsuo stato naturale emettendo un quanto di luce di frequenza che obbedisce alla relazione hν = ∆Edove ∆E e la differenza di energia tra i due livelli. Analogamente, un elettrone e in grado diassorbire lo stesso quanto di energia per portarsi dal suo livello naturale al livello eccitato. Si noti

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Fig. 1.18. Schema delle transizioni elettroniche indotte dall’assorbimento di fotoni in atomi diidrogeno. Atomi nello stato fondamentale hanno elettroni nell’orbita piu interna (orbita K) ed ipossibili assorbimenti producono una serie di righe note come ”serie di Lyman”. Al crescere dellatemperatura gli elettroni si spostano a popolare livelli superiori e conseguentemente si hanno laserie di Balmer (da elettroni sull’orbita L) nel visibile e la serie di Paschen (da elettroni nell’orbitaM) nell’infrarosso.

che si e in presenza di un assorbimento transitorio, perche l’elettrone eccitato ritornera sul suo statonaturale emettendo nuovamente radiazione. Tale emissione e peraltro isotropa e alla superficie diuna stella tale meccanismo implica che vengono estratti fotoni dal flusso uscente, producendo lerighe di assorbimento presenti nello spettro.

Le righe presenti in uno spettro stellare dipenderanno quindi non solo dalle specie atomichepresenti nell’atmosfera stellare ma anche, e soprattutto, dalle temperature degli strati atmosferici.Al crescere della temperatura cresce infatti l’energia delle particelle e negli atomi aumenta il nu-mero di elettroni che si allontana dallo stato fondamentale per collocarsi spontaneamente su livellieccitati o per passare in stati slegati ionizzazione. Ad ogni temperatura corrisponde quindi unaparticolare distribuzione degli elettroni legati ai vari nuclei, distribuzione che si riflette sulle righedi assorbimento presenti nello spettro stellare.

Cosı alle piu basse temperature gli elettroni legati all’idrogeno (fig. 1.18) saranno nello statofondamentale (nell’orbita inferiore), e passando da questo stato a stati eccitati superiori produrrannorighe di assorbimento solo nell’estremo ultravioletto (Serie di Lyman). Al crescere della temperaturauna consistente frazione degli elettroni si sposta sul primo stato eccitato (la seconda orbita) e nellospettro appaiono le righe della serie di Balmer, nel visibile, e a temperature ancora maggiori apparirala serie di Paschen, nell’infrarosso.

Analogamente, anche gli atomi degli altri elementi presenti nell’atmosfera produrranno ad ognitemperatura uno spettro di assorbimento caratteristico della temperatura stessa. Poiche nella ma-teria stellare, formata essenzialmente da idrogeno ed elio, sono in ogni caso sempre presenti tuttigli altri elementi, sia pur con diverse abbondanze, la presenza di determinate righe o bande in unospettro e essenzialmente governata dalla temperatura, mentre la consistenza di tali assorbimentisara collegata all’abbondanza delle relative specie atomiche o molecolari.

Al variare della temperatura si presentano cosı nello spettro righe di assorbimento caratteristiche(fig. 1.19): sulla base delle quali vengono definiti, in ordine di temperatura decrescente, i tipi spettrali

O, B, A, F, G, K, M

ognuno suddiviso in 10 sottoclassi (B0, B1, B2...B9, A0, A1...). A basse temperature sono pre-senti nel visibile gli assorbimenti di molecole e elementi pesanti (metalli) neutri, quali, ad esempio,le righe del FeI = ferro non ionizzato. Le righe dell’idrogeno sono assenti perche tale elemento e

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Fig. 1.19. Schema orientativo dell’intensita delle righe di assorbimento nel visibile di diversi ele-mento al variare del tipo spettrale.

Tab. 2. Corrispondenza (orientativa) tra tipo spettrale, indice di colore, temperatura efficace emagnitudine V assoluta per stelle di disco di Sequenza Principale.

Spettro B-V Te MV

O5 -0.35 35500 -5.7B0 -0.30 25000 -4.1B5 -0.16 17200 -1.1A0 0.00 12300 +0.7A5 +0.15 9900 +2.0F0 +0.30 8350 +2.6F5 +0.45 7100 +3.4G0 +0.57 6240 +4.4G5 +0.70 5620 +5.1K0 +0.89 4930 +5.9K5 +1.18 4100 +7.3M0 +1.45 3560 +9.0M5 +1.75 3110 +11.8

nel suo stato fondamentale e le righe della serie di Lyman cadono nell’ultravioletto. Aumentandola temperatura si dissociano le molecole mentre appaiono le righe di metalli ionizzati, ad esempioFeII= ferro ionizzato una volta. Appaiono anche le righe della serie di Balmer perche gli elettronidell’idrogeno si sono portati a popolare il secondo livello. Aumentando ancora la temperatura scom-paiono nuovamente le righe dell’idrogeno, perche ionizzato, e appaiono le righe dell’elio prima neutro(HeI) e poi ionizzato (HeII), presenti solo ad alta temperatura perche gli assorbimenti dell’elio nellostato fondamentale cadono anch’essi nell’estremo ultravioletto.

Nella Tabella 4 riportiamo a titolo indicativo le relazioni tra tipo spettrale, indice di colore B-Ve temperatura efficace per stelle di sequenza principale del disco galattico (Popolazione I) , dandoper tali stelle anche la tipica magnitudine assoluta nella banda V.

Stelle con identico tipo spettrale possono mostrare ulteriori differenze nella forma delle righe,differenze che sono risultate in relazione alla luminosita intrinseca della stella. Si comprendono talidifferenze notando come a parita di temperatura stelle intrinsecamente meno luminose debbanoavere raggi minori (L = 4πR2σT 4

e ) cui corrispondono densita atmosferiche maggiori, atomi piuperturbati e righe conseguentemente allargate. Corrispondentemente, per ogni tipo spettrale sidefiniscono cinque classi di luminosita, che vanno dalla classe I per le stelle piu luminose a righepiu sottili alla classe V, che corrisponde a stelle della sequenza principale. In questa classificazionedi Morgan, Keenan e Kellman classificazione MK il Sole e una tipica stella G2V.

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Ad evitare equivoci, e bene precisare che una classe di luminosita NON corrisponde ad unaluminosita fissa e determinata. La classe V, ad esempio, e formata per ogni temperatura dallestelle meno luminose, che corrispondono a stelle di sequenza principale e la cui luminosita dipendefortemente dalla temperatura.

A1.5. Gli Ammassi stellari.

Nella nostra come nelle altre galassie sono presenti Ammassi Stellari che trovano la loro evidenteorigine in episodi collettivi di formazione stellare. Nella nostra Galassia alcuni ammassi di disco,nelle vicinanze del Sole, sono ben visibili ad occhio nudo ed hanno ricevuto nomi propri sin dallapiu remota antichita. Tali sono, ad esempio, le Iadi, le Pleiadi o il Presepe. Molti altri, osservatiattraverso piccoli telescopi appaiono solo come nebulosita e come tali appaiono nel catalogo pub-blicato nel 1771 dall’astronomo francese Messier per agevolare il lavoro dei cercatori di comete. Gliammassi presenti in tale catalogo vengono indicati dalla lettera M seguita dal numero del catalogo.Una piu moderna e pressoche completa classificazione degli ammassi della Galassie e quella fornitanel 1888 dal New General Catalogue di galassie, ammassi e nebulose, dove sono anche riportatinumerosi ammassi appartenenti alle due vicine galassie irregolari note come Piccola e Grande Nubedi Magellano. Per fare riferimento agli oggetti di questo catalogo si usa la sigla NGC seguita dalnumero di catalogo. A seguito di tale molteplicita di identificazioni molti oggetti celesti, e in parti-colare molti ammassi stellari, hanno una corrispondente moltiplicita di nomi ancora variamente ealternativamente usati nella letteratura scientifica. Cosi, ad esempio, Presepe = M44 = NGC 2632.In particolare, ove esistente, per gli ammassi globulari e ancora molto usata la classificazione diMessier, talch per i globulari pio luminosi nel cielo notturno si ha, ad esempio, M3 = NGC5272,M5 = NGC5904 o M92 = NGC6341.

Abbiamo ricordato come gli ammassi stellari della Galassia mostrino caratteristiche evolutivee strutturali che si differenziano nettamente a seconda della collocazione. Gli ammassi del disco,detti anche ammassi aperti o ammassi galattici, sono composti da qualche centinaio ad alcunemigliaia di stelle, tra le quali predominano giganti blu ad alta temperatura superficiale. Si ha taloraevidenza per l’esistenza nell’ ammasso di gas e polveri. Tali ammassi si dicono ”aperti” proprioperche risultano gravitazionalmente slegati e destinati col tempo a disperdersi; da cio si possonoricavare limiti superiori all’eta degli ammassi, talora anche inferiori al centinaio di milioni di anni. E’da assumere che tali ammassi nascano nelle spirali della Galassia. In fig. 1.3 abbiamo infatti mostratoche gli ammassi piu giovani, selezionati in base all’estensione ad alte temperature della sequenzaprincipale, si distribuiscono nelle vicinanze del Sole lungo direttrici che marcano la struttura aspirale della Galassia. Fenomeni di recente formazione stellare sono anche segnalati dalle regioniHII, nubi di idrogeno ionizzato dalla radiazione di contigue stelle giovani e massicce, e dunquedi alta temperatura superficiale. Gli ammassi di vecchio disco, quali ad es. M67 o NGC188, sonoinfine una sottocategoria degli ammassi aperti che per alcuni versi approssima le caratteristichedei globulari. Pur se collocati in prossimita del disco galattico, con metallicita che possono esseredell’ordine di quella solare, mostrano una peculiare abbondanza di stelle, una struttura sferoidalee un’eta avanzata, testimoniata dalla assenza di stelle ad alta temperatura e dalla contemporaneapresenza di sia pur esili rami di giganti rosse.

Nell’alone della Galassia osserviamo invece piu di 150 Ammassi Globulari, composti anche daoltre un milione di stelle, distribuite con netta simmetria sferica attorno al centro dell’ammasso,dove si raggiungono densita stellari anche superiori a 104 stelle per parsec cubo. La buona simmetriasferica e la regolare distribuzione radiale della densita stellare mostrano che tali ammassi risultanonon solo gravitazionalmente legati ma anche dinamicamente rilassati. Con quest’ultimo terminesi intende indicare che le mutue interazioni gravitazionali hanno portato verso una equipartizionedell’energia, talche la distribuzione di densita approssima quella di un gas di stelle autogravitanteisotermo (sfera isoterma) mentre la distribuzione di velocita delle stelle approssima la distribuzionedi Maxwell-Boltzmann. I tempi caratteristici per tale processo (tempi di rilassamento) dipendonodal numero e dalla densita delle stelle, risultando in ogni caso non minori del miliardo di anni, ilche da solo testimonia dell’antichita di tali oggetti, in accordo con le citate ipotesi di evoluzionegalattica.

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Fig. 1.20. L’andamento della luminosita superficiale nell’ammasso globulare M3 (punti) con-frontato con le previsioni teoriche da un perfezionamento del modello semplice isotermo.

Pur senza entrare nei dettagli dell’affascinante e complesso argomento dell’evoluzione dinamicadi tali sistemi, conviene qui accennarne alcuni punti fondamentali. Notiamo innanzitutto che latendenza ad una distribuzione Maxwelliana implica che una frazione delle stelle viene spinta avelocita maggiori della velocita di fuga dall’ammasso. Da un altro punto di vista, cio corrispondeal fatto che teoricamente una sfera isoterma non ha contorno, estendendosi sino all’infinito. Unmodello realistico (fig. 1.20) deve quindi, ad esempio, prevedere che l’ammasso perda tutte quellestelle che si spingono oltre il suo raggio mareale, definito come la distanza dal centro dell’ammassoa cui inizia a prevalere il campo gravitazionale della Galassia.

Il sistema ”Ammasso Globulare” quindi non puo essere dinamicamente stabile ed e destinatoa perdere, sia pur lentamente, non solo stelle ma anche energia. Cio conduce infine ad una catas-trofe gravotermica, ancora oggetto di intensi studi, nella quale il nucleo del cluster subirebbe unaserie di improvvisi collassi oscillazioni gravotermiche che porterebbero la densita centrale sino avalori dell’ordine di 108 M/pc3. Notiamo anche che l’equipartizione dell’ energia implica che lestelle con massa minore abbiano maggiori velocita, quindi con distribuzione spaziale piu espansa epreferenzialmente candidate a fenomeni di evaporazione dall’ammasso.

A fianco di tali meccanismi occorre anche tener conto di ulteriori meccanismi che collaboranoalla distruzione degli ammassi, quali gli incontri stretti con altri ammassi e gli effetti di disk shockinge bulge shocking che si manifestano ogni qualvolta un ammasso nella sua orbita di alone attraversail disco galattico o si avvicina al bulge. Se ne deve concludere che gli ammassi globulari che oggipopolano l’alone della Galassia non sono necessariamente quelli che vi si sono a suo tempo formati,ma solo quelli che per le loro caratteristiche strutturali sono riusciti a sopravvivere fino ad ogginell’alone galattico.

E’ da notare che gli ammassi globulari, oltre a caratterizzare l’alone di molte galassie a spirale,quali la nostra e Andromeda, paiono peculiarmente abbondanti nelle galassie ellittiche, mostrandodi essere un costituente generale dell’Universo collegato alle prime fasi di formazione delle galassie.In questo contesto spicca l’eccezione della galassia irregolare del gruppo locale ”Grande Nube diMagellano”. Accanto ad ammassi globulari antichi (rossi) esistono ammassi morfologicamente glob-ulari che mostrano stelle in fase evolutiva anche estremamente giovanile, alle quali si possono as-segnare eta anche inferiori ai cento milioni di anni.

Per spiegare tale peculiarita e, con essa, l’assenza di ammassi globulari nel disco della Galassia sipuo avanzare il suggerimento che la distribuzione del gas in un disco con rotazione differenziale (kep-leriana) abbia nella Galassia inibito l’ulteriore formazione dei grandi ammassi globulari, formazioneche e invece rimasta efficiente nelle regioni di gas non strutturato o solo parzialmente strutturato,come era il primitivo alone, e come sono ancor oggi le Nubi di Magellano.

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Fig. 1.21. Schema della classificazione morfologica delle galassie.

A1.6. Galassie. Ammassi di Galassie. Quasar

L’osservazione mostra che le stelle del nostro Universo sono raggruppate in enormi sistemi stellaricui diamo il nome di galassie. Per tali sistemi viene adottata una classificazione morfologica chedistingue:

1. Galassie ellittiche: mostrano una distribuzione di luminosita quale ci si attende da ellissoidi dirotazione. Vengono classificate con la lettera E seguita dal numero intero che piu approssimal’osservata ellitticita’, definita come 10 (1-b/a), dove b/a rappresenta il rapporto tra semiassimaggiore e minore della figura osservata. Si noti che tale valore non e necessariamente una carat-teristica intrinseca degli oggetti, dipendendo il valore osservato dall’orientazione delle galassierispetto all’osservatore. Analisi approfondite hanno al riguardo dimostrato l’esistenza anche didistribuzioni secondo ellissoidi triassiali.

2. Galassie a spirale: mostrano un disco nel quale si avvolgono braccia di spirale. Vengono clas-sificate con la lettera S, seguita dalle sottoclassi a, b, c che segnalano la crescente apertura deibracci di spirale. In alcuni casi le spirali si raccordano al nucleo tramite una barra rettilinea (spi-rali barrate): in analogia al caso generale vengono indicate come SB. Vengono infine classificatecome S0 galassie a disco, ma prive di una evidente struttura a spirale (galassie lenticolari).

3. Galassie irregolari: classe che contiene tutti gli oggetti che sfuggono alle precedenti classificazioni.

Orientativamente, si puo indicare che circa il 50% delle galassie osservate appartiene alla classeS, il 40% alla classe E, ed il restante 10% alle irregolari. Le masse di questi oggetti, cosi comericavabili dalle proprieta fotometriche o dinamiche delle strutture, possono variare di molti ordinidi grandezza. L’intervallo piu esteso e coperto dalle ellittiche, che dalle ellittiche giganti cui sonoattribuibili masse dell’ordine di 1013 masse solari (M) passa a circa 1010 M nelle ellittiche nane,quale il compagno di Andromeda M32, per scendere sino a 108 M nel caso delle nane sferoidali(Dwarf Spheroidals) che circondano la nostra Galassia. Tali masse vanno confrontate con le circa1011 M tipiche di galassie a spirale quale la nostra. Le irregolari sono in genere oggetti pocomassicci; nel Gruppo Locale di galassie, per la Grande Nube di Magellano (che mostra peraltroevidenze di una barra) si puo stimare una massa M∼5 109 M.

Accanto a questa classificazione generale, esistono parallele classificazioni dettate da particolarievidenze osservative. Ricordiamo ad esempio la classe delle galassie di Seyfert caratterizzate danuclei particolarmente compatti e brillanti. Oggi si ritiene anche che i Quasar, oggetti di apparenzastellare (di cui cioe non si giunge a rivelare l’estensione) in alcuni casi radioemittenti e caratterizzatisempre da un forte effetto Doppler in allontanamento (redshift) siano anch’essi nuclei attivi digalassie estremamente lontane nello spazio e - tenuto conto del tempo di percorrenza della luce -nel tempo. Oggi si ritiene che tali AGN (Active Galactic Nuclei) trovino la loro origine in fenomenidi accrescimento di materia su Buchi Neri massicci, con masse che possono raggiungere e superarele 108 M, posti al centro delle rispettive galassie.

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Ricordiamo infine come talora le galassie siano a loro volta raggruppate in sistemi di ordine supe-riore che prendono il nome di ammassi di galassie. Tipico il vicino ammasso nella costellazione dellaVergine, a circa 4 Mpc da noi, che entro dimensioni paragonabile a quelle che separano la Galassiadalla piu vicina compagna di dimensioni paragonabili, Andromeda, annovera invece migliaia digalassie. La dinamica della materia nelle galassie e negli ammassi di galassie e un importante capi-tolo dell’astrofisica, collegato al piu generale problema dell’origine e dell’evoluzione dell’Universo,che purtroppo esula dai limiti della presente trattazione.

A1.7. I sistemi binari e le masse stellari.

L’osservazione mostra come gran parte delle stelle del disco galattico faccia parte di sistemi binario multipli, in stati gravitazionalmente legati. I sistemi binari, in particolare, offrono la preziosapossibilita di una stima delle masse delle due stelle componenti. Ricordiamo che la meccanica classicaci insegna problema dei due corpi che le due stelle compiranno orbite ellittiche attorno al baricentrodel sistema, con semiassi maggiori inversamente proporzionali alla massa delle singole stelle. In unsistema con l’origine in una delle due componenti, si trova che l’altra componente descrive ancoraun ellisse il cui semiasse maggiore ”a” e dato dalla somma dei due semiassi maggiori delle singoleellissi reali.

Notiamo subito che, in linea di principio, non stupisce che i sistemi binari offrano la possibilitadi una determinazione delle masse. L’effetto delle masse e la creazione di un campo gravitazionale,ed ogni volta che un fenomeno risulta condizionato dall’ l’intervento del campo gravitazionale, essodeve contenere informazioni sulle masse sorgenti di quel campo. Cio e banalmente vero nel casodelle orbite di componenti di sistemi binari, ma restera vero anche in fenomeni piu complessi, qualeil caso delle masse stellari determinate dal rapporto dei periodi nei doppi pulsatori RR Lyrae di cuitratteremo nel seguito.

Per discutere il problema delle orbite delle binarie conviene preliminarmente individuare il tipodi informazioni che su questi oggetti possiamo raccogliere, tipi di informazioni cui corrispondonodiverse classi di binarie. Scartato il caso delle false binarie, cioe di immagini stellari contigue dovutesolo ad effetti prospettici, le caratteristiche osservative portano a definire tre classi di binarie

1. Binarie visuali: la distanza angolare tra le due componenti e tale da consentirne la separazionenell’osservazione telescopica.

2. Binarie spettroscopiche: il moto orbitale viene rivelato dallo spettro del sistema, grazie al peri-odico spostamento Doppler delle righe di assorbimento di una o di tutte e due le componenti.

3. Binarie fotometriche: la natura binaria viene rivelata da periodiche variazioni di luminositacausate dalle mutue eclissi delle due componenti.

Qui di seguito riassumiamo brevemente le informazioni sulle masse ottenibili nei tre diversi casi,rimandando ad un qualunque testo di astronomia classica per il trattamento dei diversi argomenti.

1. Binarie visuali. Le osservazioni forniscono l’orbita apparente di una stella attorno alla sua pri-maria, definita come la stella piu luminosa della coppia. Con procedure geometriche e possibileda cio risalire all’orbita reale, determinando in particolare il valore del periodo e del semiassemaggiore α (in secondi d’arco). Dalla 3a legge di Keplero abbiamo

m1 + m2 = a3/P2

dove ”a” rappresenta il semiasse maggiore in unita astronomiche (distanza Terra-Sole), P ilperiodo orbitale in anni e le masse m1 e M2 sono misurate in masse solari. Se del sistema eanche nota la distanza ”d” (in parsec), ad esempio attraverso misure di parallasse,

a = αd

e la 3a legge di Keplero fornisce la somma delle masse delle due componenti. Se oltre al motorelativo si riesce ad identificare il baricentro del sistema, si ha che in ogni istante il rapportodelle masse e pari all’inverso del rapporto delle distanze dal baricentro e si ricavano le singolemasse.

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2. Binarie spettroscopiche. Le osservazioni forniscono istante per istante la velocita radiale (inkm/sec) di una o ambo le componenti (curve di velocita radiale). Da cio si ricava il periodo,la velocita del baricentro e il prodotto ak sin i, dove ak e il semiasse maggiore dell’orbita realedella componente k (k=1,2) e ”i” e l’angolo tra la direzione della visuale e la normale al pianodell’orbita. Se sono osservati tutti e due gli spettri si conoscono a1sin i, a2sin i e quindi anche asin i dove a = a1 + a2 e ora il semiasse dell’orbita relativa. Si ricava cosı

a1sin i/a2sin i = a1/a2 = m2/m1

e dalla 3a legge di Keplero

(m1 + m2)sin3i = a3sin3i/P2.

3. Binarie fotometriche: La luminosita in funzione del tempo curva di luce fornisce rilevanti in-formazioni sulla luminosita e sulla geometria degli oggetti che si eclissano. Per quel che quiinteressa notiamo che, al di la di possibili valutazioni piu dettagliate, l’occorrenza delle eclissici indica che i∼90, sin i∼1. Nel caso di binarie ad eclisse di cui si conoscano anche gli spettri(binarie spettrofotometriche) le relazioni discusse nel punto precedente conducono facilmente aduna stima delle masse delle due componenti.

A1.8. I nuclei atomici. Decadimenti radioattivi.

I nuclei degli atomi che compongono i vari elementi chimici che formano la materia sono costituitida un ”assiemaggio” di protoni e neutroni. Detto, per ogni nucleo, Z il numero di protoni ”p” eN il numero di neutroni ”n”, Z determina la carica elettrica totale del nucleo (= +Ze), mentreN+Z=A numero atomico rappresenta il numero totale di nucleoni (”p” o ”n”) presenti nel nucleo,determinandone la massa.

E’ noto che dalla carica elettrica del nucleo dipendono le proprieta degli elettroni orbitantiattorno al nucleo stesso e, in definitiva, le proprieta chimiche dei vari elementi. Ad ogni Z corrispondedunque un ben determinato ”elemento” classificato secondo la usuale nomenclatura chimico-fisica(idrogeno, elio, etc.), cui possono corrispondere nuclei con diverso A (isotopi). In fig. 1.22 e riportatauna tabulazione dei nuclei stabili con numero atomico A≤70.

Attraverso reazioni di impatto tra nucleoni e/o nuclei e possibile produrre nuovi nuclei con unrapporto protoni/neutroni che rende i nuclei instabili. Tali nuclei tendono in generale a decadereper riportarsi al rapporto che caratterizza il nucleo stabile. Nel caso di un eccesso di neutroni questivengono trasformai in protoni grazie al decadimento β−

n→p+e−+ν

nel quale vengono emessi un elettrone col suo antineutrino. In caso di eccesso di protoni si ha ilcorrispondente decadimento β+

p→n+e++ν

con emissione di un positrone e di un neutrino. Simili reazioni sono caratterizzate da una prob-abilita di decadimento che dipende solo dal processo considerato, e non dalle condizioni chimiche ofisiche della materia.

Poiche la probabilita e pari alla frequenza degli eventi, dati N nuclei suscettibili di un particolaredecadimento radioattivo, in un tempo dt ne decadranno

dN/N = P dt

essendo dN/N la frequenza degli eventi e ”P” la probabilita di decadimento per unita di tempo.Ponendo P=1/τ si ha

dN/N =dt/τ

e, integrando su un tempo finito

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Fig. 1.22. Mappatura nel piano Z (numero di protoni) N (numero di neutroni) dei primi trentaelementi chimici del sistema periodico. Per ogni elemento (per ogni Z) e riportato il simbolo chimicoe, nelle corrispondenti caselle, il numero di massa A (=Z+N) dei vari isotopi. In alto a sinistra sonoriportate le traiettorie corrispondenti ai piu comuni processi di decadimento o cattura. L’assenza diisobari contigui testimoni l’efficienza dei processi β nel portare i nuclei nelle configurazioni nuclearia maggior energia di legame. Sono anche indicati i numeri magici di neutroni o protoni in corrispon-denza dei quali i nuclei mostrano una peculiare stabilita. Le spezzate a tratti e punti mostrano letraiettorie corrispondenti ad una serie successiva di catture di protoni o neutroni. Nel riquadro unamappatura nel piano A,Z evidenzia l’assenza di nuclei con A=5 e 8.

N(t)= N0exp(−t/τ)

dove N e il numero di nuclei sopravvissuti al tempo ”t”, N0 il numero di quelli presenti all’istanteiniziale, τ e l’inverso della probabilita di decadimento per unita di tempo e prende il nome divita media del nuclide radioattivo in esame. Analoghe relazioni valgono in generale anche per idecadimenti attraverso altri canali che caratterizzano l’instabilita di taluni nuclei e, in particolare,per il decadimento con emissione di particelle α che caratterizza l’instabilita degli elementi a piualto numero atomico (famiglie radioattive dell’Uranio-Torio).

A1.9. La legge di Hubble ed il Big-Bang

Nel 1929 Edwin Hubble analizzando lo spettro della radiazione luminosa proveniente dalle galassietrovo che le righe di assorbimento presenti in tali spettri risultavano tanto piu spostate verso ilrosso quanto piu deboli apparivano le galassie medesime. Interpretando tale spostamento come(effetto Doppler) lo spostamento delle righe si correla con la velocita ”V” di allontanamento dalSole, risultando per velocita non relativistiche:

∆λ/λ = V/c

dove ∆λ/λ viene in genere indicato con ”z” e prende il nome di redshift dell’oggetto osservato.Assumendo inoltre che la luminosita apparente delle galassie sia governata dalla distanza dellestesse si conclude che il redshift appare correlato alla distanza, crescendo con essa (recessione delle

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Fig. 1.23. La relazione tra redshift e magnitudine ricavata da A. Sandage per un campione digalassie ellittiche giganti.

galassie). Hubble preciso questa osservazione in una legge di diretta proporzionalita tra la velocitadi allontanamento (V) e la distanza (d) secondo la relazione

V = H0d (14)

dove H0 prende il nome di costante di Hubble.Per galassie non troppo distanti, per le quali si possa assumere una metrica dello spazio euclidea

e velocita non relativistiche, dalla relazione che lega le magnitudini apparenti a quelle assolute (→A1.2), introducendo la legge di Hubble e la relazione tra velocita e redshift si ricava:

m = M-5+5logd = M-5+5logV-5logH0 = M-5+5log(∆λ/λ)-5logc-5logH0.

cioe per ogni assunta magnitudine assoluta M di una classe di galassie

logz= log(∆λ/λ)= 0.2 m + cost.

Noto M, una misura sperimentale della costante darebbe il valore di H0. In figura 1.23 e riportatala relazione tra magnitudine e redshift ricavata da A. Sandage per un campione di galassie ellittichegiganti. Si noti come la relazione lineare risulti estremamente ben verificata, confortando la legge diHubble, mentre l’incertezza sull’esatto valore delle magnitudini assolute non consente di utilizzaretale evidenza per una precisa valutazione del valore di H0.

La determinazione di tale valore e stato sino a tempi recenti uno dei piu importanti problemidell’astrofisica. Una precisa valutazione del valore della costante di Hubble richiede valutazioni al-trettanto precise della effettiva distanza delle galassie. Essendo impraticabili i metodi trigonometrici,e necessario ricorrere all’utilizzo di opportune candele campione, cioe di oggetti di cui si ritenga diconoscere a priori la luminosita intrinseca e le cui luminosita apparenti variano quindi solo con ilquadrato delle distanze. Per le galassie piu vicine si utilizzano a tale scopo vari oggetti, quali lestelle variabili Cefeidi, le Novae, le regioni HII e gli ammassi globulari. Per le galassie piu distantisi possono infine utilizzare eventuali Supernovae. In tali direzioni si e una lunga serie di indaginiche hanno progressivamente e drasticamente abbassato la stima originale di Hubble che valutavaattorno a H0 ∼ 500 km/sec Mpc. Questi risultati sono recentemente stati confermati e perfezionaticon approccio alternativo dal satellite WMAP della NASA che investigando la radiazione cosmicadi fondo ha ricavato H0 ∼ 70 km/sec Mpc.

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Fig. 1.24. I valori sperimentali della distribuzione energetica della radiazione di fondo (punti)confrontati con le previsioni teoriche per un corpo nero per T=2.7 K.

Si noti che l’inverso di H0 ha le dimensioni di un tempo, e rappresenta il tempo trascorsodall’inizio dell’ espansione se le velocita fossero rimaste costanti. La presenza del campo gravi-tazionale ha peraltro l’effetto di far diminuire nel tempo le velocita, e 1/H0 rappresenta dunque unlimite superiore per l’eta dell’Universo.

George Gamow per primo osservo come da questo quadro discenda che nelle sue fasi inizialila materia doveva essere estremamente densa ed estremamente energetica (Big-Bang caldo) e chequindi dovesse esistere una radiazione elettromagnetica in equilibrio con la materia ad altissimetemperature. Al diminuire della densita della materia diminuiscono le interazioni fotone-particellee la radiazione finisce col disaccoppiarsi dalla materia. Da questo momento materia e radiazioneevolveranno con diverse modalita: se R e un parametro caratterizzante lo stato di espansione, ladensita di materia decresce come 1/R3 mentre l’energia della radiazione decresce come 1/R4, comerichiesto dall’espansione adiabatica del gas di fotoni. Si noti come tale ultima dipendenza risultidalla combinazione della conservazione del numero di fotoni (1/R3) col degrado dell’energia dovutoal redshift (1/R). Se ne trae la conseguenza che la cosmologia del Big-Bang prevede che l’Universosia ancor oggi omogeneamente riempito da una radiazione isotropa di corpo nero, degradata ormaia pochi gradi Kelvin. La scoperta della radiazione di fondo (fig. 1.24), verificando puntualmente taleprevisione, e tra le piu importanti conferme dello scenario del Big-Bang. Si noti come l’esistenzadi tale radiazione di fondo (CBR = Cosmic Background Radiation) stabilisca tra tutti i sistemiinerziali l’esistenza di un unico sistema in quiete rispetto all’Universo, il moto di ogni altro sistemaessendo rivelato da una anisotropia di dipolo nella radiazione.

Il valore di H0, la temperatura della radiazione di fondo e la densita nel presente Universoforniscono le condizioni al contorno che consentono di definire un modello di Universo e di seguirnel’evoluzione nel tempo, valutando - in particolare - gli effetti delle reazioni nucleari nelle primissimefasi di tale evoluzione.

Per completezza notiamo che la forma della legge di Hubble sin qui discussa vale solo sino aquando non si raggiungono velocita relativistiche. Nel caso generale dovremo porre

z =∆λ

λ=√ (1 + β)

(1− β)− 1 (15)

da applicarsi ogniqualvolta z≥0.2. La tabella 3 riporta la relazione tra il redshift z e β = v/c.Nella stessa tabella e riportato il fattore relativistico di dilatazione dei tempi atteso per i vari valoridi z, dalla relazione

t = αt =t0√

(1− β)2(16)

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dilatazione dei tempi puntualmente osservata nella curva di luce di Supernovae a distanza cos-mologica. Si puo notare come z = 4 corrisponda ormai ad una velocita pari al 92 % della velocitadella luce.

Tab. 3. Velocita di espansione e fattore di dilatazione dei tempi per selezionati valori di redshift z

z β α

1 3/5 1.252 5/8 1.283 15/17 2.124 24/26 3.60

A1.10. Particelle elementari. La storia delle particelle nel Big-Bang

E’ noto come la ricerca fisica abbia riconosciuto che nel divenire della materia siano all’operaquattro interazioni fondamentali: gravitazionale, elettromagnetica, forte e debole. Le prime due traqueste interazioni sono ben note gia nella fisica classica, le ultime due si evidenziano rispettivamentenelle forze di aggregazione nucleare e nei processi di decadimento β. Interazione gravitazionale edelettromagnetica sono forze che vanno come 1/R2, con un raggio di azione che si estende dunquesino all’infinito. Al contrario, interazione forte ed interazione debole risultano forze a corto range,con raggi di azione di 10−13 e 10−16 cm, rispettivamente.

La descrizione moderna di tali interazioni riposa sull’intervento quali ”vettori” dell’ interazionedi ”quanti” associati alle interazioni stesse, che vengono creati e si propagano all’interno dellerestrizioni imposte dal principio di indeterminazione di Heisenberg

∆E ·∆t ∼ h/2π

In tale scenario, l’interazione elettromagnetica si spinge sino all’infinito perche il suo vettore, ilfotone, ha massa nulla e puo quindi avere energia piccola a piacere. Analoghe considerazioni valgonoper la postulata esistenza dei quanti del campo gravitazionale, i gravitoni. La forza debole ha invecevettori massivi, i bosoni intermedi W e Z0, la cui produzione impegna un’energia non minore di∆E=mc2, ponendo una severa limitazione al tempo di esistenza delle particelle virtuali ed al tragittoc∆t raggiungibile da tali particelle. Il caso dell’interazione forte e peraltro estremamente piu com-plesso, riposando sul comportamento di quark e gluoni descritto dalla cromodinamica quantistica.Qui ci limiteremo a riaffermare che anche l’interazione forte si manifesta solo a corto range.

E’ d’uso classificare le particelle elementari, siano esse stabili o instabili, a seconda del tipo diinterazioni cui vanno soggette. Le particelle si distinguono cosı in due grandi classi

1. Leptoni: soggetti, oltre che alla interazione elettromagnetica se carichi, anche all’interazionedebole. Tali sono l’elettrone (e), le particelle instabili (µ) e (τ) ed i tre corrispondenti tipi dineutrino (νeνµντ ), tutti con le loro antiparticelle.

2. Adroni: soggetti, oltre che alle citate interazioni, anche alle interazioni forti. Tali sono il protoneed il neutrone, anch’essi con le loro antiparticelle, ed una gran quantita di particelle instabili.Particelle instabili con massa minore del protone sono dette mesoni, tutte le altre barioni.

Gli adroni sono in realta anch’essi formati a partire da tre coppie di particelle piu propriamenteelementari dette quark, che peraltro non sono osservabili isolate (confinamento dei quark). Questisei quark vengono indicati con le lettere

u, d; c, s; t, b

I barioni risultano formati da tre quark, mentre i mesoni sono composti da una coppia quark-antiquark. Protoni e neutroni risultano in particolare dalle seguenti combinazioni

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Fig. 1.25. L’andamento di temperatura e densita nell’Universo del Big-Bang

p = uud

n = ddu

e il decadimento spontaneo del neutrone consiste nella trasformazione di un quark d in in unquark u indotta dall’interazione debole.

Particelle, stabili e instabili, possono essere liberamente prodotte quando sia disponibile l’energiacorrispondente alle masse prodotte, ferme restando le varie leggi di conservazione per le quali, adesempio, la produzione di un protone richiede la produzione contemporanea di un antiprotone per laconservazione del numero barionico. Si noti che per la conservazione della quantita di moto un fotonepuo produrre solo (almeno) coppie di particelle e, di converso, l’annichilazione di due particelle deveprodurre (almeno) due fotoni.

E’ ben noto come nel presente Universo sopravvivano solo le particelle stabili: fotoni, neutrini,protoni e un numero di elettroni tale da compensare la carica dei protoni. Sopravvivono anche ineutroni quando inglobati nella struttura di un nucleo. Ma in un Universo in cui l’energia media perparticella (∼kT) risultava superiore quella necessaria per produrre particelle instabili, ci si attendeche tali particelle siano in continuazione prodotte, e che risultino presenti in equilibrio statisticocon le altre particelle.

Nelle primissime fasi del Big-Bang, l’energia dei fotoni era sufficiente per creare coppie di ognitipo di particella e l’Universo dovette essere popolato da un ”brodo” di adroni e leptoni con le loroantiparticelle, in equilibrio termodinamico tra loro e con il gas di fotoni (Era degli adroni). A 1012

K si e ormai scesi sotto la soglia di produzione degli adroni e quelli in precedenza esistenti si sonovicendevolmente annichilati con le loro antiparticelle

n+n → γ + γp+p → γ + γ

Al termine delle annichilazioni restano i barioni oggi presenti nell’Universo, che in precedenzarappresentavano solo una piccola differenza percentuale (dell’ordine di 10−7%) nel bilancio dellapopolazione di particelle ed antiparticelle in equilibrio con la radiazione.

Al successivo decrescere della temperatura e sinche kT≥mec2 ( T ∼ 1010 K ) gli elettroni

sono continuamente formati da creazione di coppie e++e− (Era dei leptoni) mentre i neutrini sonoinizialmente accoppiati agli elettroni da interazioni

e+ + e− ↔ νe + νe

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Tab. 4. Le principali tappe nella storia dell’Universo.

Fase Tempo Densita Temperatura Energia per particella

Termine era degli adroni 10−4sec 1012K 1GevTermine era dei leptoni 1 sec 104 g cm−3 1010 K 1 MeVTermine Era della radiazione 106anni 10−21 g cm−3 3·103 K 0.3 eV

e con i nucleoni da interazioni

p + νe ↔ n + e+ -1.80 MeVp + e− ↔ n + νe -0.78 MeVn ↔ p + e− + νe +0.78 MeV

dove l’energetica delle reazioni e’ immediatamente ricavabile dalle masse delle particelle coin-volte: Mn = 939.5656 MeV, Mp = 938.2723 MeV, Me = 0.5109999 MeV. A causa della lungavita del neutrone ( ∼ 14.76 minuti) le prime due reazioni (endotermiche) restano dominanti sino ache l’energia media e superiore alle rispettive soglie. Durante l’Era dei leptoni i neutrini finisconopero col disaccoppiarsi, mentre l’abbondanza di protoni e neutroni, in equilibrio termico tra loro,obbedisce alla relazione di Maxwell

np

nn= exp [

(mn −mp)c2

kT] (17)

A 1011 K np/nn∼ 1.2, salendo a circa 4 a A 1010 K, quando termina l’era dei leptoni e inizial’era della radiazione . Al di sotto di questa temperatura le coppie elettrone positrone si annichilanoproducendo fotoni

e+ + e− → γ + γ

e l’Universo, dopo la nucleosintesi cosmologica (che termina a circa 4 minuti), restera infinepopolato solo da idrogeno, elio ed elettroni, con tracce di elementi leggeri. A circa 106 anni glielettroni si ricombinano con i protoni e la radiazione di fondo si disaccoppia dalla materia, ladensita della radiazioni scende sotto quella della materia e inizia l’attuale Era della Materia.

La Tabella 4) riassume la sequenza di eventi che caratterizza l’evoluzione del Big-Bang mentrela fig. 1.25 riporta l’evoluzione di temperatura e densita.

A1.11. Il problema della massa oscura.

Si e indicato come la stima della densita attuale dell’Universo sia un parametro cruciale per model-lare l’evoluzione cosmologica dell’Universo medesimo e, in particolare, per stabilire se esso e apertoo chiuso. e infatti di per se evidente che, fissato il campo di velocita della legge di Hubble, al cresceredella densita cresce il campo gravitazionale che contrasta l’espansione, e dalla stima di tale densitadiscende quindi il valutare se l’Universo superi o meno la velocita di fuga.

Piu in generale, ricordiamo che dall’assunzione che l’Universo sia su grande scala omogeneo eisotropo si ricava per l’espansione l’equazione di Friedmann

H2 = (R

R)2 =

8πGρM

3− kc2

R2+

Λc2

3(18)

dove R= R(t)e il fattore di scala, H =R / R misura la velocita di espansione (H0, costante diHubble, rappresenta l’espansione al tempo presente), ρM densita di massa, k parametro di curvaturae Λ la costante cosmologica di Einstein, che rappresenta una densita di energia del vuoto.

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Fig. 1.26. Curva di rotazione della galassia NGC3198. In funzione della distanza R dal centro dellagalassia e riportata la velocita di rotazione osservata per stelle e nubi di gas. Il tratto orizzontaleindica, orientativamente, le dimensioni dell’immagine ottica della galassia.

Esprimendo le densita di materia ed energia attraverso i parametri al tempo presente

ΩM =8GρM

3H20

; ΩΛ =Λc2

3H20

(19)

l’equazione di Friedmann fornisce

kc2

R20

= H20 (ΩM + ΩΛ − 1) (20)

e per avere un Universo piatto e con metrica euclidea, come rivelato ad esempio dal satelliteWMAP, si richiede k=0 e quindi

ΩM + ΩΛ = 1Una stima della densita di materia normale (barioni) si ottiene dalla stima della densita di

galassie unita a valutazioni della massa delle medesime. Con tale procedura si giunge ad una den-sita dell’attuale Universo dell’ordine di 10−31 gr/cm3, cioe inferiore di circa un fattore 100 delladensita critica necessaria per chiudere l’Universo. Se ne dovrebbe concludere che l’Universo e aperto,destinato ad una indefinita espansione. E’ stato peraltro fatto notare che la procedura teste descrittaconduce ad una stima della massa contenuta in oggetti emettenti luce, e che non si puo escludere lapresenza di massa oscura, dalla quale non proviene radiazione elettromagnetica. Massa che potrebbeessere contenuta in oggetti oscuri (stelle di bassissima luminosita od oggetti planetari) ma anche inparticelle elementari massive e scarsamente interagenti diffuse nell’Universo.

Esistono infatti molteplici evidenze per l’esistenza di un tale ulteriore contributo. La stabilita deldisco della nostra Galassie richiede ad esempio molta piu massa di quella visibile. Un’altra evidenzasperimentale per l’esistenza di massa oscura e fornita dalla curva di rotazione delle galassie spirali.Se la massa delle galassie e collegata sostanzialmente all’osservato corpo luminoso, ci si attendeche allontanandosi da questo gli oggetti che vi ruotano attorno (stelle e/o gas) mostrino velocitadecrescenti, come atteso da moti kepleriani. L’osservazione mostra che cio non e vero, e la velocitadi rotazione si mantiene pressoche costante sino a grandi distanze dal corpo centrale della galassiaed all’esterno della stesa immagine ottica della galassia (fig. 1.25). Se si vuole conservare la legge digravita di Newton, cio implica che nella Galassia e attorno ad essa esista una distribuzione di massanon accessibile all’osservazione diretta. Altre evidenze per la presenza di massa oscura si ottengonodalla dinamica degli ammassi di galassie.

Si e cosi stimato che in alcuni casi la massa oscura sia almeno quattro volte quella osservata,un valore rilevante ma ancora troppo piccolo per rendere piatto l’Universo. In tale contesto molteindagini sono state dedicate al tentativo di determinare se e quanta di tale massa oscura potesseessere sotto forma di barioni. Tali ad esempio gli esperimenti MACHO ed EROS volti a rivelare glieffetti di lente gravitazionale prodotti da corpi oscuri di piccola massa transitanti davanti a stellenormali. Il progresso delle indagini sulla radiazione di fondo cosmico, e in particolare i risultati del

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gia citato satellite WMAP, sembrano ormai aver risolto tale problema, mostrando che la materiaoscura e essenzialmente non barionica, ma che l’Universo e piatto solo grazie al sostanziale contributodi una per molti versi ancora misteriosa energia del vuoto.

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Origine delle Figure

Fig.1.1 Rose W.K. 1973, ”Astrophysics”, Holt, Rinehart & WinstonFig.1.2 Castellani V. 1985, ”Astrofisica Stellare”, ZanichelliFig.1.3 Mavridis L.N. 1971, in ”Structure and evolution of the Galaxy”, ReidelFig.1.4 Castellani V. 1985, ”Astrofisica Stellare”, ZanichelliFig.1.6 Castellani V., Degl’Innocenti S., Prada Moroni P.G, 2001, MNRAS 320,66Fig.1.7 Cassisi S., Castellani V., Degl’Innocenti S., Salaris M., Weiss A. 1999, A&A 134,103Fig.1.8 Rosenberg A., Piotto G., Saviane I., Apparicio A. 2000, A&AS 144,5Fig.1.10 Cameron A.G.W. 1982, in ”Essays in Nuclear Astrophysics”, Cambridge Univ. PressFig.1.16 Nandy, K., Morgan, D. H., Willis, A. J., Wilson, R., Gondhalekar, P. M. 1981, MNRAS 196, 955Fig.1.19 Clayton D.D. 1983, ”Principles of sStella Evolution and Nucleosynthesis”, McGraw-HillFig.1.20 Da Costa G.S., Freeman K.C. 1976, ApJ 206, 132Fig.1.22 Castellani V. 1985, ”Astrofisica Stellare”, ZanichelliFig.1.25 Karttunen H., Kroeger P., Oja H. et al 1996, ”Fundamental Astronomy”, SpringerFig.1.26 van Albada T. S., Bahcall J. N., Begeman K., Sancisi R. 1985, ApJ 295 30

28.12.04