Articolo Lévinas

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Articolo Lévinas. IL GIUDAISMO E IL FEMMINILE 1 La visione ebraica del mondo si esprime nella Bibbia. Ma nella Bibbia riflessa dalla letteratura rabbinica di cui il Talmud e i suoi commentatori costituiscono la parte principale. Il talmud, messo per iscritto tra il II e il VII secolo, risale ad una tradizione più antica del cristianesimo, le cui manifestazioni appaiono già nettamente nelle strutture che la vita ebraica aveva ricevuto, dalla fine del primo esilio. Il canone biblico come lo conosciamo oggi si è costituito ed è stato trasmesso sotto l’autorità di tale tradizione. Il cristianesimo stesso – dopo tutto – aveva ricevuto l’Antico Testamento da mani farisee. Indipendentemente dalle procedure esegetiche utilizzate dal Talmud, il senso dell’Antico Testamento si rivela agli ebrei attraverso la tradizione talmudica. Essa non rappresenta il tesoro folkloristico di Israele, nonostante qualche volta ne abbia tutte le apparenze. La sua sottigliezza non disdegna le forme senza ornamento. Niente è meno naïf di questi apologhi. Non è facile percorrere questi testi fondamentali, sorvolarli o trasmetterne l’acutezza ad un pubblico poco abituato al linguaggio e ai metodi in cui tale pensiero si pensa. C’è un esoterismo che non dipende dal segreto della dottrina ma dal suo rigore. È lecito chiedersi se idee che non riescono a penetrare nelle masse e che non si trasformano in tecnica determinino ancora il cammino del mondo, e se il cristianesimo non sia stato l’ultimo e l’unico ingresso del giudaismo nella Grande Storia. Ma questo significherebbe disprezzare anticipatamente il valore 1 Apparso in Âge Nouveau, 1960, n° 107-108.

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Articolo Lévinas.

IL GIUDAISMO E IL FEMMINILE1

La visione ebraica del mondo si esprime nella Bibbia. Ma nella Bibbia riflessa dalla letteratura rabbinica di cui il Talmud e i suoi commentatori costituiscono la parte principale. Il talmud, messo per iscritto tra il II e il VII secolo, risale ad una tradizione più antica del cristianesimo, le cui manifestazioni appaiono già nettamente nelle strutture che la vita ebraica aveva ricevuto, dalla fine del primo esilio. Il canone biblico come lo conosciamo oggi si è costituito ed è stato trasmesso sotto l’autorità di tale tradizione. Il cristianesimo stesso – dopo tutto – aveva ricevuto l’Antico Testamento da mani farisee.

Indipendentemente dalle procedure esegetiche utilizzate dal Talmud, il senso dell’Antico Testamento si rivela agli ebrei attraverso la tradizione talmudica. Essa non rappresenta il tesoro folkloristico di Israele, nonostante qualche volta ne abbia tutte le apparenze. La sua sottigliezza non disdegna le forme senza ornamento. Niente è meno naïf di questi apologhi. Non è facile percorrere questi testi fondamentali, sorvolarli o trasmetterne l’acutezza ad un pubblico poco abituato al linguaggio e ai metodi in cui tale pensiero si pensa. C’è un esoterismo che non dipende dal segreto della dottrina ma dal suo rigore.

È lecito chiedersi se idee che non riescono a penetrare nelle masse e che non si trasformano in tecnica determinino ancora il cammino del mondo, e se il cristianesimo non sia stato l’ultimo e l’unico ingresso del giudaismo nella Grande Storia. Ma questo significherebbe disprezzare anticipatamente il valore intrinseco della verità, non riconoscendogli altro valore a parte quello del consenso unanime. Ciò equivarrebbe soprattutto a pensare che l’idea rivelata vive continuamente nella storia in cui si è rivelata. Ciò equivarrebbe a negarle una vita profonda e bruschi ingressi nella storia, come attraverso eruzioni. Ciò equivarrebbe a misconoscere l’esistenza vulcanica dello spirito e, soprattutto, la possibilità stessa del fenomeno rivoluzionario.

Bisogna scusarsi di questa dichiarazione di principio, presentata a mo’ di introduzione alle modeste considerazioni sulla donna nel pensiero giudaico. Ma essa spiega perché tale pensiero è inseparabile dalle fonti rabbiniche e per quale motivo si è accettato di parlarne (visto che non si possiede nessuna attitudine verso l’archeologia), e per quale motivo le analisi che qui si tentano sono solo un approccio, insieme timido e temerario, di tale pensiero.

I

Il carattere della donna ebrea si tratteggia grazie alle toccanti figure femminili dell’Antico Testamento. Le spose dei patriarchi, le profetesse Miryam e Deborah, la

1 Apparso in Âge Nouveau, 1960, n° 107-108.

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nuora di Giuda, le figlie di Tsofchad, Noemi e Rut la Moabita, Michal figlia di Saul, Abigail, Betsabea, la Sulamita e tante altre hanno, nel compimento della storia biblica, un ruolo attivo e rappresentano le cerniere della storia santa. Siamo lontani dalle contingenze dell’Oriente in cui, nel seno di una civiltà maschile, la donna viene ad essere interamente subordinata all’arbitrio maschile o ridotta ad affascinare o a dare piacere alla vita severa degli uomini. Isacco sarebbe stato trascinato dai giochi violenti e dalle risa di suo fratello senza la dura decisione di Sara; Esaù avrebbe trionfato su Israele senza il sotterfugio di Rebecca; Labano avrebbe impedito il ritorno di Giacobbe senza la complicità di Lea e Rachele; Mosè non sarebbe stato allattato da sua madre senza Myriam; Davide e il Principe di Giustizia che un giorno gli nascerà non sarebbero possibili senza l’ostinazione di Tamar, senza Rut la fedele, senza il genio politico di Betsabea. Il controllo degli scambi di questa via difficile in cui il treno della storia messianica rischiava mille volte di deragliare è stato salvaguardato e comandato da donne. Gli eventi biblici non avrebbero camminato come hanno camminato senza la loro vigilante lucidità, senza la fermezza della loro determinazione, senza la loro malizia e senza il loro spirito di sacrificio. Il mondo in cui tali avvenimenti si svolgono non sarebbe stato strutturato – in passato, ora e per sempre – senza la presenza segreta, al limite dell’evanescenza, di queste madri, spose e figlie, senza i loro passi silenziosi nelle profondità e negli spessori del reale, delineando la dimensione dell’interiorità e di fatto rendendo abitabile il mondo. La Casa è la donna, dirà il Talmud. Aldilà dell’evidenza psicologica e sociologica di simile affermazione, la tradizione rabbinica la percepisce come una verità primordiale. Il capitolo finale dei Proverbi in cui la donna, senza curarsi della “bellezza e della grazia” appare come il genio del focolare e permette, attraverso ciò, la vita pubblica dell’uomo, può essere letto a tutti gli effetti come un paradigma morale. Ma nel giudaismo la morale ha sempre la portata di un fondamento ontologico. Il femminile compare tra le categorie dell’Essere. I maestri osano porre tra i dieci “verbi” che servirono per creare l’universo, la parola che recita che «non è buono che l’uomo sia solo». Rabbi Menachem Bar Yossi, per includerla in questo elenco di dieci, ha escluso quella che recita che «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». E quando Rabbi Yossi (che non è necessariamente – come dicono i dizionari enciclopedici - «padre del precedente») incontra il profeta Elia, gli domanda soltanto cosa vuole dire il versetto di Genesi «sulla donna prestando aiuto ad Adamo». Ma la fortuna di un incontro così meraviglioso – che si moltiplica nelle parabole talmudiche – non è al di sopra di una domanda apparentemente così piatta.

La risposta del profeta fissa il ruolo della donna mantenendosi sul piano della domanda: «L’uomo porta il grano in casa – lo macina forse? Porta del lino – si veste forse di lino? La donna illumina il suo sguardo. Lo rimette in piedi». È dunque per molare il grano e tingere il lino che ella si trova là? Uno schiavo sarebbe più che sufficiente per tale scopo. Certamente si potrebbe legger nel testo citato la conferma dello statuto ancillare della donna. E tuttavia si impone un’interpretazione più sfumata quando si conosce la concisione del pensiero talmudico e la “dignità” categoriale degli esempi che vengono fatti. Il grano e il lino vengono strappati alla natura attraverso il lavoro dell’uomo. Attestano la rottura della vita spontanea, la fine

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della vita istintiva sottomessa alla natura immediata, data. Essi segnano l’inizio di quanto si può chiamare – con estrema precisione – vita dello spirito. Ma una “crudezza” insormontabile rimane nei prodotti della nostra civiltà conquistatrice. Il mondo in cui la ragione si riconosce sempre più presente non è abitabile. Esso è duro e freddo come quei depositi in cui si stocca mercanzia che non può piacere: né vestire chi è nudo, né nutrire chi ha fame; è impersonale come gli hangar delle fabbriche e delle città industriali in cui le cose fabbricate rimangono astratte, vere di una verità enumerabile e trasportate nel circuito anonimo dell’economia, frutto di sapienti pianificazioni che non possono impedire – ma addirittura preparano – disastri. Ecco lo spirito nella sua essenza mascolina, che vive-fuori, esposto al sole violento che abbaglia, ai venti che dal largo lo battono e lo abbattono, sopra una terra senza anfratti, spaesato, solitario ed errante e già alienato dalle cose prodotte che egli aveva fatto essere e che si avventano indomabili e ostili.

Aggiungere lavoro ancillare a quello del signore non risolve la contraddizione. Illuminare gli occhi accecati, rimettere in piedi – superare, perciò, una alienazione che da ultimo risulta proprio da quella verità del logos universale e conquistatore che dà la caccia perfino a le ombre che potrebbero ospitarlo -: questa sarebbe la funzione ontologica del femminile, la vocazione di colei «che non conquista». La donna non arriva semplicemente per tenere compagnia ad un essere privato della società. Ella risponde ad una solitudine, interna a tale privazione e, cosa più strana, ad una solitudine che persiste nonostante la presenza di Dio; ad una solitudine nell’universale, all’inumano che sorge quando l’umano ha già sottomesso la natura e si è innalzato al pensiero. Affinché lo sradicamento inevitabile del pensiero che domina il mondo si plachi nel riposo – nel ritorno a sé – è necessario che nella geometria degli spazi infiniti e gelidi, si produca la strana defaillance della dolcezza. Il suo nome è donna. Il ritorno presso di sé, questa raccolta, questa apparizione del luogo nello spazio non è il risultato, come in Heidegger, del gesto costruttivo, di una architettura che tratteggia un paesaggio, ma dell’interiorità della Casa il cui «rovescio» varrebbe il «dritto» senza la discrezione essenziale dell’esistenza femminile che vi abita, che è abitazione. Ella trasforma il grano in pane e il lino in abito. La donna, la fidanzata non è la riunificazione – in un essere umano – di tutte le perfezioni della tenerezza e della bontà che sussisterebbero in se stesse. È come se il femminile ne rappresentasse la manifestazione originaria, il dolce in sé, l’origine di tutta la dolcezza della terra.

Il legame coniugale è dunque simultaneamente legame sociale e momento della presa di coscienza di sé, il modo attraverso cui un essere si identifica e si ritrova. La tradizione orale vi insiste. Dio non ha forse dato il nome di Adamo all’uomo e alla donna riuniti come se, due, fossero uno, come se l’unità della persona non potesse trionfare sui pericoli che la spiano attraverso una dualità che si inscrive nella sua essenza? Dualità drammatica, perché possono sorgere un conflitto e una catastrofe; perché l’amica può diventare la più terribile nemica. Lo spirito impassibile e senza condizione non senza rischio soffia dove vuole, ritorna a sé e si riposa nella bontà. Ma «senza la donna l’uomo non conosce né bene, né aiuto, né gioia, né benedizione, né perdono». Niente di ciò di cui un’anima ha bisogno! Rabbi Yehošua ben Levi

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aggiungeva: «Né pace, né vita». Niente di ciò che trasforma la vita naturale in etica, niente di ciò che permette di vivere una vita, nemmeno la morte che si muore per un altro. Certi dicono «che l’uomo senza la donna diminuisce nel mondo l’immagine di Dio». E questo ci conduce verso un’altra dimensione del femminile: la maternità.

II

Nel giudaismo, in un certo senso la donna avrà il destino dell’essere umano in cui la sua femminilità comparirà come attributo. Le istituzioni che definiscono il suo statuto giuridico attestano questa condizione di essere morale. Il loro carattere rivoluzionario, rapportato agli usi e ai costumi dell’epoca e alle civiltà orientali in cui si situa il mondo della Bibbia, si staglia nonostante le forme rituali che tale statuto riveste. Per esempio i riti che impone il Libro dei Numeri alla donna sospettata di adulterio consistono infatti a rispettare in lei la «persona umana», a sottrarla al potere arbitrario del marito, a «de-passionalizzare» la gelosia cieca attraverso una lunga procedura, a lasciare arbitrio e decisioni ai sacerdoti, al potere pubblico, ad un terzo.

Tali principi giuridici di fatto esprimono uno dei temi permanenti del pensiero ebraico. La femminilità della donna non potrebbe né deformare né assorbire la sua essenza umana. «La donna, in ebraico, si chiama ‘išah perché viene dall’uomo/’iš» racconta la Bibbia. I dottori si impadroniscono di questa etimologia per affermare la dignità unica dell’ebraico che esprime il mistero stesso della creazione: la donna deriva quasi grammaticalmente dall’uomo.

Derivazione ben diversa dal divenire biologico. Un testo rabbinico afferma che due atti distinti di creazione si resero necessari per Adamo: uno per l’uomo in Adamo, il secondo per la donna. Un altro testo si compiace di rivelare la priorità che, sul piano della profezia, Sarah aveva su Abramo. Eva ha ascoltato la parola divina. Interlocutrice di Dio, la donna non può più perdere questa dignità, e, secondo una parola ardita dei saggi, anche a livello della sua esistenza biologica la donna accoglie il suo compagno sempre con il viso rivolto a lui. Il rapporto da persona a persona precede ogni rapporto. L’originalità totale del «femminile» in rapporto al principio «femmina» si esprime in un’altra parabola (da leggere castamente nel contesto di purezza in cui il Talmud riesce a parlare di sesso) secondo cui Adamo si era avvicinato a tutti i viventi che da lui avevano ricevuto il loro nome, ma rimaneva sempre insoddisfatto fino a quando apparve Eva, che fu salutata precisamente come essere regale. La leggenda insiste anche sul fatto che Eva non può apparire che attesa e invocata da tutti i voti di Adamo. Ella non si offrì ad Adamo come una cosa pronta e prevista per i «bisogni biologici», in nome di una pretesa necessità naturale. Le disgrazie che ha causato indicano già una difficoltà sociale di cui gli uomini portano la responsabilità ed in cui non è possibile incriminare un destino, una natura o un Dio.

Se la donna completa l’uomo, tuttavia non lo completa come una parte completa un’altra parte in un tutto, ma, se così si può dire, come due totalità che si completano: e questa, dopo tutto, la meraviglia delle relazioni sociali. In quest’ottica si situa la

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discussione tra la scuola di Rav e quella di Šmuel sulla creazione di Eva. È uscita da una costola di Adamo? Questa costola non era forse un lato di Adamo, creato come essere unico su due lati e che Dio separò mentre - ancora androgino - dormiva.

Il tema è forse sorto dal Simposio di Platone, ma presso i dottori assume un significato nuovo. I due volti dell’Adamo primigenio guardano, in piedi, verso il lato in cui resteranno sempre rivolti. Sono da subito volti. La divinità di Platone li fa ruotare dopo la divisione. La loro nuova esistenza, l’esistenza separata, non verrà a punire – come in Platone – le audacie di una natura troppo perfetta. Per gli ebrei l’esistenza separata avrà più valore dell’unione iniziale.

«Carne della mai carne e osso delle mie ossa» significa dunque un’identità di natura tra la donna e l’uomo, un’identità di destino e di dignità ed anche una subordinazione della vita sessuale al rapporto personale che è l’uguaglianza in se stessa.

Idee più antiche dei principi in nome dei quali la donna moderna lotta per la sua emancipazione, ma verità di tutti questi principi su un piano in cui permane anche la tesi che si oppone all’immagine dell’androgino iniziale e si attacca all’idea popolare della costola. Essa mantiene una priorità certa del maschile. Rimane il prototipo dell’umano e determina l’escatologia rispetto a cui si descrive la maternità stessa: la salvezza dell’umanità. La giustizia che amministrerà le relazioni tra uomini equivale alla presenza di Dio in mezzo a loro. Le differenze tra il maschile e il femminile sfumano nei tempi messianici.

Nell’interpretazione rabbinica la maternità si subordina ad un destino umano che deborda le «gioie della famiglia»: bisogna compiere Israele, «moltiplicare l’immagine di Dio» inscritta sul volto degli uomini. Non che l’amore coniugale non abbia alcuna importanza o che si riduca a strumento di procreazione o che prefiguri, come in una certa teologia, il compimento. Al contrario la finalità ultima della famiglia è il senso attuale e la gioia del presente. Essa non vi è solo prefigurata, ma è già compiuta in esso. La partecipazione del presente al futuro si produce proprio nel sentimento amoroso, nelle grazie della fidanzata e anche nell’erotismo. Il dinamismo proprio dell’amore lo conduce aldilà dell’istante presente ed anche aldilà della persona amata. Tale finalità non si manifesta in una visione esteriore all’amore che lo integrerebbe sul piano della creazione; tale finalità è l’amore stesso. La nascita dei primi figli, Caino e Abele, è avvenuta - secondo un passaggio del Trattato Sanhedrin – in Paradiso, lo stesso giorno della creazione di Adamo che fu anche il giorno della creazione di Eva e il giorno del loro primo amore prima della disobbedienza originale. Salirono in due sul letto nuziale e ne discesero in quattro. «Discesero in sei – recita un altro apologo – perché le spose dei figli nacquero insieme ai figli». La conseguenza della disobbedienza fu precisamente la separazione della voluttà e della procreazione che orami si dispiegano in successione nel tempo. I dolori della gravidanza e del parto sono ormai sottomessi ad una finalità distinta da quella che attira gli innamorati. Nello stato di perfezione si rivelava la vera essenza dell’amore.

Da quel momento non è più indegno di Dio né «ornare Eva come una fidanzata» prima di condurla ad Adamo, né trascorrere «il tempo libero che gli resta dalla creazione» a formare delle coppie. Rendere felici quanti sono sposati è una delle

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azioni più meritorie della pietà ebraica. Una tinozza di rame sulla spianata del santuario conteneva l’acqua destinata alle abluzioni dei sacerdoti – simbolo di purezza. Secondo la leggenda il rame proveniva dagli specchi offerti religiosamente dalle donne ebree uscite dall’Egitto. Strumenti di casta vanità che risvegliavano il desiderio in una generazione disperata e assicuravano la continuità di Israele. Il significato dell’amore, dunque, non si arresta nell’istante della voluttà né nella persona amata. Non assume alcun senso romanzesco.

La dimensione romanzesca in cui l’amore diventa fine a se stesso – o in cui rimane senza alcuna «intenzionalità» che lo debordi -, un mondo di voluttà o un mondo di fascino e bellezza che può coesistere con una civiltà religiosa (e addirittura che può essere spiritualizzata da questo come il culto della Dama nel cristianesimo medievale) è estraneo al giudaismo. Le forme romanzesche che si trovano nella Bibbia sono immediatamente interpretate dal Midraš in maniera tale da fare emergere l’aspetto escatologico del romanzesco. Il giudaismo classico non possiede un’arte nel senso in cui è posseduta da tutti i popoli della terra. Le immagini poetiche della vita amorosa sono discrete nella Bibbia, a parte il Cantico dei Cantici che verrà presto interpretato in senso mistico. L’erotismo puro è evocato in un senso decisamente negativo come nella storia di Amnon e Tamar o in certi aspetti degli amori di Sansone. Quanto viene chiamato amore-sentimento, quasi separato dall’erotismo e sottolineato da immagini forti – la storia di Isacco e Rebecca, di Giacobbe e Rachele, di Davide e Betsabea - nel Midraš è sottoposto ad una de-poetizzazione che non proviene da timidezze pudiche, ma dall’apertura permanente della prospettiva messianica: dell’imminenza di Israele, dell’umanità che riflette l’immagine di Dio che porta sul volto.

L’eterno Femminino che tutta un’esperienza amorosa sorta nel Medioevo conduce, attraverso Dante, fino a Goethe, nel giudaismo è assente. Mai la donna assumerà aspetto divino. Né vergine Maria, né Beatrice. La dimensione intima è aperta dalla donna e non dal senso dell’altezza. Dell’esistenza femminile si tratterrà senza alcun dubbio la misteriosa interiorità per sentire come una fidanzata il Sabato, la stessa Torah e qualche volta la Šekinah, la Presenza divina presso gli uomini. Ma le immagini non divengono in nessun modo figure femminili. Non sono prese sul serio. I rapporti amorosi della Scrittura si interpretano simbolicamente e denotano rapporti mistici.

III

Il femminile però, oltre che nella dignità di un principio che restituisce, per così dire, un’anima allo spirito, si rivela come la fonte di ogni disgrazia. Appare in un’ambivalenza in cui si esprime una delle più profonde visioni dell’ambiguità dell’amore stesso. Questa deliziosa debolezza che, nell’estasi della vita interiore, salva l’umano dallo spaesamento, si mantiene ai limiti del lassismo. La donna è interamente impudicizia fino alla nudità dei suo dito mignolo; è quanto, sopra ogni altra cosa, si esibisce, l’essenzialmente problematico, l’essenzialmente impuro.

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Satana, dice un testo estremista, fu creato insieme a lei. La sua vocazione di accoglimento, attestata dalla parte da cui nasce – organo nascosto ed invisibile, si allea con tutte le indiscrezioni.

Il pensiero rabbinico si avventura più lontano. La morte appartiene all’uomo già prima del peccato originale. Il giorno stesso della creazione di Eva il suo destino fu siglato. Fino a quel momento, al pari di Elia il profeta – unico come Elia, unico perché solo come lui – doveva sfuggire alla morte. La vera vita, la gioia, il perdono e la pace non riguardano più la donna. Ecco che sorge, estraneo a qualunque autocompiacimento, lo spirito nella sua essenza virile, sovrumana, solitaria. Si riconosce in Elia, il profeta senza perdono, il profeta delle collere e dei castighi, nutrimento dei corvi, abitante dei deserti, senza dolcezza, senza felicità, senza pace.

Opinione eccessiva, tentazione permanente dell’anima ebraica, sdegnosa degli amori equivoci in cui il puro e l’impuro si mescolano, che disprezza le culture in cui il sangue e la morte si legano alla voluttà, in cui le forme dell’arte e il bello si adattano a supreme crudeltà.

La figura biblica che ossessiona Israele sulle strade dell’esilio, la figura invocata all’inizio del sabato, nel crepuscolo, in cui presto rimarrà senza soccorso, la figura in cui, per l’ebreo, si raccoglie tutta la tenerezza della terra, la mano che accarezza i propri figli e li culla – non sono più femminili. Né una donna, né una sorella, né una madre lo guidano. È Elia, che non ha conosciuto la morte, il più duro dei profeti, il precursore del Messia.

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