Artesera 07

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PUBBLICAZIONE GRATUITA / MENSILE / ANNO I / NUMERO 7 N°7 GIUGNO 2011 LA CITTÀ SI RICONOSCE VOL.2

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Forse il modo migliore per conoscere una città è partire da quegli spazi indefiniti, che non appaiono sulla mappa, dove fiorisce una natura anarchica ma consapevole. Luoghi “che non esistono”, ai margini, negli sfridi scappati dalla definizione della geografia politica metropolitana. Spazi in cui la città si riappropria di sé, del suo territorio, delle sue porzioni di carne lasciate abbandonate, libere. No men’s land in cui sorgono orti urbani, azioni di guerriglia botanica.

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pubblicazione gratuita / Mensile / Anno i / nuMero 7N°7 giugNo 2011

la città si riconosceVOL.2

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... è partire da quegli spazi indefiniti, che non appaiono sulla mappa, dove fiorisce una natura anarchica ma consapevole. Luoghi “che non esistono”, ai margini, negli sfridi scappati dalla definizione della geografia politica metropolitana. Sono anche gli spazi in cui la città si riappropria di sé, del suo territorio, delle sue porzioni di carne lasciate abbandonate, libere.

Ritagli sospesi, no men’s land in cui sorgono orti urbani, interventi artistici, azioni di guerriglia botanica. È qualcosa che ha a che fare con le radici, con il toccare la terra e il radicarvisi, farla germogliare, colorare il grigio di verde. Il paesaggio cittadino è costellato di micro esplosioni vegetali, dai balconi di alcune case, che sembrano serre ormai troppo piccole, alle vetrine di alcuni fiorai che debordano incontebili sulle strade e lungo i muri, dai prati in miniatura alle lillipuziane foreste che sgorgano tra un palazzo e l’altro, dalle crepe erbose di edifici e di marciapiedi agli orti abusivi nelle periferie. Apparizioni soprattutto, piene di energia, coraggio; segni vitali di resistenza e sovversione.

Ognuna improbabile nella sua collocazione, contaminate dalla provvisorietà e dalla tenacia. È un meccanismo di ri\conoscimento consanguineo al fenomeno della street art, che mescola azione politica e sociale per ribadire il concetto di identità del singolo e della comunità. Sono piccoli respiri di sopravvivenza, diventati anche una pratica artistica, a cominciare dalla prime consapevolezze della land art negli anni Sessanta, per arrivare ai molti artisti internazionali che ne hanno fatto un modus operandi, come ci racconta Claudio Cravero dal suo osservatorio speciale nel PAV, il Parco di Arte Vivente di Torino e Francesco Bernardelli con l’incredibile storia di “Little Sparta”. Noi abbiamo invitato Maria Bruni a parlarci delle sue installazioni in cui la natura diventa arte responsabile e ricerca di armonia tra interno ed esterno, attenzione ecologica, Filippo Fossati con il suo bosco d’arte a Bossolasco disseminato di opere che vivono e cambiano con l’andamento dell’ambiente, ed Elmuz con i suoi ritratti e le sue cartoline in cui si sovrappongono identità umana e vegetale. Ma c’è anche il film di Andrea Deaglio.Pierluigi Pusole è l’ospite di Collezione ArteSera con un intervento che è al tempo stesso un’azione, un’opera, un dono. Per mesi l’artista ha lavorato a un unico grande lavoro formato da 7007 parti, acquerelli su carta di cellule organiche e vegetali, che si sdoppiano infinite, in un organismo che prende forma, si sviluppa, vive. Ogni copia del numero di giugno avrà una parte del lavoro originale, testimonianza di un’idea di arte che coinvolge l’artista anche fisicamente. L’esserci dentro, il darsi con generosità, il provare a camminare per strade diverse, con i rischi inclusi: ciascuna persona è una via, che può accogliere o disperdere.Gli orti e i giardini sono un altro modo di riappropriarsi della città, di mettere radici, tornare alla terra, portarle rispetto, nutririsi nell’anima e nel corpo, partendo dalla periferia, dai bordi della città, le zone indefinite, in ombra. Ilaria Gadenz traccia una storia di questa cosiddetta “agricoltura urbana” sfociata poi in altri ambiti : inizia a fine Ottocento negli Stati Uniti, con gli orti e i campi coltivati, espedienti di sopravvivenza in periodi di povertà e guerra in agguato - anche piazza Castello fu a lungo una distesa di grano negli anni Quaranta - e arriva alla Guerrilla Gardening del Duemila.Questo numero va in giro per il verde metropolitano individuale e collettivo, hortus un po’ conclusus, un po’ botanico e un po’ alimentare, e poi serra, bonsai, giardino giapponese, giardino all’italiana e giardino all’inglese, e ancora agorà. Come Torino ha progettato, progetta e tutela il suo verde reale ed onirico è l’ombelico a cui si torna, dopo aver spiccato altrove il volo: l’analisi la sviluppa Maurizio Zucca da un punto di vista architettonico e urbanistico.Per entrare nell’atmosfera e nella poesia che contengono queste dimensioni a parte ci servono, però, le parole e le immagini del racconto di Luca Rastello, all’inizio del viaggio e del numero, che coglie il brulicare di ricordi e sensazioni, di visioni e aneliti che impregnano i luoghi a parte, capaci di sorprendere per ciò che possono mettere in scena al visitatore, anche dietro al suo sguardo. Inaspettati.

Direttore eDitorialeAnnalisa Russo

Direttore responsabile Olga Gambari

progetto grafico e impaginazionewww.dariobovero.it

copertinaCartoline dagli orti di Elmuz

stampaSARNUB Spa

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Testata giornalistica registrata. Registrazione numero N°55 del 25 Ottobre 2010 presso il Tribunale di Torino Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n°20817

Tutti i diritti riservati: nessuna parte di questa rivista può essere riprodotta in alcuna forma, tramite stampa fotocopia o qualsiasi altro mezzo, senza autorizzazione scritta dei produttori.

Hanno collaboratoFrancesco Bernardelli, Maria Bruni, Laura Cherchi, Claudio Cravero, Andrea Deaglio, Elmuz, Filippo Fossati, Ilaria Gadenz, Pierluigi Pusole, Luca Rastello, Stefania Sabatino, Serbardano, Alessandro Sciaraffa, Daniela Trombetta, Maurizio Zucca

contattiARTE SERA PRODUZIONIVia Lamarmora, 6 - 10128 TorinoMAIL: [email protected]

l’editoriale

Forse il modo migliore di conoscere una città...

Mensile / anno i / nuMero 7Giugno 2011

Olga Gambari e Annalisa Russo

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il racconto dell’arte

Poi ho incontrato loro, impegnati a costruire quella loro opera d’arte effimera e a lasciarla proprio qui, nel mio territorio. E in quell’incontro ho avvertito di nuovo, dopo tanto

tempo, l’odore famigliare del bitume. Mio nonno fabbricava bitume, incatramava le strade, creava l’asfalto. Aveva una piccola fabbrica laggiù, al fondo dei binari, montagne di sassolini nero-pece che ricordo come si fa con i primi ricordi, una macchina misteriosa che lui chiamava “sculacciatrice”, minacciando noi nipoti assatanati di pallone e bricconate, e un’altra macchina, all’ombra di un capannone che invece dispensava la fantasmagorica aranciata Mirinda. Le carte del Negro Treviso al fondo di serate senza fine, caldo di piazzale, fresco d’ombra di tettoia, corse sudate, un lampioncino di notte, madri e padri che parlano calmi, seduti alla tavola del capostipite, calzoni corti e maglietta di spugna, e l’odore dell’asfalto nuovo. Che strano, quaggiù tutto questo lo avevo dimenticato.Questa è la storia di una storia d’amore. E traver-sine. Non ne sono l’autore, mi sono limitato a guar-dare, anzi no: a vedere. Ora ho bisogno di mettere in fila le parole, proprio come le traversine lungo il sentiero di quei due, traversine senza binari, alline-ate in orizzontale, perpendicolari alla direzione in cui doveva correre ciò per cui furono posate. Ora stanno senza scopo lungo la linea in cui la città si nasconde a sé stessa, quel giorno lì, lungo un pomeriggio di pioggia. Pioggia arrivata e pioggia che doveva arrivare. Ma forse è oggi quel giorno, e quei due lì sono ancora a piedi saltando da legno a legno fra l’erba alta.La storia d’amore che voglio raccontare batte un senti-ero di traversine, residuo di una ferrovia fantasma, ma per loro è un valico. Un cancello.Prima era un sentiero di binari e treni merci. C’erano cisterne e case blu di custodi, e uomini sudati e bru-ciati dalla fatica, un tempo c’era un altro tempo.Ora accade qualcosa d’altro, là sotto lungo il binario

che non c’è più: un uomo e una donna, un amore, e la paura di allungare il passo nella soglia deformata di una ferrovia fantasma. Per questi due tutto è soglia, lunga quanto il tempo che una città ha impiegato per dimenticare una parte della sua ferrovia, una parte del sudore di quegli uomini bruciati. O lunga quanto il tempo in cui durerà questo oblio. Non ricordo quando e dove l’uomo e la donna sono entrati: dovevo essere distratto, probabilmente me ne stavo abbastanza lontano da una delle porte del sentiero, asssorto in qualche filo d’erba sottile come una lama. Che strano, avevo dimenticato persino per quale motivo proprio io sono stato messo a guardia di questo terrapieno infossato. È così lungo. Ricordo bene da dove poi loro sono usciti, invece: una rete verde tagliata qualche tempo prima da certi ladri di ferraglia. Ma mi chiederò a lungo per quale porta hanno avuto accesso al mio sentiero. Forse un ponte, un bivio, forse hanno scavalcato i muretti degli orti di periferia. Si vedeva che a loro i bivi piacevano, si capiva da come parlavano e da come si interrompe-vano, ma poi continuavano dritti, di traversina in tra-versina, a costo di camminare sui rovi-serpente che a volte coprono il terreno e se nessuno guarda potreb-bero inghiottirti e non restituire neanche il ricordo di quel che eri, neanche il ricordo che c’eri.La donna è buffa, ogni tanto sbatte i piedi a terra come un clown, alza le gambe e l’uomo ride e vor-rebbe abbracciarla per dirle quanto ama i suoi gesti di bambina. Lei ha i capelli alti sulla testa e la pelle chiara, anche se è un poco abbronzata. Tiene con le mani i lembi dei suoi pantaloni troppo lunghi, scopre così le gi-nocchia, l’incavo del polpaccio. Lui passa davanti, taglia per lei il sentiero: sente che lei fa finta di volere una guida nell’incertezza del cammino. E trasforma il sentiero per lei, lo descrive per non farla fermare, usa le parole, racconta storie e le racconta al senti-ero, e onora tutti i piccoli dei che incontrano lungo la strada: la voce di una divinità bambina, gli spiriti dei fantasmi delle Americhe lontane, il grido d’aiuto dei

d’amore e traversine

testo di luca rastello*

Ci sono strade che le città dimenticano, passaggi e

transiti nascosti negli angoli fra gli spazi di chi vive lungo i

marciapiedi. Io ora so chi sono: sono uno

dei custodi. Prima aleggiavo in una mia nuvola incerta, quasi senza memoria, mi accontentavo

di una sensazione confusa, la sensazione di esserci.

Stavo qui perché era naturale.

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tossici che si bucano fra i fiori e gli escrementi. Senza quell’uomo dalla pelle stanca e dagli occhi generosi, lei non sarebbe sul sentiero.L’uomo ha la barba scura, qualche volta ha gesti im-pacciati, ma quando si mette alla guida della donna ha dentro il cuore sicurezze millenarie, di generale. Ogni passo significa “io sono con te”. Lei sorride, dentro e anche un poco fuori, vuole che lui veda il sorriso.Guardandoli da lontano (troppo lontano, avrei voluto affiancarmi a loro sul sentiero) mi sembra di sentirli parlare di una cosa che nasce ogni volta che sono in-sieme. Per una frase soltanto li salverò: li ho sentiti ridere e dicevano: “Siamo un genio”. Non capisco, ma capisco che si amano. Anche se non si toccano, non si baciano (sono stato attento: c’è stato sola-mente un abbraccio finale, con un fumo in lontananza e di nuovo la città incombente). Lui protegge, lei si fa proteggere. È il gioco antico degli uomini e delle donne, vecchio da prima che fosse vecchio il mondo. Lui la segue, segue ogni giravolta, segue anche la sua mente e lei si fa inseguire. Poche parole. Suonano a memoria, occhi chiusi, sanno improvvisare, saltano dal trapezio e la presa scatta sicura, senza bisogno di accordi, oggi questi due sanno suonare le armoniche strane del silenzio.Il sentiero di traversine parla una lingua dei morti: è morta la città, dopo avere gridato a lungo aiuto, morta la ferrovia, sono morti i cantieri e le cisterne. E’ un sentiero ciclico dove l’uomo e la donna incon-

trano orti, fiori, fabbriche, aghi, scarpe spaiate, case di zingari, teste di bambole macchiate di nero. As-semblano e smontano. La via si apre e si chiude, con la vita, attraversa la morte e si riapre alla vita. Bambini devono giocarci, si vede in certe piazzole ben nascoste dagli arbusti cresciuti a dismisura, quasi a volerle proteggere, fra gli arbusti che qui si fanno alberi, bambini devono giocare in questo spazio sottratto allo spazio, ogni volta che possono allontanarsi dal loro ruolo di guardie di un villaggio di tende. Una voce li chiama, con timbro di bam-bino, rabbrividiscono, allungano il passo.Sono tende colorate, una canadese e piccoli igloo da campeggio, stinti, consumati, con panni abbandona-ti sulle palerie orizzontali, tende da campeggio che hanno conosciuto altri colori, ma tanto i colori non servono: qui domina l’impero del verde, del rovo, la liana metropolitana.

Questa ragazza e questo ragazzo credono di avere at-traversato luoghi e tempi ignoti alla città che abitano. Di essere stati come James Cook alla volta della sco-perta della Nuova Zelanda o come Antonio Pigafet-ta, criado di Magellano, durante l’esplorazione delle Filippine e come John Franklyn, governatore. Ma il sentiero di traversine è abitato, e ogni mattina lo per-corrono donne e uomini, bambini, uccelli e cani, che la città è abituata a non vedere. E allora questi due? Oggi si sono amati lungo il sentiero, lungo la porta nascosta della città, questo sì, questo era imprevisto

e credo non potesse accadere. Qualcosa mi è sfuggito, probabilmente devo rimedi-are, non ricordo le mie consegne, ho perso tempo a guardarli. Sarà stata opera di quell’unico genio che formano quando sono in due. Sono arrivati al fondo del binario, il vecchio scalo è abbandonato, uomini assorti borbottano in rumeno, donne si scaldano al fuoco di certi grandi bidoni di latta, il piazzale è vuoto, senza le montagne di bitume, ma era proprio qui, proprio qui, sull’orizzonte c’è anche la palazzi-na dell’aranciata Mirinda. Mi hanno aggirato, mi hanno trascinato fin qui con i loro passi pagliacci.

Li riconosco in un verso, mi hanno eluso: “As-pettando che il cielo offuscandosi si schiarisse in un bagliore più forte si sono trovati là dove vita e morte hanno una sosta”. In questa città, mangiata da dio, avviene solo qui, ora e per adesso, lungo il senti-ero di traversine. Prima periferia a nord. Se fossi un guardiano misericordioso dovrei fulminarli qui, ora e per sempre.

* Giornalista, nato a Torino nel 1961, “La guerra in casa” Einaudi 1998, “Piove all’insù”, Bollati Boringhieri 2006, “Io sono il mercato”, Chiarelettere 2009, “Undici buone ragioni per una pausa”, Bollati Boringhieri 2009, “La frontiera addosso”, Laterza 2010.

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t orino è fortunata, ha molto verde, in passato si è lavorato per costruirlo, oggi lo si tute-la e mantiene bene, ma se ne

costruisce poco e si asfalta molto. Si po-trebbe dire che Torino negli ultimi anni ha dapprima progettato lo sviluppo della già ricca presenza di verde in città (il Piano regolatore approvato nel 1995 prevedeva ampi sistemi di parchi, dai fiumi alla colli-na al verde diffuso nei quartieri all’anello verde periferico), poi ha trovato fosse un progetto ingombrante rispetto alla “neces-sità” di costruire case, fino a dimenticar-lo, accantonandolo in buona parte. Questa è una visione realistica ma può suonare pessimista, dimentica ciò che di buono è stato fatto e si potrebbe al contrario dire che le priorità erano altre, le strutture per le olimpiadi, il passante ferroviario e la spina centrale, la metropolitana, etc. Però l’idea di realizzare sistemi di verde diffuso in città si può rimandare, non dimenticare, altrimenti la foga nel realizzare infrastrut-ture funzionali può provocare danni irre-versibili e far perdere di vista la possibilità di attuazioni future.Se pensiamo alle megalopoli del futuro non possiamo che auspicare di trovare al loro interno anche ampie isole di verde,

rifugi naturali dove sostare, camminare, nuotare… Il progetto per il mare a Porta Nuova (diffuso nel 2006) proponeva proprio questo, realizzare in città luoghi che di so-lito andiamo a cercare altrove, a partire dal-la salvaguardia di spazi da trasformare un giorno in rifugi naturali per i cittadini (vedi notizie su Central Park a New York e altri luoghi simili sul blog ilmareaportanuova.blogspot.com)Torino, considerata nella sua estensione me-tropolitana, già dispone di molti altri “mari” da scoprire. Innanzitutto i fiumi, pensiamo a spiagge raggiungibili in tram o in bici (sen-za code in autostrada).Volendolo questi fiu-mi torneranno ad essere balneabili, nel Po molti torinesi hanno imparato a nuotare, tra loro mio padre (per lui la spiaggia migliore era sull’isola che un tempo sorgeva dalle parti di Madonna del Pilone, dove giocava e nuotava da bambino, probabilmente la stes-sa isola sulla quale Emilio Salgari immagi-nò Sandokan e i tigrotti di Mompracem). Sui fiumi oltre a grigliate e tintarella si può anche navigare. Se andate sulla Stura prima dell’ingresso all’autostrada per Milano tro-verete chi vive in accampamenti disperati, ma tra loro c’è già chi abita il fiume in modo da noi dimenticato, un’avanguardia da se-guire. Un altro mare da scoprire sta nei laghi di cava, disseminati lungo il Po a pochi chi-lometri da Italia ’61, raggiungibili in bici-cletta in venti minuti. I laghi hanno acqua pulita, sulle sponde potrebbero localizzarsi attrezzature per la balneazione e servizi per la navigazione a remi o a vela, in quelli vici-no all’autostrada si potrebbe anche fare sci nautico. Il numero e l’estensione dei laghi sono tali da poter ospitare una moltitudine di cittadini.Altra risorsa nel rinnovamento di molte città contemporanee sono le fabbriche dismesse, riusate in vario modo, per usi pubblici e pri-vati, dall’America all’Europa, sin dagli anni 70. A Torino sono sparite quasi tutte, demo-

lite per far spazio a nuove costruzioni, se ne poteva conservare qualcuna in più, era-no un pezzo importante di identità storica, è un po’ come se avessimo demolito quasi tutte le chiese barocche. Potevano coesiste-re con spazi verdi, come alla Nebiolo di via Bologna dove la vegetazione entrava nella fabbrica abbandonata trasformandola in un giardino d’inverno, poi è stata anch’essa ab-battuta (sono scomparse le due navate prin-cipali, lunghe 150 metri).Ci sono importanti eccezioni come le OGR e il nuovo parco della ex Teksid –Vitali, un parco in parte coperto dal tetto conservato della fabbrica. Altri ambienti urbani sono bisognosi di trasformazioni, prendiamo le strade dove siamo ogni giorno, sono asfaltate e per la maggior parte ricoperte di auto, in sosta e in movimento. Si può immaginare di utilizza-re le strade diversamente. Un primo passo potrebbe essere quello di realizzare una pi-sta ciclabile protetta in ogni strada e di tra-sformarne una ogni cinque in viale alberato, senza auto in sosta, con accesso veicolare solo per i residenti. Naturalmente bisogne-rebbe far sparire un po’ di automobili o re-legarle ai margini della città, utilizzandole solo all’esterno, per arrivare al giorno in cui all’interno dell’abitato ci si muoverà solo con biciclette e mezzi pubblici ecologici (come ipotizzato da Marc Augé nel suo Elo-gio della bicicletta, 2008). Purtroppo aven-do costruito parcheggi sotto le piazze stori-che, abbiamo garantito al contrario a noi e alle generazioni future un perenne afflusso di auto in centro. Un giorno dovremo inven-tare un modo per riutilizzare quei parcheggi divenuti inutili, ma sarà un gran giorno. Nelle città occidentali sono in molti a con-dividere idee di rinnovamento sull’uso dello spazio pubblico e di fronte all’inerzia delle amministrazioni troppo impegnate ad uti-lizzare l’urbanistica per finanziare le esan-gui casse comunali, nascono movimenti di cittadini pronti ad intervenire direttamente

architettura e paesaggio

testo di maurizio zucca*

Ogni città coltiva i suoi giardini, chi vorrebbe vivere in una città di solo cemento? Un tempo si ovviava alla carenza di verde in città con le gite fuori porta, oggi si continua a farlo ma con viaggi sempre più lunghi, le zone urbanizzate si stanno diffondendo a macchia d’olio.

per riappropriarsi dello spazio pubblico. At-traverso internet si diffonde l’eco di azioni svolte direttamente da gruppi di cittadini, per dipingere le strisce di piste ciclabili da troppo tempo agognate, recuperare le fab-briche per usi collettivi, coltivare spazi ab-bandonati, mettere tavoli e sedie per strada per parlare e giocare, andare al lavoro in ca-noa, fare il bagno nei fiumi, piantare alberi, … (vedi www.attivismourbano.org).Un’attenzione collettiva rivolta alla pro-gettazione dell’ambiente in cui viviamo lo può senz’altro migliorare, facciamo ancora qualche esempio su Torino.Sul Sangone al confine con Nichelino si sviluppava una valle di orti, nati negli anni 50 poco lontano da Mirafiori, gli operai nel tempo libero coltivavano su terrazzamenti costruiti con ogni sorta di materiale recupe-rato. Altri orti erano disseminati sui fiumi, orti abusivi, sono stati demoliti. Quella valle di orti richiamava alla memoria un territorio agricolo antico, quello da cui provenivano molti operai della fabbrica. Le terrazze col-tivate seguivano organicamente le anse del fiume. I nuovi orti ortogonali comunali as-somigliano un po’ a dei lager e nulla hanno a che vedere con quel sapere antico.

Sugli argini della Dora negli ultimi anni è stato colato molto cemento armato, si po-teva evitare. Sulla Dora Riparia si può svi-luppare un parco continuo dalle porte della val Susa sino al Po, attraverso tutta l’area metropolitana. Pensiamo anche alle ricadu-te economiche e di lavoro che Torino può avere se cittadini e visitatori frequentano i grandi spazi lungo i fiumi, nei weekend e nel tempo libero. Le città più belle da vivere e più visitate hanno tutte investito e riflettu-to molto sulla qualità dell’ambiente urbano.

* Architetto torinese attivo a partire dagli anni 80. www.mauriziozucca.com

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‘c’è nella non determinatezza, nella ingenuità di questi spazi, tutta la carica del riprendersi il mondo che sempre più repressa e censurata è una delle radici della civiltà urbana’ (Franco La Cecla)

Nel 1942 il Museum of Modern Art di New York apriva le porte a Road to Victory, una processione di immagini

celebrative e manifesti propagandistici selezionati e ben confezionati da Edward Steichen e Herbert Bayer a sostegno dello sforzo bellico.Da un anno, al ritmo incessante degli annunci radiofonici, l’America era scesa a fianco dei suoi figli al fronte, la guerra si vinceva anche a tavola; ‘Food for freedom, vegetables for vitality’ dicevano radio e giornali, la nazione intera aveva intrapreso l’impresa dei Victory Gardens, gli orti comuni(tari) di cui già in molti si ricordavano e che avrebbero sostenuto l’economia fiaccata dalla spese di guerra. Un decennio prima, tra il ‘30 e il ‘39, anni di depressione nera, li avevano chiamati Relief Gardens, gli orti del sollievo; ‘fresh food, fresh air, exercise and education’ era il supercalifragilistichespiralitoso della propaganda che trasformò gli affamati coltivatori improvvisati in uomini sani e onesti. A ritroso, negli anni della prima guerra mondiale si chiamavano Liberty Gardens, nel 1894 Potato Patch Plans. Nomi diversi, vari gradi di edulcorazione, un’unica missione reale: tornare alla madre terra per sfamare la popolazione urbana nei momenti di crisi. Anche Eleonor Roosvelt - molto prima che Michelle Obama si sporcasse le mani in nome di diete più equilibrate e valori nutrizionali di sedani e fagiolini - aveva impiantato un victory garden nel giardino della Casa Bianca e non a caso,

proprio la terra, coltivata e generosa, era tra le icone di Road to victory - ‘the earth is alive, the land laughs, the people laugh and the fat on the land is here’ - e di molte altre campagne politiche, autarchiche o meno, in tempo di guerra. Lo stesso accadeva in Italia, ad esempio, dove negli anni ‘40 la battaglia del grano invase le città, colonizzò giardini pubblici e terreni privati. Da noi si chiamavano ‘orti di guerra’, a Torino si trebbiava in Piazza Castello, si coltivavano patate nel parco del Valentino, si piantavano girasoli nelle aiuole. In Inghilterra si decise di lottizzare e coltivare anche Hyde Park. Superata la guerra, alle spalle l’emergenza alimentare, dopo un paio di decenni di eufo-rico consumo, la crisi energetica degli anni ’70 - canonizzata nel Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma nel ’72 - ebbe un impatto mondiale, reale, percepi-bile, quotidiano. Per la prima volta, l’idea fiduciosa del progresso illimitato si sfibrò in fila dal benzinaio, per la prima volta si iniziò a parlare di ecologia e lo si fece fuori dai circoli scientifici, allargandone la porta-ta e la riflessione in ambito sociale: la crisi ecologica rispecchiava una crisi globale di natura cognitiva - fondamentale a tal propo-sito il concetto di ecologia della mente de-scritto da Gregory Bateson e il testo di Felix Guattari, Les trois ecologies - una crisi di immaginazione alla quale solo nuove pra-tiche sociali responsabili avrebbero potuto offrire una soluzione. Erano d’altronde gli anni ’70, pratica sociale significava anche spontaneismo; negli Stati Uniti, l’inizio del decennio - sulla scia dell’attivismo politico degli anni ’60 - si aprì con una nuova sta-gione di partecipazione dal basso, con l’e-mergere di un diffuso desiderio di migliori condizioni di vivibilità urbana. Laddove la-titava indifferente il governo, si affermò una nuova agenda, civile, che parlava la lingua franca dell’ambientalismo, intergenerazio-nale e interclassista; a New York spuntava-no nuovi community gardens a ripopolare quei vacant lots invasi dalle macerie del crollo immobiliare; la grande disponibilità di spazi liberi, - interi isolati o lotti intersti-ziali - la crescita della popolazione e i nuovi

flussi migratori furono il terreno su cui si innestarono i primi tentativi di occupazione dei terreni abbandonati, delle pieghe e sma-gliature edilizie, i primi esperimenti guidati da quel pensiero selvaggio, come lo chiama Claude Levi Strauss, che adattava le regole della progettazione alla logica dell’accumu-lazione, della disponibilità dell’equipaggia-mento, del ‘può sempre servire’. Spontaneo il gesto, incontrollabile e in-definito il risultato. I giardini comunitari, sebbene in molti casi effimeri, divennero e sono ancora oggi un luogo di stratificazione identitaria e culturale, manifestazione di gu-sti, religioni e abitudini, estensioni della vita delle persone che se ne prendono cura, che li abitano, li coltivano. Che sia un groviglio di erbacee, un giardino dei semplici incasel-lato in vecchi cornicioni, che sia popolato di bizzarrie, santi, sirene e cigni di ceramica, coltivato a pomodori e peperoncini, calen-dule, pervinche e girasoli, ogni spazio ver-de, riconquistato al degrado e vissuto nuo-vamente è soprattutto un detonatore sociale, un presidio dell’economia del dono - laddo-ve lo scambio avviene in termini di tempo e socialità - una rete di legami. E’ interessan-te a tal proposito quanto racconta Michela Pasquali nel bel volume Giardini di Man-hattan. Storie di guerrilla gardens; storie appunto, plurali ed eterogenee così come eterocliti sono i giardini e gli orti comuni che punteggiano e hanno occupato negli ul-timi quaranta anni Loisaida, un’area a sud est di Manhattan oggi conosciuta come il garden district: Miracle Garden, El sol bril-lante, Earth People, Jardin de los Amigos, Casa Esperanza, La Plaza Cultural Garden - fondato nel 1976 da un gruppo di artisti tra cui anche Gordon Matta Clark - e molti altri giardini e orti spontanei, quasi domesti-ci, ingenuamente spettacolari fin dalle dalle origini, da quei peace corps-type from the post-flower power generation che nel 1973 lanciarono le prime seed-bombs in un’area abbandonata tra Bowery Street e Houston Street, un vacant lot che avrebbero poi oc-cupato e trasformato in un giardino che an-cora oggi esiste e che è stato intitolato a Liz Christy, artista e attivista verde, fondatrice

dell’associazione Green Guerrillas.

pimp my roundabout!

s tesso vocabolario e stesse pratiche di riappropriazione urbana sono ri-scontrabili oggi in quel movimento

internazionale chiamato Guerrilla Garde-ning, fondato nel 2004 dall’inglese Richard Reynolds, che dalle aiuole di Elephant e Castell e grazie a Youtube ha insegnato a migliaia di persone l’arte di costruire seed-bombs nelle proprie cucine, ha trasformato il tradizionale e barboso giardinaggio ingle-se in un’avventurosa attività notturna. Basta una rotatoria, una pala e qualche pianta per trasformarsi in gentili fuorilegge. Guerrilla Gardening dimostra quanto un’attività da boyscout - pulire i bordi delle strade, pren-dersi cura di una pianta di fagioli - possa es-sere super cool, come etica, estetica e epica in questo caso combacino; lo stesso accade quando i Badili Badola, un gruppo di guer-riglieri giardinieri di Torino, trasformano un angolo di parco dismesso in una foresta di abeti proprio affianco ai cancelli di un asilo, quando i quartieri adottano uno spartitraffi-co fiorito, quando la visione diventa azione.

‘anybody can be an urban farmer, you’re only limited by your imagination’ (David Tracey).

a ltrettanto significative sono oggi - e anche in Italia - le esperienze di agricoltura urbana. Un tempo

erano solo gli orti comunali, quelli dei pen-sionati, destinati per regolamento agli ultra sessantenni. Ora si chiamano orti biologici, orti comunitari, roof gardens, fattorie urba-ne; a gestirli sono spesso gruppi informali di persone o associazioni di quartiere, ambien-taliste, che trasformano zone desertiche e cuscinetti periferici in presidi urbani contro la speculazione edilizia - come accade alla Garbatella a Roma, dove un terreno prospi-cente la sede della Regione è stato riquali-

road to gardenstesto di ilaria GadeNz*

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ficato con orti collettivi - giardini segreti in rigogliosi impianti di autoproduzione e ri-cerca di specie autoctone - come accade agli orti delle Zitelle alla Giudecca, a Venezia - giardini di condomini, tetti e balconi in aree dove la filiera corta diventa realtà. A Roma li hanno censiti e mappati, la rete degli spa-zi condivisi si chiama Zappata Romana; nel 2009 a San Francisco, il gruppo di artisti e designers californiani Future Farmers han-no lanciato un progetto pilota - Victory Gar-dens - di riduzione della filiera produttiva, a Dietroit, dove il collasso dell’industria au-tomobilistica sembrava aver soffocato il so-gno americano, la rinascita passa attraverso la riconversione agricola di interi quartieri abbandonati. Che si tratti di orti sui tetti, orti di quartiere, interstizi e selciati occupati, giardini spon-tanei, che siano abitudini e pratiche codi-ficate, legiferate o meno, che non si cerchi - come Richar Reynold - o che si auspichi - come il canadese David Tracey - il soste-gno istituzionale, sono però tutti capitoli di un’unica storia che riconquista i margini, che parla di riemersioni e re-immaginazione civile e urbana, una battaglia combattuta nei fossati e che guadagnerà il campo aperto solo quando anche la dimensione urbana, quella più alienante, non li avrà adottati e non ci sarà più bisogno di nominarle perchè saranno pratiche diffuse, così come oggi lo sono nelle piccole economie di condominio.Nel 1973, via dalla voragine del terrori-smo, Gianfranco Baruchello trovò la sua avanguardia sociale occupando alcuni ettari di terreno destinati a speculazioni edilizie vicino Roma. Da quella impresa non solo ‘contadina’ ma anche politica, economica e artistica che prese il nome di Agricola Cornelia e che si concluse nel 1981, prese forma How to imagine: a narrative on art, agriculture and creativity, un manuale di istruzioni per il libero esercizio dell’imma-ginazione. Oggi, da leggere e rileggere.

* ILARIA GADENZ nel 2006 ha contribuito a fondare radiopapesse.org, che dopo cinque anni rimane il suo ‘primo’ lavoro. Collabora con musei e istituzioni nazionali e internazionali traducendo i contenuti dell’arte contemporanea in formati radiofonici.

orti urbani, dove trovarli:www.greenguerrilla.orgwww.lizchristygarden.orgwww.guerrillagardening.org/www.davidtracey.cahttp://badilibadola.ning.com/www.urbanarchitectureproject.orghttp://spiazziverdi.blogspot.com/www.urbanfarming.org/www.barbican.org.uk/radical_nature/homehttp://futurefarmers.com

sopra ed in basso: liz christy, tra le fondatrici di Green Guerrilla (foto di Donald loggins)

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sopra: orti urbani alla garbatella (Zappata romana/studiouAP) / in basso: badili badola (foto di sergio Grande)

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testo di claudio cravero*

Il contesto ecologico italiano, contrariamente alle attuali posizioni politiche nei confronti del nucleare e all’emblematico caso di Napoli, sta attraversando un momento di particolare sensibilizzazione. Al di là, però, di iniziative legate a buone pratiche di amministrazioni locali, l’attenzione ecologica è ben lontana dall’essere considerata responsabile.

e esempio nella creazione prolifica di aree ver-di nei centri urbani destinate a “prato fiorito” o al cosiddetto incolto (con il conseguente risparmio nella manutenzione del verde oriz-zontale); ha portato alla creazione di sezioni

di verde pensile dietro ai cartelloni pubblicitari stradali al fine di ridurre le emissioni di carbonio provocate dal traffico; ha segnato il trend dei giardini verticali di cui il francese Pa-trick Blanc è maestro; oppure i giardini clandestini che, se-condo lo slogan “Libera il giardiniere che è in te” del movi-mento americano Guerrilla Gardening, nascono con lo scopo di abbellire il mondo attraverso una sorta di riforestazione urbana. A questo filone appartiene l’attività del gruppo new-yorkese CAE (Critical Art Ensemble), che a Torino, durante Artissima18 nell’ambito di Zonarte e a cura delle Attività Educative del PAV, proporrà attraverso New Alliance Wor-kshop una serie di azioni nelle aree intorno alla Fiat Avio e nella circoscrizione IX: quattro giorni di pratica e riflessione militante sulle piante pioniere e in via di estinzione.La nuova visione ecologica urbana – che sull’onda del ge-nerale green thinking ha diffuso capillarmente l’idea dei community gardens, jardins partagés e orti urbani in una ten-denza per certi versi radical-chic – è però significativa nello sviluppo di alcune pratiche artistiche, poiché per molti artisti ripartire dalla terra vuol dire individuare le basi, semplici e

antiche, per una comprensione più profonda dei fenomeni naturali: un ritorno a ciò che è essenziale per una coscienza ecologica autentica.

Nel 2006 il cremonese Ettore Favini, nell’ambito della se-conda edizione del Premio Artegiovane, realizza nell’area di Cascina Falchera (Centro per l’Educazione all’Agricoltura di Torino) Verdecuratoda. Il titolo è già in sé tautologico rispetto alla cura, perché “prendersi cura di qualcosa” – come un giardino di specie da frutto autoctone del Piemonte – rappresenta il primo gesto d’amore verso l’Altro. Verde-curatoda è in ogni caso un progetto pensato per rotatorie, giardini rionali e inutilizzati, spazi per i quali la riqualifi-cazione consiste nella semplice messa a dimora di piante secondo principi d’indipendenza e autosostenibilità. Nella cornice del PAV, il Parco Arte Vivente di Torino ideato da Piero Gilardi, nel 2009 prendono invece forma due diverse tipologie di orto. Nell’ambito del progetto Village Green, da una suggestione di Nicolas Bourriaud, si è palesata la vo-lontà di creare una sorta di République verte per gli artisti, dove il francese Michel Blazy e la coppia torinese Andrea Caretto e Raffaella Spagna hanno esplorato le particolarità e le caratteristiche del suolo. Blazy ha costruito una sorta di “cimitero” di abeti dismessi dal Natale che, senza radici e spogli, sono diventati i tutori per la crescita di piante di po-modoro. Piantate nel mese di marzo con un’azione collettiva di workshop (Le Jour de Yule), i frutti si sono arrampicati lungo gli alberi nudi decorandoli nei mesi estivi. Ad agosto (il titolo dell’intervento era infatti Noël en août), una ceri-monia collettiva, o meglio una “bruschettata”, ha chiuso il progetto riflettendo sulla rigenerazione della natura e i suoi cicli vitali, anche lontani dal Natale consumistico. Caretto e Spagna hanno invece realizzato Pedogenesis (dal greco = origine e formazione del suolo), un progetto che consiste in un lembo di terra ricavato dalla sezione di una serra agricola rovesciata e destinato a coltivazione orticola. In una dimen-sione a metà tra pubblico e privato, l’orto è stato assegnato attraverso un bando a un gruppo di cittadini che attualmente lo ha in gestione. Accanto all’Orto-Arca, è il Trasmutato-re di Sostanza Organica, un contenitore per la raccolta dei rifiuti organici che, settimanalmente, un gruppo di abitanti del quartiere consegna ritirando in cambio un sacchetto di cereali e legumi; materiale organico che ritornerà alla terra.Un’ecologia della mente – per citare la teoria di Félix Guat-

tari – è infine l’intervento del 2010 del teorico-paesaggista francese Gilles Clément. Jardin Mandala, un giardino di cir-ca 500 m2 sul tetto verde del PAV, trae origine dalle forma circolare dei mandala buddisti e induisti; solamente al posto della sabbia e dei pigmenti colorati – lasciati alla trasforma-zione casuale operata dal vento – Clément ha disegnato il giardino attraverso la messa a dimora di piante succulente (Sedum, Euphorbia, Stipa e Crocosmia). Si tratta di specie che resistono normalmente ai climi secchi e che, riflettendo su uno dei problemi globali come la scarsità delle risorse idriche, rappresentano la sintesi della perfezione e imper-manenza della bellezza della natura secondo il principio di Jardin en mouvement.In relazione ai diversi esempi citati, è però forse opportuna un’ultima riflessione, storicamente cara alla filosofia e poi all’antropologia, sulla dicotomia Natura e Cultura, dualismo tradotto e interpretato dagli artisti attraverso le forme dell’or-to e del giardino. Quando si affronta il rapporto tra natura e cultura, in generale si presuppone più o meno esplicitamente uno schema antitetico, due poli opposti tra i quali stabilire un’esclusione o anche un rapporto. In realtà, alle radici del-la nostra cultura vi è proprio la figura originaria dell’orto di Eden a presentare le due entità inscindibilmente unite ab origine. La figura dell’orto, che compare all’inizio del Libro della Genesi nella Bibbia, riporta all’immagine tipica del “paradiso”, ma è un giardino coltivato fin dall’origine e in un duplice senso: esso è seminato da Dio per essere coltivato dall’uomo (“Il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”; Ge-nesi 2,15). Cosa può però significare l’espressione ‘coltivar-lo e custodirlo’ se non che, oltre al cielo, dunque all’acqua, sia anche necessario l’uomo coltivatore, ossia l’uomo della cultura? Ecco allora gli artisti che, lontani dall’etichetta eco, ma solo attraverso i loro interventi, costituiscono la continu-ità per l’uomo tra coltura della natura ambientale e cultura della propria natura. Interiore.

* CLAUDIO CLAUDIO CRAVERO (1977, Torino)Curatore PAV - Parco Arte Vivente, Centro sperimentale d’arte contemporanea di Torino. La sua ricerca curatoriale indaga le problematiche proprie dell’arte del vivente e legate all’evoluzione dell’arte ambientale. Collabora con magazine e riviste di settore.

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dall’alto in senso orario: carretto e spagna, ortoarca / Panoramica paV Parco Arte Vivente

andrea caretto (Torino, 1970) e raffaella spagna (rivoli, 1967), indagano la comp-lessa rete di relazioni esistenti tra le cose: le modalità di percezione dell’ambiente, i cicli di trasformazione della materia e la morfogenesi, la relazione selvatico/coltivato e il processo di domesticazione, le trasformazioni del paesaggio... essi concepiscono l’arte come una forma di ricerca, un modo libero di investigare le dimensioni multiple della realtà: caratteri formali e qualitativi della materia, ma anche as-petti fisici quantitativi, questioni filosofiche e sociali, sviluppando processi che evolvono nel lungo periodo. Che siano installazioni, azioni collettive, perfomance o sculture, i loro lavori sono sempre il risultato di un “processo relazionale”, nel senso che emergono dal-la complessa rete di relazioni che gli autori stabiliscono con differenti elementi (organici, inorganici, viventi, ecc.) dell’ambiente in cui operano. Caretto e spagna collaborano stabilmente dal 2002 esponendo in istituzioni pubbliche e private in italia e all’estero; tra le istituzioni con cui hanno recentemente lavorato : CAP, Centre d’Art Plastique, saint-Fons, Francia (2011); Mudam luxembourg, Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean (2010); PAV - Parco d’Arte Vivente, Torino (2009-2011); strozzina, Centro di Cultura Contemporanea, Firenze (2009); CAirn - Centre d’Art informel de recherche sur la nature, Digne-les-Bains, Francia (2008); MArT, rovereto (2008); rurart Centre d’Art, rouillé (Francia). www.esculenta.org

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collezione arte sera

incolla qui la cartolina che hai trovato in allegato a questo numero di Artesera

70077007, una serie di cellule che nascono, germinano, si riproducono, si muovono. Vivono e muoiono, tutte uguali ma tutte diverse. Vanno in giro e creano struttura, corpi volumetrici dove scompaiono nel loro essere microscopiche, invisibili a occhio nudo.Pierluigi Pusole scende nella composizione cellure, reale e ideale, di ogni cosa, vivente e no. Anche i pensieri sono addensamenti di cellule, che crescono, esplodono, si scaldano e raffreddano. Producono energia. Sono propulsive alla vita. Ma scompaiono anche, decadono.Così la pittura, l’arte, l’ideazione artistica rivelano la stessa costituzione.Pusole ne libera un flusso ininterrotto, una riproduzione cellulare che vola nell’aria, attraversa le cose e i corpi, si staglia sull’orizzonte. Una pittura che crea un corto circuito tra sguardo al microscopio e messa a fuoco normale della retina,tra micro e macro, uno spiazzamento visivo dove milioni di cellule si distendono e corrono su settemila fogli di carta, come una visione lisergica che diventa ossessione, miraggio.7007 è un’ipnosi che trasmette la fisicità del fare arte, come processo fondamentale della pittura, del rapporto tra il pictor e l’opera. “Io sono Dio” dichiara da anni Pierluigi Pusole, riflettendo sulla dimensione creativa relativa all’artista artefi-ce del proprio mondo concettuale e figurativo. Un fare performatico in questo progetto, che diventa sacrificio, inclusione nel corpo della pittura stessa, sprofondamento nella carne del colore e della carta.Ore di lavoro, litri di colore, metri quadri di carta, fatica di muscoli cerebrali, cardiaci e ottici che producono cellule come bolle magiche da un barattolo di acqua saponata, che è poi il brodo primigenio da cui arriva “la pittura” di Pusole.Per Pusole è un gesto che ribadisce il necessario rapporto fisico e personale tra artista e opera. Un’operazione “etica” che si offre come un regalo, sia nell’oggetto opera donato sia nella generosità verso un pubblico sconosciuto ma già prescelto da lui, proprio per la sua condizione di anonimato. Un dono disinteressato, che l’artista mette in conto possa essere perso, buttato, distrutto, non compreso o non amato.L’azione di Pusole è anche rivolta verso il futuro, perché la sua unica immensa opera, frammentata in oltre settemila parti disperse, come semi per il mondo, si riassemblerà in una mostra in autunno, dove ognuno arriverà e attaccherà la sua cellula su un muro comune. Superficie e perimentro saranno una scoperta, sono un’ipotesi aperta, una dichiarazione di vita in fieri del lavoro. Acca-drà come in un corpo, in cui alcune cellule sopravvivono altre muoiono.

di olGa Gambari

experiments (logotipo) © Pierluigi Pusole

Pierluigi Pusole (logotipo) © Pierluigi Pusole

estrai il foglio successivo ed affiancalo alla pagina 14. Poi incolla nello spazio bianco a pagina 17 la cartolina-cellula che hai trovato in questo numero di Artesera per visualizzare l’opera completa!sponsorizzato da: rima Belle Arti

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incolla qui la cartolina-cellula che hai trovato in allegato a questo numero di Artesera

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l a tua ricerca artistica ha avuto una svolta verde con il progetto di Blowing in the wind del 2009, un’attenzione ai cicli naturali

che diventano cicli umani, uomo come un elemento della Natura che deve porsi in armonia, non in contrasto, con l’ambiente. Al centro, anche nei lavori seguenti, hai posto l’idea della cura, del prendersi cura come educazione al rispetto e alla responsi-bilità per un etica ecologica.

In realtà il primo lavoro con uno sguardo “verde” è stato la video-installazione Water del 2008, selezionato per EcoArt Book 2011, progetto editoriale della piattaforma EcoArt Project che intende documentare il movimen-to artistico della green art.Water riflette sull’apporto vitale dell’acqua ed è ispirata al sito idrografico del torrente Meduna, il cui corso fu deviato e incanalato, negli anni ’40, in una diga per fornire energia a un’importante fabbrica tessile. Oggi questa centrale idroelettrica rappresenta uno dei maggiori impianti EDISON; solo nei periodi di piena, in cui l’industria non è in grado di immagazzinare l’eccesso, l’acqua si riversa nel suo alveo originario. Il massiccio inter-vento antropico ha modificato la geografia territoriale e, conseguentemente, la fauna e la flora locali.Il video, realizzato con il montaggio di una sequenza di circa 200 autoscatti, mi riprende nell’atto performativo di riportare l’acqua al fiume tramite un secchio di plastica bianco, correndo e danzando lungo l’alveo. L’aspetto rituale è amplificato dal sonoro di 2 voci elettroniche sovrapposte, le quali, da vari dizionari d’inglese, recitano etimologia, defi-nizioni, modi di dire e proverbi del termine acqua fino a ricreare simbolicamente l’eco del flusso inarrestabile del fiume. Una terza voce ripete, contemporaneamente, 125 parole com-poste dal vocabolo “water”.

Subito dopo è nata l’idea di dare forma a una “statistica del desiderio” attraverso una serie di scatti fotografici blowin’ in the wind dove ho chiesto alle persone di esprimere un desiderio soffiando un tarassaco (soffione) per aiutarmi a definire la percentuale di realizzazione del desiderio. In questo tentativo ludico di dare una forma di equazione matematica ai sogni

intervista di olGa Gambari a maria bruNi*

sono giunta al concetto della cura ed è nata la coltivazione del tarassaco (pianta spontanea) in una serra di alluminio, tulle bianco... ac-compagnati dalla musica di un carillon (Duo des fleurs, dalla Lakmé di Léo Delibes) i taras-saci sono stati monitorati fotograficamente da giugno a dicembre garantendone la crescita e lo sviluppo. Penso che l’apprendimento della cura nei confronti degli elementi naturali sia lo strumento per imparare a trasmettere la stessa dedizione alle migliaia di situazioni quotidiane. Il rispetto e la ricerca di armonia con l’ambiente sono il ponte da percorrere per raggiungere una civiltà evoluta e migliore...

Do not disturb è un altro progetto in pro-gress, che coinvolge ogni volta un’istituzione pubblica in un ruolo di responsabilità per-petrata nel tempo?

Do not disturb è un rito magico contempo-raneo per propiziarsi l’amore della natura. L’intervento è stato proposto, fino ad ora, a Torino in San Pietro in Vincoli e a Glasgow presso il Trongate 103, un centro polifunzi-onale comunale scozzese. Due giovani alberi (un Cipresso a Torino e un Cherry Tree a Glasgow) sono stati temporaneamente collo-cati negli spazi espositivi in attesa di un tra-pianto definitivo all’interno di un contesto ur-bano pubblico nel quale proseguiranno la loro crescita grazie alle cure e all’attenzione dei cit-tadini. Gli alberi sono circondati e protetti da un’aiuola circolare in cemento che riporta, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, la dicitura Do Not Disturb e cresceranno accom-pagnati, di quando in quando, dalla canzone Once Upon A Dream dalla Sleeping Beauty (La bella addormentata nel bosco) di Walt Disney del 1959. A Torino l’albero si trova nell’Ufficio per l’occupazione della provincia e a Glasgow è stato richiesto il permesso di trapianto presso una grande aiuola all’incrocio di 3 strade vicino al Winter Garden.Sopratutto a Glasgow dove il verde è concen-trato nei parchi principali e non sparso qua e là in mezzo al cemento (Torino sotto questo as-petto è una città fortunata) è stato emozionante osservare le persone meravigliate nel guardare un piccolo albero fiorito in una stagione ancora fredda... Alcuni si fermavano a pensare anche per 10 minuti... perché un giovane albero può far riflettere molto... la fragilità e l’incredibile

crescita che si può osservare... Il cherry tree è arrivato che era poco più di un ramo secco con delle piccole gemme e nel giro di 2 giorni ha gettato fuori le foglie e dei delicatissimi fiori rosa chiaro... un’esplosione in quelle giornate ancora fredde.Certo ci sono anche delle difficoltà... è molto complicato organizzare la cura con le istituzi-oni che nonostante la buona volontà devo passare attraverso la burocratizzazione di ogni processo. Io sono diventata un po’ un in-cubo per i curatori di Glasgow perché scrivo sempre per sapere le condizioni dell’albero e chiedo di inviarmi fotografie che ne attestino il buono stato di salute... è un esperimento e come tale va perfezionato! AAA Cercasi is-tituzioni amanti della natura disponibili ad eseguire trapianti d’alberi in zone di pubblico utilizzo!

Il tuo ultimo progetto “Nature box”è an-cora in fase di sviluppo, di cosa si tratta?

Giustamente dici ancora in fase di sviluppo per cui difficile parlarne, ma si tratta di creare un principio di archivio delle riserve naturali protette dalla presenza antropomorfa.. Sono delle specie di “scatole nere” che contengono la memoria fotografica di luoghi incontami-nati . Queste immagini sono protette da una barriera di Scacciaspiriti (wind chimes è il nome tecnico dello strumento musicale) che ne ostacolano la vista. Il visitatore può oltre-passare questa barriera, ma nel momento in cui supera il limite lo scacciaspiriti mosso dal passaggio produce un suono di metallo urtato e l’immagine o l’ambiente si modificano... succede qualcosa di inaspettato... questo per-ché penso che nel momento stesso in cui la presenza umana entra nella natura non può fare a meno di modificarne in qualche modo l’equilibrio... spesso con risultati devastanti... l’indicazione geografica dei luoghi è rivelata dalle coordinate longitudine e latitudine dalle quali sono state fotografate...

Il discorso ecologico viene spesso strumen-talizzato nell’arte come in altri ambiti.

Sì, effettivamente viviamo il momento del green glamour... l’altra sera ho fatto zapping tv, cosa che peraltro odio ma è inevitabile fare, e in molti canali si accennava a qualcosa di

ecocompatibile piuttosto che biologico o natu-rale.Il trend ecologico imperversa nei media. Io non mi posso definire un’ecologista o un’ambientalista come dir si voglia: non ho gli strumenti e la conoscenza adeguata, perché la scienza ambientale è molto complessa ed è complicato arrivare ad un comportamento etico corretto in materia di ambiente. Cerco di fare le cose seguendo il mio buonsenso ed alle volte resto perplessa anche un po’ più del dovuto di fronte alla scelta di smaltimento di alcuni rifiuti; alcuni materiali utilizzati nel packaging non sono facilmente codificabili.

Poi però passeggio per la città e vedo grosse attività che, nella migliore delle ipotesi, non si preoccupano di separare la plastica dal vetro... oppure vedo, nello scaffale dei surgelati di un supermercato, minestroni biologici in confezi-oni di plastica da cuocere nel microonde.Poi leggo che su 11 vernici naturali ad acqua solo 4 hanno superato parzialmente e 1 inte-gralmente il test di requisiti indispensabili per essere considerate ecologiche (vedi uno stral-cio dell’articolo http://www.aamterranuova.it/article3949.htm)Leggo che le lampadine a basso risparmio energetico considerate un toccasana per l’ambiente pare che in realtà, oltre a essere di difficile smaltimento, aumentino di 5 volte le possibilità di contrarre il cancro e provochino inoltre ulteriori gravi danni alla salute sopra-tutto per le persone affette da patologie quali il Lupus e la porfiria.(http://www.ilconsapevole.it/articolo.php?id=8892)

Del resto se guardiamo quello che accade a Fukushima questo è nulla e tutto è relativo ai luoghi del mondo in cui viviamo... nel 2001 mi trovavo sulla terrazza della biblioteca pub-blica di Banjaluka in Bosnia con il mio amico Roberto e subito ci rendiamo conto di essere circondati da pannelli di amianto. Sconvolti diciamo ad alcuni studenti serbocroati li pre-senti: “ma siete matti, fate qualcosa perché questo materiale uccide!!!” Ci rispondono con una grossa risata collettiva “...l’amianto non fa nulla; è la guerra che uccide!!!”

* MARIA BRUNI, artista che vive e lavora a Torino. www.mariabruni.com

Water, 2008, multimedia: monitor, plotter, ghiaia di fiume, 4 altoparlanti, plotter: cm 300 x 500 - profondità installazione: dimensioni variabili – durata video HD: 14’27’’ in loop

blowin’ in the wind, 2009, fotografie a colori, cm 50 x 70 / greenhouse, 2009, fotografia a colori, 34 x 34 cm

Do not disturb, 2010/2011 Torino - Glasgow

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Water, 2008, multimedia: monitor, plotter, ghiaia di fiume, 4 altoparlanti, plotter: cm 300 x 500 - profondità installazione: dimensioni variabili – durata video HD: 14’27’’ in loop

blowin’ in the wind, 2009, fotografie a colori, cm 50 x 70 / greenhouse, 2009, fotografia a colori, 34 x 34 cm

Do not disturb, 2010/2011 Torino - Glasgow

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sent’è d’Art è un parco d’arte permanente fatto con i materiali del bosco. si trova sulle colline dell’alta langa, nei sentieri che partono da bossolasco e scendono lungo la

valle del belbo. vi partecipano artisti internazionali e la comunità locale.senté d’Art é un’associazione di persone unite da un co-mune interesse, che é quello di preservare e far valere l’inestimabile “capitale culturale” locale, fatto di natura, ma per coincidenze astrali anche di vita, di storia, d’arte e di letteratura. vogliamo usare questi “capitali”, originari e giá costituiti, come ipotesi per un nuovo modello di sviluppo sociale e ambientale. un modello culturale che usa l’arte e la na-tura per creare un legame tra il paese (la sua memoria, le sue tradizioni, la sua vita, le sue casualitá) e i giorni

sent’è d’arttesto di FiliPPo Fossati*

che viviamo, l’oggi. in occasione delle passate edizioni, abbiamo giá verificato un ritorno d’immagine ed econo-mico per bossolasco, e siamo convinti che un lavoro di gruppo che includa l’arte e la natura con il paese e la sua comunitá, possano produrre nuove attivitá ed esplorare opportunitá diverse per il futuro del paese. Pensiamo al parco come ad un progetto che ne comprende un’altro, piú ampio; un possibile modello di sviluppo che possa provocare, in sostanza, un ritorno per la comunitá sia cul-turale che turistico ed economico.e’ un’idea semplice. ispirata dalla percezione del luogo bossolasco che amiamo intimamente, e dal desiderio di valorizzare in maniera concreta il patrimonio incalcolabi-le che ci riguarda direttamente, che ci appartiene piú di quel che pensiamo. Parliamo della natura e di ciascuno di noi, con il proprio passato, la propria esistenza, la propria

occupazione, nei luoghi in cui viviamo, da cui veniamo.

abbiamo l’idea che l’arte possa originare un luogo e un tempo in cui l’essere umano ritorna ad essere umano, il mammifero che siamo, con le sue naturali esigenze e i suoi tempi fisiologici, con la sua transitorietá.i lavori che gli artisti vanno seminando nel bosco sono la scintilla. l’attimo di smarrimento, il momento in cui ci si rende conto di essere soli nel silenzio del sentiero. si coglie solo il respiro della foresta e un barbaglio d’arte tra gli alberi, che ci fa smaniare.

* FiliPPo Fossati (Torino 1965) mercante d’arte ba-sato a New York. Fondatore e direttore di gallerie d’arte, di testate e di un parco permanente di sculture all’aperto. www.sentedart.com

in alto: richard nonas, Accord, 2008 / sotto a sinistra: Marco gastini, 2008 / a destra: nicus luca, Arbre Magique, 2010

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la notizia è che il MADRE di Napoli sia ripartito, da un giardino. Il giardino in questione è un progetto degli artisti francesi Anne e Patrick Poirier. Si tratta del Giardino della memoria, un luogo che racconta

il presente trattenendo il passato, come radice, origine, per-corso. Un’opera che può sembrare funerea e cupa, ma che in realtà pone la vita e la morte come elementi naturali di un divenire sereno e composto. Attraverso disegni, rendering e plastici gli artisti presentano la struttura del futuro cimitero della città di Gorgonzola inteso come “necropoli contemporanea”, come opera d’arte. L’opera è una sintesi delle ricerche dei Poirier che da quasi mezzo secolo riflettono sull’idea della memoria usando calchi, erbari, fotografie, installazioni architettoniche di utopiche città o di siti archeologici visitati durante i viaggi. È anche un modo per analizzare la fragilità della cultura e dell’arte minacciate dal trascorrere del tempo e dalla storia. Il cimitero sarà un giardino, un nuovo Eden la cui planimetria avrà la forma di foglia di quercia, pianta che simboleggia forza ed eternità: le sue radici, il tronco e i rami rappresentano rispettivamente il mondo sotterraneo, il mondo terreno e il mondo ultraterreno. L’idea di rinascita passa nell’arte attraverso la Natura di un piccolo orto cimiteriale.

anne et patrick poirier - senza titolo

(progetto per il nuovo cimitero di Gorgonzola)

2009/2010, stampa digitale e tecnica mista su carta

il giardino della memoria

testo di redazioNe

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alla domanda esistono due gocce d’acqua o due foglie uguali nell’universo come possiamo rispondere? Ogni volta che estendiamo il campo della nostra esperienza, i limiti della nostra mente razionale diventano evidenti e siamo costretti a modificare, o persino ad abbandonare, alcuni dei nostri concetti.E osserviamo le due gocce o foglie al microscopio, continueremo a sostenere l’impossibilità della loro uguaglianza. Cosa accade quando ci spingiamo oltre, e gli osserviamo a livello atomico scorgendo gli elettroni che danzano intorno al nucleo. Oggetti identici.Spinoza, filosofo preferito da Einstein, divide il concetto semplice di na-tura in due aspetti: la natura visibile (natura naturata) e quella nascosta (natura naturans). “Le idee delle affezioni del corpo umano, in quanto legate solo alla mente umana, non sono chiare e distinte, ma confuse”. Essendo noi solo una parte del divino la nostra visione è limitata e con-fusa, le nostre visioni sono limitate alla sfera della natura percepibile, la “naura naturata”, quindi la nostra conoscenza è semplicemente probabile, non certa. Questo ricorda il livello esterno probabilistico del mondo nella natura dei quanti.La Natura o Dio, è perfettamente determinato al livello di “natura natu-rante” e a quel livello deve dunque vigere il più rigoroso determinismo. Questo è il livello della meccanica quantistica, quello delle ampiezze e delle equazioni matematiche che le determinano con esattezza.Secondo Spinoza deve esistere un a perfetta coerenza nelle profondità della “natura naturante”, anche se ci è oscurata dalla nostra percezione parziale della “natura naturata”.“Tutta la natura è un unico individuo le cui parti, ossia i corpi, variano in infinite maniere, senza in alcun modo modificare il tutto”Einstein scrisse a proposito del pensiero di Spinoza “sopportiamo spa-valdamente molte sofferenze, ma il Dio precario di Spinoza ci ha reso il compito più difficile di quanto sospettassero i nostri padri”“Viviamo su linee rette, ma in realtà ogni uomo è un labirinto”L’interconnessione tra valori oggettivi e personali non funziona più, di conseguenza la ricerca del puramente oggettivo assume connotazioni il-lusorie.Noi cerchiamo il cielo in una goccia d’acqua.L’uomo può “raggiungere la grandezza solo superando la propria picco-lezza”.

* artista che vive a lavora a Torino. www.sciaraffa.net

alessandro sciaraffa, natura naturalmente snaturando, 2010

identica naturatesto di alessaNdro sciaraFFa*

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A Venezia in questi giorni sono spuntati giar-dini di ogni tipo. La città è invasa da oasi di vegetazione artistica, piante autoctone e flora esotica da ogni dove. Ci sono giardini fatti d’acqua, di foreste in una stanza, di lastre me-talliche erose da alchemiche soluzioni saline, di impalcature di tubi, di stanze nascoste. Una costellazione vegetale che si sovrappone alla città, che sino a fine novembre darà vita alla mappa della 54°edizione della Biennale, ap-pena inauguratasi. I Giardini della Biennale, il cuore storico della manifestazione nata nel 1895, sono un luogo di pace dove visitare i vari padiglioni nazionali, quelli originali, che disegnavano una geografia culturale figlia del panorama politico-economico di oltre un se-colo fa. Un altro tempo, i cui piloni erano le nazioni europee secolari, mentre risultavano estranei i paesi del secondo e terzo mondo, che ora sono esplosi, incontenibili ai Giardi-ni per motivi di spazio e quindi ospiti, in ogni edizione della Biennale, in palazzi veneziani affittati per l’occasione. Al centro il Padiglio-ne Internazionale, l’ex Padiglione Italia di-smesso da Szemann, accoglie la mostra curata da Bice Curiger, signora zurighese dall’alto profilo professionale e umano: è un incedere morbido, sviluppato sull’idea della luce, come dice il titolo stesso della Biennale “Illumina-tions”-, elemento che dovrebbe legare le opere in mostra. Il risultato corre il rischio di essere un flusso un po’ incolore e insapore, un ele-gante beige che riserva, però, molte piccole macchie dal colore vitale, aiuole bellissime. All’ingresso l’ambiente “Spazio elastico” di Gianni Colombo –lavoro storico del 1967, in cui fili di luce si muovono ripartendo la stan-za- e un video con una figura rossa che salta di Jack Goldstein creano una suggestione di ri-mandi luminosi splendida, che ti butta dentro come un raggio. Poi enormi tele di Tintoretto diventano frame di film contemporanei: Curi-ger l’ha voluto perché era un outsider, usava la luce come se la pennellasse ed è ancora ca-pace di parlare a un pubblico contemporaneo, che di storia dell’arte può anche non saperne nulla. È qui iniziano i sospiri, un confronto tra antico e contemporaneo, che spesso mette in imbarazzo. Con Tintoretto dialoga Bruno Ja-kob, che dipinge con l’acqua piccole porzioni di carta: nello specifico un cartoncino che pen-de dall’alto e un foglio A4 a parete. Il parallelo è tra il troppo tintorettiano e il nulla. Seguono molte altre installazioni e stanze. Le grandi sculture in argilla di Fischli e Weiss, in cui la materia è vitale e sembra ancora allo stato grezzo, umida, pronta a qualsiasi possibilità. Le opere di Sigmar Polke che giocano sulla visione attraverso vetri smerigliati, l’ironico e

i giardini di veneziatesto di olGa Gambari

colto wall paper di Cindy Sherman, che con autoironia racconta la società attraverso se stessa, camuffata in enormi ritratti-travestiti.

Lo spazio a stella di Monika Sosnowska di-venta un vero para-padiglione con prospettive e finitudini che si aprono inaspettate. Attorno al padiglione centrale tanti altri giardini pen-sili. La Francia con Boltanski che ibrida l’i-nizio e la fine, le nascite e le morti come una fabbrica della vita, una rumorosa catena di montaggio. Mike Nelson per l’Inghilterra crea una casa nascosta e abbandonata, una teoria di stanze costruite dentro al padiglione, che evo-cano l’Oriente, fino a un cortiletto direttamen-te nel cuore di Istanbul. L’austriaco Markus Schinwald inventa un labirinto sospeso da terra, dove sono sparsi ritratti enigmatici, volti dal sapore seicentesco che emergono da fondi neri, sempre connotati con un elemento disso-nante, con cui smonta la rigida impostazione del dipinto. La coppia Allora&Calzadilla - per la prima volta gli USA sono rappresentati da una coppia legata a Cuba e Portorico- mette in piedi un insieme di installazioni c on fare pop-politico, come un carroarmato girato al contrario davanti all’ingresso, che aziona il cingolato grazie a un tapis roulant su cui corre un atleta. E poi un bancomat funzionante che suona a ogni passaggio di denaro, una sorel-la della statua della libertà che fa la lampada, ma è già nera. Poi la superficie d’acqua pura e totale del greco Diohandi, l’ambiente della giapponese Tabaimo che mescola sopra e sot-to, come dimensioni slittanti una nell’altra, in cui la Natura si scambia, tra cielo e mare, gior-no e notte, e la città dell’uomo è qualcosa che fa parte del suo ciclo terribile e meraviglioso. All’Arsenale, l’altro fulcro della Biennale, at-

tendono molti padiglioni nazionali e il lungo serpente con cui prosegue la mostra interna-zionale di Bice Curiger. L’ingresso anche qui è splendido: ad accogliere la casa centenaria dei genitori del cinese Song Dong, un cerchio abitativo stratificato di tracce del tempo, di uomini passati. Come lo sono i taccuini della nonna analfabeta dell’artista marocchina Yto Barrada, che per distinguere i numeri di tele-fono dei numerosi figli, li appunta con disegni con cui racconta anche la vita di ciascuno. Intanto continuano a incombere e curiosare verso il basso centinaia di piccioni, messi da Maurizio Cattelan come infestazione ironica della biennale, ripetendo un suo exploit di un po’ di anni fa, che poteva già bastare. Siamo stufi di essere sempre stupiti: la notizia è es-sere commossi dalla poesia. Siamo stufi di es-sere frastornati, imbarazzati, delusi. Vorrem-mo essere aiutati a vivere meglio dall’“arte”, riceverne strumenti esistenziali di supporto. Invece si arriva al Padiglione Italia, curato da Vittorio Sgarbi, che si dimostra bulimico e sa-dico nei confronti dei duecento intellettuali e altrettanti artisti invitati a raccontare un’Italia che, per fortuna, esiste solo nei nostri incubi. È stata messa in piedi una grande fiera di paese che mescola di tutto sulle bancarelle, accata-stando, riempiendo il vuoto intellettuale e spi-rituale di un modo di far cultura che speriamo stia arrivando al termine. È l’Italietta trash e arrogante, superficiale e appariscente in cui ogni cosa è lecita, con il menù esposto che promette “cibo a volontà finchè ce ne sta”; tutti dentro, per dimostrare che l’arte è di tutti, contro un sistema elitario e fuffoso, dominato dalle lobby, al centro di interessi economici, il cui l’artista è un’operazione. Il che è asso-lutamente vero, in parte. Ma questa è la rispo-

sta, l’unica alternativa, in nome di una falsa apertura nazional-popolare che sbraca e fini-sce per dar ragione, di fatto, “all’avversario”? Aggirandosi tra opere stipate fino al soffitto, appiccicate, appoggiate, senza alcun tipo di criterio e progetto né crititico né espositivo, viene rabbia e tenerezza. La prima per tutti i nomi “potenti” che non hanno voluto dire di no, sia i segnalatori sia gli artisti stessi, e se ne prendano la responsabilità piena perché il ri-sultato era chiaro sin dagli albori. La seconda per i tanti, bravi artisti che in qualche modo non hanno potuto rifiutarsi, fragili nella loro posizione instabile e insoddisfatta nel mondo dell’arte, anche se forse dovevano farlo. Ma perché viene sempre richiesto ai deboli il ge-sto, la forza e il rischio? Viene voglia di pren-dere le loro opere e portarsele via, in salvo, lontano da quel macello da cui manca solo una televendita e il karaoke sul palco. Molto rumore per nulla.Per incanto, infine, si sbocca in una serra bel-lissima, meno conosciuta ma sorprendente, che raccoglie i lavori di giovani artisti ancora studenti delle Accademie nazionali. L’Italia del futuro, dei giovani che riescono a mette-re in piedi uno spazio pieno di energia, buon gusto e sorprese. Fuori si rincorrono altre mostre, tra cui TRA a Palazzo Fortuny, che merita forse più della Biennale, una wunderkammer di meraviglie attraverso le soglie del tempo e dello spazio. Poi c’è il giardino segreto di Marisa Merz, con le sue apparizioni magiche e preziose nelle sale di Palazzo Querini Stampalia, e il giardino zen di Pier Paolo Calzolari a Ca’ Pe-saro, che dà ritmo e respiro alla vita con ricet-te alchemiche, metronomi e una carpa albina.

cindy sherman - untitled, 2011 uCourtesy of the artist and Metro Pictures)

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Per una serie di fortunate coincidenze, fra Scozia, Londra e Brescia, la primavera di quest’anno sembra avere riaperto la strada alle possibilità di avvicinamento e di conoscenza diretta, concreta nei confronti di una particolarissima figura d’artista che, fra i tardi anni Sessanta e la metà degli Ottanta, aveva raggiunto una qual certa, notevole fama creando un particolare percorso fra parola poetica e lavoro con la Natura.

N el cuore dell’articolata produzione di Ian Hamilton Finlay (28 ottobre 1925 - 27 marzo 2006) si trova una varietà di forme creative che si estendono dalla scrittura poetica (poesie e poemi) alle incisioni, libri d’artista, cartoline, inscrizioni, sculture (anche di neon), installazioni permanenti e interventi nel paesaggio, tutte dedicate comunque alla celebrazione della grande forza e possibilità della parola.Ian Hamilton Finlay non esordisce infatti come artista visivo, bensì come artigiano della parola - scrittore e poeta, raffinato specialista di un particolare ramo della poesia

contemporanea - ovvero dapprima la poesia concreta, e più avanti diventando lo scrittore di motti esemplari. Dopo i primi anni -dal 1962 al 1968- dedicati all’attività di poeta e anima-tore di una rivista di poesia indipendente (Poor. Old. Tired. Horse.), attraversa un forte interesse che lo porta ben presto dalla poesia in rima alla poesia concreta. Nel 1964 participa alla prima edizione dell’International Exhibition of Concrete and Kinetic Poetry, a Cambridge, e l’anno successivo all’importante mostra all’ICA Between Poetry and Painting. Nel 1966, trasferitosi con la famiglia a Stonypath (presso le Pentland Hills, nelle zone dei Southern uplands scozzesi), comincia a lavorare attorno a quello che diventerà il suo lavoro più famoso - il suo parco/giardino. Le graduali trasformazioni dell’area (e di parte dell’architettura lì preesistente) - fabbricati come il Garden Temple, ad esempio, sono all’origine delle vere e proprie battaglie legali (e non solo..) che Finlay inizia a condurre con il locale Region Council di Strathclyde che gli rifiuta ed oppone ogni collaborazione e permesso. La tensione montante e le occasioni di scontro portati avanti fino a coinvolgere lo Scottish Arts Council iniziano poi dal 1978 e diventeranno noti come la sua Little Spartan War (la “piccola guerra spartana”) - dal nome che egli aveva adottato reintitolando Stonypath quale Little Sparta - in evidente polemica contro Edimburgo (storicamente nota come l’Atene del Nord).La vera e propria “guerra” si protrasse per anni in una serie di schermaglie ed azioni che inclusero anche in diverse azioni e “battaglie” lo Scottish Art Council ed il gruppo di amici e sostenitori di Finlay poi noto come i Saint-Just Vigilantes. Molte di queste azioni e situazioni furono quindi testimoniate e trasformate in allusioni e temi di lavori artistici ripresi in buona parte nel lavoro scultoreo e stampato dello stesso Finlay.Il suo principale lavoro - se non l’opera stessa di una vita (come si potrebbe meglio definire) - resta dunque il giardino Little Sparta di Stonypath, complessa operazione a metà fra l’installazione e l’arte ambientale e la Land Art - rivista e reinterpretata in maniera assoltamente personale. Il parco-giardino, che nel tempo è arrivato ad ospitare circa 270 opere dell’artista, resta un esempio unico e straordinario di trasformazione di un’area desolata e quasi senza vegetazione che ha conosciuto una progressiva e continua opera di trasformazione, portandolo a diventare quello che é oggi considerato uno dei giardini più famosi della Gran Bretagna. Proprio in queste recenti settimane (il 29 di maggio), tale giardino è stato riaperto (per informazioni e dettagli aggiornati: www.littlesparta.co.uk).Nella propria carriera professionale, con l’estendersi degli inviti e delle possibilità espositive offerte da importanti occasioni internazionali (importante ricordare mostre come la docu-menta n.8 di Kassel del 1987), Finlay dedica e concentra i suoi temi preferiti in una continua riflessione fra le possibili relazioni fra Natura e Cultura, così come simbolicamente racchiuse nelle forme di giardini, parchi, installazioni ambientali e nella attività principale della cura e manutenzione dell’ordine e dell’armonia insita nell’idea di giardinaggio. Allo stesso tempo la Natura non viene presentata soltanto come idillica presenza ma anche per la sua forza e fin problematica bellezza, con rimandi a concezioni pre-Socratiche sulla natura del mondo – nonché con riferimenti costanti ad un’idea di Neo-classicismo ripreso, eppur reinventato, con tutta la sua imponente presenza estetica ed architettonica, nonchè con precisi e puntuali rimandi alla filosofia etica e politica legata al periodo storico coevo all’affermazione del Neo-classicismo (la Rivoluzione Francese e il Primo Impero) che definiscono un “modello di ordine” che spesso lega allusioni alle antiche divinità greco-romane a simboli guerreschi e di terrore, nonché a figure della guerra, degli eserciti e della navigazione per mare, originando un vasto e complesso scenario di Arte, Bellezza e senso del Sublime. A ben diciotto anni dalla prima mostra presso la galleria Minini, Finlay viene ricordato ed omaggiato a Brescia con un’importante mostra (organizzata in collaborazione con Wild Hawthorn Press - The Archive of Ian Hamilton Finlay) dove compare ogni preziosa componente del complesso insieme espressivo dell’artista – dalla poesia visiva al ricco insieme di citazioni/rimandi letterari e storici su inscrizioni su pietra e su legno, targhe di ceramica, lastre d’ardesia, gessi, nonché più ampie sculture-installazioni – mentre a Londra la celebre Victoria Miro (www.victoria-miro.com ) ha già aperto dai primi di maggio una raffinatissima esposizione – dal titolo Definitions – serie di reinterpretazioni del e sul significato delle parole in relazione alla presenza di opere scultoree, forma di lavoro che rivela tutta l’attenzione e la destrezza riservata negli anni da Finlay nell’esplorazione delle risonanze, ma anche della materialità della parola scritta.

* Critico e curatore d’arte contemporanea freelance, Francesco Bernardelli si è sempre interessato ai rapporti fra arti visive, time-based media e nuove musiche, scrivendo e organiz-zando rassegne di performance, video arte e immagini in movimento.

little spartatesto di FraNcesco berNardelli*

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Tutto è grigio. Di mattina presto, la visuale dal ponte è interamente coperta da una coltre di nebbia, fumo e umidità. Con il passare delle ore il paesaggio lentamente prende forma.

in una radura, fra cumuli di terra e boscaglia, sorge una vecchia torre, in parte distrutta. Qualche traliccio irrompe nella skyline, dove sullo sfondo si possono intravedere grattacieli lontani. Quando lo scenario si è svelato nella sua totalità, si delinea una piatta no man’s land; un fiume la divide e la attraversa, pulsando come una grande vena.

Il futuro del mondo passa da qui nasce da questa fotografia, scattata dal ponte Amedeo VIII nell’autunno del 2005, a pochi passi dall’imbocco della Torino-Milano. Sopra il ponte c’è il traffico, che porta dentro e fuori città. Sotto ci sono le acque dello Stura, l’affluente arriva a destinazione e conflusice nel grande fiume. Sopra sopra ci sono i gabbiani, gli aironi, e le invisibili rotte degli uccelli migratori.Su una delle due rive una torre diroccata ci trasporta in uno scenario post-apocalittico; ai suoi piedi i resti delle civiltà che si sono perdute qui. Affiorano ricordi, racconti. Prima delle industrie lungo il fiume c’erano i barocciai, i renaioli, i lastri-catori. Mestieri perduti, nomi da cercare sul dizionario. Si traghettavano merci e persone. Nel fiume si imparava a nuotare e la domenica si mangiava nelle friggitorie di pesce. Poi la produzione industriale s’è portata via tutto e ha riversato qui le acque reflue, gli olii esausti, gli scarti della produzione. Il fiume e la sua terra erano diventati il retrobottega della città dell’automobile.

In tempi recenti la Città ha continuato a spostare qui come in una vecchia soffitta tutto quello che non voleva vedere nel suo Centro. Il campo rom dell’Arrivore negli anni ‘90 e il Tossic Park a ridosso delle Olimpiadi, “il discount” di droga a cielo aperto più grande d’Italia: centinaia, forse migliaia di persone, ventiquattr’ore al giorno, 5 euro per una dose. E’ dovuta intervenire la Brigata Taurinense degli Alpini nell’estate del 2008, per mandare via tutti.Il terreno porta i segni dei vari passaggi. Le siringhe affiorano in una terra contaminata da diossina, su sedimenti di gomme e cavi bruciati per anni dagli zingari.Bonifica, riqualificazione, cambiamento sono le parole d’ordine di ogni amministrazione cittadina che si succede. Qualcu-no nel 2007 è andato oltre ed ha portato sul tavolo del Comune il progetto di un campo da golf. E il Sindaco Chiamparino ha firmato un protocollo d’intesa. Dai buchi alle buche, hanno intitolato i giornali. E, chi fra gli abitanti del quartiere, davvero provava a immaginare un green, proprio lì, in mezzo a tanto degrado, apriva la bocca e restava sbalordito, perplesso.Oggi, ogni tanto capita che all’orizzonte appaia una ruspa arancione. Scava e sposta cumuli di terra. E se ne va. Si pos-sono incontrare uomini dotati di apparecchiature elettroniche, dentro a tute fosforescenti. Rilevano il terreno, campionano le acque, prelevano larve di insetti. Analizzano la qualità dell’aria e dell’acqua. E spariscono di nuovo nella vegetazione incolta, fra gli ululati di cani randagi.Se chiudi gli occhi, pensi che qui l’Apocalisse ci sia già stata. E allora l’umanità dovrà ripartire dalle rive del fiume (e da dove se no?) Le strade che portano agli orti sono labirinti in cui è facile perdersi. Ci sono Gerardo e gli altri contadini. Si dice siano addirittura trecento. I loro appezzamenti sono gelosamente recintati, ci sono vecchie porte di ascensori e cartel-loni pubblicitari. I primi sono arrivati negli anni ‘60. Gerardo lavorava all’Iveco, in pausa pranzo invece di andare nella mensa aziendale, andava al suo orto sul fiume e oggi invece di giocare alle macchinette nei bar, si gode il fresco d’estate nel suo giardino. E Slow Food non sa neanchè cos’è.Oggi alcuni di loro sono diventati proprietari a tutti gli effetti di quelle terre che hanno strappato al degrado. Per via della legge sull’usucapione. Non serve portare i testimoni in aula, basta guardare quanto sono grandi gli alberi da frutta che hanno piantato.E meno male che qualcuno se l’è presa a cuore, questa terra. Seduto all’ombra del suo albero di fico, e davanti una pianta-gione immensa di pomodori, Gerardo è come un re. Sempre con un occhio vigile però. Perchè i vicini sono zingari. Subito a fianco ci sono quelli delle roulottes, poi iniziano le baracche. La sterminata baraccopoli di Torino dove vivono diverse centinaia di rom rumeni e poveri dell’Est Europa. Si muovono in bicicletta, raccolgono rifiuti nei cassonetti della città. Scarpe, scatole, vestiti, cose elettriche. Rivendono tutto, al Balon, il sabato, al mercato dei poveri.In questo scenario è nato Il futuro del mondo passa da qui – City veins, film documentario, e poi osservatorio. Che vuole dire che nei prossimi anni ci saranno degli occhi puntati su questo territorio, di cittadini che vogliono occuparsi in prima persona delle loro terre, guardandole e raccontandole in prima persona.

citY veins: il FilmIl futuro del mondo passa da qui - City veins (2010, 63’) è un documentario di An-drea Deaglio prodotto da niccolò Bruna e Babydocfilm sostenuto da Piemonte Doc Film Fund - Torino Film Commission. e’ stato presentato al Torino Film Festival (2010, italiana Doc) e ha vinto il premio Joris ivens(Competizione internazionale Miglior Primo Film) a Cinema du reel (Parigi, 2011). non ci sono interviste: le parole dei protago-nisti sono riportate con semplici scritte su cartelli neri.

l’osservatorio WWW.FmpQ.itDurante le riprese del documentario un gruppo di persone ha deciso di costituire un osservatorio sulla zona. Con l’intenzione di tenere traccia degli accadimenti passati e raccontare i cambiamenti futuri.ne fanno parte fotografi, scrittori, proget-tisti web, illustratori, pittori, musicisti, tecnici vari, semplici cittadini.l’osservatorio ha dato vita a iniziative spon-tanee, volontarie e senza fini di lucro, come distribuzione di cibo e vestiti o laboratori di-dattici con i bambini delle baracche.l’osservatorio ha come obiettivo la pubbli-cazione dei materiali web, fotografici, tes-tuali e musicali in un libro collettivo entro la fine del 2011, con il dvd del film allegato. Con questi stessi materiali Fert rights sta sviluppando un web-documentario.Dal 2008 a oggi l’osservatorio è costituto da (in ordine di apparizione): Andrea Deaglio, elena Cannarozzi, Fabrizio esposito, ste-fano Delmastro, roberto Bonin.

andrea deaglioAndrea Deaglio è nato a Torino nel 1979, dove ha compiuto gli studi cinematografici e ha iniziato a lavorare nel settore informa-tico. oggi lavora come operatore video e autore di documentari per Mu produzioni au-diovisive. oltre a Il futuro del mondo passa da qui – City veins, nel 2007 ha realizzato Nera – not the promised land (22’) la storia di una ragazza nigeriana costretta a vendersi in strada, e nel 2011 sulle tracce del bianco (52’) con un cacciatore e un veterinario sulle tracce dello stambecco, fra le montagne della Valle d’Aosta.

citY veinstesto di aNdrea deaGlio

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Fitzcarraldotesto di laura cHercHi

extra

t utto è cominciato più di venti anni fa da un gruppo di amici e professionisti che volevano occuparsi di management per l’arte e la cultura e portare in Italia le migliori esperienze speri-

mentate all’estero. Roba da “pionieri” nel 1986.Allora si era una società di servizi, cui si è poi affiancata un’associazione. Poi nel 1999 si è capito che occorreva as-sumere un’altra forma per svolgere con continuità la mis-sion pubblica di lavoro per la promozione delle arti e della cultura: così, ancora da pionieri è stata fondata una delle

prime fondazioni di partecipazione italiane, la Fondazione Fitzcarraldo. Che recentemente è diventata ONLUS.Fitzcarraldo, come il visionario del film di Werner Herzog che voleva costruire un teatro d’opera in Amazzonia, ha la-vorato in questi anni per aiutare chi opera nell’ambito cul-turale a realizzare progetti e a crescere in modo efficace e sostenibile. Lo abbiamo fatto offrendo sia conoscenza - con attività di ricerca e conferenze internazionali - che strumenti opera-tivi, tramite la formazione, e ancora accompagnando passo

passo le organizzazioni culturali e gli amministratori ad individuare le criticità di sviluppo, le soluzioni operative necessarie, fino ad implementarle.Diamo opportunità di crescere professionalmente agli op-eratori, facciamo conoscere progetti innovativi raccolti in giro per il mondo. L’anno scorso abbiamo portato in Italia una giovane americana che al Brooklyn Museum sviluppa le relazioni con il pubblico tramite i social media. E’ stato un modo per dare un’idea di come questi nuovi canali pos-sono servire alle organizzazioni culturali per dialogare con i loro visitatori.Lavoriamo dietro le quinte raccogliendo dati ed elaboran-do statistiche per ricostruire le dimensioni numeriche del quadro culturale, ma anche qualitativi perché la cultura è molto di più di una serie di numeri. In questo momento ad esempio stiamo realizzando un manuale per l’Unesco che aiuterà le organizzazioni e gli operatori a valutare la parte-cipazione culturale alle loro iniziative.Sulla nave di Fitzcarraldo siamo partiti in pochi. Ora ci sono 24 soci, tutti privati, e negli anni abbiamo coinvolto e fatto crescere professionalmente tantissimi operatori e gio-vani collaboratori, 20 dei quali costituiscono ora il nostro team.La nostra forza è sempre stata l’indipendenza: uno sguardo critico e intellettualmente spregiudicato e saper ascoltare le diverse esigenze per trovare risposte mai standard. Una qualità talvolta apprezzata, talvolta scomoda.Siamo conosciuti come piemontesi ed europei, ma oggi Fitzcarraldo è una realtà anche molto italiana che collabora localmente in diversi territori come il Trentino, la Puglia, la Sicilia… tanto che uno dei nostri principali progetti, Art-Lab – la conferenza nazionale che fa il punto sullo stato di salute della cultura in Italia – nel 2011 si svolgerà a Lecce.Ma Torino rimane comunque la nostra città, dove ci sono i nostri nuovi uffici a fianco dei quali abbiamo da poco ap-erto insieme a DE-GA SPA e con l’aiuto di Banca Prossima FITZLAB, un luogo dove ci si incontra, ci si scambia saperi per trasformare le idee in progetti.FITZLAB è un locale di 200 mq in Via Aosta con spazi per ospitare realtà culturali, una sala per incontri, attività di formazione, eventi ed una cucina per le pause più rilas-sate. L’idea è di coniugare efficienza e comfort, luoghi di concentrazione e spazi relax e di favorire lo scambio e la conoscenza reciproca tra chi abita lo spazio. FITZLAB, inaugurato solo lo scorso aprile, sta prendendo vita: è stato scelto come nuova “casa” dall’associazione Izmo, giovane realtà che si occupa di progettazione parteci-pata e contiamo di avere presto un altro inquilino che voglia di coabitare con lo stessa propensione alla contaminazione. Nel frattempo, per favorire la circolazione di buone idee, abbiamo già ospitato più di 50 operatori, allievi di corsi in management culturale. Perché, anche se non è più roba da pionieri, di formazione in questo senso c’è ancora bisogno.

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oroscopo degli alberi

Per i gli antichi Celti l’albero rappresentava il ciclo della vita e la possibilità di mettere in relazione le tre parti del cosmo: il sottosuolo (le radici), la terra (il tronco) e il cielo (la chioma). I Druidi, sacerdoti di questo popolo, furono grandi osservatori degli eventi celesti e suddivisero il percorso del sole in settori ad ognuno dei quali attribuirono un albero che, per le sue caratteristiche, più si adattava a quel momento dell’anno. Allora, scopri che albero sei …

che albero sei? testo di redazioNe

Abetedal 2 all’11 gennaiodal 5 al 14 luglio

OlmOdal 12 al 24 gennaiodal 15 al 25 luglio

CipressOdal 25 gennaio al 3 febbraiodal 26 luglio al 4 agosto

piOppOdal 4 all’8 febbraiodall’1 al 14 maggiodal 5 al 13 agosto dal 3 all’11 novembre

bAgOlArOdal 14 al 23 agostodal 9 al 18 febbraio

pinOdai 19 al 29 febbraio dal 24 agosto al 2 settembre

sAliCedall’1 al 10 marzo dal 3 al 12 settembre

tigliOdall’11 al 20 marzo dal 13 al 22 settembre

QuerCiA21 marzo

nOCCiOlOdal 22 al 31 marzo dal 24 settembre al 3 ottobre

COrniOlOdall’1 al 10 aprile dal 4 al 13 ottobre

ACerOdall’11 al 20 aprile dal 14 al 23 ottobre

nOCedal 21 al 30 aprile dal 24 ottobre al 2 novembre

CAstAgnOdal 15 al 24 maggio dal 12 al 21 novembre

FrAssinOdal 25 maggio al 3 giugno dal 22 novembre al 1 dicembre

CArpinOdal 4 al 13 giugno dal 2 all’11 dicembre

FiCOdal 14 al 23 giugno dal 12 al 21 dicembre

betullA24 giugno

melOdal 25 giugno al 4 lugliodal 23 dicembre al 1 gennaio

ulivO23 settembre

FAggiO22 dicembre

in alto Dino e in basso rosario di elmuz, 2010. i lavori fanno parte del progetto FMPq (vedi box a pagina 26). elmuz è un’artista che vive a lavora a Torino. (www.elmuz.com)

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buonumore di Stefania Sabatino

svago

la ricetta del mese a cura di Annalisa RussoFalso d’autore di Annalisa Russo

artoku di Danita il segno del mese di Serbardano

gemelliCari Gemelli (visto che siete due), preparatevi a un mese affollato di pianeti e influenze astrali: Marte, Saturno e Giove faranno capolino con discrezione, mentre il Sole e la Luna invaderanno impetuosi il vostro segno: la loro ingombrante presenza vi provoche-rà una sorta di continua altalena emotiva (come se già non foste abbastanza lunatici), intercalando momenti di spensieratezza e radiosità ad altri di eclisse e raccoglimento. Niente di male, comunque, anzi; sarà un mese ricco di stimoli e relazioni interessanti, passato il quale vi scoprirete più maturi e consapevoli: novelli Richard Long, avrete tracciato nuovi e permanenti segni nel vostro panorama interiore o, se preferite, un nuovo solco nel vostro personale albero della vita. Richard Long (Bristol, 2 Giugno 1945) è uno dei principali esponenti della Land Art. Il lavoro di Long è incentrato sul rapporto uomo – natura, una relazione a suo dire intima e strutturale, che si sostanzia in interventi basati su segni essenziali e archetipici, come linee e spirali realizzati con materiali raccolti nella natura stessa, preferibilmente riferiti alla campagna inglese.

Trova le differenze tra l’originale e la copia dell’opera di Richard Long.

21 maggio / 21 giugno

crea il tuo orto!Per prima cosa, quanti siete? In casa dico: da soli, una cop-pia, una famiglia? Poi: quanto lo vorreste grande, il vostro appezzamento di terra: 30 mq, 60, 120?? E poi, a quale orto siete interessati: estivo, invernale, annuale? Non è una nuova applicazione di Farmville su Facebook e neanche un nuovo videogioco per annoiati cittadini bramo-si di campagna. E’ proprio un orto vero, con vera verdura, che potete ricevere fresca tutte le settimane a casa…senza avere un orto sul balcone, che peraltro non so da voi ma da me avrebbe vita breve, tra lo smog e la mia totale assenza di pollice verde: riesco a far morire anche le piante grasse, per dire.

Se anche voi avete lo stesso annoso problema, su www.le-verduredelmioorto.it potrete creare un vero e proprio orto a seconda delle vostre esigenze, scegliendone la dimen-sione, la stagionalità, le singole verdure e addirittura per-sonalizzandolo con spaventapasseri, foto album e svariati accessori; quantificando infine un costo che comprende la produzione dei vegetali e la spedizione settimanale presso la vostra abitazione. Il vostro orto, nella realtà, si troverà nella campagna vercellese, all’interno di un’azienda agri-cola che ha destinato parte dei terreni alla piantumazione di orti, la cui coltivazione avviene secondo metodi tradi-zionali e conoscenze locali; senza l’utilizzo di prodotti chi-mici e OGM, nel rispetto dell’ambiente e della salute dei consumatori. Grazie ad un servizio a domicilio, l’azienda è in grado di servire le aree metropolitane di Milano, To-rino, Vercelli, Biella, Novara e Casale; da poco il progetto è attivo anche nella provincia di Roma. L’iniziativa nasce

da tre fratelli, che nel 2009 rilevano l’azienda di famiglia e lanciano, per primi in Italia, un progetto di coltivazione di orti “a distanza” per coppie, single, famiglie e gruppi: il vantaggio di avere verdura fresca senza l’impegno quoti-diano dell’orto…al massimo, se volete, lo potete andare a trovare nel week end a questo indirizzo: Cascina Pozzolo, 1, Santhià - Vercelli (Azienda Agricola Giacomo Ferraris).

vuoi le soluzioni dei giochi? vai sulla pagina facebook di arte sera

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