Antonio Manzini - Non è Stagione

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«Una volta ogni tanto, poteva anchesorridere. La vita poteva anchesorridere. E Rocco lo fece alzando latesta al cielo».C’è un’azione parallela, in questa

inchiesta del vicequestore RoccoSchiavone, che affianca la storia principale. È perché il passatodell’ispido poliziotto è segnato da unazona oscura e si ripresenta a ogni

richiamo. Come un debito nonriscattato. Come una ferita condannataa riaprirsi. E anche quandoun’indagine che lo accora gli fa sentireil palpito di una vita salvata, da quel

fondo mai scandagliato c’è uno spettroche spunta a ricordargli che a RoccoSchiavone la vita non può sorridere.I Berguet, ricca famiglia di industrialivaldostani, hanno un segreto, Rocco

Schiavone lo intuisce per caso. Glisembra di avvertire nei precordi ungrido disperato. È scomparsa ChiaraBerguet figlia di famiglia studentessa

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La memoria

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 DELLO STESSO AUTORE

 Pista nera

 La costola di Adamo 

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Antonio Manzini

 Non è stagione

Sellerio editorePalermo

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2015 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo e-mail: [email protected]  www.sellerio.it

Questo volume è stato stampato su carta Palatina prodotta dalleCartiere Milani di Fabriano con materie prime provenienti dagestione forestale sostenibile.

Manzini, Antonio <1964>

 Non è stagione / Antonio Manzini ; - Palermo : Sellerio2015(La memoria ; 983)EAN 978-88-389-3288-5853.914 CDD-22

CIP   –   Biblioteca centrale della Regione siciliana «Alberto Bombace»

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 Non è stagione

 AM  166  TT  

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Oh oh, mi è semblato di vedele un gatto.

TITTI 

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Lunedì

Il lampo squarciò la notte e fermò in un flash

fotografico il furgone bianco che a velocità sostenutacorreva da Saint-Vincent verso Aosta.«Viene a piovere» disse l’italiano al volante.«Allora va’ più piano» rispose quello con l’accento

straniero.Prima il tuono poi la pioggia, che arrivò come una

secchiata sul parabrezza. L’italiano azionò i

tergicristalli, senza però diminuire la velocità. Si limitòa mettere gli abbaglianti.«Si bagna asfalto e strada diventa sapone» disse lo

straniero prendendo il cellulare dalla tasca delgiubbotto.

Ma l’italiano non rallentò.Lo straniero spiegò un fogliettino e cominciò a

digitare un numero.«Ma perché non ti metti i numeri in rubrica? Come

fanno tutti?».«Non c’è rubrica. Tutta piena. E fatti cazzi tuoi»

rispose digitando il numero. Il furgone prese una buca ei due sobbalzarono.

«Ora vomito!» disse l’uomo con l’accento straniero

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mettendosi il telefono all’orecchio.«Chi chiami?».Ma quello non rispose. Sentì un «Pronto... ma chi è?»

assonnato nella cornetta. Fece una smorfia e chiuse latelefonata. «Sbagliato» mormorò premendonervosamente i tasti del vecchio telefonino sporco divernice. Finita l’operazione rimise in tasca il cellulare eguardò fuori dal finestrino. La strada era piena di curve,e i segnali bianchi e neri che avvertivano l’arrivo di untornante apparivano solo all’ultimo momento. Il motoresbiellato e la marmitta bucata suonavano come ferraglielasciate cadere da una rampa di scale. Nel retro lacassetta degli attrezzi continuava a scivolare da un latoall’altro seguendo il beccheggio del furgone.

«È cominciato il diluvio universale, amico mio!».«Non sono amico tuo» rispose lo straniero.

Anche sotto gli abbaglianti, la strada Saint-Vincent-Aosta era invisibile. E l’italiano continuava a scalare lamarcia, a grattare e a premere l’acceleratore.

«Perché non rallenti?».«Perché tra un po’ arriva l’alba. E all’alba io voglio

stare a casa! Fumati una sigaretta e non rompermi le palle, Slawomir».

Lo straniero si grattò la barba. «Non mi chiamoSlawomir, colione, Slawomir è nome polacco, e io nonsono polacco».

«Polacco, serbo, bulgaro... per me siete tutti uguali».«Sei uno stronzo».«Perché, non è così? Tutta gente di merda siete.

Ladri e zingari». Poi aggiunse: «Ti fanno paura i

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tornanti?» e rise fra i denti. «Eh zingaro? Ti fanno paura?».

«No, mi fa paura che tu non guidi bene. E io non

sono zingaro».«Che, ti sei arrabbiato? Ma che male c’è se sei

zingaro? Non ti devi vergogna...».Uno scoppio improvviso lo interruppe. Il furgone si

 piegò di lato.«Cazzo!». Provò a controsterzare.Lo straniero urlò, urlò l’italiano e urlarono anche i tre

 pneumatici superstiti. Almeno fino a quando anche unaseconda gomma esplose e il furgone fece un balzo inavanti. Sfondò una recinzione di legno, abbatté il palodel limite di velocità e fermò la corsa contro due lariciai lati della carreggiata. Il parabrezza esplose, itergicristalli si piegarono, il motore si spense.

Lo straniero e l’italiano stavano fermi, con losguardo vitreo fisso su un punto lontano mentre ilsangue usciva dalle bocche e dalle orbite degli occhi. Ilcollo spezzato, informi come due marionetteabbandonate. Un altro lampo e il flash fissò l’istantaneadelle due facce spente con le pupille di ghiaccio.

La pioggia insisteva con il suo ritmo forsennato sulla

lamiera del tettuccio. Il furgone schiantato coi fariancora accesi scricchiolava in equilibrio precario sulleradici che spuntavano dalla terra. Ebbe un ultimosussulto assestandosi sul terreno e facendo rimbalzaresul sedile i corpi senza vita dei due uomini.

Erano passati tre secondi dal primo pneumaticoesploso a quando il furgone s’era spalmato contro i

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tronchi d’albero.Tre secondi. Niente. Un sospiro.

Tre secondi ci impiegò Rocco Schiavone a capiredove si trovava. Un tempo infinito.

Aveva aperto gli occhi senza riconoscere le pareti, le porte e l’odore di casa sua.

Dove sono? si chiedeva, mentre il suo sguardoassonnato circumnavigava lo spazio intorno. La

 penombra della stanza non aiutava. Era in un letto nonsuo in una camera non sua in una casa non sua. E molto

 probabilmente anche il palazzo non era il suo. Speravaalmeno che la città fosse la stessa di ieri, quella doverisiedeva da tempo, dove espiava il suo errore da ormainove mesi: Aosta.

A rimettere insieme i pezzi lo aiutò vedere il corpo di

donna proprio lì accanto. Dormiva tranquilla. I capellineri e sciolti sul cuscino. Gli occhi chiusi tremavano un po’ dietro le palpebre. Apriva leggermente le labbra esembrava stesse baciando qualcuno nel sonno. Unagamba scoperta, il piede penzolava fuori dal materasso.

S’era addormentato a casa di Anna! Cosa gli stavasuccedendo? Errore! Primo passo sbagliato, rischio

tangibile di assuefarsi a un’abitudine! Il pericolo diun’integrazione non cercata con quella città e i suoiabitanti lo spaventò fino alla radice dei capelli e lo fecesedere di scatto sul materasso. Si stropicciò la faccia.

 No, non è possibile, pensò. Da nove mesi non avevamai dormito fuori casa. Si comincia così, lo sapeva... e

 poi era un attimo. Si passava a frequentare i caffè, a

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fare amicizia con il fruttivendolo e il tabaccaio,addirittura col giornalaio, per arrivare alla fatidica frasedel barista: «Dottore, il solito?» ed eri fregato.

Diventavi automaticamente un cittadino di Aosta.Poggiò i piedi sul pavimento. Caldo. Peloso.

Moquette. Si tirò su e nella penombra di un’alba lividacome la pancia di un pesce si avventurò verso una sediache abbracciava un mucchio di vestiti, i suoi. Un colposecco fra le dita dei piedi gli illuminò il cervello, poi unfulmine di dolore lo avvolse.

Muto si rigettò sul letto tenendosi il piede sinistroche aveva colpito uno spigolo. Rocco lo sapeva, erauno di quei dolori bestiali e selvaggi che grazie a Diohanno la prerogativa di durare poco. Bastava stringere identi per qualche secondo e passava tutto. Bestemmiòin silenzio, non voleva svegliare la donna. Non perché

rispettasse il suo sonno, semplicemente avrebbe dovutoaffrontare una discussione e non aveva voglia nétempo. Lei triturò qualche parola misteriosa fra lelabbra, poi si girò per continuare a dormire. Il dolore al

 piede, acuto e impietoso, se ne stava andando, era giàsolo un ricordo. Ormai sveglio, il vicequestore si misele mani sul viso e i fotogrammi della serata gli

 passarono davanti neanche gli occhi si fossero tramutatiin un dia proiettore.Incontro casuale con Anna, l’amica di Nora Tardioli,

la sua ormai ex fidanzata, al Caffè Centrale. I solitisorrisi di lei, i soliti sguardi felini, gli occhi all’insù, dagatta assassina, la solita mise da dark lady di provincia.Il bicchiere di vino. Le chiacchiere.

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«Guarda, Rocco, che Nora aspetta che tu prima o poila chiami!».

«Guarda che io Nora non la chiamo più».

«Guarda che non vi siete più parlati dal giorno delsuo compleanno».

«Guarda che è una cosa che faccio scientemente».«Guarda, Rocco, che lei ci tiene a te».«Guarda che Nora sta con l’architetto Pietro Bucci-

qualcosa».Risata di Anna. Risata roca, graffiante, di scherno,

con conseguente arrapo di Rocco.«Guarda che ti sbagli. Pietro Bucci Rivolta è una

cosa mia».Anna che si indica il petto facendo tintinnare la

collana d’argento sul suo décolleté.«Ma perché ti interessi tanto a me e Nora?».

«La fai soffrire».«Non posso fare di più. Evidentemente non sonoquello di cui lei ha bisogno».

«Perché, tu sai di cosa ha bisogno Nora? Non èmolto, Rocco. Nora non chiede tanto. Le cose basilari alei bastano».

Anna che ordina altri due bicchieri di vino.

Poi altri due.«Andiamo?».La strada. Poche luci. Il portone di Anna, non lontano

da quello di Rocco.«Io abito qui vicino».«E allora rientri a casa presto».Anna che sorride coi suoi occhi neri e lucidi. Sempre

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all’insù. Sempre da gatta assassina.«Proprio non ti piaccio, eh, Anna?».«No. Proprio no. Oddio, fisicamente non sei neanche

da buttare via. Il naso a punta, gli occhi penetranti dafinto maschio latino, sei alto, hai un bel paio di spalle ehai tanti capelli. Ma vedi? Io con uno come te non cisalirei neanche su una funivia per raggiungere le pisteda sci. Aspetterei quella dopo».

«È un rischio che non corri. Io non scio. Ci vediamoin giro».

«Chissà... magari no».Si lancia su Anna. La bacia. Lei lo lascia fare. E con

la mano dietro la schiena apre il portone.Salgono.Scopano. Quarantacinque minuti, forse cinquanta. E

 per Rocco è un risultato da consegnare agli annali.

Il seno di Anna. I suoi capelli sciolti e neri. Le gambemuscolose.«Faccio pilates».Le braccia tornite.«Sempre pilates».Sfatti e sudati buttati sul letto.«Ragazza, io non ho più l’età».

«Neanche io».«E il pilates?».«Non basta».«Sei molto bella».«Tu no».Ridono.«Acqua?».

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«Acqua».Lei che si alza. Le chiappe solide. Lui che pensa:

 pilates pure quelle. Va in cucina. Lo capisce perché

sente il rumore del frigo. Torna a letto.«La prossima volta mi leghi?».«Ti ammanetto, semmai. È il mio mestiere».Rocco che s’attacca alla bottiglia di minerale. Lei che

gli mostra i suoi quadri appesi ovunque in casa. Fiori e paesaggi. Che dipinge lei, per riempire infiniti pomeriggi di noia. Lui si addormenta come un bambinomentre lei gli mostra una marina toscana.

Veloce si rivestì. Calzini, pantaloni, camicia, leClarks, la giacca e con passo felpato lasciò la camerada letto e la casa di Anna.

L’aria era fredda anche per colpa della pioggia cheera venuta giù per tutta la notte e il sole ancora non sivedeva. Ma un chiarore annunciava che sarebbe statauna bella giornata. Alzò gli occhi e vide poche nuvole

 pascolare in mezzo al cielo.Prese il cellulare e guardò l’ora. Le sei e un quarto.Troppo presto per andare a fare colazione ma troppo

tardi per rimettersi a dormire. Le chiavi di casa glitintinnarono nella tasca, come a suggerire una doccia per poi andare al bar di piazza Chanoux.

Camminò veloce rasente i muri come un gattoritardatario superando le due traverse che dividevanol’appartamento di Anna dal suo e finalmente rientrò in

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casa.Come c’era da aspettarsi, la casa era vuota. E non

c’era neanche Marina. Non era a letto, non era in salone

a guardare qualche notiziario antelucano, neanche in bagno a farsi la doccia o in cucina a preparare lacolazione. Come se lo avesse sentito. Come se Marinaavesse visto il letto intonso e avesse capito che Roccoquella notte non era rientrato. Per la prima volta dopotanto tempo aveva dormito fuori casa, e forse la cosa alei non era piaciuta. Si era offesa e non si mostrava.

Senza alzare lo sguardo si infilò in bagno e aprìl’acqua calda. Si spogliò e si gettò sotto la doccialavandosi anche i capelli e facendosi scorrere l’acquaaddosso per diversi minuti. Uscì solo quando il vaporeaveva trasformato il bagno in un hammam. Pulì il vetrodello specchio con la mano e il suo viso apparve in

tutto il suo squallore. Le occhiaie, le palpebre arrossate,le pieghe sopra gli zigomi. Stirò le labbra per guardarsii denti. Sperava che Marina spuntasse in mezzo a quellacoltre di fumo denso. Invece niente. Prese il sapone ecominciò a farsi la barba.

Alle otto era al caffè in piazza, seconda tappa

obbligata della mattina. Poi a piedi fino alla questura.Tutto questo senza accorgersi che lassù in alto al postodelle nuvole ormai c’era un bel cielo azzurro.

Entrò di soppiatto in ufficio. Evitò le domandedell’agente Casella che stava alla porta e sgattaiolò incorridoio per non incontrare D’Intino oppure Deruta, idue agenti da lui ribattezzati «fratelli De Rege» in

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onore del duo comico piemontese di tanti anni prima,riportati in auge da Walter Chiari e Carlo Campaniniquando Rocco guardava la televisione in bianco e nero

accovacciato nel salone che fungeva anche da cameradella nonna. Prima di cominciare la giornata aveva

 bisogno di fumare, e per farlo doveva necessariamentestendersi nel suo ufficio, sulla sua poltrona, portachiusa e silenzio. Silenzio totale.

Entrò e andò a sedersi alla scrivania. Prese uno spino.Un po’ secco ma poteva andare. Dopo soli tre tiri lecose cominciavano a girare meglio. Sì, la temperaturasarebbe cambiata e sì, doveva solo affrontare unatranquilla giornata in ufficio.

Bussarono alla porta. Rocco alzò gli occhi al cielo.Spense la cicca nel portacenere. «Chi è?».

 Non rispose nessuno.

«Ho detto chi è?».Ancora niente. Rocco si alzò, spalancò la finestra percancellare l’odore di cannabis.

«Chi è?» urlò di nuovo mentre si avvicinava alla porta. Ancora nessuna risposta. Aprì.

Era D’Intino, l’agente abruzzese, che aspettava insilenzio come un cane da guardia.

«D’Intino, ti fa fatica dire il tuo nome?».«No, perché?».«Perché è un’ora che grido chi è?».«Ah. Ce l’aveva con me?».«Sei tu che hai bussato?».«Certo».«E quando uno bussa e dall’altra parte qualcun altro

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dice chi è, secondo te a chi si riferisce?».«Non lo so...».«Senti, D’Intino, non voglio rovinare una giornata

che mi pare partita col piede giusto. Quindi voglioessere gentile e cercare di capire cos’è che non va.Rifacciamo?».

D’Intino fece sì con la testa.«Ora io chiudo e tu ribussi».E così fece. Chiuse la porta. Aspettò dieci secondi.

 Non successe niente.«D’Intino, devi bussare!» urlò.Dopo altri dieci secondi D’Intino bussò alla porta.«Bene. Chi è?» urlò Rocco.

 Nessuna risposta.«Ho detto: Chi è?».«Io».

«Io chi!».«Io».Rocco riaprì la porta. D’Intino, come c’era da

aspettarsi, era ancora lì.«Allora io chi?».«Ma dotto’, lo sapeva che ero io».Lo colpì tre volte sulla schiena a mano aperta.

D’Intino incassò il collo nelle spalle e si prese le percosse del suo capo protestando lievemente. «Sì, maio ho detto io perché lei mi aveva già visto, no? E alloraso’ detto, perché non...».

«Stop!» gridò Rocco e con la mano chiuse la boccadel poliziotto. «Basta così, D’Intino. Abbiamo appuratoche eri tu che bussavi. Ora dimmi, che cosa vuoi?».

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«Un incidente brutto brutto sulla statale».«E allora?».«Due morti».

«Dunque?».«La polstrada dice se andiamo».Rocco si mise le mani davanti al viso. Poi urlò:

«Pierron!». Non ne poteva più di D’Intino, aveva bisogno di parlare con qualcuno con un quoziented’intelligenza superiore all’orango.

Dieci secondi e il viso di Italo Pierron, l’agentemigliore che aveva, si affacciò da una porta laterale.«Dica, dottore!».

«Che è questa storia di un incidente?».«Sulla statale da Saint-Vincent... un furgone. Ci sono

due morti».«Prendi D’Intino e vai, per favore».

«Veramente...» fece D’Intino indicandosi il costato.«Cosa?».«Dottore, io ho ancora le costole che mi fanno male».Un mese e mezzo prima aveva subito un’aggressione

dove aveva riportato la frattura del setto nasale. Poi,non pago, era caduto in una buca dei lavori in corsospaccandosi un paio di costole, che ancora gli

dolevano. Il video di una telecamera di sicurezza cheriprendeva la scena di quell’aggressione subita daD’Intino e Deruta, l’agente di cento e passa chili chesfidava D’Intino per il podio del più deficiente delcommissariato, aveva fatto il giro della questura e della

 procura. Era diventato oggetto di culto fra i poliziotti ei giudici della valle. Quel filmato di pochi minuti dove i

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due inetti cercavano di arrestare una coppia dispacciatori, veniva utilizzato negli uffici ogni volta chequalcuno si sentiva un po’ giù di morale. Il giudice

Baldi lo guardava continuamente, il giudice Messina tresere a settimana con tutta la famiglia. In questura ItaloPierron e il viceispettore Rispoli se lo sparavanonell’ufficio passaporti, che era diventato il luogosegreto dei loro incontri d’amore, e ultimamente al

 pubblico di aficionados s’era unito anche il questoreAndrea Costa che davanti alle peripezie dei suoi dueagenti rideva fino alle lacrime. L’unico che sembravaessere immune dalla comicità di quei tre minuti in

 bianco e nero privi di sonoro era l’anatomopatologoAlberto Fumagalli. Lui davanti a quel cortometraggio siintristiva, quasi piangeva. Ma non bisognava dargli

 peso. La sfera emotiva del medico era seriamente

danneggiata dalla frequentazione coi cadaveri esoprattutto da una latente e pericolosissima patologiamaniaco-depressiva.

«Ma la polstrada?» chiese Rocco esasperato. «Gliincidenti stradali non sono cose loro?».

«Veramente sono loro che hanno chiamato. Anche perché il furgone è andato a sbattere da solo. Non è che

ha coinvolto altre macchine. Ma c’è una cosa che nonva. E vogliono noi».«Che palle!» gridò Rocco e dall’attaccapanni prese il

loden verde. Lo infilò e richiuse la porta.«D’Intino, se non sei abile al servizio, mi dici che

vieni a fare in questura?».«Sbrigo le faccende di carta».

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«Sbriga le faccende di carta» ripeté a bassa voceRocco. «Capito? Lui sbriga le faccende di carta.Andiamo, Italo. O anche te sei impossibilitato per

qualche disfunzione?».«No, io no. Le ricordo invece che l’ispettore Rispoli

è a casa con la febbre a 39. Non possiamo contare su dilei».

Rocco lo squadrò dalla testa ai piedi. «E neanche tu puoi farlo. O mi sbaglio?».

Italo arrossì e abbassò lo sguardo.Senza aggiungere altro Rocco si incamminò verso

l’uscita.La storia d’amore fra Italo e Caterina ancora non gli

andava giù. Il viceispettore Rispoli era una su cui avevamesso gli occhi da mesi. E vedersela scippare così, daun sottoposto, aveva intaccato la sua autostima.

Mentre a passi rapidi raggiungeva il portone principale, Rocco Schiavone si girò verso Italo: «Ma tuti diverti a mandarmi sempre D’Intino?».

«C’è chi si fa una canna e c’è chi manda D’Intino dalcapo per cominciare la giornata col piede giusto». Erise.

Rocco decise che era arrivato il momento di fare le

dovute pressioni e mandare D’Intino in qualchecommissariato sulla Maiella. Ne andava della suasalute.

A maggio il mondo è bello. Le prime margheritesbocciano puntellando di bianco e di giallo i prati, e dai

 balconi i fiori vomitano colori come tubetti di tempera

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schiacciati.E così era anche ad Aosta. Rocco alzò gli occhi al

cielo. Sembrava che finalmente le nuvole se ne fossero

andate a svernare chissà dove mentre il soleaccarezzava le montagne e i pianori facendo risplenderequella tavolozza meravigliosa. E l’umore di RoccoSchiavone ne guadagnava. L’aspettava da tempo quellospettacolo, dalla fine di settembre dell’anno prima,quando armi e bagagli era arrivato alla questura diAosta trasferito per punizione dal commissariatoCristoforo Colombo, nel quartiere EUR della sua città.Erano stati mesi di freddo intenso, di neve, pioggia egelo che gli erano costati ben dieci paia di Clarks,l’unica calzatura che usava. A guardare bene, qualchenuvola lassù in alto c’era ancora. Ma erano candide,correvano e al massimo si fermavano a fare una sosta

fra le cime delle montagne. Niente di preoccupante.«Hai visto?» gli disse Italo, che quando era in privato passava direttamente al tu.

«Cosa?».«Che la primavera arriva anche qui ad Aosta? Te l’ho

sempre detto. Dovevi credermi!».«Vero. Non ci speravo più. Tutti ’sti colori.

Dov’erano fino a ieri?».Italo partì a razzo. Rocco si toccò le tasche. «Cazzo!»e infilò una mano in quelle dell’agente. Prese il

 pacchetto di sigarette. Chesterfield. «Io lo so che ungiorno di questi mi sorprenderai e invece di ’sto schifoavrai le Camel».

«Scordatelo!» gli disse Italo.

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Rocco ne accese una e rimise il pacchetto in tasca aPierron.

«Che ne dici, Italo? Ce ne andiamo a pranzo in

montagna?» propose il vicequestore.«Dove?».«Mi piacerebbe tornare a Champoluc, al Petit

Charmant Hotel. Si mangia da paura lì».«E perché no? Vediamo a che ora ci sbrighiamo, no?».«Un incidente è roba da poco. Cosa vuoi che ci sia di

così misterioso? So’ proprio de coccio da ’ste parti». Esi fece un tiro di sigaretta.

Era proprio un bel vedere quello che c’era al di là delfinestrino dell’auto di servizio. Anche gli alberisembravano sorridere. Senza quei chili di neve addossoche li faceva somigliare a dei vecchi novantenni con il

 peso dell’età che li schiacciava a terra. Ora svettavano,

nuovi e giovani, freschi, tesi e dritti.Rocco ricordò la notte appena passata con Anna.Sentì qualcosa formicolargli fra le gambe. «È proprio

 primavera!» disse spegnendo la sigaretta nel portacenere.

Colpa di due vecchi pneumatici esplosi per l’usura e

il furgone Fiat s’era andato a schiantare contro i lariciall’uscita di una curva. Carlo Figus e Viorelo Midea, idue a bordo, erano morti sul colpo. Dei due corpirestava solo il lenzuolo macchiato di sangue col quale liavevano coperti. Rocco Schiavone e Pierronchiacchieravano con l’agente della polstrada.

«Allora mi dice cos’è che non va? Cosa c’è di tanto

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strano?» chiese Rocco.«Più che strana, c’è una cosa grave» disse l’agente

Berruti, occhiali a specchio e denti bianchi, pareva

uscito da una puntata dei Chips, il vecchio telefilmdegli anni Settanta.

«Cosa?».«Il furgone ha una targa rubata. Non è sua».Schiavone annuì. Fece cenno a Berruti di proseguire.

«Insomma, sul libretto il furgone appartiene a CarloFigus, quello che guidava, ma la targa che riporta ècompletamente diversa».

Furono raggiunti da un altro agente della polstrada,un po’ sovrappeso e lo sguardo sveglio e attento.

«Ciao Italo!». Conosceva Pierron.«Ciao Umberto».«Allora dottore, la targa che ha sopra questo furgone

è stata denunciata il 27 febbraio a Torino. Appartiene aun tale Silvestrelli, e dovrebbe stare sopra unaMercedes Classe A, non su un furgone Scudo della Fiat.Questo furgone dovrebbe avere la targa AM 166 TT».

«E immagino che la AM 166 TT non sia in giro».«Macché!».«Che palle» mormorò Rocco alzando gli occhi al

cielo.«Cosa, dottore?» chiese solerte Berruti.«Che palle!» ripeté Rocco guardando l’agente negli

occhi. «Che palle! Stava andando troppo bene, troppo.Un incidente, un paio di scartoffie e via! Invece questidue stronzi hanno una targa rubata. Che coglioni!» edando un calcio ad un sassolino lasciò i tre poliziotti a

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guardarsi negli occhi.«Alle famiglie pensate voi?» chiese Umberto a Italo.Rocco, che era solo a qualche metro, si girò: «Certo

che ci pensiamo noi, Italo. Questo non è un incidentecol cid, c’è di mezzo un furto ed è roba nostra».

«Grazie!» era felice Umberto. «Se può servirequalcosa...».

«Voi ve ne state qua, riempite tutte le carte chedovete riempire e non vi fate più vedere in giro. Io devoanda’ da Fumagalli all’obitorio, porca troia!». Poismadonnando si incamminò verso la macchina. I dueagenti della polstrada guardarono Italo. «Ma è semprecosì?».

«No. Oggi è tranquillo. Se era un omicidio allora sìche era da ridere. Statevi bene. Ciao Umberto! Mi devila rivincita!».

«Quando vuoi. Boccette o carambola?».«Carambola».

 Non vedo niente.Gli occhi ce li ho ancora chiusi?Sono aperti. Sono aperti e non vedo.Sto ancora dormendo?

 Non dormo. Lo so che non dormo. La testa mi gira,mi gira forte. Mi fanno male le tempie. Il nero stadiventando grigio. Non è più buio. Però non riescoancora a vedere. Cos’ho in faccia? Cos’è? Unaragnatela? No, le ragnatele sono trasparenti. Questoinvece è un velo scuro. Scuro e fatto di fili. Fili neri.Schifo. Fa schifo. Se chiudo gli occhi gira tutto. Li

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devo tenere aperti e guardare questo velo nero eschifoso che ho davanti alla faccia.

Trascinava i pensieri a fatica, pesanti e ancora

inzuppati di sonno e mal di testa. Provò a togliersi la pezza che aveva davanti agli occhi. Ma le mani non simuovevano. Bloccate.

 Non si muovono. Le mani non si muovono! Ho unatela nera in faccia e non la posso togliere perché lemani non si muovono.

Si sforzò, tirò una, due volte, ma i polsi eranoinchiodati.

Mi sono incastrata nel letto e ho messo la testa nellafedera? Perché mi sono incastrata nel letto? Ma checazzo sto pensando? Forse sto ancora dormendo, fuori èancora buio e fra un po’ mi sveglio e vado a farecolazione.

Le tempie battevano metodicamente come campane amorto. Un dolore sotterraneo, continuo e sordo.Deve essere notte. Non sento la strada. E neanche

Dolores che prepara la colazione e papà che cammina per il corridoio.

Quelli erano i suoi rumori familiari. E lì c’era solosilenzio.

Sono seduta. Sul letto?Provò ad alzarsi ma non ci riuscì.Ho la schiena attaccata al muro? A una tavola di legno?Provò a muovere le gambe.

 Non mi si muovono. Sono bloccate come le mani, lecaviglie sono inchiodate. È una paralisi? Mi sono

 paralizzata? No, le dita le muovo. E muovo i piedi. Ma

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le caviglie sono legate. Come i polsi. È un incubo? Orami sveglio, ora mi sveglio, ora mi sveglio.

Provò a saltare slanciando il sedere, ma non accadde

nulla.Che cazzo ho in faccia? Una pezza? Una pezza,

sicuro. E dietro vedo... cos’è? C’è un muro. Un murogrigio. Non è camera mia. La mia stanza è gialla,questa è grigia. E dove sono i poster dei Coldplay edegli Alt-J? Qui è tutto grigio. Grigio e sporco. Però civedo. Allora è giorno. E se è giorno, perché nessuno miviene a svegliare?

«Mamma?» urlò. E il suono della sua voce laspaventò. Riprovò più forte: «Papà?».

Respirava sempre più a fatica, e l’aria era poca.Quella pezza schifosa davanti al volto gliene toglieva

 parecchia e ogni volta che provava a inspirare le

toccava le labbra.«Mamma? Papà?».Inutile.Era sveglia e non era a casa sua. Non poteva

muoversi, non vedeva niente, c’era puzza di muffa edera sola.

Chiara cominciò a piangere.

L’ultimo indirizzo conosciuto di Carlo Figus era viaChateland. Rocco ci aveva spedito l’agente Scipioni perandare a dare la triste notizia e carpire un parentequalsiasi da portare alla camera mortuaria. La scelta diRocco era caduta sull’agente Antonio Scipioni solo esoltanto per necessità, dal momento che l’ispettore

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Caterina Rispoli era allettata con 39 di febbre, e ItaloPierron sulle tracce di Viorelo Midea, l’altra vittimadell’incidente. Dunque al vicequestore non era rimasto

che l’agente Scipioni in forza ad Aosta dal mese didicembre. Lo conosceva poco, ma non era unmentecatto come Deruta o come D’Intino o un Casella.Sapeva che era mezzo siciliano mezzo marchigiano,che amava la montagna e gli era sembrato sempre inordine, attento, e dalla sua bocca non aveva mai sentitouscire sciocchezze. Rocco sperava di poter annoverareScipioni fra gli agenti validi della questura. Un uomo in

 più fa sempre comodo.Il vicequestore aspettava all’ingresso della morgue

fumando una sigaretta quando vide attraverso i vetrismerigliati la figura inconfondibile di AlbertoFumagalli, l’anatomopatologo livornese. Come

d’abitudine da ormai nove mesi, i due non sisalutarono. Alberto guardò il cielo, storse la bocca,digrignò qualcosa, poi fece un cenno a Rocco. «Entriquando hai finito?».

«No. Aspetto qui. Un agente».«Chi? Quello che vomita sempre?».«Italo? No. Un altro. Porta uno dei parenti per il

riconoscimento».Alberto lo guardò negli occhi. «La vuoi sapere subitouna cosa oppure aspettiamo che finisci la sigaretta?».

Rocco fece una boccata profonda. «E dimmela».«È morto felice».Rocco si avvicinò al medico. «Che significa?».«L’italiano, è morto felice».

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«E come fai a saperlo? Te l’ha detto lui?».«Certo».«Vai al sodo. Oggi non è giornata e non ce la faccio a

sopportare una discussione con te».«Sissignore. Vuoi sapere come ha fatto a dirmelo?

Vieni, te lo mostro».Insomma gli toccava beccarsi i due cadaveri. Gettò la

sigaretta e seguì il medico.

 Nella sala autoptica il solito odore di uova marcemiste ad alimenti andati a male e ristagno di porto. Suilettini i due corpi. Alberto si avvicinò. «No, oggi icadaveri te li risparmio. Quello che ti interessa di più èqui... al microscopio, vieni». E indicò l’oculare. Posòl’occhio e regolò l’obiettivo. Poi sorridendo lasciò il

 posto a Rocco.

«Che vedi?».«Ma che ne so? Cose tonde, un po’ bianche e un po’viola... non lo so, sembra una macchia di quelle cheusano gli psicologi...».

«Si chiamano macchie di Rorschach e non c’entranouna beneamata. Quello che stai vedendo sul vetrino èun tampone che ho prelevato dalla pelle del pene

dell’italiano».«Cazzo...».«Sì, anche detto cazzo. E sai cosa stai osservando?».«Me l’hai appena detto, no?».«No. Quello che stai osservando è la Gardnerella

vaginalis».«Non so cosa sia ma dal nome non dovrebbe trovarsi

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su un organo genitale maschile, sbaglio?».«Bravo! La Gardnerella è un microorganismo, molte

donne ce l’hanno e ci convivono. Se però prolifera

troppo arrivano quelle secrezioni biancastre, che puzzano anche un po’, sai? E...».

«Falla finita, Alberto. Insomma, il tipo s’è dato dafare prima di morire?».

«Esatto. E calcolando che sono morti non più tardidelle quattro, diciamo che l’ha fatto neanche un’ora

 prima?».«Me lo chiedi?».«No, l’affermavo con un punto di domanda. Fa molto

chic, perché è come dire: voglio ascoltare la tuaopinione ma tanto ho ragione io. E comunque a questadonna misteriosa che ha regalato le ultime gioie delsesso al poveraccio, io una bottarella gliela darei, ma

col metronidazolo».«Tu pensi a una prostituta?».«A guardare i due direi di sì».«Cioè?».«Li hai visti in faccia, Rocco? Quei due per farsi una

trombata o tiravano fuori i soldi oppure a casa a faresolitari. Vuoi vederli?».

«Per oggi mi basta la Gardnerella».

L’agente Scipioni scortava lungo il corridoio unuomo di una vecchiaia indeterminabile. Sottobraccio algiovane poliziotto avanzava a piccoli passi verso la

 porta della morgue guardando un punto fisso davanti alui.

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«Dottor Schiavone, questo è il nonno di Carlo Figus.L’unico altro parente è la madre della vittima, ma nonsi può muovere da casa, il diabete... le hanno amputato

le gambe».«Bene...» fece Rocco allargando le braccia.«Lui è il signor Adelmo Rosset, il nonno di Carlo

Figus. Adelmo? Questo è il vicequestore Schiavone...».L’uomo alzò appena gli occhi. Erano azzurri e

sembravano immersi in un liquido denso e appiccicoso. Non cambiò espressione, solo lentamente si portò lamano alla tasca, estrasse un fazzoletto e si asciugò la

 bocca.«Parla poco» disse Scipioni.«Lo vedo. Ma è in grado?».«Non lo so. Credo di sì. La mamma di Carlo Figus,

che poi è la figlia di Adelmo, dice che ci sente

 benissimo e capisce tutto, vero Adelmo?».Come una tartaruga centenaria l’uomo girò il collorugoso verso Scipioni. Lento accennò ad un sorriso chemostrò tre denti superstiti. Poi si richiuse come un fioreal tramonto.

«Che faccio, dottore?».«Andiamo. Fumagalli aspetta». Rocco allungò il

 braccio e lo offrì ad Adelmo che ci si aggrappò escortato dai due poliziotti si avvicinò al vetro divisorio.Rocco bussò forte tre volte e la veneziana di alluminiosi tirò su mostrando il viso di Fumagalli. Il medico al dilà del vetro aveva già preparato il cadavere. Fece ungesto a Rocco, come a dire «tiro su?» e Rocco annuìsenza perdere d’occhio Adelmo. Il viso del vecchio

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rifletteva sul cristallo e casualità volle che combaciasse perfettamente con la posizione del viso del cadaverenell’altra stanza. Fumagalli scoprì il corpo. Il volto di

Carlo Figus prese il posto di quello del nonno. Adelmoguardò per alcuni secondi. Poi lentamente allungò unamano fino a poggiare le dita sul vetro. Si girò versoRocco. Lo sguardo giaceva lontano, immerso nelliquido, ma da un occhio una lacrima corse via e siinfilò in una ruga, neanche fosse stata il letto secco diun fiume. Tremava, Adelmo, e guardava Rocco. Nonc’era bisogno di altro. Il vicequestore fece cenno aFumagalli di ricoprire il cadavere.

«Antonio» disse all’agente, «riaccompagna il signorRosset a casa».

Scipioni annuì. «Venga signor Adelmo, andiamo...».Il vecchio staccò la mano dal vetro divisorio. Le

impronte delle dita sparirono in pochi secondiriassorbite dal gelo del cristallo. Sembrava smarrito,come se lo avessero appena svegliato da un bruttosogno. Poi afferrò il braccio di Scipioni e sirincamminò nel corridoio a passi lentissimi e cadenzati.

Rocco aveva bisogno di bere.

Con una telefonata aveva allertato il giudice Baldi.Quello gli aveva intimato di recarsi in procura, ma ilvicequestore aveva declinato con una scusa di servizio.Al più tardi nel pomeriggio, promise, sarebbe stato lì.Quello stupido incidente stradale rischiava di diventareuna serie ininterrotta di rotture burocratiche da farspavento. E al momento l’unica cosa che lo interessava

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era guardare i cubetti di ghiaccio sciogliersi nello spritz preprandiale che Ettore gli aveva portato al tavolino. In piazza Chanoux regnava la calma. C’erano due vigili

sotto la redazione de «La Stampa» fermi achiacchierare con una signora e il suo barboncino nero,tre operai su una scala intenti a cambiare la lampadinadi un lampione, Nora che ad ampie falcate siavvicinava al suo tavolo.

«Oh porca...» disse a bassa voce Rocco. La donna puntava dritto verso di lui, non c’erano dubbi. Gli occhifermi e il passo deciso. La speranza che una stortaimprovvisa potesse fermarla svanì quando ilvicequestore notò che Nora portava scarpe daginnastica. Restava un fulmine. Ma anche lì pochesperanze, il cielo era sereno. Nora raggiunse il tavolo.Muta afferrò una sedia e si sedette di fronte a Rocco

senza mai staccare gli occhi da quelli di lui.«Prendi qualcosa?» disse Rocco con un filo di voce.«Anna? Proprio con lei?» ruggì la donna.«Chi te l’ha detto?».«Aosta è una città molto piccola».«Ti hanno informata male».

 Nora strizzò gli occhi. «Dici?».

«Dico».«Il panettiere mio e di Anna che ha il negozio difronte a casa sua, mi ha detto che ti ha visto uscire allesei e qualcosa come un ladro. Ti basta?».

Perché mentire? Perché cominciare a cercare scusearrampicandosi su uno specchio? Tanto Nora prima o

 poi sarebbe venuta a saperlo. Forse gliel’avrebbe detto

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lui stesso.«Va bene, Nora. Anna».«La mia amica...» ma lo disse più a se stessa che a

Rocco.«Insomma, amica...».«Su questo hai ragione. In fondo ti ringrazio. Con

una mossa hai chiarito due cose. Che il nostro rapportoè al capolinea e che definire amicizia quella che ho conAnna è quantomeno azzardato».

«Direi di sì».«Infatti non so se essere più incazzata con te o con

lei. Cosa fa più male? Il tradimento di un amore o diun’amicizia?».

«Me lo stai chiedendo?».«No, ragiono ad alta voce. Ma in fondo io e te non

avevamo ’sto grande amore».

Rocco respirò profondo. Guardò Nora negli occhi.«Mi sa di no».«L’hai fatto per sfregio o per vendicarti?».«Vendicarmi? E di cosa?».«Pensavi che io e l’architetto...».«Lascia perdere, Nora. Nessuna vendetta. L’ho fatto

 perché ne avevo voglia e mi sono ritrovato a letto con

lei. Più o meno le stesse ragioni che hanno convinto latua amica. Niente di più di questo».«C’era un modo meno squallido per chiudere questa

cosa?» chiese Nora e stavolta aveva gli occhi dolci,grandi e deboli.

C’era riuscita a farlo sentire una merda.«Forse sì, Nora. Una volta forse avrei saputo fare di

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meglio. Una volta, appunto. Ma parliamo di un’era fa».«Stento a crederlo» una lacrima che premeva da un

 po’ le scivolò lungo la guancia e Nora se l’asciugò con

uno scatto nervoso.Perché si ostinavano a trascinarlo nella vita per i

capelli? Perché non lo lasciavano vivere male questisuoi anni prima della vecchiaia da solo, nel vuoto ches’era creato intorno e che nulla avrebbe più potutoriempire? Questo si chiedeva guardando gli occhi di

 Nora, la cui unica colpa era quella di avergliattraversato la strada.

«Vedi Rocco? Lo so, tu con me sei stato sempremolto chiaro. Non mi hai mai lasciato molte illusioni,anche se ci speravo. Non me ne puoi fare una colpa,no? Passavano i giorni e mi dicevo: abbi pazienza,

 Nora. È un rapporto che si regge su un velo di cipolla.

Mettici un peso, anche piccolo, e quello cede. Si spaccatutto. E allora aspettavo. Cos’è, vietato? Solo oggi peròseduta di fronte a te a questo tavolino mi chiedo: cosaaspettavo? Cosa puoi tirare fuori tu dal cilindromagico? Cosa potrebbe avere un uomo come te dacostringere una come me ad aspettare? Niente. A parteil letto non abbiamo altro in comune. Ora starò un po’

male, per un po’ mi chiuderò in casa, per un po’ mi piangerò addosso. Poi uscirò, andrò dal parrucchiere,magari anche un vestito nuovo e ricomincio a vivere.Possibilmente senza te nella testa. Una sola cosa: c’èsperanza che tu faccia un’ennesima cazzata e titrasferiscano, che so, nella Barbagia?».

Rocco ci pensò su seriamente. «Sì. Quella speranza

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c’è sempre».«Sarà un bel giorno». E finalmente Nora sorrise. «Lo

finisci?» disse a Rocco afferrando lo spritz ghiacciato.

Rocco non ebbe il tempo di rispondere. Il miscuglio diaperol, prosecco e acqua tonica gli era già arrivato sullagiacca mentre due cubetti di ghiaccio si eranointrufolati nella camicia.

«Buona giornata!» esclamò Nora sorridente e con il passo della vincitrice lasciò il tavolino e il bar di piazzaChanoux.

Rocco si alzò in piedi. Liberò la camicia dai pantaloni e fece cadere i cubetti a terra. Due tavolini più in là l’unico avventore lo guardava senzaespressione. Si limitò a sorridere, poi tornò a leggere ilsuo quotidiano. Ma si sa, niente è più ridicolo delledisgrazie altrui.

Ettore era già fuori. «Gliene porto un altro, dottore?».«Lascia perdere, Ettore. Devo tornare in ufficio.Buon pranzo!».

 Nessuna sorpresa in fondo. Tutto era andato comedoveva andare. Tutto previsto. Tutto scontato. Però daqualche parte qualcosa sanguinava. Sperava solo chefosse una ferita lieve e leggera e che se doveva lasciare

una cicatrice che fosse piccola, quasi invisibile.

Appena entrato in questura, Deruta gli andò incontrocarico come sempre di carte misteriose.

«Dottore? Dottore, senta...» poi si bloccò. Si mise aodorare come un cane da punta.

«Cazzo vuoi Deruta? Non è giornata».

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«Che è successo? Lei puzza di caramella».«Mi si è sciolto un pacchetto di charms in tasca».«Ma è tutto bagnato!».

«Hai un certo spirito di osservazione. Dovresti provare in polizia. Ora, c’è qualcosa di urgente che mivolevi dire o mi devi solo spaccare le palle in mezzo alcorridoio?».

«Sì. A proposito di quei due morti sulla statale perSaint-Vincent. Ha chiamato Pierron. Le deve parlarecon urgenza».

«Dov’è ora?».«Pausa pranzo».Rocco annuì ed entrò spedito in ufficio.

Aprì la rubrica cercando un numero di telefono. Locompose.

«Brondo?» la voce intasata di Caterina Rispolirispose al terzo squillo.«Caterì, sono Schiavone».«Buoggiorno dodddore».«Come va? Hai una molletta dei panni sul naso?».«Gi ho trentotto di febbre...».«Bene. Mi passi Italo?».

Ci fu una pausa. Poco dopo la voce dell’agentePierron risuonò nel telefono.«Sì?».«Ti consiglio di disinfettare prima il microfono sennò

ti becchi l’influenza pure tu».«Stia tranquillo, ho fatto il vaccino io».«Come vuoi. Allora, mi cercavi?».

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«Sì... come ha fatto a capire che ero... vabbè...riguarda l’altro dell’incidente. Viorelo Midea. Si sasolo che era residente a Barlad, in Romania. Ma qui

nessun indirizzo. Che facciamo?».«Manderemo una lettera all’ambasciata, scriveremo

ai familiari, che cazzo ne so? C’è altro?».«Sì. Ho scoperto dove lavorava».«E dove, di grazia?».«Alla pizzeria Posillipo. Io la conosco. Non è lontana

dalla questura».«Dobbiamo andarci».«Ora?».«No, con comodo, aspetta, guardo l’agenda. Per il 13

luglio sei libero?» e chiuse la comunicazione.

Chiara faceva fatica a respirare. Ogni volta che

inalava, il sacco che aveva in faccia le si incollavaaddosso. Le guance e la fronte ricoperte di sudore, lelacrime appiccicose come carta moschicida. Non simuoveva da ore. Le tempie continuavano a martellare ilcranio regolari e impietose.

Aveva urlato fino a farsi andare via la voce. Manessuno aveva risposto, nessuno era entrato nella

stanza. Attraverso la stoffa vedeva bene quel murogrigio con le mensole piene di vecchie cose. Buste di plastica, pennelli incatramati, lame coi dentiarrugginiti. Doveva essere un garage o un depositoabbandonato.

Cominciava a ricordare.La sera prima.

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Era uscita con Max, il suo fidanzato, e Giovanna.Alberto, il cugino di Max, li avrebbe raggiunti daTorino. L’appuntamento era al pub alle sette. Da lì

sarebbero andati allo Sphere, sulla strada per Cervinia.Chiara non ne aveva voglia, lei se ne sarebbe statavolentieri sola con Max, ma Giovanna era pazza diAlberto. E per tutto il giorno le aveva chiesto in sedicilingue di passare la serata insieme. «Almeno» dicevaGiovanna sorridendo «se mi dà buca non sono sola e

 piango con te». Ma dare buca a Giovanna non era unacosa possibile. Lo sapevano Chiara, Max e mezzaAosta. L’unica a ignorarlo era proprio Giovanna. Unmetro e settanta, bruna e coi capelli lisci, non riccicome quelli di Chiara che per sbrogliarli ogni mattinaimpiegava come minimo un quarto d’ora. Se poi aicapelli lisci ci aggiungevi gli occhi verdi e un corpo che

faceva sbrodolare tutto il liceo, proprio non si capiva dadove nascesse quell’insicurezza. Giovanna era così.Sonia, Paola, Giovanna, le più belle della scuola eranole più insicure. Lei no. Chiara era forte. Aveva unafamiglia alle spalle, un padre e una madre che levolevano bene e che soprattutto ad Aosta qualcosacontavano. Chiara Berguet era un capo. Lo sapeva, le

amiche pendevano dalle sue labbra. E gli occhi piccolie i capelli ricci non le avevano impedito di fare stragi dicuori. Al liceo erano tutti pazzi di lei, e non c’eraun’occupazione, una gita o una semplice sciata che non

 passasse dal secondo banco terza fila della quinta B.Alberto era arrivato. Bello, ventiduenne, col suo

giubbotto di pelle e il capello liscio e nero. Sbavava

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dietro a Giovanna, anche un cieco se ne sarebbeaccorto. Dopo tre birre e un paio di aperitivi eranoandati allo Sphere. A ballare e a continuare a bere come

idioti.Poi...Cos’è successo? Quanto cazzo ho bevuto? Almeno

tre gin tonic. La mia faccia davanti allo specchio del bagno. Vomito. Ma vomito parecchio. Giovanna che parla con Alberto sotto la stroboscopica. Max chechiacchiera con due tamarri sui trenta. Chi sono? Ilfumo della sigaretta sale verso il cielo nero di notte,freddo e senza stelle. Sono fuori dalla discoteca. Fumouna sigaretta e gira tutto. Max mi riaccompagna a casa.Le chiavi nella toppa. Buio. Che ho fatto dopo? Chiaracerca di ricordare! Cerca di ricordare. Niente. Dolore.Solo dolore.

Al mal di testa si andava aggiungendo un altrodisturbo. In mezzo alle gambe.Cos’è? Un serpente? Un serpente velenoso che fa su

e giù? Un serpente con la pelle infuocata? Levatemiquesto sacco dalla testa. Liberatemi le mani! Devotoccarmi, grattarmi, afferrare il serpente. Brucia.

La pizzeria Posillipo faceva solo orario serale.Quando Rocco insieme ad Italo bussò alla porta a vetri piena di adesivi di carte di credito, dall’oscuritàdell’interno prese forma un uomo con una panciaenorme. Conquistò subito un nome nel bestiarioimmaginario di Rocco, che spesso si divertiva a trovaresomiglianze e affinità fisiche tra uomini e animali.

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Davanti a lui c’era una Fratercula arctica, anche detta pulcinella di mare. Naso grosso piazzato in mezzo allafaccia, la bocca minuta quasi scomparsa nelle

guanciotte e gli occhi piccoli e distanti. Le sopraccigliainarcate verso l’alto gli davano l’espressione di unquestuante. A differenza dell’uccello dei mari del nord,l’uomo aveva una barbetta rada che gli solleticava ilmento.

«Salve!» disse aprendo. «Siamo chiusi a pranzo» e siasciugò le mani su un grembiule che portava allacciatoin vita.

«Schiavone, questura di Aosta. Possiamo farci duechiacchiere?».

«E certamente. Prego prego, accomodatevi» disse efece spazio ai due poliziotti. «Vi posso offrire niente?».

L’accento napoletano sembrava più un vestito per i

valdostani che una cadenza originale.«Niente, grazie».«E allora permettete un caffè?».«Grazie».«Prego, assettatevi che torno subito. Non sentite un

odore dolciastro, tipo di caramelle?».Rocco e Italo si guardarono. Fu Italo a rispondere:

«Al vicequestore si sono sciolte delle caramelle intasca».«Ah» fece l’uomo e sparì dietro una porta a doppia

anta che dava presumibilmente nella cucina.Rocco e Italo si assettarono al centro della sala.«Che poi Rocco, fattelo dire. Più che charms

sembrano caramelle al miele. Strano, lo spritz che

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c’entra col miele?».«Stai facendo dell’ironia?».«No».

«Tu stai facendo dell’ironia. E non è una cosa buona per te».

«Ti giuro che non stavo facendo dell’ironia».«E allora togliti quel sorrisetto da deficiente dalla

faccia».La pizzeria, arredata da qualche architetto costoso in

stile costiera amalfitana, perdeva la sua eleganza graziealle centinaia di foto e manifesti di Napoli che ilgestore aveva attaccato ovunque, di sicuro senzal’accordo coi progettisti del locale. Il solito Vesuvio,Pulcinella che mangia gli spaghetti, Totò un po’ovunque e soprattutto la maglia del Napoli campionato1989-90.

«A proposito di rapporti con l’altro sesso, mica saraiandato a scoparti Caterina con la febbre?».«Macché, no. Le ho portato il brodo».«Ci credo poco».«Poverina, sta proprio male. L’ultima cosa che le

verrebbe in mente è fare l’amore».«A lei, magari, ma a te no».

«Ecco qui, due caffè come li fanno al Gambrinus a piazza Trieste e Trento» e il pulcinella di mare poggiòla guantiera coi caffè sul tavolo. Mentre Italozuccherava il suo, Rocco guardò l’uomo: «Io sono ilvicequestore Schiavone. Posso sapere lei come sichiama?».

«Domenico Cuntrera. Detto Mimmo!».

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«Mimmo, è suo ’sto posto?».Quello se lo guardò soddisfatto: «Diciamo di sì».«Diciamo?».

«Sì, è mio e di un altro amico mio che però ha soloaiutato con un po’ di soldi all’inizio. Ma dentro incucina e ai tavoli c’è solo Domenico Cuntrera dettoMimmo». E si batté il petto. «Allora, che posso fa pervoi?».

«Di dov’è lei? E non dica Napoli perché lei non ènapoletano».

L’uomo sorrise. Si grattò il naso. «Siete perspicace».«È il mio lavoro».«Sono di giù, Soverato. Mai stato?».«No. Immagino renda di più fingere di essere

napoletano».«Un po’ sì. Però una cosa è vera: io tifo Napoli da

quando ero guaglione».«E chissenefrega?».Rocco bevve solo metà tazzina, poi la posò

guardando Domenico negli occhi:«Viorelo Midea».«Che ha combinato?».«Lavora qui?».

«Sì, certo, tre volte a settimana sta ai tavoli. Chefice?» l’uomo aveva abbandonato l’accento partenopeo.«È morto».Domenico sgranò gli occhi. «È... è morto? E come?».«Incidente» precisò Italo finendo il caffè.

«Stamattina presto».«Ma se manco teniva a patente!».

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«Alla guida c’era un altro. Tale Carlo Figus.Conosce?».

«Carlo Figus, Carlo Figus? No, mai sentito. E

dove?».«Sulla strada per Saint-Vincent».«E che erano andati a u casinò?».«Non lo sappiamo dove erano andati. Ma avevano

una targa rubata».Rocco si accese una sigaretta.«Veramente cca... un si potrebbe fumare» ma il

vicequestore non ascoltò il padrone della pizzeria.«Da quanto tempo lavorava qui?».«È ’n anno. Mannaja... mi dispiace».«Lo immagino. Che ci sa dire di lui?».«Poco o niente. Saccio che abitava qui vicino, a via

Voison. Abitava con autri».

«Era sposato? Aveva figli? Parenti?».«No, sposato no e manco figli. Qualche parente sì, perché tutti i soldi che guadagnava li mandava a casa».

«Mi dia l’indirizzo preciso».«Via Voison... ai palazzi grigi. Il numero non me lo

ricordo, ma è l’unico che tiene le tapparelle gialle.Abitava lì al secondo piano. Co uno. Mi pare un

marocchino. Ma non so come si chiama. Ahmidqualcosa. Si chiamano tutti Ahmid. Però vi dico chenon so se stava ancora lì. Quello Viorelo cambiavasempre casa. Per due mesi l’ho pure ospitato in uncamper che tengo in un garage».

«Una vita di merda» disse Rocco.«E sì. Proprio così. Una vita ’e merda».

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 «Ma almeno la pizza la fanno buona oppure è finta

come Domenico e come il caffè?» chiese Rocco appena

rientrati in macchina.«Non è male».«Che poi lo vado a chiedere a uno della Val

d’Aosta... che ne sai tu di pizze? A guardare il locale equesto suv qui fuori gli affari mica gli vanno male».

«Non ti so dire. Quando vengo io è sempre mezzovuoto».

«Vincerà al casinò».«Dove andiamo?». Italo troncò l’inutile discussione.«Ufficio. Io devo ancora mangiare».«A quest’ora massimo qualche panino al bar». E Italo

ingranò la marcia.«Ecco, se c’è una cosa che mi manca sono i

tramezzini. Questa è la giornata perfetta per untramezzino. Ma dovremmo essere a Roma per avere untramezzino».

Oddio no, pensò Italo. A cadenza bisettimanaledoveva sorbirsi la solita cantata di Rocco Schiavone pernostalgia e voce.

«I tramezzini sono una cosa seria, Italo. Non si

scherza col tramezzino. Pane bianco, rigorosamente bianco. Sono ammessi tonno, carciofini, pomodori,insalata di pollo, spinaci e mozzarella. Personalmentenon amo gamberetti e formaggi e men che meno il

 prosciutto. Secondo me il tramezzino al prosciutto passa di diritto fra i toast. E la maionese deve esserefatta in casa, leggera e giallo chiaro. Ma soprattutto il

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tramezzino, e questo ficcatelo bene in testa una volta per tutte Italo, il tramezzino deve essere tenuto infresco sotto i tovaglioli umidi. Se entri in un bar e li

trovi avvolti nel cellophane scappa via! Non sonotramezzini. Sono cadaveri, roba in putrefazione! Iltramezzino deve riposare sotto il cotone umido.Articolo 3 della Costituzione».

«Articolo terzo della Costituzione? Ma che dici?».«Costituzione romana. Vuoi che ti reciti i primi due?

Il primo dice: non andare in giro a rompere i coglioni.Il secondo: mai fare in macchina il Lungotevere disabato sera. E il terzo: il tramezzino riposa sotto iltovagliolo umido».

«L’hai scritta tu?».

L’africano si chiamava Zersenay Behrane. Zersenay

e non Ahmid. E non era marocchino, era eritreo. La palazzina non era a via Voison e l’unica cosa giustaerano le tapparelle gialle. Zersenay parlava un ottimoitaliano e divideva la casa con altri due eritrei. MaViorelo Midea non lo vedeva da mesi, non sapeva dovefosse finito, dove abitasse. L’unica cosa che Rocco eItalo rimediarono fu un meraviglioso tsebhi, il famoso

stufato di manzo e pollo con le lenticchie e pane di teff .Lo mangiarono dal piatto in comune con gli altriinquilini. Per ricambiare l’ospitalità Rocco avevaspedito Italo a prendere sei belle bottiglie di birrafresche. Quando uscirono dalla casa con le tapparellegialle avevano lo stomaco pieno e la testa che girava un

 po’.

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«Non trovi meraviglioso che in mezzo alle Alpiabbiamo mangiato come in Eritrea?».

«Vero, Italo. È meraviglioso».

«Solo che io non lo so dov’è l’Eritrea».«Sopra l’Etiopia e sotto il Sudan».«C’entra qualcosa Sharm el Sheik?».«Ma vatti a guardare un mappamondo».

«L’abbiamo combinata grossa».«Già» le rispose Rocco.«Provo a chiamare Nora da stamattina ma è sempre

staccato. Se c’è una cosa che mi dispiace è averrovinato l’amicizia con lei per una merda come te».

«Me lo fai un favore, Anna?» disse Rocco.«Chiamami ogni giorno, che questi tuoi complimentiaiutano l’autostima».

«Credo che io e te non ci vedremo mai più».«Va bene, anche se Aosta non è enorme. Puòcapitare. Abitiamo pure vicini».

«Ti giuro che mi volterò dall’altra parte e cambieròmarciapiede».

«Basta che stai attenta quando attraversi la strada. Non vorrei averti sulla coscienza».

«Vaffanculo Rocco».E Anna chiuse la comunicazione.Bussarono alla porta.«Chi scassa?» gridò. Non rispose nessuno.

Capacissimo che era D’Intino. Si alzò e andò ad aprire.L’agente abruzzese era di fronte alla porta ad aspettare.«D’Intino, allora non t’entra in testa? Io dico chi è e tu

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devi rispondere. Si fa così quando si bussa».«Dotto’, c’è questo». E consegnò un pacco a Rocco.«Che è?».

D’Intino avvicinò il naso alla giacca delvicequestore. «Dotto’, sento una puzza dolciastra. Checos’è?».

«Fatti i cazzi tuoi. Allora?».«Gli oggetti personali di Viorelo Midea. C’è un

orologio, un cellulare vecchio e un mazzo di chiavi.Che ci dobbiamo fare?».

Rocco voltò la schiena e andò alla scrivania.«Pierron!» gridò.

D’Intino si guardò intorno. «È di là...» rispose.«Pierron!» urlò ancora più forte Rocco.«Eccolo!» si udì dal fondo del corridoio. Italo scansò

D’Intino ed entrò nell’ufficio. «D’Intino, ma perché te

ne stai sulla porta? O entri o esci!» disse all’agente. Poisi rivolse a Rocco: «Dica, dottore. Che c’è?».«Questo è il cellulare di Viorelo Midea. Sarebbe

mica male capire che numeri faceva. Contatti eccetera.Queste chiavi invece sembrano proprio di una casa».

«Va a scoprire quale».Gli occhi di Schiavone si illuminarono. «D’Intino,

chiamami Deruta e subito a rapporto da me!».D’Intino scattò.«Cos’hai in mente?» chiese Italo a Rocco.«Ora lo vedi».

 Neanche due minuti e Deruta e D’Intino erano difronte al vicequestore, quasi sull’attenti, pronti per laconsegna. «Allora amici, agenti, partner» cominciò

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Rocco. «Sapete che purtroppo l’ispettore capo Rispoli èmalata».

«Sì, ha la febbre» precisò D’Intino con una nota di

soddisfazione nella voce. I fratelli De Rege detestavanoil viceispettore Rispoli.

«Bravo. Io ho una missione che avrei voluto affidarea lei, per le note capacità deduttive nonchémnemoniche. Ma non posso».

«E no, non può» aggiunse pleonasticamente Deruta.«Allora la missione la affido a voi. È cosa assai

difficile e anche molto, molto pericolosa».I due poliziotti erano attentissimi. Italo appoggiato

alla libreria si godeva la scena senza sapere dovevolesse andare a parare il vicequestore che in quelmomento alzò il mazzo di chiavi di Viorelo. «Levedete?».

«Chiavi!» disse D’Intino quasi ipnotizzato.«Bravo. Chiavi. Erano di Viorelo Midea. Ora io ho bisogno che voi scopriate quale porta aprono».

I due poliziotti si guardarono.«Come facciamo?».«Ve l’ho detto. È difficile, arduo, quasi impossibile.

Ma io vi do un punto di partenza. Segnate!».

Deruta si precipitò alla scrivania, afferrò un foglio,una penna e chino si preparò a prendere appunti.«Tu, D’Intino, non segni?».«Io mi ricordo tutto nella testa».«Sarà...» sbuffò dubbioso Rocco lanciando

un’occhiata a Italo. «Allora partite da una casa a viaKaolak... ai palazzi grigi. I primi che trovate venendo

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da qui, con tapparelle gialle. Viorelo abitava lì alsecondo piano fino a quattro mesi fa. Voi cominciate achiedere al vicinato».

«Ma non possiamo andare a chiedere agli abitantidella casa dove stava questo Viorelo?».

«No. Anzi se vengo a sapere che siete andati adisturbare i miei amici eritrei vi mando a Perdasdefogu.Chiaro?».

«Limpido» fece Deruta.«Dov’è?» chiese D’Intino a Deruta che rispose:

«Lontano...».«Allora voi andate e investigate. Senza dare

nell’occhio, senza farvi notare, provate le serrature.Provate, provate, provate e provate e alla fine portatemil’abitazione di Viorelo!».

D’Intino sgranò gli occhi: «Come, portatemi?».

Deruta si imbestialì: «E mannaggia alla sventrata,D’Intino! Portatemi è un modo di dire, mica che devismontare la casa! Lo scusi, vicequestore». Poiscuotendo la testa finì di scrivere l’appunto.

«Cominciate da subito. La cosa è lunga e difficile.Posso contare su di voi?».

Deruta lo guardò serio: «Certo, dottore. Tanto ’sta

settimana non devo neanche fare i turni al panificio dimia moglie».«Bravo, Deruta».«Dobbiamo sempre rendere conto a Rispoli?» chiese

 per ultima cosa Deruta un po’ scocciato.«No» disse il vicequestore. «Stavolta direttamente a

me!».

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Deruta gonfiò il petto d’orgoglio, D’Intino sorrisecon gli occhi lucidi. Presero le chiavi e salutandouscirono dall’ufficio.

«Secondo me ce la possono anche fare» commentòItalo.

«Capace. Una cosa è certa. Se ne stanno in giro eavremo un po’ di pace». E subito il telefono squillò.«Ecco appunto». Rocco alzò la cornetta. «Schiavone».

«Sono il questore!».Era Costa.«Mi racconta cos’è ’sta storia dell’incidente e del

furgone rubato?».«Non il furgone, la targa è rubata. Ma sembra una

sciocchezza. Ora le mando su l’incarto...» e fece ungesto a Italo che alzò gli occhi al cielo «... così se loguarda per bene. Mi scusi ma devo correre a Frang...

sgheri a brillare un diodo di sicurezza».«Non ho capito».«Mi aspettano proprio al basamento della

calcestruzzi dove hanno ritrovato il furgone».«Boh, non ho capito. Comunque vada pure. E mi

tenga informato. Ah, Schiavone!».«Dica».

«Bell’acchiappo. Complimenti».«A chi si riferisce?».«Lo sa lei e lo so io. Gran bella femmina. Mi stia

 bene».«Mi tolga una curiosità. Anche lei va dallo stesso

 panettiere?».«Exactly!» e Andrea Costa abbassò la cornetta.

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«E io che credevo che ad Aosta la gente si facessefondamentalmente i cazzi propri».

«Errato. Uno dei tanti cliché di voi terroni su noi del

 Nord. E comunque grazie per la fregatura con ilquestore».

«No, il rapportino lo fai fare a Casella. Tu adesso porti il cellulare di Viorelo a qualcuno alla postale e glifai tirare giù tutti i numeri di telefono».

«Va bene. Ottimo. Una cosa. Ma perché ci stiamoattaccando a questi due poveracci?».

«La targa, amico mio. La targa rubata. Uno non se neva in giro per Aosta con una targa rubata solo perandarsi a fare una scopata dalle parti di Saint-Vincent».

«Una scopata?».«Poi ti spiego. Vedila così: perché uno va in giro con

una targa rubata ma con il furgone di sua proprietà?

Perché ha paura di un posto di blocco? Non credo. Seviene fermato, avrebbe chiuso. No, ha paura diimmagini prese da telecamere a circuito chiuso.Perché? Che deve fare? Sicuramente qualcosa di storto.Mi segui?».

«Certo».«Una rapina, un furto...».

«O magari ha solo paura degli autovelox».«E rischia di andare in galera per una multa da 200euro?».

Via Chateland 92, la residenza di Carlo Figus era una palazzina di cinque piani costruita all’inizio degli anni’80 e dimenticata da allora. Saltavano agli occhi linee

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nere orizzontali all’altezza di ogni piano che si univanoad altre verticali che invece scendevano dal tetto edavano la sensazione di essere vecchi rami di edere

spolpati dall’inverno e dall’incuria. Ma a ben guardareerano crepe, alcune molto profonde, che s’erano portatevia pezzi di intonaco. Carlo Figus abitava al secondo

 piano. Quando Rocco e Italo bussarono venne ad aprireuna donna sulla sedia a rotelle. La madre di Carlo. Ilviso grigio e i capelli gialli con la ricrescita alle radici.Portava degli occhiali da vista viola e un vecchiocardigan con la faccia di Topolino cucita sul cuore.Aveva le mani bianche e piccole, e guardava i poliziotticon gli occhi spenti ed enormi dietro le spesse lenti damiope. «Ci scusi signora... siamo della questura...

 possiamo?» disse Rocco.La signora fece sì con la testa senza aggiungere una

 parola e con un’abile marcia indietro della carrozzellafece passare Rocco e Italo. Ma più che andare avanti di50 centimetri non si poteva. La casa era piena di roba.Giornali, buste con vestiti, cuscini, un immondezzaioriempiva le stanze fin quasi al soffitto. I mobili, sec’erano, erano sommersi da quella valanga di oggettiche sembrava poter ingoiare gli inquilini da un

momento all’altro. C’era solo un sentiero, per passarein mezzo alla trincea di roba accumulata, che servivaalla signora per muoversi con la sua carrozzina. Ladonna andò avanti e con un gesto invitò i poliziotti aseguirla. Italo e Rocco camminavano sul passaggioaperto nella discarica guardandosi intorno, nonriuscivano a pensare a nulla. Non avevano mai visto

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una cosa simile, e sì che a cose assurde i poliziottierano abituati. C’era persino un pezzo di un manichino,spuntavano la testa e le braccia. Sembrava un naufrago

 boccheggiante prima di essere ingoiato da quel mare divecchi scarti. Vetri smerigliati, qualche libro, un pc, untamburo, dei soldatini, e carte, un’infinità di carte e diquotidiani.

Il corridoio portava in salone. Lì la roba siammucchiava a ridosso dei muri lasciando al centrouno spazio di un paio di metri quadrati dov’eranosistemate due poltroncine di velluto verde, un vecchiotelevisore appoggiato a quella che una volta dovevaessere una libreria e un piccolo tavolino con duetazzine e una zuccheriera. Intorno era un delirio di robache copriva perfino l’unica finestra della stanza:giornali, plastiche, un materassino sgonfio, un pezzo di

un dondolo, vasi, ciotole, tubi, un appendiabiti, piatti,una lavagna. La puzza di muffa, funghi e terra bagnataappestava la casa. Italo già impallidiva. Rocco invece sisedette sulla poltroncina.

«Volete un caffè?» furono le prime parole dette dalladonna. Aveva una voce sottile.

«No, signora, grazie. Immagino lei sappia perché

siamo qui».La donna annuì. «È tornato mio padre neancheun’ora fa. Ora è di là che dorme. Devo svegliarlo?».

«Assolutamente no».«Chi paga?» chiese all’improvviso la donna

guardando i due poliziotti.«Chi paga cosa?».

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«Il funerale di Carlo mio. Chi lo paga?».Italo guardò Rocco. «Il Comune, signora. Vedrà che

riusciamo a fare le cose per bene. Vero, Italo?».

«Sì!» assentì l’agente.«Chi mi aiuta però?».Per rispondere a questa domanda bisognava avere la

verve di un deputato o la faccia come il culo di un baro.Rocco non era né l’uno né l’altro. Quindi non rispose.

«Qualcosa Carlo portava a casa quando lavorava. Luifaceva il muratore. Ma mica trovava sempre lavoro.Ogni tanto sì. Ogni tanto no. C’è la pensione?».

«C’è?» chiese Rocco guardando Italo.«Sì!» assentì nuovamente l’agente.«Io ho la pensione sociale. La mia e quella di papà. E

insieme arriviamo a 800 euro. Ma la casa, le bollette. Ame e papà poi ci servono le medicine. Non è che io

 posso andare avanti senza medicine. Guardate». E sitirò su la copertina che copriva le gambe. Meglio, i duemonconi che restavano delle sue gambe. «Io senzamedicine non ci posso stare».

«No, signora...» disse Rocco. «Ma adesso qualcosafaremo, vero?».

«Sì». Italo ormai s’era incantato e si esprimeva solo

con linguaggio olofrastico. Toccava a Rocco portareavanti la cosa. Dal suo agente che se ne stava ritto in piedi con gli occhi sgranati non poteva più venirenessun tipo di aiuto.

La donna si ricoprì e rimase a guardarsi il grembo.«Le mie gambe. Una volta erano belle. Volete vedere?»e senza aspettare risposta girò la carrozzella e la spinse

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verso una catasta di tende, vecchie lenzuola e sportellidi comodino. Si sporse in avanti e cominciò adarmeggiare in quel mucchio di roba alla ricerca di

qualcosa.«Ma guardi signora, va bene, non si preoccupi, ci

fidiamo!» disse Rocco.«Sì» fece Italo.«Ci crediamo. Parliamo di Carlo per piacere».«Ce l’ho qui da qualche parte» e senza aspettare

sgusciò via dal salone. Rocco guardò Italo. «Ti staisentendo male?».

«Sì».«Vuoi uscire?».«Sì».«E allora vai. Aspettami giù. Ci vediamo fra dieci

minuti».

«Sì» disse Italo. Poi senza cambiare espressione fecedietro front e puntò dritto verso il corridoio e la portad’ingresso. Un rumore assordante provenne da un’altrastanza. Quindi silenzio.

«Tutto bene, signora?» gridò Rocco. Ma non ci furisposta.

Poi Rocco sentì la porta di casa chiudersi, segno che

Italo era ancora vivo e aveva ritrovato l’uscita, efinalmente la madre di Carlo tornò in salone. A manivuote. «Non le trovo più. Erano le mie foto del liceo.

 Non le trovo più».«Non si preoccupi. Sta bene. Sta bene così».La donna scoppiò a piangere. Divenne rossa e si

nascose la faccia con le mani. «Perché?» chiedeva

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singhiozzando. «Perché?».Ma Rocco non sapeva a cosa si riferisse. Se a Carlo,

se alla sua vita, alla malattia, o solo al fatto che non

trovava più le fotografie. O forse a tutt’e tre le coseinsieme.

«Prima dovevo morire io e poi Carlo. È così. Così èla vita. I figli devono morire dopo i genitori. E invece?Io sono ancora viva. Perché sono viva? Mio papà è vivoe mio figlio no?».

Al vicequestore venne voglia di accendersi unasigaretta, ma ci rinunciò. Una scintilla lì dentro e

 poteva scoppiare un incendio di dimensioni bibliche.«Mi piaceva tanto Elisa. Era una brava figlia. E

l’amava a Carlo. Poi se n’è andata. E Carlo a un’altranon l’ha trovata più. Lei è sposato?».

«Ero».

«È sbagliato lasciarsi. Insieme uno si aiuta. Cosìinvece, da soli. Non è un mondo fatto per stare da soli,lo sa? Lei deve tornare da sua moglie».

Rocco annuì.«Mi cacceranno da casa, vero? Ci cacceranno a me e

mio padre» disse ancora la donna.«Perché?».

«Chi me li dà i soldi per l’affitto ora? Chi paga le bollette? E quando Adelmo morirà? Come faccio?Come? Guardi, ho solo questi!» e dalla tasca delcardigan tirò fuori dei bigliettini gualciti. «Solo questi».

«Cosa sono?».«Buoni... della pizzeria di Mimmo. Che manco ci

 posso arrivare in sedia a rotelle».

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Rocco si guardò intorno. Non sapeva come andavanole cose in questi casi. Forse l’avrebbero ospitata in unastruttura pubblica? Con assistenza sanitaria? Queste

domande non se l’era mai poste.«Carlo almeno 800 al mese li raggranellava, sa?» si

stava pulendo gli occhi e il naso con un fazzolettogualcito che teneva nella manica del cardigan mangiatodalle tarme. «Era bravo Carlo. Faceva il pittore e necapiva pure di idraulica. Vuole vedere la sua stanza?».

«No, signora. No». Rocco si alzò. «Ora io devoandare, ma le giuro che farò presente la sua situazione achi di dovere. Glielo prometto».

«Se ne va già?».«Devo andare a lavorare».«Mi torna a trovare?».«Sì» le promise. Che altro poteva fare?

«Magari se mi chiama prima, metto un po’ inordine».Rocco sorrise. Allungò la mano per salutare la donna

che invece inopinatamente avvicinò la testa al palmodel vicequestore. Rocco prese un respiro e la carezzòsui capelli. Lei lo guardò con gli occhi ancora umidi di

 pianto e gli prese la mano portandosela alla guancia.

«Arrivederci, signore».«Arrivederci, signora Figus».«Io sono la signora Rosset. Figus era mio marito».«Arrivederci, signora Rosset».La donna lasciò la presa. Rocco si girò e

attraversando la montagna di rifiuti ritrovò la porta dicasa.

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 Il serpente si era trasformato in un miliardo di

formiche e Chiara le sentiva camminare e mordere

dappertutto.Formiche nere, rosse, con le mandibole enormi a

tenaglia che mi mangiano la pelle. Ce le ho dentro.Vanno su e giù, corrono, corrono con i fiammiferistretti fra le zampe, bruciano e mordono. Acqua. Vogliol’acqua. Ho bisogno d’acqua. Ingoio... saliva e polvere.Ma non devo vomitare. Se vomito con la faccia nelsacco è la fine. Che devo fare? Mi fa male... mi famale! Puzza. Il sacco puzza di fango, muffa, e saliva. Èla mia. Saliva vecchia. Per favore, per favore, le mani.Mi devo grattare, mi devo togliere il sacco, devorespirare. Mi fa male dentro. Quelle formiche delcazzo, levatemele! Levatemele! Voglio ghiaccio. Tanto

ghiaccio sulla patata. Mi passerebbe tutto. Voglioalzarmi, correre, correre via. Tuffarmi in mare.Sott’acqua. A fare le bolle. Nell’acqua fredda cheaccarezza tutto e fa passare il dolore. Sono sott’acqua afare le bolle. Mi manca l’aria. Mi manca l’aria. Tornoin superficie. Soffoco. Devo togliermi il sacco dallatesta. Ora!

Scosse il capo tre, quattro volte. Ma non c’era nienteda fare. Il cappuccio non si sfilava. Ad ogni movimento brusco, le sembrava che il cervello sbattesse comemarmellata contro le pareti del cranio.

Ricominciò a piangere.Perché? Perché sto qui? Che mi è successo? Che ho

fatto io?

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Piangeva e parlava. E più parlava, più si sentiva sola.E più si sentiva sola, più piangeva.

Come nonna nella bara. Con il fazzoletto sotto il

mento. Nonna, che hai? Mal di denti? Nonna... che nasogrande... e che orecchie grandi... ora ti chiudono dentro,nonna, e nessuno ti parla più. Nessuno ti accarezza più,e nessuno ti guarda e ti pensa più. Dove sei andata,nonna?

Era così morire? Non lo sapeva. Non si pensa aquelle cose a vent’anni.

Sono morta? No, non sono morta. Sento dolore edietro il sacco c’è un muro e sono legata. Sono viva emi fa male dappertutto, e mi brucia dappertutto. No,non sono morta.

 Ma morirai, le disse una voce nascosta. Una vocesorda e sottile, senza anima, senza sesso.

 Morirai qui, legata come un salame... Morirò. Morirò qui, da sola.Strinse le labbra per fermare le lacrime. Che non

erano più lacrime di disperazione o di nervi. Eranolacrime vere. E facevano più male. Perché scendevanoda sole silenziose, come un torrente.

Chiara muore, Chiara muore, disse ancora quella voce.

Sei giorni dopo sarebbe stato il suo compleanno.Diciannove anni.

Carlo Figus era un poveraccio. Viorelo Midea forseanche peggio. Nel furgone a parte qualche attrezzaturada lavoro non c’era niente di interessante. «Forse stosbagliando. Mi sono fissato con questa cosa della targa

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e avevi ragione tu, Italo».«Cioè? Paura di prendere una multa?».«Capace. Capace che era solo quello». Rocco si alzò

dalla scrivania e spense la sigaretta nel portacenere.«Vabbè, ci vediamo domani. Vai da Caterina?».

«Sì. La febbre le è un po’ scesa».«Allora torna al lavoro!» disse Rocco entusiasta.«Un po’ scesa, mica è guarita».Il vicequestore prese il loden. «Stammi bene, Italo».«Vengo con te». L’agente spense il lume da tavolo

che campava sulla scrivania«È permesso?» Scipioni s’era affacciato nella stanza.«Di’, Scipioni».«Non la volevo disturbare. Ma da sopra hanno

mandato questi!» e consegnò un foglio a Rocco.«Che roba è?».

«Sono i numeri del cellulare di Viorelo. Cioè, sonosolo gli ultimi tre numeri che ha fatto, sugli altridevono lavorarci. Il tipo li ha cancellati tutti».

«E la rubrica? Aveva numeri in rubrica?».«Solo una decina e tutti con il prefisso rumeno. Se gli

vuole dare un’occhiata».Rocco guardò i fogli. Poi li passò a Italo. «Ti

dispiace buttarmeli sulla scrivania? Ci penso domani».L’agente eseguì. «Grazie, Scipioni. Buona serata».«Altrettanto».

Il sole era tramontato in mezzo a una danza di nuvolerosa lasciando intendere che l’indomani sarebbe tornatoa splendere in tutta la sua potenza primaverile. La

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giornata volgeva al termine e l’unica cosa che Roccodesiderava era perdersi un po’ per Aosta prima ditornare a casa. Gli piaceva farlo ora che il tempo lo

 permetteva, girare un po’ senza meta, senza unimpegno preciso. Star lì solo a respirare l’aria, guardarele facce dei passanti, i cani al guinzaglio, fermarsi a

 prendere le sigarette al distributore automatico. Glivenne il desiderio di chiamare Seba a Roma e vedere sec’era qualcosa in ballo. Qualcosa di interessante che lofacesse rientrare di un po’ di soldi. Ma era troppostanco. Voleva solo guardare i palazzi, la porta romanae i volti della gente, il cielo che era diventato violetto,le montagne che per la prima volta da quando era adAosta sembravano sorridergli.

«Sei capace?» mi chiede Marina. Seduta sul divano.

 Ha la settimana enigmistica in grembo. Ora ha questanuova fissazione. Fa le parole crociate a schemalibero, quelle senza i neri per capirci. 

«No, non le so fare» le dico. Ed è vero. Al massimo so unire i puntini o annerire gli spazi. E leggere lebarzellette. 

«Facile da capire. Nove lettere». 

«Chiaro?». «Nove lettere!». «Limpido?». «Allora sei scemo» mi dice. «Nove lettere. Comincia

 per p e finisce per o». «Preciso, no, sono sette. Che palle Marì non lo so». «Be’, faccio gli orizzontali intanto. Non mangi?». 

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Che mangio? Il frigo è vuoto, fa l’eco. C’è unacarbonara surgelata. «C’è una carbonara surgelata». 

 Marina scuote la testa e intanto scrive. 

«Perspicuo» dice all’improvviso. «Cosa?». «Facile da capire era perspicuo. Questo me lo segno

anche sul bloc-notes. Bella parola».  Facile da capire. Cos’è che mi vuole dire? «Che stai

cercando di dirmi, Marina?». «Niente. Solo che è facile da capire». Sta a vedere che si riferisce a stanotte, che non sono

tornato a casa. Ma no, non può riferirsi a quello. Lei lo sa. Quella è roba bassina, buona per me, per chi stacon le piante dei piedi radicate nella terra e nei

 pavimenti, non fa parte dell’aria, delle cose che si staccano e vengono portate dal vento. 

 La padella frigge. Butto il contenuto della busta.S’alza il fumo. E si alza pure il profumo chimico dellacarbonara. Anche se questa roba giallastra sta allacarbonara come un trattore a una Ferrari. Io la so farela carbonara. «Ti ricordi, Marì?». 

«Come no...». «La prima sera. Ti ho detto che ero un mago a fare

la carbonara».  Marina ride. Dio quanti denti che ha. Ci si riflette laluce sopra e se guardo bene forse mi ci rifletto ancheio. Faceva schifo quella carbonara. «Te l’hai mangiata

 per pietà, vero?».  Ride e non risponde. L’ha sempre fatto. Quando

 Marina ride non c’è posto per altro. Solo per il riso. Ed

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è giusto. Secondo me quando si ride, si ride e basta. Èil solo momento di libertà che abbiamo, in fondo.Quando ridiamo. 

 Non c’è più. Non è più sul divano. Non è accanto ame mentre mangio la carbonara chimica, forse è aletto, forse è al bagno o forse più semplicemente èuscita. 

 E fa male.  Fa male l’assenza? No. Fa male la perdita. Che è

altro dall’assenza. La perdita sa cosa ha perso. L’assenza può essere un vago sentore, un’emozione senza corpo e senza suono di qualcosa che manca e chenon ho, ma che non so cos’è. La perdita, è quella che

 provo io, perché lo so. Ed è peggio dell’assenza. Perché quello che conoscevo e che tenevo fra le ditanon c’è più. Non sarà più. È la stessa differenza che c’è

 fra Ray Charles e Stevie Wonder. Stevie è cieco dallanascita, Ray c’è diventato. Ray sa cos’è vederci, Stevieno. Ray ha provato la perdita. Stevie l’assenza. Stevie

 sta meglio di Ray. Ci metto la mano sul fuoco. 

Da quanto non beveva? Il tempo aveva perso senso edirezione. Non c’era più luce nella stanza. Il mal di

testa era aumentato. E le formiche continuavano adandare su e giù. Ogni tanto sembravano fermarsi, ma poi riprendevano la gara.

A dolore si aggiungeva dolore. Si era abituata arespirare lentamente ma il corpo era diventato unamassa rigida trafitta da punture di spillo.

Devo dormire. Se dormo passa tutto. Se dormo non

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sento più le formiche, le tempie, il fuoco.La pipì. Ancora? Un’altra volta?Doveva farla. Da un po’ di tempo cercava di

trattenerla, ma ormai non poteva più.Come faccio? Fa troppo male. Vi prego, per favore,

venite a togliermi il sacco dalla testa. A farmi respirare.A darmi dell’acqua.

Sete e pipì insieme. Non le era mai capitato.Devo farla. Adesso. Forse così annego tutte quelle

formiche maledette. Forse spengo il fuoco. Sicuro, se lafaccio spengo il fuoco e le annego.

 Dai, falla, che ti importa? Fattela addosso, disse lavocina. È un attimo e passa tutto. 

Da seduta? Devo farla seduta? Mi sporco. Mi sporcotutta. Non ce la faccio. Non posso farmi la pipìaddosso.

Era un incubo che nei primi anni di vita l’avevaminacciata quasi ogni notte, si svegliava con il terroredi aver pisciato nel letto. Ma era una cosa antica,

 passata, finita. Non pensava di doverci tornare su. Forza, dai, è un attimo. Resisteva. Ma ormai era allo stremo. Stava per

esplodere, doveva mollare.

E la puzza? La puzza mi ucciderà!Strinse le labbra e si lasciò andare. Sentì il rivolocaldo accarezzarle le cosce e scendere lentamente lungole gambe, sui polpacci fin dentro le scarpe, Chiararicominciò a piangere.

Se l’è fatta addosso! Se l’è fatta addosso! Chiara si è fatta la pipì addosso.  La canzonava.  Ah ah ah...

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vergogna vergogna vergogna, ha diciott’anni e si piscia addosso! 

«Zitta! Zitta!» gridò fra le lacrime. «Stai zitta!».

 Non c’è la mamma a pulirti? Dov’è Dolores? Tihanno lasciato sola? 

«Devi stare zitta ho detto!» urlò con la voce tra isinghiozzi.

Ora è tutto appiccicoso, vero? È appiccicoso e puzza... peggio di una stalla... sei una mucca tu? 

«Lasciami in pace» disse Chiara con un filo di voce. Non ti voglio più ascoltare. Vattene. Vattene via. E le

formiche non si sono mosse. Stanno lì. E mi bruciaancora di più. Devo dormire. Se dormo il dolore se neva, la puzza se ne va, e respiro. E quando mi svegliotrovo mamma e papà.

O quello che ti ha portato qui. 

Chi? Non è che ci sei arrivata da sola, qui. Un po’ d’acqua. Solo un sorso. Mi basta solo un

sorso e me ne sto buona buona. L’acqua? Vuoi un po’ d’acqua? Quanto pagheresti

un bicchiere d’acqua? Me lo daresti il biglietto degli Alt-J? 

«Ti... darei... casa...».La testa smise di martellare, le palpebre di Chiara sichiusero e la ragazza cadde in un buco buio e profondo.

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Martedì

Aveva preso sonno da un’oretta quando il citofono

gracchiò. Rocco saltò su con il respiro mozzato. Siguardò intorno. Era nel suo letto. Nella sua stanza. Acasa sua. Fuori il cielo era nero d’inchiostro. Cosal’aveva svegliato? Fu il secondo suono sgraziato achiarirgli le idee.

«Ma porca troia...» guardò l’ora sulla sveglia. L’unae un quarto. «Ma chi è?».

Si alzò dal letto e a piedi nudi raggiunse il citofono.Aggiustandosi i boxer sollevò la cornetta. «Chi è?».«Vicequestore?» la voce di un uomo. «Mi scusi l’ora.

È una cosa urgente».«Ma si può sapere chi è?».«Pietro Bucci Rivolta».«Chi?».

«Pietro Bucci Rivolta. Ci siamo conosciuti alla festadi Nora».

Cazzo no, pensò Rocco. L’architetto. Quello che luicredeva fosse l’amante di Nora e che invece era l’uomodi Anna. Che vuole questo? No! Una scenata di gelosiaall’una di notte non l’avrebbe retta. «Ma chesuccede?».

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«È una cosa importante... lo so che è tardi, midispiace disturbarla...».

«Mi ha già disturbato. Scendo io. Mi dia cinque

minuti».Tornò in camera e si rivestì velocemente.

S’era alzato un vento scuro che aveva abbassato latemperatura. La strada era deserta. Pietro Bucci Rivoltaera chiuso nel suo giaccone. In testa portava unacoppola a scacchi. Appena vide Rocco uscire dal

 portone gli andò incontro sorridente. Segno che la suaera una visita pacifica. «Mi dispiace» disse allungandola mano. Rocco gliela strinse. «Ma è una cosa che nonci sta facendo dormire».

«E che ora non fa dormire neanche me. Chesuccede?».

«Innanzitutto come sta Nora?».«Bene... credo bene». La domanda l’aveva spiazzato.La prendeva alla larga l’architetto. La domanda ches’aspettava era: come sta Anna?

«Me la saluti quando la vede. Io però sono venutoqui a dirle una cosa molto importante. Lei è un

 poliziotto, anche molto bravo a quanto dice Anna...

ricorda Anna?».Rocco fece una faccia vaga come se cercasse neicassetti della memoria chissà quale oggetto dimenticatoda chissà quanti anni. «L’amica di Nora? Quella bruna,no?» vergognandosi della squallida pantomima chestava facendo, ma anche inorgoglito dal fatto che Annacomunque lo considerasse un buon poliziotto.

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Giovanna una coca. Era stato l’architetto a scegliere iltavolo più lontano dall’ingresso. Anche lui era unhabitué del locale avendo lo studio sulla piazza. E

 probabilmente aveva assistito alla scenata di gelosia di Nora dalle sue finestre, chissà. Rocco ancora non s’eraabituato all’idea che c’è una differenza sostanziale frauna città di 40.000 abitanti e una di 4 milioni e rotti.

«Allora, dottor Bucci Rivolta...».«Pietro».«Va bene. Pietro, che succede?».«Giovanna, racconta».La ragazza, incoraggiata dal padre, bevve un sorso di

coca, posò il bicchiere e guardò Rocco coi suoi occhiverde smeraldo. Si aggiustò i lunghi capelli lisci eattaccò. «Il fatto è che secondo me c’è un problema conChiara».

«Chi è Chiara?».«La mia migliore amica. Ieri sera siamo andate alloSphere».

Gli occhi di Rocco erano due punti interrogativi.«È una discoteca sulla strada per Cervinia» chiarì

Giovanna. «Eravamo io, Chiara, Max il fidanzato diChiara e suo cugino Alberto, venuto da Torino».

Rocco fece un gesto per dire «va’ avanti».«È stata una serata molto bella. Alla fine Max haaccompagnato Chiara e Alberto è venuto con me».

Rocco guardò l’architetto che non faceva una piega.Ascoltava sua figlia.

«Alberto mi ha accompagnato a casa e se n’è andatoa dormire da Max».

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«E fin qui...» disse il vicequestore.«Infatti. Oggi però Chiara non è venuta a scuola».Rocco alzò le spalle. «Succede. Magari è malata».

«No. Perché oggi c’era la prova di italiano. L’ultima.Poi quest’anno abbiamo la maturità. E Chiara non

 poteva mancare. Io pure ho pensato fosse malata».«L’hai chiamata al telefono?».«Sì. Ce l’ha staccato da ieri sera. E allora sono

andata a casa sua. Ma a casa non c’era».«Come?».«Sua madre mi ha detto che non c’era. Io ho chiesto a

sua madre dove fosse e la signora mi ha risposto cheera dalla nonna».

«Immagino» fece Rocco «che tu sia andata anchedalla nonna».

«Difficile» si intromise l’architetto, «dal momento

che delle due nonne di Chiara una è morta sei anni fa,l’altra vive a Milano».«E allora sarà andata a Milano, io non capisco qual è

il problema» fece Rocco che cominciava adinnervosirsi.

«Non c’era dalla nonna. L’ho chiamata» disseGiovanna. Finì la coca e guardò di nuovo il

vicequestore. «La nonna di Chiara è ad Abano Terme.Me l’ha detto la cameriera».«Allora senti un po’ come la vedo io» disse il

vicequestore scolandosi il bianco. «Chiara se n’è statatutto il giorno col suo Max e ha inventato una bugiaalla madre perché non voleva farsi scoprire. Ha staccatoil telefono per non farsi beccare dai genitori e

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stamattina, cioè fra qualche ora, la vedrai a scuola bellatranquilla e riposata».

«No, dottore. Anche Max non la vede da ieri sera».

«Diglielo, Giovanna».La ragazza guardò suo padre. «Chiara ha un

cellulare, un iPhone. E ha un guscio con la bandieraamericana. Io il suo cellulare l’ho visto sul mobiled’ingresso a casa sua mentre parlavo con la madre».

Rocco annuì. L’architetto lo fissò negli occhi: «Unaragazza di 18 anni che si stacca dal suo cellulare per ungiorno intero?».

«Peggio» aggiunse la figlia, «lei il cellulare ieri seral’aveva alla discoteca. Quindi a casa è tornata. Solo cheora dov’è?».

«Io penso che una risposta ci sia. E credo...».«Non è finita» l’architetto interruppe il vicequestore.

Si mise una mano in tasca e mostrò due tagliandicolorati a Rocco.«Cos’è?».Fu Giovanna a rispondere. «Domani sera c’è il

concerto degli Alt-J a Milano. Io e Chiara lo aspettiamoda mesi. E Chiara gli Alt-J non se li perderebbe perniente al mondo. Sa quanto ci ho messo per trovare i

 biglietti?».«Non facevano altro che parlare di questo concerto,dottore. Ascolti me, c’è qualcosa che non va. Cosa nonlo so. Ma non mi piace per niente».

«Insomma, secondo voi Chiara è sparita».«Chiara è sparita» aggiunse Pietro Bucci Rivolta «e i

genitori non dicono niente. Io Pietro e Giuliana li

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conosco da anni. Ho anche lavorato con loro. Sonoandato alla villa con una scusa alle nove e mezza.Pietro non c’era, Giuliana non s’è fatta vedere. Mi sono

fatto una chiacchierata con la filippina. Il cellulare dellafiglia non era più sul mobile dove Giovanna l’avevavisto, in più la filippina è scoppiata a piangereall’improvviso. Mi creda Schiavone, c’è qualcosa chenon va».

Il vicequestore si alzò dalla sedia. Fece due passiverso la porta del bar. Allargò le braccia. «Questafamiglia...».

«Berguet?».«Esatto. Mi dica di più».«Pietro e Giuliana Berguet hanno una figlia, Chiara,

e una società, la Edil.ber. Costruzioni. Gliel’ho detto,ho collaborato a un paio di progetti con loro. Fanno

case, ponti, hanno lavorato all’aeroporto...».«Bella roba quella» commentò Rocco.«Già» ammise Pietro. «Insomma, sono dei

costruttori».«Sono ricchi?» chiese il vicequestore che un’idea se

la stava facendo.«Parecchio».

E quel parecchio fu un cazzotto allo stomaco diRocco. «Allora ci siamo». Tirò fuori il portafogli. Pagòil conto. «Che ore sono?».

«Quasi le due, dottore».«Ecco, mettiamolo agli atti» fece Rocco con aria

solenne. «Alle due di un martedì mattina di maggio alvicequestore Rocco Schiavone di stanza ad Aosta da

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 ben nove lunghissimi mesi piomba l’ennesima rotturadi coglioni di decimo grado!» disse ad alta voce. Pietroe Giovanna lo guardavano senza capire. Non potevano

sapere, come quelli che lavoravano o avevano a chefare con Rocco Schiavone da settembre, che ilvicequestore aveva una graduatoria tutta personale diquelle che lui definiva rotture di coglioni. Cioè leincombenze e i casi quotidiani che lo indispettivano egli rendevano la vita un inferno. Italo Pierronaddirittura ne stava facendo una raccolta per esporlinella bacheca della questura, in modo che fosse chiaroa tutti cosa dire e cosa non dire al «capo». Le noie orotture di coglioni partivano dal sesto grado a salire.Fra quelle più leggere, appunto il sesto grado, c’eranogli idraulici o i muratori che tendevano a non rispettaremai un orario promesso, gli zero dell’Iban, le moto

smarmittate, le penne vecchie quando aveva bisogno discrivere un appunto velocemente. Al settimo grado sitrovavano le cacche dei cani sul marciapiede, perdere ilsegno del libro, il finger food. All’ottavo c’erano leletterine di Equitalia, ma dopo aver querelato uno degliimpiegati quelle s’erano fatte più rare dei granchi blureali, andare a messa, cosa che non faceva dal 1980, la

sabbia nelle vongole, il vino che sa di tappo e pranzaredopo le due. Al nono grado le sfuriate meteorologiche,freddo neve vento tempesta e grandine, i cretini, andarea votare e le carie. Al decimo grado, sovrano eimperiale, c’era il massimo delle rotture di coglioni chela vita poteva riservargli: il caso sul groppone. E quelmartedì di maggio Rocco aveva capito che davanti a lui

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si ergeva immensa e improcrastinabile una rottura didecimo grado.

Quando uscirono aveva appena cominciato a piovere.

«Vuole un passaggio a casa?».«Casa? A fare che? Ormai la stalla è aperta e i buoi

sono scappati. Mi porti in questura, per favore».Salì sulla Mercedes dell’architetto diretto in ufficio.Erano le due e dodici minuti del mattino.

Alla porta c’era l’agente Casella. Che appena vide ilvicequestore sorrise: «Dottore? E che fa in ufficio aquest’ora? Non riesce a dormire?».

«Già. E siccome non dormo io, non dorme purequalcun altro. Dove sono Deruta e D’Intino?».

«Non lo so. Li ha mandati in giro per la città,secondo me a quest’ora sono a letto».

«Svegliali e digli di muoversi!» non era un reale bisogno del duo comico che mosse il vicequestore adare quell’ordine, ma puro e semplice desiderio divendetta.

«Li faccio venire in questura?».«No, gli dici che non mi hanno relazionato e che non

è il caso di riposarsi ma cercare quello che sanno».

«Riferirò!» fece Casella alzando il ricevitore.

Rocco si scaraventò nel suo ufficio. Afferrò iltelefono. Parecchi squilli dopo alzarono la cornetta.«Pr... pronto?».

«Sento che la voce va meglio, ispettore Rispoli. Tisei tolta la molletta dal naso?».

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«Do... dottore, è lei?».«Sì, sono io e sono le due e venti. T’è passata la

febbre?».

«Ieri sera, cioè qualche ora fa avevo... 37 e mezzo».«Cos’è? Prendi gli antibiotici?».«No, l’echinacea. Mi curo con l’omeopatia».«Funziona?».«Con me sì».«Io una volta ho curato il raffreddore con la brionia.

Mai provata?».«Mi scusi dottore, lei mi chiama... per chiedermi

come sto alle due e venti di notte?».«E anche se fosse?».«La troverei una premura di una persona gravemente

danneggiata nella psiche, glielo dico sinceramente».Caterina si stava svegliando.

«Vero? Invece no. In realtà io cerco Italo. Che è lì,dimmi di sì».Si sentirono dei rumori, poi la voce di Italo sorse dal

 profondo come un’oscura entità sottomarina. «Dica...».«Devi venire in questura».«... alle due?».«Alle due. C’è una cosa brutta».

«E posso sapere cos’è?».«No. Sorpresa».«È un decimo grado?» chiese Italo con un filo di voce.«Pieno, Italo mio, pieno. E non possiamo perdere

tempo».

«E la nonna ad Abano Terme?».

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«Ho chiamato l’albergo. Registrata da sola, senzanessuna nipote al seguito, come era prevedibile».

«Sì, ma che facciamo alle tre?».

Rocco spense l’ennesima sigaretta di quella mattinada incubo. «Abbiamo due alternative. Sta a noidecidere come agire. La prima è svegliare il giudice erichiedere il permesso di mettere i telefoni sottocontrollo, parlare col questore e poi con la famiglia eesporre la ragazza a un rischio pazzesco perché qualchegiornalista può presentarsi in questura o in procura».

«Vero. Lo sport preferito nelle procure è quello divomitare notizie riservate». Italo abbassò la testa comea cercare una soluzione. Poi la rialzò con lo sguardo

 poco convinto. «La seconda?».«Andiamo a fare una visita a casa Berguet».«A quest’ora?».

«Alle sei».«E fino a quell’ora che facciamo?».«Un sacco di cose. Io però avrei bisogno di Caterina.

Ha ancora la febbre?».«Un po’. Però forse in ufficio può stare. D’Intino e

Deruta?».«Per ora li ho solo svegliati e li ho mandati in giro».

«Perché?».«Perché li odio. Ora vieni con me, ci serve un cavallodi troia».

«Un...?».Rocco non rispose. Aveva già afferrato il loden e a

 passi spediti era uscito dall’ufficio lasciando tutte leluci accese. A Italo Pierron non rimase che seguirlo.

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 Schiavone aveva parcheggiato l’auto davanti alla

casa in località Porossan, un villino che risaliva agli

anni Venti. In pietra e legno traboccante di fioricircondato da un bosco di abeti. Era ricoperto di gliciniche si arrampicavano fino al piano superiore e tempoqualche giorno come fucili avrebbero esploso i lorograppoli viola. Quella era la bella residenza deiBerguet. Sprofondata nel buio delle quattro del mattino.Rocco e Italo si avvicinarono ad un’auto blu.

«Che vuoi fare, Rocco?».«Questa è la Suzuki Jimny di Giuliana Berguet?».«Sì, come risulta alla motorizzazione» rispose Italo.

«Ma perché?».«Auto molto carina, troppo costosa e che

 personalmente non amo. Rumorosa e poco agile sulla

strada. Nasce come fuoristrada, e sui terreni impervi sicomporta benino».«Rocco, io non me la devo comprare, voglio sapere

che dobbiamo fare qui alle quattro di mattina!».Per tutta risposta Rocco infilò un oggetto metallico

appuntito nella serratura dell’auto. Aprì la portiera esorrise a Italo. «Seguimi con l’auto di servizio» e

montò su quella di Giuliana Berguet.Mentre raggiungeva la sua auto, Italo sentì il rombodel motore Suzuki echeggiare nel silenzio dell’oraantelucana. Scuotendo la testa ebbe ormai la certezzache Rocco Schiavone aveva sbagliato mestiere.

Dopo una mezz’ora di strada sulla statale 26

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arrivarono a Saint-Nicolas. Rocco frenò. Scesedall’auto. Afferrò una pietra e spaccò i due farianteriori.

«Ma che è scemo?» disse a mezza voce Italo che loaspettava sull’auto di servizio.

Pulendosi le mani Rocco lo raggiunse.«Ma che hai fatto?» chiese Italo.«Che bastardi! Hanno rubato l’auto e l’hanno lasciata

sfondata a 30 chilometri da Aosta. Ma per fortunal’amico tuo della polstrada, quello che ti batte a

 biliardo, come si chiama? Umberto?».«Sì».«L’ha ritrovata quassù. S’è insospettito perché è stata

chiaramente vandalizzata. Che colpo di fortuna».Italo guardava Rocco senza capire. «Ma gli hai fatto

un danno!».

«A parte che c’è l’assicurazione, poi sono costruttori.A occhio e croce 400 euro per aggiustare la macchinace l’hanno. Ora tu chiami Umberto e gli dici tutto. Èuno in gamba Umberto, vero?».

«Molto in gamba».«Quindi sa tenerlo un segreto?».«Può fare altrimenti?».

Rocco ci pensò su una manciata di secondi. «Noncredo. C’è sempre qualche bell’incrocio da sorvegliarea Secondigliano. Forza, chiamalo, possibilmente mentreguidi e torniamo in città. Puoi fare le due coseinsieme?».

«Credo di sì. E credo anche che al contempo potreimasticare una gomma americana. Ma ancora non ho

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capito che stiamo facendo...».«È il cavallo di troia!» e detto questo il vicequestore

infilò la mano nella tasca di Italo afferrando il

 pacchetto di sigarette. Storse il naso ma ne accesecomunque una.

Alle sei l’ispettrice Caterina Rispoli entrò nell’ufficiodi Rocco Schiavone avvolta in una sciarpa che lelasciava fuori solo gli occhi. Odorava di fresco e

 pomate all’eucalipto. In piedi, accanto al vicequestorec’era l’agente Scipioni con la barba lunga di un giorno.Italo invece se ne stava seduto sulla poltroncina davantialla scrivania.

«Salve...» Caterina salutò i tre uomini con un filo divoce.

«Sembri una berbera» le sorrise Rocco. «Prego,

siediti e scusami...».Caterina prese posto accanto a Italo. Lo sguardoapprensivo dell’agente non sfuggì a Rocco.

La ama proprio, pensò.Il vicequestore si sfregò le mani. Fuori splendeva una

tenue luce mattutina. «Bene, ora che siamo qui midovete ascoltare. C’è una cosa grave che soltanto noi

quattro in tutta la questura dobbiamo conoscere. Hofondati sospetti che una ragazza di nome ChiaraBerguet sia stata rapita».

Scipioni e Rispoli sgranarono gli occhi. Caterina cimise anche un colpo di tosse.

«Ma ovviamente non c’è stata denuncia. Ora, come pensavo di agire?».

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«Immagino senza dire niente in procura e alquestore?» chiese Antonio Scipioni.

«Bravo Antonio. Ma ti prego, se c’è una cosa che

odio sono le domande retoriche».«L’ho fatta?» fece imbarazzato il poliziotto.«Sì. L’hai appena fatta. In questo gruppo di lavoro

non sono ammesse domande retoriche. Andiamo avanti.Allora, io ho bisogno che tu Caterina mi porti tutte leinformazioni possibili sulla Edil.ber, società dicostruzioni della famiglia. Fatturato, ordinativi,situazione finanziaria, tutto».

Caterina annuì.«Antonio, stai accanto a Caterina. Sul campo. Se c’è

da andare a fare una visita a qualcuno prima ne parlatecon me, poi, visto che la nostra Rispoli è febbricitante,andrai tu. Tutto chiaro?».

Antonio Scipioni annuì senza parlare. Ancora non gliera chiara la storia delle domande retoriche.«Io e Italo invece puntiamo la famiglia. E vediamo di

cavarne fuori qualcosa».«Se un collega ci fa domande?» chiese Caterina.«Inventate una roba qualunque. State lavorando per

me. Alla ricerca di documenti per la finanza, tasse...».

«Transazioni sospette contabilizzate dall’assessoratoai lavori pubblici nell’ambito dell’operazione fil rougeguardia di finanza al confine svizzero?» azzardòScipioni.

Rocco lo guardò serio. «Nel circuito facentefunzione, però!», poi gli dette una pacca sulla spalla.«L’ho sempre saputo che potevo contare su di te,

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Antonio! Ora vi mando caffè e brioches dal bar.Lavorate direttamente qui, nella mia stanza. Una solacosa. Quel cassetto della scrivania chiuso a chiave deve

rimanere chiuso a chiave, siamo intesi?».Rispoli e Scipioni annuirono. Rocco si tastò in tasca

lo spinello che aveva prelevato proprio da quel cassettodieci minuti prima senza il quale la giornata nonavrebbe ingranato, e insieme a Italo lasciò finalmentel’ufficio.

Era rimasto in agguato per un sacco di tempo.Immobile, attento. Poi l’aveva visto spuntare dai roviaccanto alla casa. Un balzo, ma quello era stato piùveloce e s’era infilato in una crepa del muro, troppo

 piccola per lui. Indugiò ancora ma si stufò subito eandò ad accucciarsi davanti al vetro fuligginoso del

vecchio casolare. Aveva guardato dentro. Semmai queltopo si fosse rifugiato proprio lì. Non c’era nessuntopo. C’era una ragazza. In mezzo alla stanza. Dormivaseduta su una sedia con la schiena attaccata ad unacolonna di cemento. Aveva le mani legate alla spallierae la testa era nera senza occhi né bocca. Si grattò dietrol’orecchio, le ortiche lo avevano punzecchiato durante

l’imboscata. Si passò la lingua prima sulla zampasinistra, poi sulla destra. Annusò l’aria. Si alzò, sistiracchiò e lasciò quella vecchia casa attraversando i

 prati. Il campanellino attaccato al collare rosso suonavaad ogni passo. Buono per i serpenti. Ma era ancora

 presto. Quelli arrivano d’estate.Casa sua era dopo la collina. Non aveva voglia di

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tornarci. Camminava tranquillo sfiorando tarassachi,genziane e trifogli. Pietre con il muschio circondate damargherite. Ce n’erano tantissime. Annusò. Era passata

una volpe. Sicuro. Fare attenzione. In alto unacornacchia gracchiò un paio di volte. Era arrivato sullasommità della collina. Vedeva il giardino di casa sua eil tetto col gallo di ferro. Una lucertola rapida gli passòdavanti. Lui neanche la guardò mentre quellaspaventata si andava a nascondere sotto la pietramuschiosa.

Gengis Khan aveva solo un anno. E c’era qualcosache lo attirava lontano da lì, dalle quattro muradomestiche. Non poteva essere la caccia a quel toposchifoso o inseguire lucertole stupide e veloci. No.Senza quella strana sensazione il topo l’avrebbe presoalmeno dieci volte. Invece era una sonnolenza mista a

desiderio. Quel giorno di maggio Gengis Khan sentivaun profumo diverso. Un profumo di carne e fiori, diselvatico e di zucchero.

«Gengis, dov’eri finito? Mamma ti ha fatto la pappa!».La vecchia aveva messo la scodella per terra. Ma di

mangiare non aveva voglia. C’era quell’odore, e una pressione proprio sotto la coda che lo spingeva a

muoversi. Con un salto superò di nuovo lo steccato e puntò dritto verso la strada.«Gengis, la pappa!».«Ma non lo vedi che è in amore? Lascialo fare.

Tornerà quando s’è sfogato!» rispose il vecchiosorridendo, mentre rimetteva a posto delle cassette difrutta in giardino. «Beato lui!» e buttò un’occhiata a

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quella macchia rossa che saettava nell’erba.La moglie lo guardò e gli sorrise.

Avevano fatto colazione da Ettore, mandato unacaraffa di caffè e quattro brioches a Caterina e Antonio,Rocco s’era fumato lo spinello, Italo una sigaretta efinalmente erano arrivati davanti casa Berguet.Mancavano venti minuti alle sette. Umberto della

 polstrada era lì ad aspettarli.«Bene» fece Rocco scendendo dall’auto, «con

Umberto è più credibile, no?».«Sì» borbottò Italo, che lasciò i finestrini aperti. La

tappezzeria puzzava di cannabis. «E questa storia dellacanna?» chiese a Rocco.

«Mi fa bene. Apre i centri nervosi, mi riconcilia conla giornata di merda e mi dà la forza per campare. Ti

 basta?».«Sì» rispose Italo.Ad ampie falcate Rocco raggiunse Umberto. Gli

strinse la mano: «Sai già tutto?».«Certo, dottore».«Il numero di telefono di Berguet, ce l’hai?».«Sì».

Rocco gli consegnò il suo cellulare e i documentidell’auto. «Ecco. Prego, diamo inizio alla recita». E itre si avviarono verso la porta di casa.

Passò un minuto buono prima che qualcuno venissead aprire. Una filippina con una divisa a righe bianca erosa, alta poco più di un metro, guardò seria i tre

 poliziotti. «Che c’è?».

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«La signora Giuliana Berguet è in casa?».«Che volete?».«Polizia. Le dobbiamo parlare».

«Ora siniora dorme».«Tu vai e sveglia?» fece Rocco sorridendo.«No so perché se dorme non vuole essere sviliata».Rocco tirò un respiro profondo. «Come si chiama lei?».«Siniora?».«No, lei lei!» e la indicò.«Dolores».«Dolores, vai a sviliare la siniora. Non vedi che il

siniore, cioè io, si sta innervosendo forte forte?».La filippina sembrò barcollare, poi si fece di lato e

lasciò passare i poliziotti.«Aspettate qua» fece la cameriera e ciabattando sparì

dietro una porticina.

La mano dell’architetto nell’arredamento eraovunque, perfino nell’odore di cannella che si percepiva. Stile classico, un po’ pesante, fatto di stoffe,tessuti alle pareti, broccati, specchi in foglia d’oro egrandi tappeti persiani. Un «Des Bains» rivisitato, maaveva il suo fascino. Alle pareti una sequela di paesaggi

 primi Ottocento, qualcuno talmente scurito dal tempo

che non si distinguevano più colori e segno. Sopra la porta di vetro del salone campeggiava una natività delCinquecento che da sola valeva tutto il villino.

Italo e Umberto si guardarono intorno. «Mica male,eh?».

«Direi di no» fece Rocco. «Un po’ pesante, ma ha ilsuo perché».

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«I pavimenti sono di marmo?».«Veneto» aggiunse Rocco.«E quello?» Umberto indicò una scrivania intarsiata.

Rocco la osservò da vicino. «Questo è un bureauMazarin. Potrebbe essere noce. Gli intarsisembrerebbero avorio».

«Roba costosa?».«Sotto i 20.000» fece Rocco soddisfatto mentre i due

 poliziotti ingoiavano un grumo di saliva.«Come fa a sapere ’ste cose, vicequestore?» chiese

Umberto.«A mia moglie piacevano».«E ora non le piacciono più?» domandò innocente

l’agente della polstrada. Italo rifilò una gomitataall’uomo che non ne capì il motivo ma si astenne dalfare ulteriori domande.

Dolores tornò guardando torva i poliziotti. «Sinioraora arriva».«Grazie, Dolores. Tante care cose» e la donna si

infilò in una porta a battente che doveva essere lacucina.

«Dottore» attaccò Italo, che di fronte ad altri poliziotti tornava ad un «lei» più formale, «ma perché

stiamo facendo questo?».«Guardati intorno, raccogli dettagli, impressioni eascolta. Il nostro lavoro è tutto lì».

Distrattamente Rocco si avvicinò ad un étagère dilegno e marmo posizionato proprio davanti alla portad’ingresso. Aprì un cassetto. Dentro c’era il cellulare diChiara Berguet, quello con il guscio dipinto come una

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 bandiera americana. In un piatto d’argento c’erano pochi spiccioli, un mazzo di chiavi con un ciondolo aforma di emme e un curioso spinotto di plastica, un

fermacarte dorato, un mucchietto di elastici. Sul pianoin ordine accanto a un telefono cordless c’erano delle

 bollette, un foglio dattiloscritto firmato dal sindaco diAosta e un bloc-notes.

Italo osservava il capo armeggiare intorno a queglioggetti. Gli parve di vederlo strappare un fogliettoverde dal blocchetto degli appunti e infilarselo in tasca.Appena in tempo, perché Giuliana Berguet spuntò dalla

 porta del salone. Alta e magra, capelli ricci, pantalonidi lino e una maglietta a maniche lunghe. Sorrideva masotto lo strato di trucco che s’era appena passata si

 percepiva una quintalata di occhiaie. Gli occhi eranospenti, spaventati, inutilmente cercava di darsi un’aria

sicura e tranquilla da gran dama del castello. Le guanceerano prive di colore, a parte quello sintetico delfondotinta, e un po’ risucchiate all’interno. A occhio ecroce non dormiva da parecchie ore e sembrava potessesvenire da un momento all’altro. «Signori, che cosa

 posso fare per voi?».«Vicequestore Rocco Schiavone, questura di Aosta».

E Rocco allungò una mano verso Umberto che gliconsegnò i documenti dell’auto. «È sua una SuzukiJimny blu targata...» lesse il libretto «DD 343 AF?».

La signora annuì. «Perché?».«Il nostro agente della polstrada l’ha rinvenuta...

dove?».«A Saint-Nicolas... un po’ ammaccata» disse Umberto.

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«Ma com’è possibile?» fece Giuliana Berguet. «Ionon la uso quasi ma... È mio cognato Marcello ad usarlae sono sicura che ieri l’ha parcheggiata sotto casa...».

«E stamattina era laggiù a Saint-Nicolas» disseRocco. «Ora noi sospettiamo una cosa» e lasciò caderela frase nel silenzio del corridoio osservandoattentamente il viso della donna. Deglutiva e con lamano destra teneva ferma la sinistra stringendola cosìforte da non far passare il sangue. «Cosa... cosasospetta, dottore?».

«Che quest’auto sia stata usata per una rapina che c’èstata stanotte ad una gioielleria giù in centro».

Giuliana annuì. E a Rocco parve tirasse un respiro disollievo. «Suo marito è in casa?».

«No!» rispose Giuliana con la prontezza che da bambini si usava per dire «Tana!». E come a

contraddirla un uomo sbucò dall’altra parte delcorridoio. Rocco, Italo e Umberto si voltarono aguardarlo. «Chi sono i signori?».

«Sono della polizia» si affrettò a rispondere Giuliana.«Hanno ritrovato la macchina a Saint-Nicolas. Pare chestanotte l’abbiano rubata per fare una rapina in unagioielleria».

«E cosa glielo fa credere?» fece l’uomo puntando gliocchi sui poliziotti. Rocco avanzò un passo verso di lui:«Vicequestore Schiavone, questura di Aosta».

«Piacere. Marcello Berguet. Sono il cognato dellasignora, il fratello di suo marito».

«Ah, lei è quello che ieri sera ha usato lamacchina?».

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«Certo, la uso quasi sempre io. E sono sicuro diaverla parcheggiata sotto casa. Aosta ha un sacco di

 problemi, non quelli del parcheggio però...» disse

sorridendo. «Insomma, perché è convinto che l’auto siastata usata per una rapina?».

«Una telecamera a circuito chiuso ha ripreso tutta larapina. Hanno sfondato la vetrina con il muso dellamacchina della signora».

«Ma pensa un po’...» fece l’uomo. «Be’, noi eravamoqui stanotte. E io le giuro di averla parcheggiata propriosotto casa».

«Lo so» e Rocco sorrise. «Lo so, non credo voi siatesospettabili come autori di un furto a una gioielleria.Insomma, non mi sembra abbiate bisogno di spacciaregioielli rubati, no?».

Giuliana e Marcello risero forzatamente. «No no,

direi di no».Rocco guardò l’agente della polstrada: «Lei puòandare agente e grazie dell’aiuto!».

Umberto, fedele al copione, salutò militarmente ilvicequestore, un sorriso a Giuliana e Marcello, poiinfilò la porta di casa.

«Allora» riprese Schiavone, «signora, le devo

chiedere di seguirmi in questura. Ci sono un po’ di cosenoiose da fare. C’è di mezzo un reato insomma. Sperodi prenderle pochissimo tempo».

«Ma vede, io avrei da...».Giuliana guardò il cognato che rimaneva congelato

senza sapere che fare.«No, io non posso venire con voi. Insomma, prima

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avrei degli impegni. Posso... posso raggiungervi in unsecondo momento?».

«Signora Berguet» fece paziente Rocco, «non la sto

invitando a un cocktail. È una cosa diversa, mi creda».La donna si morse le labbra. Poi guardò i poliziotti.

«Io non posso venire. Ho un appuntamento moltoimportante. Alle dieci».

«Per quell’ora avremo finito. Mi creda» insistette ilvicequestore.

«Io... devo rimanere a casa, lo capite?» fece la donna.E si sedette su un divanetto Luigi qualcosa chescricchiolò sotto il suo esiguo peso.

«E perché signora? Non sta bene?».Giuliana si portò le mani davanti alla faccia e si mise

a scuotere la testa. «No, non sto bene. Non sto bene perniente!». Era un urlo disperato, straziante, da far venire

la pelle d’oca. Il cognato corse da lei e cercò diconfortarla, ma la signora Berguet, presa da uno scattodi rabbia, rialzò la testa e con gli occhi rossi di piantoguardò Rocco. «Io mi muovo da qui solo con il mioavvocato che adesso chiamo e gli chiedo se questa èuna procedura normale. Arrivare a casa di una personaalle sette del mattino per portarla in questura! Io sono

la vittima, insomma! A me hanno rubato l’auto, non èche l’ho rubata io! Cosa devo venire a fare laggiù? Nodottore, io non vengo. E mi denunci, mi porti inquestura, ma io da casa mia non mi muovo!».

Rocco sorrise. Fece segno a Italo di incamminarsiverso la porta di casa. Sembrava soddisfatto. «Comevuole, signora Berguet. La vedo nervosa e stanca e non

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voglio renderle la vita più difficile di quello che è.Posso fare niente per lei?».

La domanda di Rocco cadde nel silenzio più totale.

Italo aveva aperto la porta di casa e s’era messo adaspettare il capo sull’uscio e a guardare Giuliana, cheguardava Marcello che guardava Rocco. Il vicequestoreebbe la sensazione che la donna stesse per gridare: «Sì,

 può fare molto per me! Mi riporti mia figlia!». Invecefu il cognato a rispondere: «Grazie dottore, non puòfare niente. Mi creda».

Improvvisamente suonò il telefono e lo squillorimbombò per tutta la casa. Giuliana Berguet scattòcome se l’avessero toccata con un filo elettricoscoperto. Fissava suo cognato che si asciugò il sudoresulle labbra. Rocco imperturbabile li osservava. Alterzo squillo la donna si alzò: «Scusate» disse, ma

Rocco fu più veloce. Le consegnò il cordless: «Prego,signora».Giuliana afferrò il telefono che Marcello le strappò

dalle mani e finalmente al quinto squillo rispose, si giròdi spalle e si allontanò nel corridoio, verso il salonedietro la porta a vetri. «Perdonatemi» disse. MaMarcello al salone non arrivò. Si girò di scatto e urlò

nella cornetta: «Non lo voglio un contratto per luceacqua gas!» e gettò il telefono su una sedia imbottita.«Questi call center... sono insopportabili, nontrovate?».

Il cielo s’era rannuvolato. Italo guidava in silenzio,Rocco si era già acceso una sigaretta. «Non mi dire che

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ricomincia a piovere?».«Capacissimo» rispose Italo.Superarono l’incrocio lasciandosi alle spalle la casa

dei Berguet. Sul lato della strada, al bivio con la statale,li attendeva Umberto sulla moto. Italo si accostò.Rocco aprì il finestrino. «Acqua luce gas?» gli disse.

«Non m’è venuto in mente altro». E Umberto restituìil cellulare al vicequestore.

«Va bene. Grazie, Umberto. Sei stato molto utile».«Dovere, dottore. Se servo, chiami pure quando

vuole. Ah. E l’auto della signora? Ci pensiamo noi?».«Sì, pensateci voi. Grazie».Umberto sorrise e sgasando quasi impennò la BMW

sparendo dietro la curva.«Mica male questo Umberto».«Eravamo compagni al liceo».

«Che combinate?».«Niente. Una partita di biliardo ogni tanto. Oraabbiamo la fissazione delle scommesse. Lui segue ilcampionato, la pallacanestro, lo sci...».

«E vincete?».«Per ora siamo sopra di 400 euro. Mica male, eh?».Rocco fece una smorfia.

«La vedi brutta, Rocco?». Italo non parlava più dellequote Sisal.«Ti pare una reazione normale per una telefonata? E

ti pare che la signora abbia avuto una reazione normale per venire in questura? La vedo bruttissima».

«Dici che la figlia...?».«Sicuro».

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 «La Edil.ber è di proprietà di Pietro Berguet, al 75

 per cento, il restante è di suo fratello Marcello, che

 però non ci lavora, fa il professore di matematica alliceo scientifico di Aosta. Si occupano di costruzioni,appartamenti, ville, ma partecipano anche a grandiopere. Erano nelle società appaltatrici per l’aeroporto,

 per uno svincolo autostradale, la ristrutturazione delforte di Bard... sono in lizza per dei lavori per laRegione» Caterina Rispoli snocciolava come un mantratutte le informazioni che aveva raggranellato in pocheore di lavoro. «Hanno un utile complessivo di circadodici milioni all’anno, una ventina di impiegati fissi

 più una serie di operai specializzati a contratto.Muratori, carpentieri eccetera».

«Insomma danno lavoro e ricchezza a un po’ di

gente» concluse Antonio Scipioni.«Però ho trovato un paio di articoli di questi ultimimesi» proseguì Caterina. «Le cose mica vanno così

 bene».Rocco si staccò dalla finestra. Stava osservando le

nuvole nere che si andavano addensando sul cielo diAosta. «Che intendi?».

«I giornali parlano di una crisi. Operai davanti aicancelli, ritardi di pagamenti, le solite amenità».«E poi?».«Poi tutto pare rientrato, o almeno non ho trovato

altro».«Io ci devo andare a parlare con questo Pietro

Berguet. Qualcuno suggerisce un modo?».

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«Si può inventare una denuncia come con lamoglie?» suggerì Caterina e si soffiò poi il naso in unfazzoletto di carta.

«Oppure un controllo?» fece Antonio Scipioni.«Un controllo di che?» obiettò Schiavone.«Ce l’ho!» gridò Italo. «Carlo Figus, l’operaio morto

nell’incidente l’altra notte. Diciamo che ci risulta abbialavorato con loro e andiamo a fare un po’ di domande».

«Questa è un’idea. Bravo, Italo». Poi buttòun’occhiata a Caterina Rispoli. «Ispettore, se non te lasenti puoi tornare a casa».

«No no, va meglio. Poi a casa sinceramente miannoio». E sparò il primo sorriso della giornata che leilluminò il viso. Anche così, pesta di febbre eraffreddore, Caterina Rispoli era una donna di serie A.Con la dolcezza di una madre e la perfidia di una

sorella maggiore.«Sicura che non stai facendo una cretinata?».«Sicuro, dottore».«A proposito di cretinate. Un’ora fa si sono fatti vivi

D’Intino e Deruta» disse l’agente Scipioni.«Dove sono?» chiese Caterina.«Hanno una chiave e stanno cercando di capire a

quale serratura appartenga» spiegò Rocco.Caterina sgranò gli occhi. «Un ago in un pagliaio?».«Peggio. Un pelo di mucca in una mandria

inferocita» corresse Rocco. «E cosa volevano queidue?».

«Niente, lei lo sa che mi odiano. La cercavano e nonmi hanno detto nulla. Dice che devono relazionare solo

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a lei».«Fedeli alla consegna. Vabbè, chissenefrega dei

fratelli De Rege. Andiamo, Italo?».

«Dove?».«Alla Edil.ber, ma che ti sei rincoglionito?». Si alzò.

Prese il loden. Si infilò una mano in tasca. «Ah,Caterina. A scuola tu l’hai mai fatto?» e le consegnò unfoglietto.

«Cosa, dottore?».«Con la matita? Ci passi sopra la mina e vedi se esce

fuori un scritta?».«Certo, facevamo sempre così con le compagne.

Scrivevamo i messaggi segreti su un foglio che buttavamo e sotto tenevamo il foglio bianco, così checon la pressione della penna si impressionava.Passandoci sopra la matita poi si poteva leggere».

«Bene. Mi vedi se c’è qualche segreto su ’stofoglietto?».Italo lo riconobbe. Era il foglietto verdino, preso dal

 bloc-notes in casa Berguet.Caterina lo annerì con la matita. «Boh... ci sono dei

numeri. E una scritta... aspetti» aguzzò la vista. «Mah...Deflan, mi pare ci sia scritto Deflan».

«Che è?».«Aspetti...» l’ispettore si lanciò sul computer diRocco. Digitò. «È un farmaco. Dunque perinfiammazioni. Reumatismi, infiammazioni gastriche...qui dice: trattamento di patologie di origineinfiammatoria».

«Vabbè, evidentemente l’avrà prescritto il medico

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alla signora o al marito» disse Italo.«I numeri?».«Niente che somigli a un numero di telefono».

«Vabbè, buco nell’acqua. Andiamo, Italo».

Gli uffici della Edil.ber non erano lontanidall’aeroporto. Si trovavano all’interno di una

 palazzina moderna fatta di cristalli e specchi. Ungrande cancello bianco immetteva nel parcheggioaziendale. Rocco e Italo lasciarono lì la loro macchina.Si incamminarono verso la struttura centrale quando ilvicequestore notò qualcosa sulla cancellata. Un drappo

 bianco che sbatteva al vento. Si avvicinò e lo srotolò per mostrarlo a Italo. Era un brandello di tazebaostrappato. Si leggeva chiara la scritta «Basta con...» e

 poi «posti di lavoro!». In calce la sigla di un sindacato.

Era ciò che restava di una recente protesta.I due poliziotti tornarono verso l’edificio di cristalli especchi, spalancarono la porta ed entrarono allaEdil.ber.

Di fronte all’ingresso trovarono un pannello cheindicava l’ubicazione degli uffici con tanto di frecce.La direzione era al primo piano.

Quando l’ascensore si aprì si trovarono davanti una piccola hall rotonda. Sui muri bianchi c’erano appese lefotografie dei lavori fatti dalla società. Hangar, ponti,case. E disegni di progetti. Il rumore dei passi eraattutito da una moquette blu. Una donna tarchiata sui60 anni gli andò subito incontro.

«Prego?».

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«Vicequestore Schiavone, questura di Aosta».La donna deglutì.«Chi comanda qui?».

«Chi... il dottor Berguet. Pietro Berguet. Possosapere il motivo?».

«No. Dov’è?».La donna indicò una porta con la scritta «Presidenza»

in un rosso fuoco.«Ci annuncia lei o facciamo da soli?».La segretaria scattò e andò a bussare. Aprì appena

l’anta, infilò la faccia, disse qualcosa, poi tornò aguardare Rocco e Italo.

«Prego...» e si scansò per fare strada.

Dentro la stanza c’erano due uomini. Uno era sedutosu un divano di pelle bianca, l’altro era in piedi davanti

alla vetrata che fumava nervosamente una sigaretta.Rocco tirò a indovinare e si rivolse a quello che fumava.«Buongiorno, Schiavone, vicequestore di Aosta».

Quello accanto alla finestra si avvicinò stirando unsorriso di circostanza. Aveva la faccia tesa, le occhiaie,la cravatta slacciata e, nonostante l’evidente qualità,l’abito che portava era gualcito. Da riposato doveva

essere un bell’uomo, con gli occhi chiari e i capelli nerie ricci. Ora pareva più uno straccio per i mobili. «PietroBerguet» disse ammucchiando la sigaretta nel

 portacenere dove giaceva una montagna di mozziconi.Allungò la mano che Rocco strinse. Aveva le palmesudate. «Lui è il dottor Cristiano Cerruti,vicepresidente» disse indicando l’uomo seduto sul

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divano che neanche si alzò, limitandosi ad un sorriso amezza bocca. Portava una barbetta curata, di quelle checi si impiegano ore per tenerle rase e pareggiate come il

 prato di Wimbledon. Anche il suo vestito aveva bisogno di una bella stirata. «Che posso fare per voi?Mia moglie mi ha detto che stamattina siete stati anchea casa mia. Sempre la faccenda dell’auto rubata?».

«No. Noi della polizia siamo multitasking, veroPierron?».

«Certamente».«Pensi dottor Berguet che il mio agente qui è capace

di guidare, fare una telefonata e al contempo masticareuna gomma americana».

Pietro Berguet guardò Rocco Schiavone come unabitante di altre galassie.

«E siccome siamo multitasking, abbiamo più di un

 problema da risolvere. Dunque...» Rocco allungò unamano e Italo gli passò un foglietto. «Carlo Figus è unvostro operaio?».

Pietro Berguet ci pensò su un attimo. «Aspetti, così...non glielo so dire. Sento il personale?».

«Magari».«Ma perché?» chiese il presidente mentre afferrava il

telefono poggiato sulla scrivania di cristallo.«Ha avuto un incidente ed è morto, ieri sera. Sullastrada di Saint-Vincent».

Pietro Berguet sgranò gli occhi. «Mi dispiace. Fabio?Ascolti, Carlo Figus è un nostro operaio?». Restò insilenzio ad ascoltare. «Grazie... grazie, Fabio». Attaccò.«Sì, Carlo Figus è stato un nostro operaio per un paio di

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anni dal 2001 al 2003. Ma è una cosa tremenda. Com’èsuccesso?».

Rocco guardò Italo. S’era stufato di parlare e lasciò

l’incombenza al suo sottoposto. L’agente attaccò:«Colpa di vecchi pneumatici. Sono esplosi e lamacchina s’è schiantata contro due alberi. È morto sulcolpo».

Pietro Berguet annuiva. «Oh Madonna mia...».«Già. Era nostro dovere informarvi».«Però non lavora più qui con noi» intervenne

Cristiano Cerruti sempre col culo appiccicato al divano.«Quindi tecnicamente diciamo che non sono più affarinostri. Faccia le condoglianze alla famiglia».

«Mi scusi, non ricordo il suo nome».«Cristiano Cerruti. Ora mi vuole spiegare tutte queste

domande su quel poveraccio?».

«Certo. Come no. Siccome aveva una targa rubata ela fedina penale sporca, sto indagando. Crede che possafarlo o devo chiederle il permesso?».

Cerruti finalmente si alzò di scatto, come richiamatoda un ordine interiore. «Lei ha un mandato di ungiudice?».

Rocco scoppiò a ridere. «Lo senti Italo, quanti guai

combina la televisione?» poi si concentrò sul viso diCerruti: «Non ce n’è bisogno. La vedo teso enervosetto, dottor Cerruti. La mia esperienza lesuggerisce di rimettersi seduto e contare fino a 10». Poisi rivolse al presidente: «Dottor Berguet, posso andarea farmi due chiacchiere con questo Fabio del

 personale?».

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«Ma certo, Fabio Limetti» disse Pietro con unsospiro di sollievo, chiaramente rincuorato che i due

 poliziotti avessero deciso di alzare i tacchi. «Prego,

 prego, vi faccio accompagnare dalla mia segretaria».Aprì la porta. «Ines!» gridò, e la tracagnottasessantenne riapparve nel corridoio. «Accompagni isignori in ufficio da Limetti. Mi faccia il favore».

La donna annuì e spalancò un braccio indicando ladirezione opposta all’ascensore. «Prego, se voleteseguirmi».

«Lei rimane in ufficio, dottor Berguet?» chieseRocco.

«Certo. Certo. Per qualsiasi cosa mi trova qui».«E anche lei, dottor Cerruti?».«Sicuro» rispose quello sedendosi di nuovo sul

divano.

«Bene. Tanto ho la sensazione che ci rivedremo». Elo disse serio. Voleva suonare come una minaccia. Ecome una minaccia suonò.

Fabio era un ragazzo sulla trentina, biondino, pallidoe due occhi blu enormi senza sopracciglia gli davanoun’espressione un po’ stupita e innocente. Era

tranquillo e disponibile, con una vocina esile, quasi dadonna, consegnò gli incarti delle buste paga di CarloFigus e addirittura lasciò soli i due poliziotti nellastanza a leggere i faldoni.

«Ma che cerchiamo?» chiese Italo.«Tu continua a guardare il parcheggio. Se Berguet

esce gli corriamo dietro». Rocco spulciava i fogli. «E

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allora, dov’è il biondo? Devo fargli un paio didomande».

Come ad esaudire il desiderio del vicequestore, Fabio

aprì la porta con un bicchiere di carta in mano. «Ah,Fabio caro, proprio di te avevo bisogno. Vedo qui che iconti delle paghe li regola la Cassa di Risparmio dellaVallée».

«Certo. È la banca che da sempre lavora con noi».«Ottimo. Sono lì i conti della società?».«Lì e presso la Banca Nazionale del Lavoro. Ma

soprattutto lì. Anche l’ingegnere ha lì il conto personale».

«E lei? Dove li tiene i risparmi?».«Io che, dottore? Con quello che guadagno è già un

miracolo se arrivo a fine mese».Rocco e Fabio si fecero una bella risata senza

 pensarci più. Italo continuava a tenere d’occhio il parcheggio. «Ma le cose stanno andando meglio?».Fabio guardò il vicequestore. Non aveva compreso la

domanda. Rocco chiarì il concetto. «Dico, qui allaEdil.ber, le cose stanno andando meglio? I soldi cisono?».

«Ah!» fece Fabio ritrovando il sorriso. «Sissì, molto

meglio. Da un mese a questa parte i pagamenti sonoregolari. Certo a volte succede, insomma, mancanza difondi e di liquidità, ritardi dei pagamenti, i fornitori che

 bussano alla porta. Ma ora sembra che le cose si sianoappianate».

«Insomma il suo stipendio arriva».«Il mese scorso sì. Speriamo pure questo» rispose

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Fabio con la sua voce da mezzo soprano.Poi il vicequestore si alzò. «Grazie Fabio, sei stato

d’aiuto. Di grande aiuto».

«Adesso tu e Antonio vi mettete sulla coda di PietroBerguet e di quell’altro, il barbetta».

«Cerruti?».«Esatto. Non li mollate mai».Italo ingranò la marcia e accelerò. Entrarono ad

Aosta a 100 chilometri orari. «Ti lascio in questura?».«Sì».«Ma avvertire il giudice no?».«A suo tempo. E il tempo, caro mio, non gioca a

nostro favore». Neanche tre minuti e l’auto di servizio inchiodò di

fronte alla centrale. Rocco scese. Ci fu un tuono e

subito si mise a piovere, come se una mano gigantescaavesse girato il pomello della doccia. «Porca troia...»correndo Rocco si rifugiò nel portone. All’entrata c’eraancora Casella. «Ma il cambio non te lo dà nessuno?».

«Sì, poi viene uno di sopra, uno di Napoli. Io stacco.Ah dottore, sono passati D’Intino e Deruta. Ma nessunanovità».

«Che gli hai detto?».«Quello che mi ha detto lei. Di continuare a cercaresenza fermarsi mai».

«Li hai visti stanchi?».«Stanchi? Parevano due cosi lì, come si chiamano gli

orsetti con gli occhi neri?».«Procioni?».

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«Esatto. Due procioni per le occhiaie che avevano».E Casella scoppiò a ridere, pensava di essere incombutta col vicequestore. Che però lo gelò

immediatamente: «Casella, che cazzo ti ridi? Vuoiandare a fare compagnia a Deruta e D’Intino?».

«No, dottore».«E allora poche risate». E lo piantò lì all’ingresso.

Salendo le scale incrociò Scipioni che scendeva dicorsa. «Raggiungo Italo, dottore».

«Sì, ma muovetevi con due macchine. Dovete essereautonomi. Datevi il cambio e tenetevi sempre incontatto con me o con l’ispettore Rispoli».

«Signorsì. E grazie».«E di che?».«Della fiducia. Il lavoro da scrivania non è per me».

E sparì con un bel sorriso sulle labbra.Quando Rocco aprì la porta dell’ufficio non trovòCaterina Rispoli e ne approfittò per prendersi un’altracanna dal cassetto. Poi alzò il telefono. «Architetto?Sono il vicequestore Schiavone».

«Mi dica, dottore...».«Qual è la scuola di sua figlia?».

«Il liceo scientifico a via Cretier. Perché?».

Ho dormito? Ho sognato? Dove sono?Sempre lì. Sempre legata con il cappuccio in testa.

Respirò tutta l’aria possibile. Ancora non s’era abituataalla puzza di quella tela scura e lercia che aveva infaccia. Si sgranchì il collo spingendo con la testa. La

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nuca toccò la colonna alla quale era appoggiata lasedia. Che fosse una colonna ormai l’aveva capito. Eanche che fosse legata a una sedia. Continuò a muovere

il collo.Se sbatti più forte contro il muro ti apri la testa e

 finisce ’sta storia. Di nuovo la vocina. Ma Chiara non voleva darle

retta. E lì sotto? Fa male? Fa male? Meno. Lì sotto faceva male molto meno. Percepiva

ancora il dolore, ma come un ricordo di quello che erastato prima di addormentarsi. Quante ore erano

 passate? Non lo sapeva.Vedo gli scaffali di ferro. Tutta quella roba

arrugginita sopra. Adesso c’è un po’ di luce.Poggiò di nuovo la nuca sulla colonna e ricrollò con

il viso in avanti. Sbatté contro la stoffa ruvida delcappuccio che non seguiva più il suo movimento.Riprovò. Niente da fare. Il sacco restava immobile.

S’è agganciato. S’è incastrato...Provò ad appoggiare di nuovo la nuca sul cemento

duro. Poi scattò in avanti. La federa dura e puzzolentenon si staccava.

A cosa s’è agganciato? A un chiodo? A unasporgenza? Sì! Sì!«Sììì!».La prima bella notizia.Devo scivolare in basso. Più in basso che posso. Così

si sfila. Così mi lascia libera.Doveva provarci. Era difficile, ma poteva farcela.

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Rattrappì gli addominali e rinculando lievementecercò di abbassare il busto. Sentì il viso strusciare sullatela. Buon segno. Significava che il corpo si muoveva e

il cappuccio invece restava fermo.Inarcò la schiena tirando i muscoli della pancia.

Guadagnò qualche centimetro, ma ancora non bastava.Più in basso. Devo andare più in basso.Rincalcò il mento più che poté. Vide un nastro di

scotch argentato che le cingeva il petto.Questo mi inchioda alla sedia! Lo scotch. Sul seno!

Se riesco a portare lo scotch sopra le tette... è fatta! Èfatta! Si allenta e mi posso spostare di lato. E più giù. Emi tolgo questo sacco puzzolente dalla testa.

 Ma non devi sudare.La vocina era tornata.Se sudi si appiccica tutto e non scivola più niente,

rimani incastrata! «Non sudo! Non bevo e non sudo» urlò.Che c’entra? Ti sei fatta la pipì addosso, e allora

 può essere che sudi pure. «Vaffanculo!».

 Non sudare... Aveva ragione. Non doveva sudare! Se avesse sudato

la maglietta si sarebbe incollata alla pelle, non sarebbe più scivolata e lo scotch sarebbe rimasto lì, sul seno, ainchiodarla come l’insetto di un entomologo. Dovevafare molta attenzione. Muoversi lenta senza strappi.

 Hai sete, e quando hai troppa sete poi ti addormenti. E muori, vero? 

«Non rompere!» gridò.

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Ricominciò a inalare l’aria puzzolente, a gonfiare il petto per muoversi lentamente verso il basso, poi conun respiro buttò fuori tutto l’ossigeno e si tirò giù di

scatto. Niente da fare. Lo scotch restava bloccato sulseno.

 È inutile. Non ce la fai. Fa ridere. Hai le tette piccolema non ce la fai! 

Tentò di nuovo. Aria, gonfiare il petto, scivolare giù,espirare l’aria, tornare su. Stava sudando.

La testa. Mi gira la testa. Mi torna tutto su.Ma Chiara non si fermò. Tre, quattro volte ancora.

 Non ce la fai! Poi all’improvviso accadde. Lo scotch argentato salì

verso le spalle e finì a un palmo dalla gola. Avevaguadagnato qualche centimetro.

«Vai!» urlò Chiara. «Ce l’ho fatta, stronza! Stronza!».

Si fermò a riprendere fiato. Ora doveva sperare che ilsacco fosse ancora incastrato.Ti prego, ti prego, ti prego...Poteva muovere il busto. E allora si lanciò sulla

destra, contraendo ancora una volta i muscoliaddominali e accasciandosi di lato. Strappò una, duevolte, sentì un dolore sul fianco sinistro ma non mollò.

E finalmente...Aria!Le arrivò una folata di vento sul volto, come se

avessero aperto una finestra. Respirò più a lungo che poté, trattenendo l’aria pulita e fresca nei polmoni. Legirò la testa, ma non era importante, era quasi

 piacevole. Le guance e la fronte erano più fresche.

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Libera! Sono libera! Respiro l’aria vera! È buona!Il cappuccio doveva essere ormai alle sue spalle,

agganciato a un chiodo o a una sporgenza della

colonna, lo immaginò pendulo e moscio come una pelledi pollo. Sputò per terra la puzza che la attanagliava daore, la polvere che era stata costretta a inghiottire. Efinalmente si guardò attorno.

Una stanza di una decina di metri quadrati. Davanti alei scaffali di metallo con vecchi attrezzi. A sinistra una

 parete con un lavandino che gocciolava. Avrebbevoluto lanciarsi su quel rubinetto sporco e arrugginito

 per leccare ogni goccia. A destra un altro muro con unafinestra in alto. Si vedevano le nuvole. E un gatto rossoche la osservava chissà da quanto.

«E dove sta questo Max?».

«Quarta A» rispose Giovanna spennazzando le cigliasugli smeraldi degli occhi. «Ma Chiara? L’avetetrovata?».

Rocco fece no con la testa. «No, Giovanna, ancoraniente. Ora torna in classe. Io chiedo al preside di

 parlare con questo Massimiliano Turrini». Rocco sivoltò verso il preside, un uomo sui 60 anni, che era

rimasto a braccia conserte appoggiato all’uscio dellasegreteria durante tutto il tempo in cui Rocco avevafatto domande a Giovanna. «Dottor Bianchini, devo

 parlare con Massimiliano Turrini, della quarta A. Salgosu o lo manda a chiamare?». Il preside non rispose.Aspettò che Giovanna uscisse dalla stanza, poi a

 passetti rapidi si avvicinò a Rocco Schiavone. «Senta,

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dottor Schiavone, io sono felice di collaborare, ma sirende conto che andiamo sulla fiducia?».

Rocco lo guardò. Aveva già catalogato Eugenio

Bianchini, preside del liceo, nel suo bestiario mentale.Era un Sorex araneus, comunemente detto toporagno.Un naso enorme e all’insù, e sotto un paio di baffetticorti e a spazzola alla Bristow, il famoso impiegato delcartoon di Dickens, gli occhi piccoli e neri dietro un

 paio di occhialetti tondi.«Scusi, non ho capito cosa intende, dottor

Bianchini».«Sto cercando di dire che qui stiamo svolgendo

regolare lezione, e non vorrei che la sua presenza possaspaventare o mettere in allarme i miei allievi. Siamosicuri che c’è proprio bisogno di tutto questo?».

«Sì».

«Ma non dovrei vedere un foglio di carta firmato daun giudice?».«No».«Senta, dottor Schiavone, la faccio semplice. Max

Turrini ha avuto qualche problemino, lo so e losappiamo tutti».

«Io no».

«Be’ insomma, ogni tanto vende delle cose pocolecite. Se è per questo io...».«Non sono qui per questo. Lo spaccio di Max Turrini

sarà argomento di un’altra visita che farò al suo liceo».«Mi permetto di insistere. È un ragazzo d’oro, suo

 padre è un medico importante, e bisogna andarci coi piedi di piombo. È un elemento un po’...».

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«Un po’ che? Spaccia, e allora? Senta, la ringrazio,ma mi creda, sono qui per un altro motivo. E userò iguanti di velluto».

Il preside afferrò Rocco per un braccio: «Io sonotenuto alla discrezione, ma anche a proteggere i mieiallievi».

Rocco guardò quella manina bianca che gli stringevail bicipite. Il preside mollò immediatamente la presa.«Bianchini, se è per questo lei è tenuto anche a

 proteggere la sua persona».Il preside rimase spiazzato. «Non la capisco».«Mi spiego meglio». Rocco si alzò dalla sedia.

Superava il direttore di almeno trenta centimetri. «Nonè che io stamattina non avevo un cazzo da fare e misono detto: Rocco, perché non te ne vai un po’ in quelliceo a fare delle domande ai ragazzi, così passi la

mattinata?».Respirava piano, il dottor Bianchini, nel poliziottoche aveva davanti sentiva crescere un’ostilitàaggressiva. Ma lui era pur sempre il preside di unascuola, e non aveva certo bisogno di sentirsi dare gliordini da un qualsiasi vicequestore. Almeno non dopoventi anni di ordini subiti dall’amata consorte, signora

De Cicco in Bianchini, e da sua madre Rosa, 87 anni el’energia di Coppi sul Pordoi. «Lo sa che le dico, dottorSchiavone?».

«No, cosa mi dice?».«Che se vuole parlare con Massimiliano Turrini,

 prima voglio...».Rocco lo interruppe con un gesto improvviso.

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Bianchini per un momento ebbe paura che stesse perschiaffeggiarlo. «Quanti anni ha Massimiliano Turrinidetto Max?».

«Venti, mi pare».«E fa il quarto anno?».«Esatto».«Bene, allora Einstein è maggiorenne. Quindi se non

le dispiace...» scansò il direttore e uscì dall’ufficio.Ma il toporagno non aveva intenzione di farsi

scavalcare così facilmente. «Lei non può piombare inuna scuola senza un mandato, uno straccio di fogliodella questura o della procura e pretendere che...».

Stavolta Rocco si girò di scatto, afferrò l’uomo per il bavero, lo guardò negli occhi: «Senti testa di cazzo.Adesso ti dico una cosa, una cosa che per la tua salutesarebbe stato meglio tu non sapessi, ma visto che insisti

te la dico. Io sto cercando di salvare una tua allieva,Chiara Berguet, che è in un guaio grosso come unacasa. E se questa notizia comincia a girare per la città,ci sono buone possibilità che la ragazza ci lasci le

 penne. Ora ti è chiaro oppure devo passare alle maniereforti?».

«Lei... lei è già passato alle maniere forti» balbettò

Bianchini. Rocco lo mollò. Gli rimise a posto la giacca.«Lei non sa nulla e nulla io le ho detto. Se riusciamo asalvare Chiara, un po’ di merito ce l’avrà anche lei, equesto sarà possibile se la pianta di mettersi in mezzo erompere le palle. Sono stato chiaro?».

Bianchini annuì.«Vado io in classe o lo fa venire qui?».

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«Mando un bidello. Aspetti in segreteria». E scappòvia.

Massimiliano Turrini detto Max e ribattezzatoEinstein da Rocco compensava la sua mancanza ditalento negli studi con una bellezza sfacciata. Alto unmetro e novanta, biondo come un angelo, ammesso chegli angeli lo siano, gli occhi neri e profondi. I denti,

 bianchi e dritti, spuntavano dalle labbra carnose. Il nasoera importante ma invece di stonare dava a quel viso uncolpo di virilità.

«Quindi allo Sphere eravate tutti e quattro».«Sì, mio cugino Alberto con Giovanna, io e Chiara.

Abbiamo ballato e fatto un po’ di casino. Però Chiaraha bevuto troppo».

«Come lo sai?».

«Perché a un certo punto è sparita. Io sono andato ingiro a cercarla e l’ho trovata al bagno che vomitava.L’ho portata fuori, le ho fatto prendere un po’ di aria,una sigaretta. Vabbè, sono cose che succedono, no?».

«E certo».«Poi niente, commissario».«Vicequestore, Max, è la terza volta che te lo

dico...».«Ah sì, scusi, è vero. Poi niente, l’ho riaccompagnataa casa e me ne sono andato».

Rocco prese una sigaretta dal pacchetto e la accese.Max lo guardò con gli occhi di fuori: «Dottore, quimica si può fumare!».

«Vero. E sai cosa ho saputo? Che nelle scuole

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neanche si può spacciare».Max abbassò lo sguardo.«Hai smesso?».

Il ragazzo fece solo sì con la testa.«Dimmi una cosa. Freghi i medicinali dallo studio di

tuo padre?».Sorrise ingenuamente, poi si grattò i capelli biondi.

«Qualche volta sì... Roipnol, Stilnox, insomma robetteche fanno sballare. Solo che... glielo giuro, non lofaccio più». E incrociò gli indici davanti alle labbra

 baciandoli due volte.«Allora, Max, ora voglio che ti concentri. Quando hai

riaccompagnato Chiara, tu l’hai vista entrare in casa?».Ci pensò su un attimo. «No, è scesa, è arrivata alla

 porta e io me ne sono andato».«Cioè tu non hai aspettato che aprisse?».

«No. Perché?».«Ma perché sì, Max. Funziona così quando siaccompagna una ragazza a casa. Non te l’ha insegnato

 papà?».«No. Con papà ci parlo poco».«Già. Ti limiti a svuotargli l’armadietto dei

medicinali. E con mamma?».

«No, non me l’ha mai detto».«Cazzo!». Rocco si alzò. Aprì la finestra per buttare lasigaretta. Fuori pioveva ancora. «Ma non smette più?».

«Lo sa che l’anno scorso ad Aosta ha nevicato amaggio?».

«Lo sai che se succede pure quest’anno io commettoun omicidio?». Il vicequestore chiuse la finestra.

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«Vabbè, Max. Torna in classe. Quest’anno come vai?».«Come vado dove?».«Intendo, come vai a scuola? E non dirmi con la

moto che ti do un calcio nel culo».Max ci pensò sopra. «Ah, come vado... benone. Mi sa

che mi prendo mat, fisica e chimica».«Che al liceo scientifico è un bel risultato».«La sa la cosa buffa? Il mio prof di matematica è

 proprio lo zio di Chiara».«Marcello Berguet?».«Che dice, mi faccio fare una raccomandazione da

Chiara?». Poi sembrò pensarci un po’. «Dottore, ma perché mi fa tutte queste domande su Chiara? PureGiovanna ieri a chiedermi di lei».

«Quand’è stata l’ultima volta che l’hai sentita?».«Domenica sera».

«E da allora?».«L’ho chiamata due volte ma è staccato. Allora le homandato un messaggio su Whatsapp. Ma ancora non miha risposto. Lei sa qualcosa?».

«Mi sa che è andata dalla nonna a Milano».«Ma che è matta? La nonna è mezza rincoglionita!».«E sì, forse sì. Stammi bene, Max. E mi raccomando.

 Niente più traffici strani».Il ragazzo si alzò dalla sedia. «Giuro!». Aprì la portama non uscì. «Dottor Schiavone, ma che mi devo

 preoccupare?».«Un po’ sì».Max guardò il poliziotto, poi abbassò la testa. «È

successo qualcosa a Chiara e lei non ha il coraggio di

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 No. Non c’è proprio nessuno di nessuno. «Devi stare zitta! Sto pensando!».Rapita. M’hanno rapita e portata qui. Ma si porta

l’acqua, si porta da mangiare al rapito. Magari nellaciotola di un cane, ma non si abbandona, no?

A terra non c’era niente. Nessuna ciotola, nessuncontenitore. E la vecchia porta di legno aveva unacatena che la serrava per bene attraverso un buco nelmuro.

«C’è nessuno?».Secondo me se arrivano è pure peggio. «Peggio di così?».Sì. Tanto arriva mio padre. Lui adesso sistema le cose.

Vero papà?Il fruscio di alberi mossi dal vento. Poi

all’improvviso uno scroscio. Fuori pioveva.Ci pensi se la cantina si allaga? «Vaffanculo!».

 Fai la fine del topo. Tirò le braccia con tutte le forze. Ma a parte segarsi i

 polsi non ottenne altri risultati. Non muoio qui, non muoio qui. Qui non ci muoio.

Sei sicura? 

La Cassa di Risparmio della Vallée aveva un intero palazzetto a via Frutaz. E al piano terra dello stessoc’era l’agenzia numero 1. Con il loden e i capelli

 bagnati per la pioggia che da un po’ non dava segno dicedere il passo al maggio odoroso, Rocco Schiavone

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cercò di entrare nella porta girevole. Ma a metà quellasi bloccò. Una voce atonale lo intimò di lasciare chiavie altri oggetti metallici negli appositi armadietti. Rocco

eseguì. Tenne con sé solo il cellulare. Ma la porta si bloccò di nuovo. Dietro il vetro la guardia giurata glifaceva cenno in maniera un po’ brusca di tornare agliarmadietti. Rocco alzò gli occhi al cielo e lasciò ancheil cellulare. Ma la porta si bloccò per la terza volta.Ancora la guardia lo intimò. Rocco spalancò le bracciaa voler dire «non ho più niente». Ma il vigilante nonsentiva ragioni. Sordo alle proteste intimava Rocco ditornare nuovamente agli armadietti. Il vicequestoremise una mano in tasca. Prese il portafogli. Attaccò iltesserino della questura al vetro e invitò la guardiagiurata ad avvicinarsi per leggere. Poi, dal momentoche farsi ascoltare attraverso tutto quel cristallo

antiproiettile era impossibile, si indicò la bocca escandì «polizia-se-non-apri-’sta-cazzo-di-porta-ti-rompo-il-culo». E sorrise. La guardia fece cenno di avereinteso e andò a premere un pulsante vicino alla portagirevole che finalmente vomitò il vicequestore in

 banca. «Ecchecazzo, mi devo spogliare nudo perentrare qui dentro?».

«Forse avrà una catenina» provò a giustificarsil’addetto alla sorveglianza.«Non ho catenine».«Qualche placca di metallo nelle ossa?».«Ce l’ho nei coglioni. Sarà quella?».La guardia non rispose.«Il direttore. Devo parlarci subito».

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L’uomo indicò una porta al lato delle casse. «Terzoufficio in fondo».

«Grazie».

«Lei mi deve scusare, faccio solo il mio lavoro».«No, è lei che deve scusare me. Anche io faccio il

mio».Si girò verso le casse con dei clienti in attesa. Seduta

c’era Anna che lo guardava. Rocco abbozzò un sorriso.La vide scrivere qualcosa velocemente su un foglio dicarta, che poi mostrò a Rocco: «Devi sempre fartiriconoscere?».

Rocco aguzzò la vista. Lesse il messaggio. Poiallargò le braccia e infilò la porta degli uffici.

«Dottor Schiavone, sono molto contenta diconoscerla» esordì Laura Turrini, direttore della banca,

45 anni portati distrattamente.«Dottoressa Turrini... mi tolga una curiosità, suofiglio è Max Turrini, quarta A?».

«Oddio! Cos’ha combinato stavolta?».«Niente, niente. Solo una coincidenza».Laura Turrini con un fiato spazzò via il grumo di

ansia che le si era piazzato nella trachea. «Per fortuna,

meno male. Io e mio marito pensavamo di mandarlo incollegio, sa?».«Così dai barbiturici del padre passerà direttamente

al soldo del cartello di Medellin...».«Ma prego, si segga». E indicò il divanetto

dell’ufficio. «Posso offrirle un caffè, dell’acqua...».«Acqua no, grazie, basta quella che c’è fuori» e

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indicò la finestra che piangeva migliaia di lacrime.Laura sorrise e si sedette accanto al poliziotto. Il

tailleur elegante di un colore indefinito fra il rosa e il

lilla faceva a pugni con la carnagione chiara e lelentiggini. I capelli biondi erano frutto del lavoro di un

 bravo parrucchiere. Il colore originale Laura ormai loaveva perso da tempo. Gli occhi neri guizzavano da una

 parte all’altra. Lanciavano messaggi, si ritraevano,sorridevano. Laura Turrini parlava con gli occhi. E inquel momento erano puntati sul viso di Rocco. «Lo sa?Ho sentito molte cose di lei. Qui ad Aosta le vocigirano. Lei è molto in gamba».

«Pare».«Ha un solo difetto. Non ha il conto qui». E si mise a

ridere. Aveva la stessa dentatura perfetta di suo figlio.Indugiava un po’ troppo sulla risata, come a mostrare la

 perfezione di molari e incisivi. Chissà quante volteaveva provato quella posa davanti allo specchio. Colloleggermente piegato all’indietro, testa alta, mento inavanti e labbra aperte per mostrare tutta la chiostra.

«È vero. Non ho il conto qui». Rocco andò subito aldunque. «Che mi dice dell’Edil.ber?». E il sorriso diLaura Turrini si spense. «Cosa vuole sapere?».

«Hanno qui i conti?».«Diciamo che questa banca è un loro punto diriferimento».

«Linee di credito?».«Certo. Abbiamo sempre sostenuto l’Edil.ber. Ma

 posso sapere perché mi chiede queste cose?».«Stiamo cercando di capire cosa è successo mesi fa,

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con tutto il problema degli operai...».Laura annuì lisciandosi la gonna sulle ginocchia. «Sì.

Guai con i pagamenti. La Edil.ber aveva dei ritardi di

incasso, ma poi grazie a Dio tutto si aggiustò».«Siete stati voi a sovvenzionare la Edil.ber?».Laura fece una pausa. «Sì» rispose.«So che lei non è tenuta a rispondermi, posso sapere

con quanti soldi avete aiutato la Edil.ber?».«L’ha detto lei. Non posso rispondere».«Serve un giudice?».«Credo di sì».Rocco annuì. «Però me lo può dire da quanti anni

lavorate con la società di Pietro Berguet?».«Certo. Almeno quattro».«È Pietro il cervello dell’azienda?».«Direi di sì. Anche l’ingegnere Cerruti però. Sono

una coppia affiatata. Cerruti lavora nell’azienda da poco tempo, ma si è subito fatto apprezzare».«E il fratello di Pietro? Marcello?».«Marcello? Marcello è un professore, e nella società

non ci lavora. Anzi, lo sa? È il professore di mio figlio. Nella società ha solo una percentuale. È nel Cda, manon prende decisioni importanti».

«Lei conosce molto bene la famiglia Berguet?».«Certo. Io e Giuliana siamo amiche dal liceo. I nostrifigli, lei lo saprà, sono fidanzatini».

«Mi dica una cosa, dottoressa Turrini. Ci sono statimovimenti importanti di denaro sui conti personali diBerguet negli ultimi giorni?».

«Anche a questa domanda non posso rispondere».

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«Gode di buona salute, economicamente parlando?».«No comment».«Sempre il giudice?».

«Sempre il giudice, dottor Schiavone».«Lei non mi ha mai mentito, vero?».Sgranò gli occhi. «Ma come le viene in mente?»

quasi urlò Laura Turrini.«Allora la ringrazio e mi scuso per l’invasione. Le

auguro buona giornata».Rocco si alzò in piedi e anche Laura Turrini. A

Rocco sembrò molto sollevata che quell’interrogatoriomascherato da chiacchierata fosse finito.

Odiava le macchine di servizio. Avevano sempre lafrizione che staccava tardi, percussioni misteriose e

 preoccupanti abitavano il cofano del motore, non c’era

mai l’accendisigari, i sedili erano scomodi e affossati ei tergicristalli lasciavano strisce sul parabrezza percolpa della gomma usurata. Stava riportando l’auto inquestura per prendere la propria ma l’inno alla gioia diBeethoven, la suoneria del suo cellulare, attaccò ad unvolume superiore al rumore delle gocce di pioggia sullalamiera del tettuccio.

«Dimmi, Italo».«Allora, senta dottore...».Senta dottore, pensò Rocco. Italo non era solo.«E dimmi...».«Forse non è niente, ma Pietro Berguet è uscito dalla

Edil.ber ed è entrato in un negozio».Rocco mise la freccia e accostò. «Gli servirà

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qualcosa, no?».«Non credo. È un negozio per articoli da bambino. Si

chiama Biribimbi!».

«Biribimbi? Ma che cazzo di nome è?».«E che ne so? Mica gliel’ho dato io».«E che deve fare di così urgente in un negozio per

 bimbi?».«Da zero a dieci anni?» aggiunse Italo.«Scipioni è con te, vero?».«Già».«Allora lascia lui attaccato a Berguet. Tu invece

seguimi quell’altro, come si chiama? Cerruti, il vice».«Sotto ’sta pioggia?».«Ma perché, non hai la macchina?».«Abbiamo una macchina in due!».«Ma porca!» imprecò Rocco e mollò un pugno sulla

 plastica del cruscotto aprendo una lacerazione propriosopra l’autoradio. «Ma vi avevo detto di essereautonomi!».

«Dotto’, l’altra non aveva la benzina».«Annamo bene. Allora col taxi te ne vai in questura e

 prendi un’altra auto. Il taxi lo pago io».«E chi l’ha mai preso un taxi ad Aosta?».

Rocco guardò fuori dal finestrino imprecando fra identi. Poi qualcosa in strada attrasse la sua attenzione.Scese dall’auto.

«Dottore? Dottore?» Italo guardò Antonio Scipioni.«Ha messo giù».

«E ti credo, lo fai innervosire con questa storia dei

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taxi».«E che è colpa mia?».Lo sportello posteriore si aprì all’improvviso. «Ma

chi...?».Rocco Schiavone era appena entrato nell’auto

asciugandosi i capelli. «Dottore!».«Allora prenditi la mia auto» e consegnò le chiavi a

Italo. «È la Lancia qui fuori, la vedi?».«Cioè stavamo parlando ed eravamo...?».«A dieci metri. Tu, Antonio, rimani dietro a Berguet.

Il negozio è questo?» e guardò dritto attraverso il parabrezza.

«Esatto» fece Scipioni.La vetrina recitava: «Biribimbi! Tutto per i vostri

Biribimbi. Da zero a dieci anni».«Qualcuno sa dirmi cos’è un biribimbo?».

«Un bimbo birichino?» azzardò Scipioni.«Bravo, Antonio! Come t’è venuto in mente?».«Non lo so, dotto’. È mezz’ora che sto davanti a

questa vetrina a pensarci».«E chissà per quanto ci devi restare. Bene. Allora

muoversi, Italo».«Lei che fa, dottore?» chiese Pierron.

«Ombrello?».«Dietro» e Scipioni indicò il pianale posteriore.Rocco si girò, l’afferrò e scese dall’auto. «Qualsiasinovità chiamate» e aprì lo sportello.

«Aspetti» lo bloccò Italo.«Che vuoi?».«Benzina c’è?» chiese mostrando le chiavi della

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Lancia.Rocco alzò gli occhi al cielo. Si mise una mano nel

 portafogli, tirò fuori 50 euro: «Ecco, mettici la benzina,

tieni il resto e non mi scassare più il cazzo!». E uscìsotto la pioggia sferzante di maggio.

Bastarono due pozzanghere prese in pieno e RoccoSchiavone si giocò l’undicesimo paio di Clarks daquando stava ad Aosta.

«Porca troia!».In più l’ombrello di Scipioni, di chiaro pedigree

cinese, aveva già perso tre stecche e tutto floscio eraripiegato su se stesso come una piadina lasciandocolare spruzzi d’acqua sul loden e nel colletto delvicequestore. «Che Dio e tutti i Santi maledicanoquesta città, la pioggia, il vento e ’sto cazzo di

freddo!».La questura era a un centinaio di metri, doveva soloattraversare la strada. Le macchine sfrecciavano sucorso Battaglione Aosta lasciando sull’asfalto scied’acqua spumosa come motoscafi. Non c’erano lestrisce pedonali, ma per un romano quello non era maistato un problema. Gli indigeni della capitale, e Rocco

fra questi, sono abituati ad attraversare anche dietro unacurva su una strada a sette corsie ad altissimoscorrimento. C’è da dire che però gran parte della spesasanitaria comunale è riservata alle persone investite da

 bolidi impazziti. Che, come è risaputo e scritto anchesulle guide turistiche, a Roma non si fermano neanchedavanti alle strisce pedonali attraversate da una

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novantenne col girello.Rocco senza pensarci scese dal marciapiede. Le auto

suonarono, sfanalarono, ma grazie all’esperienza

capitolina il vicequestore elegante come un toreadorriuscì ad attraversare ed entrare illeso in ufficio. A

 parte le Clarks, ormai due bucce d’arancia muffite dagettare nell’indifferenziato, altri danni la pioggia nonaveva fatto.

«Eh, lo so... che ci vuoi fare? D’altronde...». Furionon reggeva più, seduto da ore al bar Settembrininell’omonima via di Roma, quartiere Prati, ad ascoltarele pene d’amore di Adele. L’argomento era il rapportofra lei e Sebastiano che sembrava arrivato al capolinea.Invano Furio aveva cercato di alleggerire la situazione,spiegarle che Seba era così, sembrava distratto invece

l’amava ancora come il primo giorno. Ma Adele nonsentiva ragioni. Parlava, parlava, parlava, e ormai aFurio del destino di quella coppia non gliene fregava

 più niente.Continuava a ripetere come un disco rotto: «Eh, lo

so... che ci vuoi fare? D’altronde...».Era l’una. Seduto a quel tavolino traballante dalle

dieci del mattino, si era giocato lo stomaco con trecaffè, un succo d’arancia e un enorme muffin alcioccolato. Ma dove trovava l’energia Adele?Osservava la bocca della ragazza muoversi, articolare

 parole, ma non percepiva più il senso del discorso, unrumore di fondo continuo senza una logica precisa.

«Eh, lo so... che ci vuoi fare? D’altronde...».

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Che si fotta, pensò Furio. Se Adele lo vuole mollare,che lo molli. Tutto sommato era da tempo che glielodicevano a Seba, lui, Brizio e pure Rocco: «Guarda che

se continui ti molla. Non le dai un’attenzione che èuna». Seba passava le ore in casa col muso lungodavanti al televisore oppure attaccato a Internet. EAdele? Lei, che fuori dalla porta di casa aveva la fila diuomini pronti a fare a cambio con Sebastiano, se l’erascordata. «Quello è peggio di un orso ormai. E non stamanco attento a quello che mangia. Hai visto com’èingrassato?».

In realtà Seba nella memoria di tutti era sempre statograsso, ma per darle ragione Furio continuava adannuire.

«Eh, lo so... che ci vuoi fare. D’altronde...».«Ho provato a farlo ingelosire, pure cor Cravatta. È

durato due giorni. Poi è tornato quello di prima».All’improvviso, a rompere quella monotonia, aspezzare quel ritmo cadenzato e un po’ sonnacchiosodelle lamentele, Adele afferrò Furio per le mani.«Furio, aiutami!» gli chiese.

«Ti aiuto? E come ti aiuto?». Furio sapeva che seavesse trovato la risposta l’incontro finiva lì. Serviva

una soluzione drastica al problema, che desse speranzaalla sua amica e che lo togliesse da quel tavolino doveormai stava facendo la muffa. «Vattene» le disse.

«E dove vado?».«Da tua madre, da tuo fratello a Brescia. Vattene

senza dirgli niente e stacca il telefonino. Se mi chiedenon so niente».

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«Mio fratello non c’è a Brescia. L’hanno mandato aBerlino. Da mia madre manco morta».

«Ma un’amica ce l’hai?».

«A Roma».«No, Roma no. Ti trova se vuole». Poi gli venne

un’idea balzana, ma si disse: perché no? Potevafunzionare. «Vai da Rocco».

«Ad Aosta?».«Eh, vai lì. Rocco il gioco te lo regge».«Furio, ma non lo so. Non lo sento da mesi».«Prova a chiamarlo, tanto il numero è sempre quello.

Vai lì e stai tranquilla. A Seba ci penso io. E ti dicocome reagisce, se si strappa i capelli o no. Almeno cosìdecidi una volta per tutte quello che vuoi fare».

«Ma lo sai che è un’idea?».«Vero?».

Furio era felice. Lui aveva trovato la soluzione,Adele il sorriso e poteva finalmente lasciare il barSettembrini e con lo stomaco sottosopra andare amangiare l’amatriciana da Stella e Brizio che facevanodue anni di matrimonio.

Le ore passavano e Chiara Berguet rischiava ogni

minuto di più. Magari la richiesta del contante era giàavvenuta, gli accordi erano già stati presi e la macchinadel riscatto era già in movimento. Non poteva piùrimandare, era arrivato il momento di andare dalgiudice. Baldi lo aveva ascoltato per un quarto d’ora.Senza annuire, senza muoversi, sembrava una mangustache osserva il cobra da azzannare. O viceversa. Quando

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Rocco finì di spiattellare la situazione, Baldi prese un bel respiro. E sputando fuori il fiato disse: «Perché soloora?».

«Perché volevo essere convinto. E lo sono».«E se è troppo tardi?».«Non credo».«Cosa glielo fa credere?».«È sparita domenica notte tardi. Oggi sì e no avranno

 preso i contatti».Baldi, da quell’ipercinetico che era, scattò in piedi,

attraversò l’ufficio e senza dire niente lasciò Roccoseduto davanti alla scrivania. Ma il poliziotto non sistupì. S’era abituato alle reazioni surreali delmagistrato. Notò che sulla scrivania dopo mesi erariapparsa la foto della moglie, segno che il rapportoconiugale aveva ripreso la via della serenità.

Quando Baldi tornò a sedersi teneva un dolcetto inmano e masticava sonoramente. «Vuole?».«No grazie».«Fa schifo. È quello del distributore automatico. Lei

come si sta muovendo?».«Ho attaccato due uomini al padre di famiglia».«Mmm» e il giudice mollò un altro morso alla

crostatina. «Non c’è denuncia. Io dovrei mettere itelefoni sotto controllo senza una denuncia».«Si viola qualche legge?» chiese Rocco. Il giudice

neanche rispose. Appallottolò la plastica che rivestivala merendina e la gettò nel cestino. La cartuccellarimbalzò sul bordo e rotolò sul pavimento.

«Plastica...» fece Baldi. «Moriremo soffocati dalla

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 plastica, lo sa?».Rocco annuì.«Da qualche parte nell’oceano c’è un’intera isola

fatta di plastica grossa come l’Europa. Eppure basterebbe così poco».

 Non c’era argomento per il giudice Baldi, politica,ambiente, difesa, per il quale non avesse soluzione.Dagli stipendi degli onorevoli al problema

 pensionistico o degli armamenti, debito pubblico elavoro, tutto per lui aveva una via di uscita semplice edi facile realizzazione.

«Lo sa come potremmo debellare la plastica dal pianeta? La si spara fuori dall’orbita terrestre, via, nellospazio profondo. Ogni continente costruisce razzi cheinvece di mandare in orbita satelliti, di cui ormai neabbiamo a sufficienza, lanciano tonnellate di plastica

nell’immensità. Cosa vuole che sia un continente chevaga nella galassia? Niente, una goccia nell’oceano. E per noi invece sarebbe la vita!».

«Mi pare un’idea buona e costosa» ribatté Rocco.«Costosa perché? Se è lo Stato a costruire i razzi, si

tratterebbe solo della materia prima e del carburante».«La forza lavoro?».

«Mobilitazione di tutti i fancazzisti che occupano posti statali senza fare niente. Già in questa procura ne potrei numerare una decina».

«Non faremmo prima a vietare la plastica del packaging?» propose il vicequestore.

«Ci penso su... Tornando a noi sono d’accordo con lesue scelte. Restiamo sotto traccia. Senza troppo

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clamore. Non possiamo rischiare».«Io le chiedo solo un’indagine patrimoniale della

Edil.ber. Non credo se la passino bene. In più voglio

capire il rapporto che hanno con la banca della Vallée.Il direttore si chiama...».

«Laura Turrini. La conosco benissimo. Cosa ha inmente?».

«Non lo so. Ma se uno ha avuto proteste di operai esindacati per pagamenti e poi le cose si sono aggiustate,insomma c’è bisogno che qualcuno questi soldi li abbiaanticipati».

«E lei vuole sapere se è stata la banca, appunto».«Appunto».«Cosa le fa credere che non sia stata la banca?».«Perché ho una certa età, e non è la prima volta che

mi capita una situazione così. Lei lo sa, io lo so, gli

imprenditori hanno spesso bisogno di liquidità».«E lei sospetta che non sia stata la banca a tirarlifuori?».

«Esatto, dottore».«Ne sono piene le cronache di queste cose,

Schiavone. Ma mi lasci dire, qui sta sbagliando e di brutto. La Turrini è persona di alto profilo morale e la

 banca che rappresenta è uno specchio di onestà. Daanni non sono mai incappato in nulla che potesse anchesolamente far venire qualche sospetto».

«Però è una pista, no?».Il giudice aprì un cassetto e tirò fuori una boccetta di

acqua. Svitò il tappo e con una sorsata la dimezzò.«Ahhh... fa schifo... io invece con la banca vorrei

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controllare se c’è stato qualche movimento di denaro.Se come lei dice la ragazza è stata portata via di casa,Pietro Berguet dovrà inventarsi qualcosa per pagare,

no?». Con una seconda sorsata finì la boccetta di acquae la spedì dritta nel cestino, stavolta centrandolo.

«Io non credo abbiano già pagato. Troppo presto».«Vero, Schiavone. Ha ragione. E poi chi ha grosse

società come la Edil.ber potrebbe usare soldi esteri,fondi, insomma non è che va allo sportello bancario aritirare due milioni di euro».

«No. I rapitori vogliono contanti, mica un bonifico».«Maddai?» fece ironico Baldi. «Per trovare i contanti

ci metterà un po’. Non è cosa di pochi giorni. E magarimuoverà più di un conto qui in Italia, facile anche oltreconfine. Va bene, io mi do da fare da quelle parti. Leistia dietro alla famiglia».

Rocco si alzò. Ma Baldi lo fermò. «Lo sa? LaEdil.ber è in gara per un appalto molto grosso qui inRegione. Dobbiamo andarci coi piedi di piombo».

«Per questo prima di venire da lei mi sono sincerato,dottor Baldi» rispose il vicequestore.

«E ha fatto bene. Chi sa la cosa in questura?».«Io e i miei uomini più fidati».

«Stanlio e Ollio?» chiese Baldi riferendosi a Deruta eD’Intino.«No, loro no».«Se scappa qualcosa ai giornali la ritengo

responsabile».Rocco guardò il giudice negli occhi. «E io potrei dire

lo stesso. Chi mi assicura che qui in procura non spunti

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fuori una testa di cazzo con la gola molto profonda?».Baldi rimase qualche secondo a guardarlo. «Faccio

finta di non aver sentito».

«Tenga ben presente invece quello che le ho detto. Seil chiacchierone fosse a casa mia, oggi l’avrebbe lettosui giornali». Afferrò «La Stampa» e la sbatté sotto ilnaso di Baldi. «E qui sopra non c’è».

Baldi annuì. Sorrise. Prese il giornale.«Io e lei faremo molta strada insieme mi sa».«Non lo so, dottore. Io l’unica strada che vorrei fare

è quella che mi porta a stendere le ossa su una spiaggiadella Costa Azzurra per il resto dei miei giorni».

«Faccia come me. Invece di pensare a una casa almare, perché non si concentra su una barca? Conquella, la spiaggia la cambia ogni giorno».

«Odio le barche, odio le onde e la puzza delle alghe.

Devo poter camminare e poi non ho neanche il patentino nautico».«Io prima o poi mi faccio un bialberi da sogno,

vedrà, e mi levo di torno una volta per tutte».«Le lascerò l’indirizzo della mia spiaggia. Invece

magari lei può darmi una mano. Dovrei ficcanasaredentro un negozio, si chiama Biribimbi».

«Come si chiama?».«Biribimbi» ripeté Rocco senza cambiareespressione.

«Ma che nome è?».«Secondo un mio agente nasce dall’unione di bimbi e

 birichini».«E allora perché non bimbicchini?».

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«Perché forse suona più come un’agenzia funebre?».«Vero. Birichinbimbi?».«Troppo lungo. E poi sulla scritta, come insegna

l’italiano, avrebbero dovuto mettere la emme. CioèBirichimbimbi, e addio al doppio senso».

«Dottor Schiavone, non crede che ci stiamoimpelagando in una discussione priva di senso?».

«Ho la sua stessa percezione».«Biribimbi. E perché vuole sapere di questo

negozio?».«Perché il nostro Pietro Berguet è là. In un momento

come questo mi pare strano che un imprenditore sioccupi di andare a comprare vestitini per bimbi da zeroai dieci anni. Peraltro Chiara è pure figlia unica e dianni ne ha 18. Non trova?».

Il giudice ci rifletté sopra. «Questione di un’ora e le

mando un bel fax in questura. Adesso il giudice Baldideve mettersi a lavorare». Si alzò in piedi con la manotesa verso Rocco. Al quale non rimase che stringerla.

«Mi raccomando, Schiavone, massima discrezione.In gioco c’è la vita di una ragazza».

«Gliel’ho appena detto io».«Le stavo solo suggerendo di utilizzare metodi più

consoni al ruolo che riveste».«L’ho sempre fatto».«Non mi risulta e lei lo sa».«Posso riavere indietro la mano?».«Certo». E il giudice finalmente gliela mollò.

Quanto tempo è passato? Quanti giorni? Dov’è che

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l’ho letto, o forse era in televisione. Si può resisteresenza bere al massimo una settimana. E io da quant’èche sto qui? Due giorni? Tre? Fuori è di nuovo buio.

Sta tornando la sera.Aveva passato il tempo a concentrarsi per non sentire

 prurito, per non provare dolore. Era debole, le facevanomale tutti i muscoli che riusciva a muovere. In piùsentiva i glutei formicolare, e le mani e i piedi. S’eranoaddormentati. Il sangue non circolava come avrebbedovuto.

Una settimana è il tempo massimo senza bere. Legatiinvece quanto? Sei giorni? Cinque? Il gatto rosso.Dov’è quel gatto rosso col campanellino al collare? Sec’è un gatto rosso col campanellino ci deve essere unacasa vicina.

Sì, ma non ti sentono. 

Aveva urlato fino a perdere la voce e a sputare unliquido rossastro. S’era ferita la gola inutilmente. Nessuno l’aveva sentita.

Può essere un gatto randagio. I gatti randagi stannoin città. Allora sono vicino a una città.

 E chi te l’ha detto? I gatti stanno dappertutto. Anchein campagna. E chi ti dice che sei ad Aosta? Potresti

essere dovunque. «Dove siete? Dove siete? Perché non venite?Perché?».

Dov’è quello che mi ha legato qui? Dov’è andato?Perché non torna a portarmi da bere? Ho sete. Ho sete efame.

La vecchia porta di legno tremò con una scossa

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improvvisa. Il cuore di Chiara smise di pompare, ilsangue si gelò e lo stomaco divenne più piccolo di unanocciolina.

Eccoli. Arrivano!Ancora due strattoni. Si aspettava di vedere la catena

scivolare dal buco e la porta aprirsi, e magari un uomocol passamontagna entrare con cibo e acqua.

Mio Dio! Se entrano ora mi vedranno senzacappuccio in testa! E se il rapitore entra senza il

 passamontagna, lo vedo in faccia, e mi uccide!«Ho gli occhi chiusi! Ho gli occhi chiusi!» urlò con

quel poco di voce che le era rimasto. «Non ho più ilsacco in testa ma ho gli occhi chiusi. Non vedo niente,lo giuro!».

Rimase in attesa. Con le palpebre serrate. Aspettò disentire il rumore della catena che scivolava, la porta

aprirsi.Ma non accadde nulla.Passarono i secondi. Riaprì gli occhi.«C’è... c’è nessuno? Per favore, rispondete!».

Il giudice era stato molto rapido. Neanche mezz’ora eil fax di Rocco aveva vomitato una pagina piena di

informazioni sul negozio d’abbigliamento per neonati.Mentre Rocco lo leggeva, Italo Pierron aspettavaseduto sulla sedia. Caterina non era più nella stanza.Era tornata a casa in anticipo perché aveva sentito lafebbre risalirle nel corpo.

«Negozio Biribimbi. È di un tale Carlo Cutrì.Residente a Lugano. Ha un socio, un valdostano,

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Michele Diemoz». Schiavone poggiò i fogli sullascrivania. «Io credo che dovremmo andare a farglivisita. Che ore sono?».

«Le sei e un quarto».«Sbrighiamoci».«Rocco, io sto morendo di sonno. Ti ricordi? Siamo

in piedi dalle due».«Allora vai a casa. E mandaci anche Scipioni. È

sempre dietro a Berguet?».«Sì. Ha chiamato. Quello è rientrato in casa verso le

cinque e mezza e non è più uscito. La moglie e ilfratello sono sempre lì. Invece io sono stato attaccato aquel tipo, Cerruti. Ha un’Audi TT  e per me comesecondo mestiere rimorchia le ragazze nellediscoteche».

«Cos’ha fatto?».

«È andato da un notaio, ecco, qui ho l’indirizzo».Tirò fuori una carta e la lasciò sulla scrivania. «DottorEnrico Maria Charbonnier. È a rue Piave, tre civicidopo il tuo».

«Va bene. Registrato. Ottimo. Tu, Italo, vaitranquillo a dormire. Al negozio ci vado da solo».

«Grazie. Domani?».

«Solita ora».«Alle nove?».«C’è un negozio che vende Clarks qui ad Aosta?

Quello dove mi servivo ha chiuso per fallimento».«Le hai finite?».Schiavone annuì.«Undici paia?».

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Schiavone annuì ancora.«Ma perché non ti fai un altro paio di scarpe?».«Ma perché non ti fai i cazzi tuoi? Allora c’è o non

c’è?».«Comunque no, non lo so...».«Se lo vieni a sapere, me ne compri un paio? 44».«Ricevuto...».Rocco si alzò dalla sedia. «Vado sennò chiudono.

 Notizie dei fratelli De Rege?».«D’Intino e Deruta?» fece Italo alzandosi. «Pare

niente. Missing in action».Schiavone annuì e senza aggiungere altro uscì

dall’ufficio.

Fuori era quasi buio e l’ultimo bagliore del giornosbavava appena le ombre nella stanza.

Era stato il vento a sbattere la vecchia porta di legnoscrostata dal tempo. Chiara cominciò a tremare dalfreddo. La pioggia non aveva smesso neanche per unattimo e l’umidità della cantina le stava entrando nelleossa. Fra pochi minuti sarebbe stato tutto nero e buio. Eallora il cervello le avrebbe camminato a zig zag, senzauna meta, né un punto di riferimento.

 Non mi piace. Non mi piace. Al buio si vedono lecose che non esistono. Si vedono le ombre grigie deitopi, i ragni grandi. E respira, il buio... come un corpoenorme che si nasconde e respira. Si avvicina, siallontana. Se ne sta acquattato in un angolo, poi appenadormo...

Dodici ore di buio. Dodici ore di presenze, forme,

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incubi e oscurità. Non ce la faccio. Mi fa male tutto. La testa... a

martello. Là sotto come un’onda. Le gambe. Le braccia.

Tutto. Chiodi? Pinze? Tenaglie? Fiamme? Lame? Hotutto addosso...

 Prova a dare una testata alla colonna. Così svieni ealmeno dormi, le suggerì la vocina.

Chiara cercava di non ascoltarla.Che ci vuole? Un colpo secco e via! Ti fai una bella

dormita! Se tiro i polsi, alla fine li libero. Me li taglio ma li

libero. Se aspetto avrò sempre meno forze. Prima ci provo e meglio è.

 Prova con le gambe. Le gambe sono più forti. Le gambe?

 Le gambe. 

Stavolta la vocina aveva ragione. Le gambe sono piùforti. Soprattutto le sue, che a 12 anni era stata una promessa dello sci. Quadricipiti e polpacci erano potenti. Doveva provarci. Poteva riuscire.

Se solo avessi un goccio d’acqua. E bla e bla e bla invece di fare parli e piangi. Parli e

 piangi. Forza! 

Cominciò a spingere le gambe in avanti. Erano bloccate alla sedia all’altezza della caviglia.Se è una catena puoi tirare pure tutta la vita, mica si

 spezza. «Se è una catena, stronza. Ma non fa rumore, quindi

non è una catena. È scotch!».Chiuse gli occhi e tirò ancora avanti e indietro, avanti

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e indietro. Nessun risultato. La stretta non cedeva, nonsi allentava. Accompagnava le trazioni saltando sullasedia. I glutei pungevano e facevano male. Anche i

quadricipiti e i muscoli delle braccia. Ma Chiara nonmollava. Stringeva le gambe, le allargava, le tirava inavanti, scalciava all’indietro. Le caviglie bloccate allasedia. Tirò un altro paio di calci. Sentì un cracimprovviso, un rumore di legna fradicia che si spezza,

 poi la sedia sotto di lei cedette. Cadde di lato, rovinò per terra sbattendo la testa sul pavimento. Una lamainfuocata le entrò nella coscia.

Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni.Allungò le gambe ormai libere dai legacci. Una zampadi sedia era ancora attaccata alla caviglia destra. Dietrola gamba sinistra, pochi centimetri sotto i glutei, un

 pugnale di legno era penetrato nella carne. Il dolore

insopportabile la stava paralizzando.Cos’è...? Cos’è...? Un... pezzo di legno? Unascheggia? È dentro la gamba. È dentro. Dio che male.Mi brucia. Brucia!

La zampa di una sedia, spezzata, s’era infilzata drittanel bicipite femorale. La macchia scura della feritadiventava sempre più grande.

Sangue? Esce tanto sangue.I muscoli tremavano come gelatina. Chiara strinse gliocchi e si vide, sdraiata a terra su un fianco, la gambasinistra ferita e sanguinante, la destra ripiegataall’indietro, le mani legate alla spalliera della sedia, ilviso schiacciato sul pavimento freddo. E il dolore cheaumentava di minuto in minuto.

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Se sto ferma si calma. Se sto ferma si calma. Stoferma, non mi muovo e passa tutto.

 Brava. Sta’ ferma. Così perdi tutto il sangue e muori. 

Aveva smesso di piovere. Le strade erano fradice edisseminate di pozzanghere peggio di un campominato. Rocco camminava attento a non caderci dentro.Squillò il telefono.

Furio, da Roma. Il cuore di Rocco cominciò asbattere le ali.

«Amico mio, come va?».«Bene, Rocco, bene. Che se dice?».«E che si dice? Solite rotture di coglioni».«Senti, ti prendo solo un minuto».«E dimmi».«Si tratta di Adele».

«Ha mollato un’altra volta Seba?» chiese Roccoscocciato.«No. Però vuole farlo. Quello è un coglione».«Sempre detto».«Allora io e lei abbiamo avuto un’idea. Lei sparisce

dalla circolazione per un po’. Quello si ingelosisce emagari la viene a cercare e lei ha la prova».

Rocco ci pensò. «Sì, mi sembra una buona idea. Edove si va a nascondere, però? Quello Seba la trovaovunque».

«C’è venuta in mente una cosa geniale».«E sentiamo. Però sbrigate che sono nel mezzo di

una cosa brutta».«Presto detto» fece Furio. «Viene da te».

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Rocco si fermò. «Da me? Come da me?».«Quello Seba non ci penserà mai che sta da te».«Ma... e dove si mette?».

«A casa tua, no?».«Ma ci sei mai salito qui a casa mia ad Aosta? Ho un

solo letto».«E nun ce l’hai un divano letto?».«Sì, ma Adele...».«Tranquillo, si tratta di qualche giorno. Poi torna a

Roma».«Secondo me siete matti. Però... vabbè... dille di

chiamarmi quando decide».«E certo. Oh, in bocca al lupo, adesso devo

scappare».«Guarda che io t’aspetto, sa?».«Mo’ che viene la bella stagione salgo. Promesso».

«E io ce credo. Stamme bene, Furio».Adele a casa sua. Era una cosa strana e pazzesca. Perdue motivi. Primo perché un po’ gli sembrava di fareuna cosa scorretta a Seba. Anche se, a guardare meglio,lo faceva per il suo bene. La seconda era Adele.Un’amica, la donna di Sebastiano, e per Rocco la donnadi un amico diventava immediatamente un uomo. Ma

insomma, avercela per casa, magari la mattina appenasveglio... insomma doveva resistere a non fare lostronzo.

E poi Marina? Che avrebbe detto? Lei e Adele nons’erano mai piaciute. Avrebbe accettato la cosatranquillamente?

Forse era il caso di trovarle un albergo. D’altra parte

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a casa sua non aveva mai messo piede nessuno. Enessuno doveva mettercelo.

Rocco girò l’angolo, in fondo alla via c’erano le

insegne luminose di Biribimbi. La strada era buia edeserta, e se non fosse stato per i neon del negozioavrebbe sicuramente centrato il rivolo d’acqua accantoal marciapiede che come un torrente in piena scendevaverso il centro della città. Cauto si avvicinò alla vetrina.Si affacciò e guardò dentro. Il negozio era vuoto. Iquarzi sparati al massimo davano all’ambiente un’ariaospedaliera. Una commessa, una ragazza sui 30 anni,

 bassa e cicciottella, era alla cassa. Premeva dei tasti,strappava degli scontrini, richiudeva il cassetto ericominciava. Lo fece per almeno sei volte. QuandoRocco entrò, quasi saltò sulla sedia. Guardò ilvicequestore e pallida disse: «Buonasera. Posso esserle

d’aiuto?».«Sì. Sto cercano delle tutine di spugna. Come quelleche ha in vetrina».

Il negozio era caldo, quasi una serra, e regnava unodore di plastica.

«Bene!» e la ragazza uscì dal bancone. «Se me lemostra...».

Rocco gliele indicò. «Ecco, quelle. Una gialla e unaverde».Erano tutine di spugna per neonati. Dal prezzo

esorbitante, a Rocco non era venuto in mente altro.«Mmm...» la ragazza stava pensando. «Quanti anni

ha il bimbo?».«Anni? Ha quattro mesi».

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«Ah, sì, già... vero. Quelle tutine mi sa che dopo unanno...».

«... non servono più. A meno che il bimbo non abbia

seri problemi di crescita» precisò Rocco.«Allora dovrebbero essere... aspetti...» si avvicinò ad

uno scaffale carico di scatole. «Dovrebbero essere...».Cercava con lo sguardo tenendosi un dito in bocca. Salìsullo scaleo che scricchiolò. Rocco si preparò ad un

 placcaggio volante nel caso i gradini avessero ceduto.«No, qui non ci sono. Aspetti un momento...» e si

avvicinò ad un mobile pieno di cassetti. Cominciò adaprirli compulsivamente. «Niente, neanche qui. Miscusi, sa? Ma io è da poco che lavoro al negozio. Forsenel retro?».

«Me lo sta chiedendo?».«No, stavo pensando che forse sono nel retro. Un

attimo».Aprì una porticina incastrata sotto gli scaffali e sparìalla vista. Rocco si avvicinò alla cassa. La ragazzaaveva lasciato il cassetto aperto. Vuoto. Neanche una

 banconota. Giusto qualche spicciolo e un paio digraffette di metallo. Gli scontrini che la ragazza avevaappena battuto erano sul banco, impilati in ordine.

L’ultimo riportava la cifra di 320 euro. Sentì untramestio e veloce tornò al centro del negozio. Laragazza spuntò dalla porticina. Aveva una scatola inmano. «Ecco, ne ho trovata una. Rossa. Può andare

 bene?».«Me la fa vedere?».La ragazza portò la scatola al banco. La aprì. Tolse la

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carta velina e mostrò la tutina. C’era la faccia dellaPimpa cucita sopra. «Quanto costa?».

«Aspetti...» cercò sulla scatola. Non trovò il prezzo.

Poi andò alla vetrina. Tornò indietro: «70 euro!».«Alla faccia!» disse Rocco. «Va bene, la prendo.

Anche se ne avrei volute due, ma con questi prezzi».«Deve essere di un ottimo materiale, sa?».«Dice?».«Penso di sì».Il vicequestore tirò fuori il portafogli e la carta di

credito. La ragazza guardò il tesserino magneticoneanche fosse stato un esemplare di vedova nera.«No!» disse spaventata. «No. Niente carte di credito o

 bancomat. Solo contanti, per favore».«Non li ho».«Ma il pos non funziona».

«E allora come facciamo?».«Boh» disse la ragazza.«Facciamo che torno domani?».«Ecco, magari. Mi sembra una bella idea».«Va bene, allora torno domani. Me lo metta da parte,

eh?».«Certo, certo». La commessa richiuse il pigiamino

dentro la scatola.«Le consiglio di abbassare un po’ la temperatura. Quidentro si muore».

«Magari, ma non so come si fa».«Ci sarà un termostato da qualche parte, no?».«Dice? Ora lo cerco».Rocco annuì e tornò alla porta del negozio che s’era

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appannata per la differenza di temperatura conl’esterno. «È stato un piacere».

«Anche mio. A domani».

«A domani... come si chiama?».«Carmelina. Melina, per gli amici».«A domani, Melina».«L’aspetto».Cara Melina, pensò Rocco, certo che torno. Ma non

domani. Molto, molto prima.

Verso casa. Il cielo bagnato. Nuvole basse, latemperatura in discesa. Sentì un brivido sotto il loden.Sicuramente avrebbe ripreso a piovere. I negozistavano chiudendo ma faceva ancora in tempo afermarsi alla pizzeria per prendere la cena. L’asfaltorifletteva le luci colorate delle insegne e le ombre dei

 passanti. I vetri del pub e del caffè erano appannati.Anche quello della pizzeria a taglio. Era ormai a pochi passi dal negozio quando vide Anna. Rocco si bloccò inmezzo alla strada. Abbassò la testa e si rifugiònell’angolo buio sotto il palazzo, lontano dal lampione.Guardò Anna scendere dal marciapiede e puntare drittoverso casa. Non l’aveva visto, oppure aveva fatto finta

di non vederlo. D’altra parte al telefono era stata chiara.Aspettò che la donna sparisse dentro il portone, poiriprese a passo deciso verso la pizzeria. Era stanco, glifacevano male le ossa. Aveva solo voglia di andare acasa e farsi qualche ora di sonno.

 Marina non c’è. Non la trovo in giro. Neanche a

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letto. Mi siedo al tavolo del salone. Apro l’involto della pizzeria. I tranci mi sembrano delle croste piene di pus,delle piaghe di un’ustione, degli herpes. Non ce la

 faccio a mangiare ’ste suole di scarpa. Il supplì è nero,l’avranno fritto nel paraflu. E la coca è calda. Anche se

 fa freddo, la coca deve essere fredda. La coca-colacalda si attacca al palato e uccide la voglia dicampare. Ammesso che uno ce l’abbia. 

Sonno. Sto crollando dal sonno. È strano. È tutto il giorno che penso a quella ragazza, Chiara, e non soneanche che faccia abbia. Se è alta, magra. Somigliaalla madre? A suo padre? Domani ti vengo a prendere,

 sicuro. Ti vengo a prendere.  Dio ’sto divano. S’affonda. S’affonda troppo. «Allora mi dica. Per 100.000 euro. Faceva coppia

con Marilyn Monroe ne  Gli uomini preferiscono le

 bionde».  Non lo sa. Ha vent’anni, che ne sa ’sto ragazzo?  Jane Russell, coglione! «Lauren Bacall?». Ti sei giocato 100.000 euro. Andate ai quiz e non

avete le basi? Che ci andate a fare, dico io. Cambiare! «E questo è ferribotte, detto il taciturno indoveché

laconico ma quando parla  TAC! Ogni frase è una sentenza!».  No, i soliti ignoti no. Mo’ mi tocca guardarlo tutto. «Chi beve birra campa cent’anni!». «Visto?». 

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Mercoledì

«Ti sei addormentato». 

«Che... che ore sono?». «Non lo so. È tardi» mi risponde Marinaaggiustandosi i capelli. Ma come fa? Se li mette dietro,

 sembra annodarli e quelli non si sciolgono. Cos’ha,una colla nelle mani? 

 È tardi. Fuori è buio. In televisione c’è un cartoneanimato. 

«Stavo guardando un film». «Lo so. Ma è finito da un pezzo».  Marina mi sorride. «Tu dov’eri, Marì?». «Perché non te ne vai a letto?». «Perché non posso. Non posso proprio. Mi fa male

tutto».  La schiena, il collo, le scapole, il bacino e pure le

 gambe. «Ti ricordi quando tornavo a casa i primi tempie mi facevi i massaggi?». 

«Come no? Ogni giorno che Iddio mandava interra». 

«Non ti piaceva?». «Per niente». «Perché non me l’hai mai detto?». 

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«Non lo so... sembravi felice». «Allora ora te lo posso svelare: io li odiavo i

massaggi». 

Ci mettiamo a ridere. «Ci sono tante cose che non tiho mai detto». 

«Per esempio?». «Non mi piacevi coi capelli corti». «Poi?». «Neanche quando ti mettevi le ballerine». «Mai avute». «Un’estate sì. A Santo Stefano». «Me le avevi regalate te». «Avevo sbagliato». «Cos’altro non mi hai mai detto?». «Per un periodo pensavo tu avessi un altro». «Io? E chi?». 

«Prosperi». «Giorgio? Il marito di Serena? Il chirurgo?». «Proprio lui». «Amore, mi aveva tolto l’appendice». «E allora?». «Come allora? Era il marito della mia migliore

amica!». 

«Appunto, un classico. Lo invitavi sempre a cena». «Li invitavamo sempre a cena». «Era pure laziale. Facevi la scema con lui». «Amore mio, Giorgio e io ci conoscevamo da

trent’anni. Chiudiamo ’sta storia. Che altro non mi haimai detto?». 

«Che mi manchi, Marina, mi manchi da morire». 

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«Non è vero. Lo sai perché dici così? Perché hai paura». 

 E di cosa avrei paura? «E di che?». 

«Non sono io che ti manco. Sei tu». «Ti sbagli. Ti ricordi quella frase? Il desiderio di

una persona è immortale». «Ma se lo riempi, svanisce. E svanisce anche il

bisogno di quella persona». «E come lo riempio?». «Forse l’hai già fatto». 

 Mi accarezza i capelli. La guardo negli occhi. «La sai una cosa, Marina? Mi sa che sto perdendo qualchediottria». 

«Le diottrie non c’entrano niente». E mi asciuga unalacrima. «Sono le due, Rocco. Vai a letto». 

«Non posso. Ti dico che non posso». 

Enzo Baiocchi respirava lento sotto le lenzuolaguardando il soffitto. Che era blu. La luce di sicurezzadipingeva tutto di blu. Il soffitto, le mani, le unghie, ilcomodino di ferro, il letto vuoto del vicino, la porta e lesbarre. L’orario era giusto. Le due e venti di notte.L’ultimo controllo era passato da dieci minuti e il

furgoncino della mondezza sarebbe arrivato fra un’ora.Doveva muoversi. Per prima cosa si infilò i calzini e lescarpe da ginnastica allacciandole col velcro. Si tolse lagiacca del pigiama per restare in maglietta nera. Baciòil crocifisso d’oro che portava al collo, poi si alzò eandò alla finestra. Il cortile era deserto. Solo le piante simuovevano alla brezza notturna. Un gatto attraversò

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veloce il vialetto di ghiaia, poi sparì fra le foglie di untronchetto della felicità.

Fra tre giorni l’avrebbero riportato in cella e addio

alle lenzuola fresche e al cibo dell’infermeria, addioalla musica che ogni mattina i paramedici sparavano atutto volume, addio al giornale e soprattutto addio allavoro fatto sulla terza sbarra a sinistra della finestra.Ci aveva messo due settimane di lavoro per scalzarladalla sede. E ora veniva via come il molare di unvecchio con la piorrea. S’era tenuto a dieta, aveva persotre chili e fra le sbarre ci passava benissimo. Nondovette neanche sforzarsi troppo. Era al pian terreno econ un salto di mezzo metro era già atterratosull’aiuola. Si guardò intorno. Le luci dell’infermeriaerano spente. Solo quella blu, spettrale, avvertiva che iricoverati erano sprofondati nel sonno. Nella stanza

controllo invece la luce era accesa. A quell’oral’infermiere, il medico di turno e le due guardiegiocavano a Risiko, il gioco di guerra e conquista delmondo coi carrarmatini colorati, i dadi e la mappa delglobo. Una moda importata da Frangipane, l’infermiere

 più giovane, che addomesticava la noia notturna. Perevitare le telecamere a circuito chiuso Enzo doveva

raggiungere il muro di cinta e camminare strusciandocicontro la schiena. Avanzò lentamente cercando di nonfar rumore passando sulla ghiaia. Raggiunto il muro,fuori dalla luce dei lampioni gialli, centimetro dopocentimetro, lento come un bradipo, Enzo si avvicinò al

 portone di ferro, ermeticamente chiuso davanti allastanza di controllo.

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«Attacco il Medioriente dall’Egitto con sette carriarmati» era la voce di Frangipane.

«Ti sfondo!» questo era Vito, la guardia.

Enzo aveva solo un punto scoperto prima di arrivareal portone. Illuminato dai lampioni, senza possibilità dinascondersi, doveva attraversarlo di corsa e sperare chenessuno controllasse in quel momento il centro del

 piazzale. Le guardie erano solo due. Per fortuna i taglial personale degli ultimi governi avevano decimato ilnumero di addetti alla sicurezza nelle carceri. Questorendeva la cosa più semplice. Se fossero stati a pienoorganico, Enzo non avrebbe mai potuto pensare a unafuga. Sulle torrette ce ne sarebbero state almeno quattro

 più altre tre nel cortile. Ora invece con solo due guardie penitenziarie, impegnate a non farsi prendere la Cina ola Jacuzia, la cosa poteva essere fattibile. Poteva

andare.«Uno, uno, due, ma che sfiga!» urlò Frangipane.«Ah ah ah. Il Medioriente non lo tocchi, bastardo.

Invece io ti attacco dall’Africa del Nord» urlò Vito.«Ma sei scemo, Vito?» una terza voce. Doveva essere

il medico di guardia. «Così Paolo ti entra dal Brasile,no?».

«Ma si faccia i cazzi suoi, dotto’!» era Paolo, l’altraguardia, che evidentemente accarezzava già i suoi sognidi espansione in Africa una volta che Frangipane sifosse indebolito su quel fronte.

Enzo chiuse gli occhi, prese un respiro e nonostante isuoi 60 anni suonati scattò come un fulmine verso il

 portone di ferro. Un pigiama celeste con una maglietta

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nera attraversò il piazzale illuminato dai quarzi. Velocecome un sogno al risveglio. Nessuno lo vide. Nessunose ne accorse. Nessuno stava guardando i monitor di

controllo.Enzo si accasciò ai piedi del portone. Respirava a

fatica e si asciugava il sudore. Ora doveva aspettare.Fra poco il portone di ferro si sarebbe aperto e ilfurgoncino sarebbe entrato a caricare la pattumieradell’infermeria. Tre sacchi grigi che stavano già davantialla sala controllo. Era il secondo momento piùdifficile. Saltare su da dietro e mettersi accucciato sulfondo del cassone, aspettando che gli arrivasseroaddosso i sacchi con i rifiuti alimentari di settericoverati, cinque infermieri, due medici e quattroguardie che si davano il cambio. L’unica cosa era noncedere al sonno. Ma su questo Enzo Baiocchi era

tranquillo. Aveva tanta di quell’adrenalina in corpo chenon avrebbe dormito per giorni, settimane, forse mesi.Sicuramente non si sarebbe riposato prima di andare afare visita al bastardo. Cosa che aspettava da cinquelunghi anni.

Alle tre di notte le luci degli uffici della questura

erano spente. Solo a piano terra e nella sala operativac’era qualche segno di vita. Alla porta d’ingressol’agente Miniero, appena trasferito dal Vomero, cercavadi risolvere un rebus sulla settimana enigmistica.

«Buongiorno!».La voce del vicequestore lo riportò alla realtà. Scattò

sull’attenti. «Dottore. Così presto?».

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«Sì». Chiuso nel suo loden salì agli uffici senzaaccendere le luci, tanto il percorso lo conosceva amemoria. Entrò nella sua stanza, alzò il telefono e

compose il numero.«Pr... pronto?».«Italo! Sono Rocco».«Ma...».Lo vedeva, l’agente Pierron, girare lo sguardo

cercando di capire se quella telefonata appartenesse allarealtà o al sogno che aveva appena lasciato sul cuscino.

«Che... che ore sono?».«Le tre!».«E che... che succede?».«Succede che ti vesti e corri in questura. Abbiamo

una visita da fare».«Ma a quest’ora?».

«C’è una ragazza rinchiusa da qualche parte cheforse è già morta. Te lo devo ricordare?».Pierron non rispose. «Italo! Ti sei riaddormentato?».«No, no. Dammi dieci minuti».«E non venire in divisa!».Rocco chiuse la telefonata e contemporaneamente

aprì il suo cassetto delle «preghiere laiche quotidiane»,

come aveva ribattezzato il suo bisogno giornaliero dimarijuana.La temperatura di notte scende. È cosa risaputa. Ma

quella notte di maggio stava esagerando. Fece l’ultimotiro. Un sorriso leggero già gli si dipingeva sul volto.Gettò il mozzicone in strada e chiuse la finestra.Oramai Italo stava per arrivare e decise di andargli

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incontro.Spense la luce e uscì dalla stanza. Nel corridoio buio

il bagliore tenue del distributore di merendine

illuminava due ombre. Due figure se ne stavano in piedi, ferme in mezzo al corridoio, con le mani calate,sembravano appena uscite da un incubo.

«Che cazzo?» disse il vicequestore.Erano Deruta e D’Intino. Il loro aspetto devastato li

faceva somigliare a due barboni ripescati dalle acque diqualche pantano maleodorante. Non erano più dueagenti di pubblica sicurezza, ma un lontano ricordo. Leloro divise tendevano decisamente al marrone. I visi

 pallidi, lunari, rigati da gocce di fango nere chescendevano lungo le gote disegnando una ragnatelad’orrore. D’Intino era zuppo e teneva il cappellosformato ancora in testa. Deruta era in maniche di

camicia, strappata davanti, mentre il fondo dei pantaloni gli era finito sotto le suole delle scarpe. Duereduci da una colossale disfatta, roba da Caporetto, dafronte russo nel ’43.

«Che cazzo avete fatto?».Fu Deruta a parlare: «Abbiamo cercato la casa di

Viorelo Midea».

Rocco dovette sforzare la memoria per ricordare chifosse Viorelo Midea. Quell’incertezza fu colta daDeruta: «Il rumeno, quello morto nell’incidente».

Rocco nascose il suo colpo a vuoto. «Lo so, lo so. Eallora?».

«Le semo truvate!» disse D’Intino felice. Poi si giròe vomitò accanto al distributore di caffè.

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 Un quarto d’ora dopo nella stanza dei passaporti,

Italo e l’agente Miniero avevano dato ai due poveracci

un po’ di tè del distributore mentre Rocco osservavadistaccato la scena.

«È stata dura, dottore» diceva Deruta.«Durissima».«Ma come avete fatto?» chiese Italo.«Ci abbiamo pensato».«E questa è la grande notizia della giornata» fece

Rocco.«È successo così. Abbiamo cominciato dalla casa

degli abissini».«Eritrei» lo corresse Schiavone.«Sì, insomma, quelli lì. E ci siamo fatti tutto il

 palazzo».

«Infilavamo la chiave in ogni porta» continuòD’Intino. «Niente. Non combaciava».«Pensi che una vecchia a D’Intino gli ha pure tirato

una borsa addosso perché non aveva visto la divisa.Allora abbiamo fatto tutto il palazzo accanto e quellodopo».

«Niente, non combaciava niente. Da usci’ pazzi,

dottore!».«Allora io ho fatto una pensata!» fece Deruta.«Veramente la so fatta je!» ribatté D’Intino.«Ma che dici? Io ti ho detto di andare al quartiere...».«No, io, e poi tu si dette: no! Ma io te so convinde

che...».«Vabbè, l’avete pensata tutti e due. Andiamo avanti»

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intervenne Rocco.«Allora abbiamo pensato che se questo non tiene i

soldi capace che vive in una casa povera».

«Però...» fece Italo trattenendo il riso. «Mica male».«Vero, Italo, bravi. Questa è una deduzione

fantastica. E chi ci avrebbe mai pensato?».D’Intino sorrise al vicequestore: «Vero? E così ne

seme girati un po’ di quartieri poveri. Che però adAosta mica ce ne stanno ’na frega!».

«No».«Poi ’sto cretino» disse Deruta indicando il collega

«che è andato a fare?».«Non lo so. Che ha fatto D’Intino?» chiese Rocco.«Una retromarcia dal parcheggio e sbam!» batté le

mani per sottolineare l’evento. «È andato a infrociarecontro un furgone».

«E l’auto?».«S’ha fracassate lu parafango e pure nu poco lufanale» rispose D’Intino a occhi bassi. «Mo’ camminamale e gli esce fumo dal motore».

Rocco alzò gli occhi al cielo.«Però nella sfortuna siamo stati fortunati assai»

 proseguì Deruta.

«Stringiamo?». Rocco ormai non reggeva più. Oarrivavano al punto o gli avrebbe tirato addosso tutti ifaldoni dell’ufficio passaporti.

«Abbiamo sbattuto contro un furgone di rumeni. Chestavano a riempire di roba da portare in Rumenìa».

«Romania, Deruta, Romania!».«Romania, sì. Però dotto’ non ci interrompa sennò

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 perdiamo il filo».«Vero» rafforzò il concetto D’Intino.«Non vi interrompo più».

Deruta prese una boccata d’aria. «Allora abbiamosbattuto con questi rumeni. Cioè, D’Intino ha sbattutocontro i rumeni, la colpa è sua. Però gli abbiamochiesto, giacché erano rumeni, se conoscevano aViorelo Midea. Uno di quelli ha sorriso e ha detto sì!».

«E ci ha detto pure dove abitava. E ci siamo andati!».«Mo’ viene il bello. Siamo arrivati alla casa.

Abbiamo infilato la chiave per vedere se combaciava esbam!». Deruta batté un’altra volta le mani.

«Ci si sono froncati addosso! Erano in quattro,dottore. Mazzate a cieca occhio».

«Io e D’Intino pure a mena’ alla cieca, mica si capiva più niente. E io allora ho tirato un cazzotto al buio.

Solo che ho preso D’Intino alle costole».«Che già mi facevano male».«Botte da orbi. Ho preso un cazzotto sulla faccia e

uno sull’orecchio».«Io uno sulle costole, ma me l’ha dato Deruta, e uno

in testa proprio sopra la testa!».«Ma chi vi picchiava?» urlò Rocco.

«Questi della casa. Allora io e D’Intino siamoscappati dal portone ma quelli ci hanno inseguito.D’Intino è finito dentro alla pozza».

«Sì dottore, tiene presente quelle pozze vicino allastrada? Come si chiamano...».

«Pozze» rispose Rocco.«Ecco, sì. Ce so’ finito dentro».

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«Invece a me m’hanno tirato una cosa in testa e so’cascato. Mo’ quando ci siamo ripresi, quelli alla lucedella strada, pure se era notte, si sono accorti che

eravamo poliziotti e ci hanno chiesto scusa».«Sì, perché pensavano ai ladri».«Ai ladri?» chiese Italo.«Ai ladri. Perché in quella casa ci abitava Viorelo e

quattro del Senegal, che ammazza quanto menanoquelli del Senegal. E insomma questi quattro delSenegal con un loro amico della Tunisia, sono rientratiin casa...».

«Qualche ora prima...».«Sì, bravo D’Intino, qualche ora prima, e l’hanno

trovata tutta sottosopra».«Solo che non possono fare la denuncia che nessuno

tiene il permesso di soggiorno».

«Infatti pure l’affitto è in nero».«Bene. C’è altro?».«Sì. Vuole sapere che hanno rubato?».«Che hanno rubato?» chiese Rocco.«Niente» rispose Deruta.«Come, niente?».«Niente, niente».

«Vabbè» intervenne Italo, «non è che nella casa cifossero gioielli e soldi in cassaforte, no?».«No, no. Ci stava un televisore, un iPod e uno stereo.

E stava tutto lì. Hanno solo aperto i cassetti, gliarmadi».

«Insomma hanno fatto nu casino e basta».Italo sorrideva, Rocco invece pensava. «È strano»

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disse. «Un ladro professionista non va a casa di questimorti di fame. È un poveraccio come loro e non prendeniente. È una cosa strana».

«La stessa cosa avemo pensato pure noi!» disseD’Intino orgoglioso. «Insomma io l’iPod me lo

 pigliavo, no?».«Bene. Bravi. Se fossimo in tempo di guerra vi

 proporrei per una medaglia. Ma la guerra non c’è».«Mannaggia» disse D’Intino fra i denti.«Però avete fatto un bellissimo lavoro. Ora andate a

casa. E domani potete anche venire più tardi».«A che ora?» chiese Deruta.«Più tardi» disse Rocco.«Senta, ma che dovemo fa con il fatto che stanno

tutti senza permesso?».«E che dovete fare? Niente».

«Non li arrestiamo?» chiese D’Intino.«Direi di no» rispose Rocco.«E l’affitto in nero?».«Per ora state buoni e tranquilli. Andate a casa».

Fece un cenno a Italo e insieme uscirono dalla stanzadei passaporti. Deruta sorrise a D’Intino.

«Bel lavoro!» gli disse e strinse la mano al collega.

Il portone di ferro tremò. Enzo lentamente si staccòdal muro. Una luce arancione lampeggiava peravvertire che i battenti si stavano aprendo. Sulla sogliadell’ufficio controllo apparve la figura di Paolo, unadelle due guardie. Quando il portone si spalancòspuntarono finalmente i fari del piccolo furgone che

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ingranò la marcia e avanzò lento nel cortiledell’infermeria. Enzo se la giocò tutta in quel lampo.Veloce passò dall’ombra del suo nascondiglio al retro

del furgoncino che a passo d’uomo aveva giàattraversato l’entrata. Riuscì a piazzare un piede sul

 parafango sopra la targa, si agganciò con le mani alvascone di metallo e nonostante il mezzo fosse inmovimento, riuscì a tirarsi su. Scivolò comeun’anguilla e si lasciò cadere all’interno del vascone

 porta immondizia. Cadde su un mucchio di buste grigieche puzzavano di putrefazione. Si tappò naso e boccacon la mano e aspettò mentre il portone di ferro sirichiudeva al passaggio del furgone.

Mezz’ora ad aspettare. Poi i sacchi gettatidall’addetto volarono uno dopo l’altro dentro ilcontenitore di ferro schiantandosi sulla faccia e sul

corpo di Enzo. Quelle buste dell’infermeria puzzavanodi morte. Enzo deglutì un paio di volte, ma poi non cela fece più e vomitò i resti della cena. Sentì il furgoneripartire. Steso supino su quell’orrendo materasso, conlo sguardo verso la calotta nera del cielo vide passare ilampioni del cortile, i muri di cinta, le torrette, poi sentìil furgone acquistare velocità. Sempre di più. Sempre di

 più. Scalava di marcia e correva sempre di più.Enzo Baiocchi era libero!

Parcheggiò lontano dal negozio. Poi insieme a Italo percorse il marciapiede. La strada era buia, le insegneerano spente. C’erano giusto due lampioni all’iniziodella strada e alla curva. Ma non erano sufficienti.

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L’aria era diventata fredda, nordica e inospitale.«Spieghi anche a me che vuoi fare?».Ma Rocco non rispose. Giunto davanti al negozio

Biribimbi si guardò intorno. Tornò indietro di qualchemetro fino ad arrivare a un cancelletto di ferro. Loscavalcò facilmente.

«Dove stai andando?».«Vieni!» e il vicequestore penetrò nel piazzale di un

 piccolo condominio. Italo, mormorando parole di odioe di rancore verso il suo capo, lo seguì.

Primo Cuaz era costretto a seguire i palinsestitelevisivi notturni non per vezzo ma perché da quandoera ragazzo aveva lavorato solo e soltanto di notte edormito di giorno. A 84 anni era difficile cambiare leabitudini. Questo gli aveva sempre comportato una

serie di problemi. La pelle bianca, parecchie diottrie inmeno, e orari dei pasti folli. La sua colazione era alledue del pomeriggio, il pranzo alle nove e la cena allecinque del mattino quando camionisti oppure operaicome sua moglie prendevano il primo caffè. Spessos’erano ritrovati lei con le brioches e lui con la pasta alsugo a raccontarsi la giornata appena trascorsa o ancora

da affrontare. Da quando era andato in pensione, nonfaceva che aggirarsi per casa mentre Iside russava beatamente da sola nel lettone matrimoniale. Aveva provato a sovvertire quell’equilibrio con l’aiuto disonniferi o stando intere giornate senza chiudere occhio

 per accordarsi al resto dell’umanità. Ma proprio non ciriusciva. Alle sei del mattino andava a letto e si

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svegliava alle due, puntuale come una sveglia tedesca.In una di quelle notti solitarie, Primo aveva fatto uncalcolo. Lui dormiva otto ore, Iside lo stesso. In 60 anni

di matrimonio è come se insieme ne avessero passatisolo 20. Gli altri 40 ognuno a dormire per i fatti suoi.Per fare l’amore, abitudine che avevano smesso solo dasette anni, si incontravano in quella zona d’ombra fra lasveglia dell’uno e il lavoro dell’altro, fra il rientro acasa di lei e l’uscita con la divisa di lui. Erano convintiche proprio quella difficoltà logistica avesse mantenutoacceso il desiderio e la voglia che avevano avuto unodell’altra per tanti anni. Quattro figli e sei nipoti neerano il risultato visibile agli occhi di tutti. Alle orequattro di quel mercoledì di maggio freddo come unalastra di marmo, Primo aveva spento il televisore suititoli di coda di Ombre rosse. Andò alla finestra a

scrutare il cielo. Niente stelle. Nuvole. Nel cortile delsuo condominio tutte le luci erano spente. Ma le diottriemancanti di giorno chissà perché di notte sembravanotornare miracolosamente. Qualcosa non andava. Inforcògli occhiali e strizzò gli occhi. Ci avrebbe giurato, manel condominio c’erano due figure che si aggiravanofurtive. Molto furtive.

Ladri, pensò. Cinquant’anni di onorato servizio sirisvegliarono con un ruggito nelle vecchie arterie nelleossa e nel cervello. La pistola ce l’aveva ancora, nellascatola dei cioccolatini in alto sulla libreria di ferro. A

 passo svelto corse a prenderla. Caddero dei barattoli di pomodoro. Li rimise a posto ma nel voltarsi trovò suamoglie sull’uscio: «Che succede?».

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«Ladri. Nel condominio».«E di che t’impicci? Sei in pensione!».«Lasciami passare, Iside. Lasciami passare».

«Primo, per favore!».Ma il vecchio metronotte non sentiva ragioni. Scansò

 bruscamente la donna e uscì di casa. Iside sbadigliò edecise di tornarsene a letto. «Fè tcheuca senque te vou»mormorò, era adulto e vaccinato.

Italo aveva raggiunto il vicequestore davanti allafinestra del piano terra all’interno del condominio.

«Italo, se i miei calcoli sono giusti, questo è il retrodel negozio».

«Potrebbe essere. E allora?».«E allora tu adesso aspetti e guardi».«Mani in alto!».

Italo e Rocco si voltarono. Nell’ombra una figura brandiva una rivoltella. «Vi ho beccato! Adessochiamiamo la polizia».

Rocco sorrise: «Guardi che siamo noi la polizia».L’uomo fece un passo avanti e guadagnò un po’ di

luce. «Chi siete?».«Vicequestore Schiavone e agente Italo Pierron».

Il vecchio si aggiustò meglio gli occhiali. «Non cicredo».«Mi fa mettere una mano in tasca?» disse Rocco.

Primo annuì. Il vicequestore consegnò il tesserino almetronotte in pensione. Che non riusciva a leggere.Piegava il cartoncino in modo da fargli prendere un po’di luce. «Non... non si legge...». Si infilò la pistola sotto

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l’ascella e tenendo il portafogli con due manifinalmente trovò l’inclinazione giusta. «Ah... sì. Sì».Restituì i documenti a Rocco. «E posso sapere che state

facendo a quest’ora di notte nel retro del negozio?».«Ci dobbiamo entrare senza essere visti perché

sospettiamo facciano traffici illeciti».«Il negozio di bimbi?» chiese stupito Primo.«Proprio così. Ora se non le dispiace...».«Che fa?».Rocco sbuffò. «Gliel’ho detto! Devo entrare qui

dentro».Estrasse dalla tasca il coltellino svizzero. Scelse una

 piccola lima e cominciò a lavorare la persiana. Grattavavia schegge di legno e vernice.

«E se c’è l’allarme?» chiese Italo.«Non ce l’hanno» fece il metronotte.

«Già. L’allarme attira le forze dell’ordine. E questitutto vogliono tranne che carabinieri e polizia entrinonel loro negozio» aggiunse Schiavone.

«Ma questi chi?» chiese Italo.«Ma lei è un agente o no? Non stia sempre a chiedere

al suo capo».Venne via una grossa scheggia di legno. A quel

 punto Rocco estrasse la lama del coltellino.«Ci vuole solo un po’ di pazienza» disse infilandolanello sbrego appena fatto. «Niente, c’è un rinforzo diferro. Mi servirebbe una tenaglia. L’abbiamo inmacchina?».

«State fermi. Ci penso io». Il metronotte lasciò soli idue poliziotti.

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«Che facciamo?».«Aspettiamo la tenaglia, no?».«Puoi provare a spiegarmi meglio?».

«Allora, qui dentro fanno scontrini a vuoto. Cioè battono cifre senza incassare».

«Ma che sono scemi?».«No, Italo, non sono scemi. Riciclano denaro.

Fingono incassi inesistenti, ci pagano anche le tasse eimmettono denaro pulito e intonso in banca».

«Ma pensa te... chi la fa ’sta roba?».«Secondo te? I gesuiti?».

Iside sentiva suo marito pasticciare nel ripostigliodella cucina.

«Primo, ma che fai?».«Niente, tu dormi».

Facile a dirsi con quell’idiota che aveva ripescato laBeretta, che peraltro Iside aveva scaricato anni prima, eora chissà cosa diavolo stava combinando in cucina. Siinfilò le ciabatte e andò a controllare. Primo avevaafferrato pinze, tenaglie, mezza cassetta dei ferri. «Maallora?».

«Dobbiamo scassinare una persiana».

Iside non capiva. «Dobbiamo? Ma non eri andato adarrestare i ladri?».«Donna, tu non puoi capire!».«Io capisco invece. Mi spieghi che sta succedendo?».«Va bene, ma acqua in bocca. Lì fuori ci sono due

 poliziotti che devono entrare nel negozio Biribimbi perché sospettano che facciano traffici illeciti».

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Iside ci pensò su. «E spiegami una cosa, perché nonlo fanno alla luce del giorno con un mandato di ungiudice come fanno sempre in televisione?».

«Perché quella è la televisione, Iside, e non larealtà».

«A me sembra una cosa strana però. Alle quattro dinotte quelli devono forzare le persiane. Non è che ti stairincoglionendo, Primo?».

Sospettoso l’uomo uscì di casa.

Primo Cuaz tornò con due tenaglie, un martello digomma e un trapano a mano.

«Perché entrate alle quattro di notte forzando laserratura e non aspettate il giorno con un mandato delgiudice?» chiese Primo.

«Perché il giudice non ne è a conoscenza, perché la

gente che ha questo negozio non deve sapere che noisiamo entrati e perché gli unici a esserne informatidobbiamo essere noi tre e poi, signore mio, questagente non la fermi con un mandato di un giudice.Questa è gente che ti spara prima ancora di chiedertichi sei».

«Che gente è?» chiese il vecchio metronotte con un

filo di voce.«Brutta assai» disse Rocco. «Lei pensi al peggio. Enon c’è ancora arrivato».

«Terroristi?».«Magari!».Primo allungò le braccia. «Ecco, ho preso un po’ di

roba».

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«Grazie. Bastavano le tenaglie».Rocco si mise al lavoro. Tirò un paio di volte finché

si sentì un TAC! e la persiana si aprì.

Ora restava da affrontare la finestra.«Facile. È di legno, vecchia e senza doppi vetri.

Passami il giubbotto».Italo senza capire glielo consegnò. Rocco se lo

avvolse intorno alla mano, poi con un colpo seccomandò il vetro in frantumi. Fu un rumore appenaudibile.

«Sicuro che lei è sempre stato un poliziotto,dottore?» chiese Primo.

«Forse in un’altra vita no».«E direi!» fece il metronotte dando di gomito a Italo,

mentre pignolo il vicequestore estraeva i pezzi di vetrodal telaio della finestra. Poi restituì la giacca a Italo.

«Attento a infilarla. Capace che qualche scheggia staancora dentro».«Ma roba da matti...».«Ora noi andiamo. A proposito, io mi chiamo Rocco,

lei?».«Primo».«Grazie, Primo. Torni pure a casa. Inutile dirle che

lei non ci ha visto».«Inutile».Italo consegnò gli attrezzi al signor Cuaz che

zompettando se ne tornò verso casa. «È stata una bellissima nottata. Grazie, Rocco».

«Grazie a lei, Primo».Il vicequestore infilò la mano nel vetro appena rotto e

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girò la maniglia. Anche la finestra si aprì.«Andiamo a dare un’occhiata».

Il magazzino del negozio grande un centinaio dimetri quadrati era pieno di scatole di cartone impilateuna sull’altra. La maggior parte riportava ideogrammicinesi. Facendosi luce con il cellulare i poliziottiavanzavano in quella selva di colonne di cartone.Rocco sembrava passeggiare nel garage di casa sua.Tranquillo e sereno leggeva sulle casse le etichette, le

 palpava come fossero frutti maturi, quasi fischiettavaassolutamente a suo agio. Italo invece era teso. Lento,con l’orecchio pronto a percepire un rumore fuori

 posto, sudava e già sentiva le ascelle bagnatenonostante la temperatura bassa.

«Che cerchiamo?» chiese sottovoce. Il vicequestore

non rispose. «Rocco, magari facciamo una cosa digiorno. Non sono tranquillo» e si girò verso la finestraappena forzata.

L’inno alla gioia di Beethoven risuonò nella stanza buia.

«Che cazzo!» urlò Rocco.Ad Italo si gelò il sangue. «La suoneria, coglione!»

disse.Rocco veloce rispose: «Chi è?».«Perché parli a bassa voce?».Era Anna.«Anna, che c’è?».«Non mi hai chiamato tutto il giorno. Ti sembra una

cosa normale?».

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«Mi hai mandato a fare in culo proprio ieri. Perchéavrei dovuto chiamarti?».

«Non so. Magari per chiedermi scusa?».

Rocco allargò le braccia. Italo continuava a guardarsiintorno come un criceto intrappolato.

«Anna, non è il momento. Sono in mezzo aun’operazione».

«Come no. E come si chiama? Elisabetta? Barbara?».«Cazzo, Anna, domani ti chiamo. Te lo giuro».«Risparmia la telefonata. E buonanotte».E attaccò.«Ma chi cazzo era?» quasi gridò Italo.«Una mia amica. E guarda che t’ho sentito. Mi hai

dato del coglione».Italo abbassò gli occhi. «Scusa. Mi ero spaventato».«Che non accada più» lo ammonì Rocco. «Sono

sempre un tuo superiore».«Va bene. Però dovevi spegnere il cellulare».«E come ci facevamo luce?».«Io ho una torcia».«E sarei io il coglione? Accendila!».Italo eseguì.Dietro un mucchio di scatole si apriva uno spazio

vuoto. Al centro una vecchia scrivania di ferro, daufficio postale. Una sedia in similpelle e un lume diacciaio. Schiavone si avvicinò al tavolino. Che avevadue cassetti. Nel primo c’erano cianfrusaglie e fogli.

 Nell’altro un registro. Rocco si sedette, accese la luce ecome un ragioniere si mise a studiare quel plico.

«La luce!» gridò rauco Italo.

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«Sta’ tranquillo. Allora, che abbiamo qui?».Un elenco con parecchi nomi. Accanto ad ogni

cognome c’era una cifra. Alcuni erano sottolineati in

rosso.«Che cos’è?».«Una lista. Guarda qui. Federico Biamonti...

Gressoney. 130.000. Paride Sassuoli. Pila. 85.000».«Ma che vuol dire?».Rocco staccò gli occhi dal registro. «Debiti, Italo.

Debiti. Sei bravo tu a fare le fotografie?».«E come?».«Prendi il cellulare e fotografa ogni pagina di questa

roba. Sono solo cinque fogli». Si alzò dalla sedialasciando il posto a Italo. «E sbrigati, prima che arrivil’alba».

Italo premette il pulsante della macchina fotografica

del cellulare e si mise all’opera. Rocco finì di guardarsiin giro. Si avvicinò a uno scatolone. Prese il coltellino el’aprì. All’interno c’erano delle scatole.

Stereo per le automobili. Ne aprì un altro. Bollitori elettrici.«Hai finito?».Italo fotografò l’ultimo foglio e rimise a posto il

registro. Spense la luce. Contemporaneamente unaserratura cominciò a cigolare.«Porca...».«Qui!» disse Rocco. Italo raggiunse veloce il

vicequestore dietro la colonna di scatoloni. «Chesuccede?».

«C’è qualcuno».

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Spensero torcia e cellulari.«Las crisma ai gheve iu mai ar» qualcuno

canticchiava storpiando un ever green. «And de rilli

good play iu meche it eueiiii». Una dopo l’altra le lucial neon si accesero. Il magazzino si illuminò come unsupermercato all’ora di punta. Italo sgranò gli occhi.Rocco se ne stava fermo. Teneva in mano il coltellino.

«Dis ier tu sei iu from ier...» un’ombra avanzò nelmagazzino. Rocco e Italo si spalmarono come due topidietro gli scatoloni. «Las crisma ai gheve iu mai ar...»l’ombra prese corpo. Era un uomo. Basso, con la barba.Afferrò uno scatolone, lo aprì, controllò il contenuto,

 poi se lo caricò in spalla. «Tu sei iu from ier...» il corpotornò un’ombra, le luci al neon si spensero, la serraturacigolò ancora. Rocco e Italo erano di nuovo sprofondatinell’ombra.

«Cazzo, c’è mancato poco».«Vero? Possiamo andare, Italo».L’agente si asciugò il sudore, poi seguì il

vicequestore. Senza farsi luce raggiunsero la finestraforzata, guardarono fuori nel cortile. Tutto buio.

 Nessun segno di vita. Rocco passò per primo. Italo loseguì. Dietro il vetro del primo piano Primo Cuaz li

stava salutando. Rocco e Italo ricambiarono e sfiorandoil muro del palazzo tornarono al cancelletto di ferro, loscavalcarono e si ritrovarono sul marciapiede, in tempo

 per vedere un’Alfa rossa allontanarsi verso il centro.«Dove siamo stati, Rocco?».«In un bel posto. Le cose si sono chiarite. A te?».«Riciclano soldi e vendono roba rubata!».

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«Già. Questa gente fa quello di mestiere. Ricicla e presta soldi a strozzo. Le due cose sono collegate, Italo.Strettamente collegate».

Mentre tornavano verso l’auto Italo diede di gomito aRocco. «Guarda!».

Rocco alzò lo sguardo e rimase imbambolato,neanche avesse visto la Madonna sui tetti di Aosta.

 Nevicava.«Non ci posso credere. A maggio?».«Sono cose che succedono. Forza, Rocco, andiamo!

 Non ti preoccupare, con tutta l’acqua che ha fatto nonattacca».

Sonno, veglia, di nuovo sonno, di nuovo veglia.Anche respirare le sembrava più difficile. Con la

mano legata al pezzo di spalliera della sedia era riuscita

a toccare il pavimento vicino alla gamba ferita. A terrac’era una pozzanghera viscosa, appiccicosa comemarmellata.

Sangue. Sangue che esce dalla ferita.Ti devi alzare.

 Non rispondeva più a quella voce, non ne aveva leforze. Le rispondeva solo nel pensiero.

Di tirare fuori la voce non era più cosa.E come mi alzo? Come? Devi puntare il ginocchio a terra e tirarti su. Fai

 perno sulla gamba ferita. Impossibile. Ci ho provato. Ma fa troppo male! Mi

gira la testa e precipito di sotto, lo capisci? Non posso. Puoi.

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 Non posso. Puoi, brutta cretina!  No.

 E allora muori. Lo sai che muori? La notte se ne stava andando. Una luce tenue e

sbiadita stava cominciando a colorare il buio di quellacantina. La luce, anche se poca, aiutava. Le mettevacoraggio. Le dava una spolverata al cervello. Guardò lafinestrella. Stava nevicando.

 Non stare così ad aspettare. Ti spegni. Ti spegnicome una candela. Stringi i denti e provaci. Provaci! 

Lenta portò in avanti il busto e le mani incollate allasedia.

 Nessun dolore.Ora doveva puntare il ginocchio destro a terra e

cercare di piegare anche l’altro. Le formicolava tutto il

corpo. Le facevano male il petto, le spalle, il bacino ele caviglie. E la gamba sinistra, con quel mozzicone disedia infilato come un arpione, stava dritta e tesa esembrava un pezzo di ghiaccio. Provò a muovere le ditadei piedi. Ci mise qualche minuto a risvegliarli, ma allafine li sentì agitarsi dentro gli scarponcini. E nessundolore alla coscia. Passò al polpaccio. Anche quello si

induriva, e non faceva male. Ora la cosa più difficile. Ilquadricipite. Cercò di indurirlo. Piano, contraendoloappena. Nessun dolore. Bene. La gamba era sveglia,forse il dolore là dietro se ne stava solo accucciato inattesa.

 Il ginocchio. Piega il ginocchio! Lo fece lentamente, con un movimento millimetrico

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e continuo. Il dolore arrivò come una frustata che lagelò.

Continua! 

 Non ce la faccio. Devi continuare, se non lo pieghi non riesci a

metterti in ginocchio. Continua! Riprovò.Dio Dio Dio fa male!Continua! Era una lotta impari. Lei da una parte, dall’altra un

mostro che azzanna feroce.«Chiara, piega quel ginocchio!».

 Non era la vocina. Era una voce di un uomo.«Chiara, piegati, cazzo, piegati!».Era Stefano? Stefano il suo istruttore di sci, il

maestro. Era lì? La stava guardando?

«Chiara, piega il ginocchio, sant’Iddio!».«Lo piego, lo piego!» urlò mentre tirava il piedeindietro.

«Ancora di più!».«Fa male!».«Lo so che fa male ma devi tirare. Dai Chiara. Forza,

Chiara!».

Tirava indietro il piede e sudava. Il dolore mordeva,ma doveva piegare il ginocchio. Poteva farcela, doveva.Stefano voleva che lo piegasse.

«Brava Chiara, così, così!».Un ultimo grido. La gamba sinistra era piegata a

metà.«Brava Chiara!» disse Stefano.

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 Brava Chiara, fece eco la vocina.Lingue di fuoco la torturavano, ma erano dolori

 passeggeri, niente a che vedere rispetto a quello che

aveva appena passato. Piegata col busto sulla gamba buona respirava con affanno e aspettava. Ora il fuocodoveva calmarsi, il dolore affievolirsi per tentarel’ultimo grande sforzo e tirarsi su in ginocchio.

Ma al momento decise che la cosa migliore eralasciarsi andare ad un pianto liberatorio.

Alle cinque di un mattino grigio con la neve checontinuava a fioccare, chiuso nel suo ufficio, ilvicequestore aveva alzato il riscaldamento. Fumavascrivendo appunti su un bloc-notes. Il caffè deldistributore gli aveva lasciato un sapore di fangovecchio. Cominciavano a mancargli i riti mattutini del

caffè a casa, della colazione da Ettore e della canna bello disteso sulla poltrona di pelle prima di cominciarela giornata. Doveva assolutamente mettere le mani suquelli che avevano preso Chiara e fargliela pagareanche per quelle notti in bianco. Squillò il telefono.

Chi è a quest’ora? pensò.«Dottor Schiavone, sono Baldi».

«Dottore, anche lei non riesce a dormire?».«No. Il tarlo di Chiara Berguet mi sta mangiando tuttii neuroni».

«Passi avanti?».«Direi. Mi ascolti. Ho scoperto una cosa. Dunque, un

mese fa la Edil.ber ha subito proteste dei sindacati perché in ritardo coi pagamenti e rischiava anche

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licenziamenti pesanti. Cgil Cisl e Uil si sono appellatiall’articolo 18, Pietro Berguet rischiava la bancarotta,avvocati, tira e molla e insomma sappiamo bene. Ora

 però succede un fatto. Pietro Berguet risolve i problemieconomici e tappa i buchi e la Edil.ber va avanti e si

 presenta alla gara d’appalto con la Regione».«Fin qui...».«Solo che né la Cassa della Vallée né altre banche

hanno avallato prestiti o fidi».«Ne è sicuro?».«Al cento per cento. Quindi la domanda è: dove li ha

trovati i soldi?».«Porca troia...» mormorò Rocco.«Prego?».«Ho detto porca troia, dottore».Ci fu un silenzio. «Sì, condivido» disse Baldi. Solo

ora Rocco si accorse che il giudice aveva una vocestanca e rotta. «Porca troia».E chiuse la comunicazione. In quel momento in

stanza entrò Italo con in mano le foto stampate delregistro scoperto nel negozio. Le gettò sul tavolo diRocco.

Il vicequestore si alzò dalla sedia. «Mi devo fare

quattro chiacchiere con Berguet». Prese il cappotto.«Nevica ancora?».«No, ha smesso. Ma stai tranquillo. Non attacca, te

l’ho detto!».

Aveva attaccato invece. Aosta s’era svegliata biancadi neve e Rocco uscì dalla questura maledicendo tutte e

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quattro le stagioni, maggio e soprattutto quella terrasnobbata dal sole.

«Roba da matti» aveva commentato Miniero,

l’agente del Vomero, guardando con gli occhi tristi quelmanto soffice che i mezzi del Comune stavano giàspalando via dalle strade.

 Non si fa così, si ripeteva Rocco. Non si fannovedere i colori dei fiori, il verde dell’erba. Non simandano nell’aria i profumi se poi si ritappa la scatolacon le nuvole e si ritorna indietro. Non si fa.

Salì sulla sua Volvo che almeno aveva quattro ruotemotrici e lasciò corso Battaglione Aosta.

L’auto di Scipioni era dietro la curva, davanti allavilla dei Berguet a Porossan. L’agente non era andato aletto. S’era fatto una notte intera di appostamento

nonostante il vicequestore lo avesse scioltodall’incarico.«Tieni. È bello caldo» disse Rocco entrando nell’auto

civetta e consegnando un bel caffè a Antonio con unsacchetto dove s’era fatto mettere una bomba allacrema e uno strudel.

«Dotto’, così mi vizia e mi fa venire una panza da

 pensionato».«Perché non sei andato a dormire?».«Perché volevo controllare e non riesco a non

 pensare a quella ragazza». Antonio aprì la boccetta dicaffè e la versò nel bicchierino. «Lei vuole?».

«No, grazie, ho già fatto. Bella, eh?» disse Roccoindicando la neve.

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«A me piace. Lo sa, gliel’ho già detto. La preferiscoal mare».

Rocco lo guardò senza commentare.

«Questa bomba è uno spettacolo» disse l’agente al primo morso.

«Sei tutto sporco di zucchero».Scipioni rise e gli cadde una goccia di crema sulla

divisa. La spazzò via e diede un altro morso. «Per tuttala notte ci sono state le luci accese al piano terra». Eindicò con la testa la bella villa dei Berguet. Gli alberidel giardino s’erano caricati di neve, come anche ilmuretto di recinzione. Sull’asfalto pochi segni di

 pneumatici.«Piano terra, al salone quindi».«Vrs cnq avt laltr...» biascicò Antonio.«Manda giù e poi parla, non capisco un cazzo».

Antonio inghiottì. «Verso le cinque è arrivatoquell’altro... quello con la barbetta, quello coll’Audi TT».«Cerruti».«Sì. È stato un’oretta. È andato via dieci minuti fa

con un pacco di fogli sotto il braccio».«Va bene. Bel lavoro, Antonio. Ora vattene a casa».«E come? Lei m’ha portato il caffè! Ora sono

sveglio». Poi Antonio Scipioni, come si fosseimprovvisamente trasformato in un bracco italiano,cominciò ad annusare l’aria. «Ma a parte la mia puzzadi sudore, lei non sente odore di canna?».

«Io?» fece Rocco con la faccia più innocente delmondo.

«Eh. Com’è possibile?».

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«Boh. Sarà la neve che brucia la resina. Vado a farevisita ai Berguet. Stammi bene Scipio’» gli diede una

 pacca sulla coscia e uscì dall’auto di servizio lasciando

l’agente a finire la colazione.

«È ora che te sveji» berciò la voce ingolfata daquaranta sigarette al giorno. La donna non ebberisposta. «Oh» e mollò un calcio sul materasso steso sul

 pavimento impolverato.Enzo aprì un occhio. «Che ore so’?» chiese.«È ora che te sveji e te levi dar cazzo».Enzo si tirò su. La luce che penetrava attraverso la

serranda chiusa a metà illuminava appena la stanza. Ivetri della finestra erano riattaccati con lo scotch e lacarta da parati staccata in più punti. «C’è un caffè?»disse alla donna.

«Vattelo a pija ar bar. Io devo usci’. Quando tornovedi de spari’. Qua nun te ce vojo». Si voltò. Enzoriuscì appena a distinguere la vestaglia a fiori rossa everde scivolare via dalla stanza. Poi aprì l’altro occhio.

«Ammazza, grazie!» urlò. Ma non arrivò nessunarisposta. Si tolse di dosso le lenzuola lerce. Poggiò i

 piedi sul pavimento e si stropicciò la faccia. Alzarsi dal

materasso non era una cosa semplice. Trovò una sedialì vicino che faceva da comodino, ci si attaccò e si tiròsu. Appena in piedi la testa gli girò. Prese un respiro,attese che la giostra si desse una calmata, poi uscì dallastanza. Si affacciò in cucina. La donna era al lavello dimarmo a sciacquare bicchieri della Nutella e piatti divetro colorato.

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«Eddai Robè, un caffettuccio a Enzo?».La donna poggiò il bicchiere sullo scolapiatti di

 plastica. «Senti un po’. Io so contare. La terza media

l’ho fatta. E prima de rivedette in giro per strada, memancano almeno tre anni. Mo’ perché stai qua a casamia io non lo vojo sape’. Non t’ho mai visto né sentito.Ma la notte è passata e te ne devi anna’!».

Enzo sorrise. «Una sigaretta ce l’hai?».«Ho smesso» mentì la donna. Si asciugò le mani

sulla vestaglia. Poi si aggiustò i capelli biondi per metà,l’altra metà erano ricresciuti, neri e bianchi. Enzo laguardò attentamente. Dimostrava almeno quindici anni

 più dei suoi 32. «Te sei sciupata».«Ah sì? Dici? Sarà che mi faccio un culo dalla

mattina alla sera a lava’ le scale dei condomini, a pulireil culo alle vecchie? Sarà che nun ci ho i sordi pe fa

mangia’ il ragazzino, e che ringrazio nonna se ci ho unostraccio di casa?».Enzo buttò un’occhiata alla cucina. Annerita sopra i

vecchi pensili di formica, due sedie scompagnate, unvecchio televisore poggiato su delle cassette di legno.«La chiami casa ’sto cesso?».

«Sempre mejo de sta’ sotto un ponte, no? O in

galera».«È che tu sei sempre stata senza ambizioni!».«Belle le tue? Te sei fatto un conto? Secondo me so’

 più gli anni che te sei fatto dentro che quelli fori. O mesbajo?».

«Per me non è un disonore».La donna prese dei pennarelli e due quaderni dal

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tavolo della cucina e li andò a mettere su un vecchiomobile con lo specchio scolorito che troneggiava nel

 piccolo ingresso. «Ah no?» disse. «Non è un disonore?

È una cosa bella per te?». Poi tornò in cucina, preseuno straccio umido e dette una passata al tavoloricoperto da una tovaglia di plastica a fioroni blu.«Allora? Quanto te ce vole per uscire da ’sta casa esparire dalla vita mia?».

Enzo annuì. «Ce l’hai 20 euro da prestamme?».Roberta bruciò Enzo con gli occhi. «La sai una cosa?

Io invidio le amiche mie, quelle che il padre jè morto. Esai perché? Perché armeno uno se lo ricorda, e quarchecosa di bello ci ritrova. I morti hanno ’sta cosa in piùrispetto ai vivi: non parlano, non respirano e non

 puzzano». Gettò la pezzuolina umida nel lavello dimarmo sgrugnato lasciando suo padre a rimuginare su

quelle parole.Fu Dolores, la filippina, ad aprire la porta. Calamari

sotto gli occhi e sguardo spento e assonnato. GuardòRocco senza riconoscerlo.

«Salve, Dolores. Schiavone, questura di Aosta».La filippina si tirò da parte per farlo entrare come se

si aspettasse che prima o poi quell’uomo dallo stranocappotto sarebbe tornato.La casa era fredda. Regnava lo stesso silenzio e lo

stesso odore di cannella del giorno prima. Pietroapparve dalla cucina. Aveva ancora addosso il vestitodi ieri, oppure uno che ci somigliava molto. La camiciaaperta senza cravatta, la barba lunga.

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«Dottor...» non ricordava il nome.«Vicequestore Schiavone».«Come no, certo, certo. E mi scusi, ma sono giorni

un po’... vuole un caffè? Qualcosa? Prego, siaccomodi» e fece cenno a Rocco di avvicinarsi alsalone. Rocco passò attraverso la doppia porta, sotto lanatività ad occhio e croce del Cinquecento, ed entrò inuna stanza d’oro. D’oro le pareti, d’oro i mobili, lecornici dei quadri e degli specchi. Dorate le mantovane.Sembrava fosse bombardata da raffiche di raggi di sole.Ma il sole non c’era, in quella casa come su tutta Aosta.

«Neanche un bicchier d’acqua?» disse Pietro.«Nemmeno quello».Il padrone di casa indicò uno dei tre enormi divani

che stanziavano di fronte a un camino di marmodecorato con tralci di uva.

Rocco ci sprofondò.«Scusi mia moglie, sta ancora dormendo».«Forse voleva dire: è appena andata a letto?».Pietro guardò Rocco con un sorriso falso e teso sulle

labbra. «Non... non ho capito».«Non mi chiede perché sono qui?».«Immagino per la storia di ieri? Dell’operaio morto,

no?».«Alle sette meno venti?».Pietro guardò l’orologio. «Vero. Non sono neanche le

sette». E riportò lo sguardo su Rocco.«Berguet, smettiamola di prenderci per il culo». Il

cambio di tono colpì Berguet come un pugno allostomaco. «Allora, ci ha parlato con Chiara?».

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Al nome della figlia Pietro impallidì. Cadde sedutosul divano. Si portò le mani ai capelli e scoppiò a

 piangere facendo no con la testa.

Rocco tirò un respiro doloroso. «Da quando è sparitanon ci ha parlato?».

«No».Dolores entrò con un vassoio. Si bloccò sulla porta.

Guardò il padrone di casa piegato in due e leggeracome una piuma depositò il caffè sul tavolo di marmo.Poi sparì.

«Chi è stato?».Pietro sospirò. Prese il caffè. Lo bevve. «Se sa che

mia figlia è sparita, secondo me sa anche chi è stato».«Non facciamo giochetti, Pietro. Cosa vogliono?».«Soldi».«Lei mente».

«Secondo lei cosa possono volere?».«Altro. Faccio un riassunto e le dico cosa penso io?Io penso che lei con la Edil.ber non naviga in ottimeacque e ha problemi di liquidità. So che per lei è vitalela prossima gara d’appalto con la Regione, e so che leisi serve della banca della Vallée per i suoi crediti, e chenon sono stati loro a tirarla fuori dai pasticci nella sua

ultima crisi».«Quante belle cose che sa».«Vero? Allora lei adesso mi dice chi è Carlo Cutrì».Pietro ondeggiava la testa guardando il tavolino di

marmo. In quel momento Giuliana Berguet entrò nellastanza. Pantaloni di velluto e maglione a collo alto.Occhi che avevano strizzato fuori tutte le lacrime,

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cerchiati di nero, peggio di un ritratto di Munch.«Dottore! Ancora con la storia dell’auto?» disse con untono di forzato entusiasmo. Rocco si alzò dal divano.

Poi la donna guardò il viso del marito.«Giuliana? Il commissario sa già tutto».«Vicequestore...».«Prego?».«Sono vicequestore» precisò Schiavone.Giuliana Berguet, come se una mazzata le avesse

 piegato le ginocchia, crollò sul bracciolo del divano eaccompagnò la caduta con un suono flebile uscito dallagola. Sembrava un materassino sgonfio a fine stagione.

«Dottor Berguet, chi è Carlo Cutrì?».«Non lo so. Non l’ho mai visto. Io ho sempre parlato

con Michele».«E allora mi dica di Michele Diemoz».

«Sì. Io ho parlato sempre con lui. Uno di Cuneaz. Unvaldostano».«Chi le ha dato i soldi?».«Gliel’ho detto. Questo Michele si è messo in mezzo

e mi ha fatto avere il prestito».«Quanto?».«All’inizio 500.000. Poi altri 700».

«Loro rivolevano più di tre milioni» intervenneGiuliana con gli occhi pieni di lacrime.«Loro chi!» gridò Rocco.«Non li conosco, cazzo!» esplose Pietro. «Gliel’ho

detto. Gente di giù che io non ho mai visto!».«Di giù?».«Cosenza» fece Giuliana. E nonostante fosse distante

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un paio di metri Rocco ebbe la sensazione di sentirrabbrividire le ossa della donna.

«Allora cosa vogliono adesso? Non mi dica soldi

 perché non ci credo».«Vogliono un pezzo della Edil.ber. Più della metà».Rocco annuì. «Mi faccia capire meglio. Lei dovrebbe

intestare parte delle sue quote a...?».«Ancora non lo so. Qualcuno che verrà dal notaio e

 prenderà un pezzo della mia società. Che era quella dimio padre. E di mio nonno».

Rocco si alzò in piedi. «E questo non devesuccedere».

«E mi dice come cazzo faccio?».«Perché non ci ha chiamato? Perché non s’è fatto

vivo con noi?».«Per ottenere cosa?». Non era stato Pietro a porre la

domanda. Ma suo fratello, Marcello, che era appenaapparso sulla soglia del salone. «Me lo spiega signorvicequestore? Cosa avremmo ottenuto? Se vuole unarisposta gliela do io. Che non avremmo più vistoChiara. E la sua presenza in questa casa non depone afavore della salute di mia nipote!».

«Avremmo messo sotto controllo i telefoni. Ci

saremmo mossi e avremmo fermato questa storia».«Avremmo, avremmo, avremmo!». Pietro si eraalzato per farsi sotto al poliziotto. «E dov’era lei o isuoi colleghi quando tutte le banche mi hanno chiuso irubinetti? Quando i fornitori volevano essere pagati?Quando la mia società non aveva più un soldo in cassae non sapevo a che santo votarmi per uscirne?».

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«Dov’ero io non lo so, dottor Berguet. So però chelei ha chiesto aiuto alle persone sbagliate!».

«Sì, ma ora che vuol fare?» chiese Giuliana. «A

questo punto hanno Chiara».«Ci avete parlato?».«Ancora no».«Hanno chiamato» intervenne Marcello facendo

 piombare un silenzio di cimitero nella stanza. «Cifaranno parlare con Chiara nel pomeriggio».

«Quando hanno chiamato? Dove?» urlò Rocco.«Qui a casa. Mezz’ora fa. Una voce maschile.

Accento meridionale».«Avanti, fatevi aiutare, cristoddìo! Lo dico a lei

signora. Mettiamo il telefono sotto controllo e...».«No!» gridò Giuliana. «No! Hanno la mia bambina,

si rende conto? Ce l’hanno in mano e potrebbero farle

cose che...» scoppiò a piangere di nuovo. Pietro siavvicinò alla moglie. «La prego dottor Schiavone,glielo chiedo come padre di famiglia. Io ho già deciso.Lascio le quote, lascio la società, mi ritiro in capo almondo, ma voglio riavere Chiara. È tutto quello chechiedo».

Rocco avanzò verso la finestra. Fuori aveva ripreso a

nevicare. «Lei non può ritirarsi. Lei a quella genteserve. Cosa ci fanno con un pezzo della Edil.ber senzale conoscenze giuste? Senza la sua bravura? No, amicomio, lei da questa cosa non uscirà mai. Sono come lesabbie mobili. Finché gli servirà, la terranno in vita.Pezzo dopo pezzo le mangeranno tutto e solo quandoavranno deciso di averne abbastanza la lasceranno

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andare. Ma lei a quel punto sarà ridotto peggio di unostraccio per pavimenti. Si rende conto? E a questoaggiunga un’altra cosa. Non lo direbbe mai, ma anche

io ho una mia deontologia professionale. Davanti a unreato del genere cosa dovrei fare? Tornarmene inufficio come niente fosse?».

«È l’Italia, amico mio!» fece Marcello.«È l’Italia ’sto cazzo, Marcello Berguet» gridò

Rocco.«Cos’è, il suo senso di giustizia ne rimane offeso?».«Il mio senso di giustizia ne rimane offeso. Il mio,

sia chiaro. E a questo aggiunga che non mi piace essere preso per il culo. E quando succede, divento una bestia.La Giustizia, ha poco a che fare con tutto questo.Essere preso per il culo no. Non qui, non io, non dagente come voi o da ’sti quattro ’ndranghetisti di

merda. Spero di essere stato chiaro».E a passi lunghi si diresse verso il corridoio.«Non faccia cose azzardate, dottore. La prego. C’è di

mezzo la vita di mia figlia».«Non ho mai fatto cose azzardate in tutta la mia vita,

signora Giuliana, mi creda. Una cosa sola vi chiedo.Voglio sapere quando parlate con vostra figlia. Non

muovete un dito se prima non la sentite bene e insalute. Mi sono spiegato?».Pietro Berguet annuì.«Esigete di parlare con lei. Altrimenti rimanete sulle

vostre posizioni. Fidatevi, è l’unico modo per riaverlaviva».

«La sa una cosa, dottor Schiavone?». Giuliana

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guardò Rocco dritto in faccia. «Da quando lei è entratoin questa casa io ho sentito subito la puzza. Di guai e dimorte».

«Morte? Ma che ne sa lei della morte?».

C’era riuscita! Ce l’aveva fatta. Straziata dal dolore,con gli occhi quasi ciechi di pianto, Chiara era in piedi.Incollata al muro ma in piedi.

S’era lanciata verso il rubinetto che gocciolava. Ogni piccolo passo era una stilettata, ma sembrava si stesseabituando a quel dolore d’inferno. Con i denti avevacercato di aprirlo, ma non c’era riuscita. Aveva leccatoavidamente le gocce d’acqua che cadevano, una ogniquattro secondi. Sapeva di ferro, ma era acqua.

 E se non è potabile? le aveva detto la vocina.«Chissenefrega».

Il dolore le dava tregua solo quando stava fermaattaccata al muro, con tutto il peso sulla gamba buona.Riusciva a girare la testa e a vedere il mozzicone disedia infilato nel muscolo come un coltello nel burro. Ilsangue era colato lungo la coscia, sul polpaccio finoalle scarpe. Scuro e secco. Ma l’emorragia si erafermata. Chiara guardava la finestrella in alto. La neve

l’aveva ricoperta per metà.Ha nevicato! Bene, bene. Allora non sono lontano dacasa. Solo ad Aosta nevica a maggio. O sulle tofane.Sono vicino a casa. Sono vicino a casa. Le mani. Devoliberarmi le mani.

Guardò le cianfrusaglie sugli scaffali. C’erano pezzidi ferro e cassette di legno, ma niente che potesse

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aiutarla a segare quelle fascette di plastica che lelegavano i polsi alla spalliera della sedia. Guardò la

 porta di legno vecchio.

Posso andarci contro. Magari una due tre volte quellacede e si apre.

Ti spacchi il collo. Invece no. Invece no.Osservò la stanza. La colonna contro la quale

l’avevano legata aveva perso pezzi di cemento alla basemostrando lo scheletro di ferro all’interno. Forse queiferri potevano servire?

A fare che? A grattare? Inutile.A metà della colonna c’era ancora il cappuccio. S’era

incastrato ad un chiodo. E non era un cappuccio. Era unsacco di iuta, di quelli che si usano per le patate. La

 porta era a cinque metri dal lavandino dove s’era

fermata a prendere fiato e a leccare le gocce d’acqua.L’unica soluzione per la salvezza era quella portavecchia e mangiata dalle tarme.

Devo raggiungerla. Ma senza poggiare la gambaferita. Saltello fino alla porta. Saltello un passetto allavolta. Un passetto alla volta.

«Le cose si fanno un passo alla volta, vero Stefano?»

disse al suo istruttore di sci, e per la prima volta daquando era lì dentro le venne da sorridere. Pensò aMax.

Dov’è quello scemo? A casa? Che sta facendo? Emamma e papà? Mi stanno cercando? Qualcuno mi stacercando? O mi hanno dimenticata?

 Non viene nessuno, non l’hai capito che non viene

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«Ma dove va? Lì non si può!».Schiavone la spalancò ed entrò nel magazzino che

aveva visitato la notte prima. Si fece largo fra gli

scatoloni. Seduto al tavolino di ferro illuminato dallalampada di acciaio c’era l’uomo con la barba. «Lei chiè? Cosa vuole?».

Rocco mise la mano su uno scatolone, strappò ilcartone e a terra caddero delle scatole che contenevanocellulari. «Michele Diemoz?».

«Sono io, ma che cazzo...?».«Mi scusi». Era Melina che era corsa dietro a Rocco.

«Non sono riuscita a fermarlo».«Vicequestore Schiavone».«La polizia? Che coincidenza. Lo sa che stanotte

qualcuno ha rotto la finestra e...».«Silenzio! Lei viene con me in questura».

Michele fece un sorriso di sfida. «E perché?».«Mi faccia vedere tutte le bolle di acquisto e diaccompagnamento di questi cellulari. O di quelleautoradio che vedo spuntare laggiù. O di quei bollitorielettrici».

Michele afferrò il cellulare dalla tasca. «Io con leinon vengo da nessuna parte».

Rocco lo raggiunse. Gli strappò il cellulare dallemani.«Voglio chiamare il mio avvocato e...».Solo quando la testa gli girò verso il muro dall’altra

 parte della stanza Michele realizzò di aver preso unInterregionale sulla guancia. Il dolore arrivò duesecondi dopo. Il vicequestore era stato talmente rapido

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che Diemoz non aveva neanche visto partire il colpo.Sentì la mano del poliziotto afferrarlo per il collo e unaforza dirompente trascinarlo verso l’uscita del

magazzino. Gli girava la testa e vedeva un’ombrarossastra nell’occhio destro.

«Melina, aiuto!» urlò, come se la cicciottella potessefermare quella forza della natura.

La ragazza se ne stava in piedi in un angolospaventata con le mani davanti al grembo. Incassò latesta nelle spalle quando Schiavone trascinandoMichele le passò accanto.

Fuori dal negozio l’uomo aveva ripreso un po’ dicoscienza «Mi lasci. Mi lasci. Io giuro che la denuncioa...».

Ma Rocco invece di rispondere si limitò a colpirlosul collo a mano aperta, uno scapaccione che si dà a un

 bambino birichino che ha fatto la marachella. «Zitto ecammina!».Lo sbatté nell’auto. Poi entrò al posto di guida.«Questo è rapimento!».«E non provi ad aprire, tanto c’è la sicura».Michele gli saltò alla gola graffiando la faccia del

vicequestore. Che con una gomitata alle costole lo

rimise a posto e in debito di ossigeno. Poi lo afferrò perla nuca e con un colpo secco lo mandò a sbattere controil cruscotto. Michele Diemoz perse i sensi.

«Ecchecazzo...» disse Rocco. La faccia del proprietario di Biribimbi aveva finito di rompere la plastica del cruscotto. Gli toccava portare la macchinada un carrozziere.

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 Deruta aveva chiuso Michele Diemoz nella camera di

sicurezza. Rocco invece aspettava Italo davanti alla

questura. I marciapiedi e le strade s’erano già liberatidalla neve ma il cielo minacciava di volerne vomitareancora. L’agente Pierron arrivò con l’auto a centoventiall’ora inchiodando a pochi centimetri dal vicequestoree alzando una guazza di fango e ghiaccio cheinzaccherò i pantaloni di Rocco.

«Ma puoi essere coglione?».L’agente Pierron raggiunse di corsa il vicequestore.

«Scusami. T’ho sporcato? A guardarti le scarpe direi disì».

«Dormo poco, i miei ritmi circadiani se ne sonoandati a fare benedire, ho addosso un jet lag come sefossi arrivato da Tokyo, quindi sono molto nervoso» e

allungò una mano per prendere il registro dei debiti delnegozio Biribimbi che Italo gli stava allungando.«Ecco. Quello che avevi chiesto!».«Ottimo. Chi c’è al negozio?».«Ci sono Scipioni e Casella».«Allora io corro dal magistrato. Le foto che hai fatto

non servono più. Abbiamo l’originale». E brandendo il

registro si avviò verso la sua Volvo. «Vai a vedere sequel deficiente di Deruta s’è ricordato di chiudere achiave Diemoz nella camera di sicurezza».

«Va bene. E poi?».«Aspetta notizie da me. E a proposito, le scarpe... hai

scoperto dove le vendono?».«Ancora no».

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 Con i piedi fradici e un dolore fisso alle tempie, era

davanti alla porta del giudice Baldi da dieci minuti.

Come sempre a cercare gli strani disegni che siformavano fra i nodi del legno e che ogni voltasembravano diversi. Stanchezza e mancanza di sonno,non ne vedeva nessuno. Giusto la testa di un bracco, o aguardarla al contrario poteva pure essere un cannone.Stringeva il registro e scuoteva nervoso la gambadestra.

«Eccomi, Schiavone!» risuonò alle sue spalle. Baldi,seguito da un segretario, stava arrivando firmando carteche l’aiutante gli teneva davanti. «Che succede?».

Rocco si alzò mentre Baldi firmava l’ultimodocumento e congedava l’assistente. «Venga dentro».

Schiavone allungò il registro al giudice Baldi.

«Allora, mi serve un mandato di cattura per MicheleDiemoz e di perquisizione del negozio Biribimbi dovec’era questo».

«Mi faccia capire, Schiavone. Le serve un mandato per cose che lei ha già fatto?».

«Sì!».Baldi esplose: «Porca di quella puttana, Schiavone!»

e sbatté il registro sul tavolo. «Che le avevo detto? Chele avevo detto? Lei continua ad agire di testa sua, ocome si dice dalle mie parti ad uccello di cane!».

«Per favore, mi ascolti, è importante!».«Io le cose le devo sapere prima! Glielo avrò detto un

milione di volte!».Con un’occhiata Rocco vide che la foto della moglie

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del magistrato era nuovamente a testa in giù. No, lecose in famiglia non andavano proprio. «Per favore,ascolti! Questo negozio serve per riciclare denaro. E

quel registro riporta tutti i debitori della zona versoquest’organizzazione».

L’umore del giudice, come un temporale estivo chesquassa e allaga tutto e poi in un battito d’ali se ne va,era cambiato nel giro di pochi secondi. «Mi facciacapire meglio».

«Ora io ho arrestato il proprietario, ma l’ho arrestato per ricettazione. Questo è il concetto importante.Ricettazione. Quel registro che le sto dando è la provadel riciclaggio e dei prestiti a strozzo che quei figli di

 puttana fanno, ma ce lo teniamo per me e per lei».Baldi finalmente aprì il registro e cominciò a

leggerlo.

«Ora però io questo Diemoz lo tengo dentro perchéoltre a fare i prestasoldi, queste schifezze hanno ilmagazzino pieno di stereo e roba elettronicachiaramente rubati. Di lì la ricettazione».

«Perché vuole nascondere il vero motivodell’arresto?».

«Perché devo dare una botta all’alveare e far

incazzare le api. Non devono capire che li abbiamo beccati, ma se la devono fare addosso. E si sa, chi se lafa addosso è in svantaggio».

«E puzza» aggiunse il giudice.«Appunto».«Qual è il piano?».«Trovare la ragazza prima che sia tardi. Hanno un

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appuntamento dal notaio per la cessione della società.Io devo prendere qualche giorno».

«E come farà?».

«Ho un’idea».«Se ha intenzione di sparare al notaio le consiglio di

trovare un’altra strada».«Non arrivo a tanto, dottor Baldi».Il giudice si alzò e cominciò a misurare la stanza a

grandi passi. Era ipercinetico, fermo più di trentasecondi non poteva stare.

«La ragazza ancora non ha parlato coi genitori. Nonl’hanno ancora sentita. Qualcosa non va. Capisce?».

Baldi si fermò in mezzo alla stanza. Si aggiustò ilciuffo biondo e guardò il vicequestore negli occhi:«Secondo lei è morta?».

«Non lo so. Ma non possiamo escludere la cosa».

Il giudice tornò a sedersi. «Va bene, le firmo imandati. Col questore ci parla lei?».«Certo. Lo convinco a fare una bella conferenza

stampa tutta incentrata sulla ricettazione. Un bel colpodella polizia, lui sarà contento e chi di dovereapprenderà dai giornali e dalla rete che le forzedell’ordine stavano seguendo una pista di merce

rubata».«Ma i nostri figli di puttana invece...».«Cominceranno a temere che abbiamo scoperto

molto di più di quattro stereo rubati».Il giudice annuì. «Non mi piace come si muove, e

questo non è un mistero. Ma stavolta chiudo un occhio.Lo faccio per Chiara».

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Enzo se la infilò nella tasca dei jeans. Era vero. Cistava tranquillamente, e quasi non la sentiva. «Comodaè comoda. Quando ha sparato l’ultima volta?».

«Non lo so. Io l’ho pulita sempre. Fai due schioppigiù al Tevere».

«Mi dai pure le caramelle?».«E certo».«E quanto vuoi?».«Facciamo 200 euro e non te voglio vede più».«Pagamento?».«Prima che puoi».Enzo guardò l’amico. «Flaviuccio, io so’ uscito ieri».«Lo so». Flavio si infilò la camicia a scacchi nei

 pantaloni. La pancia come un cocomero cadeva pesantesulla cinta. «E ti stanno pure a cerca’, vero?».

Enzo annuì. «Per questo io i soldi mo’ nun ce l’ho».

Flavio sbuffò. Si accarezzò ancora la pelata. Passò unautobus giù in strada. Tintinnarono i vetri e due ballerine di Murano poggiate sul mobile di noce.«Massimo una settimana».

«Sei un amico, Flavio».«Dai, annamo che ti offro un caffè. Al bar, però,

mica quella ciofeca che fa mi’ madre».

La telefonata con il questore era stata rapida esintetica. Costa aveva già indetto una conferenzastampa, poco felice di dover aver a che fare coigiornalai ma, e Rocco lo sapeva, se c’era una cosa chedava senso all’esistenza dell’alto funzionario di Statoera poter dominare gli scribacchini della carta stampata.

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E non perdeva l’occasione di affrontarli tutte le volteche era in una posizione di evidente superiorità. Costaamava vederli pendere dalle sue labbra, e di questa

azione del suo vicequestore, rapida veloce e con un belrisultato, era l’unico a conoscerne i dettagli che lostesso Schiavone gli aveva fornito. Nessuno di queigiornalai sapeva di un giro di ricettazione cosìimportante. Avrebbero appreso la cosa da lui, sarebberocorsi alle redazioni e ai loro computer per riportare le

 parole esatte del questore. E questa per lui era una bellarivincita su quelle orrende creature, gente che Costanella scala evolutiva considerava un solo gradino al disopra dell’ameba. Il perché è presto detto. La moglie loaveva piantato anni prima per un giornalista de «LaStampa». E da allora il questore aveva trasferito l’odiodel singolo su tutta la categoria, senza distinzione di

sesso o religione.«Io sono d’accordo con lei, dottor Schiavone, non

 bisogna dare nell’occhio, ma si rende conto di cosa mista chiedendo?».

«Le chiedo solo di temporeggiare qualche giorno,dottor Charbonnier, solo qualche giorno».

Il notaio si grattò il lobo dell’orecchio destrocontinuando ad aspirare dalla pipa spenta. «Non lo so.Cosa potrei dire?».

«Per esempio che sta avendo un controllo di routinedalla finanza?».

«Poco credibile. Ma lei è sicuro?».«Quella ragazza è stata rapita, dottore. E la

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lasceranno solo quando Pietro Berguet cederà le quotedella Edil.ber».

Il notaio annuì. Posò la pipa. Premette l’interfono:

«Graziella, per favore, mi porti i documenti dellaEdil.ber».

«Subito, dottore» rispose la segretaria dall’interfono.«La sa una cosa, dottor Schiavone? Ho quasi 70 anni

e una cosa simile non mi era mai capitata. Pensavo distarmene tranquillo fino alla pensione e invece...».

«E invece...».«Io la conosco. Leggo i giornali e so che lei è un

 poliziotto serio. Ma lei capisce? Dovrò parlare anchecon il questore e...».

«Ecco. Le chiedo di non farlo. Se la cosa dovessecominciare a sapersi, l’unica che rischia è la ragazza.Ha 18 anni».

Graziella entrò con una cartellina. La depositòdavanti al notaio e sparì con la velocità di un lampo.Enrico Maria Charbonnier aprì il plico. «Dunque, il

 beneficiario di questa transizione è il dottor UgoMontefoschi. Che è il presidente di una società, laCalcestruzzi Varese».

«È un prestanome, sicuro. Gliel’ho detto chi c’è

dietro questo schifo».«A me questa storia è parsa subito una cosa strana, saSchiavone? Insomma, la Edil.ber non naviga in acquetranquille, ma adesso con la gara alla Regione...insomma, i guadagni dovrebbero raddoppiare. Chesenso ha cedere quote? Ma faccio il mio mestiere,anche se a volte le cose non mi convincono. Io Pietro

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Berguet non lo conosco. Per questa pratica venivasempre quell’uomo, quello con la barbetta curata».

«Cristiano Cerruti?».

«Esatto. Che mi pare sia una specie di braccio destrodel dottor Berguet».

«Cos’altro si ricorda?».«La fretta. Aveva sempre una fretta indemoniata,

sembrava inseguito da un pericolo. Non mi è mai piaciuto, sa? Arrogante, sbrigativo, e parlavacontemporaneamente a me e a chissà chi diavolo alcellulare. Sempre con l’auricolare infilato».

«Allora, dottore, me la dà una mano?».Enrico Maria Charbonnier sbuffò. «Lei mi chiede

una cosa che va contro la mia deontologia».«Io le chiedo solo di fidarsi di me e di darmi un po’

di tempo».

Il notaio riprese la pipa in mano. «Non lo so. Lafinanza, dice?».«Se vuole farò in modo di mandarle realmente dei

finanzieri a controllare».Il notaio sgranò gli occhi.«A far finta di controllare, ben inteso».«Lei ha figli, Schiavone?».

«No».«Io sì. Tre. E anche due nipoti. Una ha l’età di questaChiara. Facciamo così, non c’è un’indagine ufficiale,ma mi serve un documento». E senza attendere oltrealzò il telefono.

«Buongiorno, sono il notaio Charbonnier. Mi passamio fratello? Va bene, aspetto».

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Caricò il tabacco. Rocco non vedeva l’ora che il pubblico ufficiale si accendesse quella pipa in modo da poter allegramente, e senza chiedere permesso, fare lo

stesso con una Camel.«Ciao Alfredo. Sono Enrico. Mi serve un favore. Hai

visto le ultime analisi del sangue? Sì? Qualcosa che nonva?». Enrico Maria Charbonnier annuiva. «Mmm... manon sarebbe meglio un ricovero d’urgenza peraccertamenti? Sì, mi serve come il pane. Dici? Oggistesso? Mi sembra giusto. Tecnicamente che cos’hoavuto? Una fibrillazione... bene, ottimo. Perfetto, adopo».

Chiuse la telefonata e finalmente si accese la pipa.Solo alla terza boccata guardò il vicequestore cheintanto si era infilato la sigaretta in bocca. Il notaio conun gesto gli diede il permesso di accenderla. «Lo

sapeva? Stamattina avevo sangue nelle feci».«Veramente?».«Già. E ho anche avuto una fibrillazione cardiaca.

 Nonostante io prenda una pillola al giorno diAlmarytm, credo che la cosa più saggia sia un ricoverod’urgenza per almeno tre giorni nella clinica dovelavora mio fratello. Ottimo cardiologo. Insomma, alla

mia età il pericolo di ictus è dietro l’angolo».«Non sia mai, dottore. Su queste cose non sischerza».

«Ecco, ora finisco la pipa e mi faccio accompagnareda Graziella».

«Se vuole la posso portare io».«Non si preoccupi. Anzi, io e lei meno ci facciamo

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vedere in giro e meglio è. Proprio non ci voleva questacosa». Le volute di fumo della pipa riempivano lastanza insieme all’odore di legno e muschio. Quando la

nuvola di fumo si disintegrò, riapparve il viso delnotaio. «Dottor Schiavone. Veda di riportare Chiara acasa. Possibilmente viva».

Rocco annuì. Gli strinse la mano e uscì dallo studio.

Via Tiburtina era una strada consolare che portava gliantichi romani fino a Tivoli, dove sorgevano le ville deinobili patrizi, e che proseguiva poi fino a Ostia Aterni,Pescara. Non si chiama più via consolare ma è unastrada statale e il tracciato non è cambiato di molto,così come la pavimentazione. Attraversa Roma dallaStazione Termini e poi taglia tutta la periferia ed è untubo intasato ad ogni ora del giorno e della notte,

almeno fino a quando non ci si allontani e di parecchiodal grande raccordo anulare. Al contrario dei romani,che per raggiungere l’Abruzzo preferisconol’autostrada A24, Enzo Baiocchi la stava percorrendo a

 bordo di una vecchia Ford rubata un’ora prima. Menotraffico, meno rischio di incontrare le guardie, sisentiva più tranquillo. La macchina però era un cesso.

C’era pure poca benzina e il motore imballato urlavaogni volta che arrivava a 3.000 giri. Finestrini aperti,s’era già lasciato alle spalle la città e i quartieri fuoridal raccordo anulare. Il caos e i palazzoni della capitaleerano solo un ricordo. Cominciava a vedersi lacampagna. E poche macchine in giro.

La spia della riserva era accesa da una decina di

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minuti. Aveva bisogno del benzinaio, non poteva piùrimandare. Sulla destra un cartello avvertiva che fra300 metri ce ne sarebbe stato uno. L’evaso sorrise,

indossò un cappellino da baseball lercio che avevatrovato nel sedile posteriore e si accese una sigaretta.Mise la freccia ed entrò nel distributore. Era quellogiusto. Nessuna casa vicina, solo campi coltivati equalche vecchio rudere sperduto all’orizzonte.Macchine poche e soprattutto nessuno in fila a farerifornimento. Parcheggiò l’auto davanti alla pompa. Unuomo sui 70 anni, con un passo lento e indolente siavvicinò. «Quanto faccio?».

«Il pieno».L’uomo staccò la pompa e cominciò a mettere

 benzina nel serbatoio. Enzo scese dall’auto. Si guardòintorno. Buttò un’occhiata alla casetta di alluminio

 piena di prodotti per auto. Deserta. Il benzinaio dunqueera solo.«Fa caldo, eh?» disse. Il benzinaio non rispose.

Rimise a posto la pompa e si avvicinò a Enzo.«Sono 50 euro».Enzo si mise la mano in tasca. Tirò fuori la pistola e

con il calcio mollò un colpo secco alla tempia del

vecchio che si afflosciò a terra senza un lamento. Sichinò sul corpo e slacciò il marsupio. Lo aprì. Era pieno di banconote. Felice rimontò sull’auto, e ripresela Tiburtina verso le montagne.

Un bastardino senza collare sbucò dalla casupola dialluminio e uggiolando si mise accanto al suo padrone.Gli leccava la faccia, ma quello non dava segni di vita.

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 «Io voglio sapere se si sono fatti vivi. Se ha parlato

con sua figlia» disse Rocco stringendo la cornetta come

se avesse paura che potesse cadergli dalle mani.Pietro Berguet dall’altra parte del telefono respirava

 profondo. «Solo pochi istanti. Hanno parlato con miofratello. Ha solo detto: sto bene. Poi qualcuno haripreso in mano il telefono. E ha abbassato».

«Almeno sappiamo questo. Che è viva».«Commissario, glielo ripeto...».«Anche io glielo ripeto, sono vicequestore».«Vicequestore, glielo ripeto. Non ha più importanza.

Facciamo questa cosa, riprendo mia figlia e poiagiremo, se la legge potrà ancora darmi una mano».

«Allora è questo che vuole?».«Io e mia moglie vogliamo questo. La scongiuro, se

ne tenga fuori per ora. Glielo chiedo in ginocchio».«Va bene, dottor Berguet. Va bene. Allora... aspettoun suo ordine e scateno la questura». E abbassò iltelefono. Guardò Italo. «Ci hanno parlato. Pare che stia

 bene. Come sta quel pezzo di merda di Diemoz?».«Continua a urlare la sua innocenza. Ma tanto oggi lo

trasferiamo al carcere».

«Ottimo».«Che facciamo, Rocco?».«Andiamo dritti. Caterina che fa? Viene?».«Sì, sta arrivando in ufficio» rispose Italo. «La

febbre si è abbassata».«Sguinzagliala su questa Calcestruzzi Varese e su

tale Ugo Montefoschi». Mentre parlava Italo prendeva

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appunti. «I rapitori sanno che domani al massimovanno dal notaio a rogitare. Noi abbiamo tre giorni percapirci qualcosa di più. Antonio?».

«Ha portato dentro quella poveretta, Melina, lacommessa. Piange e dice di non sapere niente».

«Lasciatela andare, ne sa meno di D’Intino». Non finì di nominare l’agente che quello mise la

faccia dentro l’ufficio. «Dotto’, è permesso?».«Che c’è, D’Intino? Non è il momento! Vuoi andare

a casa? Vai a casa!».«Una cosa brutta. Ma brutta assai».Rocco alzò gli occhi al cielo. «E posso sapere

cosa?».«Hanno trovato nu morto».Rocco guardò Italo. «Ho capito bene? Ha detto

morto?».

«Mi pare di sì, dottore, ha detto: nu morto. Nu èl’articolo» chiarì Italo.«Chi?».

Era stata Rosa la portiera a chiamare la polizia.Entrata per fare le pulizie, aveva scoperto il corpo diCristiano Cerruti riverso a terra con la faccia in giù,

nella sala da pranzo. Una macchia rossa enorme sultappeto e il tavolino di cristallo in mille pezzi. La bella barbetta rada e curata era intrisa di sangue e parti dicervello. Rosa se ne stava seduta sulle scale delcondominio, pallida come un cristo in croce, e siasciugava gli occhi rossi di pianto. Dopo aver scacciatoCasella che tendeva a sporcare la scena del crimine

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distribuendo il suo dna con impronte sputazzi e pipì,Rocco si aggirava per la stanza in attesa del caro escontroso Alberto Fumagalli. C’erano schizzi di sangue

anche sul muro del salone e su un olio di Schifano. Gli parve strano come, da quello sbuffo rosso, il quadrosembrasse addirittura guadagnarne. L’appartamento era

 piccolo e arredato alla giapponese. Pochi mobili preziosi, una bella cucina ordinatissima, non unsoprammobile, non un libro. Sembrava di stare in unresidence più che in una casa. La camera da letto eraenorme. Sul letto king size Cristiano non aveva dormitosolo. I cuscini erano sprimacciati, le coperte gettate dilato, le lenzuola portavano tracce di corpi su tutt’e due ilati. Su un comodino un paio di occhiali e un libro diKrakauer, dall’altra parte, sullo scendiletto, un vassoiocon due tazzine e dei biscotti mordicchiati. Anche nel

 bagno, che sembrava la toilette di un resort, regnava unordine maniacale se si escludeva lo spazzolino poggiatosul lavabo e un rasoio ancora sporco di schiuma da

 barba.L’unica certezza era che quel delitto, per quanto

fosse piombato con violenza e stupidità nella vita diRocco, almeno faceva parte della stessa storia, lo stesso

filone, e non era un’aggiunta indesiderata al casino chegià stava affrontando. Sentì tramestare in salone. Eraarrivato Fumagalli. Anche stavolta i due non sisalutarono. L’anatomopatologo, chinato accanto alcadavere, si stava mettendo i guanti di lattice.

«Bella botta» disse infilando le dita nella ferita aperta proprio nella parte posteriore del cranio producendo un

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rumore di carne lapposa. Lo stomaco di Rocco si chiusea saracinesca. «Proprio una botta secca».

«Ma non puoi evitare di mettere le dita nelle ferite,

fare ’sti rumori schifosi e comportarti da personanormale?».

«Senti un po’ da che pulpito. Allora, sai chi è il poveretto?».

«Cristiano Cerruti, braccio destro di Pietro Berguet, presidente della Edil.ber».

«E sai perché l’hanno ridotto così?».«Solo una mezza idea».«Ora gli infilo il termometro e cerchiamo di capire a

che ora è morto».Rocco evitò di assistere all’operazione e continuò a

guardarsi in giro. C’era il videocitofono, attrezzo che prima o poi lui si sarebbe fatto montare a casa, e una

 porta talmente blindata che pareva quella di una banca.Tutto era in perfetto ordine. Aprì qualche sportello insalone trovando impilati piatti, bicchieri, tovaglie e

 posate, tutto sistemato per forma e colore. Quando sigirò verso Fumagalli lo vide curiosare accanto a unarmadio cinese rosso fuoco. Toccava e metteva a postoun oggetto metallico.

«Che è?».«Dai Rocco, ti do un aiutino, ti servirà». Albertostava osservando con attenzione la sacca da golf

 poggiata al muro. «T’ho risolto l’arma del delitto».«Cosa te lo fa pensare?».«Qui manca il drive. Che è il ferro che si usa per il

 primo colpo. A nessun giocatore di golf può mancare il

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drive».«Com’è fatto?».Alberto tirò fuori una mazza. «Qui alla fine ha una

testa enorme, ma non è pesante». Poi come un invasatomenò un colpo nell’aria. «Una botta con questo dietro ilcranio ti manda al creatore anche se indossi un casco».

«Ma tu che ne sai?».«Carino, stai parlando con un seconda categoria che

ha vinto a Villa Olona e a La Pinetina, sa?».«Non facevi prima a dire: sì, gioco? Che me ne frega

del tuo palmarès?».«Per farti rosicare».«Non rosico, non me ne frega niente del golf. Non è

uno sport».«Come, non è uno sport?» si indignò il medico.«Quattro passi in mezzo ai campi vestito come un

 pagliaccio a tirare mazzate a una pallina lo chiamisport?».«E come lo vuoi chiamare?».«Quattro passi in mezzo ai campi vestito come un

 pagliaccio a tirare mazzate a una pallina».«Nel 2016 torna a essere uno sport olimpico».«Insieme alle bocce?».

«Non capisci una mazza, Rocco».«A proposito di mazza, come si chiama quella chemanca?».

«Drive».«Drive. Che adesso riposerà sul fondo della Dora».«Oppure in una discarica o sottoterra, che vuoi che

ne sappia?» e tornò al cadavere. «Sì, la ferita può

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combaciare. Vabbè, mi porto il ragazzo in ospedale. Semi dice qualcosa di più mi faccio vivo io».

«Se ti dice? Ah già sì, scusa». Rocco aveva

dimenticato che Alberto Fumagalli, nelle lunghe ore incui frequentava solo cadaveri, tendeva a parlarci e aconsiderarli cose vive e vegete.

Italo, che come sempre se n’era stato fuori dallascena del delitto, si affacciò timido sulla porta di casa:«Dottore? Rosa qui le deve dire qualcosa...».

«Chi?».«La portiera».

La donna, ancora seduta sulle scale, si asciugava ilnaso con un fazzoletto che stringeva in pugno e cheormai era diventato un ammasso informe umido emacchiato. «Forza Rosa, dica al vicequestore quello

che ha detto a me» la pungolò Italo.Finalmente la donna parve aver esaurito il muco ealzò gli occhi verso Rocco. «Ho visto uno che usciva dacasa del dottor Cerruti».

«Bene. E...?».«È passato di fronte a casa mia. Io abito al piano

terra, ho un appartamento piccolo, perché faccio la

custode e per qualche condomino pure le pulizie. Peresempio per il dottor Cerruti facevo pure le pulizie.Ecco perché sono entrata stamattina, infatti l’ho trovatoio. Stavo a casa mia, mo’ ci sta pure mio nipote che miè venuto a trovare, sta qui da Civita perché fa unconcorso alla Regione, sperando che la Madonna ci fala grazia e gli fa trovare un bel posto. L’ho messo in

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camera mia, pure se lui voleva dormi’ sul divano, porettello, sul divano ci sto io... allora...».

«Signo’, me sta a rincojoni’!» sbottò il vicequestore.

«Mi dica di questo tipo che ha visto».Rosa si soffiò il naso, poi riprese: «Lo sa, dotto’? Io

sapevo che Cerruti aveva un’amante. E quest’amantenon passava mai dal portone. La faceva sempre entraredal garage, giù di sotto. Poi con l’ascensore saliva, esempre dal garage se ne andava. Io però non l’ho maivista».

Rocco annuì. «Era un tipo riservato, no?».«Mi sa. Però forse era importante a saperla ’sta cosa,

vero?».«Sì, era importante... allora questo tipo che ha

visto?».«L’ho visto di spalle. Era grosso, ciccione insomma.

Ma lo sa? Non è uno del condominio di sicuro».«Capelli lunghi, corti, biondi, bruni?».«Non lo so. Portava uno zuccotto in testa e un

giubbotto nero. Altro non mi ricordo. Può esserel’assassino?» disse Rosa con un filo di voce.

«Oppure un idraulico. Non lo so, signora, mi spieghimeglio ’sta storia del garage».

«Si può entrare nella palazzina dal garage, ma civuole la chiave oppure chi ti apre dall’appartamento».«E lo usano tutti i condomini?».«Macché. Ci sono solo tre posti macchina. Uno è del

generale che non guida più, l’altro dello studio diarchitettura al primo piano ma ci tengono un furgone e

 poi c’è il posto del povero Cerruti. Lui lo usava,

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gliel’ho detto. Per far passare l’amante».Rocco fece un gesto a Italo. «Vieni, Italo, scendiamo

in garage. Si va con l’ascensore, signora?».

«Sì. Prema la lettera esse».I due poliziotti entrarono nell’ascensore. «Sospetti

che l’amante possa essere l’assassina?».«L’assassino, Italo. L’assassino».«Un... un uomo?».«Conosci donne che la mattina si fanno la barba?».

 Non si muoveva da ore. Ogni tanto apriva gli occhi, poi li richiudeva.

Cado piano, lenta, da un piano alto. Altissimo. Ilcuore ce l’ho nelle orecchie. E batte piano, un colpoogni tanto. Che freddo. Fa freddo qui dentro. Però èstrano. Ora tiro addosso il piumone... del letto. Non

l’ho messo? Non ho messo il piumone? Dolores, dov’èil piumone? Vuoi vedere che mi sono addormentata conle finestre aperte? Che scema. Mi alzo e le chiudo. Nonsi sente niente. Nevica ancora o ha smesso? La nevecancella ogni rumore. Pure l’aria diventa silenziosaquando nevica. I passi non si sentono. Solo gli alberi,quando tira vento... e il vento passa in mezzo agli aghi.

Lo sento il vento, e i passi sulla neve. Ecco perché fafreddo. Sono caduta. Sono caduta in mezzo alla neve.Dov’ero? Stefano... ero sugli sci? Mi sa che sonocaduta sugli sci. Mi fa troppo male la gamba. Me lasono rotta. Stefano, mi sono rotta la gamba, vero?Perché non vieni, Stefano? Aiutami! Dove sei? Non mi

 parli più? Te ne sei andato? Siete spariti tutti, così? Nel

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nulla? Sono stanca. Adesso dormo. Cinque minuti. Solocinque minuti, poi mi sveglio e mi tiro su. Mi alzo etorno a casa. A casa. A casa...

Rocco e Italo si guardavano intorno. Il garage era piccolo, e veniva usato soprattutto dai condomini comedeposito. Come aveva detto la portiera c’era un furgone

 parcheggiato con su scritto «Architettura d’interni» edue posti vacanti.

«Cosa cerchiamo?» chiese Italo con gli occhi puntatisul pavimento.

«Niente. Mi servirebbe una botta di culo. Ogni tantoaiuterebbe. Vedi? L’assassino è passato da qui.Significa che ha parcheggiato, è salito con l’ascensore,ha fatto il dovere suo e poi è tornato giù a riprendere lamacchina...».

«O la moto...».«O la bicicletta, che cazzo ne so io?».Rocco si avvicinò al cancello di ferro automatico che

dava direttamente in strada.«Però...» scosse il cancello. «Seguimi. Se è entrato

 perché Cristiano da su gli ha aperto, come è uscito?».«Avrà preso le chiavi di Cerruti?».

«Non serve una chiave. Vedi?» e indicò uno stranoforo a cinque punte. «Si mette una specie di spinottoche chiude il circuito e la porta si apre».

«Va bene» rettificò Italo, «allora avrà preso lospinotto di Cristiano».

Rocco sbuffò.«Che succede?».

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«Mi tocca andare su un’altra volta».«E allora? Basta salire al terzo piano».«Già, e trovarci quello scassapalle di Ernesto

Farinelli da Torino. Che mi farà sicuro un cazziatone».«Come fai a sapere che è arrivato?».«Lo sento!».Italo alzò le spalle. Si incamminarono verso

l’ascensore quando Italo pestò qualcosa. I due poliziottisi gelarono e guardarono per terra. Italo alzò il piede.C’era un frammento di plastica trasparente.

«E questa?».Rocco la prese in mano. «Che cos’è? Sembra

 plastica, non è vetro».«Questo è policarbonato».«Traduci, Italo».«Si usa per i fari delle automobili».

«Forse è la botta di culo?».«Può darsi».«Chi ci può dare una mano per riconoscerlo?».«Umberto. Il mio amico della polstrada. Prima faceva

il meccanico. Conosce sicuro qualcuno».«E allora vai e non perdere tempo!».«Se non arriva l’ascensore, non vado da nessuna

 parte, Rocco».

 Nell’appartamento di Cerruti c’erano già due agentidella speciale col giubbino bianco al lavoro. Il corpodel disgraziato era stato coperto da un telo.

«Ciao Schiavone». La voce inconfondibile delsostituto della scientifica colpì Rocco proprio alle

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spalle.«Avanti Farinè, dimmi le cazzate che abbiamo fatto

stavolta».

«Per ora nessuna. Invece te com’è che non mi chiedidi mia moglie?».

«State ancora insieme?».«Sì» fece soddisfatto il poliziotto che quel giorno,

chissà com’è, sembrava di ottimo umore.L’antico mistero. La signora Farinelli, donna di una

 bellezza che a Torino fermava il traffico, continuava acondividere l’esistenza con Farinelli, che per RoccoSchiavone era la quintessenza dello squallore. Altezzanella media, niente capelli, faccia di quelle che te lescordi appena voltato l’angolo e cosa più gravetotalmente privo di senso dell’umorismo.

«Sì, stiamo ancora insieme. La cosa ti disturba?».

«A me no. Non capisco come non disturbi lei».«Cercavi qualcosa?».«Sì. Le chiavi di casa. Le avete trovate?».Farinelli annuì. «Cerruti, si chiamava così? era un

tipo molto ordinato. Amo i tipi molto ordinati. Mifacilitano il lavoro. Due mazzi, nel primo cassettodell’ingresso, vedi? Quel mobile cinese?».

«Non è cinese, è tibetano» ribatté Rocco.«Che ne sai?».«Lascia fa’, Farinelli. Su ’ste cose lasciami perdere.

E se mi fai girare le palle ti dico pure quanto costa. E inquesti mazzi c’erano degli spinotti?».

«Sì, uno c’è. Ho già chiesto alla portiera. Servono per...».

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«Aprire il cancello di ferro giù in garage» concluse lafrase Rocco.

«Vedo che lo sai. Mi ha detto che ogni condomino ne

ha due».«Due? E allora l’altro dov’è? Mica era tanto ordinato

’sto Cerruti!». Sorrise al collega. «Però io a differenzadi te so dove sta».

Farinelli chinò leggermente la testa di lato: «E dovesta?».

«Se l’assassino è furbo l’ha buttato insieme all’armadel delitto. Se è cretino ce l’ha ancora in tasca».

«Peccato».«Cosa?» chiese Rocco.«Quello Schifano. C’è finito sopra il sangue».I due si avvicinarono al quadro incorniciato.

«Secondo me gli dona» disse Rocco.

«Lo devo portare a fare analizzare. Magari non è ilsangue della vittima. Il mio motto è: non lasciare nientedi intentato!» fece Farinelli, che infilati i guanti di

 plastica rimosse l’opera dal muro.Dietro c’era una cassaforte a serratura.«Bene. Bravo Farinelli!».«Vedi? A essere pignoli? La apriamo?» e si avvicinò

con il mazzo di chiavi. Nessun valore. Solo un pacco di fogli. Rocco liafferrò anticipando il sostituto della scientifica.«Fammi dare un’occhiata...».

Erano lettere di una banca, con saldi, movimenti espese sostenute. «Former Bank, di Lugano».

«Hai capito... e che dice?».

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«Che il nostro amico» borbottò Rocco spulciandovelocemente le carte «ha un saldo di tre milioni dieuro».

«E bravo Cerruti».«Ma la vuoi sapere la cosa più curiosa? Di questi tre

milioni, due milioni e novecentomila gli sono entratineanche una settimana fa».

Farinelli guardò Rocco. «Che vuol dire?».«Un bonifico. Da un’altra banca di Lugano. Questo

dà da pensare, no?».«E parecchio».Rocco passò tutto l’incarto al collega che si mise a

leggere. «Che facciamo col giudice?».«Pensaci te, Farinelli. Sei bravo e ordinato, al giudice

 piacciono i tipi ordinati». Rocco fece per andare via.Poi si bloccò sulla porta. «Me la spieghi una cosa?

Perché sembri di ottimo umore? Tu non lo sei mai!».«Perché amo la neve a maggio. È così strana, soffice.Mi fa tornare indietro alla mia infanzia».

«E da quando ne hai avuta una?».

«Sono sconvolto. Sono a pezzi, non ho parole. Macosa sta succedendo?» urlava Pietro Berguet.

Dall’ufficio qualcuno l’aveva avvertito della disgrazia.Giuliana era stravolta, buttata come uno straccio su unodei divani dorati.

«E adesso? Chi è stato? Come è possibile?». Il presidente della Edil.ber faceva su e giù per il grandesalone. «Cosa devo pensare? Ho perso un amico, ora la

 polizia si piazzerà negli uffici, e loro? Loro non hanno

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rilasciato Chiara. E in più il notaio Charbonnier...l’hanno ricoverato». Guardò la moglie. «Chefacciamo?».

Quando finalmente Pietro Berguet si sedette, Rocco prese la parola. «Posso avere il numero del cellulare diCristiano? Su quel numero di Cerruti potrebbero essercile telefonate fra lui e l’assassino. È importante che io loabbia e possa provare a rintracciare le telefonate che hafatto».

«Certo, certo». Pietro si alzò e andò all’ingresso.«Saranno stati loro?» fece Giuliana con un filo di

voce.«Non lo so. Come vorrei capire perché Cerruti aveva

un conto in una banca di Lugano con ben tre milioni dieuro sopra».

Giuliana spalancò la bocca. «Tre... tre milioni?».

«Guadagnava così tanto alla Edil.ber?».Rispose Pietro, che era rientrato in salone con unfoglietto in mano: «Aveva un ottimo stipendio... ma tremilioni!».

«Che voi sappiate, aveva ereditato? Una vincita?Qualcosa che possa giustificare una somma cosìingente?».

«No, assolutamente no. Il dottor Cerruti era solo,aveva una zia, giù nelle Marche, ma non credo... no, loescluderei proprio».

«Allora la cosa si ammanta di mistero, non pensate?Dottor Berguet, glielo chiedo con tutta la calma e ladisponibilità all’ascolto di cui sono capace. Chi le hasuggerito di rivolgersi a quella gente per i soldi? Chi le

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ha indicato Michele Diemoz?».Pietro si morse le labbra. «All’inizio fu la banca

stessa a dirmi di cercarmi persone in grado di aiutarmi.

Ma il suggerimento poi... non ricordo. Una sera,eravamo in ufficio...».

«Eravamo chi?».«Io e Cristiano. E si presentò questo Diemoz. Io

cercai di capire chi fosse, e fu Cristiano a prendere tuttele informazioni. Sembrava una brava persona, uno cheaveva il giro giusto in Svizzera. Sì, fu Cristiano adaccertarsi che Diemoz fosse una brava persona. Maallora lei mi sta dicendo che...».

«Che lei covava una serpe in seno, dottor Berguet».Pietro si portò le mani al viso. Giuliana invece strinse

gli occhi, che erano diventati profondi e cattivi. «Allorase quel bastardo pace all’anima sua era con loro, perché

l’hanno ucciso?».Rocco tirò un sospiro. «Questo ancora non lo so. Nonso il movente. Chissà, magari voleva farla finita, venirea parlare con noi. Oppure...».

«Oppure?» quasi gridò Giuliana.«Oppure la storia è un’altra. E quelli di giù non

c’entrano niente. Ma è un omicidio diverso. Una cosa

 privata. Insomma, diciamo che chi ha ucciso Cristiano può essere una persona molto vicina a lui, e che con luiaveva in sospeso una questione urgente e spinosa. Ora,a proposito di quelli di giù, voglio sapere: si sono rifattivivi?».

Giuliana e Pietro lo guardarono. «No» disse Pietro.«Non più».

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«Lo faranno per riprendere accordi sul notaio. Madobbiamo ricominciare daccapo ora che Charbonnier èin clinica».

«E Chiara? Lì da sola in mano a...» Giuliana scoppiòa piangere. Pietro le si avvicinò dandole un fazzoletto.«Ecco il numero» disse poi porgendo il bigliettino aSchiavone. «Questo è il numero che Cristiano usava pergli affari dell’ufficio».

«La ringrazio». Rocco se lo mise in tasca. «Cosaavete intenzione di fare?».

I coniugi Berguet pallidi, stretti in un abbraccioimpotente, guardarono il vicequestore. Fu Pietro arispondere: «Non lo sappiamo. Aspettiamo istruzioni.Era Cristiano che aveva preso accordi col notaio. Io...noi non sappiamo che fare».

«E Chiara?».

«Gliel’abbiamo detto. L’ha sentita solo un secondoMarcello. Però sembrava stesse bene. Io di quello nonmi preoccuperei».

«Io sì invece» rispose Rocco. «Che assicurazioneavete che fosse proprio lei al telefono? Nessuna».

«E allora che dobbiamo aspettare per essere sicuri? Illobo di un orecchio?» sbottò Giuliana.

In quel momento il telefono di casa squillò e fu peggio di un coltello di ghiaccio nelle schiene deiBerguet. Rocco alzò una mano: «Piano. Rispondete.Cercate di essere tranquilli. C’è un altro telefono?».

Pietro annuì e indicò un apparecchio su un comòLuigi qualcosa.

«Bene. Lei prenda il cordless. Se alziamo insieme

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non se ne accorgeranno».Pietro andò al telefono portatile. Gli squilli

continuavano a rimbombare nella casa. Pietro rientrò in

salone. Si guardavano tutti negli occhi, occhi carichi didisperazione, occhi che non si chiudevano da giorni,

 profondi e bui come pozzi artesiani.«Al mio tre» fece Rocco. «Uno, due, tre!». Pietro e

Rocco alzarono contemporaneamente la cornetta.«Chi è?» fece Pietro.«Chi minchia succede?» rispose una voce cavernosa,

lontana.«Siete voi?».«Cchì ci fa ’a pulizia ar ufficio?».«Hanno... hanno ucciso il dottor Cerruti».Giuliana si avvicinò a Pietro.«Voglio sentire mia figlia».

«Un mi cacare a minchia!».Rocco riconobbe l’accento. Calabria, senza ombra didubbio.

«L’avete sentuta prima. Il notaio ’u ricoverannu. Mo’cangiamo... vu dicimo nui chi è».

«Perché avete fatto a Cristiano...».«Non cugghiunare, chi l’ha toccato ’u ricchione?

Richiamo eju. Masimo domani. Berguet, vedi di un fariminchiate. ’Na menza parola alla pulizia e ’a figghiolamora!».

Clic.«Pronto? Pronto?».Rocco abbassò il telefono. Pietro staccò la cornetta

dall’orecchio. Giuliana era lì, in attesa di notizie come

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un cagnolino davanti al biscotto. «Dice che richiamano per cambiare notaio. Domani».

Giuliana tornò al divano. Pietro si appoggiò al muro.

Senza salutare il vicequestore lasciò casa Berguet.

«Cos’è ’sta storia?» urlava al telefono Costa mentreSchiavone guidava verso la questura.

«Dottore, siamo arrivati sul posto e abbiamo trovatoil cadavere di Cristiano Cerruti».

«Io ho indetto una conferenza stampa su quel trafficodi ricettazione. Ora i giornalisti mi chiederanno diquest’omicidio e io non ne so niente!».

«No dottore, e mi creda, per ora le cose da saperesono poche. Lei si limiti a dire che gli inquirenti sonoal lavoro, che poi ’sti inquirenti sarei io».

«Voglio di più, non posso stare sotto il fuoco dei

giornalai in mutande e senza cartucce!».«Ora le mando l’agente Pierron. Lui le dirà tutto e ledarà un bel paio di pantaloni. Mi segue passo passonell’indagine».

«Venga anche lei».Cazzo no, pensò Rocco. La conferenza stampa no. La

conferenza stampa nella scala delle rotture di coglioni

stazionava al nono livello. «Dottore, non posso».«E sentiamo perché? E non mi faccia unasupercazzola stavolta. Voglio la verità».

Forse era arrivato il momento di dirla la verità alquestore. Tenere nascosta la cosa non era più il caso.«Dottore, sto arrivando in questura. Fra dieci minutisono nel suo ufficio».

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«E non mi ci trova, sono fuori. Avanti, mi dica!».Rocco raccontò tutto, senza saltare un particolare. Se

si esclude l’accordo col giudice Baldi, l’accordo col

notaio Charbonnier, l’accordo con la famiglia Berguet ela finta perquisizione al negozio Biribimbi.

«Belin... ma è un casino!» disse alla fine il questore.«Sì, dottore. La prego, non una parola alla stampa,

c’è di mezzo la vita di una ragazza di 18 anni».«Ma per chi mi ha preso, Schiavone? Per uno dei

suoi Stanlio e Ollio? Le ricordo che sono un suosuperiore e lei era tenuto, ripeto, tenuto a dirmi tutta lafaccenda».

«Dottor Costa, sono due giorni che non dormo perstare dietro a ’sta cosa. Le assicuro che non era nellemie intenzioni».

«Lei gioca con me o contro di me?».

«Sempre con lei, dottore. Non mi sembrava il caso dimetterla in allarme e sotto pressione prima che le cosesi fossero chiarite».

«Si ricordi che io tengo per il Genoa. E sono abituatoa vivere in costante pressione. Quindi riservi questemoine a una delle sue amanti...». Poi cambiòimprovvisamente tono: «A proposito, le ho già fatto i

complimenti per l’acchiappo?».«Sì, dottore, me li ha già fatti. E so che a dirglielo èstato il panettiere».

«Bene. Allora dicevo, risparmi le moine per donnecome Anna. Io voglio tutto chiaro e trasparente. Nonsuccederà più una cosa simile, dico bene?».

«Non succederà più, dottore».

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«E guardi, tanto per essere chiari, che se arriva uncetriolo bello grosso, ce lo divideremo in due, chiaro?».

«La metafora è arrivata».

«E adesso per colpa sua mi tocca andare conquest’animo teso e survoltato ad affrontare igiornalai!».

«Non si preoccupi. E si ricordi il Genoa. Vedrà chesupererà la cosa».

«Fa dell’ironia?».«Non mi permetterei mai».«Invece la fa. Non so cosa mi trattiene dal

trasferirla».«Ora è lei a fare dell’ironia. Perché sa che non

chiederei di meglio!».«Buon lavoro, Schiavone».Era arrivato in questura. Il cielo era nero e qualche

fiocco aveva ricominciato a scendere lentamente sullacittà. Guardò il marciapiede che fra poco sarebbediventato nuovamente un gelato alla panna.

Caterina Rispoli e Antonio Scipioni erano nel suoufficio.

«Caterina, come stai?».

 Naso rosso, occhi cerchiati, faccia di chi ha dormito poco e male: «Insomma, dottore. Ogni volta che esco dicasa peggioro».

«Come ti trovi nel mio ufficio?».«Benissimo. È comodo e caldo».«Ti faccio portare qualcosa?».«No, grazie. Ho preso pure un tè».

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«Antonio...» e Rocco allungò un foglietto a Scipioni.«Questo è il numero del cellulare della vittima. Vedi seriesci a farti dare un tabulato delle ultime telefonate

ricevute».Antonio annuì. «Non abbiamo il cellulare? Intendo

l’oggetto fisicamente?».«E se ce l’avevamo lo facevo da solo, no?».«Già. Vede, dotto’? Non è una cosa facile, glielo dico

subito. Di solito a noi ci danno un file formato csv o un.xsl, poi noi dobbiamo darci da fare da soli pezzo per

 pezzo con un SQL o un convertitore. Speriamo cheabbiano un atps2000 almeno».

Rocco lo guardò con occhi vuoti: «Non ci ho capitouna mazza».

«Semplifico. Dalle compagnie ci mandano dei fileincasinatissimi, scoprire poi i numeri è molto tosto.

Una roba di qualche giorno».«Qualche giorno? Io non ce l’ho qualche giorno».«Cerco di darmi da fare».«Come le sai ’ste cose?».«Prima lavoravo alla Telecom». E con un sorriso

innocente uscì dall’ufficio.«Invece io mi sono informata» disse Caterina. «La

Calcestruzzi Varese è una piccolissima ditta che nonfattura da mesi. Ugo Montefoschi è un uomo di 84 anni,la sua residenza è...» prese un foglio «VillaSant’Agnese, a Brembate».

Rocco annuì. «È un prestanome. Il nostro uomo èquesto Carlo Cutrì».

«Già, lo sa? È residente a Lugano. Svizzera. E pare

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abbia un negozio di ferramenta».«Figlio di puttana» mormorò Rocco affacciandosi

alla finestra. «Capito che combina?».

«No».«Intesta la parte della Edil.ber a questo Montefoschi.

Poi con un secondo atto trasferisce le proprietà alla suasocietà in Svizzera. Lui qui non verrà mai. O se vienesarà solo a cose fatte».

«Però qui ha un complice».«Certo, quelli che hanno preso Chiara e che

telefonano al nostro Pietro Berguet. E secondo me iltramite di tutto ’sto schifo era Cristiano Cerruti».

«Cerruti?».«Ne sono convinto. Come sono convinto che quello

forse voleva parlare, ma qualcuno l’ha messo a tacere per sempre».

«Chi?» chiese Caterina. Poi chiuse gli occhi.«Vattene a casa Caterì, e magari passa pure infarmacia. Non ti voglio sulla coscienza».

L’ispettore sorrise. «Grazie, dottore, proprio non cela faccio più». Si alzò dalla sedia. Barcollò. Roccoaccorse e la sostenne. «T’accompagno fino a giù?».

«Se mi sta così vicino rischia di prendersi l’influenza

 pure lei».Si guardarono negli occhi. Per un tempo troppolungo, tanto che si imbarazzarono. «Allora a dopo,Caterina».

«A dopo, dottore».L’ispettore uscì dall’ufficio del vicequestore. Che

solo in quel momento sentì la stanchezza cadergli come

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un maglio di ferro sulla cervicale e sulle spalle. Negliultimi due giorni aveva collezionato neanche sette oredi sonno. Le zone oscure di quella vicenda non

 prendevano luce, e lui non sentiva il cervello pronto esveglio. Aveva bisogno di una bella dormita. Il soledoveva essersene andato. Fuori era già scuro e almenola neve aveva smesso di cadere. Marciapiedi e alberierano bianchi come a Natale. Stava per spegnere la lucedell’ufficio quando il telefono suonò. Sbuffando andò arispondere.

«Sono il tuo anatomopatologo preferito».«Mi devo sedere?».«No, è questione di un attimo. Allora, il nostro

giocatore di golf mi ha detto a che ora è morto».«Sentiamo».«Massimo alle otto e mezza. Non un minuto dopo.

Vuoi che ti spiego come me l’ha detto?».«Lascia perdere, cominci con la storia dellatemperatura, io mi perdo e non mi interessa. Mi fidodella tua bravura».

«Non solo la temperatura. Anche la colazione. Neanche l’aveva cominciata a digerire. Vuoi saperecosa c’era nello stomaco?».

«No. Otto e mezza hai detto?».«Massimo».«Sei un tesoro, Alberto. Grazie e buonanotte».«Non vado a dormire alle sei e mezza. Stasera ho da

fare».«E dove te ne vai di bello?».«Yoga».

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«Quella roba che ti intrecci tutto e poi per scastrartici vuole la scientifica?».

«Quando da vecchi io sarò agile e con le giunture

oliate e tu non potrai neanche chinarti a raccogliere lechiavi ne riparleremo».

«Non preoccuparti, Alberto. Io vecchio non cidivento».

«Tetro e solitario. Come si addice ad un vero poliziotto».

«Vai a fare in culo».«Altrettanto, Rocco».Solo rimettendo a posto la cornetta si accorse che

sulla sedia c’era una scatola di cartone.Clarks.

 Numero 44. E un bigliettino. «Spero di averazzeccato il numero».

Ma non c’era la firma.Puntava dritto alla pizzeria a taglio per la solita cena

luculliana quando vide Anna uscire dalla profumeria eattraversare la strada. Rocco cambiò marciapiede. Maninelle tasche del loden, passo rapido e silenzioso e occhi

 puntati sul pavé.

«Embè? Fai finta di non conoscermi?» risuonò lavoce di Anna dall’altra parte della strada. Rocco fermòla marcia. «Mi pare fossi stata abbastanza chiara alriguardo».

«Ma tu credi a tutte le cose che ti dice una donna?».«Non dovrei?».«Non si risponde a una domanda con una domanda»

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disse Anna.«Non si ferma per strada un gentiluomo che se ne va

 per i fatti suoi».

«Ci beviamo un bianco?».«E beviamoci un bianco».

Il bar era di legno. Tavolini, boiserie, sedie, bancone,anche il barman abbronzato sembrava di palissandro.

«Santé!» disse Anna alzando il bicchiere.«Alla tua!» rispose Rocco. I calici tintinnarono e il

nettare bianco finì nella gola.«Che noia la neve, eh?».«Già» fece Rocco. «Ma ormai ci sto facendo

l’abitudine».«Menti». Anna rise e mandò giù un altro sorso di

vino. «Hai la faccia stanca».

«Sì, sono a pezzi».«Che ci facevi in banca?».«Quando? Ormai sto perdendo il senso del tempo».«Ieri. Invece io e te eravamo a casa mia l’altro ieri

notte. E io ti ho telefonato...».«Lo so, lo so, quello lo ricordo».«Ho parlato con Nora. Guarda che le cose poi non

sono così male».«Cosa intendi?».«Pensa, mi ha ringraziato. Perché le ho dimostrato, in

fondo, che razza di persona sei».«Ne aveva bisogno?».«Aveva bisogno di una spintarella per uscire da

questa cosa, io credo».

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«Insomma, se ho capito bene sei venuta a letto conme per salvare la tua amica. Dico giusto?».

Anna sorrise. «Intenzioni e risultati a volte si

confondono e diventano una nebbia indecifrabile. Lacosa importante è che tutti abbiamo ottenuto qualcosadi positivo. Lei si è sbarazzata di te, tu di lei...».

«E tu?».«Mi sono tolta una curiosità».Rocco si versò un altro bicchiere di bianco.«Ho ferito il tuo amor proprio?».«Non ne ho, Anna. Il tuo è un bel personaggio.

Cinico, scaltro, vissuto, un po’ tormentato e che fa a pugni con la vita. Te lo sei disegnato bene. Ma lasciatidire due cose: sei una donna sola, piena di complessiche se un giorno si dovesse guardare allo specchio cononestà, si disintegrerebbe».

«E cosa te lo fa pensare?».«Hai 42 anni, ma dici di averne 38. Hai ritoccato ilseno, leggermente le labbra superiori perché fumavi e tisi stavano raggrinzendo. Sei stata sposata due volte enon hai retto nessuna delle due. Ti fai manteneredall’architetto Pietro Bucci-qualcosa. Avresti volutolasciare il segno. Dipingi nella tua stanza ma i tuoi

quadri, a parte la carta da parati di casa tua, alla qualelasciatelo dire assomigliano, non li ha mai vistinessuno. Attacchi per prima e ti chiudi a riccio, tradisciun’amica e trovi una scorciatoia per non sentirti unamerda, dai ultimatum che non rispetti. E quando fail’amore piangi».

Anna batté le mani. «E bravo il commissario».

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«Vicequestore».«E tutte queste cosette le hai scoperte ficcanasando

in casa mia?».

«Due domande qui, due domande lì e un’occhiata là».«Sai perché piangevo mentre facevo l’amore con

te?».«Per la mia prestazione?».«No. Perché sono innamorata, brutto coglione!».Il Blanc de Morgex passò dal bicchiere di Anna

direttamente sulla sua camicia finendogli fin dentro i pantaloni. Anna si alzò di scatto e uscì dal bar. Roccorimase lì a guardare il liquido scurirgli il velluto chiaro.«Comincia a diventare un’abitudine» disse.

Ora puzzava come un avvinazzato.

«Puzzi come un avvinazzato». 

«Lo so, Marina, lo so».  Ride. «Chi hai fatto arrabbiare stavolta?». 

 Non le rispondo. Non mi pare il caso. «Una donna, sicuro». Continuo a non risponderle. «Mi guardi?». 

 La guardo. «Rocco, perché non mi lasci in pace?». Una mano mi strizza lo stomaco che peggio di un

limone tira fuori un acido sulfureo, caldo e pungenteche mi risale la gola e me la brucia, come fosse un

 fiammifero acceso. «No» riesco appena a dire. «Non ti lascio in pace». 

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«Io sono tranquilla, Rocco. Tu no. Tu non seitranquillo. Guarda un po’ questa casa?». 

«Cos’ha che non va?». 

«Niente. Non ha niente. Non c’è un quadro, non c’èun libro, un cd. C’è solo la televisione, due divani,l’armadio, il letto e una cucina che non usi mai.Cos’hai con te?». 

 Alzo la busta di plastica. «Margherita e patate ecipolle». 

«Poi ti puzza l’alito». «Lo faccio apposta». 

 Poggio la pizza sul tavolo. Apro l’involto. Invece faun buon odore. E oggi non sembra una ferita col pus,

 sembra proprio una pizza col pomodoro e lamozzarella. Ed è buona. 

«È la fame» dice Marina. 

«Può essere». «La vuoi sentire la parola di oggi?». «Allora hai ricominciato? Qual è?». «Raspollo». «Che vuol dire?». «Vattelo a vedere sul dizionario. Mica puoi sempre

avere la pappa pronta» e se ne va in camera da letto. O

in bagno. Camera da letto, perché non sento acqua scorrere né porte chiudersi a chiave. 

Al terzo morso di pizza suonò il cellulare. Rocco sialzò. Era nella tasca del loden.

«Sì?».«Rocco? Sono Adele!».

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Per un momento Rocco si chiese: Adele chi?«Sono Adele! La donna di quel coglionazzo di Seba.

Come stai?».

Adele da Roma!«Ma sì, certo, Adele. E come stai?».«Uno schifo. Senti, Furio ti ha parlato?».«Eh?» gli era passato di mente. «Sì».«E per te va bene? Mi hai trovato una

sistemazione?».«E che... no, Adè, non te l’ho trovata. Non ho avuto

il tempo. Il lavoro mi sta ammazzando».«Ad Aosta?».«Ad Aosta. L’avresti mai detto?».Adele si fece una risata. «Vabbè, io arrivo domani».Rocco cercava una soluzione. L’indomani sarebbe

stato un giorno terrificante, già lo sapeva. «Facciamo

una cosa. Tu domani arrivi ad Aosta, vai in questura, timando l’indirizzo per sms... lì ti lascio le chiavi di casa.Per domani sera dormi qui. Poi vedremo, va bene?».

«Va bene. Corso Battaglione Aosta».«Come lo sai?».«Google. Invece casa tua?».«Come? Non c’è su Google?».

Adele rise ancora. «No. Non c’è».«Rue Piave. Arrivi e te ne stai tranquilla. Ah, unacosa Adele, anzi due. Fatti un minimo di spesa che nelfrigorifero c’è l’eco. E secondo, io non so niente. SeSeba viene a sapere che ti sto nascondendom’ammazza».

«Tranquillo, Rocco, si tratta di un paio di giorni al

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massimo. Sei un amico».«Figurati».«A domani, Rocco».

«A domani».

Che faccio? Lo dico a Marina che arriva Adele?  Leggo. Raspollo: piccolo grappolo d’uva con pochi e

radi acini. «Sarei io, Marina?» non risponde. «Sarei io?». 

Il vento muoveva le palme del lungomare. Era unvento dell’est, freddo e balcanico. Corrado Pizzuti,stretto nel giaccone, si rincalcò bene in testa il cappellodi lana. Il mare era nero e si vedevano solo le creste

 bianche dei cavalloni. Lontano delle lucette sperdute suquella lavagna. Qualcuno in mare aperto a pescare. Il

 paesino era vuoto. Si sarebbe riempito solo nei mesi diluglio e agosto e le case, tutte di villeggiatura, avevanole imposte chiuse. Nei giardini, sotto la plastica,riposavano i pattìni, le sedie a sdraio e i dondoli. Leerbacce avevano avuto la meglio. Le casupole dei lidierano sbarrate con le saracinesche e la sabbia soffiatadal vento per tutto l’inverno aveva ormai invaso il

marciapiede del lungomare. Ma era maggio e i mesi piùduri stavano finendo. Corrado lo sapeva. I mesiinvernali, quelli dove la nostalgia di Roma batteva piùforte la grancassa. Più di una volta stava per cedere,

 prendere l’auto e tornare a vivere a Fidene, nel suoquartiere. Niente di che, periferico, ex borgata, masempre di Roma si trattava. Da quattro anni in quel

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 paesino di provincia aveva fatto amicizia con tre persone e se voleva farsi una scopata doveva arrivarefino a Pescara e tirare fuori i soldi. Quelli almeno non

mancavano. Il bar andava benone e d’estate alzavaabbastanza da stare tranquillo per i mesi a venire. MaRoma... Roma è un’altra cosa. Lui c’era nato, 54 anni

 prima, e s’era sempre cullato in mezzo a quel casino, aquelle puzze infernali. Ma tornare era fuori discussione.Anzi si riteneva fortunato. In quattro anni nessuno eramai venuto a fargli visita, a buttarlo in mezzo ai casinio a metterlo con le spalle al muro.

Svoltò nella sua stradina. Buffo, in quattro anniancora non si ricordava come si chiamasse. Quella seraalzò lo sguardo, lesse la targa: «Via Treviso». Bene, sidisse. Vivo a via Treviso. Nei paesi non si dice mai lastrada. Si dice abito vicino alla gelateria, oppure dopo

la banca, o magari accanto a Mimì. Non si dice come aRoma: abito a via Treviso, al 15. Anche perché nessunoal paese, a parte i vigili, sa dove sia via Treviso. Pertutti è la strada di fronte ai bagni di Eraldo. Chiuso.Fine.

Entrò nel cortile. La sua scala era la A. Il suoappartamentino di 60 metri quadrati era al piano

rialzato. Infilò la chiave nel portoncino di alluminioanodizzato.«Ciao Corrà!».Saltò come un petardo. Si girò. All’angolo opposto,

la fiamma di un accendino illuminò il viso di EnzoBaiocchi, che affiorava dal buio dei ricordi come il

 peggiore dei suoi incubi.

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«Come va?».«Enzo! Be... bene. E tu?».Enzo spense la fiamma. Il buio si ingoiò il viso. Poi

Enzo fece un tiro dalla sigaretta e la brace rossa glicolorò gli occhi. Avanzò verso Corrado prendendo

 piena la luce del lampione condominiale.«Sei... sei uscito?».Enzo sorrise. «Se sto qui».«Ti posso offrire qualcosa?».«No». Enzo si infilò una mano nella tasca dei jeans e

ce la lasciò. «Ti faccio una domanda, Corrado. E primadi rispondere pensaci bene. Vieni con me o resti qui?».

«Io? Vengo... vengo con te».«Bravo». Enzo tirò fuori la mano dalla tasca dei

 jeans. Vuota. Corrado fece un respiro di sollievo.«E dove andiamo?».

«Te lo dico in strada. Domani».«Hai la macchina?».«No. Pigliamo la tua».«Batte un po’ in testa e le gomme sono vecchie.

Dove ci dobbiamo arrivare?».«Prendiamo la tua» insisté Enzo. «Ora, ce l’hai un

 posto dove posso dormire?».

«S... sì. Ho un divano letto».«Entriamo in casa, allora. Fa freddo qui fuori». Buttòla sigaretta e seguì Corrado nel portone del palazzo.

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Giovedì

Doveva aver nevicato per qualche ora durante la

notte, anche se il cielo era più terso da quando l’albas’era affacciata su Aosta. L’aria rimaneva rarefatta egelida, e la città sembrava ancora dormire un sonno

 profondo. Le strade erano già libere e solo un veloleggero come zucchero filato sporcava i marciapiedi.Le sei e mezza. Troppo presto per andare da Ettore,avrebbe fatto colazione più tardi. Doveva tornare in

ufficio di corsa. Le ore di sonno erano servite e avevala sensazione di essersi spazzolato le ragnatele dalcervello. Approfittò dell’edicola aperta. La prima

 pagina riportava l’omicidio di Cristiano Cerruti. Aleggere l’articolo si capiva che Costa se l’era cavataegregiamente. Poche parole di circostanza, le soliteformule e rassicurazioni. C’era anche il suo nome,

come capo dell’inchiesta. Sicuramente gli sarebbearrivata la telefonata del giudice Baldi. Il giorno primaaveva dimenticato di rivelargli quel particolare.

E, come c’era da aspettarsi, la telefonata arrivò.«Dottore?».«Devo apprenderlo dai giornali?».«Mi scusi, Farinelli non l’ha chiamata?».

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«Farinelli non mi ha chiamato».Pezzo di merda, pensò Rocco.«Ma era lei a doverlo fare, Schiavone!».

«Ha perfettamente ragione».«Sa cosa me ne faccio della ragione? Mi dica invece

se si è fatto un’idea».«Più o meno. Cerruti secondo me stava dentro alla

storia con tutte le scarpe. È capace che l’abbiano messoa tacere».

«Abbiamo tracce?».«Stiamo cercando di capire col cellulare se ha fatto

telefonate e a chi. Solo che il cellulare di Cerruti nonl’abbiamo trovato. E conoscendo solo il numero pareche sia una cosa un po’ complessa».

«Lo è. Pensi che due anni fa un avvocato della difesa portò un grafico incomprensibile per scagionare il suo

cliente. Voleva dimostrare che quel giorno a quell’oral’accusato si trovava a cento chilometri dal luogodell’omicidio».

«E invece?».«E invece un tecnico che lesse quel guazzabuglio di

linee e diagrammi rivelò l’esatto contrario. Insomma,l’avvocato inchiodò il suo cliente perché non era

riuscito a leggere quelle robe astruse».«Capita».«Adesso si stupisca della mia bontà. Si ricorda quel

registro che mi aveva portato? Quello preso al negozioBicchieribimbi?».

«Biribimbi».«Quello che è».

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«Certo che lo ricordo».«Bene. Ci sono 25 nomi di debitori. E io ho scoperto

che 12 di loro hanno una cosa in comune».

«Sarebbe?».«Hanno tutti il conto alla Cassa della Vallée. Magari

una coincidenza».«Magari. Però buono a sapersi. Grazie, dottore.

Registrato».«Mi aspetto di sapere novità stavolta, Schiavone. Io e

lei abbiamo un patto, ricorda?».«Certo».«E sappia che se dovesse arrivare un cetriolo...».«Lo dividerà fraternamente con me?».«No. Glielo lascio tutto. Buona giornata».

 Non poteva rinunciare. Aprì il cassetto e tirò fuori

uno spinello. Lo accese, si sedette sulla poltrona eradunò le idee.Sul tavolo disordinato decine di fogli. Nessun

messaggio, nessuna novità. Si stirò il collo. Spense lacicca nel portacenere e come sempre aprì la finestra peril cambio d’aria. Caterina entrò senza bussare.

«Mi scusi! Non pensavo che...».

Rocco colto in flagranza di reato rimase senza parole.«Tiene la finestra aperta? Ma è matto?».Il vicequestore la chiuse.«Non ho bussato perché pensavo lei non ci fosse»

fece Caterina andandosi a sedere. L’odore dellacannabis era fortissimo. Possibile che Caterina non lo

 percepisse?

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Quando l’ispettore si soffiò sonoramente il naso,Rocco ne comprese il motivo.

«Ma lei non doveva stare a casa?».

«Non ce la faccio. Poi Italo russa come un marinaiosovietico» e sorrise col naso rosso e gli occhi blu,grandi e sinceri.

«Come russano i marinai sovietici?» chiese Roccodivertito.

«Come russi!» e si mise a ridere. «Senta, dottore,magari è una sciocchezza. Io però ieri sono stata infarmacia».

«Ha fatto bene».«Sì, perché se non prendo gli antibiotici capace che

questo raffreddore mi diventa una sinusite. E poi è un bel problema».

«Lo so. Da rincoglionirsi dal dolore».

«Vero? Insomma, dicevo che sono stata in farmacia.Si ricorda quel foglietto che lei mi aveva dato? Quelloverde? Quello con la scritta misteriosa insovraimpressione?».

«Come no. L’avevo preso da un bloc-notes in casaBerguet. Speravo in qualcosa di meglio. E cosa c’erascritto?».

«Io pensavo Deflan, che poi è una medicina. Alloral’ho portato al farmacista. Anche lui l’ha letto e mi hadetto che non c’è scritto Deflan, bensì Deflamon».

«È una cosa importante?».«Boh, non lo so. Anche il Deflamon è una

medicina».«E a cosa serve?».

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«Aspetti che l’ho scritto qui». Aprì la borsetta. Tiròfuori il portafogli, una trousse del trucco, un librotascabile blu, il sacchetto della farmacia. Lo aprì e

 prese in mano l’appunto. «Dunque, Deflamon... serve per curare una malattia vaginale».

Rocco strizzò gli occhi. «Una malattia vaginale?» manon l’aveva chiesto, solo stava pensando ad alta voce.Caterina lo guardava. «Sì... una malattia che...».

Rocco si gettò sul telefono. «Mi passi il dottorFumagalli. Schiavone, questura di Aosta». Attese inlinea mentre nervosamente tamburellava con le dita sul

 piano della scrivania.«Uelà! Alle sette e mezza sei già al lavoro?».«Ti ricordi quando mi hai fatto guardare nel

microscopio? Quella roba trovata sul corpo di CarloFigus?».

«Non sul corpo, sul pene. Sì, certo».«Come si chiamava quel virus che mi hai mostrato?».«Oh Madonna, Rocco, non è un virus. Un batterio.

Gardnerella vaginalis».«Si può curare col Deflamon?».«Certo, è un metronidazolo. Ma perché?».«Perché è un primo passo, amico mio».

«Te l’ho detto che ti devi fare la donna fissa. Te lasei presa?».«Io no».«E chi ce l’ha?».«Poi te lo dico!».«Guarda che è una cosa comune...».Rocco abbassò il telefono. «È una traccia, Caterina.

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Piccola, ma è una traccia!».Riafferrò il telefono: «Oh, chi c’è in portineria?».«Sono Casella, dottore».

«Chiamami la polstrada. Mi serve l’agente Umberto».«Cognome?».Rocco si rivolse all’ispettore Rispoli: «Conosci

Umberto? Della polstrada, amico di Italo?».«Certo, ieri era a cena a casa mia. Diotaiuti. Umberto

Diotaiuti».«Casella, Diotaiuti».«Perché?».«Cosa perché?».«Che ho fatto?».«Che ne so, che hai fatto, Casella?».«Che ho fatto che Dio mi deve aiutare?».«Diotaiuti è il cognome di Umberto, ritardato!».

«Era una battuta. L’avevo capito, dottore!».«Scendo e ti mangio il fegato, deficiente. Sbrigati!».Attese con la cornetta in mano. «Dove tengono le autoincidentate?».

«Di solito giù al deposito. A Villair...».«Chiama Italo. Digli di venire subito in questura. E

 preparatemi le foto di Figus e Midea, i due che si sono

ammazzati sul furgone. Prendi quelle dei documenti.Dovrebbero essere in archivio, non lo so». E schizzòvia abbassando il telefono e troncando così lacomunicazione con la portineria.

«Potrei chiederlo a Casella dove sono. L’archivio èroba sua».

«Se te la senti di parlare con Casella...».

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 Casella vide sfrecciare il vicequestore davanti alla

 porta d’entrata. «Dottore? Mi stanno mettendo in linea

con Umbe...».«Vaffanculo Casella, troppo tardi! Vai da Rispoli e

obbedisci ai suoi ordini. Sbrigati!».Casella mise giù, lasciò l’ingresso e corse con la

mano sul cappello verso la stanza del vicequestore, che per poco, all’uscita della questura, non scivolò su ungradino. Riuscì a tenere l’equilibrio e entrò nell’auto diservizio che si accese solo al terzo tentativo.

«’Sto cesso!». Ingranò la marcia e scivolandosull’asfalto ghiacciato lasciò la questura.

«Venga dottore, di qua». Il guardiano del deposito,un uomo basso e pelato, lo stava scortando in mezzo a

decine di macchine incidentate, senza targa, un cimiteroche la neve invano aveva tentato di coprire.«Per caso ha un cruscotto di una Volvo XC60 4 ruote

motrici?».«Posso chiedere, ma non credo, perché?».«Mi si è rotto».«Ecco dottore, il furgone dell’incidente è questo!».

Rocco tentò di aprire lo sportello del guidatore.«No, quello è incastrato. Provi dall’altra parte».L’altro era quasi divelto. Sul lato campeggiavano una

sfilza di adesivi del cambio d’olio che facevanosembrare lo sportello un addobbo natalizio. Rocco lospinse via ed entrò nell’abitacolo. C’erano ancoramacchie scure di sangue sul cruscotto e sul parabrezza.

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Guardò in terra. C’era un accendino, del fango, un pezzo di corda. Aprì il portaoggetti. Documenti, uncacciavite, una vecchia pezza, una scatola di Stilnox,

nuova, dalla quale mancavano due pillole. Roccointascò la scatola e sorrise.

«Dietro si apre?».L’ometto spalancò i due portelloni posteriori.C’era la ruota di scorta, e una cassetta di attrezzi.

Martelli, cazzuole, una pennellessa e una busta piena difascette autobloccanti di plastica nera.

«Lei mi è stato di grande aiuto, maestro!» quasi gridòRocco.

Di corsa tornò a prendere l’auto di servizio.

«Come sto?».Enzo Baiocchi era appena uscito dal bagno. Era

diventato biondo. Corrado lo guardò senza cambiareespressione. «Sembri un tedesco». E finì di bere ilcaffè. Enzo si sedette. «Hai dormito?».

«Poco. Mi dici dove dobbiamo andare?».«Tu devi solo guidare. Senza mai accelerare,

tranquillo, piede dolce e vai. La strada te la dico io».Corrado Pizzuti poggiò la tazzina. «Senti, io di tuo

fratello...».Enzo lo afferrò per la camicia facendo cadere perterra il coperchio della zuccheriera e un paio di biscotti.«Luigi manco lo devi nominare. Mai più, intesi? Mai

 più!». Mollò la presa. «Quant’è che vivi qui?».«Tre anni, quasi quattro».«Te sei messo su bene». Enzo scolò il fondo della

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tazzina e si affacciò alla finestra. «Tiè, vedi pure ermare da casa tua. E hai un bar. Va bene il bar?».

«D’estate sì. D’inverno è fiacco. Come m’hai

trovato?».«I sorci come te lasciano le cacche in giro».«Non hai fatto male a mia madre, vero?».Enzo si mise a ridere. «Te sembro uno che fa male a

’na vecchia de novant’anni io? È bastato fa un paio didomande. Te l’ho detto, lasci la puzza».

«Poi quando arriviamo dove dobbiamo andare, milasci perde?».

Enzo lo fulminò con lo sguardo. «Se te volevo famale, già l’avresti saputo».

«Perché io?».«Vedi Corrado, io di amici ce n’ho pochi. E tu devi

guidare. Lo capisci da te che uno come me in giro meno

se fa vede’ e mejo è, no? Mo’ basta co le domande chem’hai rotto er cazzo. Sbrigati a prepararti che dobbiamo partire». Baciò il crocifisso d’oro e corallo che portavaal collo.

«Ce la faccio ad avvertì Tatiana che oggi nonvado?».

«No».

Inchiodò l’auto davanti alla questura. Italo era lì, conun foglio in mano. «Ecco, Rocco. Queste sono lefotocopie delle foto di quei due e...».

«Dai qua!» il vicequestore non scese neanche dallamacchina. Strappò il foglio dalle mani dell’agente,ingranò la retromarcia per poi accelerare verso via

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Cretier. Italo rimase lì ad osservare la macchina che per poco non andò a stamparsi contro un camper. «Checosa ha fumato stamattina?» disse. Poi un brivido di

freddo gli ordinò di rientrare in ufficio.

Aveva parcheggiato a trecento metri dalla scuola. Ilresto della strada lo fece a piedi.

I ragazzi erano davanti all’entrata. Fra vestiti zaini ecappelli scorse la testa bionda di Max Turrini. Sedutosu un muretto, teneva il braccio intorno alle spalle diuna ragazza. Allungando il collo le diceva qualcosaall’orecchio. Qualcosa che la faceva ridere. Passandoglidavanti Rocco gli mormorò: «Ciao Max. Hai giàtrovato la sostituzione, vedo!».

Max lo guardò come se avesse preso un pugno infaccia, ma non replicò. Non aveva né la prontezza né il

tempo, dal momento che il vicequestore aveva giàattraversato il cancello della scuola.

 Non bussò. Entrò nella stanza del toporagno, alsecolo il preside Bianchini, come una folata di vento. Ildirettore della scuola sobbalzò quando se lo videdavanti. Capelli spettinati, giacca aperta e pantaloni

stazzonati, una scarpa slacciata e camicia senza due bottoni. «Dottor... Schiavone? Che succede?».«Giovanna Bucci-qualcosa». Niente, il cognome

dell’architetto proprio non gli entrava in testa.«Bucci Rivolta?» disse timidamente Bianchini.«Esatto. Dov’è?».In quel momento suonò la campanella. Rocco vide

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dalla finestra i ragazzi che come una famiglia di bradipicominciavano ad entrare a scuola.

«Quinta B, ma...».

«Mi porti alla quinta B. Presto!».Bianchini si infilò la giacca e prese un mazzo di

chiavi. «Andiamo. È al secondo piano».

Rocco e il preside s’erano messi davanti all’aula. Iragazzi entravano urlando, ma alla vista del toporagnoabbassavano il volume della voce. Lo temevano. Roccolo spiò. Sul viso del preside s’era disegnato, quasiinvolontario, un sorriso di compiacimento. Quel mezzouomo era felice di esercitare il suo piccolo potere. E laluce perfida degli occhi raccontava quanto potesseessere vendicativo.

Un toporagno velenoso.

Passavano volti di ragazzi e di ragazze, anonimi, brutti e belli, brufolosi e spettinati. Poi in mezzo aquelle maschere anonime, come un papavero in uncampo di frumento, si stagliò il viso di Giovanna. Altracategoria, altro passo. Che appena vide il vicequestoresi bloccò in mezzo al corridoio. Rocco sorrise e le andòincontro per rassicurarla.

«È successo qualcosa a Chiara, vero?» disse.«È tutto a posto, Giovanna» la prese sottobraccio e la portò alla finestra del corridoio.

«L’avete trovata?» chiese la figlia dell’architetto.«Non ancora. Ma ci siamo quasi. Ora stammi bene a

sentire...» qualcosa attirò lo sguardo di Rocco. Giù,all’entrata, Max Turrini e la madre stavano parlando

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con Marcello, il fratello di Pietro Berguet, il professoredi matematica. Laura annuiva mentre Marcello parlavae Max teneva lo sguardo basso. La direttrice di banca

era passata a conferire con il professore e dalla facciascura non dovevano essere belle notizie. Ma Rocco losapeva, matematica era una delle materie che il ragazzoavrebbe dovuto recuperare a settembre. Alla fine Laurastrinse la mano a Marcello mentre Max entrò di corsa ascuola. E fu allora che Marcello, forse perché si sentivaosservato, o solo per caso, alzò la testa e vide ilvicequestore che lo stava guardando attraverso il vetro.Anche Laura alzò gli occhi. Marcello sollevòtimidamente la mano e salutò il vicequestore. Roccoricambiò. Lo stesso fece Laura.

«Tanto lo bocciano sicuro, è inutile che sua madreviene a impietosire i professori. Lo sa? Quello è lo zio

di Chiara».«Certo che lo so».«Per fortuna insegna alla sezione A».«Perché?».«Perché è severo e boccia tutti».«Ma tu in mat sei brava, no? Ti aiuta papà!».«Sono una frana. Ma il mio prof è buono con me».

Certo, pensò Rocco, come faceva ad essere cattivocon un monumento alla bellezza come quello?«Me la fa passare sempre liscia».«Il giorno che ti mette le mani addosso, vieni da me,

Giovanna. È una mia specialità pestare chi non sa stareal suo posto».

La ragazza rise. «Non si preoccupi. So badare a me

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stessa».«Non lo metto in dubbio. Allora torniamo a noi,

Giovanna. Cerca di concentrarti. La sera di domenica.

Eravate allo Sphere».«Sì».«Immagino ci fosse un sacco di gente».«Proprio».«Hai detto che Max a un certo punto s’è messo a

 parlare con due tamarri. Che poi noi a Romachiamiamo coatti».

«Sì, due tipi assurdi. E pure sopra i 30».«Ora io ti mostro una foto. Tu concentrati e vedi se li

riconosci».«Non lo so, dottore. Era buio. Però, mi faccia

vedere».Rocco tirò fuori il foglio con le fotocopie dei

documenti di Viorelo Midea e Carlo Figus. «Ecco qua.Ti dicono niente?».Giovanna li guardò attentamente. «Questo qui con

l’orecchino non lo so. La fotocopia è troppo scura. Maquesto...» e indicò Carlo Figus «... questo è lui».

«Ne sei sicura?».«Al cento per cento».

Rocco annuì. «Torna in classe. Abbiamo finito».«Mi porti in questura!».Rocco la guardò senza capire.«Alla prima ora c’è interrogazione di filosofia. Non

so niente! Se mi becca addio!».Rocco ci pensò su. «Seguimi!».Giovanna raccolse la borsa e seguì Schiavone.

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Insieme raggiunsero Bianchini che li aspettava sullescale. «Allora, dottor Schiavone?».

«La cosa è molto più complicata di così. Giovanna

deve seguirmi in questura».«Ma...».«Niente ma, dottor Bianchini. Le ho già detto come

stanno le cose. Cerchi di aiutarmi».«Certo, certo» fece il preside che guardò Giovanna.

La ragazza recitava discretamente. Se si fosse giocata bene le sue carte, con quel fisico e quegli occhi eradestinata a una bella carriera nelle prestigiose fictionitaliane.

Aveva lasciato Giovanna nella stanza passaporti conun libro e l’ordine di non rivolgere parola a nessunagente, tranne a lui e all’ispettore Caterina Rispoli.

Giovanna s’era messa a leggere e aveva chiesto di poterfumare. «Solo vicino alla finestra. E aperta, miraccomando».

Scipioni, Italo e l’ispettore Rispoli erano nella suastanza. «Allora ci sono novità» disse Rocco sbattendosul tavolo la scatola di Stilnox trovata nel furgone.«Stilnox. È una benzodiazepina. Serve per il

trattamento dell’insonnia. Era nel furgone. Si chiamanoanche droghe da stupro. Sono insapori, stordiscono la persona e creano un’amnesia nel cervello. Spesso lavittima non si ricorda neanche cosa le è successo lanotte prima. Pensa ad una ubriacatura, e invece...».

Antonio afferrò la scatoletta: «Cazzo...».«E poi sempre nel furgone abbiamo questi» e prese

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dalla tasca le fascette di plastica. «Ce n’erano adozzine. Va bene, gli operai spesso le usano, ma...Giovanna ha riconosciuto Carlo Figus. Era in discoteca

la sera del rapimento».«Secondo te sono stati loro a rapire la ragazza?».«Io credo di sì. E poi c’è la questione della malattia

vaginale. Figus aveva la Gardnerella, l’ha trovataFumagalli, e della stessa cosa qualcuno ne soffre incasa Berguet».

«Cioè lei sta dicendo che quei bastardi hannoviolentato Chiara Berguet?».

«Molto probabile, Caterina. Ora che mi viene inmente...».

«Il furto!» fece Scipioni. «Il finto furto in casa diViorelo».

«Bravo! Non era un furto. Cercavano qualcosa».

«Cosa?» chiese Italo.Rocco andò alla scrivania. Aprì il cassetto di sinistra.«Io dico questo!» e tirò fuori il telefono cellulare diViorelo. «Italo, dove sono i numeri che ha chiamato?».

«Gliel’ho messi l’altro giorno sul tavolo, ma solo i primi tre. Dice che il rumeno li aveva cancellati, e iltecnico per avere tutta la lista ci mette un po’ di tempo.

Poi ci sono quelli della rubrica, ma sono tutti numerirumeni» e si mise a ravanare in mezzo agli appunti e aidocumenti di Rocco.

«Cazzo, avevamo la soluzione sotto gli occhi dagiorni! Chissenefrega dei numeri rumeni. Voglio gliultimi tre che ha chiamato!» imprecò il vicequestore.

«Certo se tenessi più in ordine, Rocco».

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Antonio sgranò gli occhi. «Rocco?».Italo si morse le labbra.«Sì, Antonio, Italo mi dà del tu. Da tanto tempo. Da

adesso sia tu che Caterina siete autorizzati a fare lostesso».

«Non credo di riuscirci» fece Caterina.«Provaci».«Eccolo!». Italo tirò fuori un foglio. «Questi sono gli

ultimi tre numeri di telefono».Antonio afferrò il foglio. «Io vedo di scoprire di chi

sono. Ci metto un attimo!». E sparì dall’ufficio.«Fammi capire bene» fece Caterina. «Quei due hanno

rapito Chiara e adesso sono morti?».«Hai visto che ti riesce benissimo darmi del tu?».Caterina arrossì.«Certo, Caterina. Ora resta da capire se solo loro

erano a conoscenza del luogo del rapimento oppureno».«No. Dal momento che i genitori hanno parlato con

Chiara. Evidentemente c’è qualcun altro».«Vero». Rocco cominciò a camminare per la stanza.

«Cosa sappiamo? Che provenivano da Saint-Vincent.Dovremmo sapere quanti chilometri hanno percorso».

«Magari potremmo avere una botta di fortuna» feceItalo. «Per esempio, che so? Qualche multa presa quelgiorno».

«No, avevano una targa falsa. Non per fare unarapina o un furto, ma perché hanno rapito Chiara. E sequalche telecamera avesse ripreso la scena,difficilmente sarebbero risaliti al mezzo. No, Italo. La

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multa scartiamola».«Be’, abbiamo il cellulare. Possiamo risalire a quale

cellula era attaccato e vedremo i suoi spostamenti».

«Questa è già una prima cosa da fare».«Anche se...» disse Italo «la cellula o la torre può

essere molto approssimativa. Anche 50 chilometri,sapete? Me lo ha detto Antonio».

«Ma ce n’è un’altra che voi non potete sapere. Perchénon siete venuti con me al deposito giudiziario!». Ilvicequestore corse via lasciando Rispoli e Italo aguardarsi.

In corridoio incontrò i due agenti. D’Intino con unvassoio incartato e Deruta con un thermos. «Cos’è ’staroba, D’Intino?».

«Pasticcini. Li porto alla ragazza, la sua amica nellastanza passaporti».

«E tu, Deruta?».«Tè. Caldo. Aveva sete».«Allora statemi a sentire. A mezzogiorno preciso tutti

e due prendete la macchina di servizio e riportateGiovanna a scuola. Sono stato chiaro?».

«Sissignore. Chi guida?» chiese Deruta.«Tu. D’Intino al volante è una pippa. E non

accendete la sirena. Anche se la ragazza ve lo dovessechiedere. Intesi?».Fecero sì con la testa all’unisono e corsero verso

l’ufficio passaporti. Giovanna li aveva ridotti a duecagnolini da compagnia.

«Ma cos’ha di tanto interessante questo furgone?»

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chiese il guardiano del deposito.Rocco tornò allo sportello del passeggero. Si chinò e

si mise a leggere gli adesivi del cambio d’olio.

L’ultimo era dell’Agip, riportava la data di domenica. Eil chilometraggio. Rocco si trascinò fino al sedile delguidatore. Tolse la polvere dal vetro e lesse ilchilometraggio finale di quel furgone. Dal cambiodell’olio avevano fatto solo 130 chilometri.

«Lei come si chiama?».«Lucianino!».«Lucianino, ce l’ha una mappa di Aosta?».«In ufficio c’è Internet».

Davanti alla mappa Rocco si accese una sigaretta.«Posso anche io?».«Certo, Lucianino. Allora, seguimi nel ragionamento.

A che ora chiudono i benzinai?».«Alle sette?».«Bene. Diciamo che per prima cosa i due vanno allo

Sphere, dove arrivano più o meno per le undici. LoSphere sta sulla strada per Cervinia».

«Sì, lo so, ci va pure mio figlio. A Saint-André.Allora da Aosta sono più o meno... 37 chilometri. Dico

 più o meno perché mica lo so qual è il benzinaio di partenza».«Agip».«E ce ne sono tanti».«Questo è aperto di domenica!».Lucianino fece mente locale. «Allora sicuro è quello

di via Luigi Vaccari! Via Vaccari... fino a lì 35

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chilometri, confermo».«Bene. Da lì i due tornano a casa Berguet. È lì che

hanno preso Chiara».

«Chi è Chiara?».«Lascia stare. Allora fino a casa Berguet?».«Sì, ma io non so dov’è».«A Porossan. Aosta».Lucianino digitò sulla mappa. «E sono altri 37

chilometri».«Siamo a...» Rocco fece un rapido calcolo mentale

«... 72 chilometri. Ora i due devono tornare dalle partidi Saint-Vincent, perché i chilometri si stanno giàesaurendo».

«A Saint-Vincent sono... 38 chilometri».«E andiamo a 110. Poi tornando verso Aosta hanno

l’incidente. Allora a noi per arrivare a 130 chilometri ce

ne mancano solo 20. 20 chilometri per capire dovecazzo sono andati. Una ventina di chilometri da Saint-Vincent. Andata e ritorno più o meno».

«Ma loro chi?».«Tranquillo, Lucianino. Sto pensando a voce alta.

Dove si può andare con 20 chilometri da Saint-Vincent?».

«Mah... allora, o verso Moron, e si sale su fino aSalirod...».«Oppure?».«Oppure qui, vede? Verso Promiod... o verso Closel

e salire per altri 15 chilometri».«Un’ira di Dio di posti».«Direi di sì».

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«Ma io mi arrendo, Lucianì?».«Non lo so. Si arrende?».«Manco per il cazzo. Grazie, Lucianino!».

«Prego, dottore».

Il vicequestore stava tornando verso l’ufficio quandoun’auto della polizia a sirene spiegate gli tagliò lastrada proprio nel mezzo di un incrocio bloccando iltraffico. Italo Pierron scese insieme ad Antonio e siavventarono sulla Fiat Croma di Rocco. La cosa chestupiva Schiavone non era il comportamento dei suoiagenti, che ormai sembravano contagiati dalla suaschizofrenia, ma il fatto che dalle auto dei valdostani

 bloccate da quella manovra assurda e improvvisa non sialzava neanche un clacson di protesta. Una cosa similea Roma avrebbe provocato un concerto, un’esplosione

di suoni e urla dal finestrino. Invece, civiltà di quel popolo, sulla strada regnava un silenzio quasi irreale.«Rocco, non potevamo aspettare!» disse Italo con il

fiatone.«Allora, abbiamo controllato i tre numeri di Viorelo

Midea» continuò Antonio Scipioni. «Le ultimechiamate le ha fatte alla pizzeria Posillipo, in Romania,

ma l’ultima, proprio l’ultima, a un altro numero».«Vabbè, mi volete dire quale o devo stare qui a...».«Marcello Berguet» disse Italo. A quel nome un

clacson timido e solitario si alzò dalla fila che si eracreata alle spalle dell’auto di Rocco.

«Marcello Berguet...» ripeté Rocco.«Lo prendiamo?».

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«Aspettate. Abbiamo un vantaggio. Sfruttiamolo anostro favore... Cosa sappiamo? Che Marcello è quelloche dice di aver parlato con lei. Ma forse non è vero.

 Non ci ha mai parlato. Oppure sì. Comunque lui sadov’è la nipote, questo è chiaro!».

Il clacson solitario si fece risentire.«Che facciamo?».«Fate retromarcia e seguitemi alla clinica Agnus

Dei».Gli agenti tornarono all’auto scusandosi con gesti

vaghi con gli automobilisti ancora pazientemente in filamentre Rocco partiva a razzo verso il centro di Aosta.

Enrico Maria Charbonnier se ne stava come un papasu un divano fronte finestra a leggere il giornale conuna bella tazza di tè sul comodino e il panorama delle

Alpi innevate davanti a lui.«Mi faccia capire. Prima mi manda in clinica eadesso vuole che torni in ufficio?».

«Io devo sapere se Carlo Figus ha delle proprietà daqualche parte verso Saint-Vincent».

«Perché, dottor Schiavone?».«Perché lui insieme a un poveraccio senza casa

hanno rapito Chiara, e non credo che l’abbiano portatain una casa della famiglia Berguet».«Ma chi le fa credere che non ci sia di mezzo qualcun

altro?».«Perché il mandante di quei due è Marcello

Berguet!».Il giornale cadde dalle mani del notaio. «Marcello? Il

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 professore?».«Esatto. Ora io so che Chiara è nella prigione da

domenica notte, o se preferisce da lunedì mattina. E

Dio solo sa se è ancora viva».«Faccia così, vada lei con i suoi agenti a piazza della

Repubblica, al catasto. Io ora chiamo un impiegato mioamico. Vedrà, ci metterete un attimo».

«Grazie, dottor Charbonnier».«Devo fare altro?».«Niente» rispose Rocco. «Continui a leggere il

giornale e ne approfitti per riposarsi e farsi le analisi.Per altro ho visto che a infermiere qui non sono messimale».

Il notaio sorrise. «Alla mia età al massimo possocontemplarle, come le Alpi». E fece un gesto teatraledella mano verso le vette che spuntavano lontane, oltre

la finestra. Neanche mezz’ora dopo il vicequestore e i suoi

agenti uscirono amareggiati dal catasto. Non trovarononulla intestato a Carlo Figus o alla madre. MarcelloBerguet invece aveva un monolocale in centro e unvillino dalle parti di Alagna. Rocco lo aveva scartato.

Troppo distante, stando all’intuizione dei chilometrimacinati dal furgone dei rapitori.Erano al punto di partenza.«Chiamiamo il questore» suggerì Antonio.«Per fare cosa?».«Facciamogli radunare un gruppo pazzesco. Tutti:

vigili del fuoco, carabinieri, finanzieri, forestali, guide

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alpine. Tutti. Dobbiamo esplorare un’area di diversichilometri e noi da soli come facciamo?».

«Per organizzare una cosa simile ci vogliono ore,

tempo, e noi non ce l’abbiamo. In più rendiamo la cosa pubblica. E anche questo potrebbe giocarci un bruttoscherzo».

«Tipo?» chiese Italo.«Tipo che oltre a Marcello Berguet c’è qualcun altro

invischiato in questa storia. E se la potrebbe dare agambe. Io al telefono ho sentito uno dei rapitori,accento calabrese».

«Ma poteva essere quel Cutrì che risiede a Lugano».«Poteva, certo. Ma poteva anche essere qualcuno che

sta qui ad Aosta. Noi di quest’organizzazione non nesappiamo ancora niente. Solo la punta dell’iceberg.Meglio, due punte dell’iceberg».

«Quali? Marcello Berguet e poi?».«Il fidanzatino di Chiara. Max. Lui c’entra».«Perché?».«Conosceva i rapitori. Almeno Carlo Figus. E se

c’entra lui c’entra anche sua madre. Non rimane cheandare a prendere il lupo».

Antonio e Casella, come da istruzioni ricevute dalvicequestore, erano andati a prelevare MarcelloBerguet. Rocco s’era raccomandato di farlo fuori dalleaule, lontano dagli alunni e coinvolgere il meno

 possibile l’istituto. Ma non ce ne fu bisogno. QuandoRocco entrò nel suo ufficio, seduto rigido come un palocol suo vestito in perfetto ordine, i capelli impomatati e

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il viso che ancora odorava del dopobarba del mattino,c’era Marcello Berguet che l’aspettava.

«Mi fa piacere vederla qui, professore. L’avevo

mandata a prendere a scuola».«Io e lei dobbiamo parlare».«Lo so. L’avevo mandata a prendere da due miei

agenti».«E per quale motivo?».«Diciamo... rapimento, professor Berguet. Rapimento

e omicidio!» e Rocco Schiavone alzò un foglio.«Rapimento? Omicidio? Ma cosa le salta in mente?».«Vede questo foglio? Mi è arrivato da poco da un

rivenditore di auto. Abbiamo trovato un pezzo di farogiù nel garage di Cerruti. Sfortuna vuole che ci fosse

 proprio il codice. Sono risaliti alla fabbrica e indoviniun po’? Lì costruiscono i fari per la Suzuki Jimny. Se

non sbaglio Giuliana, sua cognata, ha una SuzukiJimny, e se non sbaglio lei è quello che la guidasempre. Così ci ha detto quando venimmo a casavostra, il giorno che la ritrovammo coi vetri dei farifracassati sulla strada. Lei l’ha usata per andare atrovare Cristiano?».

«Senta, mi lasci dire una cosa...».

«No, lasci parlare me. Per quale motivo sul cellularedi Viorelo Midea, che è uno dei rapitori di sua nipote,c’è il suo numero?».

Berguet guardò Rocco. «Il mio?».«Già. La sera del rapimento. L’ha chiamata?

Chiedeva istruzioni? Voleva dirle che avevano preso laragazza? È così?».

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«Io non so neanche chi sia questo Viorelo Midea!»gridò Marcello.

«Dove l’hanno messa sua nipote? Questo però lo

sa!».«Ma se lo sapessi andrei a prenderla, cazzo!». I nervi

di Marcello stavano cedendo.«Si calmi professore, per favore. Lei è l’unico ad

aver parlato con Chiara».«Certo. Sono io».«E dobbiamo fidarci della sua parola?».«Certo. Ho sentito Chiara che diceva: Sto bene. Tutto

qui».«E lei è sicuro si trattasse di Chiara? In fondo ha

detto solo: sto bene. Un po’ poco per avere unacertezza».

Marcello ci rifletté per qualche secondo. «Sì, può

anche essere. Non lo so. Io ho detto: Chiara sono lo zio.E lei ha risposto: sto bene zio Marcello. E basta. Forseera sconvolta, aveva sicuramente paura. Una cosa peròè certa. E ci penso solo ora. Lei non mi ha maichiamato zio Marcello. Io per Chiara sono da semprezio Ninni. Non mi ha mai chiamato zio Marcello. Mai.Perché ci penso solo ora?».

Rocco prese un respiro profondo. «Posso avere il suocellulare?».Marcello si mise la mano in tasca. Allungò il

cellulare a Rocco che controllò subito i numeri inentrata. «Ecco qui. Ore tre e un quarto della mattina dilunedì. Lei ha ricevuto la telefonata al 333 25 25 04,che è il suo numero, dal cellulare di Viorelo Midea. C’è

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anche nel registro. La durata della chiamata è stata di...tre secondi?». Rocco strizzò gli occhi. «Come, tresecondi?».

«Io a quell’ora di solito dormo, dottor Schiavone»fece Marcello, «non mi metto a parlare al telefono». Esi passò la mano sulla faccia.

«Questo cellulare, solo sei numeri. Com’è?».«È un accordo che fece Pietro con lo sponsor. Ha

voluto per noi dell’azienda, anche se io ne faccio partesolo nominalmente, dei numeri in sequenza. Il miofinisce con lo 04, quello di Pietro con lo 01, mi pareGiuliana 03, Cerruti 07 e altri impiegati hanno questonumero. Con finali diversi, è ovvio».

Rocco si azzittì. Sentiva la terra tremare sotto i piedie una voragine pronta a ingoiarlo come una caramella.Si mise a fissare il viso di Marcello. Che si sentì in

imbarazzo. «Che... che succede? Perché mi guarda?».«Lei si è fatto la barba stamattina?».Marcello pensò seriamente che il vicequestore

soffrisse di una qualche patologia psichica. «Me lafaccio ogni giorno. Non la sopporto».

«Porca puttana!» sbottò il vicequestore e il professore perse la sua compostezza saltando sulla

sedia. «Sono un coglione!». Alzò il telefono sotto losguardo attonito di Marcello Berguet. «Pronto,Fumagalli? Sei ancora ad Aosta?».

«No, Schiavone, ci sono i miei uomini. Se vuoi timetto in contatto con loro».

«Ascolta. Magari te lo ricordi. Sul luogo del delittoCerruti...».

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«Dimmi».«Ricordi all’uscita del palazzetto? C’è un giardino

condominiale».

«Sì, coperto di neve. Cespugli di grevillea e pyracantha. Perché?».

«Avete controllato lì?».«Certo. Accanto a un cespuglio abbiamo trovato

delle orme. Qualcuno s’è avvicinato, ci ha tramestato inmezzo e se n’è andato».

«E secondo te che cercava?».«All’inizio pensavo qualcuno con un cane. Ma tracce

di animali sulla neve non ce n’erano. Se fosse estate tidirei che ad un condomino dal balcone gli è caduto un

 panno steso ed è sceso a riprenderselo. Ma non èestate».

«Direi proprio di no. Grazie, Alberto».

«Figurati».«Ah, grazie per aver relazionato a Baldi. Bella figuradi merda che mi hai fatto fare».

«Non sarà né la prima né l’ultima».«Su questo devo essere d’accordo con te» e buttò

un’occhiata verso Marcello Berguet. Poi il vicequestoreappoggiò i gomiti alla scrivania e nascose il viso nelle

mani per un tempo che a Marcello parve infinito. Sistropicciò gli occhi stanchi e finalmente guardò il professore di matematica. «Lo sa perché succedonocerte cose? Perché uno non guarda con attenzione».

«Lo so, dottore. Basta una distrazione, un piccoloerrore di calcolo e non si trova più il valoredell’incognita».

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«Vero. Non ho pensato al rasoio. Al rasoio con laschiuma da barba nel bagno di Cerruti. Lui la barba nonse la faceva».

Marcello abbassò gli occhi.«Perché non me l’ha detto subito che era lei l’amante

di Cristiano?».«Lei non me l’ha mai chiesto. E soprattutto da

quando sono in questo ufficio, non mi ha fatto parlare.Se invece di aggredirmi mi avesse ascoltato, avremmorisparmiato tempo».

Rocco scosse la testa. «Allora prego. Parli pure».«La relazione che avevo con Cristiano era, e vorrei che

continuasse ad essere, una cosa segreta. Lei lo sa, ioinsegno, Aosta ha 40.000 abitanti, essere bollati eguardati con scherno è un attimo. Mica siamo a Roma!».

«Le devo chiedere scusa».

«Lasci stare. Fra me e Cristiano non andava affatto bene. Era a pezzi, nervoso, io lo so, nascondevaqualcosa. Parliamo della mattina dell’omicidio. Io sonouscito presto, neanche le otto, dovevo arrivare inanticipo a scuola. Cristiano aspettava una persona alleotto e un quarto».

«Chi?».

«Non ha voluto dirmelo. Gliel’ho detto. Era nervoso,scattava per un niente, litigavamo da giorni».«Forse suo fratello oppure Giuliana gliel’hanno già

detto. Ma Cristiano era invischiato nel rapimento di suanipote».

«Lo so. Per questo non mi vede versare neanche unalacrima. Non avevo capito niente. Ci vedevamo,

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 parlavamo, ma chi fosse in realtà Cristiano Cerruti ionon lo sapevo. Pensavo fosse... come ha potuto?».Marcello guardò Rocco dritto negli occhi. «Come ha

 potuto mettersi in mezzo a questa storia?».«Tre milioni di euro le pare una risposta

accettabile?».Marcello si stropicciò le mani. «Ha una sigaretta?».La mente di Rocco volò al cassetto con la marijuana,

ma gli sembrò un gesto azzardato. «Italo!» chiamò adalta voce. «Sa, le mie le ho finite. Aspetti che vienel’agente. Fanno schifo, ma meglio di niente».

Italo entrò. Guardò Marcello Berguet, poi ilvicequestore. «Dica...».

«Smolla due sigarette e fumatene una pure tu...».Italo allargò le braccia, offrì la prima a Marcello, poi

se ne mise in bocca una e alla fine gettò il pacchetto a

Rocco. «Ce ne sono due, dottore. Così sta bene anche per dopo» disse con finta gentilezza. «Allora, hacantato?» aggiunse l’agente, che non conosceva glisviluppi della questione.

«Stiamo a Sanremo, Pierron? Chi doveva cantare?Mettiti seduto e ascolta e sappi che con questo signoreabbiamo inanellato un’ennesima figura di merda».

Si accesero le sigarette e subito una coltre di fumoriempì l’ufficio. Rocco prese un foglio. «Il numero diCristiano ha uno 07 finale. Il suo, professor Berguet,uno 04. A guardare una tastiera è facile che Vioreloabbia sbagliato a digitare. In piena notte, mezzoaddormentato, può succedere».

«In più» aggiunse Italo «abbiamo fatto un bel

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Aveva proprietà qui ad Aosta? Case in montagna,garage, fienili?».

Marcello ci pensò su un attimo. «No. Cristiano non

era neanche di qui. Era marchigiano. Stava ad Aosta datre anni... l’unica cosa che possedeva era l’auto e lacasa dove abitava».

«E in auto abbiamo trovato niente di interessante,Italo?».

«No. Niente di che...».«La ringrazio, professore. La lascio ai suoi affari».«Chiara?».«La troveremo, ci conti. E se lei dovesse ricordare

qualcosa che può aiutare...».«Mi creda, dottor Schiavone, non spero altro da

giorni».

Aveva la sensazione di stare in una stazione dei trenicon tutti i binari morti. In silenzio, poggiato coi gomitialla scrivania, gli occhi chiusi, Rocco Schiavoneripercorreva tutte le cose che in quei pochi giorni avevavisto e sentito. La mente navigava autarchica passandodalla faccia di Cristiano Cerruti a quella dei suoi amicidi Roma. Furio, magro e senza capelli con gli occhi

greci che sembravano sempre truccati. Sebastiano,l’orso, che invece di capelli ne aveva anche troppi esembrava pettinarsi con le miccette. Brizio, il bello, chechiamavano Alanford, roscio e coi baffi da polacco. Poigli appariva il viso di Pietro Berguet, Giuliana chediventava quello di sua madre che diventava quello diAdele che forse era già in viaggio per venirsi a

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Che Mimmo, così disse, le aveva regalato».«Pensi che sia lui?».«Il finto napoletano? Ci disse che era di Soverato,

ricordi?».«Io non lo so dov’è Soverato».«Io sì!».

«Che giorno è oggi?».«Giovedì, Rocco».«Qui dice chiusa il mercoledì. Allora perché non c’è

nessuno?» buttò un’occhiata dentro la pizzeriaPosillipo. Tutto spento. «Te lo dico io. Perché il nostrofinto napoletano da mo’ che se n’è andato».

«Dici che è lui?».«È lui al cento per cento».«E adesso?».

«Mi sono rotto il cazzo». Rocco raccolse un mattonedal marciapiede, lo pulì dalla neve e poi lo scagliòcontro la vetrata della pizzeria. «Prego!» fece a Italoche entrò per primo.

I tavoli erano apparecchiati. Le luci spente. Soltantosopra gli specchi, un neon blu illuminava appenal’ambiente. Rocco e Italo entrarono in cucina. Accesero

la luce. Se la sala era un esempio di buona architetturad’interni, la cucina faceva ribrezzo. Unta, sporca e nera.Mattonelle spaccate e il pavimento oleoso e scuro dimuffa. In più in quella specie di caverna che i Nasavrebbero dovuto chiudere da tempo, non c’era segnodi vita. A parte le spie del grosso frigorifero, il resto eramorto, abbandonato. Sul tavolo da lavoro riposava

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l’impasto della pizza. Un odore acre di latte cagliato pungeva le narici. Aprirono la porta per entrarenell’ufficio. Anche lì tutto in ordine, tranne un armadio

di ferro. Spalancato e rovistato frettolosamente. Duedei sei ripiani erano vuoti.

«Una bella fretta... continuiamo...» fece Rocco.Passarono nuovamente in cucina e infilarono una

 porta di ferro che dava nel magazzino sul retro. Lasaracinesca che apriva su un parcheggio secondario eraspalancata. Sulla neve tracce di pneumatici. Dentro, il

 piccolo magazzino era pieno di cassette di legno, bottiglie d’acqua, due enormi tavoli sommersi daconserve di pomodoro, una cella frigorifera. Era aperta.Rocco ci infilò la testa. Sugli scaffali c’eranoabbastanza derrate alimentari da sopportare un assediodi mesi. Scatole e scatolette, sacchi di farina, di sale e

di zucchero, enormi barattoli di tonno. Ma la cosa cheattirò immediatamente l’attenzione di Rocco fu unsecchio di metallo. C’era infilato uno scopettone, maall’interno non c’era acqua.

Banconote. Da 5, 10, 20 e 50 euro. Accartocciate,spiegazzate, vecchie e lise.

«Porca...» disse Italo.

«... troia» concluse Rocco. «Ti va di dargli unacontatina?».«Ma che roba è? Di chi è questo posto?». Italo si

chinò e cominciò a contare il denaro.«Ancora non l’hai capito?».«No».«’Ndrangheta».

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«C’è la ’ndrangheta ad Aosta?».«E perché non dovrebbe? Che c’è qui che non va?»

fece ironico il vicequestore. «Bisogna chiamare Baldi.

Serve un ordine di cattura per Domenico Cuntrera. Echiamiamo pure la centrale. Facciamo venire un po’ digente. Costa ne avrà da parlare coi giornalisti».

Rocco si attaccò al cellulare. Italo continuava acontare il denaro.

«Dottor Costa? Sono Schiavone. Sto facendo veniregli agenti alla pizzeria Posillipo. Era il centro diun’organizzazione mafiosa. Sono i responsabili dellascomparsa di Chiara Berguet...». Rocco osservava Italoche impilava le banconote cercando di stirarle. «Sì,dottore. Farebbe meglio a chiamare Roma. Prestiti,usura, le solite cose». Coprì la cornetta e chiese a Italo:«Quant’è?».

«37.000 mila euro».«Sì, abbiamo trovato anche delle banconote. 20.000euro... piccolo taglio...».

Italo guardò Rocco che gli fece l’occhiolino. «Certo,dottore. Allerto la centrale».

Il vicequestore chiuse la telefonata. «Ora prendi i17.000 euro che avanzano. E sbrigati, prima che

arrivino gli altri...».«Veramente Rocco?».«Ho la faccia di uno che scherza? Un po’ di liquidi

 per una buona causa».«Quale?» domandò Italo, che cercava di nascondere

le banconote nelle tasche e nel giubbotto.«Ricordiamoci che Chiara aspetta noi. Forza,

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sbrigati».

Rocco e Italo avevano lasciato gli agenti della

centrale a prendersi cura della pizzeria Posillipo ederano tornati a via Chateland 92, l’indirizzo del fuCarlo Figus.

«Rocco, ti dispiace se non salgo? Io lì dentro non misento bene».

«Tieni, mastica questa». E gli passò una caramellagommosa alla frutta.

«Fa stare meglio?».«Non lo so. Ma almeno ti lascia un buon sapore in

 bocca».La mamma di Carlo Figus aprì la porta. Non sorrise.

Fece retromarcia sulla sedia a rotelle per far entrare i poliziotti. «Siete tornato a trovarmi...» disse. Aveva

addosso lo stesso cardigan con Topolino cucito sopra.«Non è una visita di piacere, signora». Italo intantoguardava con orrore la mondezza che riempiva la casa.Masticava nervosamente la caramella, ma la puzza divecchio e di muffa era troppo forte e insistente per unasemplice caramella gommosa.

«Perché? Che ho fatto?» gli occhi della donna

divennero enormi dietro le lenti.«Lei niente. Però mi deve dire la verità».«Lo volete un caffè?».«No, grazie. Domenico Cuntrera detto Mimmo. È

venuto qui?».«Non lo conosco».

 Non sapeva mentire. Aveva abbassato gli occhi e si

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grattava una spalla.«Signora, glielo chiedo per la seconda volta: Mimmo

Cuntrera, dov’è?».

«Io le ho detto che non lo conosco» la voce letremava, si aggrappò alle rotelle della sedia. «Che ne soio? Perché mi fa queste domande? Perché mi trattacosì? Non eravamo amici io e lei? Non eravamoamici?».

«Siamo amici, signora, se lei risponde e dice la veritàlo saremo ancora di più».

Girò la sedia. «Ma che ne so io? Che ne so? Io non loconosco».

«I buoni della pizzeria, signora. Me li ha mostratil’altra volta. Chi glieli ha dati?».

«Non ho buoni di nessuna pizzeria io. Io non li ho. Ionon cono...» s’era bloccata all’improvviso.

Al centro del sentiero scavato nella montagna deglioggetti era apparsa la figura scheletrica di Adelmo. Ilnonno di Carlo. Stanco, appoggiato allo stipite della

 porta, guardava i poliziotti chiusi in quella discaricaalle prese con sua figlia. Aveva alzato una mano.Voleva parlare. Con lentezza tirò fuori il fazzoletto, siasciugò la bocca, guardò Rocco, poi disse: «È venuto

qui. Dal giorno che Carlo è morto. E pure ieri. È venutoqui».«Cosa voleva, signor Adelmo?».«Io non lo so. Continuava a dire: dov’è? Dove l’ha

messa Carlo? S’è messa a cercarla pure in casa, sottotutto... tutto questo schifo...» a Rocco parve di vedersorridere il vecchio. «Qui sotto ci può stare qualsiasi

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cosa, anche un cadavere, e nessuno lo saprà mai».«Ma cosa cercava Cuntrera?» insistette dolce il

vicequestore.

«Diceva solo: dove l’ha nascosta Carlo? Dove l’ha portata? Ma io dottore glielo giuro, non so cosacercava. È andato via e ha detto: imbecilli! Propriocosì. Imbecilli!».

«Lei non ha paura?».«Che ho da perdere?» e con un gesto lento abbracciò

quella discarica, la figlia sulla sedia a rotelle e sestesso. «Me lo dica lei».

Il vicequestore si girò verso Italo. Afferrò una bustache il poliziotto teneva nei pantaloni. «Tenga, signorAdelmo. Questi fanno comodo».

Il vecchio non si scompose. Guardava la busta senzatoccarla. «Cos’è?».

«Un risarcimento per la stupidità di suo nipote.Avanti, prenda, è importante».Adelmo allungò la mano tremante. Prese la busta che

scricchiolò fra le dita artritiche dell’uomo. «Noiandiamo. Addio, signora Figus. Addio, Adelmo».

Rocco fece dietro front e seguito da Italo ripercorse ilsentiero fino alla porta di casa.

«Quanto gli hai lasciato, Rocco?».«11.000 euro. Io e te ce ne facciamo bastare sei. Perle spese di ogni giorno».

«Ottimo!» fece Italo.«Ora sbrighiamoci».«Perché?».«Stavolta non ci sono dubbi. Chiara è sola!».

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«Sei. Ma una deve restare qui per ogni imprevisto»disse Italo.

«Allora cinque?» chiese Rocco.

Prese la parola timidamente l’agente napoletano.«Veramente una è ingolfata da tre giorni».

«Allora quattro?».«E un’altra l’ha fracassata D’Intino».«Abbiamo tre macchine?» chiese Rocco. «Solo tre

macchine?».«In tre macchine possiamo andare su in quindici!»

disse Deruta cercando di dare un’iniezione diottimismo.

«Deruta, dobbiamo dividerci in gruppi da due. Ciservono almeno cinque mezzi. Vabbè, io prendo la miamacchina e siamo a quattro».

«Io ho la moto» fece il giovane del Vomero.

«Con questo freddo?».«A mali estremi...».«Ce l’hai due caschi?» chiese il vicequestore.«Certo. Ce li ho».«Allora, Deruta e D’Intino sulla prima auto di

servizio. Voi siete una coppia collaudata».«Sissignore».

«Italo e l’ispettore Rispoli sulla seconda auto».«Bene».«Tu, giovanotto, te ne vai con la moto e ti porti

Casella».«Perché proprio io?» protestò subito l’agente.«Perché sì. Copriti, pigliati un’aspirina e monta sulla

moto. Voi due!» e indicò due agenti anziani che Rocco

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non aveva mai visto da quando era ad Aosta. «Com’èche vi chiamate?».

«Agente Curcio» fece quello con la barba.

«Agente Penzo» quello pelato.Rocco sorrise. Curcio e Penzo, erano una coppia di

giocatori della Roma che gli mancavano sempre perfinire l’album. «Allora, Curcio e Penzo, salite sullaterza macchina di servizio, e io e Antonio sulla mia. Cirivediamo qui sotto fra dieci minuti».

«Ah dottore?» Italo lo prese per il gomito.«Che c’è?».«La macchina numero due è senza benzina».«Ma porca...». Rocco prese il portafogli e diede 50

euro a Italo. «Ecco. E con questi sono cento sacchi».

L’armata Brancaleone era sul piede di guerra. Gli

agenti guardavano Rocco che controllava la fila deimezzi. Aveva consegnato a tutti una radio.«Mi raccomando» urlò con il walkie-talkie ben in

alto in modo che tutti lo vedessero. «Canale 2. Chiaro?Canale 2. Forza, muoviamoci!».

Entrò nella sua auto e fece cenno di partire. Lacolonna si mosse. In testa la Volvo di Rocco. Lo

scooter del giovane napoletano a chiudere. Casella già batteva i denti per il freddo.Speranze ce n’erano poche. Rocco lo sapeva. Ma

doveva agire in fretta, la priorità era salvare la pelle diChiara Berguet. Il resto sarebbe venuto dopo.

«Come la vedi, Antonio?».«Male, Rocco. La vedo male. Qui se non ci aiuta una

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 botta di culo...».«Mentre saliamo, riflettiamo. C’è sfuggito

qualcosa?».

«Non lo so. Proprio non lo so».

All’altezza di Saint-Vincent s’erano divisi.Schiavone e Antonio Scipioni avevano preso la strada

 per Closel. Salivano sui tornanti. Boschi, rocce, tuttoera stato coperto dal manto nevoso. Appena usciti dalcentro abitato Rocco, con l’occhio sul contachilometri,rallentò la marcia. Cominciò ad osservare le case.

«Va bene Antonio, da qui possiamo cominciare a buttare un’occhiata».

«Quali guardiamo per prime?».«Le case isolate e controlliamo le sterrate che si

inoltrano nei boschi. Potrebbero portare a dei rifugi».

«Allora comincerei da quella» e indicò una casa congli scuri chiusi. Un bel villino a due piani. Sembravadisabitato. Nel giardino non c’era traccia di passaggioumano. La neve aveva ricoperto la legna da ardere eun’altalena appesa al ramo di un albero. «Puzza di casadelle vacanze. Però proviamo». Fermò l’auto e scesero.Il cancelletto era di legno e bastava spingere per

entrare. Antonio guardò le scarpe di Rocco: «Certo checon quelle...».«Lo so!» lo interruppe Schiavone, «lo so! Ci sono

abituato».Entrarono nel giardino. I vasi sul balconcino erano

vuoti, solo qualche mozzicone di vecchi garofani. Laneve tutt’intorno alla villetta era intonsa. Rocco arrivò

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alla porta. Chiusa, serrata. Cercò di sbirciare dentrocasa attraverso il cuoricino intagliato nel legno. Allafine si risolse. Prese il coltellino svizzero e si avvicinò

alla serratura.«Che fai?» chiese Antonio.«Bisogna entrare, no?».Armeggiò per pochi secondi nella serratura. Poi

l’aprì.«Però, mica male. Lo insegnano ai corsi di polizia

giù a Roma?» fece Antonio.Entrarono nella villetta.Buia. Avevano staccato la corrente. Con l’aiuto del

cellulare si fecero luce. C’era odore di chiuso e i mobilierano coperti da plastiche impolverate.

«Vai giù in cantina».Antonio scese delle scale che portavano al piano

seminterrato. Rocco salì verso le camere da letto.Ce n’erano due. Una con la carta da parati piena di puffi e due lettini colorati, l’altra matrimoniale.

 Niente. Tornò al piano di sotto. Incontrò Antonio.«Allora?».

«Nulla».«E una».

«Ma di questo passo sai quanto ci mettiamo?».«Anche tutta la notte, Antonio. Anche tutta la notte».

Appena risaliti in macchina la radio gracchiò:«Rocco? Sono Italo».

«Dimmi, Italo».«Siamo entrati in una casa. Sembrava abbandonata.

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Invece è stata svaligiata. Che faccio?».«Segnala e tira dritto. Ce ne occuperemo in un

secondo momento. Forza!».

Con un rumore gracchiante la radio si spense.«Mentre cerchiamo, me la dici una cosa?».«Se posso...».«Perché sei stato trasferito ad Aosta?».Rocco guardava con attenzione le case. «Punizione».«Ma per cosa?».«Tendo ad applicare la legge con poco equilibrio».«Vale a dire?».«Diciamo che mi faccio prendere la mano».«E posso chiederti cosa è successo?».«No. Non mi va di parlarne. E comunque, Italo lo sa.

Fattelo raccontare da lui».Rocco a sinistra, Antonio a destra, guardavano

attentamente prati e boschi. Il bianco si rifletteva suiloro volti stanchi e accecava gli occhi.«Quelle?».«Troppo vicine. C’è una macchina parcheggiata. Luci

accese. No, scartiamo quelle non isolate».Fecero due tornanti senza trovare tracce di case o

stradine laterali, a parte dei sentieri per escursionisti

che si inerpicavano sulle montagne. «Quante ore di luceabbiamo ancora?».Antonio guardò l’orologio. «Poche».«Guarda qua!» una stradina carrabile che partiva e si

addentrava nel bosco. «Potrebbe?».«Non c’è passato nessuno. Andiamo».Rocco svoltò ed entrò affrontando con decisione la

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neve. L’ottima meccanica svedese e le quattro ruotemotrici fecero avanzare l’auto fino a una catapecchiacadente.

«Questo mi pare un fienile» disse l’agente siciliano.«E andiamo a guardare».

 Nell’aria fresca un odore di legna bruciata e diresina. Nessun rumore. Solo quello della neve che ognitanto cadeva dagli alberi.

«Io dico che non c’è nessuno».Il tetto era vecchio e aveva ceduto in più parti. Il

 piano di sopra era scarnificato come una carcassa in undeserto. Il piano inferiore invece era ancora intonso. La

 porta era spalancata. C’era solo qualche cubo di fieno ele ruote di un vecchio trattore. Nient’altro. «Buconell’acqua. Torniamo alla macchina!».

Poi, come se un enorme martello lo avesse colpito

sulla sommità del cranio, Rocco Schiavone si fermò inmezzo alla neve. Antonio lo vide guardare un puntofisso, lontano e indistinto.

«Ti senti male? Dottore, ti senti male?». Corse versoil vicequestore. La prima cosa che fece fu guardargli i

 piedi. Aveva paura che gli si fossero congelati.«Rocco? Rocco, mi senti?».

«Carlo si chiama Figus, giusto?».«Giusto».«Ed è il cognome della madre? Non credo che una

valdostana abbia un cognome sardo».«Magari era il cognome del marito».«Come si chiama il nonno di Carlo? Quello che hai

accompagnato all’ospedale?».

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 provò ad aprirla: «Chiara? Chiara, mi senti? Chiara?».La porta non cedeva. Italo cominciò a prenderla a

spallate ma quella non cedeva.

«Spariamo!».«Non funziona, Cate, non funziona» disse Italo e

riprese a colpire la porta che cominciava a cedere.Dette un ultimo colpo energico e quella si spalancò.Qualcosa schizzò fuori alla velocità della luce. «Checazzo?».

Un guaito e un affaruccio col pelo bianco e sporcostava a pancia all’aria ai piedi di Caterinascodinzolando e abbaiando con una vocetta stridula econtenta. «Piccolo!». Caterina si abbassò. «Era cadutodentro! Povero piccino!» cominciò ad accarezzarlosulla pancia e il cagnolino, felice, le leccava la mano

 protetta dal guanto.

«Occhio che potrebbe avere la rabbia» disse Italo. Icani non gli erano mai piaciuti.«Ma cosa dici? Ma quale rabbia. Guarda com’è

magro». Poi si rivolse al cane cambiando tono, come sealzando di due tacche quello la capisse: «Non mangi?Quant’è che non mangi?».

«Dai andiamo, Cate. Fra un po’ la luce se ne va».

«Vieni!» prese in braccio il cagnolino. Era uncucciolo. Un incrocio fra un setter, un pastorello e altri27 cani. «Vieni qui. Trema!».

«Non hai mica intenzione di portarlo via».«E no? Ora lo lascio qui!».«Vuoi portare ’sto coso che puzza e avrà zecche e

 pulci in macchina?».

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«Puoi sempre restare qui e tornare ad Aosta a piedi,se vuoi».

«Le regole non...».

«Agente Pierron! Sta parlando con un ispettore piùalto di grado che le ordina di non rompere le palle etornare in macchina».

«Ma cose da matti!» disse Italo.«Non lo stare a sentire a questo. Vieni con mamma

tu...» e stringendo il cucciolo al petto l’ispettore tornòverso la macchina.

Il sole stava tramontando. E le speranze di ritrovareChiara se ne andavano con lui.

«Certo, rimango in linea, certo. Grazie».«C’è?» chiese Antonio. Rocco fece cenno di non

saperlo ancora. Antonio prese un pacchetto di sigarette

e se ne accese una. Rocco gliela strappò di mano e se lamise in bocca. Antonio allargò le braccia e ripeté ilgesto.

«Pure tu le Chesterfield?» fece Rocco con ariaschifata. «Ma che avete tutti quanti che comprate ’sticessi di sigarette?».

Antonio scosse il capo e si accese la sua.

«Sì, sono sempre in linea. Mi dica». Rocco ascoltava.Antonio aveva tirato fuori la penna pronto a scrivere suun biglietto da visita.

«Sì? Sìììì!». Rocco fece un salto di gioia. «Allorasaliamo verso frazione Closel... sette chilometri dopo il

 bivio continuiamo dritto...».Antonio scriveva. Il bigliettino era già quasi pieno.

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Continuò sul palmo della mano. «Sì. Altri trechilometri e prima del bivio sulla destra. Grazie,grazie!». Rocco chiuse la comunicazione. «Adelmo

Rosset ha una proprietà, una casamatta mezzadiroccata... un alpeggio insomma, poco più su di qua».E scattò verso l’auto. Antonio lo seguì sorridendo.

«Guido io, Antonio. Tu per radio richiama tutti.Portali qui!».

A velocità sostenuta Rocco saliva i tornanti verso lafrazione Closel. Suonò il cellulare.

«No. Ti prego» fece afferrando il telefono. «Nondirmi che l’impiegato del catasto s’è sbagliato!».Rispose: «Schiavone!».

«Rocco, sono Adele!».«Adele. Non è il momento».«Sono arrivata ad Aosta».

«Che bella cosa. Ascolta, le chiavi sono alcommissariato. Vai e sistemati a casa mia. Ci vediamostasera».

«Tu dove sei?».«Lascia perdere. Ci sentiamo dopo».E abbassò il telefono.«Ti sembra il caso di pensare alle donne in un

momento come questo?».«Antonio, ho detto che puoi darmi del tu, ma adessoti stai allargando».

«Scusa...».«Allora, il bivio è quello laggiù... Dovrebbe esserci

una sterrata sulla destra che sale...».D’estate quei posti dovevano ospitare dei bellissimi

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 pascoli verde smeraldo con mucche placide e tranquilleche ruminavano sotto il sole o riposavano all’ombradegli abeti. Ora c’era solo il puntino nero di qualche

cornacchia che zampettava cercando da mangiare,rivoletti d’acqua che da sotto il manto nevososcendevano sulla strada infangandone i margini, roccespruzzate di bianco, alte, che coprivano il cielo, e chesembravano degli enormi dolci di natale.

«Eccola!».Due pali di legno scorticati piantati in mezzo alla

neve indicavano la presenza di una carraia che salivaverso i monti. Subito a sinistra c’era una casa. Ma eraabitata. Rocco la scartò. «Deve essere su questastradaccia». Rocco accelerò. Le ruote prendevano benee il mezzo correva sicuro sobbalzando sulle asperità deltracciato montano. Fecero una curva e lontano spuntò

un tetto nascosto in mezzo ai rami degli abeti.«È quella?» chiese Antonio.«Può essere».Man mano che si avvicinavano, il tetto divenne una

casetta di un solo piano. Tutta di pietra piantata amezza costa, circondata da rocce e da alberi. La neveintorno era intonsa. Solo i due occhi neri delle finestre

di quell’alpeggio che sembravano guardare inorriditil’avvicinarsi dell’auto. All’improvviso dalla macchiaun gatto rosso attraversò la strada e per poco ilvicequestore non lo investì.

«Cazzo!».«Buono» fece Antonio. «Rosso porta bene. Se era

nero erano problemi».

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Raggiunsero la casa isolata. Scese di corsa soloRocco. Antonio s’era messo alla radio cercando dispiegare agli altri agenti la loro posizione.

Entrare al primo piano fu facilissimo. Solo dellevecchie assi inchiodate che fungevano da portaimpedivano il passaggio. Ma a parte una vecchia cucinaa gas arrugginita, una scala di legno sfondata che

 portava a un sottotetto pieno di ragnatele, non c’eraaltro. Cacche vecchie di uccelli rigavano le pareti.Guardando in alto si vedeva il cielo attraverso le tegolesuperstiti. Rocco girò nel piccolo corridoio. C’era una

 porta semichiusa in mezzo alla sala più grande. Siapriva su delle scale di pietra che portavano al piano disotto. Facendo attenzione a non scivolare, ilvicequestore scese i gradini e arrivò ad una vecchia

 porta di legno chiusa con una catena che bucando il

muro passava dall’altra parte. La catena, come illucchetto, era nuova. Rocco cercò di spingere la porta:«Chiara? Chiara Berguet? Chiara, sei qui?».

«Antonio! Corri!».Il poliziotto siciliano uscì dall’auto. «L’hai trovata?»

urlò correndo verso la casa.

«Vieni!».Lo portò giù davanti alla porta di legno. «’Sta catenaè nuova».

«Chiara?» urlò Scipioni.«Non risponde. Ma è qui, lo so».«Che devo fare?».«Sfonda ’sta cazzo di porta!».

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C’era poco spazio per prendere la rincorsa. Antoniocon due colpetti ne saggiò la resistenza, poi gettò il suometro e 92 e i suoi 94 chili di muscoli sul vecchio legno

che si strappò come una ragnatela. Sull’onda dellaspinta, Antonio precipitò dentro la stanza.

Per terra, con le mani legate a un pezzo di sedia inmezzo a una pozza di sangue, c’era Chiara Berguet!

Il medico era stato rapido e spietato, come solo imedici sanno esserlo. Chiara aveva perso molto sangue,la pressione era sotto le scarpe, insomma un miracoloche non fosse morta. Disidratata al limite dellasopportazione, si doveva solo alla sua giovane età e auna tempra forte e resistente se ancora faceva parte delmondo dei vivi. Una brutta ferita alla coscia sinistra,colpa di una gamba della sedia che rompendosi le si era

infilata nel bicipite femorale. In più, tracce di violenzasessuale. Ora era in terapia intensiva e nessuno potevaneanche avvicinarsi alla porta. Rocco s’era allontanatodando la lieta novella al giudice Baldi e al questore, chesubito aveva indetto una conferenza stampa dalla qualeRocco si defilò semplicemente spegnendo il cellulare efingendo fosse caduta la linea.

Uscendo dall’ospedale dalla finestra aveva vistoarrivare Pietro e Giuliana Berguet. Grazie all’aiuto diun infermiere, riuscì a sgattaiolare da un ingressolaterale, quello dei fornitori, evitandosi così le scenedei ringraziamenti, delle lacrime, degli abbracci. Sigodessero la figlia e tanti saluti.

 Nonostante il buio ormai fosse sceso su Aosta, la sua

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giornata non era ancora finita.«Andiamo, Italo. E dammi una sigaretta!».Italo sorridente accese il motore. «Ce l’abbiamo

fatta, eh?».«Fino a che non arriviamo, ti chiedo un po’ di

silenzio. Sono a pezzi».Italo obbedì e seguitò a guidare.Era arrivata la mazzata. Ormai lo aveva capito. Ogni

volta che Rocco giungeva alla fine di una storia, venivaavvolto da una nebbia scura, come una montagna

 bendata da una nuvola. Se n’era domandato il motivo,ma non riusciva a capirlo. Lui era felice, a volte gliveniva anche la pelle d’oca. Insomma, avevanolavorato e alla fine avevano risolto la cosa. InveceRocco sembrava dispiaciuto. A pezzi.

«Perché fai così?» ormai la loro intimità gli

 permetteva una domanda del genere.«Perché cosa, Italo?».«Perché diventi triste? Cazzo, abbiamo vinto, no?».«Che abbiamo vinto? Ma non lo vedi? Non lo senti?

Ogni volta che hai a che fare con questa gente, conquesta merda, diventi merda anche tu. Sappilo. A pocoa poco, sempre di più, e arriverà un giorno in cui ti

guarderai allo specchio e dirai: ma chi è quest’uomoche ho davanti? E non c’entra la vecchiaia, Italo, io sto parlando di una cosa qui dentro. Muore ogni giorno conquesto schifo. Con questo fango. Non ce la faccio più a

 buttarmi dentro ’sta fogna. Sporcarmi, diventare unaspecie di ratto per mettere le mani addosso a questi qui.

 Non ce la faccio più. Guardami le scarpe. Le vedi?»

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tirò su la destra. Un vecchio copertone abbandonatosull’autostrada. «Questo sono io adesso».

«L’organizzazione aveva base nella pizzeria Posillipoe nel negozio Biribimbi. Avevano messo sotto un saccodi gente con i prestiti. Alla Edil.ber devono essersiinfiltrati grazie all’appoggio di Cristiano Cerruti. Loro

 probabilmente agivano solo per denaro. Poi Cristianodeve aver avuto una crisi di coscienza, un rigurgito e sistava pentendo. Forse, chissà, voleva venire da noi. Maera troppo tardi. Domenico Cuntrera l’ha eliminato ed èsparito. Ora probabilmente ha raggiunto Cutrì a Luganoo chissà dove. Non molleranno la presa, dottore. Non ègente che lascia i lavori a metà».

«Ma almeno la Edil.ber è salva?» chiese il questore.«È salva».

«E mi spieghi quel Max, il ragazzo. Perché parlava indiscoteca con quei due?».«Perché Max ha il padre medico. E al liceo si dà da

fare a smerciare psicofarmaci. È stato lui che ha procurato lo Stilnox, la droga da stupro a Carlo Figus.Serviva per addormentare Chiara».

«La poveraccia sa che è stata stuprata?».

«No, dottore. Io non gliel’ho detto. Probabilmente, serimane viva, non ricorderà più niente. C’è solo una cosache andrebbe fatta, ma io non ho né il potere né le

 prove. È sicuro che dietro tutto questo c’è la Cassa diRisparmio della Vallée. Erano loro a indirizzare chiaveva bisogno da ’sti mafiosi, magari presentandolicome gente per bene».

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«Vuole indagarci sopra?».«Perché no? Ne ho parlato anche al giudice Baldi.

Lui già si sta dando da fare».

«Chi c’è ora alla pizzeria?».«C’è il giudice, qualche agente. Un po’ tutta la

combriccola».«E lei dov’è?».«Nel mio ufficio. È tardissimo e sono a pezzi».«Ho parlato con la Dia. Domani saranno qui. Lei

viene alla conferenza stampa? È importante.Un’associazione di stampo mafioso che operavaallegramente ad Aosta è una notizia che farà saltaresulla sedia i tiggì di mezzo paese!».

«Per pietà, dottor Costa. Mi faccia dormire domani».«Almeno mi lasci una relazioncina».«La farà uno dei miei uomini. Buonanotte».

«Buonanotte, Schiavone».Mise giù la cornetta e si asciugò l’orecchio. Eranotutti nella stanza a guardarlo. «Signori miei, abbiamofatto un ottimo lavoro».

Casella batteva i denti dal freddo. Antonio e Italostavano chiudendo gli occhi per la stanchezza. Curcio ePenzo stravaccati sul divanetto mancava poco che

russassero. Il giovane napoletano invece sembravaappena uscito da una doccia corroborante.«Come ti chiami?».Il giovanotto rispose: «Pietro Miniero».«Pietro Miniero, hai ufficialmente vinto. Ti tocca

scrivere la relazione al questore. Lasciamela sul tavolodomattina».

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«Signorsì» e uscì per primo.«Casella, vai a casa che hai sicuro la febbre. T’avevo

detto di coprirti. Andate anche voi». Curcio e Penzo

lasciarono la stanza dietro Casella.Un guaito, leggero ma percettibile, attraversò l’aria.

«Chi sta male di stomaco?».Italo Antonio e Caterina si guardarono. «Non lo so»

fece Antonio. Rocco guardò Caterina. «Cos’hai lìsotto?».

Caterina aprì la giacca e apparve il cagnolino.Dormiva. «Era dentro una casa su in montagna. Nonavevo cuore a lasciarlo lì».

«Io gliel’ho detto, Rocco, che non doveva, ma lei hainsistito».

Rocco si alzò dalla sedia. Si avvicinò a Caterina.«Puzza».

«Era lercio, bagnato e affamato».«Era lercia, bagnata e affamata. Non lo vedi che èuna femmina?» fece Rocco. Poi allungò le mani e preseil cucciolo in braccio. Quello si svegliò appena, aprì gliocchi e con la lingua veloce come una saetta leccò ilnaso al vicequestore. «Lo tieni?» chiese Rocco.

«Non lo so. In casa non posso. Pensavo forse qualche

associazione...».«Pensavi male. Lo sai come si chiama?».«No» fece Caterina. «È abbandonato, come faccio a

saperlo?».«Si chiama Lupa. Ciao Lupa. Come stai?

Benvenuta!» fece Rocco. La cagnolina, come sel’avesse sentito, lo leccò ancora sul naso. «Vi piace il

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mio nuovo cane?» disse il vicequestore.Caterina sorrise. «Lo prende lei allora?».«Certo, e chi lo molla più. Forza, andate a casa. Italo,

mi aspetto che tu porti Caterina a festeggiare in unristorante vero, e non una robaccia tipo pizzeriaPosillipo!». Italo sorrise. Poi i tre agenti si voltarono

 per andarsene. «Un momento» li richiamò Rocco.«Dove sono Deruta e D’Intino?».

«Non lo sappiamo. È da oggi pomeriggio che nonabbiamo più loro tracce. Non rispondono al telefono eneanche alla radio» fece Caterina. «Che facciamo?».

«Avvertite la forestale e le guide. Forse liritroveranno domattina congelati» e con la sua nuovacompagna in braccio Rocco uscì dall’ufficio con ununico obiettivo: andare a casa a dormire.

Alla luce di un falò, stretti e abbracciati perdifendersi dal freddo dentro un alpeggio diroccato, acirca 1.600 metri di altitudine, D’Intino e Deruta

 battevano i denti e pregavano che il giorno arrivasse prima possibile. La loro macchina, semisepolta in unfosso coperto di neve, riposava sotto il leggero nitoredella luna.

«Questa è l’ultima volta che ti faccio guidare,D’Intino».«Tu non hai niente da mangiare?».Ma Deruta non rispose. Si avvicinò al fuoco e si

stropicciò le mani.

Attraversava le vie del centro deserte a passo spedito

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testa. Fuori era scuro. Era a casa di Anna. S’eraaddormentato di nuovo a casa di Anna.

«Ma porca...» mormorò. Non andava. Così non

andava. Guardò l’ora. Le quattro e mezza. Dovevarivestirsi. Piano, senza far rumore, senza svegliare ladonna che nonostante il ringhio della cagnolinacontinuava a dormire. Appena mise i piedi a terra, Lupacominciò a scodinzolare. «Ce ne andiamo a casa...»disse. Lento andò a prendersi i vestiti dalla poltrona.«Fai la brava e non abbaiare». Mentre si allacciava lescarpe si ricordò di Adele. Sperava solo che si fossemessa nel suo letto e non sul divano. Per dormire erascomodo. Non avrebbe chiuso occhio.

Ma Lupa non si muoveva. Restava accoccolata inmezzo alle coperte, nessuna intenzione di alzarsi.

«Andiamo, Lupa».

Mugolava e scodinzolava col muso poggiato sui piedidi Anna.«Eddai, Lupa».Lupa abbaiò.«No, Lupa, non abbaia...».«Te ne vai?» la voce affondata nel cuscino.«Ah, sei sveglia?».

«Stai scomodo qui?».«Un po’».«È inutile dirti che mi dispiace svegliarmi senza te

accanto».«Svegliarsi è già un bel risultato, non credi?».Un tuono rimbombò lontano.«Ricomincia a piovere. Resta qui».

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Rocco ci pensò su. Buttò l’occhio fuori dalla finestra.Le nuvole s’erano di nuovo radunate sulla città. Forseera più sicuro restare, almeno fino a domattina. Se non

altro era più caldo. E il letto era accogliente. Lupaglielo stava comunicando da ore. Gli occhi tondi eacquosi del cane spensero l’ultimo residuo di dubbio. Sirispogliò e si infilò sotto le coperte.

«Abbracciami, ti prego».Anna aveva i piedi gelati. Li incastrò fra le sue

gambe. Rocco l’abbracciò e tre minuti dopo siaddormentò con Lupa spalmata sulla schiena.

Fuori la pioggia cominciò a battere l’asfalto. Almenoavrebbe sciolto la neve.

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Venerdì

 Freude, schöner Götterfunken 

Tochter aus Elysium, Wir betreten feuertrunken,  Himmlische, dein Heiligtum! 

«Sì... pronto? Pronto?».«Schiavone, sono Baldi. Dov’è?».«Dormo...».

«Sono le nove e mezza!» la voce di Baldi eraeccitata.Rocco si sedette, schiena alla testiera del letto, si

stropicciò la faccia. Lupa dormiva. Anche Anna.«Un momento... mi alzo».«Non ho tempo. Solo una bella notizia. Stanotte

abbiamo fermato Domenico Cuntrera alla frontiera. Ha

tentato la fuga, ma i carabinieri lo hanno inchiodato.Con una borsa di documenti che... insomma ce nesaranno delle belle. Il cretino non se n’era sbarazzato».

«Sono felice, dottore».«Grazie a lei e a me. Una bella cosa. Ora la brutta

notizia».«Mi dica».

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«C’è una conferenza stampa congiunta alle 10 etrenta. Il questore, io, il generale dei carabinieri Tosti eovviamente lei».

Il cervello era ancora in posizione di stallo. L’unicacosa che gli venne in mente fu: «Ho la febbre!», ma ilgiudice si fece una bella risata. «E conduca i suoiuomini. È ora che il loro oscuro lavoro venga portatoalla luce delle telecamere e immortalato sui fogli deiquotidiani che domattina butteremo puntualmente nelcesso! Ci vediamo in procura fra un’ora».

Un’ora. Giusto il tempo di andarsi a fare una doccia,cambiarsi, una colazione veloce da Ettore, passarerapidamente in ufficio, farsi la preghiera laica delmattino e di corsa in procura a rispondere ai giornalisti.Decise che non era il caso di svegliare Anna. Lupainvece lo guardava scodinzolando. «Dobbiamo andare,

 piccola».La neve non c’era più. Al suo posto l’acqua. Molta

acqua. Schiavone avanti, Lupa dietro, svoltaronol’angolo di rue Piave fino ad arrivare al suo portone.

«Adesso conosci Marina» disse alla cucciolottamentre lei beveva da una pozzanghera al lato del

marciapiede. «Vedrai, ti piacerà».Infilò la chiave. Aprì.Qualcosa non andava. Lo capì immediatamente. Era

l’aria. O forse l’odore. Un odore che non sentiva datanto tempo ma che ristagnava sinistro come una nebbiamattutina nell’appartamento.

«Adele? Adele, ci sei?».

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 particolare che aiuta. Il suo orologio era fermo allequattro e mezza. Può essersi fermato autonomamente oforse no, ma è un bell’aiuto». Poi Alberto diede una

 pacca sul ginocchio del vicequestore e tornò al suolavoro.

«Alberto?».«Dimmi».«Trattala bene. La conosco da quando siamo nati».Alberto annuì. E tornò al cadavere.

 Non poteva rinviare oltre. Era arrivato il momento di parlare con Sebastiano. Ma voleva farlo senza nessuntestimone. Si alzò, prese il cellulare e uscì di casa sottolo sguardo triste di Italo e preoccupato di Caterina.Scipioni invece sembrava occupato a bloccare Casellache stava ficcanasando in giro per l’appartamento.

«Seba? Sono Rocco».«Lo so! Me lo dice il display!» l’amico aveva unavoce roca, assente e triste.

«Non ho una bella notizia».«Che succede?».«Hai già parlato con Furio?».«Sì. Perché me lo chiedi? Ti ha detto che Adele è

scomparsa?».«Non è scomparsa».«Tu sai dov’è?».«Sì, lo so. Era venuta da me».Seba rimase in silenzio.«Seba? Mi senti?».«Era? Perché era? Dov’è andata?».

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«Stanotte. Qualcuno le ha sparato. È morta, Seba».«Che cazzo stai a di’? Se è uno scherzo, Rocco, non

mi fa ridere».

La linea cadde. Rocco provò a richiamare. La vocefredda della società telefonica avvertì che l’utentedesiderato non era al momento raggiungibile.

Chiamò Furio.«Rocco? È arrivata Adele? Guarda che Seba...».«Ascolta, Furio. Una cosa tremenda. Chiama subito

Seba, vai a casa sua».«Ma perché? Che cazzo succede?».«Hanno sparato a Adele. Qui a casa mia».«Oh porca...».«Corri, Furio. Corri che Seba si sente male».

La notizia del giorno, come c’era da aspettarsi, non

fu più l’arresto di Domenico Cuntrera detto Mimmoalla frontiera, ma il misterioso omicidio in casa delvicequestore Schiavone. La conferenza stampa in

 procura aveva virato verso quella storia che in pochiminuti aveva catalizzato l’attenzione della città e deitelegiornali in televisione.

Per la prima volta dopo nove mesi, Rocco Schiavone

si ritrovò nella stanza del questore Andrea Costa,seduto davanti alla scrivania del suo capo che aveva ilvolto più pallido di quello del presidente incorniciatosul muro. Era imbarazzato, Costa. Nove mesi diconvivenza con Rocco e quello strano poliziottoromano cominciava a piacergli. Non l’avrebbe maidetto, il primo giorno che si erano incontrati nel

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 parcheggio della questura, quando il vicequestore si presentò con un sorriso spento e gli occhi velati ditristezza. Costa conosceva il passato di Rocco, e il

motivo di quel trasferimento da Roma ad Aosta. Mas’era informato con un collega del Viminale. RoccoSchiavone a Roma aveva fatto anche cose egregie alservizio della polizia di Stato. E ora era lì, davanti a lui,con gli stessi occhi tristi di nove mesi prima.

«Come si chiama?» gli chiese indicando il cane cheteneva in grembo e che s’era addormentato sotto lecarezze di Rocco.

«Lupa».«L’ha trovato?».«L’hanno trovato i miei colleghi mentre cercavamo

Chiara Berguet».«Che razza è?».

«Provi a indovinare. Ne ha talmente tante che ciazzecca di sicuro».«Lo tiene?».«Quando un cane ti trova, lo devi tenere. Non è mai

 per caso se nella vita ne incroci uno. Te lo mandaqualcuno».

«Questo chi gliel’ha mandato?».

«Un sospetto ce l’ho. Ma non posso rivelarglielo».Costa sorrise. «Parliamo di quello che è successo. Haun’idea?».

«No. Al momento no».«Il bersaglio era lei?».«Sicuramente. Adele Talamonti lavora nel bar dei

genitori alla Balduina. Ha la fedina più pulita del papa,

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e che io sappia al massimo una lite condominiale conqualche vicino. Era la fidanzata di Sebastiano Carucci,un mio caro amico».

«Anche lui uno tranquillo?».«No, dottore. Sebastiano ha avuto parecchi guai con

la giustizia».Costa annuì. «Forse era lui il bersaglio?».«Impossibile. Che Adele fosse qui ad Aosta, a casa

mia, lo sapevo solo io, Adele e Furio, altro mio amicodi Roma. Mio e di Sebastiano. Amico fraterno».

«E questo Furio...».«Non ci pensi neanche, dottore. Parliamo di

fratellanze che esistono da più di quarant’anni.Abbiamo diviso tutto. Se c’erano cose da regolare, lerisolvevamo tra noi. Dottor Costa, chi ha scaricato la6.35 su Adele Talamonti pensava di scaricarla su di

me».«È una domanda che le devo fare. Dov’erastanotte?».

«Da Anna. Ho dormito lì».«Perché Adele era da lei, se posso chiederglielo?».«Storie d’amore. Si nascondeva da me in modo che

Sebastiano uscisse pazzo a cercarla e le dimostrasse di

amarla più di se stesso. Una cosa da adolescenti, maSeba e Adele erano un po’ così».Costa cominciò a piegare un foglio di carta. «Lei si

rende conto, dottor Schiavone, che... insomma... nondepone certo a suo favore, e tantomeno a quello dellaquestura di Aosta, che un nostro uomo sia coinvolto inuna storia così...» non trovò un aggettivo adatto «...

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così?».«Me ne rendo conto, ma vorrei ricordarle che in

questo caso io sarei la vittima».

«Lo so, lo so. E questo io proverò a spiegarlo aigiornalai e anche all’Interno. Ma...».

«Ma certo, sarebbe meglio avere un vicequestore pulito che non abbia pendenze con qualcuno, e al qualesoprattutto non sparino agli ospiti in casa».

«L’ha esposto egregiamente».«Cosa vuole che faccia?».«Per ora mi piacerebbe che lei capisse chi è stato. Io

intanto cerco di parare i buchi. Lo sa? Lei ha parecchinemici a Roma».

«Direi».«No, intendo non solo assassini e delinquenti. Anche

al Viminale».

«Sono bipartisan».«E quando verranno a sapere questa cosa, può darsi,e dico solo può darsi, che comincino a fare pressioni

 per trasferirla».«Secondo lei, può andare peggio di Aosta?».«Amico mio, lei potrebbe rimpiangerla Aosta».Rocco annuì. Lupa s’era svegliata.

«Che gli dà da mangiare?».«Ora la porto dal veterinario. Poi si vedrà».«Avevo un cane lupo. Che mangiava come un figlio.

Era un figlio, in realtà. Un angelo».Rocco annuì.«Una cosa però me la deve promettere».«Mi dica».

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«Se prende l’assassino di questa povera Adele, allaconferenza stampa lei ci viene. Senza se e senza ma».

Rocco sorrise. Annuì. Poi si alzò. «Non le stringo la

mano. Puzza di cane».Ma Costa la sua la allungò lo stesso. «Mi porti belle

notizie».«Anche lei, dottore».

Chiuso nel suo ufficio. Non aveva voglia di accendersi lo spinello. Non

aveva voglia di un caffè. Lupa s’era addormentata, cheè poi l’attività primaria dei cuccioli. Bussarono alla

 porta.«Chi è?».«Ernesto!».Era Farinelli. Rocco aprì la porta. «Ciao Ernè...»

disse.Ernesto entrò. «Mi dispiace, Rocco».«Grazie. Siediti».«Ho poco da dirti. Otto colpi, una 6.35, arma poco

comune ma micidiale se usata a breve distanza.L’assassino ha sparato a due metri dal letto».

«Hai scoperto com’è entrato?».

«Sì. Dal balcone. Ha usato la grondaia».«Come fai a esserne sicuro?».«Nella parte centrale abbiamo trovato divelti gli stop

che l’assicuravano al muro del palazzo. Quindi direiuna persona abbondantemente sopra i 70 chili. Abilenello scassinare. I vetri della finestra erano integri. Hausato un aggeggio per aprire la serratura. Lavoretto

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 preciso, uno che sa il fatto suo».Rocco e il sostituto della scientifica si guardarono.«Non ci siamo mai visti con questa frequenza».

«Già...».«Sai chi ce l’ha con te?».«No. Ma l’elenco è lungo».«Io resto ancora ad Aosta per qualche ora. Stavolta

vado io dal giudice. Lo giuro. Ti ha già chiamato?».«No».«Ma hai pensato a qualcuno di quelli del

rapimento?».«Vedi Ernè? Ci sono tre cose che non tornano. La

 prima è che di solito non si muovono con questarapidità. Per fartela pagare si prendono i tempi chedecidono loro. E poi perché salire in casa mia come unladro? Io giro da solo, a piedi, modi per spararmi in

mezzo alla strada ne possono trovare quanti nevogliono. Terzo, manca la firma. Il colpo alla testa. Disolito è così che giustiziano le persone, per essere sicuriche la cosa sia andata in porto. No, questo è entrato, hasparato e manco ha controllato. Non è nessuno che ha ache fare col rapimento. È una testa di cazzo che ce l’hacon me. E che ha paura di mostrare la sua faccia in

giro. Uno che stava dentro, o magari ricercato».«Ci saranno guai per te?».«C’è un’inchiesta. Arriverà un aggiunto che

comincerà a darsi da fare. Cosa vuoi che ti dica?».«Sono a disposizione per qualsiasi dubbio».«Grazie Ernè...».Ernesto per la prima volta strinse la mano di Rocco.

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«La persona che cerchi, è nel tuo passato?».«Già, sta da quelle parti. Solo che è come andare a

mettere il naso in un buco nero e senza fondo».

«Portati un filo rosso».Si sorrisero. «Sì. Tanto è lì che devo andare».L’aveva sempre pensato, l’aveva sempre saputo.

Prima o poi il fango sarebbe tracimato, entrato dallafinestra sporcando tutto. Eccolo, ora ce l’aveva davanti,un mare di fango e merda nel quale tuffarsi, sporcarsi,mimetizzarsi per trovare l’ombra che era entrata in casasua e aveva tolto la vita a Adele Talamonti, 39 anni econ un’aspettativa di vita molto più lunga. Morta percolpa sua. Al posto suo.

La sua maledizione.

Seduto su un muretto, davanti all’ospedale, Rocco

aspettava. Il pomeriggio era calato sulla città e con lui irumori del traffico. Né pioggia né vento, solo unmucchio di nuvole che andavano e venivano senzasosta in mezzo alle cime dei monti. Una Mini Minorcarta da zucchero parcheggiò proprio a pochi passi dalui. Il primo a scendere fu Sebastiano. Poi Furio chechiuse la macchina.

Avanzavano verso di lui. Passo lento. Sebastiano,alto, coi capelli ricci e il corpo di un orso chiuso in uncappottuccio di pelle striminzito. Furio, con gli occhialida sole e la barba sfatta, guanti neri e jeans attillati.Rocco si alzò e gli andò incontro.

Seba allargò le braccia. Lo strinse con una forza datogliere il fiato. Tremava, l’omone, piangeva e si

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stringeva a Rocco neanche fosse l’unica boa in un marein tempesta. Furio si accese una sigaretta. Quando finìl’amplesso dei suoi amici, scambiò anche lui un

abbraccio fraterno con il vicequestore.Piangevano tutti e tre.«Andiamo da Adele» disse Sebastiano.

Alberto aveva aperto la porta della morgue senza direniente. Entrò solo Seba che si avvicinò al cadaverecoperto col lenzuolo. Furio e Rocco rimasero sulla

 porta. Non avevano nessuna voglia di vedere Adele. Lavolevano ricordare da viva. L’anatomopatologo alzò illenzuolo. Rocco vide la schiena dell’amico squassatada un terremoto. Sebastiano prese la mano di Adele, sela portò al volto, la baciò. Poi la rimise a posto. Si girò.

 Non aveva più occhi. Due pozzi neri. Non disse niente.

Uscì dall’obitorio. Rocco scambiò uno sguardo conFumagalli che già aveva ricoperto il corpo di AdeleTalamonti, poi insieme a Furio seguì l’amico.

«La porto a Roma».Seduti su una panchina fumavano e guardavano i

 palazzi.

«Appena le autorità daranno il permesso» disseRocco. «Ci credi che vorrei essere al suo posto?».«Io devo sapere chi cazzo è stato» biascicò fra i denti

Sebastiano.«Può essere qualcuno di qui?» furono le prime parole

di Furio da quando era sbarcato ad Aosta.«No. Non può essere».

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«Roba de Roma?».«Io dico di sì. E che Adele abbia dovuto pagare per le

mie cazzate, mi stronca».

«Per le nostre cazzate. Chi ti dice che non cientriamo anche noi?» fece Furio buttando la sigarettalontano con una schicchera.

«In quel caso avrebbe regolato i conti giù a Roma. Non sarebbe venuto fin qui. Sembra che chiunque abbiaa che fare con me, prima o poi debba pagarne il conto».E Rocco si mise le mani sul viso.

«Adele l’ho uccisa io» disse Sebastiano. «Dovevastare lontana da me. Io lo sapevo. Che gli dico adessoalla madre? A suo padre? Mi sento male. E non riesconeanche a vomitare. Che cosa faccio ora?» ma Sebanon l’aveva chiesto ai suoi amici. Neanche a se stesso.Era difficile capire con chi ce l’avesse. «È difficile

dimenticare, Rocco?».«È molto difficile. È quasi impossibile».«Mi piacerebbe mettere Adele vicino a Marina».«Certo. Le cedo il mio posto».«Giurami che se scopri chi è, lo lasci a me».Rocco non rispose.«Giuramelo!».

Rocco annuì.«Lo voglio sentire, Rocco!».«Te lo giuro, Seba».

Lasciati Sebastiano e Furio al residence, ilvicequestore Schiavone era seduto al bar chalet, davantiall’arco romano. Lupa in braccio dormiva serena.

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li ritrovi più, neanche se ti ci impegni. Fino a quandoanche tu diventerai un ricordo. E allora tutto ti sarà

 più facile». 

«Dammi la mano».  Me la allunga. Lupa vuole scendere. Si sgrulla, si fa

una corsetta. Insegue un piccione che spicca il volo,non lo prende più. Abbaia con voce tenera e acuta.Torna da me. Scodinzola e storce la testa. Fra poco

 sarà buio. Lupa vuole la pappa. 

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Ringraziamenti

Mi corre l’obbligo e il piacere di ringraziare Paola e

Giampi, la mia famiglia (Toni, Laura, Giovanna, Francescoe Marco) prima e severa lettrice del manoscritto, l’acume diValentina, il lavoro prezioso di Mattia, il supportoindispensabile di Marcella, Maurizio, Francesca, Valentina.Un grazie particolare va ad Olivia e Antonio (daje che ce lafacciamo!). Un benvenuto a Emma, la numero 5, e unabbraccio fraterno a Picchio «non-ti-preoccupare-sto-

arrivando», a Pietro «’nfatti» e last but not least a Fabrizio«na-ssediata-nun-te-la-toglie-nessuno».A. M.

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Indice

 Non è stagione 

Lunedì 11 Martedì 70 Mercoledì 149 Giovedì 239 Venerdì 300 Ringraziamenti 317 

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Questo volume è stato stampatosu carta Palatina

delle Cartiere Miliani di Fabrianonel mese di gennaio 2015

 presso la Leva Arti Grafiche s.p.a. – Sesto S. Giovanni (MI)

e confezionato presso I.G.F. s.r.l. – Aldeno (TN)

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 La memoria

Ultimi volumi pubblicati

701 Angelo Morino. Rosso taranta

702 Michele Perriera. La casa703 Ugo Cornia. Le pratiche del disgusto

704 Luigi Filippo d’Amico. L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto

da vicino

705 Giuseppe Scaraffia. Dizionario del dandy

706 Enrico Micheli. Italo

707 Andrea Camilleri. Le pecore e il pastore

708 Maria Attanasio. Il falsario di Caltagirone

709 Roberto Bolaño. Anversa

710 John Mortimer. Nuovi casi per l’avvocato Rumpole

711 Alicia Giménez-Bartlett. Nido vuoto

712 Toni Maraini. La lettera da Benares

713 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Il poliziotto che ride

714 Budd Schulberg. I disincantati

715 Alda Bruno. Germani in bellavista

716 Marco Malvaldi. La briscola in cinque

717 Andrea Camilleri. La pista di sabbia

718 Stefano Vilardo. Tutti dicono Germania Germania719 Marcello Venturi. L’ultimo veliero

720 Augusto De Angelis. L’impronta del gatto

721 Giorgio Scerbanenco. Annalisa e il passaggio a livello

722 Anthony Trollope. La Casetta ad Allington

723 Marco Santagata. Il salto degli Orlandi

724 Ruggero Cappuccio. La notte dei due silenzi

725 Sergej Dovlatov. Il libro invisibile

726 Giorgio Bassani. I Promessi Sposi. Un esperimento

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727 Andrea Camilleri. Maruzza Musumeci

728 Furio Bordon. Il canto dell’orco

729 Francesco Laudadio. Scrivano Ingannamorte

730 Louise de Vilmorin. Coco Chanel

731 Alberto Vigevani. All’ombra di mio padre732 Alexandre Dumas. Il cavaliere di Sainte-Hermine

733 Adriano Sofri. Chi è il mio prossimo

734 Gianrico Carofiglio. L’arte del dubbio

735 Jacques Boulenger. Il romanzo di Merlino

736 Annie Vivanti. I divoratori

737 Mario Soldati. L’amico gesuita

738 Umberto Domina. La moglie che ha sbagliato cugino

739 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’autopompa fantasma740 Alexandre Dumas. Il tulipano nero

741 Giorgio Scerbanenco. Sei giorni di preavviso

742 Domenico Seminerio. Il manoscritto di Shakespeare

743 André Gorz. Lettera a D. Storia di un amore

744 Andrea Camilleri. Il campo del vasaio

745 Adriano Sofri. Contro Giuliano. Noi uomini, le donne e l’aborto

746 Luisa Adorno. Tutti qui con me

747 Carlo Flamigni. Un tranquillo paese di Romagna

748 Teresa Solana. Delitto imperfetto749 Penelope Fitzgerald. Strategie di fuga

750 Andrea Camilleri. Il casellante

751 Mario Soldati. ah! il Mundial!

752 Giuseppe Bonarivi. La divina foresta

753 Maria Savi-Lopez. Leggende del mare

754 Francisco García Pavón. Il regno di Witiza

755 Augusto De Angelis. Giobbe Tuama & C.

756 Eduardo Rebulla. La misura delle cose

757 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Omicidio al Savoy

758 Gaetano Savatteri. Uno per tutti

759 Eugenio Baroncelli. Libro di candele

760 Bill ]ames. Protezione

761 Marco Malvaldi. Il gioco delle tre carte

762 Giorgio Scerbanenco. La bambola cieca

763 Danilo Dolci. Racconti siciliani

764 Andrea Camilleri. L’età del dubbio

765 Carmelo Samonà. Fratelli

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766 Jacques Boulenger. Lancillotto del Lago

767 Hans Fallada. E adesso, pover’uomo?

768 Alda Bruno. Tacchino farcito

769 Gian Carlo Fusco. La Legione straniera

770 Piero Calamandrei. Per la scuola771 Michèle Lesbre. Il canapé rosso

772 Adriano Sofri. La notte che Pinelli

773 Sergej Dovlatov. Il giornale invisibile

774 Tullio Kezich. Noi che abbiamo fatto La dolce vita

775 Mario Soldati. Corrispondenti di guerra

776 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’uomo che andò in fumo

777 Andrea Camilleri. Il sonaglio

778 Michele Perriera. I nostri tempi779 Alberto Vigevani. Il battello per Kew

780 Alicia Giménez-Bartlett. Il silenzio dei chiostri

781 Angelo Morino. Quando internet non c’era

782 Augusto De Angelis. Il banchiere assassinato

783 Michel Maffesoli. Icone d’oggi

784 Mehmet Murat Somer. Scandaloso omicidio a Istanbul

785 Francesco Recami. Il ragazzo che leggeva Maigret

786 Bill ]ames. Confessione

787 Roberto Bolaii.o. I detective selvaggi788 Giorgio Scerbanenco. Nessuno è colpevole

789 Andrea Camilleri. La danza del gabbiano

790 Giuseppe Bonaviri. Notti sull’altura

791 Giuseppe Tornatore. Baarìa

792 Alicia Giménez-Bartlett. Una stanza tutta per gli altri

793 Furio Bordon. A gentile richiesta

794 Davide Camarrone. Questo è un uomo

795 Andrea Camilleri. La rizzagliata

796 ]acques Bonnet. I fantasmi delle biblioteche

797 Marek Edelman. C’era l’amore nel ghetto

798 Danilo Dolci. Banditi a Partinico

799 Vicki Baum. Grand Hotel

800

801 Anthony Trollope. Le ultime cronache del Barset

802 Arnoldo Foà. Autobiografia di un artista burbero

803 Herta Müller. Lo sguardo estraneo

804 Gianrico Carofiglio. Le perfezioni provvisorie

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805 Gian Mauro Costa. Il libro di legno

806 Carlo Flarnigni. Circostanze casuali

807 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. L’uomo sul tetto

808 Herta Müller. Cristina e il suo doppio

809 Martin Suter. L’ultimo dei Weynfeldt810 Andrea Camilleri. Il nipote del Negus

811 Teresa Solana. Scorciatoia per il paradiso

812 Francesco M. Cataluccio. Vado a vedere se di là è meglio

813 Allen S. Weiss. Baudelaire cerca gloria

814 Thornton Wilder. Idi di marzo

815 Esmahan Aykol. Hotel Bosforo

816 Davide Enia. Italia-Brasile 3 a 2

817 Giorgio Scerbanenco. L’antro dei filosofi818 Pietro Grossi. Martini

819 Budd Schulberg. Fronte del porto

820 Andrea Camilleri. La caccia al tesoro

821 Marco Malvaldi. Il re dei giochi

822 Francisco Garía Pavón. Le sorelle scarlatte

823 Colin Dexter. L’ultima corsa per Woodstock

824 Augusto De Angelis. Sei donne e un libro

825 Giuseppe Bonaviri. L’enorme tempo

826 Bill James. Club827 Alicia Giménez-Bartlett. Vita sentimentale di un camionista

828 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. La camera chiusa

829 Andrea Molesini. Non tutti i bastardi sono di Vienna

830 Michèle Lesbre. Nina per caso

831 Herta Miiller. In trappola

832 Hans Fallada. Ognuno muore solo

833 Andrea Camilleri. Il sorriso di Angelica

834 Eugenio Baroncelli. Mosche d’inverno

835 Margaret Doody. Aristotele e i delitti d’Egitto

836 Sergej Dovlatov. La filiale

837 Anthony Trollope. La vita oggi

838 Martin Suter. Com’è piccolo il mondo!

839 Marco Malvaldi. Odore di chiuso

840 Giorgio Scerbanenco. Il cane che parla

841 Festa per Elsa

842 Paul Léautaud. Amori

843 Claudio Coletta. Viale del Policlinico

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844 Luigi Pirandello. Racconti per una sera a teatro

845 Andrea Camilleri. Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta

846 Paolo Di Stefano. La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956

847 Carlo Flamigni. Senso comune

848 Antonio Tabucchi. Racconti con figure849 Esmahan Aykol. Appartamento a Istanbul

850 Francesco M. Cataluccio. Chernobyl

851 Colin Dexter. Al momento della scomparsa la ragazza indossava

852 Simonetta Agnello Hornby. Un filo d’olio

853 Lawrence Block. L’Ottavo Passo

854 Carlos María Domínguez. La casa di carta

855 Luciano Canfora. La meravigliosa storia del falso Artemidoro

856 Ben Pastor. Il Signore delle cento ossa857 Francesco Recami. La casa di ringhiera

858 Andrea Camilleri. Il gioco degli specchi

859 Giorgio Scerbanenco. Lo scandalo dell'osservatorio astronomico

860 Carla Melazzini. Insegnare al principe di Danimarca

861 Bill James. Rose, rose

862 Roberto Bolaño, A. G. Porta. Consigli di un discepolo di Jim

Morrison a un fanatico di Joyce

863 Stefano Benni. La traccia dell’angelo

864 Martin Suter. Allmen e le libellule865 Giorgio Scerbanenco. Nebbia sul Naviglio e altri racconti gialli

e neri

866 Danilo Dolci. Processo all’articolo 4

867 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Terroristi

868 Ricardo Romero. La sindrome di Rasputin

869 Alicia Giménez-Bartlett. Giorni d’amore e inganno

870 Andrea Camilleri. La setta degli angeli

871 Guglielmo Petroni. Il nome delle parole

872 Giorgio Fontana. Per legge superiore

873 Anthony Trollope. Lady Anna

874 Gian Mauro Costa, Carlo Flamigni, Alicia Giménez-Bartlett, Mar-

co Malvaldi, Ben Pastor, Santo Piazzese, Francesco Recami. Un

 Natale in giallo

875 Marco Malvaldi. La carta più alta

876 Franz Zeise. L’Armada

877 Colin Dexter. Il mondo silenzioso di Nicholas Quinn

878 Salvatore Silvano Nigro. Il Principe fulvo

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879 Ben Pastor. Lumen

880 Dante Troisi. Diario di un giudice

881 Ginevra Bompiani. La stazione termale

882 Andrea Camilleri. La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta

883 Tom Stoppard. La sponda dell’utopia884 Bill James. Il detective è morto

885 Margaret Doody. Aristotele e la favola dei due corvi bianchi

886 Hans Fallada. Nel mio paese straniero

887 Esmahan Aykol. Divorzio alla turca

888 Angelo Morino. Il film della sua vita

889 Eugenio Baroncelli. Falene. 237 vite quasi perfette

890 Francesco Recami. Gli scheletri nell’armadio

891 Teresa Solana. Sette casi di sangue e una storia d’amore892 Daria Galateria. Scritti galeotti

893 Andrea Camilleri. Una lama di luce

894 Martin Suter. Allmen e il diamante rosa

895 Carlo Flamigni. Giallo uovo

896 Maj Sjöwall, Per Wahlöö. Il milionario

897 Gian Mauro Costa. Festa di piazza

898 Gianni Bonina. I sette giorni di Allah

899 Carlo María Domínguez. La costa cieca

900901 Colin Dexter. Niente vacanze per l’ispettore Morse

902 Francesco M. Cataluccio. L’ambaradan delle quisquiglie

903 Giuseppe Barbera. Conca d’oro

904 Andrea Camilleri. Una voce di notte

905 Giuseppe Scaraffia. I piaceri dei grandi

906 Sergio Valzania. La Bolla d’oro

907 Héctor Abad Faciolince. Trattato di culinaria per donne

tristi

908 Mario Giorgianni. La forma della sorte

909 Marco Malvaldi. Milioni di milioni

910 Bill James. Il mattatore

911 Esmahan Aykol, Andrea Camilleri, Gian Mauro Costa, Marco

Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami. Capodanno in

giallo

912 Alicia Giménez-Bartlett.Gli onori di casa

913 Giuseppe Tornatore. La migliore offerta

914 Vincenzo Consolo. Esercizi di cronaca

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915 Stanislaw Lem. Solaris

916 Antonio Manzini. Pista nera

917 Xiao Bai. Intrigo a Shanghai

918 Ben Pastor. Il cielo di stagno

919 Andrea Camilleri. La rivoluzione della luna920 Colin Dexter. L’ispettore Morse e le morti di Jericho

921 Paolo Di Stefano. Giallo d’Avola

922 Francesco M. Cataluccio. La memoria degli Uffizi

923 Alan Bradley. Aringhe rosse senza mostarda

924 Davide Enia. Maggio ’43

925 Andrea Molesini. La primavera del lupo

926 Eugenio Baroncelli. Pagine bianche. 55 libri che non ho

scritto927 Roberto Mazzucco. I sicari di Trastevere

928 Ignazio Buttitta. La peddi nova

929 Andrea Camilleri. Un covo di vipere

930 Lawrence Block. Un’altra notte a Brooklyn

931 Francesco Recami. Il segreto di Angela

932 Andrea Camilleri, Gian Mauro Costa, Alicia Giménez-Bartlett,

Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami. Ferrago-

sto in giallo

933 Alicia Giménez-Bartlett. Segreta Penelope934 Bill James. Tip Top

935 Davide Camarrone. L'ultima indagine del Commissario

936 Storie della Resistenza

937 John Glassco. Memorie di Montparnasse

938 Marco Malvaldi. Argento vivo

939 Andrea Camilleri. La banda Sacco

940 Ben Pastor. Luna bugiarda

941 Santo Piazzese. Blues di mezz’autunno

942 Alan Bradley. Il Natale di Flavia de Luce

943 Margaret Doody. Aristotele nel regno di Alessandro

944 Maurizio de Giovanni, Alicia Giménez-Bartlett, Bill James

Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami. Rega-

lo di Natale

945 Anthony Trollope. Orley Farm

946 Adriano Sofri. Machiavelli, Tupac e la Principessa

947 Antonio Manzini. La costola di Adamo

948 Lorenza Mazzetti. Diario londinese

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949 Gian Mauro Costa, Alicia Giménez-Bartlett, Marco Malval-

di, Antonio Manzini, Francesco Recami. Carnevale in giallo

950 Marco Steiner. Il covo di pietra

951 Colin Dexter. Il mistero del terzo miglio

952 Jennifer Worth. Chiamate la levatrice953 Andrea Camilleri. Inseguendo un’ombra

954 Nicola Fantini, Laura Pariani. Nostra Signora degli scorpioni

955 Davide Camarrone. Lampaduza

956 José Roman. Chez Maxim’s. Ricordi di un fattorino

957 Luciano Canfora. 1914

958 Alessandro Robecchi. Questa non è una canzone d’amore

959 Gian Mauro Costa. L’ultima scommessa

960 Giorgio Fontana. Morte di un uomo felice961 Andrea Molesini. Presagio

962 La partita di Pallone. Storie di calcio

963 Andrea Camilleri. La piramide di fango

964 Beda Romano. Il ragazzo di Erfurt

965 Anthony Trollope. Il Primo Ministro

966 Francesco Recami. Il caso Kakoiannis-Sforza

967 Alan Bradley. A spasso tra le tombe

968 Claudio Coletta. Amstel blues

969 Alicia Giménez-Bartlett, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, FrancescoRecami, Alessandro Robecchi, Gaetano Savatteri. Vacanze in giallo

970 Carlo Flamigni. La compagnia di Ramazzotto

971 Alicia Giménez-Bartlett. Dove nessuno ti troverà

972 Colin Dexter. Il segreto della camera 3

973 Adriano Sofri. Reagì Mauro Rostagno sorridendo

974 Augusto de Angelis. Il canotto insanguinato

975 Esmahan Aykol. Tango a Istanbul

976 Josefina Aldecoa. Storia di una maestra

977 Marco Malvaldi. Il telefono senza fili

978 Franco Lorenzoni. I bambini pensano grande

979 Eugenio Baroncelli. Gli incantevoli scarti. Cento romanzi di cento parole

980 Andrea Camilleri. Morte in mare aperto e altre indagini del giovane

Montalbano

980 Ben Pastor. La strada per Itaca

982 Esmahan Aykol, Alan Bradley, Gian Mauro Costa, Maurizio de

Giovanni, Nicola Fantini e Laura Pariani, Alicia Giménez-Bartlett,

Francesco Recami. La scuola in giallo

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8/18/2019 Antonio Manzini - Non è Stagione

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Il terzo romanzo della serie di RoccoSchiavone,  Non è stagione, è un noirdi azione. Ma è insieme il vividoritratto di un uomo prigioniero deldestino. Un personaggio tragico,

complesso e consapevole.

Antonio Manzini, attore e sceneg-giatore, ha pubblicato i romanzi

Sangue marcio  e  La giostra deicriceti. La serie con Rocco Schia-vone è iniziata con il romanzo  Pista

nera (Sellerio, 2013) cui è seguito La

costola di Adamo (Sellerio, 2014).