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CLAIRE BISHOP Antagonismo ed Estetica Relazionale OCTOBER 110, Fall 2004, pp. 51–79. © 2004 October Magazine, Ltd. and Massachusetts Institute of Technology. Il Palais de Tokyo In occasione della sua apertura nel 2002, il Palais de Tokyo doveva immediatamente apparire diverso agli occhi del visitatore rispetto ad altri spazi dedicati all'arte contemporanea inaugurati di recente in Europa. Nonostante il budget di 4,75 milioni di euro messo a disposizione per la conversione dell’ex padiglione giapponese creato per la Fiera Mondiale del 1937 in uno "spazio per la creazione contemporanea", la maggior parte dei fondi è stata utilizzata per rafforzare (piuttosto che per rinnovare) la parte strutturale dell'edificio. 1 Al posto di pareti bianche, pavimenti in legno e luci installate in modo discreto, l'interno è stato lasciato nudo e incompiuto. Si tratta di una decisione importante, in quanto riflesso di un aspetto chiave dell’ethos curatoriale di questo spazio espositivo sotto la codirezione di Jerôme Sans, critico d'arte e curatore, e Nicolas Bourriaud, ex curatore del CAPC di Bordeaux e direttore della rivista Documents sur l'art. Il Palais de Tokyo, col suo aspetto improvvisato in rapporto all'ambiente circostante, è successivamente diventato paradigmatico di una chiara tendenza, diffusa tra gli spazi espositivi europei, alla riconcettualizzazione di quel modello espositivo per l’arte contemporanea conosciuto come "cubo bianco", per una sua ridefinizione come studio o "laboratorio" sperimentale. 2 Esso segue quindi la tradizione di quelle che Lewis 1 Sito web del Palais de Tokyo, "site de création contemporaine", <http://www.palaisdetokyo.com>. 2 Per esempio, Nicolas Bourriaud scrive del Palais de Tokyo: "Vogliamo essere una sorta di Kunstverein interdisciplinare - più laboratorio che museo" (citato in “Public Relations: Bennett Simpson talks with Nicolas Bourriaud”, Artforum [aprile 2001], p.48); Hans Ulrich Obrist: "La mostra veramente contemporanea dovrebbe esprimere la possibilità della connessione interpersonale e offrire delle proposte. E, forse sorprendentemente, tale mostra dovrebbe riconnettersi con gli anni in cui le pratiche espositive erano pensate come un laboratorio, nel ventesimo secolo. . . La mostra veramente contemporanea, con la sua sorprendente qualità di non-finitezza ed incompletezza, dovrebbe scatenare una partecipazione pars pro toto" (Obrist, "Battery, Kraftwerk and Laboratory", in Words of Wisdom: A Curator’s Vade Mecum on Contemporary Art, a cura di Carin Kuoni [New York: Indipendent Curators 1

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Traduzione in italiano del saggio "Antagonism and Relational Aesthetics" di Claire Bishop. Lo status di bozza si riferisce in particolare alle note, che sono incomplete.

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CLAIRE BISHOP

Antagonismo ed Estetica Relazionale OCTOBER 110, Fall 2004, pp. 51–79. © 2004 October Magazine, Ltd. and Massachusetts Institute of Technology.

Il Palais de Tokyo

In occasione della sua apertura nel 2002, il Palais de Tokyo doveva immediatamente apparire diverso agli occhi del visitatore rispetto ad altri spazi dedicati all'arte contemporanea inaugurati di recente in Europa. Nonostante il budget di 4,75 milioni di euro messo a disposizione per la conversione dell’ex padiglione giapponese creato per la Fiera Mondiale del 1937 in uno "spazio per la creazione contemporanea", la maggior parte dei fondi è stata utilizzata per rafforzare (piuttosto che per rinnovare) la parte strutturale dell'edificio.1 Al posto di pareti bianche, pavimenti in legno e luci installate in modo discreto, l'interno è stato lasciato nudo e incompiuto. Si tratta di una decisione importante, in quanto riflesso di un aspetto chiave dell’ethos curatoriale di questo spazio espositivo sotto la codirezione di Jerôme Sans, critico d'arte e curatore, e Nicolas Bourriaud, ex curatore del CAPC di Bordeaux e direttore della rivista Documents sur l'art. Il Palais de Tokyo, col suo aspetto improvvisato in rapporto all'ambiente circostante, è successivamente diventato paradigmatico di una chiara tendenza, diffusa tra gli spazi espositivi europei, alla riconcettualizzazione di quel modello espositivo per l’arte contemporanea conosciuto come "cubo bianco", per una sua ridefinizione come studio o "laboratorio" sperimentale.2 Esso segue quindi la tradizione di quelle che Lewis Kachur ha descritto come le "mostre ideologiche" delle avanguardie storiche (come il Salone Dada Internazionale del 1920 e la Mostra Internazionale Surrealista del 1938), in cui la disposizione delle opere aveva l'intento di rafforzare o di incarnare le idee in esse contenute.3

I curatori dediti alla promozione di questo paradigma dello spazio "laboratorio" - tra cui Maria Lind, Hans Ulrich Obrist, Barbara van der Linden, Hou Hanru e Nicolas Bourriaud – sono

1 Sito web del Palais de Tokyo, "site de création contemporaine", <http://www.palaisdetokyo.com>. 2 Per esempio, Nicolas Bourriaud scrive del Palais de Tokyo: "Vogliamo essere una sorta di Kunstverein

interdisciplinare - più laboratorio che museo" (citato in “Public Relations: Bennett Simpson talks with Nicolas Bourriaud”, Artforum [aprile 2001], p.48); Hans Ulrich Obrist: "La mostra veramente contemporanea dovrebbe esprimere la possibilità della connessione interpersonale e offrire delle proposte. E, forse sorprendentemente, tale mostra dovrebbe riconnettersi con gli anni in cui le pratiche espositive erano pensate come un laboratorio, nel ventesimo secolo. . . La mostra veramente contemporanea, con la sua sorprendente qualità di non-finitezza ed incompletezza, dovrebbe scatenare una partecipazione pars pro toto" (Obrist, "Battery, Kraftwerk and Laboratory", in Words of Wisdom: A Curator’s Vade Mecum on Contemporary Art, a cura di Carin Kuoni [New York: Indipendent Curators International, 2001], p. 129); in un telesimposio sul progetto Laboratorium di Barbara van der Linden e Hans Ulrich Obrist (Anversa, 2000), i curatori descrivono la loro preferenza per la parola "laboratorio", perché è "neutrale" e "ancora intatta, non contaminata dalla scienza" ("Laboratorium is the answer, what is the question?", TRANS 8 [2000], p. 114). La metafora del laboratorio si incontra anche nelle visioni di alcuni artisti per le proprie mostre. Ad esempio, Liam Gillick, parlando della sua mostra personale allla galleria Arnolfini di Bristol, osserva che essa sia “una situazione simile ad un laboratorio o un'officina in cui è possibile sperimentare combinazioni di idee, esercitare processi critici relazionali e comparativi" (Gillick citato in Liam Gillick: Renovation Filter: Recent Past and Near Future [Bristol: Arnolfini, 2000], p. 16). Le opere di Rirkrit Tiravanija sono spesso descritte in termini analoghi: esse sarebbero "come un laboratorio per il contatto umano" (Jerry Saltz, "Resident Alien", The Village Voice, 7-14 luglio 1999, s.p.), o "esperimenti psico-sociali, dove si creano situazioni di incontro, scambio, eccetera" (Maria Lind, "Letter and event”, Paletten 223 [aprile 1995], p. 41). Va osservato che "laboratorio" in questo contesto non definisce esperimenti psicologici o comportamentali sullo spettatore, ma si riferisce piuttosto alla sperimentazione creativa nei confronti delle modalità espositive convenzionali.

3 Lewis Kachur, Displaying the Marvelous: Marcel Duchamp, Salvador Dalì and the Surrealist Exhibition (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2001). ?

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stati in larga misura stati incoraggiati ad adottare tale modus operandi curatoriale in reazione diretta al tipo di arte prodotta negli anni '90: opere aperte, interattive e resistenti all'idea di conclusione, dall'aspetto più di situazioni "work-in-progress" che di oggetti finiti. Tali opere sembrano derivare da una lettura equivoca e creativa della teoria post-strutturalista: non sono le interpretazioni di un'opera d'arte ad essere aperte ad una costante rivalutazione, bensì si sostiene che sia l'opera d'arte stessa ad rimanere in un perpetuo stato di flusso. Tale idea presenta diversi problemi, non da ultima la difficoltà di discernere un'opera la cui identità è volutamente instabile. Un altro problema è la facilità con cui il "laboratorio" diventa commerciabile come spazio di svago e di intrattenimento. Luoghi come il Baltic di Gateshead, il Kunstverein di Monaco di Baviera, e il Palais de Tokyo usano metafore come "laboratorio", "cantiere" e "fabbrica d'arte" per differenziarsi dai musei basati sulle proprie collezioni permanenti e appesantiti dalla burocrazia; i loro project spaces dedicati generano un richiamo basato sull'idea di creatività e sull'aura di avanguardia nel campo della produzione contemporanea.4 Si potrebbe obiettare che in questo contesto, opere basate su progetti in-progress e residenze d'artista inizino a svilupparsi in parallelo ai precetti dell'"experience economy", strategia di marketing basata sulla sostituzione di beni e servizi con “esperienze personali” messe in scena seguendo un copione.5 Ma ciò che si suppone lo spettatore debba ricavare da una tale "esperienza" della creatività, che è essenzialmente una versione istituzionalizzata dell'attività artistica d'atelier, è spesso poco chiaro.

Connessa a questa tendenza a delegare parte della programmazione espositiva ai "laboratori" è la moda di invitare artisti contemporanei a progettare o intervenire sulle zone di servizio aggiunti del museo, ad esempio il bar (Jorge Pardo al K21 di Düsseldorf; Michael Lin al Palais de Tokyo, Liam Gillick alla Whitechapel Art Gallery di Londra) o la sala di lettura (Apolonia Sustersic al Kunstverein di Monaco di Baviera, o il programma stagionale "Le Salon" al Palais de Tokyo), e a sua volta di presentare questi interventi come opere d'arte.6 In ultima analisi, questa insistente promozione dell'idea di artista-designer, di funzionalità più che di contemplazione e di apertura più che di risoluzione estetica ha spesso l'effetto di accrescere lo status del curatore, che si prende il merito della messa in scena dell'intera esperienza del laboratorio. Come già' ammoni' Hal Foster a metà degli anni Novanta, "l'istituzione può oscurare l'opera che intende altrimenti valorizzare: essa stessa diventa lo spettacolo e accumula il capitale culturale, mentre il regista-curatore diviene protagonista."7 E' tenendo a mente questa situazione che intendo concentrarmi sul Palais de Tokyo come punto di partenza per un'indagine più' approfondita di alcuni dei valori attribuiti all'opera d'arte “aperta” e semifunzonale, poiché uno dei codirettori del Palais de Tokyo, Nicolas Bourriaud, ne è anche il teorico di punta.

Estetica Relazionale

4 Sotto la direzione di Sune Nordgren, la galleria Baltic di Gateshead ha organizzato tre spazi per studi di artisti, detti "AIR" (Artist-in-Residence), ma questi erano aperti al pubblico solo quando l'artista residente lo volesse; spesso il pubblico si è trovato a credere alla descrizione del Baltic come "fabbrica d'arte" solo sulla fiducia. Il Palais de Tokyo, invece, conta fino a dieci artisti in residenza presenti in maniera costante. Il Kunstverein di Monaco di Baviera, sotto la cura di Maria Lind, ha perseguito un tipo diverso di visibilità della produzione: il rifacimento dell'ingresso della galleria ad opera di Apolonia Sustersic comprendeva una "stazione di lavoro", in cui i membri dello staff curatoriale (compresa la Lind) potessero a turno sedere alla reception della galleria, continuando a lavorare ai propri progetti in pubblico.

5 B. Joseph Pine II and James H. Gilmore, The Experience Economy: Work is Theatre and Every Business a Stage (Boston, Harvard Business School Press, 1999). Il Baltic si presenta come "un sito per la produzione, la presentazione e la fruizione dell'arte contemporanea" attraverso "una forte enfasi su commissioni, inviti agli artisti e l'opera di artisti residenti" (www.balticmill.com).

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Esthétique Rélationnel è il titolo di una raccolta di saggi, pubblicata nel 1997, in cui Bourriaud tenta di definire la produzione artistica degli anni Novanta. Poiché finora i tentativi di fornire una panoramica dell'arte degli anni Novanta sono stati pochissimi, in particolare in Gran Bretagna dove la discussione ha ruotato miopicamente intorno al fenomeno degli Young British Artists (YBA), il libro di Bourriaud rappresenta un primo importante passo verso l'individuazione delle tendenze recenti dell'arte contemporanea. Esso è inoltre comparso in un momento in cui l’ambiente universitario in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sembrava riluttante a passare dagli intenti politici e dalle battaglie intellettuali dell’arte degli anni Ottanta (persino, per molti, degli anni Sessanta), e condannava tutta l’arte presente, dalle installazioni alla pittura ironica, come una celebrazione depoliticizzata della superficie, in complicità con la società dello spettacolo dei consumi. Il libro di Bourriaud - scritto dal punto di vista ravvicinato del curatore - prometteva di ridefinire l’ideologia della critica d'arte contemporanea, avendo come premessa l’idea che queste opere non possano più essere interpretate attraverso lo "scudo protettivo" della storia dell'arte degli anni Sessanta e dei suoi valori. Bourriaud cerca di offrire nuovi criteri attraverso cui affrontare queste opere d'arte spesso opache, pur sostenendo di non essere meno politicizzate dei propri precursori degli anni Sessanta.8

Per esempio, Bourriaud sostiene che l'arte degli anni Novanta abbia come orizzonte teorico "il regno delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico indipendente e privato" (ER, p. 14). In altre parole, le opere d'arte relazionali cercherebbero di stabilire incontri intersoggettivi (siano questi letterali o potenziali) in cui significato viene elaborato collettivamente (ER, p. 18) piuttosto che nello spazio privato dei consumi individuali. L'implicazione è che queste opere rovescino gli obiettivi del modernismo greenberghiano.9 Piuttosto che un’opera d'arte discreta, portatile, autonoma, che trascende il suo contesto, l'opera d’arte relazionale è interamente dipendente dalle contingenze del suo ambiente e del suo pubblico. Inoltre, questo pubblico viene visto come una comunità: invece di stabilire una relazione univoca tra opera e osservatore, l'arte relazionale creerebbe delle situazioni che non solo si rivolgono agli spettatori come un'entità collettiva e sociale, ma che effettivamente forniscono loro gli strumenti per creare una comunità, per quanto temporanea o utopica.

E 'importante sottolineare, tuttavia, che Bourriaud non considera l'estetica relazionale semplicemente come una teoria dell'arte interattiva. Egli ritiene che sia un modo di collocare la pratica artistica contemporanea all'interno della cultura in senso generale: l'arte relazionale è considerata come una risposta diretta al passaggio da un'economia mercantile a una basata sullo scambio di servizi.10 Essa e' vista anche come una risposta alle relazioni virtuali tipiche di Internet e del mondo globalizzato, che da un lato generano il desiderio per un tipo di interazione più fisico e faccia-a-faccia tra le persone, mentre dall'altro ispirano gli artisti ad adottare un approccio fai-da-te e a modellare da se' i propri "universi possibili" (ER, p. 13). Quest'enfasi sull'idea di immediatezza è un lascito degli anni Sessanta, che ricorda l'enfasi posta dalla performance art sull'autenticità dell'incontro diretto con il corpo dell'artista. Ma Bourriaud ci tiene a differenziare le pratiche contemporanee da quelle delle generazioni precedenti. La differenza principale, nella sua ottica, è il diverso atteggiamento nei confronti dell'idea di cambiamento sociale: anziché porsi obiettivi "utopici", oggi gli artisti cercano piuttosto di trovare soluzioni provvisorie nell'hic et nunc; invece di cercare di cambiare il loro ambiente, gli artisti di oggi semplicemente "imparano ad abitare il mondo in modo migliore"; invece di guardare avanti verso un futuro utopico, questo tipo di arte

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instaura "microtopie" funzionanti nel presente (ER, p. 13). Bourriaud sintetizza eloquentemente questo nuovo atteggiamento in una frase: "Sembra più urgente inventare possibili relazioni con i nostri vicini nel presente piuttosto che scommettere su dei futuri più' felici" (ER, p. 45). Questo ethos delle microtopie fai-da-te è ciò che Bourriaud considera il significato politico essenziale dell'estetica relazionale.

Bourriaud nomina molti artisti nel suo libro, la maggior parte dei quali europei, e molti dei quali inclusi nella celebre mostra Traffic, da lui organizzata al CAPC di Bordeaux nel 1993. Alcuni artisti sono citati con una regolarità metronomica: Liam Gillick, Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Pierre Huyghe, Carsten Holler, Christine Hill, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan e Jorge Pardo, i quali saranno senz'altro familiari a chiunque abbia frequentato il crescente circuito internazionale delle Biennali, Triennali e Manifesta negli ultimi dieci anni. L'operare di questi artisti è diverso sotto diversi aspetti da quello dei loro più noti coetanei, gli YBA. A differenza delle opere in se' concluse (e formalmente tradizionali) dei britannici, con i loro accessibili riferimenti alla cultura di massa, le pratiche degli artisti europei sono caratterizzate da un impatto visivo piuttosto discreto, facendo uso tra l'altro fotografie, video, testi applicati alle pareti, libri, oggetti posti in modo da essere utilizzati, ed elementi lasciati sul posto a seguito di un evento inaugurale. Si tratta essenzialmente del formato dell'arte d'installazione, ma molti di questi artisti esiterebbero ad utilizzare tale termine; piuttosto che mettere in atto un trasformazione coerente e radicale dello spazio (alla maniera delle "installazioni totali" di Ilya Kabakov, una messa in scena teatrale), le opere d'arte relazionale insistono più sull'uso che sulla contemplazione.11 E, a differenza delle personalità caratterizzate in modo fortemente individuale degli Young British Artists, è spesso difficile distinguere l'autore di una particolare opera d'arte "relazionale", in quanto questi artisti tendono a fare uso di forme culturali esistenti – incluse altre opere d'arte - e a remixarle come farebbe un DJ o un programmatore informatico.12

Inoltre, molti degli artisti discussi da Bourriaud hanno collaborato tra di loro, confondendo ulteriormente le tracce del proprio status autoriale individuale. Molti hanno anche curato opere di altri - come il “filtraggio” operato da Liam Gillick sulla mostra What If: Art on the Verge of Architecture and Design a cura di Maria Lind (Moderna Museet, Stoccolma, 2000) e la mostra Utopia Station, co-curata da Tiravanija con Hans Ulrich Obrist e Molly Nesbit all'interno della Biennale di Venezia del 2003.13 Desidero ora concentrarmi sull'attività di due artisti in particolare, Tiravanija e Gillick, dal momento che Bourriaud li ritiene entrambi esempi paradigmatici della sua idea di "estetica relazionale".

Rirkrit Tiravanija è un artista di New York, nato a Buenos Aires nel 1961 da genitori tailandesi e cresciuto in Thailandia, Etiopia e Canada. Egli è conosciuto per le sue ibride installazioni/performance, in cui cucina verdure al curry o pad thai per i visitatori del museo o della galleria dove è stato invitato a lavorare. In Untitled (Still), creata per la 303 Gallery di New York (1992), Tiravanija ha trasferito nello spazio espositivo principale tutto ciò che si trovasse all'interno dell'ufficio e del magazzino della galleria - incluso il direttore, costretto a lavorare in pubblico, tra gli odori dei cibi preparati dall'artista ed i suoi consumatori. Nel magazzino quest'ultimo aveva infatti organizzato ciò che e' stato descritto da un critico come una "cucina improvvisata per rifugiati", con piatti di carta, coltelli e forchette di plastica, fornelli a gas, utensili da cucina, due tavolini e alcuni sgabelli pieghevoli.14 Nella galleria Tiravanija cucinava curry per i visitatori, ed i

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detriti, gli utensili e gli incarti dei cibi venivano poi lasciati in mostra ogni volta che l'artista non fosse presente. Diversi critici, e Tiravanija stesso, hanno osservato che questo coinvolgimento del pubblico è in effetti l'obiettivo principale del suo lavoro: il cibo non rappresenta che il mezzo attraverso cui viene a svilupparsi un rapporto conviviale tra pubblico e artista.15

Alla base di gran parte della pratica di Tiravanija si trova un desiderio non solo di erodere la distinzione tra spazio istitituzionale e spazio sociale, ma anche di quello tra artista e spettatore; l'espressione "un sacco di persone" compare regolarmente sulle sue liste dei materiali di un'opera. Alla fine degli anni Novanta, Tiravanija si e' concentrato in maniera crescente sulla creazione di situazioni in cui il pubblico potesse produrre da se' le proprie opere. Una versione più elaborata dell'installazione / performance della 303 Gallery è stata messa in scena con Untitled (Tomorrow Is Another Day) al Kunstverein Koelnischer (1996). Qui Tiravanija ha costruito una replica in legno del suo appartamento di New York, aperta al pubblico 24 ore al giorno. Il pubblico poteva utilizzare liberamente la cucina, lavarsi nel suo bagno, dormire nella camera da letto, o passare del tempo in compagnia e chiacchierare nel salotto. Il catalogo che accompagna il progetto al Kunstverein cita una selezione di articoli di giornale e recensioni, i quali ribadiscono unanimemente le parole del curatore secondo le quali "questa combinazione unica di arte e vita offriva un'esperienza coinvolgente di vicinanza e comunione."16 Benché i materiali utilizzati da Tiravanija nelle sue opere siano diventati nel tempo più vari, l'enfasi rimane sempre sull'uso più che sulla contemplazione. Per Pad Thai, un progetto alla galleria De Appel di Amsterdam, nel 1996, egli ha messo a disposizione in una sala una serie di chitarre elettriche amplificate e una batteria, invitando i visitatori ad imbracciare gli strumenti e creare la propria musica. Pad Thai comprendeva inizialmente anche una proiezione del film Sleep di Andy Warhol (1963), e versioni successive includevano invece un film di Marcel Broodthaers girato allo Speaker's Corner di Hyde Park, a Londra (in cui l'artista scrive su una lavagna "voi siete tutti artisti").

In un progetto a Glasgow, intitolato Cinema Liberté (1999), Tiravanija ha chiesto al pubblico locale di nominare i loro film preferiti, proiettati poi all'aperto all'incrocio di due strade di Glasgow. Come ha scritto Janet Kraynak, anche se i progetti “smaterializzati” di Tiravanija rilanciano strategie critiche tipiche degli anni Sessanta e Settanta, si può obiettare che, nel contesto del modello economico della globalizzazione oggi dominante, la sua ubiquità itinerante non metta in discussione tale logica economica attraverso un meccanismo autoriflessivo, ma che semplicemente la riproduca.17 Tiravanija è una delle figure più affermate, influenti e onnipresenti sul circuito internazionale dell'arte, e le sue opere sono state cruciali per lo sviluppo sia dell'estetica relazionale come teoria che del desiderio curatoriale per le mostre "aperte", di "laboratorio".

Il mio secondo esempio è l'artista inglese Liam Gillick, nato nel 1964. L'opera di Gillick è interdisciplinare: i suoi interessi, caratterizzati da un forte fondo teorico, prendono la forma di sculture, installazioni, design grafico, cura di progetti espositivi, critica d'arte e narrativa. Uno dei temi dominanti nelle sue opere, a prescindere dal medium, è la produzione di “rapporti” (in particolare rapporti sociali) all'interno di un dato ambiente. I suoi primi lavori hanno la forma di indagini sullo spazio tra scultura e design funzionale. Alcuni esempi includono Pinboard Project (1992), una bacheca con elementi mobili da selezionare ed affiggere alla sua superficie, incluse le istruzioni per l'uso dell'opera stessa ed un invito ad abbonarsi ad alcune riviste specializzate, e Prototype Erasmus Table # 2 (1994), un tavolo "progettato per riempire quasi tutta una stanza" e concepito come "un luogo di lavoro dove possa finire di lavorare al libro Erasmus is Late"

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(pubblicato poi da Gillick nel 1995), ma anche a disposizione di altre persone "per il deposito e l'esibizione di opere sopra, sotto o attorno ad esso."18

Dalla metà degli anni Novanta, Gillick diviene famoso per le sue opere tridimensionali simili ad oggetti di design: schermi e piattaforme sospese, in alluminio e plexiglas colorato, spesso esposti insieme a testi e disegni geometrici dipinti a parete. Il linguaggio attraverso cui Gillick descrive queste opere sottolinea il loro valore d'uso potenziale, ma in un modo che nega loro con cura ogni funzione specifica: il significato di ciascun oggetto è così esagerato da sembrare allo stesso tempo una parodia tanto delle pretese del design modernista quanto della terminologia della consulenza manageriale. Discussion Island: Projection Think Tank (1997), un cubo in plexiglas di 120 x 120 cm aperto sul lato superiore, viene descritto come "un'opera che può essere utilizzata come un oggetto che possa significare un zona delimitata per la considerazione dello scambio, del trasferimento di informazioni e della strategia", mentre Big Conference Centre Legislation Screen (1998), uno schermo in plexiglas colorato di 3 x 2 m, "aiuta a definire un luogo in cui le azioni individuali siano limitate da regole imposte dalla comunità nel suo insieme.”19

Le strutture “di design” di Gillick sono state descritte come costruzioni che "ricordano spazi per uffici, pensiline degli autobus, sale riunioni e mense aziendali", ma devono molto anche alla scultura minimalista e all'arte d'installazione post-minimalista (Donald Judd e Dan Graham in testa).20 Ma le sculture di Gillick operano diversamente da quelle dei suoi predecessori storici: mentre i parallelepipedi modulari di Judd hanno lo scopo di rendere l'osservatore consapevole del proprio movimento fisico intorno all'opera, richiamando allo stesso tempo l'attenzione sullo spazio in cui questa è esibita, per Gillick gli spettatori possono limitarsi a "dare semplicemente le spalle all'opera e conversare tra di loro".21 Piuttosto che lasciare che lo spettatore "completi" l'opera, alla maniera dei corridoi di Bruce Nauman o delle videoinstallazioni di Graham degli anni Settanta, Gillick persegue uno stato di costante apertura ad ogni possibilità, in cui la sua arte serva da sfondo per altre attività. Secondo l'artista essa "non necessariamente funziona al meglio come oggetto di riflessione in sé, […] a volte è più uno sfondo o una decorazione che un puro veicolo di contenuti".22 I titoli delle opere di Gillick riflettono questo distacco dall'immediatezza critica dell'arte degli anni Settanta attraverso l'uso ironico di un blando gergo manageriale: Discussion Island, Arrival Rig, Dialogue Platform, Regulation Screen, Delay Screen e Twinned Renegotiation Platform.23 Queste allusioni al linguaggio aziendale differenziano chiaramente tali opere da quelle di Graham, le quali sottolineano piuttosto il modo in cui materiali architettonici dall'aspetto neutrale (come vetro, specchio e acciaio) vengano utilizzati dai poteri statali ed economici per esercitare una forma di controllo politico. Per Gillick, il compito non è quello di scagliarsi contro tale istituzioni, ma piuttosto di trovare modi per migliorarle.24 Un termine a cui Gillick ricorre frequentemente è

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"scenario" [nel senso di “situazione”, NdT], e in un certo senso la sua intera produzione è governata dall'idea di “scenario thinking" come sistema per programmare cambiamenti nel mondo: non una critica mirata della realtà presente, bensì un modo "per esaminare la misura in cui un intervento critico sia possibile o meno".25 Vale la pena notare che, sebbene la sua scrittura sia frustrantemente sfuggevole - piena di differimenti e di possibilità, piuttosto che presente e reale -, Gillick è stato invitato ad intervenire sul design di progetti concreti, come un sistema di controllo del traffico per la Porsche a Stoccarda e il design di un interfono per un complesso abitativo di Bruxelles. Tipico della sua generazione, Gillick non vede alcun conflitto tra questo genere di progetti e mostre convenzionali nel "cubo bianco" delle gallerie d'arte contemporanea, ma percepisce entrambi i canali come modalità per continuare la sua indagine su ipotetici "scenari" futuri. Piuttosto che determinare un risultato specifico, Gillick è pronto ad innescare alternative aperte, a cui altri possano contribuire. Il dialogo, il compromesso, è ciò che gli interessa di più.

Ho scelto di presentare gli esempi di Gillick e Tiravanija perché mi sembrano l'espressione più chiara della tesi di Bourriaud, secondo la quale l'arte relazionale considera le relazioni intersoggettive al di sopra della contemplazione distaccata. Tiravanija insiste sul fatto che lo spettatore sia fisicamente presente in una particolare situazione e in un particolare momento – per mangiare il cibo cucinato dall'artista, assieme ad altri visitatori, in una situazione condivisa. Gillick allude a relazioni più ipotetiche, che in molti casi non hanno nemmeno necessità di essere messe in atto nella realtà, ma l'artista insiste comunque che la presenza del pubblico sia una componente essenziale della sua arte. Come ha dichiarato egli stesso, "la mia opera è come la luce in un frigorifero: funziona solo quando qualcuno è lí ad aprire la porta di quel frigo. Senza persone, non è arte - è un'altra cosa, è roba piazzata in una stanza".26 Questo interesse per le contingenze del "rapporto tra", piuttosto che per l'oggetto stesso, è caratteristico dell'opera di Gillick e del suo interesse per le pratiche collaborative nel loro complesso.

L'idea di considerare l'opera d'arte come un potenziale stimolo alla partecipazione non è certo una novità: pensate agli happening, alle istruzioni degli artisti Fluxus, alla performance art degli anni Settanta, e alla dichiarazione di Joseph Beuys secondo la quale "ogni uomo è un artista". A ciascuno di questi fenomeni corrisponde una retorica di democrazia ed emancipazione molto simile a quella utilizzata da Bourriaud per difendere la sua teoria dell’estetica relazionale.27 Le teorie alla base di questo desiderio di attivare lo spettatore sono facili da riconoscere: Walter Benjamin e il suo "Autore come Produttore" (1934), Roland Barthes con la "Morte dell'Autore" e "la nascita del lettore" (1968) e – ancor più importante in questo contesto – l’Opera Aperta di Umberto Eco (1962). Scrivendo di cio che percepiva come il carattere aperto e aleatorio della letteratura, della musica e dell’arte moderniste, Eco riassume le sue osservazioni su James Joyce, Luciano Berio e Alexander Calder in termini che non possono fare a meno di evocare l’ottimismo Bourriaudiano:

La poetica dell'opera in movimento (come in parte la poetica dell'opera "aperta") instaura un nuovo tipo di rapporti tra artista e pubblico, una nuova meccanica della percezione estetica, una diversa posizione del prodotto artistico nella società; apre una pagina di sociologia e di pedagogia, oltre che una pagina della storia dell'arte. Si pone nuovi problemi pratici creando situazioni comunicative, instaura un nuovo rapporto tra contemplazione e

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Il parallelo con Tiravanija e Gillick è evidente nell’enfasi data da Eco al valore d'uso di un'opera e allo sviluppo attraverso di essa di "situazioni comunicative." Tuttavia, Eco afferma che tutte le opere d'arte siano potenzialmente "aperte", in quanto esse possono produrre un gamma illimitata di possibili letture; il merito dell’arte, della musica e della letteratura contemporanee è limitato all’aver messo questo aspetto in primo piano.29 Bourriaud misinterpreta questa tesi applicandola a un determinato tipo di opere (ovvero quelle che richiedono un'interazione letterale), attribuendo in tal modo questo effetto all'intento dell'artista anziché al momento della ricezione di un'opera.30 La sua posizione si differenzia da quella di Eco anche per un altro importante aspetto: Eco considera l'opera d'arte come riflesso delle condizioni della nostra esistenza in una frammentata cultura moderna, mentre per Bourriaud è l'opera d'arte a produrre queste condizioni. L'interattività dell'arte relazionale è quindi ritenuta superiore rispetto alla contemplazione ottica di un oggetto, che si presume essere passiva e disimpegnata, perché l'opera d'arte è una "dimensione sociale" in grado di produrre rapporti umani positivi. Di conseguenza, l'opera possiede automaticamente implicazioni politiche ed effetti emancipatori.

Il giudizio estetico

Questa descrizione delle forme sociali come produttrici delle relazioni umane dovrebbe suonare familiare a chi conosca il saggio di Althusser del 1969 "Ideologia e apparati ideologici di Stato". La difesa bourriaudiana dell'estetica relazionale è in debito con l'idea di Althusser che la cultura – in quanto "apparato ideologico di Stato" - non rifletta la società, ma che la produca. Nella forma adottata da artiste femministe e critici cinematografici negli anni Settanta, il saggio di Althusser ha consentito un'espressione più sfaccettata della dimensione politica in arte. Come osservato da Lucy Lippard, la maggior parte dell'arte prodotta alla fine degli anni Sessanta aspirava ad un intento democratico più nella forma che nel contenuto; le intuizioni contenute nel saggio di Althusser avevano aperto la strada all'idea di elaborare una critica delle istituzioni che operasse sovvertendole dall'interno.31 Dimostrare che il significato di un'opera d'arte sia subordinato al contesto in cui questa viene presentata (che si tratti di un museo o di una rivista) non era sufficiente; l'identificazione dello spettatore con l'immagine veniva ora considerata altrettanto importante. Rosalyn Deutsche riassume efficacemente questo cambiamento nel suo libro Evictions: Art and Spatial Politics (1996), mettendo a confronto Hans Haacke con la generazione successiva di artisti tra cui Cindy Sherman, Barbara Kruger e Sherrie Levine. L'opera di Haacke, scrive la Deutsche, "invitava gli osservatori a decifrare rapporti e ad individuare contenuti già presenti nelle immagini, ma non chiedeva loro di esaminare il proprio ruolo o coinvolgimento nella produzione di tali immagini."32 Per contro, la successiva generazione di artisti "considerava l'immagine stessa in quanto rapporto sociale e lo spettatore come soggetto costruito attraverso quello stesso oggetto da cui prima pretendeva di mantenere il distacco."33

Tornerò in seguito sull'idea di identificazione sollevata dalla Deutsche. Nel frattempo è necessario osservare che la distanza che separa l'idea dell'immagine come relazione sociale dalla tesi di Bourriaud, secondo la quale è piuttosto la struttura di un'opera d'arte a produrre un rapporto sociale, è molto breve. Tuttavia, identificare quale sia la struttura di un'opera d'arte relazionale non è un compito facile, proprio perché l'opera afferma di essere aperta. Questo problema è aggravato dal fatto che le opere d'arte relazionali sono fondamentalmente installazioni, una forma d'arte che sin

28 Umberto Eco, Opera Aperta, Bompiani 1962-76, p. 63.

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dalle sue prime manifestazioni ha sempre sollecitato la presenza letterale dello spettatore. A differenza della generazione degli artisti della "Public Vision", i cui prodotti - soprattutto in fotografia - sono stati assimilati senza problemi dall'ortodossia storico-artistica, l'arte d'installazione è stata spesso denigrata in quanto vista semplicemente come un'ennesima forma di “spettacolo” postmoderno. Per alcuni critici, tra cui Rosalind Krauss, l'impiego di diversi media separa l'arte d'installazione da qualsiasi tradizione legata ad un medium specifico, e pertanto non ha alcuna convenzione intrinseca contro cui operare in modo autocritico, né criteri in base ai quali valutare il proprio successo. Senza un senso di quale sia il suo medium, un'installazione non può dunque conquistare il “Sacro Graal” della critica auto-riflessiva.34 Ho suggerito altrove che la presenza dello spettatore potrebbe essere interpretata come medium dell'arte d'installazione, ma Bourriaud complica ulteriormente questa tesi.35 Egli sostiene che i criteri da utilizzare per valutare le opere d'arte aperte e partecipative non siano solo di tipo estetico, ma anche etico e politico: è necessario infatti considerare le "relazioni" che sono prodotte da un'opera d'arte relazionale.

Di fronte ad un'opera d'arte relazionale, Bourriaud suggerisce di porsi le seguenti domande: "Quest'opera mi consente o meno di stabilire un dialogo? Posso esistere nello spazio da essa definito, e se sì, in che modo? " (ER, p. 109). Egli definisce queste domande, da chiedersi di fronte a un qualunque prodotto estetico, come "criteri di co-esistenza" (ER, p. 109). In teoria, qualsiasi opera d'arte può sollevare la questione di che tipo di modello sociale essa produca; per esempio, potrei vivere in un mondo strutturato attraverso i principi organizzativi di un dipinto di Mondrian? Oppure, che tipo di "forma sociale" può essere prodotta attraverso un oggetto surrealista? Il problema posto dalla nozione di "struttura" di Bourriaud è che questa si rapporta al soggetto esplicito di un'opera, ovvero al suo contenuto, in maniera incoerente. Per esempio, consideriamo più rilevante il fatto che gli oggetti surrealisti contengano vecchi oggetti riciclati, o il fatto che il loro immaginario e le loro sconcertanti giustapposizioni esplorino i desideri inconsci e le inquietudini dei propri creatori? Nel caso delle ibride installazioni / performances dell'estetica relazionale, così fortemente dipendenti dal loro contesto e dal coinvolgimento letterale dello spettatore, è ancora più difficile ottenere una risposta. Per esempio, ciò che viene cucinato da Tiravanija, come e per chi, sono meno importanti per Bourriaud rispetto al fatto che l'artista distribuisca gratuitamente i prodotti della propria cucina. Le bacheche di Gillick possono essere analizzate in modo simile: Bourriaud non discute i testi o le immagini contenuti nei ritagli ad essa affissi, né la composizione e la giustapposizione di questi frammenti, ma solo la democratizzazione dei materiali e il formato flessibile messi a disposizione da Gillick (i proprietari di queste opere sono liberi di modificarne gli elementi costitutivi in qualsiasi momento, in base ai propri gusti personali e agli eventi in corso). Per Bourriaud, la struttura è il contenuto - e in questo senso è molto più formalista di quanto voglia ammettere.36 Indipendenti sia dall'intenzionalità dell'artista che dalla considerazione del più ampio contesto in cui operano, le opere d'arte relazionale diventano - come nel caso delle bacheche di Gillick - semplicemente "un ritratto in costante evoluzione dell'eterogeneità della vita quotidiana"37, senza però esaminare il modo in cui esse si relazionino a tale quotidianità. In altre parole, anche se le opere pretendono di rinviare al proprio contesto, esse non mettono in discussione la propria posizione o funzione al suo interno. Le bacheche di Gillick sono descritte come democratiche nella struttura, ma in realtà solo i singoli proprietari hanno la possibilità di interagire con la disposizione dei loro contenuti. Bisogna piuttosto chiedersi, come ha fatto il Group Material negli anni Ottanta, "Chi è il pubblico? Come si crea una cultura, e a chi si rivolge?"

Non intendo suggerire che le opere d'arte relazionale debbano sviluppare una maggiore coscienza sociale – attraverso la creazione di bacheche sul terrorismo internazionale, per esempio, o distribuendo curry gratis ai rifugiati. Mi chiedo semplicemente in base a cosa si decida cosa faccia parte della "struttura" di un'opera d'arte relazionale, e se questa sia così indipendente dal contenuto visibile dell'opera o così permeabile rispetto al suo contesto. Bourriaud vorrebbe far coincidere il

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giudizio estetico con un giudizio etico-politico sulle relazioni umane prodotte da un'opera d'arte. Ma come misurare o paragonare tali relazioni? La qualità delle relazioni generate dall'”estetica relazionale” non viene mai esaminata o messa in discussione. Quando Bourriaud sostiene che “gli incontri di per sé sono più importanti delle persone che li compongono”, mi sembra che tale discussione sia (per lui) superflua; tutti i rapporti che permettano una forma di "dialogo" sono automaticamente considerati democratici e quindi positivi. Ma cosa significa veramente "democrazia" in questo contesto? Se l'arte relazionale produce relazioni umane, la prossima domanda da porsi allora in senso logico è: quali tipi di rapporti produce, per chi, e perché?

Antagonismo

Rosalyn Deutsche sostiene che la sfera pubblica possa rimanere democratica solo nella misura in cui le sue naturali esclusioni siano tenute in considerazione e aperte alla contestazione: "I conflitti, le divisioni e l’instabilità, poi, non rovinano la sfera pubblica democratica, ma sono piuttosto condizioni necessarie per la sua esistenza". Deutsche trae qui ispirazione dal saggio Egemonia e strategia socialista: verso una politica democratica radicale di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe.

Pubblicato nel 1985, Egemonia di Laclau e Mouffe è uno dei primi testi a reinterpretare la teoria politica socialista attraverso la lente del post-strutturalismo, come risposta a ciò che gli autori percepiscono come un’impasse nelle teorie marxiste degli anni Settanta. Il loro testo è una rilettura di Marx attraverso la teoria Gramsciana dell’egemonia e l’interpretazione Lacaniana della soggettività come frammentata e decentrata. Molte delle idee presentate da Laclau e Mouffe ci permettono di riconsiderare certi aspetti dell’estetica relazionale, che Bourriaud presenta come politicamente impegnati, in una luce più critica.

La prima di queste idee è il concetto di antagonismo. Laclau e Mouffe sostengono che una società pienamente democratica non sia una in cui tutte le forme di antagonismo scompaiano, ma una in cui nuove frontiere politiche vengano costantemente elaborate e messe in discussione; in altre parole, nella società democratica le situazioni di conflitto vengono promosse, non cancellate. Senza antagonismo rimane solo una forma di consenso imposto da una struttura autoritaria - una soppressione totale del dibattito e della discussione, considerati nemici della democrazia. È importante sottolineare subito che l'idea di antagonismo non è intesa da Laclau e Mouffe come un’accettazione pessimistica dell’insolubilità delle divergenze politiche; l'antagonismo non significa “l’espulsione dell’utopia dall’arena politica”. Al contrario, gli autori sostengono che senza il concetto di utopia non sia possibile un immaginario radicale. Il compito principale è quello di equilibrare la tensione fra l’immaginario ideale e l'amministrazione pragmatica di uno scenario sociale positivo senza degenerare nel totalitarismo.

Questa interpretazione dell'antagonismo è strettamente connessa in Laclau e in Mouffe alla teoria della soggettività. Seguendo Lacan, essi sostengono che la soggettività non sia una presenza pura, razionale e trasparente a se stessa, ma che sia, piuttosto, irrimediabilmente decentrata e incompleta.38 Non c'è tuttavia conflitto fra la concezione del soggetto come decentrato e l'idea di azione politica? Il termine “decentramento” implica la mancanza di un soggetto unitario, mentre l'idea di “azione” [“agency”] implica un soggetto pienamente presente e autonomo, dotato di volontà politica ed autodeterminazione. Laclau pensa che questo conflitto sia falso, perché il soggetto non è né del tutto decentrato (il che risulterebbe in psicosi), né del tutto unitario (cioè soggetto assoluto). Rifacendosi a Lacan, sostiene che l'uomo abbia un'identità strutturale fallace e che si affidi quindi ad un processo di identificazione per poter agire.39 Poiché la soggettività è proprio questo processo di identificazione, noi tutti siamo entità necessariamente incomplete. L'antagonismo, quindi, è il rapporto che emerge fra queste entità incomplete. Laclau lo contrappone ai rapporti che possono emergere fra entità complete, ad esempio la contraddizione (A / non A) o la

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“differenza reale” (A / B). Noi tutti abbiamo convinzioni contraddittorie (per esempio, ci sono materialisti che leggono l'oroscopo e psicanalisti che inviano cartoline natalizie), ma questo non genera antagonismo. Così come la “differenza reale” (A / B) non equivale ad antagonismo: poiché questa riguarda solo identità complete, essa provoca piuttosto una collisione - come un incidente stradale o la “guerra al terrorismo”. Nel caso dell'antagonismo, scrivono Laclau e Mouffe, “siamo posti di fronte ad una situazione differente: la presenza dell'“Altro” mi impedisce di essere completamente me stesso. Tale rapporto non scaturisce dall'opposizione di totalità complete, bensì dall'impossibilità della loro costituzione.''40 In altre parole, la presenza di “ciò che non è me” rende la mia identità precaria e vulnerabile, e la minaccia rappresentata dall'Altro trasforma la mia propria autocoscienza in qualcosa di incerto. Al livello sociale, l'antagonismo può essere considerato come l'incapacità della società di costituirsi in maniera completa. Cercare di definire ciò che si trovi ai limiti del sociale (così come di un'identità) ne distrugge anche l'ambizione di essere entità complete: “In quanto condizioni necessarie per l'esistenza stessa di una democrazia pluralista, i conflitti e gli antagonismi incarnano allo stesso tempo lo stato di impossibilità del suo definitivo raggiungimento.”41

Mi sono trattenuta su questa teoria per poter spiegare come i rapporti generati dall'estetica relazionale non siano intrinsecamente democratici, come suggerito da Bourriaud, poiché si appoggiano in modo troppo confortevole ad un ideale di soggettività come completezza e di comunità come unità immanente. C'è senz'altro dibattito e dialogo in un'opera culinaria di Tiravanija, ma nessun attrito interno, dato che tale situazione corrisponde a ciò che Bourriaud chiama “microtopie”: essa produce infatti una comunità i cui membri si identificano l'uno con l'atro, perché hanno tutti qualcosa in comune. L'unica descrizione di una certa sostanza che sono riuscita a trovare della prima mostra monografica di Tiravanija alla 303 Gallery è una recensione di Jerry Saltz, pubblicata su Art in America, che ne parla nel seguente modo:

Alla 303 Gallery mi mettevo regolarmente a sedere con uno sconosciuto, oppure qualcuno mi si sedeva accanto, ed era sempre piacevole. La galleria si era trasformata in in un luogo per la condivisione, il gioco ed il dialogo aperto. Ho avuto una serie incredibile di pasti con mercanti d'arte. Una volta ho mangiato con Paula Cooper, che ha condiviso un frammento lungo e complicato di pettegolezzo professionale. Un'altra volta, Lisa Spellman mi ha raccontato in modo comicamente dettagliato una storia intrigante su un altro gallerista che aveva provato, senza successo, a corteggiare uno dei suoi artisti. Circa una settimana dopo ho pranzato con David Zwirner. L'ho incontrato per strada e lui mi ha detto: “oggi niente va per il verso giusto, andiamo da Rirkrit.” Così abbiamo fatto, e lui mi ha parlato di una mancanza di entusiasmo nella scena artistica newyorkese. Un'altra volta ho mangiato con Gavin Brown, l'artista e mercante […], che mi ha parlato della crisi di SoHo – solo che lui la accoglieva con favore, gli sembrava che ci avesse messo anche troppo, che da tempo le gallerie esponevano troppa arte mediocre. Più in là nella vita della mostra, sono stato avvicinato da una donna non meglio identificata e l'atmosfera si è tinta di un flirt curioso. Un altro giorno ho chiacchierato con un giovane artista di Brooklyn con opinioni davvero interessanti sulle mostre appena viste.42

Il chiacchiericcio informale di questo racconto indica chiaramente il genere di problemi che chi voglia sapere di più su quest'opera si trovi ad affrontare: la recensione ci dice soltanto che l'intervento di Tiravanija è considerato positivo perché facilita il networking all'interno di un gruppo di galleristi e di appassionati d'arte, e perché evoca l'atmosfera di un bar notturno. Tutti hanno in comune un interesse per l'arte, e il risultato è uno scambio di pettegolezzi sul mondo dell'arte, di opinioni sulle mostre in corso e di atteggiamenti ammiccanti. Tale interazione va benissimo in una certa misura, ma non può essere considerata di per sé emblematica del concetto di “democrazia”. Per correttezza, penso che Bourriaud riconosca questo problema; tuttavia non lo solleva mai in relazione agli artisti che promuove: “[...] collegare le persone, creare interazione e comunicare esperienza”, scrive: “A che proposito? […] Se dimentichiamo di chiederci perché, allora temo che 40

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42 Jerry Saltz, “A Short History of Rirkrit Tiravanija”, Art in America, p. 107.

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non ci resti altro che la Nokia art: produrre relazioni interpersonali senza alcuna relazione, senza mai confrontarsi con i loro aspetti politici.”43 Direi che l'arte di Tiravanija, almeno per come ci viene presentata da Bourriaud, non affronti in modo soddisfacente gli aspetti politici delle comunicazioni interpersonali – nemmeno in alcuni suoi progetti che a prima vista sembrano trattare l'argomento in modo discordante. Torniamo dunque alle testimonianze della mostra di Tiravanija a Colonia, Untitled (Tomorrow Is Another Day). Ho già citato il commento del curatore Udo Kittelman su come l'installazione offrisse “un'esperienza coinvolgente di vicinanza e comunione”. Continua poi scrivendo: “Gruppi di persone hanno preparato pasti e comunicato tra di loro, hanno fatto un bagno o si sono sdraiati sul letto. Il nostro timore che questo appartamento / opera d'arte venisse vandalizzato non si è verificato. Lo spazio artistico ha perso la sua funzione istituzionale e si è finalmente trasformato in uno spazio sociale libero.”44 Anche il quotidiano Kölnischer Stadt-Anzeiger era d'accordo sul fatto che l'opera offrisse “una sorta di 'rifugio' aperto a tutti”.45 Ma chi sarebbero questi “tutti”? L'installazione può essere in sé una microtopia, ma così come un'utopia essa si fonda implicitamente sull'esclusione di chiunque possa ostacolarne o impedirne la realizzazione (sarebbe interessante considerare cosa sarebbe successo se lo spazio creato da Tiravanija fosse stato invaso da persone con un autentico bisogno di “rifugio”).46 Le installazioni di Tiravanija riflettono la concezione bourriaudiana che considera i rapporti prodotti dalle opere d'arte relazionale segnati da una fondamentale armonia, in quanto indirizzati ad un pubblico come comunità di soggetti con qualcosa in comune.47 Ecco perché le opere di Tiravanija sono politiche solo in un senso generico, nella loro promozione del dialogo anziché del monologo (ovvero della comunicazione unidirezionale identificata dai Situationisti con lo “spettacolo”). Il contenuto di questo dialogo non è in sé democratico, poiché tutte le questioni da esso sollevate rimandano al solito falso quesito: “è o non è arte?”.48 Malgrado la sua retorica di apertura ed emancipazione del pubblico, la struttura delle opere di Tiravanija ne determina il risultato ad anteriori, e fa affidamento alla propria collocazione all'interno di una galleria per distinguersi da un meccanismo d'intrattenimento. Le microtopie di Tiravanija rinunciano all'idea di trasformare la produzione culturale pubblica e riducono il proprio raggio d'azione ai piaceri di un gruppo ristretto di persone che possano identificarsi tra loro in quanto visitatori di gallerie d'arte.49

La posizione di Gillick sulla questione del dialogo e della democrazia è più ambigua. Ad una prima analisi egli sembra sostenere la tesi dell'antagonismo di Mouffe e Laclau:

Mentre ammiro quegli artisti che costruiscono visioni “migliori” di come le cose potrebbero essere, gli spazi intermedi di discussione e negoziazione su cui mi concentro contengono sempre possibili momenti il cui idealismo appare meno definito. Ci sono tante manifestazioni del compromesso, della strategia e della crisi nelle mie opere quante ricette chiare per migliorare il nostro ambiente.50

Tuttavia, se si vanno a cercare “ricette chiare” nell'opera di Gillick, se ne trovano ben poche. “Lavoro con una massa nebulosa di idee,” dice l'artista, “che sono parziali o parallele più che didattiche.”51 Restio nel dichiarare quali ideali debbano essere compromessi, Gillick basa la propria credibilità sui riferimenti all'architettura (nel suo legame con situazioni sociali concrete), mentre rimane astratto sulla questione dell'articolazione di una posizione specifica. Le Discussion Platforms, per esempio, non puntano ad alcun cambiamento in particolare, bensì al cambiamento in generale – uno “scenario” all'interno del quale “narrative” potenziali possano emergere o meno. La posizione di Gillick è sfuggevole e alla fine sembra sostenere il compromesso e la trattativa in

43 Nicolas Bourriaud, citato in “Public Relations: Bennett Simpson Talks with Nicolas Bourriaud”, Artforum, Aprile 2001, p. 48.

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quanto ricette per il miglioramento. In senso logico, tale pragmatismo corrisponde ad un abbandono o fallimento degli ideali politici; le sue opere sono dimostrazioni di un compromesso, piuttosto che articolazioni di un problema.52

Per contrasto, la teoria della democrazia come antagonismo promossa da Mouffe e Laclau può essere osservata nelle opere di due artisti cospicuamente ignorati da Bourriaud in Estetica Relazionale e Postproduction: l'artista svizzero Thomas Hirschhorn e lo spagnolo Santiago Sierra.53 Questi artisti instaurano “relazioni” che danno risalto al ruolo del dialogo e della trattativa nella propria arte, ma senza confondere queste relazioni con il contenuto dell'opera. I rapporti prodotti dalle loro performance e installazioni sono contraddistinti da una sensazione di disagio e scomodità piuttosto che da un senso d'appartenenza, perché riconoscono l'impossibilità di una “microtopia” e piuttosto mantengono una tensione tra gli osservatori, i partecipanti attivi ed il loro contesto. Una parte integrante di questa tensione è l'introduzione di collaboratori provenienti da diversi ambiti economici, il che a sua volta ha lo scopo di mettere alla prova la percezione che il mondo dell'arte contemporanea ha di sé come uno spazio pronto ad accogliere altre strutture sociali e politiche.

Non-identificazione ed autonomia

L'opera di Santiago Sierra (nato nel 1966), così come quella di Tiravanija, comprende la formazione di rapporti letterali fra diverse persone: l'artista, i partecipanti attivi che rendono possibile l'opera ed il pubblico. Ma sin dalla fine degli anni Novanta, Sierra organizza le sue “azioni” intorno a relazioni più complesse - e più problematiche – rispetto a quelle prodotte dagli artisti associati con l'estetica relazionale. Sierra ha attirato l'attenzione dei tabloid ed ha ricevuto agguerrite critiche per alcune delle sue azioni più estreme, come Linea di 160cm Tatuata sopra Quattro Persone (2000), Una Persona Pagata per Lavorare per 360 Ore Consecutive (2000) e Dieci Persone Pagate per Masturbarsi (2000). Queste azioni effimere sono documentate attraverso spoglie fotografie in bianco e nero, un breve testo esplicativo e, a volte, video. Questa forma di documentazione sembra essere un'eredità dell'Arte Concettuale e della body art degli anni Settanta (si pensi a Chris Burden e Marina Abramovic), ma le opere di Sierra rappresentano una significativa evoluzione di questa tradizione, nel loro uso di altre persone per l'esecuzione dell'opera e nell'enfasi posta sulla loro retribuzione. Mentre Tiravanija celebra il gesto del dono, Sierra sa che l'idea di un pasto gratis è una finzione: tutto e tutti hanno un prezzo. Le sue opere possono essere viste come cupe meditazioni sulle condizioni sociali e politiche che consentono l'esistenza di disparità tra i “prezzi” corrispondenti a diverse persone. Oggi regolarmente invitato ad eseguire opere per gallerie Europee e Americane, Sierra inscena una sorta di realismo etnografico, in cui l'esito o lo svolgimento dell'azione da lui progettata si configura come una traccia indicale della realtà economica e sociale del posto in cui si trova di volta in volta a lavorare.54

Interpretazione in questo modo la pratica artistica di Sierra va in senso opposto rispetto alle letture dominanti delle sue opere, che le presentano come riflessioni nichilistiche sulla teoria marxiana del valore di scambio del lavoro (Marx sostiene che il tempo lavorativo dell'operaio valga per il capitalista meno del suo successivo valore di scambio, sotto forma della merce prodotta attraverso quel lavoro). I compiti che Sierra richiede ai suoi collaboratori - che sono invariabilmente inutili, fisicamente impegnativi e occasionalmente lasciano cicatrici permanenti - sono visti come amplificazioni dello status quo create allo scopo di denunciare la disposizione di una società all'abuso di chi accetterebbe persino i lavori più umilianti o insensati in cambio di denaro. Poiché Sierra viene pagato per le sue azioni – in quanto artista -, ed è il primo ad ammettere le contraddizioni generate dalla sua situazione, i suoi detrattori ritengono che egli non faccia che ripetere un pessimistico dato di fatto: il capitalismo sfrutta. Inoltre, questo è un sistema a cui nessuno può sottrarsi. Sierra paga altri per eseguire un'opera per la quale lui stesso riceve un

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pagamento, e viene a sua volta sfruttato dalle gallerie, dai mercanti e dai collezionisti. Lo stesso Sierra fa poco per contraddire questa logica quando afferma:

Io non posso cambiare nulla. Non abbiamo alcuna possibilità di cambiare le cose con il nostro fare artistico. Facciamo il nostro lavoro perché creiamo arte e perché crediamo che l'arte debba essere qualcosa, qualcosa che dipenda dalla realtà. Ma non credo nella possibilità del cambiamento.55

L'apparente complicità di Sierra con lo status quo solleva la domanda di come le sue opere divergano dunque da quelle di Tiravanija. Vale la pena ricordare che, a partire dagli anni Settanta, le retoriche d'opposizione e trasformazione delle avanguardie storiche sono state spesso sostituite da strategie di complicità; ciò che importa non è la complicità in sé, ma il modo in cui la percepiamo. Se l'arte di Tiravanija viene percepita in chiave maggiore, allora quella di Sierra è decisamente in chiave minore. Quello che segue è un tentativo di interpretare l'opera di quest'ultimo attraverso la doppia lente dei testi Estetica Relazionale ed Egemonia e Strategia Socialista, in modo da evidenziare ulteriormente queste differenze.

È stato già osservato che Sierra documenta tutte le sue azioni, e quindi si accerta di comunicare ciò che egli considera essere la loro “struttura”. Si prenda ad esempio l'opera Muro di una Galleria Rimosso, Inclinato di Sessanta Gradi rispetto al Suolo e Sostenuto da Cinque Persone (Città del Messico, 2000). Diversamente da Tiravanija e Gillick, che sostengono un'idea di apertura, Sierra delimita sin dall'inizio la scelta delle persone invitate a parecipare ed il contesto in cui l'evento ha luogo. “Contesto” è una parola chiave per Gillick e Tiravanija, ma le loro opere fanno tuttavia poco per affrontare il problema della definizione degli elementi che effettivamente compongono un contesto (si ha piuttosto l'impressione che questo esista come un'infinito indifferenziato, come il cyberspace). Laclau e Mouffe affermano che per un costituire un contesto ed identificarlo in quanto tale, bisogna definire certi limiti; è dalle esclusioni generate da queste delimitazioni che scaturisce l'antagonismo. È precisamente quest'atto di esclusione ad essere rinnegato dall'arte relazionale con la sua preferenza per le opere “aperte”.56 Le azioni di Sierra, al contrario, si innestano all'interno di altre “istituzioni” (per esempio, l'immigrazione, il salario minimo, il traffico stradale, il commercio di strada abusivo, il vagabondaggio) in modo da evidenziare le divisioni imposte da ognuno di questi contesti. Fondamentalmente, tuttavia, Sierra non presenta queste divisioni né come riconciliate (nel senso in cui Tiravanija fonde il museo con il bar o l'appartamento), né come sfere interamente separate: il fatto stesso che le sue opere prendano una forma reale le colloca sul piano dell'antagonismo (piuttosto che su quello dello scontro fra identità complete in stile “incidente stradale”), e suggerisce che i loro limiti siano tanto instabili quanto aperti al cambiamento.

In un'opera per la Biennale di Venezia del 2001, 133 Persone Pagate per Tingersi di Biondo i Capelli, Sierra ha invitato i venditori ambulanti illegali, la maggior parte dei quali provenienti dal Sud Italia o immigrati dal Senegal, dalla Cina e dal Bangladesh, a farsi tingere i capelli di biondo in cambio di 120.000 Lire ($60). L'unica condizione per partecipare era di avere capelli di un colore naturalmente scuro. La descrizione che Sierra dà dell'opera non documenta l'effetto della sua azione nei giorni seguenti la decolorazione di massa, ma tali ripercussioni fanno effettivamente parte integrante dell'opera.57 Durante la Biennale di Venezia, i venditori ambulanti - che si aggirano agli angoli delle strade vendendo imitazioni di borse di marca - formano di solito il gruppo sociale escluso nel modo più palese dalla sfarzosa cerimonia inaugurale; nel 2001, tuttavia, i loro capelli recentemente ossigenati ne mettevano letteralmente in evidenza la presenza nella città. Quest'opera era accompagnata da un intervento all'interno della Biennale propriamente detta, dove Sierra aveva lasciato lo spazio assegnatogli nella mostra all'Arsenale ad una manciata di ambulanti, che lo usavano per vendere borsette finto-Fendi su teli stesi sul pavimento, esattamente come erano soliti fare per strada. Il gesto di Sierra stabisce una sardonica analogia tra arte e commercio, nello stile della critica istituzionale degli anni Settanta, ma si muove notevolmente al di là di questa, dal 55

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momento che tale confronto faceva sì che gli ambulanti e la mostra si negassero a vicenda. Invece di approcciare animatamente i passanti con la loro mercanzia, come facevano per strada, qui i venditori erano passivi. Ciò ha reso il mio incontro diretto con questi ultimi disarmante, in un modo che solo successivamente mi avrebbe rivelato una certa ansia di sentirmi "inclusa" all'interno della Biennale. Sicuramente si tratta di attori? O forse questa gente si è intrufolata qui per scherzo? Mettendo in primo piano tale momento di reciproca non-identificazione, il gesto di Sierra mira a turbare il senso di identità del pubblico dell'arte, che si fonda proprio su implicite esclusioni basate su idee di razza e di classe, e che tende a velare le palesi implicazioni commerciali di questo ambiente. È importante che l'opera di Sierra non ottenesse una riconciliazione armonica tra i due sistemi, ma che mantenesse bensì tra di loro una costante tensione.

Il ritorno di Sierra alla Biennale di Venezia nel 2003 comprese una performance / installazione di rilievo per il Padiglione Spagnolo. Muro che Chiude uno Spazio consisteva nel sigillare l'interno del padiglione con una parete di blocchi di cemento, dal pavimento al soffitto. All'interno dell'edificio, i visitatori erano posti così di fronte a un muro, costruito in modo evidentemente frettoloso ma ciò nondimeno inespugnabile, che rendeva gli spazi espositivi inaccessibili. I visitatori muniti di passaporto spagnolo erano invitati ad accedere allo spazio dal retro, dove trovavano due guardie di frontiera addette al controllo passaporti. A tutti i cittadini non spagnoli, tuttavia, veniva negato l'ingresso al padiglione, che non conteneva null'altro se non uno strato di vernice grigia, lasciata in stato di degrado dalla mostra dell'anno precedente. L'opera è "relazionale" nel senso bourriaudiano, ma problematizza al contempo l'idea che queste relazioni possano essere davvero fluide, autonome ed aperte, mettendo semplicemente in luce il fatto che tutte le nostre interazioni sociali sono - così come gli spazi pubblici - segnate da esclusioni sociali e giuridiche.58

I lavori di Thomas Hirschhorn (nato nel 1957) si occupano spesso di questioni simili. La sua pratica artistica viene convenzionalmente interpretata in relazione alla scultura tradizionale: le sue opere sono state definite come reinvenzioni delle forme del monumento, del padiglione e dell'altare che avvolgono lo spettatore con uma moltitudine di immagini appropriate, videoproiezioni e fotocopie, assemblate con materiali poveri e deperibili come il cartone, il nastro adesivo o la carta stagnola. A parte qualche occasionale riferimento agli atti di vandalismo o sottrazione ai danni delle sue opere installate in spazi esterni alla galleria, il ruolo dello spettatore viene raramente affrontato nei suoi scritti.59 Hirschhorn è noto per l’affermazione secondo la quale la sua non è arte politica, ma arte fatta in modo politico. Significativamente, questo impegno politico non prende la forma di installazioni mirate ad attivare letteralmente lo spettatore in uno spazio dato:

Non voglio invitare o obbligare gli spettatori ad interagire con quello che faccio; non è mia intenzione attivare il pubblico. Io voglio impegnarmi in prima persona, farmi coinvolgere al punto che gli spettatori, posti di fronte all'opera, possano prendere parte ed esserne coinvolti, ma non in quanto attori.60

L'opera di Hirschhorn rappresenta un cambiamento importante nel modo in cui le pratiche artistiche contemporanee si rapportano all'osservatore, un modo che trova eco nella sua affermazione sull'autonomia dell'arte. Uno dei presupposti alla base dell'Estetica Relazionale è l'idea, introdotta dalle avanguardie storiche e da allora ribadita ad intervalli regolari, che l'arte non debba rappresentare una sfera privilegiata e indipendente, ma che debba piuttosto fondersi con la "vita". Oggi l'arte si trova ad essere fin troppo assorbita all'interno della vita quotidiana – come svago, intrattenimento e commercio -, ed artisti come Hirschhorn tentano invece di riaffermare l'autonomia dell'attività artistica. Di conseguenza, Hirschhorn non considera le proprie opere "aperte" o concepite per essere completate dallo spettatore, perché gli aspetti politici della sua arte derivano piuttosto dal modo in cui l’opera viene fisicamente prodotta:

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Fare arte in modo politico significa scegliere materiali che non vogliono intimidire, un formato che non vuole dominare, un dispositivo che non vuole sedurre. Fare arte in modo politico non è sottomettersi a un’ideologia o denunciare il sistema, in opposizione alla cosiddetta "arte politica". Significa piuttosto operare con tutta la propria energia contro il principio di "qualità".61

Una retorica della democrazia pervade l’opera di Hirschhorn, ma non si manifesta nell’attivazione letterale dello spettatore; essa si manifesta piuttosto nelle scelte che riguardano il formato, i materiali e la location delle sue sculture, come i suoi "altari", che emulano i memoriali creati spontaneamente con fiori e giocattoli nei siti di incidenti stradali, situati nelle zone periferiche di una città. In queste opere - come le installazioni Pole-Self e Laundrette, entrambe del 2001-immagini e frammenti di testo appropriati, ritagli di pubblicità e fotocopie sono giustapposti allo scopo di contestualizzare le banalità del consumismo attraverso riferimenti ad atrocità di stampo politico e militare.

Molti dei temi di Hirschhorn sono confluiti nel Monumento a Bataille (2002), creato per Documenta XI. Situato a Nordstadt, un sobborgo di Kassel ad alcuni chilometri dalle sedi principali di Documenta, il Monumento comprendeva tre installazioni all’interno di grandi baracche, un bar gestito da una famiglia locale e una scultura a forma di albero, il tutto eretto su un prato circondato da due complessi di edilizia popolare. Le baracche erano costruite con alcuni dei materiali caratteristici di Hirschhorn: legname economico, carta stagnola, teli di plastica e nastro da pacchi. La prima conteneva una biblioteca con libri e video raggruppati intorno a cinque temi affrontati negli scritti di Bataille: parola, immagine, arte, sesso e sport. Vi erano inoltre una serie di divani consunti, un televisore ed un lettore video, e l'intera installazione era stata pensata allo scopo di facilitare la familiarizzazione del pubblico con il filosofo, di cui Hirschhorn sostiene di essere “un fan”. Le altre due baracche ospitavano uno studio televisivo e un'installazione con informazioni generali sulla vita e l’opera di Bataille. Per poter raggiungere il Monumento a Bataille, i visitatori dovevano partecipare ad un altro aspetto dell’opera, ovvero assicurarsi un passaggio con una compagnia di taxi turca appaltata appositamente per trasportare i visitatori di Documenta fino al sito dell’opera. I visitatori rimanevano poi bloccati nell’area del Monumento finché non si presentasse un taxi per il ritorno, trovandosi nell’attesa a fare inevitabilmente uso del bar.

Collocando il Monumento all’interno di una comunità dallo status etnico ed economico non conforme al target tipico di Documenta, Hirschhorn ha messo in atto un curioso avvicinamento tra il flusso dei turisti culturali e i residenti della zona. Piuttosto che sottoporre la popolazione locale a ciò che egli definisce “l'effetto zoo”, il progetto di Hirschhorn mirava a far sentire i visitatori come malaugurati intrusi. In modo ancor più sovversivo, agli occhi delle pretese intellettuali della scena artistica internazionale, il Monumento di Hirschhorn prendeva gli abitanti del luogo sul serio come potenziali lettori di Bataille. Questo gesto ha provocato una gamma di reazioni emotive tra i visitatori, incluse accuse che l'operazione di Hirschhorn fosse offensiva e condiscendente. Questo disagio ha rivelato il fragile meccanismo che condiziona l'identità auto-costruita della scena artistica. Il gioco complesso dei meccanismi di identificazione e dis-identificazione, messo in atto attraverso i contenuti, le forme e la posizione del Monumento a Bataille, dava da riflettere in modo radicale e problematico: il suo era un “effetto zoo” a doppio senso. Piuttosto che offrire, come riportato sulla guida di Documenta, una riflessione sull'“impegno di una comunità”, il Monumento a Bataille aveva la funzione di destabilizzare (e quindi, potenzialmente, di liberare) ogni nozione di identità comunitaria o di cosa significhi essere “fan” dell'arte e della filosofia.

L'impatto di un'opera come il Monumento a Bataille dipende dal suo contesto, ma in teoria essa potrebbe essere riproposta, in circostanze simili, anche da altre parti. Significativamente, l'osservatore non è più tenuto a parteciparvi in modo letterale (cioè mangiando vermicelli o attivando una scultura), ma gli viene chiesto soltanto di essere un visitatore attento e riflessivo:

Non voglio creare un'opera interattiva; voglio creare un'opera attiva. Per me, l'attività più importante che un'opera d'arte possa provocare è l'attività del pensiero. La Big Electric Chair di Andy Warhol

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(1967) lo fa pensi, ma è solo un dipinto sul muro di un museo. Un'opera attiva richiede che io dia in primo luogo me stesso.62

La posizione indipendente che Hirschhorn esprime nella sua opera – la quale, benchè prodotta in modo collaborativo, è in effetti il prodotto della visione di un singolo artista - implica la reintroduzione di una certa autonomia nell'arte. Allo stesso modo, l'osservatore non è più costretto a soddisfare le condizioni interattive imposte dall'artista, ma viene considerato come soggetto dotato di pensiero indipendente, requisito essenziale per l'azione politica: “avere riflessioni e pensieri critici significa attivarsi, porsi domande è venire in vita”.63 Il Monumento a Bataille dimostra come la performance art e le installazioni si trovino ora ad una notevole distanza dalla volontà di fondere arte e vita caratteristica delle avanguardie storiche.

Antagonismo relazionale

Il mio interesse per l'opera di Thomas Hirschhorn e di Santiago Sierra deriva non solo dal loro approccio più duro e radicale nei confronti delle “relazioni sociali” rispetto a quello proposto da Bourriaud, ma anche dalla loro distanza dai progetti di arte pubblica socialmente impegnata emersi negli anni Ottanta sotto l'egida di “new genre public art”. Ma il fatto che le opere di Sierra e di Hirschhorn rappresentino esempi migliori di democrazia significa di conseguenza che la loro è arte migliore? Per molti critici, la risposta sarebbe ovvia: certo che sì! Ma il fatto stesso che ci si ponga questa domanda è di per sé sintomatico delle tendenze più ampie della critica d'arte contemporanea: oggi giudizi politici, morali ed etici sono chiamati a colmare le carenze del giudizio estetico in un modo che quarant'anni fa era impensabile. Ciò è in parte dovuto all'attacco operato dal pensiero postmoderno nei confronti della nozione stessa di giudizio estetico, e in parte al fatto che l'arte contemporanea solleciti l'interazione letterale dell'osservatore in modi sempre più elaborati. Tuttavia la “nascita dell'osservatore” (e le estatiche promesse di emancipazione che la accompagnano) non è riuscita ad estinguere gli appelli a criteri di giudizio più elevati, che sono semplicemente riapparsi sotto altre forme.

Questo non è però un argomento di cui ci si possa occupare adeguatamente in questa sede. Vorrei precisare soltanto che se le opere che Bourriaud considera esemplari dell'“estetica relazionale” vogliono essere interpretate in chiave politica, bisogna affrontare questa intenzione in modo serio. Vi è ormai una lunga tradizione sui temi della partecipazione dell'osservatore e dell'attivazione del pubblico, che attraversa opere d'arte di diversi media - dal teatro tedesco sperimentale degli anni Venti al cinema della Nouvelle Vague e il nouveau roman degli anni Sessanta, dalla scultura Minimal alle installazioni post-Minimaliste negli anni Settanta, dalla scultura sociale di Beuys alla performance art socialmente impegnata degli anni Ottanta. Affermare che l'attivazione dell'osservatore tout court sia di per sé un atto democratico non è più abbastanza, poiché ogni opera d'arte – persino quella più “aperta” - determina in anticipo il livello di partecipazione concesso all'osservatore.64 Hirschhorn sosterrebbe che tali pretese emancipatorie non siano più necessarie: tutta l'arte - immersiva o meno – può esercitare una forza critica capace di appropriare e riassegnare valore, distogliendo il pensiero dal consenso predominante e preesistente. Il compito che si pone oggi è quello di analizzare come l'arte contemporanea comunichi all'osservatore, e di valutare la qualità dei rapporti che questa produce con il pubblico, ovvero la posizione che ogni opera prevede per il suo fruitore e le nozioni di democrazia che essa sostiene, e come queste si manifestino nella nostra esperienza dell'opera.

Si può dire che le installazioni di Hirschhorn e Sierra, così come le ho descritte, non siano più dipendenti dall'attivazione diretta da parte dei visitatori, o da una loro costante e letterale partecipazione all'opera. Ciò non significa che tali opere segnalino un ritorno a quel genere di

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autonomia modernista sostenuto da Clement Greenberg, ma piuttosto ad un intreccio più complesso tra il sociale e l'estetico. In questo modello, l'impossibilità di una risoluzione dei conflitti - ovvero il nodo centrale su cui è basato il concetto di antagonismo - si riflette nella tensione fra arte e società, concepite come sfere separate che si escludono a vicenda: una tensione autoriflessiva che le opere di Sierra e Hirschhorn riconoscono completamente.65

In questa luce, il tema dell'ostruzione o del blocco che si ritrova così frequentemente nelle opere di Sierra è meno un ritorno al rifiuto modernista promosso da Theodor Adorno che un'espressione dei limiti sia del sociale che dell'estetico, a seguito di un secolo di tentativi di fusione dei due.66 Nella sua mostra al Kunst-Werke di Berlino, i visitatori erano posti di fronte ad una serie di scatole di cartone riciclate, ognuna delle quali nascondeva al suo interno un rifugiato ceceno in cerca di asilo politico in Germania.67 Le scatole stesse erano un tributo poverista alla celebre

scultura di Tony Smith Die (1962), l'opera di 6x6 piedi (183cm³) il cui effetto sull'osservatore fu

descritto in un famoso intervento di Michael Fried come “la presenza silenziosa di un'altra persona”.68 Nell'opera di Sierra, questa presenza silenziosa si fa letterale: poiché in Germania è contro la legge pagare immigranti illegali per il proprio lavoro, la condizione dei rifugiati non poteva essere resa nota dalla galleria. Il loro silenzio veniva esagerato ed esacerbato dalla loro letterale invisibilità sotto quelle scatole di cartone. In tali opere, Sierra sembra sostenere che il corpo fenomenologico del Minimalismo venga politicizzato precisamente dalla qualità del suo rapporto - o dalla sua mancanza di rapporto – con le persone che ha intorno. La nostra reazione di fronte alla presenza dei partecipanti alle azioni di Sierra – sia che questi fissino la parete, stiano seduti dentro delle scatole o vengano tatuati con una linea sulla schiena – è piuttosto diversa dal senso di “comunione” dell'estetica relazionale. L'opera non offre un'esperienza di trascendente empatia umana che possa mitigare la situazione scomoda postaci di fronte, bensì una pronunciata distinzione razziale ed economica: “questa persona non sono io”. La persistenza di questo attrito, il relativo senso di imbarazzo e disagio, ci rivelano l'antagonismo relazionale dell'opera di Sierra.

Le opere di Hirschhorn e Sierra si oppongono alle tesi di Bourriaud a favore dell'estetica relazionale, delle comunità microtopiche di Tiravanija e del formalismo degli scenari potenziali di Gillick. Le posizioni ottimistiche adottate da Tiravanija e da Gillick sono riflesse nella loro onnipresenza sulla scena artistica internazionale e nel loro status di perenni favoriti di certi curatori, conosciuti per la loro promozione di una cerchia di artisti selezionati (curatori che diventano quindi a modo loro delle star itineranti). In una situazione così agiata, l'arte non sente l'esigenza di difendere la propria esistenza e finisce per sprofondare in un genere di intrattenimento compensativo (e auto-compiaciuto). L'arte di Hirschhorn e Sierra non è migliore solo perché espressione di una visione politica migliore (anche se entrambi sono ora ugualmente in vista sul circuito dell'arte mainstream). La loro opera riconosce i limiti di quello che è possibile fare con l'arte (“io non sono un animatore, un insegnante o un operatore sociale” dice Hirschhorn) e mette in discussione ogni facile rivendicazione per un rapporto transitivo fra arte e società. Il modello di soggettività alla base della loro pratica non è quel soggetto fittizio di completezza ed armoniosa comunità, ma un soggetto scisso, fatto di identificazioni parziali e aperto al continuo cambiamento. Se l'estetica relazionale richiede un soggetto unificato come prerequisito per una comunità come accordo d'insieme, allora Hirschhorn e Sierra forniscono un genere di esperienza artistica più adatto alla soggettività scissa ed incompleta di oggi. Questo antagonismo relazionale si baserebbe non sull'idea di armonia sociale, ma sulla denuncia di ciò che viene represso allo scopo di mantenere l'apparenza di tale armonia, fornendo così un fondamento più concreto e più polemico per ripensare il nostro rapporto con il mondo e col prossimo.

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Note

1. Sito web del Palais de Tokyo, "site de création contemporaine", <http://www.palaisdetokyo.com>. 2. Per esempio, Nicolas Bourriaud scrive del Palais de Tokyo: "Vogliamo essere una sorta di Kunstverein interdisciplinare - più laboratorio che museo" (citato in “Public Relations: Bennett Simpson talks with Nicolas Bourriaud”, Artforum [aprile 2001], p.48); Hans Ulrich Obrist: "La mostra veramente contemporanea dovrebbe esprimere la possibilità della connessione interpersonale e offrire delle proposte. E, forse sorprendentemente, tale mostra dovrebbe riconnettersi con gli anni in cui le pratiche espositive erano pensate come un laboratorio, nel ventesimo secolo. . . La mostra veramente contemporanea, con la sua sorprendente qualità di non-finitezza ed incompletezza, dovrebbe scatenare una partecipazione pars pro toto" (Obrist, "Battery, Kraftwerk and Laboratory", in Words of Wisdom: A Curator’s Vade Mecum on Contemporary Art, a cura di Carin Kuoni [New York: Indipendent Curators International, 2001], p. 129); in un telesimposio sul progetto Laboratorium di Barbara van der Linden e Hans Ulrich Obrist (Anversa, 2000), i curatori descrivono la loro preferenza per la parola "laboratorio", perché è "neutrale" e "ancora intatta, non contaminata dalla scienza" ("Laboratorium is the answer, what is the question?", TRANS 8 [2000], p. 114). La metafora del laboratorio si incontra anche nelle visioni di alcuni artisti per le proprie mostre. Ad esempio, Liam Gillick, parlando della sua mostra personale allla galleria Arnolfini di Bristol, osserva che essa sia “una situazione simile ad un laboratorio o un'officina in cui è possibile sperimentare combinazioni di idee, esercitare processi critici relazionali e comparativi" (Gillick citato in Liam Gillick: Renovation Filter: Recent Past and Near Future [Bristol: Arnolfini, 2000], p. 16). Le opere di Rirkrit Tiravanija sono spesso descritte in termini analoghi: esse sarebbero "come un laboratorio per il contatto umano" (Jerry Saltz, "Resident Alien", The Village Voice, 7-14 luglio 1999, s.p.), o "esperimenti psico-sociali, dove si creano situazioni di incontro, scambio, eccetera" (Maria Lind, "Letter and event”, Paletten 223 [aprile 1995], p. 41). Va osservato che "laboratorio" in questo contesto non definisce esperimenti psicologici o comportamentali sullo spettatore, ma si riferisce piuttosto alla sperimentazione creativa nei confronti delle modalità espositive convenzionali. 3. Lewis Kachur, Displaying the Marvelous: Marcel Duchamp, Salvador Dalì and the Surrealist Exhibition (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2001). 4. Sotto la direzione di Sune Nordgren, la galleria Baltic di Gateshead ha organizzato tre spazi per studi di artisti, detti "AIR" (Artist-in-Residence), ma questi erano aperti al pubblico solo quando l'artista residente lo volesse; spesso il pubblico si è trovato a credere alla descrizione del Baltic come "fabbrica d'arte" solo sulla fiducia. Il Palais de Tokyo, invece, conta fino a dieci artisti in residenza presenti in maniera costante. Il Kunstverein di Monaco di Baviera, sotto la cura di Maria Lind, ha perseguito un tipo diverso di visibilità della produzione: il rifacimento dell'ingresso della galleria ad opera di Apolonia Sustersic comprendeva una "stazione di lavoro", in cui i membri dello staff curatoriale (compresa la Lind) potessero a turno sedere alla reception della galleria, continuando a lavorare ai propri progetti in pubblico. 5. B. Joseph Pine II and James H. Gilmore, The Experience Economy: Work Is Theatre and Every Business a Stage (Boston, Harvard Business School Press, 1999). Il Baltic si presenta come "un sito per la produzione, la presentazione e la fruizione dell'arte contemporanea" attraverso "una forte enfasi su commissioni, inviti agli artisti e l'opera di artisti residenti" (www.balticmill.com). 6. "Ogni sei mesi, un artista è invitato dal Palais de Tokyo a progettare e decorare un piccolo spazio situato sotto la scala principale, ma posta al centro degli spazi espositivi: Le Salon. Sia uno spazio di relax che un opera d'arte, Le Salon offre comode poltrone, giochi, materiale di lettura, un pianoforte, un video o un programma TV a coloro che lo visitano" (Palais de Tokyo, sito web [http://www.palaisdetokyo.com], T.d.A.). La sede attuale della Portikus Gallery di Francoforte dispone di un ufficio, una sala lettura e uno spazio espositivo progettat dall'artista Tobias Rehberger.7. Hal Foster, "L'artista come etnografo," in Foster, Il Ritorno del Reale. L'Avanguardia alla fine del Novecento, Milano: Postmedia Books, 2006 (orig. The Return of the Real, Cambridge, Mass.: MIT Press, 1996), p. X. 8. "L'arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza d'investire la sfera relazionale, problematizzandola." Bourriaud, Estetica Relazionale, Milano: Postmedia Books, 2010, p. 16 (orig. Esthétique Relationelle, Digione: Les Presses du Reel, 1998). D'ora in avanti citata nel testo come ER. 9. Questo cambio di dimensione dalla sfera "privata" a quella "pubblica" è da tempo associato ad una rottura decisiva con il modernismo; vedi Rosalind Krauss "Sense and Sensibility", Artforum (Novembre 1973), pp. 43-53, e "Doppio negativo: una nuova sintassi per la scultura", in Passaggi. Storia della Scultura da Rodin alla Land Art (Milano: Bruno Mondadori, 1998; orig. Passages in Modern Sculpture, London: Thames and Hudson, 1977). 10. Ciò si riflette nel numero di artisti la cui pratica consiste nell'offerta di un "servizio", come Christine Hill, artista statunitense ma residente a Berlino che ha offerto ai visitatori di una sua mostra massaggi alla schiena e alle spalle, e che ha poi allestito un negozio di abbigliamento di seconda mano pienamente funzionante, il Volksboutique, a Berlino e all'interno di Documenta X (1997). 11. Per esempio, l'opera Pier di Jorge Pardo creata per la mostra Skulptur. Projekte Münster del 1997. Pier consiste in un molo in legno rosso di California lungo 50 metri, con alla fine un piccolo padiglione, sospeso sul lago Aasee. L'opera è un molo funzionale che fornisce ormeggio per le barche, mentre un distributore di sigarette fissato alla parete del padiglione incoraggia i visitatori a fermarsi e ammirare il panorama. 12. Questa strategia viene definita da Bourriaud come "postproduzione", ed è trattata nel libro che fa da seguito ad Estetica Relazionale: "Dall'inizio degli anni Ottanta, le opere d'arte sono create sulla base di opere già esistenti; sempre più artisti interpretano, riproducono, espongono nuovamente e utilizzano opere realizzate da altri oppure altri prodotti

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culturali. [...] Inserendo nella propria opera quella di altri, gli artisti contribuiscono allo sradicamento della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, readymade e opera originale. Il materiale manipolano non è più primario." Bourriaud sostiene che la postproduzione si differenzi dal ready-made, il quale intende mettere in discussione la paternità di un'opera e l'istituzione stessa dell'arte, perché l'accento viene posto nel primo caso sulla ricombinazione di artefatti culturali già esistenti al fine di investirli di un nuovo significato. Vedi Bourriaud, Postproduzione. Come l'arte riprogramma il mondo, Milano: Postmedia Books, 2004, p. 7 (orig. New York: Lukas and Sternberg, 2002). 13. Il miglior esempio di questa ossessione per la collaborazione come modello è forse in No Ghost Just a Shell, un progetto tuttora in corso iniziato da Pierre Huyghe e Philippe Parreno, che hanno invitato Liam Gillick, Dominique Gonzales-Foerster, M/M, Francois Curlet, Rirkrit Tiravanija, Pierre Joseph, Joe Scanlan e altri a collaborare con loro nella creazione di opere intorno ad AnnLee, defunto personaggio di un manga giapponese. 14. Jerry Saltz, "A Short Story of Rirkrit Tiravanija", Art in America (febbraio 1996), p. 106. 15. Se si volessero identificare dei precursori storici per questo tipo di arte, vi è un'ampia scelta di nomi da citare: l'installazione senza titolo di Michael Asher del 1974 presso la Clare Copley Gallery di Los Angeles, in cui l'artista ha rimosso la partizione tra spazio espositivo e ufficio della galleria, o il ristorante Food di Gordon Matta-Clark, aperto con i suoi colleghi artisti nei primi anni Settanta. Food era un progetto collettivo che permetteva a questi artisti di guadagnarsi un minimo per vivere e di finanziare la propria pratica artistica, senza soccombere ai compromessi ideologici imposti dal mercato dell'arte. Altri artisti che hanno presentato la consumazione di cibi e bevande come arte negli anni Sessanta e primi Settanta includono Allan Ruppersberg, Tom Marioni, Daniel Spoerri e il gruppo Fluxus. 16. Udo Kittelmann, "Preface", in Rirkrit Tiravanija: Untitled, 1996 (Tomorrow Is Another Day) (Colonia: Salon Verlag e Kölnischer Kunstverein, 1996), s.p. Come ha notato Janet Kraynak, l'opera di Tiravanija ha provocato alcune delle reazioni critiche più idealizzate ed euforiche degli ultimi tempi: le sue opere sono celebrate non solo come luoghi di emancipazione privi di vincoli, ma anche come una critica della mercificazione e come una celebrazione dell'identità culturale - al punto che questi imperativi finiscono col fondersi, nell'abbraccio istituzionale del personaggio di Tiravanija in quanto merce. Vedi Janet Kraynak, "Tiravanija's Liability", Documents 13 (autunno 1998), pp. 26-40. Vale la pena di citare la frase della Kraynak per intero: "Mentre l'arte di Tiravanija stimola o provoca una serie di riflessioni rilevanti nel quadro più ampio delle pratiche artistiche contemporanee, il suo particolare status nell'immaginario pubblico deriva in parte da una certa naturalizzazione delle letture critiche che lo hanno accompagnato e, in una certa misura, costruito. A differenza di precedenti accoppiamenti dell'utopismo d'avanguardia, in cui l'arte si fonde felicemente con la vita, e la criticità anti-istituzionale, in cui oggetti d'arte sono costituiti in, e come, spazi sociali, quali garanzie putativamente la produzione diincontaminata prassi sociale nel lavoro Tiravanija è l'impronta unica dell'artista, la cui generositàentrambi gli impianti anima e unifica loro stilisticamente. Una serie di articoli si sono concentrati sulatmosfera familiare della galleria in cui è rappresentata lui, e altri dettagli biografici della sua vita,il rendering di una segreta corrispondenza tra il lavoro Tiravanija e auto. Questa proiezione idealizzata sembraderivano dal lavoro stesso, come l'artista ha tematizzato i dettagli della sua appartenenza etnica nelle sue installazioni attraverso riferimenti alla cultura Thai. . . . L'artista, riposizionato come fonte e arbitrosignificato, è abbracciato come l'incarnazione pura della propria identità sessuale, culturale, etnica, garantendo sia l'autenticità e l'efficacia politica del suo lavoro" (pp. 28-29).17. Ibid., pp. 39-40. 18. Gillick, citato in Liam Gillick, ed. Susanne Gaensheimer e Schafhausen Nicolaus (Colonia: Oktagon, 2000), p. 36. 19. Ibid., pp. 56, 81. 20. Mike Dawson, "Liam Gillick," Flux (agosto-settembre 2002), p. 63. 21. Gillick, Rinnovo Filter, p. 16. 22. Gillick, The Way Wood (Londra: Whitechapel, 2002), p. 84. 23. Tutte queste opere sono state esposte in The Way Wood, una mostra alla Whitechapel Art Gallery nel 2002. 24. Tuttavia, è discutibile da esempi Gillick che "miglioramento" connota cambiare solo su una livello formale. Nel 1997 fu invitato a produrre un lavoro in una banca di Monaco di Baviera e descritto il progetto come segue: "Ho individuato una zona problematica morto nella costruzione di una svista da parte degli architetti, che io propone di risolvere con questi schermi. Questi avrebbe cambiato leggermente il modo in cui lo spazio ha funzionato.

È interessante notare, tuttavia, la mia proposta fatta gli architetti ripensare quella parte del palazzo. . . gli architetti giunse a una conclusione migliore su come risolvere i loro disegni, senza la necessità di qualsiasi arte "(Gillick, Rinnovo Filter, p. 21). Un critico ha respinto questa modalità di lavoro come "feng shui corporate" (Max Andrews, "Liam Gillick," Contemporanea 32, p. 73), richiamando l'attenzione sul modo in cui i cambiamenti proposti erano principalmente cosmetico, piuttosto che strutturale. Gillick avrebbe risposto che l'aspetto del nostro ambiente condizioni I nostri comportamenti, e così i due sono indivisibili. 25. Liam Gillick, "Guida per sistemi di videoconferenza e il ruolo del lavoratore in costruzione Rapporto con la mostra d'arte contemporanea (Backstage), "in Gillick, cinque o sei (New York: Lukas e Sternberg, 2000), p. 9. Come osserva Gillick, pensando scenario è uno strumento per proporre il cambiamento, anche se è "Intrinsecamente legati al capitalismo e la strategizing che va con esso." Questo è quanto dispone "Uno dei componenti chiave necessarie al fine di mantenere il livello di mobilità e di reinvenzione tenuto a fornire l'aura dinamica dei cosiddetti economie di libero mercato "(Gillick," Previsione: Nel caso futuro aiutare il passato? ", cinque o sei, p. 27). 26. Gillick in Renovation Filter, p. 16. Come Alex Farquharson ha rilevato che "La frase operativo: ecco 'Potrebbe

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essere possibile.' Considerando Rirkrit può ragionevolmente aspettarsi i suoi visitatori a mangiare i suoi spaghetti tailandese, è improbabile che il pubblico di Liam farà la sua rivalutazione. Invece di attività reale, lo spettatore viene offerto un immaginario ruolo, un approccio condiviso da Gonzalez-Foerster e Parreno "(Alex Farquharson," curatore e Artista "Arte, mensile 270 [ottobre 2003], p. 14). 27. Beuys è menzionato raramente in Estetica Relazionale, e in un'occasione è specificatamente invocato per recidere ogni legame tra "scultura sociale" e l'estetica relazionale (p. 30). 28. Umberto Eco, "La poetica di opera aperta" (1962), in Eco, Opera aperta (Boston: Harvard University Press, 1989), pp 22-23. 29. Eco cita Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione: "Come può nulla mai si presenta realmente con noi, fin dalla sua sintesi non è mai completato? Come avrei potuto acquisire l'esperienza del mondo, come io Sarebbe di un singolo azionamento propria esistenza, dal momento che nessuno dei punti di vista o di percezione che ho di essa può esaurire e gli orizzonti rimangono sempre aperte?. . . Questa ambiguità non rappresenta un imperfezione nella natura dell'esistenza o in quello della coscienza, è la sua definizione molto "(Eco," Il Poetica del Lavoro Open ", p. 17). 30. Si potrebbe obiettare che questo approccio preclude di fatto "open-ended" letture, in quanto il significato del lavoro diventa così sinonimo del fatto che il suo significato è aperto. 31. Penso di molta arte concettuale, video, performance, installazione e site-specific lavoro che ha espresso la sua politica rifiutando di gratificare o colludere con il mercato dell'arte, ma che rimasta auto-referenziale a livello di contenuto. Vedi Lucy Lippard, sei anni: la dematerializzazione dei Art Object 1966-1972 (Berkeley: University of California Press, 1996), pp VII-XXII. 32. Rosalyn Deutsche, Sfratti: Politica Arte e territoriale (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1996), pp. 295-96. Corsivo mio. 33. Ibid., P. 296. 34. Rosalind Krauss, un viaggio nel Mare del Nord (London: Thames and Hudson, 1999), p. 56. Altrove, Krauss propone che dopo la fine del 1960, è stato ad un "luogo concettuale-cum-architettonico che la pratica dell'arte sarebbe diventato 'specifiche,' piuttosto che a qualunque mezzo estetico ", come meglio esemplificato nel lavoro di Marcel Broodthaers (Krauss, "Performing Art," London Review of Books, 12 novembre 1998, p. 18). Mentre io d'accordo in una misura con Krauss sul punto di criticità auto-riflessiva, sono turbato dalla sua riluttanza a volto altri modi in cui l'arte contemporanea installazione potrebbe funzionare correttamente. 35. Vedere la conclusione al mio prossimo libro, Installazioni d'arte e il Viewer (Londra: Tate Publishing, 2005). 36. Ciò si riflette in discussione Bourriaud di Felix Gonzales-Torres, un artista il cui lavoro ritiene di essere un precursore fondamentale dell'estetica relazionale. Prima della sua morte per AIDS nel 1996, Gonzales- Torres ottenuto il riconoscimento per le sue rielaborazioni emotive della scultura minimalista con mucchi di dolciumi e pile di carta, a cui i visitatori sono incoraggiati ad aiutare se stessi. Attraverso questo lavoro, Gonzales-Torres fatto sottili allusioni a questioni politicamente, come la crisi AIDS (un mucchio di caramelle trovato il peso del suo compagno Ross, morto nel 1991), la violenza urbana (leggi pistola in Untitled [ANR] [1991]), e l'omosessualità (Perfect Lovers [1991]). Bourriaud, però, retrocede questo aspetto di Gonzales-Torres pratica a favore della sua "struttura", la sua generosità letterale verso lo spettatore. 37. Eric Troncy, "London Calling", Flash Art (estate 1992), p. 89. 38. Per Lacan, il soggetto non è equivalente ad un consapevole senso di agenzia: "Lacan 'soggetto' è il soggetto dell'inconscio. . . inevitabilmente diviso, castrato, split "in conseguenza del suo ingresso nel linguaggio (Dylan Evans, Un introduttiva Dizionario di Londra Lacaniana [Psicoanalisi: Routledge, 1996], pp 195-96). 39. ". . . il soggetto è in parte auto-determinata. Tuttavia, come questa autodeterminazione non è l'espressione di ciò che il soggetto non sia già, ma il risultato della sua mancanza di essere, invece, l'autodeterminazione non può che procedere attraverso processi di identificazione "(Ernesto Laclau, nuove riflessioni sulla rivoluzione del nostro tempo (1990), citato in Deconstruction e pragmatismo, ed. Chantal [London: Routledge, 1996] Mouffe, p. 55). 40. Ernesto Laclau e Mouffe Chantal, Egemonia e strategia socialista (London: Verso, 1985), p. 125. 41. Mouffe, "Introduzione", in Deconstruction e pragmatismo, p. 11. 42. Saltz, "Breve storia di Rirkrit Tiravanija, p. 107. 43. Bourriaud citato in "Relazioni con il Pubblico: Bennett Simpson colloqui con Nicolas Bourriaud," p. 48. 44. Udo Kittelmann, "Prefazione", in Rirkrit Tiravanija, np 45. Kšlnischer Stadt-Anzeiger citato in Rirkrit Tiravanija, np 46. Saltz muse su questa questione in un modo meravigliosamente paraocchi ". . . teoricamente chiunque può venire in [alla galleria di un'arte]. Come mai non lo fanno? In qualche modo il mondo dell'arte sembra secernere un invisibile enzima che respinge outsider. Cosa succederebbe se la prossima volta Tiravanija istituito una cucina in un'arte galleria, un gruppo di persone senza tetto alzato i giorni a pranzo? Quale sarebbe il Walker Art Center fare se un uomo senza fissa dimora rimediato il prezzo di ingresso al museo, e ha scelto di dormire Lettino Tiravanija tutto il giorno, tutti i giorni? . . . Nel suo modo tranquillo, Tiravanija forze a queste domande in primo piano, jimmies e il blocco (in modo così efficiente sinistra serrato da molta arte cosiddetta politica) sulla porta che separa il mondo dell'arte da tutto il resto. "L '" enzima invisibile "che si riferisce a Saltz segnalazione dovrebbe lui proprio per i limiti del lavoro di Tiravanija e il suo approccio alle questioni di nonantagonistic pubblico spazio (Saltz, "Breve storia di Rirkrit Tiravanija, p. 106). 47. critica di Jean-Luc Nancy l'idea marxista della comunità come comunione nella inoperativi

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Comunità (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1991) è stato determinante per il mio esame di un contro-modello per l'estetica relazionale. A partire dalla metà degli anni 1990, il testo di Nancy è diventata sempre più punto di riferimento importante per gli scrittori di arte contemporanea, vista in Rosalyn Deutsche, sfratti; capitolo 4 della Object s Pamela M. Lee 'essere distrutto: Il lavoro di Gordon Matta-Clark (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2000), George Baker, "Relazioni e Counter-Relazioni: Lettera aperta a Nicolas Bourriaud, "in Herstellen ZusammenhŠnge / Contestualizzate, ed. Yilmaz Dziewior (Colonia, Dumont 2002); Morgan e Jessica, bene comune (Londra: Tate Publishing, 2003). 48. Come la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha riportato che "Nessun soggetto è dato, tuttavia il contesto artistico automaticamente conduce tutte le discussioni tornare alla domanda circa la funzione dell'arte. "Christophe Blase, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 dicembre 1996, citato in Rirkrit Tiravanija, np. E continua: "Se questo discorso è letto su una ve • na o un livello di contesto colto il livello intermedio si essere il riferimento obbligatorio alla Duchamp-è una questione di fortuna e dipende dai rispettivi partecipanti. Comunque, il fatto che la comunicazione in generale e una discussione su arte, in particolare, prende posto, guadagna un valore positivo, come minimo denominatore". 49. In sostanza, non vi è alcuna differenza tra utopia (la perfezione della società) e la microtopia, che è solo la perfezione personale alla potenza di dieci (o venti, o comunque molti dei partecipanti sono presente). Entrambe si basano su esclusione di ciò che ostacola o minaccia l'ordine armonico. Questo è visto in tutta Thomas More descrizione di Utopia. Descrivere un cristiano fastidioso fanatico che ha condannato altre religioni, il viaggiatore Raffaello racconta: "Quando era stato andare avanti così questo per qualche tempo, fu arrestato e accusato, non con la bestemmia, ma con disturbi del pace. E 'stato debitamente condannato all'esilio, per uno dei più antichi principi della loro costituzione è la tolleranza religiosa "(Thomas More, Utopia [Londra: Penguin Books, 1965], p. 119). 50. Gillick, La via del legno, pp 81-82. 51. Gillick, Rinnovo Filter, p. 20. 52. Potremmo anche dire che in microtopia Gillick, la devozione per il compromesso è l'ideale: un intrigante ma un'ipotesi insostenibile e, in definitiva meno un microtopia democratico che una forma di "terza via" politica. 53. Tuttavia, Hirschhorn è stato incluso nella mostra GNS e Sierra in Hardcore, sia tenuto a del Palais de Tokyo nel 2003. Vedi anche la discussione Bourriaud di Sierra in "Est-il bon? Est-il mechant? " Belle Arti 228 (maggio 2003), p. 41. 54. Dal Sierra trasferisce in Messico nel 1996, la maggior parte delle sue azioni hanno avuto luogo in latinoAmerica, e il "realismo" del loro esito è di solito un atto d'accusa feroce della globalizzazione, ma questo non è sempre il caso. Sei in elevazione di Banchi (2001) alla Kunsthalle di Monaco di Baviera, Sierra pagato ai lavoratori di tenere su tutte le panche in pelle in gallerie del museo, per periodi di tempo. Il progetto è stato un compromesso, poiché Kunsthalle non avrebbe lasciato la Sierra strappare un muro della loro nuova Herzog & de Meuron Galleria per i lavoratori di reggere, ma Sierra ancora considerato il risultato di avere successo ", poiché riflette la realtà del rapporti di lavoro a Monaco di Baviera. Monaco è una città pulita e prospera, e di conseguenza le uniche persone che trovato a svolgere il compito a portata di mano erano attori disoccupati e culturisti che volevano mettersi in mostra capacità fisiche "(Sierra," A Thousand Words "," Artforum "[ottobre 2002], p. 131). 55. Sierra, citato in Santiago Sierra: Works 2002-1990 (Birmingham, Inghilterra: Ikon Gallery, 2002), p. 15. 56. Come Laclau sostiene, è proprio questa "indecidibilità radicale", e la decisione che deve essere presa entro questa, che è costitutivo di una società politica. Vedi Laclau, emancipazione (s) (London: Verso, 1996), pp 52-53. 57. "La procedura è stata eseguita in maniera collettiva le porte chiuse all'interno di un magazzino situato all'Arsenale, durante l'inaugurazione di quell'anno Biennale di Venezia. Sebbene il numero di persone programmato di partecipare a questa operazione è stato originariamente 200, è stato finalmente giù a 133 a causa del crescente arrivo degli immigrati, rendendo difficile calcolare con precisione quanti avevano già entrò nella sala. È stato poi deciso di chiudere l'ingresso e calcolare il numero da una rozza contano. Questo ha causato numerosi problemi alla porta, grazie al flusso incessante di persone che hanno lasciato o iscritti "(Sierra, citato in Santiago Sierra, p. 46). 58. Come Laclau e Mouffe concludere, la politica non dovrebbe trovato su postulando una "essenza della il sociale ", ma, al contrario, sulla affermazione della contingenza e l'ambiguità di ogni" essenza " e sul carattere costitutivo della divisione sociale e di antagonismo. Vedi Laclau e Mouffe, egemonia, p. 193. 59. L'esempio più notevole di questo approccio è Benjamin HD Buchloh, "Cargo e Cult: I display di Thomas Hirschhorn "Artforum", (novembre 2001). La posizione periferica del Le sculture di Hirschhorn ha in alcune occasioni ha fatto sì che il loro contenuto sono stati rubati, in particolare in Glasgow, 2000, prima della manifestazione aveva anche aperto. 60. Hirschhorn, intervista con Okwui Enwezor, in Thomas Hirschhorn: Cucchiaio Jumbo e Big Cake (Chicago: Art Institute di Chicago, 2000), p. 27. 61. Ibid., P. 29. Hirschhorn fa qui riferimento al concetto di qualità sposata da Clement Greenberg, Michael Fried, e altri critici come criterio di giudizio estetico. Vorrei distanza il mio uso di "Qualità" (come in "la qualità delle relazioni in estetica relazionale") da quello a cui alludeva Hirschhorn. 62. Thomas Hirschhorn, nel bene comune, ed. Morgan, p. 63. 63. Ibid., P. 62. 64. Mi viene in mente di lode di Walter Benjamin di giornali, perché da interpellare il loro lettore (tramite la pagina

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delle lettere) e, pertanto, lo elevano / lei lo stato di un collaboratore: "Il lettore è sempre pronto a diventare uno scrittore ", dice," che è, un descrittore, ma anche un medico prescrittore. . . egli guadagna l'accesso alla paternità "(Benjamin," L'autore come produttore ", in Benjamin, Riflessioni [New York: Harcourt Brace Jovanovich, Inc., 1978], p. 225). Anche così, il giornale mantiene un editor, e le lettere pagina ma è una tra le tante altre pagine l'autore sotto il mandato di questo editor. 65. "Come il sociale è penetrata dalla negatività, cioè da antagonismo di esso non raggiunge lo stato di trasparenza, di presenza piena, e l'obiettività della sua identità è definitivamente sovvertito. Da qui in poi, il rapporto impossibile tra oggettività e la negatività è diventata costitutiva della sociale "(Laclau e Mouffe, egemonia, p. 129). 66. Il blocco o impasse è un motivo ricorrente nel lavoro di Sierra, come 68 persone pagate per bloccare il Ingresso al Museo Pusan di arte contemporanea, Corea (2000) o 465 persone hanno pagato a stare in una stanza al Museo Rufino Tamaya Città del Messico, (1999). 67. I lavoratori che non possono essere pagati e remunerati per rimanere all'interno di scatole di cartone, Kunst-Werke, Berlin, (Settembre 2000). Sei lavoratori sono rimasti all'interno del box per quattro ore al giorno per sei settimane. 68. Fried, "Arte e Objecthood," Artforum "(estate 1967), ristampato in Minimal Art, ed. Gregory Battcock (Berkeley: University of California Press, 1995), p. 128.

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