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AMICI CHE DIPINGONO San Francesco secondo Ranzi Dopo l’imponente mostra “L’Apocalisse e la guerra” in cui spesso Angelo Ranzi lasciava illuminare la scena dalla luce del divino, unica speranza per un mondo alla fine di un ciclo, ecco ora una nuova serie di opere inedite sulla vita del santo più amato e contestato della storia della Chiesa: San Francesco d’Assisi. Ranzi descrive scene della vita del “poverello d’Assisi” come se ne avesse preso parte lui stesso e coinvolge a tal punto chi si pone di fronte all’immagine da trasmettergli emozioni talmente vivide da suscitare immedesimazione ed empatia. Francesco parla agli uccelli, al lupo, alla luna, all’acqua, al sole con affetto e rispetto, servendosene come tramite per il divino. E quando, con violenza indicibile, viene colpito dalla luce e raggiunge l’illuminazione, Francesco alza le braccia al cielo e si creano cattedrali che resistono nei secoli. Queste tavole rappresentano perciò una sorta di cammino di purificazione per l’artista, per l’uomo Angelo Ranzi che, servendosi di vari linguaggi espressivi dove la luce diviene elemento primario e irrinunciabile, riesce ad avvicinarsi sempre più al divino, scoprendo in Francesco un esempio e una concreta possibilità di redenzione. Angelo Ranzi, classe 1930, si è dedicato anima e corpo alla realizzazione di queste opere, per fare in modo che tutto fosse pronto per la festa del 4 ottobre, che quest’anno, in occasione del 150esimo dell’Unità d’Italia, ha un sapore molto particolare. È questa la quarta mostra dedicata al Santo patrono d’Italia da quando è attivo il Centro Culturale San Francesco a Forlì ed è stata fortemente voluta da Padre Flavio Medaglia. Purtroppo però Padre Flavio – guardiano del Convento dei Frati Minori di Montepaolo e direttore del Centro Culturale San Francesco – non potrà ammirare le opere di Angelo Ranzi perché nella notte tra il 22 e il 23 maggio di questo stesso anno ci ha improvvisamente lasciato. Insieme ad Angelo Ranzi, Padre Flavio Medaglia, Padre Felice Chiappetta, e Vincenzo Nunzi hanno collaborato al progetto: Andrea Angelini, Silvia Navoni, Marco Vallicelli, Marco Vignazia, Marco Viroli e Gabriele Zelli. Marco Viroli settembre 2011

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AMICI CHE DIPINGONO ( S C R I T T I S P A R S I D I U N P R O F A N O S U L L A P I T T U R A )

San Francesco secondo Ranzi

Dopo l’imponente mostra “L’Apocalisse e la guerra” in cui spesso Angelo Ranzi lasciava illuminare la scena dalla luce del divino, unica speranza per un mondo alla fine di un ciclo, ecco ora una nuova serie di opere inedite sulla vita del santo più amato e contestato della storia della Chiesa: San Francesco d’Assisi. Ranzi descrive scene della vita del “poverello d’Assisi” come se ne avesse preso parte lui stesso e coinvolge a tal punto chi si pone di fronte all’immagine da trasmettergli emozioni talmente vivide da suscitare immedesimazione ed empatia. Francesco parla agli uccelli, al lupo, alla luna, all’acqua, al sole con affetto e rispetto, servendosene come tramite per il divino. E quando, con violenza indicibile, viene colpito dalla luce e raggiunge l’illuminazione, Francesco alza le braccia al cielo e si creano cattedrali che resistono nei secoli. Queste tavole rappresentano perciò una sorta di cammino di purificazione per l’artista, per l’uomo Angelo Ranzi che, servendosi di vari linguaggi espressivi dove la luce diviene elemento primario e irrinunciabile, riesce ad avvicinarsi sempre più al divino, scoprendo in Francesco un esempio e una concreta possibilità di redenzione. Angelo Ranzi, classe 1930, si è dedicato anima e corpo alla realizzazione di queste opere, per fare in modo che tutto fosse pronto per la festa del 4 ottobre, che quest’anno, in occasione del 150esimo dell’Unità d’Italia, ha un sapore molto particolare. È questa la quarta mostra dedicata al Santo patrono d’Italia da quando è attivo il Centro Culturale San Francesco a Forlì ed è stata fortemente voluta da Padre Flavio Medaglia. Purtroppo però Padre Flavio – guardiano del Convento dei Frati Minori di Montepaolo e direttore del Centro Culturale San Francesco – non potrà ammirare le opere di Angelo Ranzi perché nella notte tra il 22 e il 23 maggio di questo stesso anno ci ha improvvisamente lasciato. Insieme ad Angelo Ranzi, Padre Flavio Medaglia, Padre Felice Chiappetta, e Vincenzo Nunzi hanno collaborato al progetto: Andrea Angelini, Silvia Navoni, Marco Vallicelli, Marco Vignazia, Marco Viroli e Gabriele Zelli. Marco Viroli settembre 2011

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David Sabiu: l’Universo fuori e dentro di noi

David Sabiu è un artista versatile, poliedrico, interessante. In primo luogo musicista, solo successivamente pittore, per passione e vocazione. Ci mancherebbe solo di scoprirlo poeta per trovare riunite in un’unica persona tutte gli elementi distintivi dell’artista “puro”. È vero infatti che se il pittore dipinge con i pennelli e i colori, il musicista lo fa con il suo strumento e con le note mentre il poeta dipinge con i versi e con le parole. Pittura, musica e poesia sono perciò aspetti artistici paralleli, correlati e molto affini tra loro. La poesia visiva di David Sabiu, che si esplica nelle sue tele già da parecchi anni, è poesia di grande respiro che ci porta a compiere un viaggio meraviglioso tra i segreti dell’Universo, dalle stelle e dalla loro creazione, agli atomi e ai processi molecolari. Un viaggio che dall’immensamente grande ci catapulta nell’immensamente piccolo, fino a indagare nell’impalpabile guazzabuglio di reazioni chimiche che si agita dentro di noi. David osserva l’Universo che è fuori ma anche dentro di noi, perché la scienza ci insegna che gli atomi che compongono il nostro corpo non sono nati sul nostro pianeta, ma sono stati generati dall’iniziale crogiolo nucleare in cui tutto si è generato. Per questo anche noi siamo fatti della stessa sostanza delle stelle. I quadri di David Sabiu, apparentemente semplici, si rivelano agli occhi e alla mente dell’osservatore più attento come fonti di inesauribile emozione, come vere e proprie piccole sinfonie visive. Le influenze pittoriche che muovono l’arte di Sabiu restano le stesse delle precedenti produzioni: Pollock e l’A c t i o n p a i n t i n g , ma anche Mirò, con il suo abbecedario minimale di emozioni di base e di simboli essenziali.Nella selezione scelta per questa personale l’artista forlivese mostra di aver preso il controllo sulla composizione, senza tuttavia togliere nulla alla freschezza di una esecuzione che deve dare prima di tutto l’idea di essere stata portata a termine in pochi istanti: i colori e la materia gettati sulla tela devono riportare all’impeto e al caos emotivo della creazione. In realtà tutto è frutto di lunghi studi, bilanciato e meditato nei dettagli da Sabiu, che si preoccupa sempre del risultato finale ovvero che ogni suo lavoro sia perfettamente equilibrato negli spazi e nei contrasti. Le idee e i concetti sono lasciati a decantare dall’artista che si fa artigiano, quasi un giardiniere paziente. Le cose seguono il loro corso naturale, crescono, maturano. A volte bisogna fare innesti, bisogna irrigare, come si fa con una piccolo arbusto per farlo crescere. Le cose maturano piano nello spirito dell’artista fino a trovare la propria espressione. Le idee, come le piante e i fiori, maturano lentamente; il vocabolario di forme e colori non si scopre quindi in un sol colpo ma si forma automaticamente, quasi come se l’artista non ne fosse del tutto cosciente. Nelle opere di Sabiu l’arte e il pensiero, le linee e i colori, si fondono insieme senza freni apparenti, tuttavia con disciplina. L’artista forlivese ci parla della vita e dell'eterno trasformarsi della materia, sottese alla continua tensione dello spirito e della forza energetica (amore?) che muove l’Universo. Nella selezione portata in esposizione dall’artista forlivese si intravede inoltre quella che potrebbe essere una evoluzione futura della sua pittura che si spinge verso il monocromatismo e in particolare verso un bianco e nero di lontana eco orientale (yin e yang). Marco Viroli maggio 2010

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Claudio Barasi: il colore della luce

Nella sua nuova produzione l’artista romagnolo Claudio Barasi abbandona il figurativo per rivolgersi completamente allo studio della luce e all'incanto del colore nella loro essenza. Il colore è uno degli snodi fondamentali della pittura e della riflessione dell’artista romagnolo: il colore deve essere pensato, sognato, immaginato, in un trasporto di partecipazione al soggetto che segna un processo di interiorizzazione dell'arte. Ed è proprio il colore i n p r i m i s il vero protagonista delle nuove opere di Barasi. Grazie a un utilizzo semplice, quasi infantile, del cromatismo riesce a creare suggestioni ed emozioni, smuovendo qualcosa nell’intimo di chi si pone di fronte all’immagine, andando a rovistare nei ricordi più sedimentati e ancestrali. In taluni casi la regressione compiuta dall’artista è tale da riportarlo all’uso del semplice graffito di stampo rupestre. Queste immagini sono frutto del sogno e dell’esperienza e al tempo stesso sono piacevoli nei loro contrasti cromatici e nei giochi di luce, una luce che c’è ma non si vede ma di cui i colori ne suggeriscono la presenza. Non c'è altro da spiegare né da descrivere: Barasi non espone teorie a cui conformare l'esecuzione delle proprie opere. L’uomo che ha già rappresentato con l’arte tutto ciò che poteva esprimere vede una via d’uscita da questo periodo di e m p a s s e culturale e artistica riappropriandosi delle tecniche comunicativo-espressive primordiali, quasi primitive. Questo avviene senza rinunciare però all’uso del colore che viene utilizzato dall’artista con tutta la sapienza e la consapevolezza che secoli di storia dell’arte hanno conferito alla mano dell’uomo. Il colore mantiene quindi una funzione creativa che non è in contrasto con la funzione decorativa, ma che anzi è volto a cogliere con maggiore profondità la luce e l'atmosfera. Sono otto le opere in esposizione, frutto della nuova produzione di Claudio Barasi, tre delle quali composte da quattro lavori a sé stanti, riuniti in un'unica soluzione. Con la nuova produzione Barasi vuole documentare la sua evoluzione di uomo e di artista. Nei nuovi lavori Barasi fa confluire arte primitiva e arte moderna. Da questa unione scaturisce una tecnica espressiva semplice, diretta, attuale, decorativa, originale, piena di speranza, di luce e di colore, uniche risposte plausibili a una crisi dalla quale non parrebbe altrimenti possibile uscire. Marco Viroli aprile 2010

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I pittori forlivesi e i fiori

Sin dall’antichità i fiori sono stati tra i soggetti più cari ai pennelli degli artisti e alle penne dei poeti. Da sempre pittura e poesia hanno marciato di pari passo nel servirsi dei fiori come metafora della vita, della bellezza della passione. Celebre e indimenticabile, solo per fare un esempio tra tanti, è la

R o s a f r e s c aa u l e n t i s s i m a cantata dal poeta Cielo d'Alcamo nel XIII secolo, ma i fiori restano sempre protagonisti dei versi, sia prima che dopo la rivoluzione poetica baudelaireiana de L e f l e u r d u m a l , per l’appunto I f i o r i d e lm a l e . Ma non sempre in pittura le opere raffiguranti nature morte e immagini floreali hanno ottenuto il giusto rilievo. Considerata a torto forma di rappresentazione artistica di “serie B”, l’arte legata ai fiori e alla natura ha conosciuto la sua vera e propria rivincita a partire dal XVII secolo, fino a trovare nell’Ottocento, con l’avvento della pittura e n p l e i n a i r , dell’Impressionismo e dell’affermazione della modernità, pieno riconoscimento di pubblico e critica. Il fiore che sboccia mette in risalto colori ed emozioni, è il simbolo della rinascita, della primavera e dell’estate, della vita nella sua esplosione, come pure diviene allegoria del sesso femminile, quindi della fecondità e della prosperità. Tanti fiori diversi, come tanti sono stati i significati a essi attribuiti: un omaggio a un santo, all’amore, alla bellezza, effimera come è effimera la breve vita di un fiore. “I pittori forlivesi e i fiori” è una esposizione che raccoglie una selezione di quattordici artisti, scelti tra i più noti, attivi e rappresentativi della scena cittadina, a eccezione di alcuni pittori predappiesi, già conosciuti a Forlì. Pittori e pittrici si dividono in parti pressoché uguali gli spazi della mostra, a dimostrazione di una crescente espressività femminile, oramai al sorpasso di quella maschile. Molte delle opere in esposizione sono state eseguite dagli artisti appositamente per l’occasione, altre invece vengono qui esposte per la prima volta. Diverse modalità, tanti alfabeti differenti per esprimere concetti similari, che ruotano tutti intorno alla magia dei fiori. La collettiva del Don Abbondio propone vari livelli di linguaggio: dalle raffigurazioni aderenti alla realtà, alle interpretazioni naif, vivaci e gioiose, dai fiori cosmici, alle rappresentazioni floreali più informali, dalle immagini oniriche, ai fiori usati come decorazione del soggetto primario dell’opera. Il tutto unito dal l e i t m o t i v floreale, unica limitazione imposta, necessaria a garantire l’aderenza al tema della collettiva. L’idea di allestire una mostra, che facesse da contraltare alla grande esposizione “Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh”, è nata dalla volontà di sposare un disegno sinergico, necessario a creare un’omogeneità e una comune finalità di intenti a livello cittadino. La piccola mostra allestita presso il Ristorante Don Abbondio, che resterà in cartello anch’essa fino al 20 giugno, si vuole accordare quindi alla filosofia che anima le grandi mostre del San Domenico. Dietro a “I pittori forlivesi e i fiori” c’è un impegno a porre l’accento sul nostro comune patrimonio culturale, con un legame diretto alla nostra terra e alle sue attuali espressioni artistiche. In tal modo gli organizzatori di questa collettiva desiderano portare un proprio piccolo contributo al grande progetto di sviluppo della nostra città, volto a favorire la crescita di una maggiore sensibilità culturale e di un consapevole e positivo senso di appartenenza. Caravaggio sosteneva che per rinnovare la pittura era necessario riappropriarsi della natura. Parafrasando il genio lombardo ci piace allora pensare che si possa partire proprio dai fiori, quindi dalla natura, per riappropriarsi della cultura tipica del territorio. Marco Viroli gennaio 2010 M i è m a n c a t o i l d e n a r o p e r p a g a r e d e i m o d e l l i , a l t r i m e n t i m i s a r e i d e d i c a t o c o m p l e t a m e n t e a l l a p i t t u r a d if i g u r a , h o d i p i n t o p e r ò u n a s e r i e d i s t u d i d i c o l o r i , s e m p l i c e m e n t e d e i f i o r i : p a p a v e r i r o s s i , f i o r i d i c a m p o [ … ] ,r o s e b i a n c h e e r o s a , c r i s a n t e m i g i a l l i , a l l a r i c e r c a d e i c o n t r a s t i d i b l u e a r a n c i o n e , d i r o s s o , d i v e r d e , d i g i a l l oe v i o l a , c e r c a n d o t o n i s p e z z a t i e t o n i n e u t r i c h e f a c c i a n o a r m o n i z z a r e q u e s t i e s t r e m i c o s ì b r u t a l i .(Vincent Van Gogh, 1888) T a n t a m a n i f a t t u r a g l i [ è ] f a r e u n q u a d r o b u o n o d i f i o r i c o m e d i f i g u r e . (Caravaggio, 1603)

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Martino Neri: preghiere a cose più belle di me

Martino Neri è un giovane pittore faentino che, con la sua pittura, al tempo stesso acerba e sapiente, sposa la causa di un surrealismo post-litteram. Come lui stesso afferma, trova i suoi punti di riferimento nel francese Odilon Redon, nell’italiano Mario Sironi e, a livello locale, nel forlivese Stefano Gattelli e nel ceramista faentino Nedo Merendi. A mio giudizio credo che i paesaggi di Martino Neri siano legati da un f i l r o u g e diretto e metafisico ai grandi pittori surrealisti della prima metà del ‘900, quali Tanguy, i n p r i m i s , e De Chirico, ma anche Mirò, Magritte, Ernst, Dalì,… Martino Neri ha fatto sua la lezione del grande Giorgio De Chirico, per il quale: “l ’ o p e r a d ’ a r t e n o n d e v er i s p o n d e r e n é a l l a l o g i c a , n é a l l a r a g i o n e . P e r q u e s t o m o t i v o s i a v v i c i n a a l s o g n o e a l l ’ a n i m o i n f a n t i l e ”. C’è la musica del silenzio come sottofondo ad accompagnare le atmosfere create dal pittore faentino, e, unitamente, c’è tanta poesia: poesia del vuoto, perché “i l v u o t o è l ’ u n i c a g r a n d e m e r a v i g l i a d e l m o n d o ”. (René Magritte) E traspare un vago senso di malinconia per un mondo immaginario, sospeso, onirico, irreale, ma non per questo sconosciuto. Sembra di averli già vissuti i mondi creati dal pennello di questo giovane artista: reminiscenze di vite precedenti o visioni preveggenti di vite future? Molto interessanti sono anche le ambientazioni in interni in cui Neri lascia che sia l’esistenzialismo a farla da padrone. Quei pavimenti, a grandi mattonelle quadrate bianche e nere, sembrano vere e proprie scacchiere, su cui porre in atto le proprie mosse. Ad ogni mossa corrisponderà una conseguenza, in un rapporto di causa/effetto necessario e disarmante. Il mondo di Martino Neri è desolato ma mai desolante, oppresso e mai opprimente, sconvolto ma mai sconvolgente. Si basa su forme e regole proprie che non cercano riferimenti, né conferme nel mondo reale, ma che son fatte di materia finissima e impalpabile, la materia stessa di cui son fatti i sogni. “

S i a m f a t t i n o i d e l l a m a t e r i a d i c u i s o n f a t t i i s o g n i ; e n e l l o s p a z i o e n e l t e m p o d ’ u n s o g n o è r a c c h i u s a l an o s t r a b r e v e v i t a ”. ( L a t e m p e s t a – William Shakespeare) Marco Viroli novembre 2009

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Giovanni Nanni “Nagi”: un occhio che indaga nell’anima

La pittura di Nagi è fortemente simbolica e i simboli di cui si avvale sono ricorrenti. Uno su tutti l’occhio che diviene sistema di specchi riflettenti e la retina assume le sembianze di ciò che sta dinnanzi. Dall’occhio si scompongono e si dipartono visi e dita femminili, mentre grosse mani maschili lo sorreggono. Qui sta la filosofia di Nanni che pone al primo posto tra i cinque sensi la vista, a cui attribuisce una femminilità insita e innata.

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Possiamo trovare nelle sue tele occhi singoli o ripetuti, comunque sia l’occhio di Nagi indaga sul mondo spaziando a 360 gradi. Al tempo stesso si tratta di un occhio inquisitore che fissa dalla tela e giudica l’osservatore, che si sente a sua volta scrutato fin quasi a trovarsi a disagio per le profondità che gli occhi di Nagi vanno a toccare. L’organo della vista quindi assume una doppia valenza. In primis è dichiaratamente lo strumento di cui si serve il nostro senso principale. In secondo luogo l’occhio fissa l’occhio di chi osserva, indagando nella sua coscienza: è come se l’occhio ritratto fosse il nostro stesso che, guardandosi allo specchio, ci permette di aprire una porta sulla nostra anima.

Il pittore forlivese è anche un buon ritrattista e paesaggista, ma quello che ci ha colpito maggiormente della sua arte è il filone simbolista e surreale. Pur creando dimensioni e realtà fortemente lontane da quella conosciuta, il pittore se ne avvale per denunciare i mali che affliggono la società moderna. In primo luogo la miseria e la guerra che continuano a percorrere un mondo che si dichiara progredito ma che non ha saputo o voluto ancora sconfiggere la vergogna della morte per fame dei bambini che nascono nelle aree povere del pianeta

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Le tecniche miste di cui Nanni si serve gli permettono di unire fotografie ritagliate dai giornali alla sua pittura, creando un effetto suggestivo ma ben equilibrato. Si avverte a tratti l’influenza di un certo futurismo quando il pittore viene indotto a interrogarsi oltre che sull’oggetto e sulla forma anche sul rapporto che intercorre tra l’immagine reale e quella dipinta. Nella ricerca a queste risposte il pensiero viene a farsi immagine e si fissa sulla tela nell’attimo della cosiddetta “illuminazione artistica”. L’arte si fa così magia e la sua magia si basa sul superamento di ogni legge preesistente. Ed è in questo senso che l’arte di Nanni diviene surrealistica. La pittura per Nagi è un mezzo funzionale mai fine a sé stesso. L’arte per il pittore forlivese è un mezzo espressivo, uno strumento per lanciare un messaggio che possa servire a capire il mondo e a provare a cambiarlo. Marco Viroli marzo 2009

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Giancarlo Guidi: uomo romantico, artista appassionato

Giancarlo Guidi è nato a Dovadola ma vive a Forlì. La sua arte sembra volutamente ignorare tutto quel che è accaduto nel campo delle arti visive nel corso del secolo scorso, riprendendo un discorso interrotto in Italia da Modigliani, dai futuristi, passando per avanguardie e transavanguardie. Nei suoi quadri sono fortemente presenti i segni di una tendenza al dialogo interiore e di una vena romantica popolare. Tutti gli elementi che compongono le tele sono studiati con precisione per andare a colpire la vista, l’attenzione e i sentimenti di chi osserva. Punto di forza dell’opera del Guidi è l’ingenuità che a volte fa illudere che i paesaggi rappresentati facciano parte dello scenario di una favola.

All’origine di ogni suo progetto creativo troviamo una scena rassicurante, un’immagine campestre, suggerita dall’osservazione del reale ma filtrata dall’occhio e dalla mente dell’artista. Il filtro della fantasia crea un’atmosfera irreale, onirica e poetica, priva di artifizi teorici e di orpelli concettualistici.

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Nella pittura di Guidi l’alternarsi di ombre e di luci segna il delinearsi dell’immagine. L’uso del chiaroscuro rende più semplice e comprensibile il diretto rapporto con il “vero”. La sua pittura nasce da uno stimolo forte, impressione ottica dell’immagine prima sulla retina, poi sullo spirito. Diviene questo l’elemento distintivo dell’intero universo pittorico di Guidi. Un universo geografico a dire il vero limitato, racchiuso nel triangolo tra gli Appennini e l’Adriatico, nel territorio romagnolo ai cui scorci le tele del pittore forlivese paiono ispirarsi in primo luogo.

Guidi ci offre una rassegna di immagini “rubate” alla campagna romagnola che ci rimandano in maniera diretta e inequivocabile all’esperienza e alle suggestioni del movimento dei Macchiaioli a cui aderì, come è noto, anche il modiglianese Silvestro Lega. Ma è forse più a Fattori e alla sua concezione bucolica che Guidi pare rifarsi.

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Si scorge nella sua arte la volontà di chiarire sé stessi attraverso la visione che porta alla ridefinizione dell’antica lingua scritta dal pennello. Quel che ne scaturisce è pura poesia che trasforma la realtà in autentico lirismo, andando a toccare dolcemente i tasti che battono le corde dell’anima. Nei quadri di Guidi la luce si poggia sui campi, sugli alberi, sugli animali e sulle case con richiami vermeeriani; non a caso il pittore forlivese è anche un abile imitatore dell’artista olandese del XVII secolo.

È una pittura fuori dal tempo quella di Giancarlo Guidi che si cimenta anche nell’imitazione della D a m a d e ig e l s o m i n i di Lorenzo di Credi, il bel dipinto rinascimentale custodito nei Musei di Forlì, che per secoli si è creduto rappresentasse Caterina Sforza, leonessa di Romagna e signora di Imola e Forlì, di cui nel 2009 ricorrono i cinquecento anni dalla morte.

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Il naturalismo che permea l’opera di Guidi ci spinge a considerarlo come pittore e n p l e i n a i r e a immaginarlo lavorare all’aperto, più che relegato entro le quattro mura di uno studio, mentre col cavalletto e la tavolozza si posiziona sotto la luce diretta del sole, come facevano i pittori dell’800 prima dell’avvento della fotografia. Immagine romantica di un pittore e di un uomo appassionato che cerca di cogliere e di rappresentare il divino della natura che lo circonda.

Marco Viroli febbraio 2009

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Vanni Perpignani: un tranquillo giorno di sole

Ho conosciuto Vanni Perpignani grazie a un comune amico, quel Franco Gianelli, detto Grota, l'artista con cui iniziammo oramai cinque anni fa le rassegne delle mostre temporanee al CorsoGaribaldi82. Perpignani come l'amico Grota è predappiese, o meglio, vive e dipinge nella vicina frazione di Trivella. La cosa che maggiormente accomuna i due pittori di Predappio è l'uso abituale di colori vivaci e l'evidente ottimismo che entrambi esprimono tramite le loro tele e la loro arte.

Nell'arte di Perpignani la ripetitività del soggetto, pur ritratto sotto diverse angolazioni e sfaccettature, fa risuonare alle orecchie le composizioni dei musicisti che hanno creato le basi della musica iterativa o modale: Philip Glass, Steve Reich, ecc.

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Nei suoi quadri non compaiono persone, o automobili, o aerei, né altre forme di vita o meccaniche in movimento, per cui l'assenza di moto ci trasporta su un piano dimensionale atemporale e metafisico

. Perpignani ritrae ossessivamente i tetti di un suo paese immaginario, inondati di sole. E' molto probabile che si tratti dei tetti della stessa Predappio, assunta dall'artista come quintessenza della propria pace interiore. Quei tetti divengono in taluni casi un intrico fitto e indistricabile che ci porta alla mente le immagini di una certa iconografia sud americana. Ma volendo azzardare paralleli dal sapore assurdo si potrebbe avvicinare anche l'artista predappiese, per questa sua mania alla ripetitività, agli artisti delle avanguardie astratte, tranne che di astratto nell'arte di Perpignani non v'è nulla. Si tratta di arte istintiva, popolare, ingenua, non colta, ma non per questo meno intellettuale o ricca di significati reconditi, che avvicina allora per certi versi l'artista predappiese ai maestri e capostipiti dell'arte naif.

. Tutto è concreto, familiare, rassicurante, sia nel soggetto, che nella luce, che nei colori. L'occhio dell'osservatore ne resta appagato come del resto anche il suo spirito, tanto che, chi si pone di fronte all'immagine non se ne distaccherebbe più.

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Si viene catturati dal disegno dettagliato delle case sullo sfondo, quanto di quelle in primo piano. Il risultato globale è un insieme caratterizzato da una atmosfera calda e gioiosa che riporta alla mente una tiepida mattina d'estate. Perpignani fonda così uno stile proprio, peculiare e personale, arricchendo le sue opere di un suo atteggiamento espressivo-esistenziale, caratteristico e inimitabile.

Ne sono dimostrazione la semplificazione iterativa degli elementi che compongono le tele, unitamente alla festosità non naturalistica del colore e alla ripetizione del modello tipico di successo, quasi che fosse l'intero quadro a divenire la firma stessa dell'artista Vanni Perpignani.

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Se quanto abbiamo inteso non è altro che la rappresentazione del mondo interiore dell'artista di Predappio, allora siamo ben lieti di conoscerlo, in quanto siamo certi di trovarci al cospetto di un uomo maturo e ottimista, trasparente e tranquillo, che vive e rappresenta il proprio mondo come se si trovasse immerso in una serena giornata di sole.

Marco Viroli gennaio 2009

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Angela Alisa Asatrian: time transition

Il merito principale di Angela Alisa Asatrian è quello di avere inventato e costruito una propria iconografia immediatamente riconoscibile. Si tratta di una operazione intelligente ed efficace che pone l’artista armena tra il n a i f e il surrealismo. Quello di Angela Asatrian è un universo parallelo in cui le persone, ma anche gli oggetti, sono deformati e dove paiono vivere nella più completa armonia. La sua arte è fine a sé stessa, non sottintende e non si avvale di ingombranti intellettualismi. Nel suo universo non esistono drammi o conflitti ma solo una serena e pacata coscienza del vivere. L’ambientazione è sospesa e appartiene a una realtà fuori dal tempo e dallo spazio. A volte l’artista cita a memoria i maestri del passato; rielaborando celebri capolavori l’artista ce ne fornisce una propria personalissima interpretazione.

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Il mestiere della Asatrian è sostenuto peraltro da una solida tecnica pittorica e da una preparazione culturale maturata dall’artista durante la propria formazione scolastica armena. L’Asatrian appare sempre impegnata a ottenere risultati che la soddisfino prima di tutto direttamente.

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La passione per la rappresentazione dei corpi e l'eleganza delle composizioni sono elementi confluiti nel suo stile, rappresentato da corpi umani dai volumi a volte deformati, ma comunque gradevoli, definiti da colori vivaci, specie nell’abbigliamento e negli accessori con i quali vengono ritratti. Il risultato finale trasmette una sensazione ludica che chiunque può vedere e che contribuisce molto a diffondere e intendere l’arte di Angela Asatrian non come cosa difficile e complicata. Ciò deriva dal fatto che l’artista mette in scena la vita, racconta e illustra il mondo che ha vissuto e visto con gli occhi dell'infanzia, in una dimensione festosa che ha un collegamento adatto con la luce e la stagione estiva.

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Per Angela dipingere è una necessità interiore, ma anche un'esplorazione continua verso il quadro ideale che si insegue e che non si raggiunge mai. Il colore si va costruendo in un ciclo di improvvisazioni e di reazioni dove le ombre sono volutamente del tutto assenti perché sporcherebbero l'idea del colore che l’artista vuole trasmettere. Tutto è indispensabile e tutto si modifica continuamente durante la creazione. Per riempire grandi campi di colore, l'artista dilata la forma, e uomini e paesaggi acquistano dimensioni insolite, apparentemente irreali, dove il dettaglio diventa la massima espressione e i grandi volumi rimangono indisturbati. La distanza dell'artista, a cui non interessa la condizione umana, rende i personaggi dei prototipi senza dimensioni morali o psicologiche, senza anima. Non provano gioia né dolore, hanno lo sguardo fisso, perso nel vuoto, non battono le ciglia, guardano ma non vedono. Ed è proprio grazie a questo distacco emotivo che la pittura di Angela Alisa Asatrian acquista la dignità e la tranquillità del grande classicismo.

Marco Viroli novembre 2008

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Aldo Aprile: luce e colori della memoria

Aldo Aprile è artista autodidatta, ma non per questo meno dotato né meno impegnato intellettualmente. Mentre dipinge Aprile svolge un processo mentale che parte dalla rielaborazione del ricordo per dipanarsi nel recupero di immagini preesistenti, che vanno alla deriva nella memoria. La composizione che ne scaturisce si affida così in parte all’esercizio di stile, in parte allo slancio emotivo. La poesia della sua arte sta nell’uso sapiente dei colori, nella disposizione delle forme e nella creazione di una combinazione che parte dalla mente e dalla rappresentazione della realtà. Il ricordo rimaneggiato diviene poi immagine e composizione quando si fissa sulla tela. Aprile si dedica essenzialmente più alla materia pittorica che alla rappresentazione reale delle forme o alla proposta di simbolismi che vadano compresi e interpretati da chi osserva le sue opere. A volte le immagini paiono riaffiorare come da un sogno o da un ricordo che si fa strada dal profondo, riemergendo dagli abissi oscuri del nulla. L’artista resta comunque sempre profondamente coinvolto nel suo obiettivo primario, che è quello di ottenere risultati perfettamente soddisfacenti dal punto di vista dei colori.

Quando Aprile abbandona la costruzione delle forme, e con essa ogni limitazione imposta dai doveri della descrizione, allora l’immagine si trasforma nel ricordo puro, assumendo i connotati della suggestione. Nella sua evoluzione artistica Aprile sembra voler andare oltre la mera concezione figurativa della pittura, imprimendo alla tela una forza unica e peculiare.

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Obiettivo basilare per Aprile non è solo il perfetto uso del colore, ma allo stesso tempo lo sono gli effetti di spazio e di forma che esso crea. In taluni casi le forme perciò vengono a smaterializzarsi a favore di soluzioni cromatiche più o meno ardite. Questo tipo di pittura può essere riconducibile alla lezione di alcuni grandi maestri del passato, primo tra tutti il genio britannico William Turner che, ancor prima degli Impressionisti, rivoluzionò il modo di fare arte e il mondo della pittura. È il ruolo che spetta agli innovatori, quello di fare breccia nella cultura dominante, imponendo un nuovo modo di concepire l’arte, più soggettivo e relativistico; grazie alle loro visioni avanguardistiche hanno aperto la strada alle grandi rivoluzioni del secolo scorso.

Le composizioni più classiche e figurative di Aprile mantengono intatto il tentativo dell’artista di piegare al proprio servizio i colori e soprattutto la luce, il cui studio diviene elemento essenziale e irrinunciabile della sua arte.

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Difficile riuscire a ricomporre in una unica mostra retrospettiva tutta l’opera pittorica di un artista come Aldo Aprile, che ha avuto una produzione prolifica quanto variegata; una produzione che è passata dal figurativo all’informale, dal paesaggistico terrestre a quello cosmico. Ma c’è un comune denominatore che lega tutta l’opera dell’artista forlivese di origini calabresi: la ricerca espressiva e con essa l’indagine evocativa del ricordo che diviene immagine.

Marco Viroli ottobre 2008

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Chiara Sampieri: E-vasioni

I personaggi che popolano le opere di Chiara Sampieri non hanno forme ortodosse ben precise ma riempiono la tela con le loro curve, a volte armoniche, spesso stridenti e innaturali, ma pur sempre evocative. Il movimento che si coglie immediatamente ricongiunge ogni singola rappresentazione a un concetto musicale che il più delle volte viene reso esplicito dalle forme stesse impegnate in danze spasmodiche o ritratte mentre sono rapite dall’estasi profusa dalle note dello strumento che stanno suonando.

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La realtà offre solo lo spunto per comunicare un messaggio fatto di movimento e di estro armonico. Le prospettive si piegano, si curvano al suono delle consonanze come pure al suono del silenzio che deforma la realtà dilatando gli spazi, arrotondando ulteriormente le forme, contribuendo a dare alle figure una pace spirituale, una quiete interiore, una generale sensazione di appagante, quanto pacata tenerezza.

Con un segno di solito preciso e deciso Chiara Sampieri traccia l’intera figura cogliendo le caratteristiche principali in pochi salienti particolari. L’accurata varietà dei colori da origine a giochi cromatici che enfatizzano l’espressività dei volti e dei corpi delle figure rappresentate. La sintetica volumetria delle forme è rinforzata dal movimento insito alle stesse, che fuoriesce dalle tele quasi a farle diventare tridimensionali, ponendole su di un piano rialzato rispetto a uno sfondo opportunamente studiato e realizzato

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I corpi in movimento si caricano di una sensualità istintiva, i colori decisi e vivaci amplificano la passionalità delle composizioni dell’artista forlivese. Le figure, benché apparentemente fumettistiche, certamente volutamente stilizzate, esprimono il pathos dell’attimo immortale che sfida l’eternità. Anche per questo non appare strano a chi si pone di fronte all’immagine che lo spazio e il tempo si colmino di immobile dinamicità o di una movimentata staticità. Le figure divengono simulacri: non più immagini umane ma quintessenza dell’ispirazione artistica e della trance estatica generata dal suono della musica e dalla musica del silenzio.

Le figure dipinte si assomigliano tra loro: i nasi acuminati, il taglio degli occhi, i menti volitivi, le labbra carnose, le forme femminili in generale opulente e generose. Per Chiara non è importante il soggetto in sé quanto il gesto che compie e le emozioni che da esso ne derivano. Le figure sono particolarmente vitali ma generalmente vengono immortalate con gli occhi socchiusi, nell’atto di cogliere ispirazione, sia che esse suonino, sia che ballino o che amoreggino tra loro. L’estasi della musica rievoca forse all’artista l’istante infinito che si insegue nell’atto del fare all’amore. Lo strumento diviene il compagno con cui lottare e compenetrarsi sino a raggiungere l’orgasmo artistico. Comprendiamo così il titolo che Chiara Sampieri ha voluto dare alla sua personale: “Evasioni”. Ogni opera a modo suo rappresenta una evasione dalla realtà, una fuga dal presunto mondo reale che può avvenire nei modi che l’artista a suo giudizio ci propone. Perché e-vadere significa andare fuori e uscire dalla concretezza e dalla banalità può aiutarci a cogliere il divino che c’è in noi e che abbiamo rinnegato. Marco Viroli settembre 2008

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Daniela Romagnoli: Dani retrò

“Daniela da vita a silenziosi personaggi flessuosi e sfuggenti. Sono figure femminili sospese in uno stimolante ambito evocativo dell’emozione dell’artista.” (Giancarlo Romiti) Daniela Romagnoli, nata a Bologna nel 1978, ma da anni vive e lavora a Riolo Terme, presenta una mostra a cui ha voluto espressamente dare titolo di “Dani retrò”, una retrospettiva che raccoglie quindi opere che spaziano sulla sua intera carriera. Ne restano escluse le sculture, alla cui produzione l’artista bolognese sta dedicando negli ultimi anni sempre più tempo ed energie, peraltro riscuotendo gratificanti consensi di pubblico e critica. Daniela, che nelle sue opere si firma Dani, concentra le sue ricerche pittoriche sullo studio della luce e del colore sperimentando varie soluzioni. Le pose delle sue modelle sono naturali tanto che, chi si pone davanti all’immagine, si sente messo in imbarazzo nel violare una tranquilla e innocente intimità. I corpi sono delicatamente scolpiti dall’attenta distribuzione dei chiaroscuri e delle pennellate, che indicano il progressivo raggiungimento di una notevole sicurezza espressiva da parte dell’artista.

. L’uso del pennello e delle spatole permette alla Romagnoli di distribuire il colore in maniera non omogenea, andando in questo modo a sottolineare la differente intensità della luce, come si può notare osservando alcuni particolari.

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L’impostazione pittorica è solida e al tempo stesso armoniosa, con una distribuzione della luce molto equilibrata, che lascia trasparire il trasporto lirico della pittrice. L’artista semplifica le forme secondo equilibri attentamente studiati, scandisce gli spazi giocando con i contrasti di colore e con l’uso della luce, che infonde alle sue opere atmosfere particolarmente suggestive.

Il tema preferito della sua ricca produzione sono i corpi, solitamente corpi di delicate fanciulle, coscienti della propria giovinezza e della propria bellezza, ma non per questo altere. Le ragazze dipinte da Daniela hanno tutte in comune una caratteristica espressione vagamente malinconica, che nascondono magari dietro a un sorriso o a uno sguardo enigmatico. Sia che esse siano rappresentate sole o che lo siano in compagnia, appaiono vivere in un mondo interiore più vicino al sogno che alla realtà, da cui sembrano voler fuggire alla ricerca di una serenità e di una purezza perdute.

“Dipingere e scolpire è qualcosa che mi trasporta e mi coinvolge completamente: è come fare l’amore… l’arte ormai fa parte di me è un vero e proprio bisogno, uno sfogo… il corpo della donna ha linee più armoniche, è più bello di quello maschile e naturalmente, lo conosco meglio.” (Daniela Romagnoli) Attorno alle modelle nude la luce e i colori contribuiscono a trasmettere una particolare sensazione di pace spirituale, di quiete interiore e insieme di dolce tenerezza. Nudità e atteggiamento esplicitamente sensuale scaturiscono dalle tele, i corpi, che si stagliano su sfondi monocromatici, sono palpitanti di vita.

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Alcune opere, come ad esempio i baci, paiono sospese, collocate al di fuori del tempo e dello spazio, invitandoci a una lettura non solo naturalistica ma anche simbolica dell’immagine. Gli istanti immortalati da Daniela diventano istanti assoluti e come tali anelano all’eterno. L’artista, che riflette anche nei malinconici ritratti il proprio senso di fragilità e le proprie insicurezze, al tempo stesso dimostra di avere già raggiunto ottime capacità artistiche espressive e tecniche, la definizione di un proprio stile identificabile, unitamente a una precoce maturità artistica.

Marco Viroli marzo 2008

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Svitlana Itsenko: le porte della percezione

Quello di Svitlana è un percorso di ricerca che, come il viaggio che nella vita l’ha portata nel 2004 a trasferirsi dalla nativa Ucraina a Forlì, nella vita artistica parte da un approccio fondamentalmente figurativo in cui l’elemento rappresentato è in particolare la figura umana, per passare attraverso a un periodo più fortemente denso di simbologie, per approdare infine alle spiagge della ricerca estrema di un espressionismo astratto. Svitlana ha le basi metodologie per potersi permettere un simile percorso, avendo infatti frequentato prima la Scuola statale d’Arte e poi seguito corsi universitari che le avrebbero permesso di diventare insegnante d’arte nel suo paese. In Italia però i suoi studi non sono riconosciuti, per questo Svitlana si deve accontentare di portare la sua arte all’esterno in una serie continua di esposizioni con le quali si fa conoscere, riscuotendo sempre maggiore consensi tra il pubblico.

Le sue sono opere vivaci nell’ispirazione, fresche e luminose nei colori, rapide e sicure nell’organizzazione degli spazi. L’insieme è caratterizzato da un’atmosfera gioiosa e serena, che da allo spettatore la piacevole impressione di trovarsi nel mezzo di un giorno di festa.

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Svitlana semplifica le forme e riesce a far vibrare l’intera composizione con tocchi di colore che usa con grande padronanza, libertà e incisività. Vari aspetti della sua formazione pittorica denunciano il divenire di un cammino alla ricerca di un punto di passaggio tra gli studi giovanili e la piena acquisizione di uno stile personale maturo e identificabile.

Sin dai suoi inizi Svitlana cerca di andare oltre la semplice rappresentazione della realtà, non si accontenta di fotografare semplicemente una figura femminile, sia essa un nudo o anche solo “vestita di luce”. La Itsenko ci vuole raccontare qualcosa in più di chi è riprodotto sulla tela, fossero solo i timori o la timidezza nel mostrarsi senza vestiti addosso. Svitlana tenta di aprire, a chi si trova di fronte all’immagine, le porte della propria anima anch’essa scoperta e messa a nudo. Nella seconda fase del cammino artistico di Svitlana incontriamo una pittura dominata da ispirazioni simbologiche, a volte influenzata, ci sia concesso di dire, da quel grande artista russo, francese di adozione, che fu Marc Chagall, ma anche da Van Gogh, come in “Cielo stellato”. In questa fase il desiderio di comunicare dell’artista ucraina si fa ancora più urgente e pressante. Sono le immagini stesse che trasmettono suggestioni dirette, sensazioni forti. Si tratta quasi esclusivamente di paesaggi nei quali i colori, vivaci e accesi, e la luce svolgono una funzione primaria e irrinunciabile.

Due tele in particolare segnano il passaggio da questo secondo periodo a una terza fase, espressionista e astratta, si tratta di “Danza dei colori” ma ancora di più di “Ai confini”. In questo quadro ritroviamo riassunto tutto il percorso e il manifesto artistico di Svitlana Itsenko. In “Ai confini” ciò che è rappresentato è un paesaggio in cui possiamo ancora distinguere o immaginare elementi riferibili alla natura e al mondo del tangibile, ma che, come nella fantasia, stanno prendendo altre forme e altri colori.

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Come in un viaggio che l’ha portata dall’esterno a scavare sempre più a fondo nella propria anima, Svitlana distribuisce la propria pittura sulla tela e con essa cerca di dare un senso a ciò che proviene dall’inconscio.

Il mondo non è come lo vediamo, ma è come lo sentiamo e come lo ricomponiamo poi nel nostro profondo. La realtà si può scomporre quindi nelle forme, nelle luci e nei colori in cui la mente lo percepisce e se ne da una ragione. Non ci sono più confini quando si è creato un varco tra un mondo e un altro poi tra questo e un altro ancora. Attraverso queste porte si aprono così all’artista infinite possibilità e suggestioni creative. Marco Viroli febbraio 2008

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Amedeo Galeffi: L’arte del ritratto

Il ritratto è da sempre espressione artistica molto comune ai cosiddetti “pittori di strada”. C’è chi sceglie di vivere una vita libera e un po’ randagia all’aria aperta, sbarcando il lunario facendo ritratti lungo la Senna nei pressi di Notre Dame o a Central Park, piuttosto che lungo le callette e le viuzze di Venezia, Roma, Napoli o San Marino. Anche Galeffi lavora all’aria aperta, in quanto di mestiere per vivere fa il benzinaio, e coltiva nel tempo libero l’hobby per la pittura, più in particolare per il ritratto.

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Di tutti i ritratti che popolano la storia dell’arte certamente il più celebre e controverso, per il mistero che sta dietro alla donna rappresentata e al suo enigmatico sorriso, è la Monna Lisa di Leonardo, più comunemente conosciuto come L a G i o c o n d a . Un’opera che continua nei secoli a suscitare interesse e a stimolare la fantasia di romanzieri e cineasti, come del resto anche altri celebri ritratti, ad esempio, L ar a g a z z a c o n l ’ o r e c c h i n o d e i p e r l e di Veermer.

Ma cosa fa di un ritratto un grande ritratto? Cosa lo rende opera superiore alla semplice somigliante riproduzione dell’essere umano nei suoi tratti somatici? Certo ciò che eleva la rappresentazione a opera d’arte è l’urgenza dell’artista di attribuire al ritratto una valenza più interiore, intrinseca, quasi che la raffigurazione volgesse alla trasmissione anche dei tratti psicologici e caratteriali del soggetto. Il ritratto deve raccontarci in silenzio la storia di chi vi è rappresentato, deve trasmetterci con uno sguardo la sua anima. In questa logica, quando la rappresentazione appare ancora più reale della realtà stessa raffigurata, Galeffi riesce a comunicarci, con una certa dose di lirismo, quel qualcosa in più che una semplice fotografia spesso non riesce o non può trasmettere. Galeffi è specialista in ritratti la cui caratteristica fondamentale è il preciso e dettagliato realismo figurativo, in cui riecheggiano le influenze, dirette o indirette, dei grandi protagonisti del Rinascimento pittorico italiano.

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Galeffi rappresenta le emozioni prima di tutto: la sofferenza, la stanchezza, la riflessione, l’aggressività. Allo stesso tempo l’artista forlivese è molto interessato al corpo come veicolo di trasmissione delle emozioni. In particolare a quello femminile, che rappresenta in una cospicua produzione di nudi e di immagini di giovani belle donne, più o meno famose. Galeffi si serve di una intensa e sofferta espressività per arrivare diritto all’obiettivo, che è quello di scavare nell’anima. Per perseguire il suo scopo enfatizza al massimo luci, ombre e colori.

Ciò che lo appassiona, come si diceva, è la figura umana, con poche eccezioni, e in questo suo intento non cerca di rendere più belli i personaggi che ritrae, ma cerca di mostrarceli semplicemente come i suoi occhi li vedono. Da questo innato spirito di osservazione, dal tentativo evidente di stabilire un rapporto diretto con chi rappresenta, ci viene rivelata la grande sensibilità dell’artista e la sua profonda capacità di indagine psicologica.

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“… sviluppo l’arte nel tempo libero con la passione e la costanza dell’autodidatta. La pittura è per me una vocazione, un fatto congenito direi. Motivato e realizzato “dal mio esprimere” cerco da sempre, ancor più una critica che non ho mai avuto!” (Amedeo Galeffi) Marco Viroli gennaio 2008

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Claudio Fabbri Ferrini: Un’ossessione per i fiori

"Ecco le idee di allora: costruzione per mezzo di superfici colorate. Ricerca d'intensità nel colore, essendo la materia indifferente. Reazione contro la diffusione del tono locale nella luce. La luce non è soppressa ma essa si trova espressa da un accordo delle superfici colorate intensamente.” (Henri Matisse, 1929)

Il fiore, che si sviluppa a partire dalla terra e dall’acqua verso il cielo per cercare la luce alla quale dischiudersi, quasi in segno di devota adorazione, rappresenta dall’alba dei tempi il simbolo della vita e della bellezza. Molti popoli hanno simboleggiato lo stesso Sole con l’immagine di un fiore aperto. Per gli Egizi, i fiori come simbolo di gioia e di allegria, vennero associati alla vita quotidiana e al culto dei morti. I giapponesi crearono persino un’arte a tutti nota e detta ikebana, legata alla disposizione delle composizioni floreali. In tempi più recenti, il movimento hippie, che nel corso degli anni 60 partendo da San Francisco si diffuse in tutto il resto del mondo, ebbe tra i suoi simboli più potenti il fiore e lo slogan “Flower Power”.

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Da sempre i fiori sono soggetto privilegiato e ricorrente nelle rappresentazioni artistiche visive. Ogni artista, consacrato o meno, si è prima o poi confrontato sul tema floreale, ma non ricordo nessuno per cui questo sia divenuto una vera e propria ossessione, come lo è per l’artista predappiese Claudio Fabbri Ferrini. Servendosi di una pittura essenziale, impostata soprattutto sulle linee sinuose e imprecise e sui colori vivaci, Ferrini sembra voler esprimere la gioia di vivere, l'ariosità e la limpidezza della natura, a cui i fiori fanno riferimento. Più il colore è forte, più l'effetto è potente. Così i rossi, i blu, i gialli strutturano una tela su cui quasi tutti gli elementi della pittura tradizionale sembrano essere superati.

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Le “nature morte” di Fabbri Ferrini sono sviluppate come completa rielaborazione del concetto classico, venendo trasformate in elemento decorativo, ma anche in vere e proprie “nature vive”, se ci è permesso il gioco di parole, producendo un risultato finale che trasuda di energia vitale. Le pennellate segnano l’andamento dei fiori, degli steli, come a volere ricostruire dalla sensazione visiva, non la nozione della cosa, ma la cosa stessa. I fiori sono sempre in primissimo piano. Eliminando quasi totalmente qualsiasi altro oggetto, l’artista predappiese riesce a catturare l’esuberanza della natura e i fiori da lui rappresentati sembrano possedere una vitalità propria intrinseca che li rende animati.

Marco Viroli gennaio 2008

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Oriana Spazzoli Farneti: L’inganno dell’universo

E’ recente la notizia della scoperta da parte degli astronomi del Minnesota di un “buco vuoto” nello spazio privo di qualsiasi tipo di materia, a circa nove miliardi di anni luce da noi. Tra le ipotesi avanzate c’è quella che questo buco, dal diametro circa di un miliardo di anni luce, potrebbe essere una “porta” tra il nostro universo e un altro. O meglio, una delle porte che metterebbero in comunicazione il nostro universo con altri universi. Oltretutto in quel “buco vuoto”, non esistendo nulla davvero (e già questo è un concetto inafferrabile per le nostre menti), neppure un briciolo della cosiddetta “materia oscura” che “riempie” ogni parte del nostro universo, per le note leggi della fisica, non ultima quella della relatività, non esisterebbe nemmeno il tempo. In tal modo, da qualche giorno, il mistero inviolabile della creazione e della nostra esistenza, si complica ulteriormente. Certamente noi non avremo mai la possibilità di verificare personalmente l’esistenza, ne la “composizione” di tale buco, o eventualmente tentare un attraversamento perché, essendo lontano tra gli 8 e i 9 miliardi di anni luce (e ricordo che la luce di chilometri ne fa poco meno di 300.000 al secondo), risulta per noi assolutamente irraggiungibile.

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Tutto ciò appare incomprensibile alle nostre menti semplici, abituate a muoversi in sole quattro dimensioni. Come sarebbe possibile concepire di attraversare una di queste “porte”, che ora si dice possano essere innumerevoli, per entrare in un “universo parallelo” (che già si azzarda possano esistere in numero di 10 elevato alla 500!!!) che, supponiamo, di dimensioni possa averne anche 60? Molto meglio allora ignorare ciò che non si può comprendere e limitarsi a descrivere ciò che già è per noi abbastanza complicato ma che, alla luce di queste nuove scoperte, diviene un po’ più rassicurante: il nostro “piccolo” grande universo (espressione che a questo punto può suonare un po’ come “home sweet home”… casa dolce casa). Questo è ciò che la Spazzoli si “limita” a fare dipingendo costellazioni tanto familiari da sembrare nuvole, stelle che sembrano fanali o lampioni nella nebbia, pianeti tranquilli e sereni dove nulla di male sembra poter accadere. Questa visione pacifica, quasi bucolica, del nostro universo racconta molto di Oriana, che tratta stelle, pianeti, buchi neri e nebulose come un qualsiasi altro pittore potrebbe trattare i frutti e gli oggetti di una natura morta.

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Tutto acquista l’alone dell’irreale e del soggettivo, nulla è determinato e per un istante riusciamo a realizzare che tutto l’universo altro non possa essere che un enorme inganno. Gli spazi interiori si dilatano a tal punto da diventare galassie, nebulose, costellazioni, il tempo perde ogni significato e big bang e fine dell’universo diventano un unico istante eterno, dove inizio e fine coincidono, annullando tutto ciò che si è venuto a trovare tra i due estremi della retta. Ma forse è più il colore a interessare la Spazzoli, o meglio i colori, forti, decisi, primari, in genere, rossi, blu e gialli. Oriana si disinteressa dell’apparenza delle cose del cosmo e le ritrae come lei le vede, le reinventa fino ad adattarle a se stessa, fino a che l’universo esterno non confluisce nel suo universo interiore, che è un universo fatto di pace e di colori. Forse possiamo appuntare all’autodidatta artista forlivese, non ce ne voglia, un briciolo di ingenuità, che diviene però la sua forza, nel momento in cui si propone, a chi osserva le sue opere, come pittrice n a i f s u ig e n e r i s .

S u i g e n e r i s perché i n a i f solitamente interpretano e rappresentano le cose piccole e vicine. Oriana al contrario tenta la rappresentazione più difficile, quella delle irraggiungibili “cose” lontane, che racchiudono i misteri della creazione e della vita e al tempo stesso della fine e della morte. E lo fa con lo spirito stesso con cui lo farebbe il pittore n a i f : con purezza e, come dicevamo, con un briciolo di ingenuità bambina.

Marco Viroli dicembre 2007

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Marco Baldacci: Paesaggi interiori

Le creazioni cromatiche di Marco Baldacci traggono l’osservatore all’interno degli spazi rappresentati, pregni di luce interiore. E’ l’affermazione del desiderio dell’uomo nei confronti del sublime. L’interesse insito nelle nostre relazioni verso emozioni assolute. Creazione di immagini la cui realtà è palese: i dipinti riproducono le convinzioni estetiche dell’artista, con coerenza estrema rappresentano i principi essenziali del suo mondo. Un mondo aparentemente onirico ma a ben guardare anche iper reale nella sua ermeticità, fatta di pochi concetti che esprimono emozioni ben definite. Il ruolo dell’artista è sempre stato quello di “creatore di immagini”. La semplicità e il rigore delle immagini create da Baldacci sono espressione del desiderio dell’artista di un mondo più tranquillo e sereno, più semplice, dominato da sentimenti chiari e puri.

Anche le dimensioni ridotte delle opere vanno nella stessa direzione espressiva: un piccolo mondo fuori dal tempo e dalle mode imperanti del momento.

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Innanzitutto la superficie della tela è un campo in cui si producono fenomeni colorati, capaci di occupare e impegnare la nostra facoltà percettiva. Il quadro viene concepito come qualcosa di vivente, non come uno spazio segregato, ma come uno spazio esistenziale. Baldacci non abbandona mai i legami con la realtà anche se sceglie come titoli alla sua serie di paesaggi una numerazione progressiva che spersonalizza il soggetto reale, assumendolo come soggetto esistenziale. In questo modo il paesaggio rappresentato viene in un certo senso spossessato del suo contesto originario e trasformato in pura sensazione.

La estrema sintesi che contraddistingue i lavori di Baldacci pare fungere da invito all’osservatore a non fermarsi comunque a una lettura superficiale ma a cercare, dentro le forme e i colori, parti di un linguaggio arcaico che parla dei grandi temi metafisici dell’esistenza. Un linguaggio apparentemente limitato, ma che possiede il dono dell’universalità.

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Tutto questo contribuisce a fare di quella di Baldacci un’arte personale non sostenuta da alcuna convenzione.

E in questa filosofia i colori svolgono un ruolo evocativo fondamentale nel provocare e nello stimolare una reazione in chi si pone di fronte all’immagine, attribuendo ai colori una spiccata funzione di richiamo, una particolare forza spirituale che ci legittima a definire questi paesaggi di Baldacci veri e propri “paesaggi interiori”. Marco Viroli novembre 2007

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Claudio Barasi: Corpi di luce

“Ho sempre considerato il disegno non come un esercizio di particolare abilità, ma soprattutto come mezzo per esprimere sentimenti intimi e stati d’animo, mezzi semplificati però per dare maggiore efficacia, maggiore spontaneità all’espressione.” (Henri Matisse)

L’Arte è fatta per penetrare le supreme verità dell’essere, le infinite armonie dell’Universo. Forse è rimasta la sola attività umana che possa ancora farlo, né possono riuscire a impedirglielo le generalizzate vedute positivistiche su cui si basa la società contemporanea. I quadri di Barasi forniscono una intuizione sintetica del tutto. Massima complessità espressa con la massima semplicità e disinvoltura. Sembra quasi che musica e poesia confluiscano nella sua pittura. Le figure umane si allungano e si flettono e la loro bellezza non è separabile dallo spazio che occupano e in cui si muovono.

Queste opere che recano in sé il significato intrinseco di “azione” prendono spunto da studi del corpo umano in movimento.

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Forte è l’accensione cromatica di una gamma di colori però ridotta generalmente a colori primari, stesi a campiture contrastanti e solo leggermente sfumate. L’iconografia di Barasi sembra rifarsi ai temi della mitica Età dell’Oro, attraverso a una rappresentazione di corpi ridotta all’essenziale anche nelle loro caratteristiche anatomiche, ma sprizzanti di energia e gioia di vivere.

L’arte pittorica di Barasi possiede ineguagliabili qualità decorative, ciò significa che è piacevole anche come ornamento, questo perché l’artista, che da due decadi circa si guadagna da vivere lavorando come grafico pubblicitario, si mostra direttamente contaminato e influenzato da quello che è il suo lavoro primario. Ma questo non è tutto, infatti così facendo si rischierebbe di compiere una lettura superficiale di queste opere in cui è invece insito fortemente lo studio, l’osservazione, la ricerca dell’artista, interessato allo spazio, ai colori, al movimento, alle proporzioni.

Si potrebbe parlare nel caso di Barasi di “pittura pura” permeata di concetti di gioiosa e libera percezione della vita e della sua manifestazione a un livello solare. Un significato che andiamo a ricercare nel manifestarsi della vita in sé e per sé, non forzatamente legato ad alcuna volontà espressiva particolare.

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La musica pare sospesa su queste opere semplici ma dense di tensione all’assoluto, alla ricerca di una armonia, di un equilibrio cosmico che sovrasta la sintetica struttura pittorica. Marco Viroli ottobre 2007

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Giancarlo Donatini: Strappi di colore

Porsi di fronte alle immagini di Giancarlo Donatini, istantanee ricavate da particolari di brandelli di cartelli pubblicitari sovrapposti, è un po’ come camminare per le vie della città e andare a scontrarsi sui muri con 10, 100, 1000 scatti di Donatini. Quello che da vita all’opera dell’artista bolognese è la volontà di immortalare il gesto istintivo, la lacerazione di cartelli pubblicitari che vanno a creare opere uniche, irripetibili; alla base di tutto vi è il gesto di uno sconosciuto, fatto di togliere, guardare dentro, scoprire.

Donatini per questo va oltre il d é c o l l a g e classico, quello che tende a riprodurre la realtà della precarietà, della provvisorietà, dell’inconsistenza di immagini, tanto patinate quanto effimere. Immagini che, di notte, mani sconosciute rimuovono o ricoprono con altre immagini altrettanto provvisorie, che vengono a modificare temporaneamente il paesaggio urbano. Donatini rappresenta essenzialmente la realtà e dalla realtà ne ricava richami artistici. Non molto resta riconducibile all’originario negli scatti di Donatini, quasi il reporter non voglia dare importanza ad altro che al gesto violento e poetico insieme che le ha incidentalmente generate. Per questo riscontriamo più richiami a un a c t i o n p a i n t i n g del caso piuttosto che al d é c o l l a g e “classico” di cui Rotella fu maestro e fondatore. Quando il d é c o l l a g e nacque si contrapponeva alla costruttività implicita del c o l l a g e cubista. Il d é c o l l a g e rappresentò la protesta nei confronti di una situazione sociale che "sopravviveva" tra i falsi miti del consumismo nel secondo dopoguerra. Come i tagli di Fontana, le combustioni di Burri, “Merda d'artista” di Manzoni, Rotella utilizzava il d é c o l l a g e per garantire a una comunità artistico-culturale della seconda metà del'900, un'ulteriore studio concettuale, per riscoprire un’arte classica con una semplice azione sistematica, ripetitiva, lacerante, esplicativa.

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Non dimentichiamo che nel caso di Donatini ci si trova di fronte a foto scattate, a ingrandimenti di particolari, scelti dal reporter bolognese, che fissano l’attimo in una combinazione di forme e colori in continuo mutamento.

Simile al gesto con cui la gente scarabocchia sui muri o li imbratta con bombolette di vernice, con gesti istintivi e primordiali, l’atto istintivo creativo propone una diretta correlazione tra l’uomo primitivo e l’abitante delle città moderne con le sue nevrosi. Il parallelo avviene anche a livello espressivo con l’arte primitiva dei graffiti ottenuti dalla scalfizione dei colori sovrapposti.

Ma c’è ancora qualcosa di più: la sovrapposizione dei cartelloni lacerati lascia affiorare parti di figure, segni, lettere, numeri dei cartelloni sottostanti comunicando un mix di frammenti di notizie senza alcun nesso apparente, una combinazione di colori, forme e simboli del tutto accidentale e imprevedibile. Ed è qui che affiora la poetica delle immagini che Donatini cerca di comunicare, tramite la composizione di un insieme che può ricevere solo da chi ne fruisce visivamente un proprio significato estetico, una propria valenza culturale.

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Donatini, da bravo cronista, conferisce ai suoi scatti un senso aggiunto di reportage. I cartelloni pubblicitari sono deperibili ed effimeri ma sono però inevitabili aspetti del paesaggio urbano e come tali vanno presi in considerazione e non sottovalutati. Dapprima si appropriano della scena per poi venire distrutti quando, effimeri e scaduti, si piegano al rapido mutare del volto della città.

Marco Viroli settembre 2007

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Marina Sassi: L’uomo tace e parla al grande spirito

"...Con bellezza possa io camminare Con bellezza davanti a me

possa io camminare Con bellezza dietro di me

possa io camminare Con bellezza sopra di me

possa io camminare Con bellezza attorno a me

possa io camminare ..." Preghiera Navajo

A un primo sommario approccio la pittura di Marina può apparire ripetitiva, quasi ossessiva: Ma se ben guardiamo, grande è al contrario la varietà dei concetti e delle tematiche affrontate, in quanto Marina si serve del soggetto reiterato per descrivere varie composizioni dell’anima o utilizza addirittura la simbologia “indiana” per andare a scavare alla ricerca delle nostre stesse radici. Quale popolo, quale grande civiltà nella storia del mondo più che i Nativi Americani ha cercato costantemente di toccare l’essenza delle cose della natura, raggiungendo l’estrema vicinanza allo stato naturale dell’anima fino quasi a toccarla? E’ proprio allo “stato naturale” che Marina aspira come stato puro dell’anima, stato di percezione limpida e di assoluta interpretazione di una realtà altrimenti illusoria. Un ritorno allo “stato naturale” per tornare perciò a conoscere le nostre radici, ciò che ci apparteneva e che abbiamo perduto, abbandonato nella folle rincorsa al progresso e a tutto ciò che è effimero e illusorio.

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Non è poi comprensibile come si possa muovere a Marina critica di ripetitività in questo senso quando tanti artisti nel presente e nel passato, nella piccola storia locale o nella grande storia dell’Arte, ripetono o hanno ripetuto soggetti molto meno espressivi o evocativi, quali galli o pagliacci, girasoli o manichini.

C’è sensualità e misticismo nell’arte di Marina. C’è il movimento della caccia e della corsa ma c’è soprattutto il silenzio della concentrazione e della preghiera dell’individuo che entra in rapporto diretto con la natura e con il divino.

Dall’arte di Marina traspare un mondo onirico ma al tempo stesso reale, la rappresentazione di un popolo e della sua grande cultura di dignità e fierezza, della profonda umanità di questi uomini che avevano creato una civiltà fatta di rispetto e amore, perfettamente in equilibrio tra Natura e Spirito tanto da divenire la quintessenza stessa dell’idea di Uomo con la “U” maiuscola. Ricca è la simbologia che popola le tele della pittrice forlivese, la quale, per descrivere con maggiore perizia e competenza, ha compiuto personalmente un viaggio negli Stati Uniti nelle riserve indiane alla scoperta di quel mondo fantastico che da sempre la affascina e la attira prepotentemente. Un richiamo così forte che Marina pare legata a doppio filo a un karma misterioso.

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Q u a n d o c o m i n c i a i l g i o r n o , L a v o c e d e l v e n t o , A c q u a d i s t e l l a , D o n n a c h e t o c c a l a n o t t e , D o n n a c h e t o c c a l ec o s e c o l c u o r e , L a f i n e d e l s e n t i e r o , questi alcuni titoli attribuiti alle sue opere. Titoli che non fanno altro che

amplificare la potenza poetica delle immagini raffigurate. La vasta produzione dell’artista forlivese, che, superfluo dirlo, è grande studiosa e conoscitrice di queste antiche culture, mutua poi una gran parte dei soggetti dall’immenso patrimonio di conoscenze filo-metafisiche dei nativi ( I l v e g g e n t e , D o l c e m e d i c i n a , L a g r a n d e v i s i o n e , D a n z a d e l l a p i o g g i a , T h e a g e o fs i l e n t e , T a l k t o t h e w i n d , L ’ o r i g i n e , I l c e r c h i o s p e z z a t o ) . In altre opere Marina descrive il particolare e irripetibile rapporto dell’Uomo con la Natura ( W i n t e r c o l o u r s , le 2 serie dedicate ai punti cardinali, le numerose tele che hanno come soggetto lupi o cavalli). In altri casi desidera offrire un suo personale tributo a grandi figure storiche quali

T o r o s e d u t o , C r a z y h o r s e , W h i t eB u f f a l , L u p o G i a l l o ma anche alle epiche e disperate battaglie di un popolo nel tentativo di difendersi dalla furia distruttrice dell’”uomo bianco” ( O m a g g i o a W o u n d e d K n e e ).

In questa sconfinata simbologia la P r e g h i e r a a l G r a n d e S p i r i t o è il momento intimo più profondo di dialogo dell’Uomo con lo Spirito creatore, un rapporto diretto e privilegiato sacrificato all’altare della modernità a cui l’Uomo si assoggettato, mortificando la propria essenza. L’Arte di Marina tenta di recuperare quei valori che potevano rendere (e nel caso dei Nativi lo hanno effettivamente fatto) l’Uomo felice sulla Terra, come parte di un Tutto e canale di trasmissione diretto tra Natura e Grande Spirito. I Nativi diventano così simbolo di tutta la razza umana in quella che fu una delle sue espressioni d'insieme più elevata ma purtroppo irripetibile. Marco Viroli marzo 2007

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Remo Bucci: L’artista artigiano

Remo Bucci è un artigiano, un artista genuino che lavora innanzitutto per se stesso e per dare libero sfogo espressivo a un complesso e ricco mondo interiore. Utilizza la materia, terra, gesso, colore che sia, distogliendola dal suo normale antico utilizzo, piegandola a un volere di rappresentazione artistica con finalità espressive assolutamente moderne e sorprendenti.

Opere complesse dal punto di vista formale, tematico e interpretativo, che a volte divengono veri e propri lavori di assemblaggio di oggetti meccanici e non, e allora l’artista fa il verso, in maniera più o meno consapevole, ai modi compositivi semi-automatici tipici di alcune avanguardie della seconda metà del secolo scorso. Nomadismo culturale, eclettismo stilistico presiedono a un lavoro di rifondazione dell’arte improntata sul principio manieristico della citazione. Opere che occupano uno spazio frantumato su vari piani, non necessariamente contenuto in un unico piano di proiezione.

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Come gli elementi della natura morta del ‘600 venivano recuperati da un contesto incontaminato vicino all’uomo, nell’arte di Bucci gli oggetti riprodotti o assemblati sono spesso estrapolati da quell’ a l t r o v eravvicinato della produzione industriale che ha costruito intorno all’uomo uno stabile paesaggio artificiale. Adeguandosi alla tecnologia industriale, la poetica della materia si qualifica come poetica del relitto o del rottame, dunque all’opposto del “prodotto”.

Remo Bucci si diverte a giocare con le cose e con la realtà, riproducendo a dimensioni reali oggetti di uso quotidiano, riproponendoli in una veste per loro inconsueta e collegandoli a un concetto consumistico di inevitabile duplicazione.

In altri casi Bucci si cimenta nell’assemblaggio e nella composizione di immagini sul piano, nella forma di c o l l a g e e d e c o l l a g e . Le raffigurazioni di miti e avvenimenti drammatici dei nostri tempi si fondono allora con le icone rassicuranti che provengono dal mondo effimero della moda o della pubblicità, mostrando tutta la loro provvisorietà e precarietà, soggetti come sono alla possibile rimozione o ricopertura. Non perdono però il proprio fine primario che è quello dell’informazione, strumento essenziale e indispensabile della cosiddetta “civiltà dei consumi”, a cui l’immagine è legata indissolubilmente e a doppio filo. Immagine che non reca in sé, ma riceve da chi la fruisce, un finale significato estetico.

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In altri casi la rappresentazione artistica si fa più comprensibile, meno oscura, e sia pure sviluppata su un piano prettamente onirico, mantiene punti di riferimento a noi conosciuti e più facilmente interpretabili. La materia resta comunque protagonista delle opere e sostituisce la tela e i colori stessi, pur restando ancorata agli schemi classici della raffigurazione che, nell’accezione comune, è intesa come quadro o come scultura.

Marco Viroli febbraio 2007

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Piero Donatini: Sensazioni

“Per fortuna da qualche parte tra il caso e il mistero, esiste la fantasia, l’unica cosa in grado di preservare la nostra libertà” (Luis Bunuel)

Esiste una tribù nel Centro America dove gli uomini del villaggio si trovano ogni mattina per raccontarsi i sogni fatti nel corso della notte. Chi più sogna più è considerato e assume una posizione di rilievo nella oligarchia che governa il villaggio. Chi meno sogna viene lentamente allontanato e indirizzato verso lavori manuali. Il viaggio alla scoperta della pittura di Piero Donatini è un viaggio alla scoperta di un mondo sconosciuto e surreale, fatto di paesaggi onirici dove si perdono i punti di riferimento. Ogni immagine fa riferimento a uno stato dell’anima che viene raffigurato come luogo dell’immaginario. Tutte queste immagini ci danno modo di conoscere il mondo interiore di questo artista romagnolo di nascita, emiliano di residenza, un mondo dai contorni indefiniti dove i confini si sfumano, si fondono e si confondono. Spesso le opere di Donatini vivono nel paradosso spaziale derivante dalla fusione tra cielo e terra ottenuta mediante una graduale sfumatura del colore sulla superficie, priva di linea d’orizzonte. Ne deriva un mondo, che sia pure sconosciuto al visitatore, non è mai inquietante, ma al contrario appare rassicurante, nella pace e nel silenzio da cui è dominato.

L’arte di Donatini ha il carattere di test psicologico, ma perché questo sia autentico è necessario che la coscienza non intervenga e che il processo di trascrizione risulti assolutamente “automatico”. Tale procedimento è desunto dalla psichiatria e con esso si indicano processi e azioni involontari, che sfuggono al controllo della mente. E’ anche per questo che, ai fini della comprensione di chi si pone di fronte alle sue

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opere, Donatini dichiara sempre un titolo evocativo. Tali titoli (“Orizzonti”, “Senza fine”, “Infinito”, “Sete di vita”, etc.) per la loro importanza diventano perciò un tutt’uno inscindibile e imprescindibile dall’opera a cui fanno riferimento e di cui divengono parte integrante. Come accadeva per i primi surrealisti, l’inconscio non è solo dimensione psichica che l’arte esplora, ma diviene dimensione dell’esistenza estetica quindi dimensione stessa dell’arte. L’automatismo esprime la vera forza creatrice che è dentro di noi e che permette all’artista di esprimere la sua vera natura, liberata dai vincoli della ragione. Nell’arte di Donatini i paesaggi sconfinati, planetari, sono deserti desolati, senza alcun segno di vita presente o alcun relitto di vita passata. Forse in qualche scorcio possiamo ritrovare i colori e le forme di una immaginario paesaggio romagnolo che l’artista vagheggia nella sua memoria attingendo al repertorio dei propri ricordi d’infanzia. Pur nella loro pressoché totale desolazione però questi paesaggi non inquietano, tutt’altro rassicurano, avendo perduto qualsiasi elemento di relazione con la realtà conoscibile. La morfologia è essenzialmente quella lunare, le composizioni paiono crearsi direttamente sulla tela e in questo Donatini è coerente a se stesso, mantenendo un vero e proprio p h i l r o u g e in tutta la sua produzione.

“La pittura si compie davanti ai miei occhi, rivela le sue meraviglie mentre si sviluppa. Ed è per questo che mi da una sensazione di libertà assoluta.” (Yves Tanguy)

Esiste ora la possibilità che Piero Donatini possa cedere agli ammiccamenti e alle tentazioni dell’astrattismo, anche perché la linea di confine tra la sua pittura e l’informale è molto sottile.

“Il surrealismo può aprire all’astrattismo, ma non è astratto, conserva le forme come il sogno conserva gli elementi figurativi della realtà, estrapolandole, facendole uscire dal contesto, combinandole in modi estranianti. Con l’astrattismo e l’arte informale, la figurazione viene totalmente abbandonata per il colore puro o il segno non più portatore di oggettualità ma di energia, allora i guizzi primari del dinamismo esploderanno come i colori di Mirò o l’astrattismo di Kandinskij ed ecco che inconscio, psicoanalisi e surrealismo dettano l’evoluzione dell’arte moderna. Dall’inconscio si trae uno dei suoi prodotti primari: il sogno. Molti quadri o poesie sono composti come tracce di sogno o come si facessero sognando. La mente umana ha questa capacità di agire l’emisfero destro o dell’intuizione, come se dormisse da sveglia. E’ lo stesso modo di attivare la magia o il paranormale. (Viviana Vivarelli)

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Ogni artista sognò e sogna a suo modo. Quelli che qui mostriamo sono i sogni tattili che un artista, e prima di tutto un uomo, un energico e vitale ragazzo di 76 anni compiuti, ha cercato con successo di convertire in immagini e sensazioni.

Marco Viroli gennaio 2007

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Ettore Zito: camera painting

“Una mattina, siccome uno di noi era senza nero, si servì del blu: era nato l'impressionismo.” (Auguste Renoir) Potremmo dire, parafrasando questo sintetico e simpatico racconto di Renoir, che un giorno un fotografo colto da un inspiegabile tremore della mano scattò una serie di foto che poi allo sviluppo risultarono oltremodo mosse, ma l’effetto si rivelò interessante e oltremodo affascinante. Quel fotografo aveva casualmente inventato il “camera painting” che in italiano potremmo volgarmente definire: “dipingere con macchina fotografica”.

Quando ci incontriamo in un bar e Ettore per la prima volta me ne parla confesso che non riesco subito a “focalizzare”, a farmi un’idea precisa di cosa possa essere il “camera painting”, a cui stava facendo riferimento. Dopo i saluti vado su internet, come di consueto oramai quando non conosco o non ricordo qualcosa, a consultare Google. Ma anche il motore di ricerca numero uno della rete non mi permette di rintracciare informazioni più precise. Come prima segnalazione trovo un sito di suggerimenti su come dipingere la propria vecchia macchina fotografica, e capisco immediatamente che non è questo quello che sto cercando.

Trovo poi il sito di un greco, un certo Dimitris Varos, che con la macchina fotografica “dipinge” immortalando le belle immagini delle isole degli arcipelaghi greci. Le stampe diventano assimilabili a quadri a soggetto figurativo, dal sapore n e w a g e mediterraneo. C’è anche un sito americano www.camerapaintings.com dove si possono trovare immagini di varia natura che però appaiono assolutamente realistiche, senza quell’intervento di scomposizione delle immagini e dei colori di cui mi parlava Ettore, e che avviene tramite il semplice movimento della macchina.

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Su un sito in lingua inglese trovo qualcosa di somigliante a quello che Ettore cercava di descrivermi a parole: un vero e proprio documento dal titolo “The Painting Camera: Abstract Rendering with Camera-Control-Images”. Ci stiamo avvicinando al concetto, ma non ancora del tutto. Infatti in questo documento estremamente tecnico, firmato Ergun Akleman e Scott Meadows, la macchina fotografica viene utilizzata per creare immagini totalmente astratte con l’ausilio di raffinati procedimenti di non facile e immediata applicazione.

Trovo infine il sito di una artista londinese, tale Alison A. Raimes, www.raimes.com, che mi sembra quella che visivamente più si avvicina all’idea di Zito. Ma dopo un esame più approfondito mi rendo conto che la Raimes più che fotografa è una vera e propria pittrice, che si serve sì degli effetti dell’uso della macchina fotografica, ma solo per riprendere oggetti in “macro”, ossia in modo estremamente ravvicinato, andando così a fissare idee di ciò che poi dipingerà su tela, creando punti di vista insoliti e inspiegabili, fusioni di colori inconsuete, geometrie inusuali.

Finalmente dopo qualche giorno vengo in possesso del cd su cui Ettore ha salvato alcune delle foto che mi propone per l’esposizione. Subito rimango attratto e colpito. E’ questo quello che stavo cercando, quello che Ettore aveva cercato di spiegarmi a parole e di cui non avevo trovato corrispondenza su internet. Il t r a i td ’ u n i o n tra fotografia e pittura, tra realtà e sogno. Un mondo magico di figure e colori indefiniti, ancora in fase di aggregazione. Le forme incompiute sono in fase di realizzazione, come se gli impulsi di frequenze di luce che dagli occhi giungono al cervello, fossero stati fermati a metà strada, ancora sul nervo oculare.

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In questo sta l’originalità della proposta di Ettore Zito. Una ricerca che scava nel profondo dell’essenza del concetto di realtà per giungere fino a quelle “doors of perception” di cui sperimentava e scriveva nel secolo scorso Aldous Huxley. Il tutto senza ausilio di coadiuvanti chimici o droghe sintetiche ma con l’unico aiuto di un strumento ottico, la cui misteriosa preistoria va riportata all’anno 1826 e il cui sviluppo condizionerà poi l’intera storia dell’arte. Questo strumento oramai da anni è alla portata di tutti: è la macchina fotografica (dal francese p h o t ó s , luce e g r á p h e i n , scrivere).

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Ettore è un personaggio di cui poco si sa in città, e lui stesso è restio nel raccontare. Nato nel 1963 a Ravenna, ha alle spalle un passato avventuroso; parte presto dall’Italia come fotografo f r e e l a n c e per girare il mondo andando a fermare con gli scatti della macchina fotografica le drammatiche immagini delle guerre che sconvolgevano il pianeta all’inizio degli anni 80. Poi al rientro in Italia l’incontro con il cinema, la grande passione, e l’inizio di una nuova avventura, questa volta però al centro di un mondo certamente meno pericoloso, ma vacuo e patinato, il mondo della produzione cine televisiva negli Stati Uniti. Infine, la consapevolezza di voler vivere una vita più a misura d’uomo lo porta alla soglia dei quarant’anni a decidere di rientrare in Italia, per poter così curare da vicino la famiglia, gli affetti, le passioni, insomma, tutte quelle cose che rendono una vita “vera”. Marco Viroli dicembre 2006

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Laura Gamberini: L’autunno nei colori

Una lunga ricerca pittorica porta Laura Gamberini alla compilazione e alla presentazione di questa omogenea raccolta di opere dal caldo sapore autunnale. La tavolozza ben definita dell’artista si è appropriata definitivamente di quei colori che ci fanno partecipi di un mondo interiore fatto di spazi, muri, porte, piante, oggetti. Un mondo essenziale come essenziale è il silenzio di un viaggio compiuto dentro se stessi. Quelli della Gamberini sono paesaggi della memoria nei quali anche il respiro diviene leggero per non spezzare la magia di quel silenzio che li avvolge. Ci sono porte chiuse da tempo che non danno idea di potersi aprire a breve, ci sono alberi e boschi dalle foglie colorate di varie tonalità di rosso e arancione che presto cadranno, strani e misteriosi oggetti appoggiati a pareti consumate dal tempo e dall’abbandono o anche oggetti di uso comune abbandonati o gettati a terra, mazzi di fiori recisi, girasoli messi a seccare a testa in giù…

L’ esperienza materica non porta a risultati sperimentali o di avanguardia, bensì la materia si piega alla mera rappresentazione tradizionale aggiungendo maggiore incanto alle immagini.

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Soprattutto l’uso della carta applicata alla tela (carta di giornale, carta da musica, ecc…) risulta essere l’intervento materico più congeniale all’artista forlivese. A volte la carta viene distolta dal suo normale uso dalla Gamberini che vi dipinge direttamente sopra, altre volte la carta mantiene il suo fine precipuo e nella rappresentazione pittorica incarna la stessa carta di giornale che avvolge il mazzo di rose, oppure l’enigmatico spartito musicale incollato al muro al posto del campanello, del numero civico, dell’iscrizione, a fianco del portone chiuso di una casa dai muri segnati dal tempo, come se l’artista ci voglia indurre a pensare che quella abitazione possa essere stata abitata da un vecchio musicista o possa essere stata il luogo dove la banda del paese andava a fare le prove.

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Anche i boschi sono rappresentati nella loro fase calante, quella che precede di poco l’inverno, in un autunno tiepido ma che porta con se l’incombenza dell’inevitabile inverno. E anche qui è il silenzio e, vorrei aggiungere, la solitudine a farla da padrone. Altro non c’è che popoli questi quadri se non tronchi, rami, foglie, l’umidità nell’aria che lascia a mala pena intravedere sullo sfondo un filare di pioppi recentemente piantati, un panorama dal sapore estremamente padano. Si viene lasciati soli quando si cerca di entrare nel proprio mondo interiore, dove non è permesso ad alcuno di accompagnarci, dove ci si deve fare coraggio e addentrarsi in quel bosco, familiare nell’aspetto, ma di fatto sconosciuto. Allo stesso modo l’osservatore viene lasciato solo al cospetto di questo mondo silenzioso, che si prepara a una morte per congelamento, ma che confida fiducioso in quel ciclo delle stagioni che lo vedrà rinascere e rifiorire a primavera.

Sta di fatto che l’autunno è la stagione che più si respira in queste opere dell’artista forlivese: l’autunno con tutti i colori e i sentimenti che lo contraddistinguono: malinconia, apatia, smarrimento, inquietudine. Così pure gli oggetti poggiati o abbandonati a terra riportano all’idea dell’autunno, un autunno delle cose che viene rappresentato da una lattina di coca-cola o da una conchiglia a cui viene lasciata poca speranza di resurrezione. Un’opera a mio avviso molto importante è quella nella quale troviamo una maschera appesa a un muro, simbolo di abbandono di ciò che si è stati per rinascere con ali e aureola e ascendere al nuovo livello simboleggiato dall’immagine volutamente abbozzata e che, come quadro dentro quadro, sporge in modo realistico dalla tela. Appeso a una parete sulla quale, senza far uso di troppa fantasia, si possono scorgere almeno due “sindoni”, due ombre umane che da quella maschera si staccano e si dipartono per salire verso l’alto.

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C’è sentimento nell’arte della Gamberini, empatia per la natura, per i colori, per la precaria condizione umana, per la caducità delle cose. La grande vitalità e la grande intensità, l’anelito costante alla ricerca tecnica, all’apprendimento, alla formulazione di nuovi progetti, si possono respirare nello studio invaso da tele e colori, che occupa oramai l’intero piano terra della casa dove la Gamberini vive. I fiori, le piante la natura sono preponderanti in questa collezione, ma la Gamberini è nota anche per la sua vasta produzione di maschere veneziane o per numerosi progetti in fase di realizzazione tra i quali una suggestiva rielaborazione delle carte dei tarocchi.

Marco Viroli novembre 2006

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Marco Tocco: fantasie da un mondo nuovo

“La fantasia scompone l’opera d’arte secondo leggi che scaturiscono dalle profondità dell’anima; poi raccoglie i pezzi, li suddivide ed ecco che viene fuori un mondo nuovo.” (Charles Baudelaire)

Scontro di titani

Marco Tocco è personaggio eclettico, amante degli sport estremi e dell’avventura; solo negli ultimi anni è giunto alla pittura, percorrendo i percorsi imprevedibili e sorprendenti di una vita viva. Il fascino delle opere di Tocco risiede nella cura impercettibile dei singoli dettagli, nelle atmosfere sfavillanti che avvolgono le scene di fatto prive di eventi. Il fantastico rappresenta, nella sua già ampia produzione, un sistema aperto alle sperimentazioni, un indagare senza posa la realtà, alla ricerca del nuovo e dell’insolito.

Bosco

“Quando la ragione dorme le sirene cantano” (Max Ernst) I temi prediletti dell’artista Marco Tocco sospingono lo sguardo dietro l’apparenza del reale nell’esplorazione di mondi intermedi.

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Il fantastico, parte integrante e autentica di qualsiasi manifestazione artistica, così presente nell’opera di Marco Tocco, è stato e sempre sarà, compagno inseparabile dell’arte nel suo vario cammino verso la storia. Per questo l’arte fantastica non ha età. Per questo l’arte di Tocco appare fuori dal tempo. Le sue tele anelano al fantastico facendo appello alle percezioni inconsce dell’uomo. Il suo lavoro è permeato di sogni, desideri e aspirazioni, una sfera di cui in genere si ha una consapevolezza minima, ma che condiziona in maniera determinante il comportamento.

Katana

“Il bello del fantastico è che il fantastico non esiste, tutto è reale.” (Andrè Breton) Nell’arte figurativa del ‘900 il fantastico sposta il raggio d’azione dall’esterno all’interno, d all’e n p l e i n a i r all’individuo. La percezione del mondo, come quella dell’Io, può essere proiettata più o meno consciamente in una dimensione fantastica. Molte delle informazioni che riceviamo dall’esterno rimangono per noi al di sotto della soglia della coscienza, in quel settore che, da Freud in poi, prende il nome di “inconscio”. L’arte di Tocco è personale, non riconducibile a una corrente, né a una scuola o a un movimento e rappresenta una particolare visione del reale e non la sua negazione. Tocco ricostruisce non solo la “forma”, ma anche il “colore”, con un ritorno al valore puro del disegno, della decorazione, della rigorosa affermazione del fantastico sul reale. Le sue opere ci parlano anche di un impegno costante del pittore nell’esercizio di una professione a cui è arrivato pressoché da autodidatta. Il suo realismo si risolve nella fede nell’oggetto, figura, paesaggio che sia, raffigurato con candore romantico.

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Il galeotto

“La realtà è la nostra immagine del mondo che affiora in ogni specchio, è un fantasma che esiste solo per noi, che ci segue, si agita e svanisce.” (Jorge Luis Borges) Tutte le azioni umane sono accompagnate da sentimenti che svolgono un ruolo importante nello sviluppo di ogni individuo e regolano l’esistenza di ogni essere umano. La pittura fantastica, come la letteratura fantastica, hanno la particolare capacità di far leva sulla sfera delle emozioni, sia quelle del pittore che quelle dello spettatore, in quanto vi trovano espressione le proiezioni inconsce, le rimozioni, i desideri e le aspirazioni. In un’epoca di transizione come quella in cui viviamo, disorientamento, dubbi, angosce vengono rappresentati in arte divenendo una sorta di schermo su cui proiettare i sentimenti. Reduce da una personale tenutasi a Roma presso la Galleria “Il Canovaccio” e dopo aver ricevuto alcuni importanti riconoscimenti nella capitale, Tocco desidera riportare le sue opere in Romagna per mostrarle e farle conoscere anche nella sua terra di origine. Per questo lo ringraziamo e gli siamo grati di darci modo di apprezzarle e in esse gli aspetti più esaltanti della sua pittura, la potenza decorativa e la forza segreta della sua arte che va ricercata nella capacità di trasmettere sempre e a fondo le proprie emozioni. Marco Viroli ottobre 2006

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Gianluca Missiroli: guardarsi indietro per guardare avanti

Tutto iniziò all’incirca 130 anni fa quando a quei pittori che furono poi denominati “impressionisti”, dileggiando il titolo del celebre quadro di Monet I m p r e s s i o n , s o l e i l l e v a n t , fu imposto il rifiuto alla esposizione delle proprie opere al

S a l o n . Quel piccolo gruppo di pittori che avevano sede a Montmartre, inizialmente osteggiati dalla critica, non potevano sospettare che il loro nuovo modo di vedere la realtà e di rappresentarla su tela avrebbe di lì a breve cambiato il mondo della cultura e, addirittura, della scienza. E quando una rivoluzione parte non si sa mai dove possa andare a evolversi e diramarsi. Così da quel gruppo iniziale, che lentamente si sfaldò per prendere strade personali, nacquero via via numerose altre correnti. In particolare, quando Gaugain suggerì a Paul Serusier di dipingere ciò che sentiva e non ciò che credeva di vedere, evitando una mera rappresentazione della realtà quale essa appare, Serusier produsse un piccolo dipinto che avrebbe avuto un peso inimmaginabile sul futuro della pittura, delle arti e del pensiero occidentale, tanto da essere denominato “Il talismano”. Si trattava soltanto di un piccolo paesaggio bucolico da cui presero ispirazione inizialmente i N a b i s (n a b i in ebraico significa profeta, il gruppo fu creato da Serusier intorno alle personalità di Bonnard, Vuillard, Denis e Valloton, ma riscosse le adesioni anche di grandi della cultura e della letteratura tra i quali Proust) altro gruppo di pittori parigini, meno conosciuti in Italia, ma non per questo meno rilevanti dei loro predecessori, gli Impressionisti. Dalle evoluzioni artistiche dei Nabis presero origine molti degli “ismi” artistici e delle avanguardie della prima metà del secolo scorso: simbolismo, surrealismo, futurismo, cubismo, dadaismo, astrattismo, espressionismo, fino ad arrivare alla pop e alla minimal art e alla anarchia dominante nella cosiddetta arte moderna. Questa lunga introduzione ha la funzione di affermare che anche quest’anno ci occuperemo di molti degli aspetti di queste evoluzioni, seguendo le mosse degli artisti locali che ospiteremo sulle pareti di Palazzo Albicini con cadenza mensile. Iniziamo con un personaggio davvero interessante ed eclettico: Gianluca Missiroli di Ravenna, autodidatta, che nella sua espressione artistica si ricollega a non pochi di quegli “ismi” citati in precedenza, fino a sfiorare la pop art, ma con mezzi espressivi assolutamente moderni quali la computer grafica.

In un prato di Van Gogh pascolano meravigliosi graffiti paleolitici

Artista a tutto tondo Missiroli è totalmente immerso nel mondo moderno e nelle sue problematiche più attuali ma con un piede ben saldo nel passato. Oltre a essere pittore è fotografo, poeta (una sua raccolta dal titolo “C’era una volta… la televisione” verrà distribuita a chi la richiederà all’interno della mostra) e

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video maker, come si potrà apprezzare assistendo alla proiezione di “Life is not a movie…” e “Ideal city” che verranno proiettati a rotazione sugli schermi. Ma è nella pittura o meglio nelle arti figurative che Gianluca Missiroli riesce a esprimersi ai livelli più alti.

Scontro di Civiltà

La sua manipolazione delle immagini è solo apparentemente un gioco che lo porta a confondere il passato con il presente per creare una nuova dimensione in cui viaggiano sospesi i personaggi rappresentati e i messaggi che essi stessi recano. Opere caratterizzate da una carica ironica provocatoria o paradossale, altre volte invece puramente drammatiche ed esplicite. Talvolta il procedimento ironico è simile a quello che muoveva i dadaisti, pur non essendo mai totalmente fine a se stesso, come avveniva invece sovente per gli artisti che aderivano a quella corrente. Accade anche che l’inserimento di elementi alieni possa moltiplicare all’infinito le chiavi di lettura di un’opera. Spesso tutto è avvolto da un’atmosfera immobile e silenziosa, che contrasta con i colori luminosi e vivaci che contribuiscono a creare la dimensione onirica e simbolista. A noi sembra anche che Missiroli si trovi spesso a interrogarsi, pur forse inconsciamente, sul senso dell’arte e sul rapporto tra artista e spettatore. Per alcuni episodi si può parlare di una sorta di arte r e a d y m a d e , in quanto Missiroli si limita a combinare, con l’ausilio del computer, immagini già pronte, ma che, disinserite dal contesto di provenienza, si piegano al nuovo significato che l’artista gli vuole attribuire. Per questo, ma anche per il fatto che le sue opere possano essere moltiplicate e ripetute sia pure con tecniche diverse ma con pochissime variazioni stilistiche, in quanto depositate nella memoria di un computer, il lavoro del ravennate prende le connotazioni della corrente che fu diretta emanazione del dadaismo ovvero la pop art.

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Un progetto leonardesco x un famoso prodotto

Unendo tutte queste diverse influenze Missiroli riesce a creare qualcosa di unico e personale, perlomeno a livello locale, dove l’aspetto dissacratorio spesso cede il passo a una foga simbolista e/o surrealista. Certo è che Missiroli ha tanto da dire e da dare e, anche se pare procedere in maniera apparentemente disordinata, questo risulta il t r a i t d ’ u n i o n con cui andiamo a leggere la sua intera produzione. Combinare elementi del passato con elementi del presente o del futuro, o addirittura inventati, ci da la misura di un altro aspetto del suo carattere e del suo pensiero: nella rappresentazione esiste solo un tempo assoluto, in cui guardare indietro serve principalmente per guardare avanti; al tempo stesso guardare avanti appare senza senso, senza una solida base di tradizione passata da cui partire. La retrospettiva non fa altro che enfatizzare questo concetto: fermarsi, fare il punto della situazione, contare le forze, per poi ripartire verso nuove avventure. Marco Viroli settembre 2006

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Carlo Ravaioli: del nessun tempo e del nessun luogo

I mezzi pittorici e materici usati sapientemente per accrescere la magia della sua arte, le frasi poetiche inserite a volte in maniera didascalica, altre volte a mo’ di vero e proprio fumetto, tradiscono le origini e le influenze di Ravaioli, che di lavoro da sempre ha svolto quello di grafico pubblicitario. In tale veste conobbi Carlo quasi vent’anni fa, a metà degli anni ottanta, quando a Forlì a esercitare questo mestiere c’era solo lui o quasi. Un pioniere quindi delle forme espressive collegate alla pubblicità, agli eventi, alla comunicazione. Ma il germe artistico, che già da tempo andava scavando in lui un tunnel, vide infine la luce nei primi anni novanta, quando Carlo venne allo scoperto come pittore in senso stretto, senza mai abbandonare la grafica che ancora oggi lo pone come punto di riferimento in città, specie per ciò che concerne la qualità realizzativa, le soluzioni artistiche, le intuizioni creative. Andando alla ricerca di riferimenti nell’arte pittorica di Carlo Ravaioli si rischia di restare frastornati, tante sono le citazioni presenti nelle sue opere. Così ci si ritrova dapprima ad accostarlo a Gauguin ma soprattutto a Carrà e Modigliani per ciò che attiene la rappresentazione della figura umana, prevalentemente femminile, che a volte prende i tratti del fumetto d’autore (leggasi Moebius). Di fronte ai suoi quadri dell’ultimo periodo riaffiorano alla mente particolari di interni cari a VanGogh e Matisse, ma anche e in particolare Escher, per le prospettive sorprendenti dei “Labirinti”, solo apparentemente sballate, ma sempre e comunque convincenti, impreziosite dall’abilità di chi ben sa come dilatare e comprimere gli spazi, pur non perdendo di vista il rispetto per le proporzioni. E l’occhio dell’osservatore viene rapito dagli spazi pressoché privi di arredo, dalle scale, dalle nicchie, dalle entrate, dalle finestre buie o dai fasci di luce che filtrano, e che inesorabilmente portano in nessun luogo. Tutto appare metafisico nell’immaginario di Ravaioli, perciò sorge spontaneo collegarlo a DeChirico, che lui stesso cita come fonte di ispirazione, e perché no, anche a Dalì. Ma tra tutte le influenze più o meno accentuate, nessuna spicca, e tutte si amalgamano l’una con l’altra creando uno stile purissimo e raffinato che contraddistingue l’artista ravennate, ma forlivese di adozione, e lo rende perfettamente distinguibile finanche a un osservatore distratto e meno preparato.

Non si trovano nelle opere di Ravaioli, se non in rarissimi casi, riferimenti spaziali o temporali. I soggetti delle sue opere non sorridono, non piangono, paioni avulsi dalla realtà, perché popolano un Universo che, più che uno spazio fisico, pare essere uno s t a t e o f m i n d , uno stato mentale. E’ l’ Universo dell’attesa infinita, dell’ indolente i m p a s s e prima del compiersi dell’inevitabile destino incombente, predeterminato, immutabile, al quale non si possono ribellare, ma solo eventualmente conformare. Incapaci di opporsi al fato, consci della loro impossibilità di esercitare il l i b e r o a r b i t r i o ,preferiscono indugiare osservando lo scorrere degli eventi di cui nulla però ci fanno sapere. L’ osservatore non comprende più se è venuto a trovarsi nel territorio del sogno o in quello del reale. La commistione e la confusione tra fantasmi e materia, tra mondo tangibile e mondo interiore, oramai parte del nostro modo di essere, uomini e donne del XXI secolo, non sorprende più. Al contrario dei nostri antenati abbiamo trasferito il fulcro del reale dal mondo esterno a quello interiore, arrivando paradossalmente a vivere la realtà come illusione, e il sogno come realtà.

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C’è tanto Buzzati in quei visi, nelle mani, in quegli occhi illanguiditi dall’ attesa inerte che bene rendono l’attualità e la moderna drammaticità di quelle figure incantate. Come personaggi di un romanzo di DeLillo o di Paul Auster le figure diventano pedine del Caso, fissate nella loro immobilità istantanea; simili ai protagonisti di A m e r i c a o g g i di Altman, che vivono gli attimi prima di un incombente

B i g O n e , o di M a g n o l i a di Anderson, dove solo l’aleggiante e sorprendente pioggia finale di

rane riesce a provocare una svolta negli eventi e nelle alchimie tra i personaggi, che fino a quel momento erano incapaci di prendere qualunque decisione. Ma dell’Evento nulla ci viene dato di sapere, Carlo ce lo fa solo supporre, immaginare, lasciandoci stabilire se le figure prenderanno una decisione per proseguire nel cammino o se invece opteranno per un non sempre facile ma comodo statico compromesso. Restano sempre e comunque sole, accettano la solitudine come stato delle cose, con pacata rassegnazione e la vivono come equilibrato punto di arrivo dell’essere, come quintessenza dell’umana condizione, sperimentata quasi fosse una virtù da conseguire assolutamente. Nei quadri esposti al MEGAforlì ritroviamo tutta la poetica e le tematiche di Ravaioli, il quale ha preferito, in questa sede, dare maggiore spazio alla vena più recente legata alla memoria e all’immaginario. Particolari di intricati labirinti mentali o reali scenari di futuri o passati eventi? La libertà sta nel dare una risposta a questa domanda.

Marco Viroli ottobre 2005 gennaio 2006

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Cesare Siboni: la controrivoluzione pittorica

La rivoluzione pittorica di Cesare Siboni consiste in una controrivoluzione. Bandite astrazioni e sperimentalismi a qualsiasi livello, Cesare torna alla radice dell’arte pittorica. Virtuoso come pochi altri, mette a frutto le sue passate esperienze di disegnatore anatomico diplomato, trasferendo su tela tutta l’approfondita conoscenza del corpo umano, sua principale fonte di ispirazione. Un ritorno alle origini dell’arte figurativa anche per la scelta dei temi, spesso a soggetto mistico-religioso, pur affrontati con lo spirito di chi negli angeli, nei santi, nel Cristo o nelle Madonne, coglie prima di tutto l’aspetto umano e poi quello divino. Parte da qui la controrivoluzione di Siboni che afferma il principio secondo cui la pittura ha da rappresentare, non concetti astratti, o complicate elucubrazioni mentali, o geometriche scansioni della tela fino a giungere a una dissacrazione dell’arte e alla contaminazione estremistica, ma la pura e semplice conoscenza del mondo reale. Cose e persone sono collocate in un preciso istante temporale. Le cose come esse sono nelle loro proprie relazioni di luogo, spazio e luce. Le cose esprimono idee, filosofia e storia perché da esse si sprigiona il “presente”. Cesare ha una idea della pittura pura, come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte. In tale visione neo-realista anche la natura morta ridiviene punto di partenza. Servendosi di ciò che ci è familiare, di ciò che ci è congeniale, si può dare conto della verità senza ricostruire teatrini su testi e nozioni tradizionali. Oltre a tutto questo diamo il merito a Cesare di aver reinventato la luce, che torna a farsi componente strutturale, quasi “terzo elemento”, insieme a disegno e colore. Nelle sue opere torna l’eco dell’ascesa dal lombardo luogo natio a Roma, nei primi anni del ‘600 di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, che lottò, con il genio e la pazzia che lo contraddistinsero, per sovvertire le regole e i dogmi assunti dall’arte fino a quel momento. L’arte di Cesare Siboni si contrappone a quella di tanti autodidatti che dipingono ed espongono oggi. L’approfondita conoscenza dell’arte e dei suoi strumenti sono alla base della pittura di Cesare.

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E al contrario di quello che accadeva allora a Caravaggio che portava un tocco plebeo nell’arte dei suoi tempi, Siboni innalza il livello della proposta contemporanea , elevandosi a punto di riferimento, godendo del rispetto pressoché unanime degli addetti ai lavori. Va ricordato che pur essendo giovane come artista vanta già l’esposizione di diversi lavori in importanti chiese locali e non, tra cui San Mercuriale. Perdonate i continui riferimenti a Caravaggio, e spero non dispiaccia all’artista, ma forte è la sensazione, di fronte ai quadri di Cesare di trovarsi al cospetto di un novello Merisi. Evidente è l’influenza che lo studio del pittore lombardo vissuto 4 secoli fa ha avuto sul pittore forlivese, per cui è inevitabile per chi scrive tracciare un parallelo a livello artistico tra i due. Caravaggio affermò che “ … i n p i t t u r a v a l e n t ’ u o m o [ significa] c h e s a p p i a d i p i n g e r e b e n e e t i m i t a r e b e n e l ec o s e n a t u r a l i . ”

Assumendo ciò potremo affermare che Cesare Siboni è certamente per noi, e lo sarebbe anche per il Merisi, un “ v a l e n t ’ u o m o ”. Cesare Siboni vive e dipinge a Forlì.

Marco Viroli giugno 2006

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David Sabiu: Introduzione catalogo 2005

Conosco da anni David Sabiu, per questo mi sento legittimato nel definirlo personaggio eclettico. Da sempre interessato alla musica, ha fatto della sua passione per l’arte una ragione di vita. E già per questo lo stimo e lo ammiro. Solo negli ultimi anni David Sabiu ha però trovato tempo ed energie per dedicarsi all’ inclinazione latente in lui dai tempi dell’adolescenza: la pittura. Agli inizi David affronta la tela bianca in modo del tutto personale e spontaneo, da autodidatta quale è, senza scuola alle spalle, seguendo istintivamente modelli preesistenti, Pollock e l’action painting in primis, per poi in breve sviluppare uno stile suo che parte dal profondo dell’anima, per andare a creare un universo rutilante di colori e forme in divenire. David è particolarmente attento alle domande che da sempre muovono l’uomo nella ricerca. Quelle stesse domande a cui la scienza, nonostante il continuo progredire, non è riuscita ancora a fornire risposte definitive: chi siamo, da dove veniamo, cosa esisteva prima di ciò che vediamo, come è avvenuta la creazione? Solo chi è pervaso da una fede profonda e assoluta riesce a non spaventarsi di fronte a tali millenarie domande. Scienza e filosofia possono solo fornire ipotesi. L’Arte, dal canto suo, può darne una interpretazione. Quella che Sabiu suggerisce è una soluzione nebulosa, tuttavia gioiosa e inebriante. All’origine del tutto c’è il colore, i colori che tra loro interagiscono, creando la materia e il mondo illusorio nel quale tutti noi oggi ci muoviamo. Porsi dinnanzi a un quadro di David Sabiu è come spalancare una porta nascosta e dimenticata per trovarsi di colpo al centro di un haiku cosmico. I quadri di David sono brevi poesie immense e silenziose fatte di infinito e di vuoti siderali, in cui balenano improvvise scariche di luce emozionale, bagliori di consapevolezza di anime improvvisamente “fulminate dalla coscienza di essere/vaghi frammenti di Universo,/sotto un cielo ferito di stelle,/troppo distanti per illuminare le tenebre (…) (Marco Viroli – Il mio amore è un’isola – Soc.Ed. Il Ponte Vecchio) Recentemente abbandonando il filone “Wave” più festoso e naif aderisce pienamente al movimento “Space”, proponendoci oltre a quelle tradizionali, anche tele da lui stesso progettate e che si fa preparare nei formati più anomali e bizzarri (esagonali, ottagonali, trapezoidali, ma David è capace anche di installazioni pittoriche a parallelepipedo o a piramide). In quest’ultima fase è divenuto più cupo, meno solare, più dubbioso, meno ottimista, forse disincantato, in definitiva senz’altro più maturo. Mi piace il modo in cui Sabiu affronta gli enigmi sui massimi sistemi; timido ma determinato nell’esprimere un personale pensiero sui misteri che da sempre rendono l’Uomo inquieto. Come altrettanto semplice e discreto è il suo modo di proporsi da persona gentile e semplice quale è, un uomo che mai si permette di assumere atteggiamenti da artista “arrivato”, pur avendone ben donde. David che mette la tecnologia al servizio dell’arte, David che aggiorna personalmente il suo sito internet, è da considerarsi la quintessenza dell’artista moderno, polivalente, multimediale. Ma c’è anche un’altra possibile chiave di lettura della suggestiva pittura e dell’arte di David Sabiu: l’Universo esterno, il Cosmo, e quello interno dell’io e dell’es, si confondono, si fondono, fino a non riuscire più a comprendere dove finisca l’uno, dove inizi l’altro. E ancora il colore resta in ultima ratio, l’unica fede a cui appellarsi, per non precipitare nell’abisso oscuro del nulla. Il colore permane e ce ne è tanto, e nella maggior parte delle opere è stratificato, come se il tempo l’ avesse sedimentato. Emerge a sprazzi dal buio di un cosmo che Sabiu lascia a noi decidere se sia micro o macro. Marco Viroli aprile 2005

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David Sabiu: nel caos delle emozioni

Un anno fa, al termine della sua prima mostra al CG82, David mi chiese di scrivere per lui alcuni h a i k u , forme di componimento poetico giapponese molto breve ma dalla rigida struttura metrica, che potessero dare titolo e ispirare una serie di sue nuove opere. Faccio m e a c u l p a e ammetto di aver dimenticato, tra i mille impegni di una intensa vita quotidiana, quella particolare richiesta, sino al giorno in cui non ho avuto sotto mano le foto dei nuovi lavori di David. In queste ultime tele traspare la vicinanza che l’artista forlivese vuole comunicare tra i suoi quadri e la poetica orientale. C’è un mutamento profondo nelle ultime opere di David Sabiu, anche se l’osservatore distratto potrebbe non notarlo. Il dipinto non è più astrazione ma diventa pura poesia, il contenuto emerge dal dipinto stesso che ne è intriso. C’è il desiderio espresso del tentativo di voler tramutare l’apparenza in realtà. Si delineano sintesi di concetti, equilibrio, maggiore purezza dei colori, essenzialità, come quella dei segni primordiali delle grotte rupestri e in tutto questo, ancora una volta Sabiu ci spinge a compiere un viaggio all’esplorazione dell’Universo esterno e interiore. Gli strati di vernice colorata e trasparente, ripuliti in maniera diseguale creano zone disomogenee sulla tela. Le colate di colore primario dall’alto della tela creano un effetto di piccoli rivoli che si armonizzano con gli spruzzi caduti a gocce sul dipinto. C’è, in queste ultime opere di Sabiu, la precisa volontà di abbandono della simmetria e si coglie in questo una importante evoluzione della sua arte per il futuro. Appare una nuova attenzione nella ricerca del “vuoto” come elemento costruttivo, pur nel groviglio di colori, figure e segni. Maggiore prevalenza del colore timbrico e conseguente lento e progressivo abbandono di ogni ricerca di impasto tonale. Totale prevalenza della bidimensionalità, nel tentativo di creazione di un “alfabetario” di segni privilegiati e ricorrenti. Stilisticamente viene approfondito il lavoro di ricerca alle origini dell’A c t i o n p a i n t i n g , di cui lo stesso Mirò, più volte citato nelle ultime opere del pittore e musicista forlivese, fu lontano ma influente ispiratore.

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Minor controllo sulla composizione, innanzitutto, le opere acquisiscono spesso la freschezza di una esecuzione portata a termine in pochi istanti, i colori e la materia gettati sulla tela riportano all’impeto creativo e al caos delle emozioni.

Marco Viroli gennaio 2006

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Grota: l’enigma delle maschere

Nato a Forlì il 14 luglio 1958, Grota prende per la prima volta il pennello in mano il 10 giugno 1973 e, in una giornata, porta a termine la sua prima inattesa e sorprendente tela. Dopo un inizio che si dipana su temi a carattere prevalentemente paesaggistico, la svolta artistica ha luogo nei primi anni 80 quando Grota definisce il suo stile attraverso vari passaggi per giungere al risultato che oggi in tanti conosciamo e che possiamo ritrovare nella sua compattezza e coerenza anche nei nuovi lavori esposti ora al CG82. In primis colpisce nella pittura di Grota l’uso della tavolozza. Colori acrilici primari, definiti e definitivi che schizzano fuori dalla tela per colpire e ferire gli occhi di chi guarda e che, quasi a voler trarre in inganno l’osservatore distratto, trasmettono immediate immagini gioiose di un mondo colorato e giocoso. Quello che risalta ad una più attenta indagine sono invece l’inquietudine e il simbolismo che si celano dietro a quel primo violento assalto cromatico. Il mondo di Grota è popolato solo di visi, visi che diventano maschere e maschere che appaiono come visi. Grandi occhi e grandi bocche che sprigionano impotenza nei confronti dell’entità superiore, di un destino che incombe e contro il quale non possono opporsi ma forse solo tentare di modellarsi. A volte al contrario, come enigmatiche sfingi, pongono a chi sta dinnanzi all’immagine misteriosi quesiti, dando impressione di conoscere le risposte a cosa si trovi dietro la mera essenza delle forme o alla base delle regole dello scorrere del tempo. E come vere e proprie sfingi, finiscono poi a trincerarsi in un timido ma altezzoso silenzio. Grota è questo e molto di più: è la metafisica che si fa icona, è l’esasperazione dell’immagine che diventa archetipo per fuoriuscire dal mondo onirico ed affiorare nella realtà. A cavallo tra Chagall e Picasso, ma con diretti ed espliciti riferimenti alle arti figurative dell’America Latina Andina, Grota ha creato uno stile che lo rende inconfondibile e perciò ancora più ammirevole e degno di attenzione. Franco “Grota” Gianelli è il primo tra gli artisti romagnoli che esporranno a rotazione nella “Sala Verde” dell’art restaurant sito in Corso Garibaldi 82 a Forlì Centro tel. 0543 30142, aperto tutti i giorni escluso lunedì dalle 18 e 30 fino a notte inoltrata.

Marco Viroli settembre 2004

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Vincenzo Baldini: l’anima della materia, la materia dell’anima

Conosco di vista Vincenzo Baldini da sempre. Vincenzo “il pittore”, così quelli della nostra generazione lo chiamano a Forlì. Baldini nasce a Forlì nel 1960 dove frequenta l’Istituto d’Arte, e da allora non passa giorno lontano da quello che è l’amore della sua vita: la pittura creativa. Vincenzo dipinge perché lo sente come necessità dal profondo, dipinge per soddisfare una esigenza espressiva, non lo fa su commissione, anzi la costrizione lo soffoca, frena la creatività, lo reprime irrimediabilmente. Anche per questo considero Vincenzo Baldini un artista vero, libero, che rifugge il compromesso e utilizza l’ arte principalmente come veicolo estetico e comunicativo. Ci siamo accordati telefonicamente per un appuntamento nel suo nuovo studio, una sera di questo autunno, subito dopo cena. Appena entrato sono stato colpito dalla natura del luogo. Si tratta infatti di un ampio garage, sotto a un benzinaio, che Vincenzo ha adibito a suo a t e l i e r . A un profano come me, il luogo e gli strumenti lasciati in giro hanno dato l’idea, più che di uno studio, di una vera e propria officina, specchio del modo di intendere e di operare di Baldini, che ci tiene infatti a sottolineare quanto la parte artistica della creazione sottenda a un lavoro artigianale durissimo e di bassa manovalanza. In fondo artista e artigiano hanno una comune origine etimologica. La sua tavolozza è fatta di colori pastelli, grigi, innumerevoli tonalità del nero e del marrone che ci danno all’istante una precisa idea di quello che sia l’universo baldiniano. L'atmosfera che pervade la sua pittura può ricordare vagamente quella di Morandi, ma i soggetti ritratti e le dimensioni dei dipinti sono totalmente inaccostabili a quelle del grande artista bolognese. Sopra e sotto il colore, la materia, il cemento innanzitutto. Cosa si può trovare di meno poetico ed evocativo del cemento! Eppure Baldini lo astrae dalla sua normale destinazione conferendogli dignità, piegandolo al suo fine artistico. Così anche i visi scarni, e due ne troviamo in questa esposizione, giungono ad avere tratti necessariamente imperturbabili, plasmati nel cemento, che rende immutabile e impenetrabile la sofferenza che li ha scolpiti. Sono visi, maschere di anime nascoste, che chiedono aiuto a chi sta di fronte, pur già sapendo che nessuno riuscirà mai a liberarli dalle gabbie inespugnabili in cui tempo e dolore li hanno rinchiusi. Non solo cemento nei quadri di Baldini, ma anche paglia, foglie secche, rami spezzati, resina e quant’altro possa essere utile a formalizzare il concetto che l’artista vuole esprimere. Nelle sue opere, generalmente di grandi dimensioni, le forme classiche che si trovano in natura spesso vengono distorte perché, di loro l'artista vuole mostrarci la purezza dell’anima. Non desta sorpresa allora l’idea dell’albero ovoidale, o anche delle strade, dei campi, del cielo stesso che non appaiono per quelli che sono, ma come quelli che l’artista vuole che siano, perché in tal modo ne avverte l’essenza. La materia diventa essenza, l’essenza scolpisce l’anima. L’anima dell’uomo che si trova a vivere in un mondo inquieto, spossessato dei valori, delle certezze che lo rendevano sicuro, immutabile, confortevole. E le anime apolidi vagano spaesate in questa landa brulla, grigia, uniforme, senza astri nel cielo a cui fare riferimento per essere guidati nel cammino. C’è tanta poesia nei quadri di Baldini, la poesia della sofferenza , del non detto, del disagio consolidato e sottinteso. Quadri a loro modo essenziali, anche se frutto di ore e ore di lavoro, di sovrapposizioni materiche, di continue puntigliose revisioni. Quadri che raccontano di un mondo “(…) rintanato/nell’attesa indolente/dell’ ultima/rivoluzione.”, se mi permettete una citazione dal mio libro “Il mio amore è un’isola”. Ammirando le opere di Baldini sorge spontaneo il parallelo tra il poeta che dipinge con le parole e il pittore che si serve dei pennelli, delle spatole e anche di materiali meno ortodossi, ma certamente efficaci per la resa finale. Ed è proprio alla poesia che faccio riferimento, certo di incontrare il gusto e il senso artistico-esistenziale di Vincenzo, chiudendo questa breve dissertazione con una celebre poesia di Ungaretti, non certo l’unica del

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poeta di Alessandria d’Egitto evocata dalla visione di questi quadri, che ben si presta, per titolo, all’approssimarsi delle feste di fine anno: Natale

Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/ di strade

Ho tanta/ stanchezza/ sulle spalle Lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata Qui/ non si sente/ altro/ che il caldo buono Sto/ con le quattro/ capriole/ di fumo/ del focolare

Marco Viroli dicembre 2004

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Maria Luisa Zecchini: il colore vive e crea mondi nuovi

Il percorso artistico di Maria Luisa Zecchini è relativamente breve e recente. E’ negli ultimi dieci anni che trova tempo e modo di dare libero sfogo alla sua arte e di consolidare così un suo mondo artistico, fatto di colori e immagini che a una prima occhiata distratta possono rimandarci, con illusoria correlazione, a un universo di fumetti e di caricature, a causa della straordinaria abbondanza di colori, ma anche per le figure animate e per gli oggetti raffigurati, imprigionati dal proprio contorno o anche per l’apparente semplicità dei temi e delle rappresentazioni. Soggetto ricorrente nelle opere della Zecchini è la gente, o meglio la “folla”. Non v’è infatti quadro della pittrice forlivese in cui si possa ricordare di non aver trovato un nutrito gruppo di esseri umani in esso raffigurato. Questo interesse per la figura umana stilizzata, parodistica, in molti casi anonima, senza alcun tratto fisionomico che possa renderla distinguibile, denota minore interesse dell’artista nei confronti dell’individuo inteso come singolo. La reiteratività dei temi indica un atteggiamento che ha dell’ artigianale nei confronti della tela bianca, ma anche un gusto personale alla variazione, alla puntualizzazione, alla definizione dei temi in ogni minima sfaccettatura.

Quando un artista giunge a una definizione del proprio stile personale, che lo rende peculiare per l’uso dei colori e delle forme, che rende omogenea la propria produzione, frutto di una evoluzione lineare e non di un casuale girovagare tra stili e correnti, solo allora l’artista in oggetto avrà raggiunto quello che si doveva esser posto come obiettivo primario: rendere riconoscibile, distinguibile e per questo originale, la propria arte. Nel creare lo stile l’artista non deve mai commettere l’errore di chiudersi al mondo o di temere che influenze esterne possano contaminare la propria formazione. Tutt’altro. Più sarà aperto e documentato al mondo, maggiori allora saranno gli strumenti di cui potrà avvalersi, le fonti da cui potrà attingere, più potenti saranno le sue capacità espressive.

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Considero per questo Maria Luisa Zecchini, nata e residente a Forlì, una tra i pittori forlivesi più vivaci e interessanti. E’ lei stessa a far riferimento a Kandinsky come sua principale fonte di ispirazione. Da Kandinsky Maria Luisa mutua soprattutto la passione per il colore. Come per il maestro russo, anche per la Zecchini l’arte è un tripudio di color puri. Kandinsky in un suo scritto ripercorreva e riviveva la gioia immensa provata a quindici anni, quando comprò la sua prima cassetta di colori: “

Q u e l l a s e n s a z i o n e d i a l l o r a , l ’ e s p e r i e n z a v i v a d e l c o l o r e ( … ) l a p r o v o a n c o r a o g g i ( … ) l ’ e m e r g e r e l ’ u n o d o p ol ’ a l t r o d i q u e s t o e s s e r i s i n g o l a r i c h e c h i a m a n o c o l o r i , v i v i c i a s c u n o i n s é e p e r s é , a u t o n o m a m e n t e d o t a t i d it u t t e l e q u a l i t à n e c e s s a r i e a u n ’ u l t e r i o r e v i t a a u t o n o m a e p r o n t i i n o g n i m o m e n t o a m e s c o l a r s i t r a l o r o e ac r e a r e s e r i e i n f i n i t e d i m o n d i n u o v i . ”

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I temi e il tratto potrebbero indurci a collocare la Zecchini tra i cosiddetti pittori naif, anche se una lenta e progressiva evoluzione pare in atto nella sua arte e potrebbe addirittura portarla in futuro a percorrere i sentieri dell’ astrattismo, che appare già oggi latente nella sua produzione. Questo emerge specie nelle opere in cui le figure anche se accennate sono dotate di contorni ben definiti. In tal modo assumono sempre maggiore importanza e rilievo gli aspetti meramente cromatici delle composizioni. La prevalenza dei colori primari conferisce all’immagine luminosità e chiarezza. I colori sembrano vivere di vita autonoma e in tale autonomia vengono utilizzati con grande libertà espressiva, quasi indipendentemente dalla propria funzione rappresentativa, pensando, in ultimo, alle sensazioni che susciteranno nell’animo di chi le guarderà. Non è avventato azzardare che da qui all’abbandono dell’elemento figurativo a favore della potenza espressiva del colore, il passo potrebbe essere breve. Mondo tangibile e onirico si incrociano nei quadri di Maria Luisa dando vita a mondi nuovi che fanno da ponte tra realtà e fantasia , fortemente simbologici, dal messaggio esplicitamente legato all’immagine, che si rifà più spesso a paesaggi urbani improbabili, in cui vengono sovvertite persino le più assodate regole prospettiche e dove è facile perdere concreti punti di riferimento.

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Il tutto a favore di un messaggio positivo e propositivo che vede nell’uomo, inteso come associazione di individui, la risposta più convincente per il superamento delle problematiche e/o dei momenti di empasse che condizionano la vita e il corso degli eventi. Sono figure che vagano a piedi o a bordo di improbabili mezzi di locomozione, osservando ieratici, a volte i paesaggi di sfondo, a volte l’osservatore stesso che sta guardando il quadro, vittime, carnefici o semplici spettatori che sfuggono la realtà alla ricerca di una via d’uscita: icone estatiche, vivide metafore di questi nostri tempi confusi. Marco Viroli settembre 2005

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Marco Galizzi: una complicata semplicità La velocità e l’irripetibilità del gesto danno origine al segno. Il fattore essenziale è la linea, il più delle volte rude, scarabocchiata, altre volte leggera come una piuma. Le linee vagano sulla tela come melodie sulle corde di uno strumento. Il disegno è quasi calligrafo e acquista scioltezza. Le immagini sembrano muoversi a passo di danza in un mondo di fantasia gioioso e sereno. In alcuni casi le figure nelle opere emergono come riferimenti all’universo fantastico dell’infanzia. L’artista ricostruisce nel piccolo spazio del quadro una sua personale e onirica visione del mondo. La superficie palpita, i segni appaiono e scompaiono, ma tuttavia noi osservatori non siamo in grado di distinguere se ciò avvenga nella profondità fittizia o sulla superficie reale. La tela utilizzata è quella grezza che amplifica l’effetto di approssimazione e di irripetibilità.

Marco Galizzi, forlivese quarantenne, veterinario, padre compiaciuto, motociclista con la passione per la pittura ma anche per la scrittura (ha nel cassetto uno splendido romanzo breve esistenziale, scritto magistralmente) ricapitola nella sua arte la storia della pittura primitiva, l’evoluzione dello scarabocchio, da segno senza significato a immagine vagamente riconoscibile. Di fronte ai quadri di Marco si ha come la sensazione che l’artista abbia cominciato a disegnare senza aver in mente un oggetto ben preciso, lasciando che il segno stesso si muovesse spontaneamente fino al raggiungimento di accidentali rassomiglianze; giunto a questo punto decide se tali rassomiglianze possano essere sottolineate, elaborate o lasciate i n f i e r i . I bordi neri o gli angoli schizzati nello spazio pittorico, vicino al margine della tela grezza, sembrano voler rappresentare una sorta di primitiva inquadratura. Appare pressante la ricerca di uno stile personale, incentrato esclusivamente sul tratto e sul disegno, a scapito del colore. Tale ricerca avviene attraverso la riduzione agli elementi primi dei linguaggi dell’espressione artistica. La gamma cromatica è ridotta a poche tinte elementari e si avvicina a espressioni artistiche primitive, perfetta sintesi di razionalità e istinto. Galizzi si serve di un proprio vocabolario per dare vita a una poesia che emerge dal suo universo interiore e che ha urgenza di manifestarsi. Un universo in cui le parole non sono sufficienti per offrire la stessa libertà interpretativa illimitata che un segno è capace di dare. Per l’artista non esistono forme privilegiate, esse possono essere ispirate al mondo reale o scaturire dalla fantasia, perché la forma è solo espressione esterna di un contenuto interiore.

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Con la semplice sovrapposizione di linee e macchie di colore, la composizione si chiude avendo raggiunto un proprio equilibrio formale e una straordinaria leggerezza. Affiorano qua e la riferimenti a Klee e Kandinski, ma soprattutto all’Informale e all’Espressionismo astratto americano: l’abbandono definitivo degli elementi figurativi pittorici: la pittura diviene trionfo di forma e colori puri liberati da ogni funzione mimetica, pura rappresentazione dello stato interiore dell’artista. Allo stesso modo lo spettatore che si pone di fronte all’immagine deve lasciare che il quadro stesso agisca su di lui. Non vi è nulla di monumentale nell’arte di Galizzi, tutto si restringe a un microcosmo immaginario e poetico, che si richiude in se stesso, dove ogni traccia e tutti gli indizi portano inesorabili a un verdetto inappellabile di complicata semplicità.

Marco Viroli marzo 2005

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Lorenzo Casadei: il ripudio dell’ingannevole

La pittura di Casadei colpisce per la sua precisione e per la sua accuratezza; pur trattandosi di arte informale non ricalca i sentieri percorsi da chi fa dell’astrattismo un comodo mezzo per dipingere pur non avendone i mezzi, né possedendo i rudimenti dell’arte e la conoscenza della sua storia e delle sue evoluzioni. Lo studio e il ragionamento sottesi ai tratti delle opere di Casadei ne sono la conferma. La pittura diviene miscellanea di filosofia e matematica, rappresentando una sorta di visione della realtà attraverso una lente che scompone la materia in codice binario e la scinde nelle complicate matrici algebriche che stanno alla base della percezione. " … p e n s o a l l ’ e s i s t e n z a d i u n a g r a n d e e s u p e r i o r e i n t e l l i g e n z a ( E n e r g i a C o s m i c a ) c h e h a d a t o v i t a a d u nl i n g u a g g i o ( l a M a c r o m a t i c a ) c h e e l a b o r a c a l c o l i m a t e m a t i c i i n f i n i t i p e r c h é i n f i n i t i s o n o g l i i n t e r v a l l i d i t e m p oi n c u i q u e s t i c a l c o l i v e n g o n o e l a b o r a t i ; t u t t o q u e s t o d à c o m e r i s u l t a t o e c o m e p r o d o t t o u n m o n d o f i s i c o( R e a l t à F e n o m e n i c a ) , f a t t o d i a p p a r e n z e e d i m m a g i n i . "

In queste parole sta gran parte del pensiero che muove l’arte di Casadei. Ipotesi affascinanti e suggestive che ci inducono e ci conducono a compiere un viaggio all’interno stesso dei nostri sensi, delle elaborazioni sensoriali, delle connessioni mentali, alla ricerca di quel qualcosa da potersi considerare assoluto, oggettivo, alla scoperta della formula univoca che possa essere risposta a tutte le domande. Quella formula suprema che nemmeno Einstein, la più grande e brillante mente scientifica della storia, che pure mutò radicalmente il modo di pensare e di vedere il mondo, nonché la storia stessa, riuscì a partorire prima di scomparire a causa della brevità programmata della vita umana. E lungo la via verso la ricerca del n o u m e n o ognuno cerca di equipaggiarsi coi mezzi che più conosce e che più gli sono congeniali. Nel caso di Lorenzo non mi sentirei di classificare il suo stile nell’ambito del cosiddetto a c t i o n p a i n t i n g , in quanto ciò che genera la sua pittura e ne sta alla base non è espressione di un gesto estemporaneo del corpo, né della violenza più o meno intensa della pennellata sulla tela, né di un intervento diretto di oggetti o del corpo stesso, quanto piuttosto frutto di una trasposizione del pensiero e della necessità di dare forma all’essenza piuttosto che alla materia. Casadei tenta l’abbandono di tutto ciò che è corporeo e che si può descrivere grazie agli ingannevoli cinque sensi, per andare a immortalare l’istante eterno, unico, preciso, immutevole sia nel suo inizio che nella sua fine. Restano i colori alla base di un’esperienza che si auspica di poter ripudiare in futuro persino l’uso della tela per poter andare a dipingere direttamente l’etere.

Marco Viroli dicembre 2005

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Daniele Angelini: luce e silenzio, tocco del divino

Nella sua ultima produzione, oggi esposta al CorsoGaribaldi82 nella Sala Verde, Il forlivese Daniele Angelini, nato il 5 febbraio 1974, delinea i caratteri di quella che si può definire una sorta di ritorno al neoclassicismo. Attingendo alle memorie fotografiche dei suoi viaggi itineranti, in particolare a quelli compiuti nel bacino mediterraneo, il giovane pittore forlivese definisce uno stile iper-realista, ma al tempo stesso esistenzialista e metafisico.

Non v’è nulla che sia di indizio allo scorrere del tempo nelle tele di Angelini. Non un passaggio di nuvole in cielo, non una figura animata, sia pure lontana, che dia l’idea di un ipotetico movimento. Tutto risulta come eterno, intoccabile, immutabile e statico. La luce, con cui Daniele è maestro nel giocare, crea ombre e chiaroscuri quando non abbaglia e non consente la visione di ciò che sta oltre, ornando il silenzio, che pare essere la sola colonna sonora possibile di queste visioni. Luce e silenzio sono protagonisti assoluti di queste tele. Daniele Angelini è artista che si trova a proprio agio nella raffigurazione di paesaggi, ma anche e soprattutto di interni dal sapore prevalentemente mediterraneo, nei quali le sue doti artistiche emergono. La totale assenza di figure umane a volte rende queste raffigurazioni quasi irreali, come se il mondo che l’artista ci tiene a rappresentare fosse stato rinvenuto a seguito di una misteriosa catastrofe che ha lasciato intatte le strutture, ma che ha invece eliminato ogni forma vivente umana e animale. Angelini ci fa diventare un po’ archeologi, che, con occhi pieni di curiosa meraviglia, riscoprono una antica civiltà abbandonata. Ci fa vagare alla ricerca di indizi che possano fare chiarezza nei misteri celati dietro le ombre e la luce, oltre le inferiate delle finestre o le porte arabescate. E il buio che di solito è sinonimo di mistero, cede il passo alla luce solare che si insinua ovunque e che, sovvertendo le regole da sempre assunte, diviene misteriosa e inquietante, risvegliando nell’osservatore memorie di ataviche credenze legate alla divinità.

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E proprio nei luoghi così vicini a quelli che furono da cornice alla nascita e alla crescita della nostra civiltà e da dove si mossero i passi espansionistici delle tre grandi religioni monoteiste, Angelini sembra ricercare un personale contatto con il noumeno. La Luce nei suoi quadri prende il posto di quello che rappresentava l’oro e la doratura in genere nella simbologia della pittura sacra medioevale: il tocco del divino. Un divino che non si può vedere né rappresentare sotto forma tangibile ma che aleggia su ogni cosa e, sfiorandola, la contagia della sua sacrale spiritualità. L’uomo è insignificante al suo cospetto. E’ così pavido e timoroso che si nasconde, limitandosi a mostrare la sottile fragilità di ciò che ha costruito. Questo mondo vagamente neoclassico, dagli sfumati richiami arcadici, pervaso com’è dal senso del divino, diviene rifugio dell’artista,. Contrariamente a quanto accada oggi nel mondo reale, in cui la caduta dei valori e il culto materialista totalitarista hanno sfrattato ogni possibile richiamo alla spiritualità. Le nove opere esposte sono tutte oli su tela, tutte di dimensioni medio piccole, tutte minuziosamente curate nei particolari. Marco Viroli febbraio 2005

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Claudio Fabbri Ferrini

Nasce a Forlì il 7 dicembre 1974, si avvicina alla pittura per caso, verso i dodici anni, trovando in cantina una tela iniziata, ma incompiuta dalla madre Milena Ferrini, a sua volta pittrice predappiese di discreta fama. Di impulso si reca ad acquistare pennelli e colori per completare quella sua opera prima, già allora “condivisa”. Gli esordi sono figurativi, ma ben presto abbandona la mera riproduzione della realtà per dedicarsi unicamente alla rappresentazione delle proprie emozioni. Non più ciò che i sensi percepiscono dal contatto contaminante con la realtà, ma solo ciò che l’uomo prova navigando nel mare magnum del proprio inconscio. Claudio Fabbri è uno di quei fortunati che sono riusciti a fare della propria passione anche il proprio lavoro. Claudio si occupa infatti con successo di grafica e serigrafia. Nella sua crescita artistica i soggetti restano di carattere naturale, generalmente uguali e ripetuti all’infinito per creare un insieme omogeneo ma discreto. Le differenze tra i singoli individui sono solo aspetti di un’unica folla, dove le eccezioni confermano la regola. Questa pittura iterativa diviene una sorta di viaggio nell’inconscio, una trasposizione del modo in cui l’artista vede il mondo e a esso si raffronta. Questo vale in particolare per due delle quattro opere esposte al CG82, di medio grandi dimensioni (2x1m): “Campi” e “Campi (girasoli)”. Mentre in “Riunione condominiale” la logica viene sovvertita, le diversità convivono tutte sullo stesso piano, ma con gli attriti e le discrepanze che creano equilibri precari e danno un senso al titolo dell’opera. La quarta tela (“Carezza”) si stacca dalle altre sia per le dimensioni più ridotte, che per il soggetto non più ripetuto ma unico. Si tratta infatti del grembo di luce nel quale, immaginiamo l’artista vede cullata, in un certo senso accarezzata, la nuova vita che sta per nascere. Marco Viroli gennaio 2005

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Roberto Celli

Nasce a Forlì l’ 8 luglio 1976, personaggio eclettico e dai mille interessi artistici, approda alla pittura dopo un percorso personale che lo ha portato a viaggiare tra musica e arti creative in genere. L’amore per le arti figurative si manifesta in tempi recenti. Roberto inizia dapprima a fissare la materia sulle tele disordinatamente con le spatole, partendo da soggetti astratti si avvicina man mano a una rappresentazione figurativa più sfumata e imprecisa, per poi giungere a quello che è lo stile attuale, definitissimo, quasi cartoonistico. Il rapporto di Roberto con la pittura è intimo, ogni quadro è originato da un sogno, ogni idea rappresentata è mossa da una visione onirica antecedente. Celli poi, similmente ai grandi artisti, ama raffigurarsi ed essere presente nelle sue opere. Protagonista e attore dei sogni a occhi aperti, che si materializzano grazie alla magia di pennelli, spatole e colori acrilici.

Altro tema ricorrente nell’arte di Celli è senz’altro la musica rappresentata da strumenti (chitarre, violini, trombe…) o dalle posizioni stesse assunte dalle figure rappresentate che evocano il ballo o le danze etniche. “La signora delle bambole”, “Jean e Modì”, “Metamorfosi con tromba”, “Yo y Pilar”, “Tuffo nella luna con Charlie e la gallina”: questi gli evocativi titoli delle opere del nuovo corso esposte. “Corteggiamento”, “L’incontro”, “Nudo”, “Autoritratto”, “Barbaduva col fiasco e la luna”: queste invece le opere esposte del primo periodo. Attualmente Roberto fa convivere la passione per la pittura con il suo lavoro, peraltro anch’esso affascinante di vitivinicoltore. Marco Viroli gennaio 2005

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Marco Giunchi: retrospettiva

Senza titolo anno 1999 (70x100)

Si tratta di un lavoro realizzato in occasione della tesi accademica, colori a olio sul retro di un manifesto. La pennellata, fluida e molto rapida accompagna un’opera astratta, gestuale, decisa e violenta nel suo svolgimento.

Mit liebe 4 anno 2000 (70x100)

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E’ il ritratto di una compagna di accademia, lavoro selezionato per un catalogo italo-giapponese, la tecnica non è cambiata, i materiali, il supporto e gli strumenti di lavoro sono gli stessi, ampie, rapide e decise pennellate, il volto appare quasi scarnificato, il colore a olio una volta rappresosi viene quasi completamente estromesso dal quadro, così da lasciare solamente il ricordo di sé e del gesto che lo ha accompagnato.

Mit liebe 8 anno 2001 (70x100) Mit liebe 9 anno 2001 (70x100) Si tratta di due ritratti di Joseph Beujs artista tedesco, personale riferimento di Giunchi negli anni accademici, non a caso la sua tesi è stata fatta proprio su un lavoro (Olivestone) esposto per anni al castello di Rivoli vicino a Torino. La tecnica di realizzazione è la stessa di Mit liebe 4.

. Senza titolo anno 1999 (23x125) L’opera è stata realizzata in occasione della tesi di mosaico, il lavoro non avrebbe alcun senso se non venissero considerate anche le opere pittoriche dell’epoche, rappresenta infatti una loro diretta conseguenza, lo sviluppo è chiaramente astratto, la ricerca è unicamente formale. I materiali utilizzati sono, legno per il supporto, tessere in smalto, colori a olio, foglia d’oro e bitume.

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Senza titolo anno 2002 (25x100) Opera astratta con riferimenti all’incisione; ricerca essenzialmente formale. I materiali utilizzati sono, legno per il supporto, cemento autolivellante, colori a olio, foglia d’oro e bitume.

Senza titolo anno 2002 (25x83) Senza titolo anno 2002 (24x88) Si tratta di due opere realizzate in occasione del concorso nazionale di scultura e pittura “Artisti in piazza” di Pennabilli, ideato e diretto dal poeta Tonino Guerra. La coppia di opere ha vinto il primo premio nel 2002. Si tratta di opere con chiari riferimenti alla tecnica del mosaico, la ricerca è essenzialmente formale. I materiali usati sono, legno per il supporto, tessere marmoree, colori a olio, bitume e foglia d’oro.

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Cristo in acido anno 2004 (70x100) Aldilà dell’irriverente titolo si tratta di un’opera realizzata con acidi su lastra di ferro; è il primo tentativo di Giunchi di una nuova forma di espressione pittorica, molto legata alla ricerca materica. Il lavoro parte da una copia di un particolare di un’opera di Ugolino DiNerio, pittore senese del trecento e dalla necessità dell’artista di Predappio di confrontarsi con temi sacri, necessità presente anche nelle ultime opere del 2005. Il titolo racchiude in sé un evidente gioco di parole.

Re confesso anno 2004 (80x85) Si tratta di una moderna rappresentazione in chiave ironica delle pale dell’altare. Il riferimento è abbastanza evidente ed esplicito, lo svolgimento dell’opera è di facile interpretazione, una madonna dall’alto della sua conoscenza e superiorità guarda con compassione e stupore un politico italiano capace unicamente di glorificare la propria persona. I materiali utilizzati sono legno per il supporto, cemento

autolivellante, colori a olio e foglia d’oro

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Un artista arriva a un punto della carriera e decide di tirare le somme. Di solito quel momento corrisponde a una svolta nella tendenza artistica. In base al risultato di ciò che è stato fatto fino a quel giorno, da tutto ciò che si è appreso e messo in pratica, ci si sente ispirati a imboccare una strada piuttosto che un’altra. Ricordiamo nella storia dell’arte moderna artisti come Picasso che hanno svoltato, passando da un periodo a un altro (cubismo, periodo blu,…), senza mai rinnegare ciò che la propria arte aveva prodotto fino a quel momento. Nel caso del giovane artista predappiese Marco Giunchi, nato a Forlì il 21 gennaio 1974, la mostra al CorsoGaribaldi82 rappresenta un momento di riflessione per guardarsi indietro e ripartire verso nuove direzioni. Un percorso quello di Giunchi che, nonostante la giovane età, si è già snodato dall’astrattismo fino alle attuali moderne rappresentazioni della Madonna e del 300 senese, passando attraverso a un periodo di ricerca sostanzialmente formale. Molto interessante il periodo iniziale astratto, di adesione all’A c t i o n P a i n t i n g , caratterizzato dall’importanza del gesto fisico pittorico in sé, che consiste in grandi segni scuri su fondi chiari, al quale viene attribuito particolare significato semantico ed emotivo. Di questo periodo non vi è traccia nella mostra al CG82, se non marginalmente nel primo dipinto della mostra, anche se qui il soggetto è già in parte delineato e anche nella sequenza dei “ritratti” di cui qui esponiamo tre esemplari notevoli, ma solo per quanto concerne la tecnica adottata La ricerca formale e lo studio dei procedimenti hanno assorbito l’attenzione di Giunchi nella fase centrale della sua vita artistica, lasciando poco spazio alla metafisica e alla comunicazione. Nel caso di alcune delle opere esposte, che appartengono a questo secondo periodo, più che quadri si può parlare di vere e proprie sculture appese. Nella terza fase artistica, quella attuale, lo studio formale si sposa con la necessità di esprimere un concetto e di comunicare un messaggio, sia esso religioso che politico, come possiamo intendere dalle opere più recenti esposte al CG82: “Cristo in acido” e “Re confesso”. Molto suggestiva la prima di queste due, ricavata dalla corrosione dell’acido sulla lastra metallica, quasi che la sofferenza del Cristo in croce fosse l’acido che disgrega la storia per lasciare un segno indelebile. L’ispirazione viene dal connubio tra l’arte religiosa e in particolare quella del 300 senese, come lui stesso dichiara, e le tecniche miste e materiche di cui è diventato esperto. Il cammino artistico del giovane Giunchi risulta quindi lineare e omogeneo nel suo divenire. Ma le direzioni verso cui il destino ci sospinge sono misteriose e a nessuno è dato di conoscerle in anticipo, specie agli artisti. E Marco Giunchi, in quanto essere umano e artista, non sfugge a questo regola. La curiosità di chi scrive, ammirato osservatore degli artisti che ospita nelle mostre al CG82, sta anche in questo. Prendere atto dei loro cambi di rotta e cercare di interpretarne l’evoluzione. E questa curiosità bambina nel caso di Marco Giunchi è più forte che mai. Marco Viroli novembre 2005

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Ugo Paganini: le forme e i colori della leggerezza

Che lo si voglia o no si arriva sempre nella vita a un punto in cui, in maniera più o meno spontanea, ci si trova di fronte a un grande punto interrogativo. Un enorme quesito, somma di tutti gli altri che si sono accumulati nel corso degli anni, mai affrontati oppure irrisolti. Confesso, rimasi un po’ sorpreso quando, qualche anno fa, incontrando Ugo Paganini, dopo un po’ di tempo che non ci si vedeva, lui stesso mi invitò a visitare una delle sue prime mostre di quadri. Senza togliere niente alla persona, laureato in Scienze Agrarie, ricercatore e sperimentatore per conto di una celebre multinazionale del settore, con sede a Ravenna, fino a quel momento avevo visto, a torto, Ugo come una delle persone più distanti dalla pittura che potessi conoscere. Non si finisce mai di conoscere le persone e come si può averne la presunzione, se tante volte poi non si conosce neanche se stessi. La medesima cosa successa a Ugo, chiamiamola “illuminazione artistica”, sarebbe accaduta a me, qualche anno più tardi, non con la pittura, bensì con la poesia. Ogni uomo ha i suoi tempi, ogni crescita ha il suo percorso, ogni forma espressiva ha i suoi mezzi, ma soprattutto ognuno ha emozioni differenti da raccontare, risposte o tentativi di spiegazione diversi al grande punto interrogativo che riguarda la nostra esistenza. Per affinità di percorso e per amicizia ho voluto quindi che Ugo Paganini fosse tra coloro i cui quadri sarebbero stati ospitati nelle sale del CorsoGaribaldi82, in questa prima stagione di esposizioni (es)temporanee di pittori romagnoli. La pittura di Paganini è una sorta di equilibrata poesia di forme e colori in divenire, di materia e inserti di varia natura, di fili metallici ondulati che sostengono l’armonia delle proporzioni; una accurata ricerca nell’accostamento delle masse e dei pigmenti, volto a produrre quell’ equilibrio intrinseco alle opere che colpisce chi si pone dinnanzi all’immagine, accondiscendendone la percezione estetica.

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Nulla è casuale nella pittura di Paganini, come qualche distratto osservatore potrebbe credere. Ogni intervento è frutto di ragionamento e sperimentazione continua, tanto che a volte si potrebbe erroneamente avvertire una indicazione dell’artista nel voler sopprimere le regole non scritte dell’arte, per soggiacere alle formule schematiche più rigide di un mero calcolo geo-matematico. Le opere di Paganini sono generalmente di piccole dimensioni, delicate e piene di grazia; icone colorate di un modo personale di fare poesia senza usare parole o immagini. Sono varie pur restando omogenee, ricche di citazioni che non si celano dietro falsi pudori, come istruiscono gli stilemi di una certa Transavanguardia a cui l’artista idealmente fa riferimento. Lo studio della tavolozza a volte richiama Bonnard; le geometrie, la minuziosa cura del particolare, le ridotte dimensioni delle opere ricordano Paul Klee, Rothko e un qualche tipo di astrattismo. Poi via via le altre citazioni di artisti meno conosciuti dai più, anche perché essendo vicini a noi temporalmente non sono ancora assurti alla storia dell’arte più declamata. Alcuni nomi suggeriti dallo stesso Paganini come fonti di ispirazione e riferimento possono essere: De Stael, Afro, Chia, Paladino e soprattutto De Maria. Anche questo ci aiuta a capire come l’artista Paganini, pur essendo un autodidatta, non abbia lasciato al caso nemmeno la sua formazione, creata documentandosi e ricercando con dedizione, quasi come se la deformazione professionale fosse andata contagiando le sue passioni più intime. La tecnica utilizzata è mista, in quanto l’artista utilizza contemporaneamente acrilici, smalti, pastelli, matite e acquerelli. Le opere di dimensioni più estese sono eseguite su tela, mentre la maggior parte delle altre, di formato più ridotto, sono fissate su cartoncino. In genere i lavori di Paganini sono coperti da vetro, che, più che a scopo protettivo, risulta utile, ai fini dell’economia dell’opera, per accrescerne la lucentezza dei colori, creando una sorta di effetto finestra voluto, che rende in tali casi il vetro non accessorio, bensì parte integrante dell’opera.

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L’ idea ultima che ne deriva perciò è quella di un uomo sereno, che con l' approssimarsi di una soglia importante, che per età che dovrebbe essere sinonimo di maturità, denota un’ inaspettato spirito giocoso e solare di bimbo, che ignora la sofferenza preferendo ricoprirla col colore e con la leggerezza delle forme. A noi in fondo sta bene così… anche questa è una visione del mistero più che accettabile e, per una volta almeno, non riteniamo necessario andare a grattare sotto per scoprire se qualcosa ci venga di proposito tenuto nascosto. Accettiamo allora armonia e leggerezza come risposte al grande punto interrogativo che è stato motivo iniziale di questa dissertazione sull’arte e sulla poetica di Ugo Paganini.

Marco Viroli marzo 2005

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Federica Lasagna: Il mondo di Vera

Per il periodo natalizio e di fine anno, la Sala Est-Ovest del CorsoGaribaldi82 ospita la mostra delle opere di Federica Lasagna. E’ stata questa una scelta voluta nell’ottica di rendere più leggera e allegra l’atmosfera del locale in questo periodo festivo, con un insieme di ritratti e “istantanee” del mondo immaginario di Vera, il simpatico personaggio creato dagli acquerelli e dalla mano felice di Federica Lasagna. Vera è un personaggio assolutamente naif, di quella ingenuità contagiosa e trascinante, di cui tanto avvertiamo il bisogno in questi tempi grigi di inizio millennio. Vera è anche una sorta di a l t e r e g o per l’artista forlivese, che di professione fa la grafica pubblicitaria, mestiere che si riflette nel suo modo di fare arte pop, semplice, diretta, essenziale, colorata, accattivante, empatica. Le immagini dal mondo di Vera sono positive ed è anche per questo che il personaggio conquista immediatamente le nostre simpatie. Non troviamo mai accenni ai problemi e alla volgarità nelle quali questo mondo indeciso e confuso si sta lasciando scivolare. Il mondo di Vera sembra fuori dal tempo, ma se proprio volessimo conferirgli una connotazione temporale allora lo andremmo a collocare in un’epoca intorno alla parte centrale degli anni 60, in cui si viveva e si respirava ottimismo e fiducia nell’uomo, nei suoi mezzi e nel futuro. Se dovessi immaginare Vera su un motorino la vedrei bene su una vespa, la sua vettura potrebbe essere una 500, fan di Gianni Moranti e dei Beatles, alle prese con i primi giganteschi elettrodomestici, gli enormi televisori valvolari in bianco e nero, volteggiare spensierata nel suo hula hoop vestendosi della mini-rivoluzione di Mary Quant…

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Ma questa è solo l’idea personale, di chi gli anni 60 li vissuti come spettatore, osservandoli con occhi di bimbo e che, forse proprio per questo, li ha idealizzati come era dorata dell’ottimismo. Allora auspico un ritorno a quei giorni felici, che grazie a Vera, non appaiono più così lontani e irraggiungibili. Per una volta facciamo parlare soprattutto le immagini, sospendendo il fluire delle parole, lasciando spazio ai sorrisi e ai colori del mondo di Vera.

Biografia essenziale Federica Lasagna - diplomata all’Istituto d’Arte G. Ballardini di Faenza, ha svolto attività di ricerca sui rivestimenti ceramici. Dal 1991 si dedica all’applicazione del disegno alla moda, specializzandosi nella serigrafia. Successivamente si avvicina all’illustrazione, sperimentando varie tecniche, con particolare interesse nell’applicare il sistema digitale ad opere create con modalità classica. Attualmente svolge la professione di grafica pubblicitaria. Al CorsoGaribaldi82 espone una serie di quadri del personaggio “Vera” creati ad acquarello e riprodotti con tecnica digitale su tela.

Marco Viroli dicembre 2005

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Fabrizio Pavolucci: sotto le stella del jazz

… E’ innegabile come siano le opere del miramarese Pavolucci a imporsi,…, con l’incisività del tratto e l’intensità e l’eloquenza espressionistica dell’inquadratura ravvicinata a mezzo busto: volti, gesti, strumenti tratti dall’universo jazz. Trombe e sassofoni, artisti di colore e maschere caratteristiche di jazzisti per raccontare un mondo di suoni e di ritmiche vibrazioni tradotte in emozioni cromatiche: i volti tratteggiati con una pennellata compendiaria e pastosa che sintetizza immagini e note, in un’amalgama di colori caldissimi e stridenti e di materia pittorica. (Isabella Pascucci)

j a z z[pr. ğäş] s. ingl. (in it. s. m. invar.). Genere di musica negro-americana, sorto nel 1914 negli Stati Uniti

d’America, eseguito originariamente solo con strumenti a fiato e batteria. Può considerarsi una trasformazione dell’arte <bianca> secondo i metodi stilistici propri della musicalità negra, spec. con la valorizzazione del sincopato, il frazionamento dell’intervallo, e il virtuosismo strumentale. (Devoto-Oli: Vocabolario della lingua italiana 1979) j a z z

[pr. ğäş] s. ingl. (in it. s. m. invar.). Musica elaborata dai neri d’America verso la fine del sec. XIX; è caratterizzata dalla sincopazione del fraseggio melodico, dalla poliritmia degli strumenti, dall’improvvisazione solistica o polifonica sul tema di base e dalla costante pulsazione ritmica. (Garzanti: I grandi dizionari 2005) In realtà risulta alquanto difficoltoso fornire a parole una definizione esatta di ciò che vada considerato in musica col termine j a z z . Nel j a z z un musicista può prendere una melodia semplice, familiare, persino convenzionale, e con poche variazioni stravolgerla. L’esecutore, con poche note appena, controlla l’estensione dell’astrazione dal motivo originale.

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La rappresentazione maniacale in ogni sua sfumatura, la ripresa dei temi con variazioni nel contrappunto dei colori, fa incontrare musica e pittura nelle opere di Pavolucci. Appare evidente da questi lavori la passione dell’artista per quella che in Italia è relegata a essere musica per pochi, amata da una elite, pressoché ignorata dalla massa. I musicisti ritratti nelle opere del pittore miramarese, appaiono sfumati, ma non per questo il loro approccio con lo strumento risulta meno efficace. Diventa palpabile quella spessa coltre di fumo che, fino a prima dell’avvento della legge Sirchia, colmava i locali dove questa musica viene suonata. Locali segreti, nascosti, poco conosciuti, frequentati dagli appassionati del genere, paragonabili ad adepti di una setta, cultori di una religione fatta di musica, di astrazione, di improvvisazione. Avvicinandosi ai quadri di Pavolucci giunge come un lontano brusio di voci, di bicchieri caduti, si può sentire il sottofondo degli strumenti suonati, delle mani che battono il tempo, e intorno le luci basse, che vanno ad aumentare l’atmosfera e l’emozione delle note che si diffondono inattese nell’aria. La tecnica utilizzata dal pittore è quella del carbone e del pastello, ma non è raro trovare Pavolucci alle prese con olio e acrilico.

Anche un grande maestro della pittura del secolo scorso si trovò a fare i conti con la parola J a z z ; si tratta di Henri Matisse.

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Matisse cercò di dare una sua definizione di j a z z applicato alla pittura, giungendo a formulare le sue tesi in un album collezione di collage a tiratura limitata, di cui resta oggi nell’immaginario comune l’indimenticabile rappresentazione di I c a r u s .“La pittura come la musica, ha i suoi ritmi. Nell’album J a z z Matisse esegue i suoi motivi pittorici, aldilà delle categorie dell’astratto e del figurativo. Il circo, il viaggio, il folklore, si traducono in inauditi ritornelli di carta colorata, le cui forme e colori, come le note e gli accordi, nascono dalla composizione e sgorgano dall’improvvisazione.” (da F M R

) J a z z per Matisse, che applica la sua definizione alla pittura, sta tutto racchiuso all’interno di una improvvisazione cromatica e ritmica. Quella di Pavolucci è un’altra storia. Qui il j a z z è protagonista e l’artista lo interpreta con merito in chiave pittorica. Marco Viroli ottobre 2005 S o t t o L e S t e l l e D e l J a z z

Certi capivano il j a z z l’argenteria spariva… ladri di stelle e di j a z z

così eravamo noi, così eravamo noi.

Pochi capivano il j a z z troppe cravatte sbagliate…

ragazzi-scimmia del j a z z così eravamo noi, così eravamo noi.

Sotto le stelle del j a z z ,

ma quanta notte è passata… Marisa, svegliami, abbracciami è stato un sogno fortissimo…

Le donne odiavano il j a z z : “ N o n s i c a p i s c e i l m o t i v o ”

du-dad-du-dad

Sotto le stelle del j a z z un uomo-scimmia cammina,

o forse balla, chissà du-dad-du-dad

Duemila enigmi nel j a z z

ah, non si capisce il motivo… nel tempo fatto di attimi

e settimane enigmistiche…

Sotto la luna del j a z z …

(Paolo Conte 1989)

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Serge Gualini: le altre facce della realtà

Quando ci troviamo di fronte ai quadri di Serge Gualini restiamo annichiliti prima di tutto dalla sua maestria. Una pittura decisa, sicura, che denota assoluta padronanza dei mezzi pittorici ed espressivi. Una volta superata la sorpresa iniziale e dopo aver dichiarato ammirazione incondizionata per le capacità del pittore come rappresentatore della realtà, arriva il momento di fare i conti con le sensazioni che, a una nostra attenta e prolungata osservazione, da intrinseche ai quadri si fanno tangibili. Quando Gualini raffigura la realtà la presenta così com’è, senza aggiunta di particolari soggettivi e senza l’ausilio di particolari simbologie dal sapore metafisico o surreale. Sono assenti le facili suggestioni della iperrealtà, che dalla concretezza quotidiana aprono impensabili varchi di accesso all’onirico. Eppure l’arte di Gualini ipnotizza l’occhio e la mente di chi si trova di fronte all’immagine e l’osservatore giunge fino al dolore fisico nel momento in cui è costretto a distogliere lo sguardo da queste per separarsene. Affiora una vera e propria sensazione di deja vu per una realtà che è a portata di mano, è già stata veduta ma mai posseduta. Quando invece Gualini ammicca a una simbologia personale si diverte allora a giocare con una figura di cervo in primo piano, dove le ombre retrostanti vengono a trasformarsi di volta in volta in ripetizioni di graffiti preistorici e costellano la tela, passando dallo sfondo a fondersi con la figura marchiandola di simboli di una nota casa di moda francese (LV) o abbellendo la parte alta della tela con preziosi ghirigori monocromatici.

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Antico e moderno, occidente e oriente si mischiano al ritratto bucolico, con equilibrio e sapienza. In tale dosata armonia non desterà stupore incontrare la raffigurazione di un pesce che galleggia in aria, la figura di una geisha giapponese in kimono librarsi sospesa su una nuvola che aleggia in mezzo a un bosco, o il samurai monocromo dipinto in trasparenza su di un cielo ventoso con nuvole in movimento.

Un altro filone della pittura di Gualini è quello meramente ornamentale espresso dalla raffigurazione di grandi fiori colorati che occupano quasi tutta la superficie della tela, circondati dallo sfondo di altri fiori dal colore uniforme, improbabile ma dal gradevole risultato complessivo. Gualini scandisce lo spazio giocando sui contrasti tra i colori e illumina la scena con una intensità quasi abbagliante. La luce è una delle chiavi di lettura delle sue opere, perché infonde un’atmosfera particolarmente suggestiva. Le nuvole di Gualini poi, sembrano sospese a metà strada tra i cieli di Magritte e gli sfondi di Windows, al di sopra del familiare orizzonte di una ben nota campagna romagnola: in questo caso ciò che è reale e consueto può diventare il tramite tra sogno e realtà. Gualini ci mostra una nuova via per contemplare le cose e, da una diversa angolazione, ammirare l’altra faccia della realtà, cogliendo particolari inattesi e restituendoci la vista di cui eravamo stati privati dall’abitudine e dalla quotidianità. E di questo lo ringraziamo. Marco Viroli novembre 2005

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Paola Zinzani: elogio della lentezza

Paola Zinzani è la prima artista donna che espone nella Sala Verde del CorsoGaribaldi82. Ricordiamo che a oggi il nostro locale ha ospitato dall’inizio della stagione i lavori di: Grota, Civinelli, Ravaioli, Baldini, Sabiu, Celli e Fabbri Ferrini, Angelini. Questa mostra Paola l’ha voluta fortemente, proponendoci in più occasioni le sue opere, in cui dimostra di credere fortemente. Inoltre, per la prima volta da quando sono iniziate le esposizioni al CG82, con Paola Zinzani ci siamo trovati a ospitare un’artista che non proveniva dalla provincia di Forlì. Paola è infatti faentina, la città a 15 km da Forlì, in provincia di Ravenna che tanto ha sempre dato alle arti e alla cultura in genere. C’è qualcosa che cattura e affascina sin dal primo impatto con le opere di Paola Zinzani. Si tratta di qualcosa di ineffabile, di magico, difficilmente esplicabile. Ma qual è la chiave d’accesso per entrare nella poetica di Paola ? Nella sua ultima produzione l’artista raffigura, attraverso forme che divengono raffigurazioni di stati d’animo, il concetto della lentezza estrema e della staticità.

L’artista pare mossa da una sorta di impeto iconoclasta che la spinge a raffigurare una civiltà che vive nell’immaginario, nel subconscio, e che dall’oblio chiede a gran voce di venir fuori per essere rappresentata. Gli archetipi di questa civiltà si avvicinano alle forme ideali di una cultura afro-asiatica o comunque di paesi dai caratteri fortemente tribali, che l’artista giura tuttavia di non aver mai visitato. Quello che ne emerge allora è il ritratto di una cultura dimenticata, estinta, dispersa nei meandri della storia, di cui queste opere non sono altro che un’ultima testimonianza. Nel caso delle due opere “Urlo”, Paola si cimenta con una pittura più materica dalla grande resa finale, dove vengono ripresi, in una sorta di pesante filigrana, i ghirigori ornamentali già rappresentati in un altro dittico e ricorrenti come forma decorativa nella pittura dell’artista faentina.

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Pare quasi che Paola più che autrice non voglia essere altro che tramite, il ricercatore che rinviene reperti e che tenta di fare ordine tra essi, per comprendere e chiarire il mistero che sta dietro questi volti dagli sguardi persi nel nulla. Occhi spersi nel mistero dell’origine e della fine di un stirpe che forse non ha mai calpestato questa terra, ma che popola un Universo parallelo. Non per questo però troppo distante dal nostro, e che del nostro modo di essere mantiene gli stati d’animo, anzi li esalta subliminandoli, li astrae dai concetti generici e, isolandoli, ne distilla l’essenza. Accade allora che un urlo venga immortalato nell’istante esatto che precede l’emissione del suono e che, per assurdo, venga reso muto e pure esso immobile. Ciò che affiora e che si afferma è la staticità, o quantomeno la lentezza esasperata, che nobilita l’istante, conferendo alle figure una regalità che finisce con l’alimentarne il mistero. E’ la lentezza del fluire delle emozioni di un tempo interiore che non si consuma mai con lo scorrere fisico delle lancette, ma che tiene un ritmo suo, dilatando a dismisura le attese per poi fagocitare in un istante brevissimo i momenti della gioia e della pace. La lentezza allora diviene la risposta possibile per quanti desiderino assaporare ogni aspetto della vita. Ma si sa che oggi la lentezza non è di moda e chi vuole farla rivivere non può fare altro che trasferirsi su un mondo fantastico dove la lentezza sia ancora di casa.

Marco Viroli marzo 2005

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Matteo Quadalti: splendori e ombre dell’immagine

L’uomo si serve dell’immagine sin dalla preistoria per abbellire e rendere più confortevoli i luoghi deputati a propria abitazione, o al lavoro, o alla ricreazione. Dai graffiti ai geroglifici, dalle scene di vita quotidiana delle ville pompeiane, attraverso la rappresentazione pittorica monopolizzata dal culto e dalla Chiesa nel Medioevo, passando dalla svolta Rinascimentale, per giungere infine all’orgia iconoclasta dei giorni nostri. L’immagine da sempre è stata al servizio della religione, dell’ autocelebrazione del potere, ma al tempo stesso anche di quanti si opponevano all’ordine costituito di qualsiasi estrazione ideologica esso fosse. E’ stata prima e principale forma di comunicazione, che viene oggi fatta oggetto di innumerevoli studi, fino a essere stigmatizzata dai signori della pubblicità e del marketing. Soprattutto nel secolo scorso si è visto e detto tutto e il contrario di tutto in ogni campo e l’immagine è sempre stata il primo strumento a sostenere questa o quella teoria, questo o quel movimento culturale. Proprio nei primi anni del secolo scorso prendeva piede la corrente dell’Art Decò che, con tutte le sue derivazioni, dettava canoni estetici antiaccademici che avrebbero influenzato una parte dell’arte che desiderava sperimentare una poetica che facesse coesistere progresso e valore estetico. Quando si viene a contatto la prima volta con l’arte del modiglianese Matteo Quadalti non ci si può esimere dal fare riferimento in particolare a quel tipo di senso estetico, che attraverso il lavoro di vari artisti, e di Tamara de Lempicka in primis, polacca di nascita ma cittadina del mondo per scelta, avrebbe imperato a lungo nel corso del ‘900. L’arte iconografica al servizio dell’uomo e del suo tempo. Le immagini, prevalentemente femminili, che Quadalti immortala in quell’istante che ha dell’irreale, sono figlie di un tempo senza tempo, e appaiono estrapolate da qualsiasi tipo di contesto. Gli sfondi monocromatici non danno alcun indizio, unici riferimenti possono essere gli abiti indossati dalle figure rappresentate, oppure un qualche oggetto che casualmente si trova tra le mani dell’icona, nonché le decorazioni che a volte assumono un’importanza ancora maggiore del personaggio raffigurato stesso. Ed è qui che ci appare evidente l'altra citazione di Quadalti a un artista che visse e dominò il gusto europeo a cavallo tra l’800 e il ‘900 : il viennese Gustav Klimt. L’amore di Quadalti per il genio austriaco è una confessione esplicita, che non lascia adito a dubbi. La caratteristica che avvicina i due è quella, per studi e esigenze di lavoro, di aver avuto entrambi inizi da decoratori più che da pittori.

L’arcano incantatore (2004)

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E’ alla fase floreale di Klimt (e non a quella aurea) che Matteo fa accenno nelle sue decorazioni. Altro amore dichiarato del giovane pittore di Modigliana e quello per una star della musica che da più di vent’anni detta indirizzi e mode nel pop e nella moda mondiale. E’ evidente a tutti che le otto opere esposte al CorsoGaribaldi82 abbiano come soggetto unico e reiterato la cantante Madonna. Comunque anche nelle opere non esposte i lineamenti appaiono familiari, rubati da rotocalchi, da riviste glamour, di gossip, da cui le nostre edicole sono settimanalmente invase.

La Fortezza e la melagrana (2004)

Grande è la dedizione di Quadalti per gli strumenti che ha a disposizione per dipingere; grande è il rispetto per la tela e per la rappresentazione, tanta è la cura certosina che egli ripone nell’esecuzione. Ore e ore di lavoro accurato, per giungere al risultato finale che deve soddisfare prima di tutti l’artista, per poi andare a incontrare l’apprezzamento e a colpire i sensi di chi si ritroverà di fronte all’immagine. E se ogni artista è implicitamente portato a rappresentare l’universo che gli sta attorno, potremo affermare non a torto che l’universo di Quadalti è un universo pieno di donne: donne dallo sguardo fisso e melanconico, rese immortali in un momento assoluto e metafisico, in uno spazio-tempo iper reale, che ci procura la sensazione di una sorta di presenza-assenza dei soggetti raffigurati. Fisicamente essi sono in quel certo luogo, irriconoscibile per mancanza di riferimenti, ma la loro mente non è presente, persa com’è chissà dove: nel passato o nel futuro poco importa, certamente non nel presente, perché il presente non esiste. Una volta fissato dall’immagine, non importa che essa sia pittorica e/o fotografica, il presente è già divenuto passato; nel momento stesso in cui ne conseguiamo consapevolezza, esso è già irrimediabilmente alle nostre spalle. Il tentativo di congelarlo da parte dell’artista diviene un vano e commovente sforzo di ricerca di fermare il tempo, fissare l’istante che impietoso passa senza lasciare possibilità di scelta. Marco Viroli aprile 2005

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Hristina Atanasova : il segno come evento

“Un quadro vive attraverso la compagnia altrui, espandendosi e prendendo vita negli occhi dell’osservatore sensibile” (Mark Rothko) In primo piano nei quadri di Hristina troviamo il gesto pittorico; le ampie pennellate compongono un alfabeto personale, capace di comunicare emozioni e concetti. Le linee irregolari lacerano lo spazio pittorico, creando nuovi equilibri noti solo all’autore. Inutile cercare riferimenti con la realtà, nella quasi totalità dei casi sono i materiali il fine ultimo della pittura, con le loro masse, linee e colori. Non per questo meno forte risulta l’impatto emotivo delle sue composizioni. I bianchi e neri dominanti sono arricchiti da sfumature e chiaroscuri che ne modificano e complicano i rapporti. La Atanasova non vuole raccontare dei fatti (e neppure rappresentare oggetti o azioni) ma esprimere dei sentimenti, delle emozioni, attraverso un gesto pittorico energico e deciso. Per il pittore un quadro rappresenta un mezzo di incredibile potenza, perché gli conferisce il potere di commuovere altre persone pur non conoscendole, di entrare in empatia con la loro immaginazione e, in un certo qual modo, di invadere per un istante le loro proprie esistenze. L’arte di Hristina che si snoda tra pittura, incisione e scultura, è a cavallo tra astratto, informale ed espressionismo, e di tutte queste correnti contiene qualcosa. La sua attenzione è rivolta alle molteplici possibilità espressive della materia, per questo l’artista dispone sulle tele materiali eterogenei unitamente ai colori a olio e alle resine. Gli interventi sulla superficie pittorica spesso sembrano istintivi e casuali, in accordo le teorie surrealiste della produzione automatica, che nasce dall’inconscio e sfugge al controllo della razionalità. Qua e la Hristina inserisce nelle composizioni alcuni elementi figurativi (come accade nella serie chiamata “Segni” ma in particolare in quella dei “Gatti”) che in genere sono unicamente utilizzati come ulteriore sollecitazione allo spirito d’osservazione dello spettatore, indotto inutilmente a ricercare relazioni tra realtà e segni astratti.

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Nel caso della Atanasova possiamo infine parlare di un astrattismo informale, nel quale la forza e l’energia dell’atto pittorico vengono portate in primo piano, alimentate dalla propria vitalità creatrice stessa. Questa pittura, contemporaneamente semplice ed ermetica, si basa su pochi segni elementari ma al tempo stesso dai significati volutamente oscuri e indefiniti, come si trattasse di un alfabeto misterioso ma essenziale. E il segno non racconta una storia perché il segno stesso è l’evento che si vuole raccontare.

Marco Viroli marzo 2006

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Stefano Bianchi: l’esplorazione dell’anima Tradurre in immagini l’armonia misteriosa dell’anima, questo è l’obiettivo evidente che si pone la pittura del ravennate Stefano Bianchi. E anche se la predominanza è da attribuirsi al gesto pittorico in sé, non meno determinante nel suo caso è il ruolo della luce. La luce, potente e precisa che enfatizza i contrasti tra i bianchi e i neri con poche precise sfumature, caratterizzate da una trasparente luminosità.

Su sfondo monocromo, generalmente sfumature del grigio, si muovono le linee: sono masse astratte, ideogrammi grafici, gomitoli di linee. Il loro andamento è ora lieve ora lento, ora nervoso ora scattante, animato da una energia interiore alterna, a seconda dei diversi stati d’animo che si agitano nell’artista. Le linee danzano sulla superficie pittorica formando elaborati arabeschi di forme e spessori diversi, rielaborando le intuizioni dell’inconscio, distribuendo gli spazi, le linee e le luci secondo un certo ordine logico, ma sempre senza alcun riferimento alla realtà. Non c’è disegno, né racconto, né riproduzione di oggetti o di azioni, ma solo rappresentazione di emozioni e stati d’animo.

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Le tecniche utilizzate sono miste e, non ultime, vengono sperimentate nelle opere di Bianchi le tecniche del d r i p p i n g (sgocciolare il colore o versarlo sulla tela senza toccarlo direttamente) e del p o u r i n g (mischiare al colore altre sostanze). L’incontro con la pittura di Bianchi è incontro con una pittura non “oggettiva”, nonostante si abbia la sensazione di imbattersi in una lingua già nota ma che non si riesce a comprendere fino in fondo. Come scrissero Gottlieb e Rothko nel loro famoso “manifesto” dell’Espressionismo astratto, apparso sul New York Times il 13 giugno del 1943, “l’arte è un’avventura che conduce in un mondo sconosciuto. Soltanto coloro che per libera volontà si assumono tale rischio possono scoprire questo mondo.” Stefano Bianchi è tra quelli che hanno scelto di percorrere questa esplorazione a volte ingrata, a volte pericolosa, perché in questo viaggio ci si può trovare direttamente a esplorare i meandri della nostra anima. E allora il rischio più probabile diviene quello di perdersi.

“Secondo me, l’idea che la natura sia un caos in cui l’artista mette ordine è assurda. Il massimo che possiamo fare è mettere un po’ di ordine in noi stessi.” (Willem de Kooning). Marco Viroli aprile 2006

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Samuele e Fabiana: con-dividendo A concludere la stagione 2005-2006 di “Pittori al CG82” lasciamo spazio a due artisti, che oltre a condividere la passione per le arti visive, vivono da qualche anno una alterna relazione sentimentale. Dei due è certamente Samuele il più addentro alla materia pittorica, in primo luogo per i suoi approfonditi studi artistici e in seconda battuta per la maggiore esperienza e conoscenza del mezzo.

Fabiana è autodidatta, istintiva, dipinge il suo mondo così come le sgorga dall’inconscio, servendosi di pennelli e colori in modo spontaneo, a volte come ha visto fare da Samuele. Ne nasce uno stile immediato e originale, privo di fronzoli e di orpelli, primitivo ma al tempo stesso genuino.

“ G l i a c u t i a r c h i b l u m i c o m p e n e t r a n o l ' a n i m a :t r a s c e n d e n z a v e r s o l ' a l t o , i n u n c a m m i n o d i t e n s i o n e m a d i l i b e r t à . ”

(Samuele Contarini) Samuele ha uno stile più maturo e definito. Tematico e centrato, cosciente delle proprie possibilità, padrone dei mezzi, aperto a future evoluzioni e sviluppi. Questi due ragazzi mi ricordano le più celebri coppie di pittori che, nel secolo scorso, furono protagonisti della scena dell’Espressionismo astratto, condividendo vita e arte, quali Jackson Pollock e Lee Krasner, Willem De Kooning e sua moglie Elaine. L’esposizione mira in questo senso a inscenare una sorta di confronto paritario ai due livelli, maschile e femminile. Marco Viroli aprile 2006

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Civinelli e la ricerca dell’artista

Alessandro Civinelli è un artista locale già noto al pubblico forlivese. Giovane in quanto nato a Castrocaro il 16 agosto 1971 e ha quindi da poco compiuto 33 anni che per un pittore è davvero una giovane età. Importante è il suo cammino di studi che l’hanno visto dapprima diplomarsi all’Istituto d’Arte di Forlì per poi laurearsi a Bologna presso l’Accademia delle Belle Arti. Civinelli è l’artista in continua ricerca di forme espressive. Si agita, avvertendo l’impotenza espressiva dei mezzi, degli strumenti, dei simboli, di cui si serve per fare luce prima di tutto in se stesso, nel tentativo di estrema esternazione di fare partecipi i suoi simili di quel senso di inquietudine cosmica. Così si altalena tra action painting, cubismo, astrattismo, rappresentazioni figurative con citazioni più classiche, sempre però con la maestria di chi ben conosce le tecniche ma non ha tempo ancora per fermarsi a creare un suo stile definito e definitivo, anche se comunque si possono rintracciare tracce della formazione del suo carattere in ogni singola opera. Sette sono le opere esposte al CG82. Nelle tre cosiddette “Untitled” /senza titolo, i colori spiccano da tele (sete in questo caso) nere o rosse, con tratti marcati e violenti di bianco (nero bianco e rosso sono i colori dominanti nell’Universo di Civinelli), oro e argento, che definiscono, con evidenti interventi corporei, il desiderio di distacco dallo spazio appiattito rappresentato dallo sfondo. Il corpo diviene strumento dell’anima che non ci sta a restare inghiottita dall’uniforme, dal banale, ma che si ribella e con forza cerca di uscirne fuori. “Black & White” è un quadro importante, di forte impatto visivo, di notevoli dimensioni, che rappresenta un po’ la “Guernica” di questo pittore romagnolo. Contrariamente a quanto faccia pensare il titolo, questa opera è un tripudio di colori caldi e vivissimi, con prevalenza di giallo, arancio e rosso. Colori che vengono deposti, o meglio gettati sulla tela con rabbia istintiva, proiettando alla vista dell’osservatore un’idea cromatica istantanea di suoni, luci, immagini, tutt’altro che statica. Particolare attenzione è catturata dall’opera “Il riposo”, quadro a carattere surrealista-metafisico, apparentemente rassicurante. La figura distesa (uomo o donna?) che occupa la parte centrale orizzontale riposa completamente abbandonata su una superficie che potrebbe essere sia soffice e calda che aspra e gelida. Ma il riposo, è quello dell’eroe e viene dopo una dura lotta che ha fiaccato il corpo e la mente o si tratta solo del consueto riposo quotidiano dell’Uomo comune? Sulla figura dormiente incombe un cielo striato di tinte forti, cosicché anche la fase onirica risenta del senso di immanenza di qualcosa che sta per accadere, qualcosa che la figura addormentata non sa o che, al contrario, continua a turbarla anche nei sogni. “Doppia introspezione” è un’opera in bianco e nero di forte richiamo cubista, dove i due visi tratteggiati si confondono al centro del quadro fino a formarne un terzo unico. Per concludere “Dentro la nicchia” è un figurativo di minori dimensioni con rimandi classici a culture e stili del passato, qui riproposti con la sensibilità e i linguaggi del moderno. Di Civinelli ci colpisce l’inquietudine che non da pace e la nostra sorpresa di trovarci di fronte ad un’artista, ma prima di tutto a un uomo, in continua ricerca ed evoluzione. Un uomo che corre dietro a se stesso, spesso azzerando tutto per ripartire da capo, utilizzando mezzi materici, pittorici e non solo, nell’ anelito di rappresentare, tramite simbologie esistenziali inquiete, una visione del mondo, della vita e dei suoi misteri tutt’ora irrisolti. Marco Viroli ottobre 2005

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