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Racconti di ecologia Giorgio Nebbia

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Racconti di ecologia

Giorgio Nebbia

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Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons “At-tribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5”, consultabile all’indi-rizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libe-

ro, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettroni-co, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifi-che, a fini non commerciali e con attribuzione della paternità dell’opera.

EcoalfabetoCollana diretta da Marcello Baraghini e Stefano CarnazziCoordinatore della collana: Edgar Meyer

© 2011 Giorgio Nebbia

© 2011 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

ISBN 978-88-6222-156-6

www.stampalternativa.it

email: [email protected]

foto di copertina: © gjfoto - Fotolia.com

Ecoalfabeto – i libri di GaiaPer leggere la natura, diffondere nuove idee, spunti inediti eoriginali. Spiegare in modo accattivante, convincente. Offri-re stimoli per la crescita personale. Trattare i temi della con-sapevolezza, dell’educazione, della tutela della salute, delnuovo rapporto con gli animali e l’ambiente.

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GAIA ANIMALI & AMBIENTE

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sono state compensate dal processo di riforestazione certificato

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Alla Gabriella

che mi ha accompagnato

nella vita e nel lavoro

per 54 anni felici di matrimonio

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Introduzione

L’ecologia è una disciplina scientifica – o forse una

maniera di vedere il mondo – che si occupa dei rap-

porti degli esseri viventi fra loro e col mondo circo-

stante.

Giorgio Nebbia, pioniere dell’ecologia, scienziato, gior-

nalista e lucido divulgatore delle tematiche ambienta-

li, propone in questo libro una serie di riflessioni – che

abbiamo voluto chiamare “racconti” perché hanno il

fascino e la scorrevolezza delle narrazioni – tra le più

argute della sua vasta produzione intellettuale e saggi-

stica. Attraverso gli articoli, divisi in capitoli tematici,

si spazia su (quasi) tutto lo scibile della sostenibilità

ambientale: dalle origini del termine “ecologia” ai ri-

tratti di alcuni pionieri, dalle considerazioni sull’im-

portanza dell’acqua e del sole alla necessità della rici-

clo-logia .

In questi articoli, in questi “racconti”, in queste “lette-

re”, Nebbia (collaboratore di Gaia, l’associazione che

in partnership con Stampa Alternativa promuove que-

sta collana: altri suoi gustosi scritti si possono trovare

nella sua rubrica all’interno del portale www.gaiaita-

lia.it) si rivolge agli insegnanti, agli studenti, alla

classe dirigente, ai cittadini attenti ai destini del no-

stro piccolo pianeta. Con parole semplici. Ricordando

fatti e persone. Avanzando proposte. Unendo analisi

scientifica e buonsenso.

Scorrendo le pagine di Ambientiamoci si impara ad

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amare la robinia e la ginestra, si incontrano Garrett

Hardin e la sua parabola della mucca, si scoprono le

radici (italiane) dell’energia geotermica, si ripercorre

per qualche attimo la vicenda di Seveso, si comprende

perché la scelta nucleare è errata. L’autore ci prende

gentilmente per mano e ci racconta storie di inquina-

menti, di scoperte scientifiche, di uomini del futuro.

Ma anche di escrementi (l’oro nelle fogne), della vicen-

da dell’intossicazione delle operaie di un’oscura fab-

brica americana, dei meccanismi dell’energia osmoti-

ca. Insomma, attraverso storie e aneddoti ci parla di

acqua, di energia, di merci, di rifiuti, di lavoro e am-

biente, di pace. In una parola: di ecologia. Per conosce-

re e capire l’ambiente che ci sta attorno. E rispettarlo.

Per “ambientarci”.

Giorgio Nebbia è uno dei padri nobili del movimento

ambientalista italiano e internazionale. È stato – ed è

ancora – uno dei protagonisti di assoluto rilievo nello

studio della questione ambientale, affrontata nell’otti-

ca del chimico, dell’economista e del merceologo. Libe-

ro docente di Merceologia, ne è stato professore ordina-

rio (ora emerito) presso la Facoltà di Economia e Com-

mercio dell’Università di Bari dal 1959 al 1995. Nella

stessa facoltà ha insegnato Ecologia dal 1972 al 1994.

Si è occupato dei processi di trasformazione delle ri-

sorse naturali in merci, del carattere dei sottoprodotti

e delle scorie dei processi di produzione e di consumo

e del loro nuovo destino nei corpi riceventi naturali.

Di questa circolazione natura-merci-natura ha elabo-

rato una contabilità economico-ecologica. Proprio

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l’analisi di tale circolazione consente di esaminare gli

effetti delle attività antropiche sugli ecosistemi, di rico-

noscere le attività che sono dannose per l’ambiente e di

identificare i mezzi per ricostruire una buona “sinto-

nia” fra gli esseri umani e la natura.

Oltre ad una quarantennale attività di docente (assie-

me all’analisi del ciclo delle merci, Nebbia ha orienta-

to i suoi studi sull’energia solare, sulla dissalazione

delle acque e sulle questioni relative alla risorsa ac-

qua), è stato ed è attivo nei principali movimenti di

difesa dell’ambiente – soprattutto a fianco delle popo-

lazioni che lottavano contro le centrali nucleari, le fab-

briche inquinanti, la speculazione edilizia e la caccia

– ed è stato deputato (dal 1983 al 1987) e senatore (dal

1987 al 1992) della Sinistra indipendente.

Noto a livello internazionale anche per la partecipa-

zione alle prime conferenze mondiali sull’ambiente e

lo sviluppo (Stoccolma 1972, Vancouver 1976), i mate-

riali da lui prodotti sono di dimensioni imponenti:

una parte (specie riguardante l’attività parlamentare)

è stata anni addietro depositata presso l’Archivio di

Stato di Roma, mentre un’altra enorme parte (riguar-

dante gli aspetti tecnici e militanti dell’attività am-

bientalista) è ordinata con cura presso la Fondazione

Micheletti di Brescia.

Le riflessioni di Ambientiamoci rappresentano un po’ il

“succo” della sua imponente mole di lavoro scientifico

e accademico, scritti però con la freschezza e la chia-

rezza che contraddistinguono la sua opera. Ogni pe-

riodo – pur nella assoluta facilità di lettura – è denso

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di spunti e va letto e riletto costantemente. Gustatevi la

prosa limpida di Nebbia, è quanto di più stimolante ci

sia nel panorama ambientalista.

In Ambientiamoci si ritrova tutta la verve ma anche la

profondità del pensiero di Nebbia, la densità delle ri-

flessioni eppure la leggerezza di lettura, il rigore

scientifico eppure la capacità di raccontare e appas-

sionare. Spero che ai lettori questo libro faccia lo stes-

so effetto che fa a me: la sensazione di aver ascoltato le

parole di un maestro saggio e paziente.

Edgar Meyerpresidente Gaia Animali & Ambiente

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Occam e l’elogio della semplicita’à

Un bravo studente di liceo (ce ne sono di bravi, anche mol-to bravi, e ci sono dei bravi insegnanti) mi ha scritto chie-dendo che cosa c’entra con l’ambiente il frate francescanoinglese Guglielmo Occam che avevo citato in un articolo.Secondo me c’entra e molto, perché molti problemi am-bientali possono essere risolti proprio adottando scelte, oazioni, o processi “semplici” e della virtù della semplicità siè fatto propugnatore proprio questo Occam.Guglielmo di Occam era nato a Ockham, nel Surrey, in In-ghilterra, alla fine del XIII secolo. Aveva studiato al MertonCollege di Oxford, che a quel tempo era un importantecentro intellettuale, poi è diventato francescano e ha stu-diato e insegnato a Parigi e Oxford fino al 1323. La sua vi-ta successiva è stata in gran parte occupata dalla contro-versia col papa Giovanni XXII, e i suoi successori, su temicome il concetto di povertà evangelica e il quesito se l’im-peratore potesse deporre il papa. Nel 1324, Guglielmo fu

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Pionieri

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convocato come imputato ad Avignone, dove il papa eraesiliato; riuscì a scappare e a rifugiarsi presso Ludovico IVil Bavaro a Pisa e Roma e finalmente a Monaco. Morto cir-ca nel 1349, probabilmente scomunicato perché eretico, èstato sepolto nella chiesa francescana di Monaco, distruttaall’inizio dell’Ottocento.Guglielmo di Occam è noto per il suo principio di parsimo-nia, o di semplicità, spesso chiamato “rasoio di Occam”,che afferma l’inutilità di fare con più, quello che si può fa-re con meno; in latino: “quia frustra fit per plura quod po-test fieri per pauciora”. Risparmio al lettore la ricostruzio-ne di dove e quando è stato scritto questo passaggio, masta di fatto che il principio di Occam ha influenzato Luteroe molti filosofi successivi, da Locke a Bertrand Russell. Eancora oggi, in un periodo di scetticismo verso la saggezzafrancescana, su internet si trova addirittura un sito dedica-to ai seguaci del pensiero di parsimonia e semplicità:www.ilrasoiodioccam.it.Nella ricerca scientifica, il rasoio di Occam invita a tagliarevia, con un rasoio appunto, le teorie e gli esperimenti ec-cessivi e inutili nella ricerca della verità. In ecologia invitaa ricercare i fenomeni che influenzano la natura e l’am-biente semplificando le teorie, le operazioni e le analisi.Prendiamo il caso della raccolta dei rifiuti solidi: una buo-na soluzione consisterebbe nel cercare di rendere minimala richiesta di discariche e di inceneritori e di recuperaretutto quello che è possibile dai rifiuti stessi. Non sono ub-bie, anzi questo principio è imposto dalla legge italiana edeuropea; per raggiungere questo obiettivo, come è noto,occorre convincere le persone a riconoscere che una parte

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delle componenti dei rifiuti può essere trasformata in nuo-ve merci a condizione che le varie frazioni siano separatecorrettamente: tutto il vetro a parte, tutta la plastica a par-te, tutta la carta e i cartoni a parte.L’operazione è un po’ scomoda e fastidiosa e richiede unpo’ di impegno personale. Più comodo è fare una finta rac-colta differenziata, come purtroppo spesso avviene.Prendiamo il caso degli imballaggi: si trovano in molte cit-tà dei contenitori che invitano a mettere insieme bottigliedi vetro e plastica. Il principio di semplicità richiederebbeai cittadini di mettere da una parte le bottiglie di vetro edall’altra le bottiglie di plastica, in modo da consentire il ri-ciclo di ciascuna delle due materie separate con processisemplici ed efficienti e ben noti. Quando vetro e plasticasono miscelati, occorre un complicato processo di separa-zione e la frazione del vetro così recuperato è contaminatada parti di plastica che rendono meno efficiente il recupe-ro e generano altre scorie inquinanti. Lo stesso vale per laplastica che è più difficile da recuperare e trasformare innuovi manufatti di plastica riciclata se è contaminata datracce di vetro o metalli.Per il recupero della carta e dei cartoni accade la stessa co-sa. Guardate le bocche spalancate dei cassonetti destinatia raccogliere la carta: anche le persone volonterose metto-no in tali cassonetti i contenitori di tetrapak, che non sonoriciclabili insieme alla carta perché contengono plastica ecere, quando non mettono addirittura i sacchetti delle im-mondizie tali e quali.Potrei citare altri casi: il principio di semplicità suggerireb-be di costruire strade ed edifici nelle zone non franose, per

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evitare i danni e i costi delle frane e delle alluvioni, di pre-disporre processi con un minor consumo d’acqua, menoenergia, eccetera; in un mondo dominato dal dogma che“di più è meglio” si capisce che non abbia molto ascolto laparola di frate Guglielmo che suggerisce che “di meno èmeglio”, nel nome del minore consumo di risorse naturali,del minore inquinamento dell’aria e delle acque.

Marie Curie e la scoperta del polonio

Uno dei più importanti capitoli dell’ecologia ha a che farecon gli effetti della radioattività. Una pagina della storiadella fisica e della natura cominciata in un capannone coltetto dalla copertura sconnessa che lasciava passare lapioggia. In quel laboratorio improvvisato di Parigi c’era unmucchio di terra scura sul pavimento, un bancone e unagiovane donna, laureata in fisica e in matematica che, alcaldo e al freddo, passava le sue giornate a trattare quellaterra scura a venti chili per volta, con acidi, e a filtrare e aridisciogliere i residui con altri acidi ancora. Accanto a leiil marito, un giovane professore di fisica, controllava ognifrazione di materiale separato con un apparecchio (di suainvenzione) che misurava la presenza di “raggi” capaci diprovocare una scarica elettrica fra due elettrodi. Raggi si-mili a quelli emessi dall’uranio e dal torio.La giovane fisica di origine polacca, Marie Sklodowska(1867-1934) sposata Curie, aveva osservato che un mine-rale di uranio, la pechblenda, emanava i misteriosi “raggidell’uranio” in quantità molto maggiore di quanto potesse

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essere giustificato dal suo contenuto di uranio: era come senel minerale fosse presente un altro elemento molto più at-tivo dell’uranio stesso.Maria e il marito Pierre Curie (1859-1906), dopo un grannumero di separazioni, nel giugno del 1898 poterono rife-rire di aver identificato un nuovo elemento chimico moltoattivo, con proprietà chimiche simili a quelle del bismuto.“Suggeriamo”, scrissero nella loro pubblicazione, “che ilnuovo elemento sia chiamato ‘polonio’ dal nome del Paesedi origine di uno di noi”. Dopo altri sei mesi di lavoro, po-terono descrivere l’esistenza di un altro elemento ancora,che emanava i raggi dell’uranio con una intensità un milio-ne di volte superiore a quella dell’uranio, con comporta-mento chimico simile a quello del bario, e chiamarono lanuova sostanza “radio” e il fenomeno “radioattività”.Per accertare la natura delle nuove sostanze, i Curie riusci-rono a farsi regalare, e in parte comprarono di tasca pro-pria, alcune tonnellate di scorie residue delle miniere dipechblenda di Joachimsthal in Boemia (oggi Jachymov,nella Repubblica Ceca). Finalmente, nel 1903 Marie Curieriuscì a isolare cento milligrammi di cloruro di radio puro,e tale ricerca fu l’argomento della sua tesi di laurea in chi-mica.Ben presto fu scoperto che il radio era prezioso per la cu-ra dei tumori; una troppo lunga esposizione, però, provo-cava ferite e tumori. L’arma che uccide e risana – era iltitolo di un romanzo popolare del tempo – destò un’enor-me impressione nell’opinione pubblica in tutto il mondo.I Curie si rifiutarono di brevettare il procedimento di pre-parazione del radio che fu ben presto fabbricato su scala

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commerciale. Il governo austriaco, di cui allora Joachim-sthal faceva parte, vietò le esportazioni della pechblendache si trovava nel suo territorio e si mise a estrarre il radiosul posto. Quasi contemporaneamente, il radio fu prodottoin Francia, negli Stati Uniti, in Svezia. Ma, al di là delle ap-plicazioni pratiche, le scoperte dei coniugi Curie aprironole porte alla comprensione della natura dell’atomo e delsuo nucleo, alla radioattività artificiale, alla fissione e allafusione nucleare, insomma al mondo moderno.Altrettanto romanzesca quanto la storia del radio è la vitaentusiasmante e drammatica di Marie Curie. In pochi annidiventò nota in Francia e in tutto il mondo; tuttavia, nono-stante la celebrità, i Curie non solo non diventarono ricchi,ma dovettero fare i conti con ristrettezze economiche alle-viate solo in parte dall’assegnazione, nel 1903, del premioNobel per la fisica. Nello stesso anno 1903, Pierre Curie fuproposto per la Legion d’Onore, la massima onorificenzafrancese, ma replicò che gli occorrevano non medaglie,quanto piuttosto un buon laboratorio in cui continuare lesue ricerche. Pierre Curie morì a Parigi nel 1906, investitoda un carro a cavalli, e Marie rimase vedova a 38 anni condue bambine: Irene (1897-1956), che avrebbe ottenuto ilpremio Nobel per la fisica nel 1935 col marito Frederic Jo-liot (1900-1958) per la scoperta della radioattività artificia-le, ed Eva (1904-2007), a cui si deve una bella biografia del-la madre, pubblicata nel 1937 e tradotta anche in italiano.Nonostante l’impegno familiare e l’insegnamento, MarieCurie continuò le ricerche sulla separazione, purificazionee sulle proprietà del radio, che le valsero nel 1911 un se-condo premio Nobel, questa volta per la chimica. Il succes-

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so, che fino ad allora in Francia mai una donna, stranieraper di più, aveva raggiunto, destò, come spesso capita, ge-losie e invidie e la Curie fu al centro di una campagna de-nigratoria: dapprima fu accusata di essere ebrea, proprionegli anni in cui la Francia era travolta da un’ondata di an-tisemitismo culminata nel caso Dreyfus, poi di esserel’amante del collega Paul Langevin (1872-1946), un fisicoanche lui. Queste accuse le preclusero l’elezione, che sa-rebbe stata ben meritata, all’Accademia di Francia.Eppure, Marie Curie rimase fedele al suo impegno di stu-diosa, di madre e al suo altruismo: durante la Prima Guer-ra Mondiale (1914-1919) organizzò delle unità mobili dota-te di apparecchi per raggi X che permettevano, nelle vici-nanze del fronte, di identificare rapidamente e con sicurez-za le ferite dei soldati. Marie stessa, con la figlia Irene di-ciottenne, guidava uno dei laboratori mobili.Nel 1918, alla fine della guerra, Marie Curie poté finalmen-te entrare nel nuovo Istituto del radio di Parigi, tanto desi-derato, dove aveva a disposizione laboratori adeguati, an-che se l’Istituto era dotato soltanto di una piccolissimaquantità, un solo grammo, del radio necessario per le suericerche, quando la produzione mondiale del prezioso e co-stoso elemento, da lei scoperto, ammontava ormai a varichilogrammi.Una giornalista americana organizzò allora, nel 1926, unviaggio che portò Marie Curie, già malata, in numerose cittàe università americane dove tenne faticosamente varie con-ferenze e fu accolta entusiasticamente come “la donna delradio”. Come premio per tanta fatica riuscì a raccogliere ifondi per acquistare due grammi di radio per il suo Istituto.

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La leucemia provocata dal contatto, per trent’anni, contanto materiale radioattivo uccise Marie Curie nel 1934.Per iniziativa del presidente francese Mitterrand, nel 1995le sue ceneri, insieme a quelle del marito Pierre, furonoportate nel Pantheon, il tempio della gloria della Francia.Credo che ogni fisico, ogni chimico, ogni studioso, ognidonna, direi, dovrebbero essere orgogliosi di avere qualco-sa in comune con una persona come Marie Curie. Vorreiche la sua passione e la sua storia umana, più che la spe-ranza di cattedre, stipendi, onori e interviste televisive,spingessero un numero crescente di giovani studiosi aesplorare il mondo della natura con lo stesso disinteresse,premessa essenziale per le scoperte capaci di alleviare ildolore dell’umanità.

Vladimir Ivanovich Vernadskij: la biosfera e la noosfera

Era il gennaio 1945, un inverno terribile di bombardamen-ti, di lotte sanguinose per sconfiggere definitivamente i te-deschi, la stagione della drammatica scoperta dei campi disterminio nazisti. Proprio in mezzo a tanto sangue, la rivistaamericana American Scientist pubblicava, come messag-gio di speranza, un articolo intitolato: “La biosfera e la noo-sfera”, scritto dal russo Vladimir Ivanovich Vernadskij(1863-1945). L’articolo era preceduto da una presentazionedel grande ecologo americano George Evelyn Hutchinson(1903-1991) che annunciava, con dolore, che pochi giorniprima l’autore era morto, ottantaduenne, nell’Unione Sovie-

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tica. Il dolore della comunità scientifica era ben giustificatoperché Vernadskij era stato un personaggio straordinario esorprende che, con tanti ecologi ed ecologisti in circolazio-ne, si parli così poco di lui in Italia.Vernadskij, nato nel 1863, aveva studiato nella Russia zari-sta partecipando ai movimenti giovanili di protesta control’assolutismo degli Zar. Dopo un periodo di studi in Germa-nia, Vernadskij era diventato professore di geochimica nel1890, poi membro dell’Accademia delle Scienze e presi-dente di una speciale commissione per lo studio delle ri-sorse naturali, incaricata di identificare i giacimenti di mi-nerali di importanza economica sparsi nello sterminato im-pero russo. Vernadskij aveva studiato, in particolare, i mi-nerali radioattivi che erano stati scoperti e descritti pochianni prima dai coniugi Curie.Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, Vernadskij avevacontinuato i suoi studi e l’insegnamento. Non era iscritto alPartito comunista, ma fu rispettato e apprezzato dal gover-no bolscevico e da Lenin (1870-1924) e poi da Stalin(1878-1953) che lo incaricarono di continuare a dirigere laCommissione per le risorse naturali e anzi di intensificarnel’attività. In un periodo della storia russa che molti libri de-scrivono come oscuro, violento, intollerante, questo non-comunista fu nominato presidente della prestigiosa Acca-demia delle Scienze dell’Urss, girava il mondo e passò alcu-ni anni, dal 1924 al 1926, a Parigi presso l’Istituto Pasteur.A Parigi insegnò all’università, mettendo a punto la nuovarivoluzionaria visione biogeochimica della grande unità ditutto il mondo biologico e inanimato che sta alla base del-la moderna ecologia. Nel periodo parigino apparvero, pri-

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ma in francese e poi in russo, due opere fondamentali diVernadskij: La Geochimica e La Biosfera.Nella Parigi di quegli anni Venti – l’“età dell’oro dell’ecolo-gia”, come l’ha chiamata il biologo italiano Franco Scudo(1935-1998) – vivevano e insegnavano il grande matemati-co italiano Vito Volterra (1860-1940), che descrisse le leggifondamentali della coesistenza delle popolazioni animali, eil russo Vladimir Alexandrovitch Kostitzin (1883-1963),emigrato dall’Unione Sovietica dopo un passato di rivoluzio-nario, a cui si devono altre opere fondamentali di biologiamatematica.Le lezioni di Vernadskij erano seguite dal gesuita PierreTeilhard de Chardin (1881-1955), che conduceva ricerchedi paleontologia in Cina e a cui si deve il concetto di “noo-sfera”, la forma in cui la storia naturale dell’uomo si com-pleterà come trionfo della mente.Tornato nell’Urss, Vernadskij si batté con successo perchél’Accademia delle Scienze sovietica restasse indipendentedall’influenza politica del governo, e continuò le sue ricer-che sui minerali strategici e radioattivi che avrebbero assi-curato all’Unione Sovietica la produzione industriale e lavittoria contro il nazismo.Ma, soprattutto, Vernadskij va ricordato per aver elaborato,in forma compiuta la grande visione unitaria della vita sulpianeta. Una vita che si basa sulla circolazione degli ele-menti dall’atmosfera alle piante, agli animali, al suolo, e poidi nuovo all’atmosfera e alle acque; di questi cicli vitali fan-no, naturalmente, parte gli esseri umani.Oggi sono stati inventati nuovi termini: si parla di visione“olistica”, unitaria, appunto, dell’ecologia, ma il concetto di

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unità bio-geochimica della vita sul pianeta nasce propriocon gli studiosi sovietici. Il loro contributo è poco noto for-se perché molte delle loro opere sono state scritte in rus-so, ma c’è stata anche una specie di pigrizia, da parte ditanti, nei confronti della ricerca delle radici culturali del-l’ecologia. A tale pigrizia si deve la limitata circolazione inItalia delle opere di Vernadskij, anche di quelle scritte infrancese e pubblicate in Francia. La Geochimica non èmai stato tradotto in italiano, pur essendo un libro ricco diinformazioni e di intuizioni.Vernadskij, per esempio, parla chiaramente delle alterazio-ni del clima dovute alla modificazione della composizionechimica dell’atmosfera. Nel 1926 era già quindi chiaro ilconcetto di quello che oggi chiamiamo “effetto serra”. Ver-nadskij parla del ruolo dell’ozono stratosferico come filtrodelle radiazioni ultraviolette solari biologicamente dannosee delle conseguenze di quello che oggi chiamiamo il “bucodell’ozono”. Negli studi biogeochimici di Vernadskij eranodescritti chiaramente i danni dell’erosione del suolo e i pe-ricoli di perdita di fertilità dei terreni a causa delle attivitàantropiche irrazionali.L’altro bel libro di Vernadskij, La Biosfera, ha avuto solodi recente una traduzione parziale in inglese, da cui è sta-ta realizzata una traduzione, parziale anch’essa, in italia-no, pubblicata dall’editore red di Como con una buona in-troduzione di Jacques Grinevald. Alcuni altri scritti diVernadskij sulla storia e filosofia della scienza (con unabella introduzione di Silvano Tagliagambe) sono stati tra-dotti e pubblicati per la prima volta in italiano in un librodistribuito insieme al numero di agosto 1994 della rivista

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mensile Teknos, pubblicata a Roma. La Biosfera e la

Noosfera, a cura di Daniele Fais, è stato pubblicato a Pa-lermo da Sellerio nel 1999 (traduzione dal francese de La

Biosphére, Paris, Fuderot, 1997).Ma forse l’opera più interessante, quasi il testamentoscientifico e spirituale, è il breve saggio del 1945 pubblica-to in America e anche questo non tradotto in italiano, sul-la biosfera e la noosfera. Vernadskij usa il termine “noosfe-ra” con un significato diverso da quello, trascendente, usa-to da Teilhard de Chardin. Per Vernadskij la noosfera è l’in-sieme delle modificazioni operate sulla biosfera dalle atti-vità derivate dalla mente umana.Vernadskij spiega bene che tali modificazioni possonoessere negative per i grandi cicli biogeochimici da cuidipende la sopravvivenza della stessa specie umana, manota che tali modificazioni – se dominate dalla menteumana, anziché dall’avidità di gruppi o singoli – possonoanche essere positive, possono contribuire al progressoumano attraverso l’uso razionale e illuminato delle ric-chezze della natura.Un avvertimento e un messaggio di speranza di grandevalore che vengono da uno scienziato passato, a testa al-ta e rispettato, attraverso lo zarismo e l’epoca sovietica,giustamente onorato in Russia, tanto che a Mosca porta-no il suo nome l’Istituto di Geochimica dell’Accademiadelle Scienze, un grande viale, una stazione della metro-politana. In onore di Vernadskij sono stati emessi fran-cobolli e innumerevoli libri ne ricordano la figura el’opera.

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Cecil Pigou e le radici dell’economiaambientale

Se si cercano le radici dell’economia ambientale, della di-sciplina che cerca di capire come è possibile compensare idanni economici arrecati dalla violenza all’ambiente, si de-ve andare a cercare Arthur Cecil Pigou (1877-1959), eco-nomista inglese, allievo, all’Università di Cambridge, di Al-fred Marshall (1842-1924), che nel 1908 successe a que-st’ultimo sulla cattedra di Economia. Pigou scrisse nel 1912 la sua principale opera, Ricchezza

e benessere, di cui pubblicò varie riedizioni col titolo Eco-

nomia del benessere, a partire dal 1920. Fra le altre sueopere si può ricordare L’economia dello stato staziona-

rio, pubblicata nel 1935 in piena crisi economica, in untempo che assomiglia sotto molti aspetti a quello odierno.Fu uno dei primi sostenitori dell’imposta sul reddito e del-l’intervento dello Stato per correggere i “fallimenti delmercato”, fonti di diseconomie esterne, di danni e costi peralcuni soggetti economici in seguito all’operare, anche selecito, di altri soggetti economici.Le anticipazioni di Pigou non solo trovano conferma neglieventi di questo inizio del XXI secolo, ma possono farcicomprendere meglio quello che ci aspetta. Il contributo diPigou alla “economia del benessere” si può così riassume-re: nella vita economica le azioni di ogni soggetto economi-co non sono isolate, ma influenzano, nel bene e nel male,altri soggetti economici circostanti, “esterni”, e da questistessi sono influenzati. Se una fabbrica sta vicina ad altre(si pensi ai poli industriali), ne trae vantaggio perché tutte

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mettono in comune servizi, strade, aeroporti e ciascunatrae beneficio da questa integrazione; le economie integra-te però possono anche essere fragili proprio perché dipen-dono l’una dalle altre. D’altra parte, ogni attività di un sog-getto economico può provocare “diseconomie esterne”,cioè danni e costi ai soggetti economici vicini.Immaginiamo un soggetto economico, un vignaiolo, cheproduce uva, un bene utile, e che, vendendola, guadagnadiciamo 100 lire all’anno; un giorno accanto alla vigna si in-sedia una fabbrica di scarpe, in modo del tutto legittimo,anzi lodevole perché produce una merce, le scarpe, di cuic’è bisogno e fa lavorare gli operai e assicura benessere al-le loro famiglie. Però dal camino della fabbrica escono deifumi che ricadono sulla vigna vicina e danneggiano l’uva alpunto che il vignaiolo, dopo l’arrivo della fabbrica, guada-gna soltanto 50 lire all’anno. Il vignaiolo va dal fabbricantedi scarpe e gli chiede un risarcimento per il danno subito.A questo punto si possono avere vari eventi. Il fabbricantetira fuori dalle sue tasche le 50 lire perdute dal vignaiolo eil vignaiolo ritorna a guadagnare 100 lire all’anno ed è con-tento, così il fabbricante di scarpe può continuare a inqui-nare (e la natura non è contenta), ma guadagna di meno edeve recuperare i soldi dati al vignaiolo; può farlo aumen-tando il prezzo delle scarpe, che vengono a costare di piùe si vendono di meno, e il fabbricante deve ridurre la pro-duzione licenziando gli operai, con danno alle loro famiglie,oppure il fabbricante può diminuire il salario agli operai,sempre con danno alle loro famiglie.Oppure il fabbricante di scarpe, invece di dare 50 lire al vi-gnaiolo, con la stessa cifra compra un filtro da mettere sul

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camino in modo da non inquinare più, e sono così conten-ti la natura, il venditore di filtri e il vignaiolo che, cessatol’inquinamento, ricomincia a produrre l’uva che gli assicu-ra un guadagno di 100 lire all’anno. Ma il fabbricante discarpe deve recuperare le 50 lire spese per il filtro e tor-niamo al caso precedente. A questo punto fabbricante eoperai vanno dallo “Stato”, da un’autorità superiore a tutti,e chiedono che sia ristabilita una situazione di giustizia:che il vignaiolo e il fabbricante siano compensati per il lo-ro lavoro, gli operai abbiano lo stesso salario di prima, lescarpe costino come prima e possano essere più facilmen-te vendute. A questo punto lo “Stato” può dare 50 lire alfabbricante di scarpe e sono contenti tutti: vignaiolo, fab-bricante di scarpe, fabbricante di filtri, operai, acquirentidelle scarpe ed è contenta anche la natura non più inqui-nata. Ma lo “Stato” deve recuperare le 50 lire aumentandole tasse al vignaiolo, al fabbricante di scarpe, al venditoredi filtri, agli operai e agli acquirenti di scarpe, e alla fine so-no scontenti tutti.A meno che, come suggerisce Pigou, le tasse non siano ap-plicate sulla base del reddito e pesino di meno sui redditiminori. La parabola del vignaiolo riflette eventi davanti atutti noi ogni giorno. I fabbricanti di una merce (diciamo dioggetti di plastica) hanno un legittimo guadagno e assicu-rano un salario ai loro operai, ma purtroppo l’aumento del-la plastica in circolazione fa aumentare la massa dei rifiutiinquinanti e danneggia la salute degli abitanti di un Paese.Si può applicare un’imposta sugli oggetti di plastica e conil ricavato pagare gli ospedali in cui ricoverare gli ammala-ti, ma in questo caso gli acquirenti comprano di meno la

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merce inquinante; diminuiscono i rifiuti e gli ammalati, mai fabbricanti sono costretti a fabbricare meno plastica e li-cenziano gli operai. Lo Stato, per assicurare un reddito aidisoccupati (la cassa integrazione), deve aumentare le tas-se o diminuire le pensioni e le spese per gli ospedali.Un altro caso: il consumo di carbone, petrolio, gas natura-le ed elettricità fa aumentare l’inquinamento atmosfericodovuto all’anidride carbonica che provoca mutamenti cli-matici e costi; per diminuire queste diseconomie esternegli Stati fanno pagare qualche soldo a chi usa combustibilied elettricità (la cosiddetta “carbon tax”) per indurlo aconsumarne di meno; i minori danni al clima comportanoperò minori guadagni per chi vende energia e merci dipen-denti dall’energia e per i lavoratori dei relativi settori.Che fare? I governanti si arrovellano su questi probleminelle innumerevoli conferenze sul clima: forse farebberobene a rileggere Pigou per far sì che le diseconomie ester-ne, sociali e ambientali che ci sono sempre, non ricadanosulle classi meno abbienti e che anche i ricchi paghino.

Girolamo Azzi e la prima cattedradi ecologia

Ormai le parole “ecologia” ed “ecologico” sono entrate nellinguaggio comune per indicare le più svariate cose: la ben-zina ecologica, le patate ecologiche, la casa ecologica, ec-cetera, al punto che sono stati dimenticati l’origine vera eil significato di “ecologia”.I lettori più informati pensano che l’ecologia sia nata ai

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tempi delle battaglie antinucleari o ai tempi dell’incidentedi Seveso; quelli ancora più informati ricordano le lotte“ecologiche” contro la contaminazione radioattiva dovutaalle esplosioni nucleari o contro i pesticidi e le denuncedella “Primavera silenziosa” fatte da Rachel Carson (1907-1964) nel 1962; i più informati di tutti, infine, sanno che laparola “ecologia” è stata usata per la prima volta dal biolo-go tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866. Questoammiratore e divulgatore di Charles Darwin (1809-1882)spiegò che occorreva studiare le interazioni degli esseri vi-venti fra di loro e con l’ambiente inorganico circostante, irelativi scambi di materia e di energia e indicò l’ecologiacome l’“economia della natura”.Pochi però ricordano che una cattedra universitaria di eco-logia è stata creata in Italia già nel 1922 a Perugia e affida-ta a Girolamo Azzi (1885-1969), studioso dimenticato, manon per questo meno interessante. Se non fosse stato periniziativa dell’Associazione Turistica Pro Loco di Imola, lacittà in cui Azzi è nato nel 1885, non avremmo neanchel’unica biografia disponibile, Girolamo Azzi, il fondatore

dell’ecologia agraria, stampata in appena 500 copie dallacasa editrice La Mandragora (Via Selice 92, 40026 Imola,www.editricelamandragora.it).Appena laureato in Scienze naturali, Azzi – grazie alla suabuona conoscenza di ben sette lingue straniere, fra cuiportoghese, svedese e russo – fu assunto dall’Istituto Inter-nazionale di Agricoltura di Roma, in un certo senso il pre-cursore di quella che sarebbe diventata l’odierna Fao, l’or-ganizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazio-ni Unite, con sede ancora a Roma. Ad Azzi fu affidata la re-

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dazione del Bollettino dell’Istituto e con tale incarico co-nobbe studiosi russi e tedeschi che conducevano ricerchesui rapporti fra agricoltura e clima. Del resto, in questocampo già in Italia esisteva l’Ufficio Centrale di Meteorolo-gia e Geodinamica che dal 1876 pubblicava, ogni dieci gior-ni, la Rivista Meteorico-agraria, sospesa nel 1920.Nello stesso 1920 una commissione dell’Accademia deiLincei riconosceva l’importanza di una disciplina autono-ma, l’ecologia agraria, e auspicava l’istituzione di una cat-tedra universitaria di questa disciplina che fu affidata nel1924 proprio al professor Azzi. In tale veste, Azzi ebbe con-tinui rapporti internazionali e nel 1934 fu invitato nel-l’Unione Sovietica dal celebre professor Nikalaj Vavilov(1887-1943) che conduceva le stesse ricerche nel suo Pae-se. Non bisogna dimenticare che erano gli anni della gran-de crisi, della necessità di aumentare la produzione agrico-la, della “battaglia del grano” fascista in Italia.Per i suoi rapporti scientifici con l’Unione Sovietica, Azzi fuguardato con sospetto dal regime fascista; eppure il suo te-sto Ecologia agraria, pubblicato in Italia nel 1928, con va-rie ristampe, fu tradotto in russo, in portoghese per il Bra-sile, in bulgaro, e poi in spagnolo, in inglese, in francese.Nel 1929, per conto dall’Istituto Internazionale di Agricol-tura, Azzi scrisse una monumentale opera, di 1165 pagine,in francese sui rapporti fra clima e produzione di frumen-to. Per questi suoi contributi, Azzi fu invitato in tutto ilmondo per conferenze su quella che sembrava la nuova viaper comprendere come le piante reagiscono ai mutamenti“ecologici” dell’ambiente circostante.Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), Az-

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zi continuò a essere invitato a tenere lezioni e conferenzein molti Paesi stranieri (dove è ancora conosciuto e ricor-dato molto più di quanto non lo sia in Italia), sostenendol’importanza dell’ecologia agraria: una specie di uomo di“pubbliche relazioni” per la sua disciplina, come lo ha defi-nito il professor Alessandro Baltadori, che ha scritto l’affet-tuosa presentazione del libro sul profesor Azzi, prima ri-cordato, e che è stato, dopo il 1955, il suo successore sullacattedra di Perugia.Girolamo Azzi morì nel 1969 e i pur pochi scritti, riprodot-ti nel volume già citato, illustrano bene alcuni aspetti dellasua attività e dei suoi interessi che si estendevano dall’eco-logia all’agricoltura, alla geografia, all’economia. Ricordo diavere conosciuto, quando ero un giovane assistente a Bo-logna, il professor Azzi, già anziano, quando ben pochi sa-pevano che cosa fosse questa ecologia, la strana materiache insegnava. Hanno fatto bene i suoi amici a ricordarlo,sia pure in un piccolo “libro sommerso”, di quelli che sfug-gono alla grancassa pubblicitaria, e mi auguro che qualchelettore sia tentato di procurarsene una copia e magari diamare un poco l’ecologia, quella vera.

Georgescu-Roegen, padre dell’economiaambientale

Se qualcuno mi chiedesse quale testo leggere per impara-re qualcosa di economia dell’ambiente, un insegnamentoche da alcuni anni a questa parte si sta diffondendo fra lediscipline economiche anche in Italia, suggerirei un libro il

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cui titolo in italiano potrebbe essere “La legge dell’entropiae il processo economico”, anche se il libro in italiano non èmai stato tradotto. L’autore è un professore di origine ro-mena, Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1990); in italianosono comunque disponibili vari altri suoi libri che spazianodall’economia agraria, al comportamento dei consumatori,a varie rielaborazioni delle idee contenute nel libro fonda-mentale prima ricordato. Una raccolta dei saggi più “am-bientalisti” fu pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1998 coltitolo Energia e miti economici, con una breve biografia.Georgescu-Roegen ha avuto una lunga vita avventurosa;nato a Costanza, in Romania, vinse giovanissimo una catte-dra di statistica nell’Università di Bucarest e, come brillan-te professore, visitò varie università in Inghilterra e negliStati Uniti nei turbolenti anni Trenta del secolo scorso. Nel1937 rifiutò una cattedra negli Stati Uniti e ritornò in Ro-mania con l’idea di essere utile al suo Paese. Oltre all’inse-gnamento, diresse il Ministero del Commercio estero in unperiodo in cui la Romania era corteggiata dai sovietici e dainazisti per le sue ricchezze petrolifere. Nell’agosto 1944Bucarest fu occupata dall’esercito sovietico e nel 1944-45Georgescu-Roegen fu segretario generale della commissio-ne romena per l’armistizio; nel 1948 si trasferì negli StatiUniti e ottenne una cattedra di economia nell’UniversitàVanderbilt di Nashville, nel Tennessee, una sede abbastan-za decentrata rispetto al circuito delle grandi facoltà eco-nomiche americane.Georgescu-Roegen è stato un economista dissidente, etero-dosso; non lo sentirete mai nominare dagli economisti seriufficiali, perché è andato a esplorare dei territori di confine

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fra l’economia, la fisica e l’ecologia e perché da tale esplora-zione ha tratto la sua critica, appunto, ai “miti” dell’econo-mia tradizionale. Nella seconda metà dell’Ottocento, e nel-la prima metà del Novecento, vari studiosi hanno messo inevidenza alcune analogie fra fenomeni biologici e fisici e fe-nomeni economici. L’economia è la scienza di come soddi-sfare i bisogni umani di cibo e di merci, in un mondo, in unasocietà, in cui sono limitati lo spazio, le risorse energetichee minerarie, la fertilità dei campi, limiti descritti esattamen-te proprio dalla biologia e dalla fisica. Come è possibile allo-ra far crescere continuamente il benessere, il numero e lamassa dei beni materiali, come richiede l’economia, quandoesistono degli oggettivi limiti fisici e biologici nelle risorsenaturali? Gli economisti seri rispondono che è possibile per-ché le risorse dell’ingegno, della scienza, della tecnica, sonoillimitate: basta investire denaro ed energia per dilatare ibeni che la Terra può offrire.Georgescu-Roegen non è d’accordo e ha elaborato una suateoria, che ha chiamato di “bioeconomia”, mettendo in evi-denza i vincoli imposti all’economia dalle ineluttabili leggifisiche della termodinamica, quelle che descrivono la con-tabilità, la ragioneria, delle trasformazioni dell’energia. Èinfatti l’energia che tiene in moto tutti i fenomeni economi-ci e produttivi, è il flusso dell’energia che sta alla base delflusso di denaro. L’energia, quella del Sole e quella richie-sta per fabbricare i concimi e per muovere i trattori, forni-sce i raccolti agricoli; l’energia occorre per trasformare ipomodori nella conserva che arriva nei negozi; l’energia oc-corre per trasformare i minerali in acciaio e per far muove-re le automobili e i treni e per far funzionare i computer.

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Possono cambiare i prezzi del petrolio o dell’elettricità, mala quantità di energia necessaria per produrre una tonnel-lata di grano o di plastica o per tenere accesa una lampadi-na, pur variabile a seconda della tecnologia dei processi odei prodotti, non può scendere al di sotto di una soglia, fis-sata dalla fisica. E, una volta usata per un processo, l’ener-gia non si recupera più, non torna più disponibile per rifa-re lo stesso processo; se ne perde sempre un poco. Si diceche ogni processo trasforma l’energia a bassa entropia inenergia a più alta entropia, e l’economia deve fare i conticon questa continua perdita e dissipazione di energia utile,con questo continuo aumento dell’entropia.Georgescu-Roegen ha ampliato questa visione sostenendoche si deve tenere conto non solo dell’energia, che si de-grada sempre, ma anche della materia. Si ha un bel dire delriciclo dei materiali usati; raccogliere separatamente lacarta usata è certamente virtuoso perché si evita di taglia-re nuovi alberi per fare nuova carta, ma non ci si illuda delriciclo illimitato. L’atto stesso di usare la carta, o un qual-siasi altro bene, ne altera e peggiora la qualità; un giornaleusato è fatto di carta ma è anche “contaminato” con inchio-stri e additivi; quando si ricicla un chilo di giornali si puòstare certi che la carta riciclata recuperata sarà sempremeno di un chilo; la differenza è costituita da inchiostri,sporcizia, eccetera. Insomma, nel produrre e nell’usare unamerce “si perde” sempre un poco, sia dell’energia, sia del-la materia utili. Il messaggio non è di disperazione: è possi-bile soddisfare i bisogni materiali di cibo, merci, servizi, co-noscenza, mobilità, se si tiene presente che le quantità e iltipo dei beni necessari devono essere scelti tenendo conto

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della disponibilità non solo di denaro, ma di risorse natura-li e di energia. La legge dell’entropia stimola, non frena, in-novazione e progresso.Molti ritengono che, per la sua opera, Georgescu-Roegenavrebbe meritato il premio Nobel per l’economia. Non l’haavuto, ma in compenso ancora oggi è riconosciuto comepadre dell’economia ambientale e viene letto e discusso.

Barry Commoner: chiudere il cerchiodella natura

Nel 1972, in coincidenza con la prima conferenza “ecologi-ca” delle Nazioni Unite, quella di Stoccolma sull’“Ambienteumano”, apparve un libro del biologo americano BarryCommoner (nato nel 1917) intitolato Il cerchio da chiu-

dere. Il libro ebbe un successo mondiale grandissimo, fupubblicato subito in italiano dall’editore Garzanti e una se-conda edizione italiana, ampliata, apparve nel 1986. Il “cer-chio” è quello della natura, nella quale i fenomeni della vi-ta vegetale e animale si svolgono secondo cicli chiusi; nel-la natura non esistono rifiuti perché le spoglie dei vegetalie degli animali e gli escrementi riportano in ciclo gli ele-menti chimici che essi contengono e che diventano fonti divita per altri vegetali; si può dire che nella natura non esi-ste la morte perché la materia di qualsiasi essere, alla finedel suo ciclo vitale, ritorna ben presto materia per altri. Lavita è il fine unico della natura e della vita stessa. Lo stes-so discorso è valso, per secoli, per le merci non alimentari,utili a fini umani, derivate dai vegetali e dagli animali: fibre

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tessili, legname come materiale da costruzione e fonte dienergia, saponi, concimi, coloranti, eccetera.Le molecole offerte dalla natura sono però complicate daconoscere e trasformare in prodotti commerciali; peraltrosono distribuite in tutto il pianeta in maniera, direi, “equa”e democratica; si trovano spesso nelle foreste o nei campidi Paesi abitati da persone “arretrate” e da tali Paesi arre-trati dovevano importarle i Paesi scientificamente, politi-camente e industrialmente più “progrediti”. Dopo un po’ disecoli, i Paesi industriali hanno cercato di liberarsi da que-sta dipendenza dalla natura e dalle importazioni e hannocercato di produrre le stesse, o simili, materie commercia-li per proprio conto per via sintetica dal carbone o dal pe-trolio, più abbondanti e accessibili. A questo punto, il cer-chio della natura si è rotto; le merci sintetiche si sono rive-late ben presto non biodegradabili, a lungo persistenti nel-le acque e nel terreno, spesso tossiche e inquinanti e si so-no formate quantità sempre più grandi di rifiuti intrattabi-li perché estranei alla natura: si pensi alle montagne di ma-terie plastiche e di imballaggi, ai residui di pesticidi, ecce-tera. A poco a poco le scelte industriali hanno portato a im-poverire il mondo della natura e a degradarlo con le scorie,e così si è avuta quella rottura del cerchio della natura de-nunciata dal libro di Commoner.Sembra che in questi tempi si debba ricominciare a cerca-re le materie prime rivolgendosi alla natura e alle sue risor-se, ad un qualche tentativo di “chiudere il cerchio”, nonperché è aumentata la saggezza e la consapevolezza dei go-verni, ma perché le materie su cui ci siamo basati finora,specialmente il petrolio, stanno diventando sempre più

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scarse e costose, perché l’inquinamento e il volume dei ri-fiuti stanno diventando insostenibili e perché la natura“fabbrica”, col Sole, e rinnova, anno dopo anno, sempre lestesse materie. C’è un bel lavoro da fare, per chimici, mer-ceologi (e, perché no?, anche per storici della tecnica), dalmomento che gran parte delle conoscenze del passato so-no andate perdute e bisogna ricominciare daccapo. Solo atitolo di esempio, in gran parte è andata perduta la tecno-logia di coltivazione e produzione della canapa e del lino, incui l’Italia era all’avanguardia. La tendenza alla sostituzio-ne di parte della benzina con alcol etilico di origine agrico-la costringe ad andare a ripescare le tecnologie di fermen-tazione, trasformazione dell’amido, degli zuccheri e dellacellulosa in alcol etilico, le tecniche di distillazione e con-centrazione dell’alcol. Vedo, ormai, sul tavolo dei nuoviecologisti vecchi trattati come quello di Giorgio Meloni,L’industria dell’alcol, tre volumi pubblicati da Hoepli neiprimi anni Cinquanta del Novecento, ormai una rarità bi-bliografica, nei quali sono esposti e spiegati tutti i proble-mi relativi a quello che è stato ribattezzato “bioetanolo”. Ilcosiddetto “biodiesel”, che è poi un derivato chimico (perla precisione un estere con alcol metilico) degli acidi gras-si presenti negli oli e grassi vegetali e animali, viene pro-dotto industrialmente da scarti di altre lavorazioni agroali-mentari e anche dai grassi residui della frittura (quando sidice che si possono riciclare anche gli avanzi di cucina!). Negli oli e grassi, gli acidi grassi sono combinati con unospeciale alcol che è la glicerina. Quando gran parte deigrassi erano utilizzati per la produzione del sapone (alpunto che anche la Puglia esportava gli oli di sansa in Ame-

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rica dove erano impiegati in saponeria: il colore verde del-le saponette di “palmolive” era quello degli oli acidi puglie-si), le industrie ottenevano come residuo la glicerina cheaveva vari usi industriali, fra cui l’impiego nella fabbricazio-ne di un potente esplosivo: la nitroglicerina.Dal 1950 in poi, l’uso dei saponi è declinato sotto la concor-renza dei detersivi sintetici e la glicerina derivata dai gras-si “naturali” è diventata scarsa e per molti anni la si è do-vuta fabbricare dal propilene derivato dal petrolio. La pro-duzione di biodiesel dai grassi naturali sta mettendo a di-sposizione, a basso prezzo, di nuovo grandi quantità di gli-cerina che ora è diventato conveniente utilizzare addirittu-ra come materia prima per la produzione di quello stessopropilene, derivato dal petrolio, da cui si otteneva finora laglicerina. Mezzo secolo fa intitolai “Le merci sintetiche” laprolusione al mio corso di Merceologia a Bari; sembrava al-lora che le sintesi dal petrolio e dal carbone potessero libe-rare i Paesi industriali dalla servitù delle importazioni daiPaesi sottosviluppati. Forse qualche futuro professore diMerceologia dovrà dare alla sua prolusione il titolo “Lemerci naturali”. Forse davvero il cerchio della natura si stachiudendo.

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Ecologia e storia

Provate a parlare di ecologia con un conoscente: quasi cer-tamente vi risponderà che poche persone sono più attentedi lui ai problemi della natura, all’inquinamento dell’aria (emagari sta fumando), alla difesa della natura (anche se èun accanito cacciatore). E, soprattutto, molto probabil-mente vi dirà che lui è sempre stato un ecologista, che loera fin dal 1980 (per dire una data lontanissima). Altri po-tranno citare, a titolo di merito, l’iscrizione al Wwf da tem-pi ancora più lontani. Non si capisce allora come mai, contutto l’amore per l’ecologia in circolazione, il pianeta Terradebba registrare crescenti inquinamenti dell’aria e del ma-re, frane, scomparsa di specie vegetali e animali, tanto cheviene da chiedersi che cosa intenda tanta gente quandonomina l’ecologia.Il sostantivo “ecologia” è stato “inventato”, nel 1866, dalbiologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919), un ferventeseguace e divulgatore del pensiero evoluzionistico darwi-

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Ecologia

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niano: Charles Darwin (1809-1882) aveva pubblicato pochianni prima, nel 1859, il suo celebre libro sull’origine dellespecie, il risultato delle osservazioni fatte come naturalistanel suo viaggio di cinque anni intorno al mondo.In una delle sue conferenze (che venivano poi raccolte inlibri di grande successo, tradotti in numerose lingue), Ha-eckel fece notare che gli studi sull’evoluzione mostravanocome i vegetali e gli animali si adattino all’ambiente circo-stante a seconda delle sostanze che possono trarne per lapropria sopravvivenza. Così, i vegetali si nutrono dei com-posti inorganici presenti nell’aria e nel suolo e li rielabora-no, grazie all’energia solare, nelle sostanze organiche dellefoglie, delle radici e del tronco; gli animali si nutrono deivegetali; le scorie della vita vegetale e animale – le spogliedelle piante alla fine del ciclo vegetativo, gli escrementi e icorpi degli animali – ritornano nel mondo circostante e so-no decomposti da esseri viventi specializzati nel trasfor-marne i vari componenti di nuovo in nutrimento per altrivegetali e animali.C’è, insomma, un grande progetto planetario che ha comefine la propagazione della vita ed è basato su scambi di ma-teria ed energia fra gli esseri viventi e l’ambiente circostan-te: Haeckel disse che questi scambi sono simili a quelli cheavvengono nell’economia, quando gli esseri umani compra-no e usano e scartano le merci. L’“economia della natura”doveva perciò essere oggetto di una speciale disciplina cheHaeckel chiamò “ecologia”, appunto.Francamente, credo sia difficile parlare sensatamente diinquinamento, ambiente ed ecologia, se non ci immedesi-miamo in questa grande avventura culturale e scientifica,

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se non si ripercorrono le tappe dello sviluppo dell’ecologia.Gli ecologi dell’Ottocento avevano già chiaro il concetto di“limite” delle risorse naturali: quando ci sono troppi anima-li in un pascolo, troppi alberi in un bosco, non c’è cibo espazio per tutti e alcuni muoiono. Gli studiosi di ecologiahanno ben presto riconosciuto che la vita è bellissima, madolorosa. Alcuni animali, nel grande disegno della vita, so-no destinati a diventare nutrimento di altri animali preda-tori e la morte delle prede è accompagnata da sofferenze.Vegetali e animali, predatori e prede, parassiti e ospiti,svolgono funzioni ben precise e ubbidiscono a precise leg-gi che occorre conoscere se si vogliono limitare i danni deiparassiti ad alcune piante “economiche” senza avvelenarecon pesticidi l’intera biosfera, leggi che spiegano come oc-corra limitare la pesca e la caccia se non si vuole che i ma-ri o i boschi restino senza animali, eccetera.Una bella corsa attraverso centotrenta anni di ecologia èofferta dal libro dello studioso francese Jean-Paul Deleage,Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della na-

tura (Napoli, CUEN), un libro che si legge come un ro-manzo, pieno di attori e di colpi di scena.Per esempio, negli anni fra il 1925 e il 1940 si incontrauna “età dell’oro” dell’ecologia, come l’ha definita lo stu-dioso italiano Franco Scudo in un libro pubblicato in in-glese alcuni anni fa: un quindicennio affollato di perso-naggi che, pur in tempi turbinosi (fascismo e nazismo inEuropa, rivoluzione sovietica in Russia), giravano per ilmondo e si scambiavano notizie e anche invettive, in unagara per strappare alla natura i segreti delle leggi dellavita.

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L’americano Alfred Lotka (1880-1949), un matematico chelavorava per una compagnia di assicurazioni, dotato digrande passione per la biologia, nel 1925 formulò alcuneequazioni matematiche che spiegano come varia il numerodi prede (immaginate i conigli) e di predatori (immaginatele volpi) quando convivono nello stesso territorio.Se aumenta il numero delle volpi queste mangiano più co-nigli il cui numero diminuisce, ma se diminuisce il numerodei conigli c’è meno cibo per le volpi, il cui numero comin-cia così a diminuire; se le volpi diminuiscono, i conigli so-no divorati di meno e il loro numero aumenta; a questopunto le volpi, se trovano più conigli da mangiare, aumen-tano di numero, e il ciclo continua.Quasi contemporaneamente, il grande matematico italianoVito Volterra (1860-1940), professore universitario, acca-demico dei Lincei e senatore del regno, fu incuriosito dauna osservazione fatta dal genero, Umberto D’Ancona(1896-1964), un biologo marino: durante la Prima GuerraMondiale, quando la pesca nell’Adriatico era sospesa, si os-servò un aumento del numero dei pesci predatori e una di-minuzione dei pesci di cui essi si nutrivano (le prede).Ci doveva essere qualche rapporto fra il numero delle pre-de e dei predatori e Volterra raffinò la trattazione di Lotka,elaborando una teoria matematica della “lotta per la vita”.Altri dati sperimentali furono forniti da un giovane studio-so sovietico, Georgii Gause (1910-1986), nei primi anniTrenta del Novecento.Nel frattempo Volterra – uno degli undici professori uni-versitari che non giurarono fedeltà al fascismo – fu privatodella cattedra universitaria ed espulso dall’Accademia dei

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Lincei. Volterra continuò i suoi studi e tenne lezioni a Pa-rigi, dove viveva anche il russo Vladimir Kostitzin, rivolu-zionario in gioventù, poi professore nell’Urss, infine emi-grato in Francia, autore di altri perfezionamenti della teo-ria della lotta per l’esistenza.Nonostante l’odio fascista per Volterra, l’editore Einaudipubblicò nel 1942 un bel libro: La lotta per l’esistenza, incui D’Ancona espone il pensiero e le teorie del suocero an-tifascista ed ebreo, opera ormai rara, ma fondamentale perla comprensione dell’ecologia.Deleage racconta bene la storia e le avventure, fra Europae America, del gran giro cosmopolita di scienziati italiani,francesi, americani, russi, inglesi, delle loro scoperte e con-troversie che avrebbero influenzato lo sviluppo della scien-za “ecologia” del dopoguerraUna anche breve esplorazione della storia dell’ecologiapermette di capire le basi di tutti i fenomeni con cui ci dob-biamo confrontare oggi. Così, l’inquinamento appare comela conseguenza della immissione delle scorie – della vitanaturale e degli oggetti artificiali – in quantità eccessiva ri-spetto alla capacità ricettiva dell’aria e delle acque. E pro-prio la teoria di Volterra spiega che quando gli esseri viven-ti occupano uno spazio inquinato dai propri detriti il loronumero diminuisce, oppure essi si ammalano, proprio co-me accade a noi nell’aria inquinata delle città. Del resto, gliscritti sui “limiti alla crescita”, iniziati con un celebre librodel Club di Roma nel 1972, erano proprio basati su unaestensione delle leggi ecologiche della lotta per la vita.L’ecologia – quella vera, non il chiacchiericcio da salottoche viene spacciato per ecologismo o ambientalismo –

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spiega le ragioni dell’impoverimento dei mari, della rarefa-zione delle specie viventi, della perdita di diversità biologi-ca. E i mutamenti climatici di cui si discute oggi erano sta-ti descritti nei primi decenni del Novecento dal russo Vla-dimir Vernadskij, altro membro del circolo internazionaledi cui parlavo prima.Una buona storia dell’ecologia è (sarebbe) perciò medicinautile per gli amministratori, nazionali o locali, che dovran-no fare i conti con problemi ambientali, ma è in grado difornire anche a molti giovani ecologisti efficaci stimoli perle loro battaglie.

George Perkins Marsh

Nel 1864 appariva negli Stati Uniti il libro L’uomo e la na-

tura, ossia la superficie terrestre modificata per opera

dell’uomo che, come dice l’autore, George Perkins Marsh(1801-1882), descrive “la natura e l’estensione dei cambia-menti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisichedel globo che abitiamo”.Il libro spiega, sulla base di quanto l’autore aveva paziente-mente e attentamente osservato nei suoi viaggi in Ameri-ca, Europa, Asia, Africa, come la vegetazione rappresentil’unica difesa efficace contro le frane e le alluvioni; come ildiboscamento sia l’unica certa origine dei danni e costi chele frane e alluvioni arrecano, come le dune abbiano un ruo-lo essenziale nella difesa degli ecosistemi costieri. Il librocontinua spiegando l’origine dell’innalzamento degli alveidei fiumi – un lungo capitolo è dedicato al Po – e dell’alte-

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razione dei profili delle coste. Il libro offre un grande qua-dro del nostro pianeta, del ruolo degli esseri viventi nelgrande ciclo di vegetali, di animali e di decompositori, uni-ti nell’evoluzione della vita, fino a quando la miopia, l’arro-ganza e l’avidità umana non alterano tali cicli, facendo rica-dere gli effetti negativi su chi li ha provocati, ma anche suchi non li ha provocati e sulle generazioni future.Si ritrovano in queste pagine la descrizione di quanto staavvenendo da decenni in Italia e la ricetta di quanto sareb-be opportuno fare.Marsh era nato a Woodstock, nel Vermont, nel 1801; figliodi un possidente, passò la giovinezza nel piccolo Stato del-la Nuova Inghilterra immerso nei boschi e nelle colline, fa-cendo buoni studi che gli hanno consentito di conosceremolte lingue straniere, oltre al latino e al greco, vivendo inuna casa con una buona biblioteca e circondato da perso-ne di buona cultura, coltivando senza sosta studi di geogra-fia, di filologia e di storia naturale.Ottenne meritati riconoscimenti come intellettuale e uomopubblico, tanto che nel 1849 venne nominato ambasciato-re degli Stati Uniti in Turchia. Marsh raggiunse Costantino-poli con la famiglia dopo un lungo viaggio che lo portò, fral’altro, a Pisa, Firenze, Roma, Napoli e durante il quale in-contrò uomini politici e intellettuali. Da tale viaggio nacqueil suo grande amore per l’Italia e per la Toscana. Tornato inpatria nel 1854, nel 1861 fu nominato ambasciatore degliStati Uniti presso il neonato Regno d’Italia, prima a Torinoe poi a Firenze.I fenomeni naturali che aveva osservato in tante parti delmondo nel corso di molti anni, indussero Marsh a racco-

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gliere tali osservazioni in un libro intitolato Man and Na-

ture; or physical geography as modified by human ac-

tion, di 560 pagine, pubblicato a New York nel 1864. Gliamici italiani sollecitarono l’autore a curare una traduzioneitaliana che fu pubblicata, dopo alcune vicissitudini, nel1870 dall’editore Barbèra di Firenze col titolo L’uomo e la

natura: ossia la superficie terrestre modificata per

opera dell’uomo, un volume di 635 pagine, ristampato nel1872. Non era facile trovare, nelle biblioteche italiane,l’edizione italiana o quelle americane dell’opera di Marsh fi-no a quando, molto opportunamente, nel 1988 l’editoreFranco Angeli di Milano ha pubblicato la ristampa anasta-tica dell’edizione Barbèra del 1872, con una ricca e ampiaintroduzione di Fabienne Vallino. A tale introduzione di127 pagine deve ricorrere chi vuole sapere di più sulla vitadi Marsh e sui suoi rapporti con personalità italiane e stra-niere, specialmente nella seconda metà della sua vita pas-sata in prevalenza fra Roma e la Toscana. Marsh morì a Val-lombrosa, nel luglio 1882, durante una vacanza fra i boschiche tanto gli ricordavano il lontano Vermont. Marsh è se-polto a Roma nel cimitero cosiddetto “degli inglesi”, vicinoalla Piramide Cestia, accanto a Keats e Shelley, e a tanti al-tri, fra cui Labriola e Gramsci. La biblioteca di Marsh, sia laparte rimasta a Burlington, nella casa di famiglia del Ver-mont, sia quella rimasta in Italia, fu venduta e poi donatadall’acquirente all’Università del Vermont.L’influenza di Marsh sulla cultura geografica e naturalisticaè stata enorme. Ne è stato profondamente influenzato Le-wis Mumford (1895-1990) che “riscoprì” Marsh nel 1931con il libro The brown decades. Alla fine della Seconda

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Guerra Mondiale l’azione dell’uomo sulla Terra aveva as-sunto nuovi volti: la contaminazione radioattiva ad operadelle attività nucleari militari e civili, l’esplosione delle cit-tà, l’aumento della popolazione mondiale, gli effetti dellosfruttamento coloniale dei Paesi del “Terzo Mondo”, indus-sero alcuni studiosi a ripensare il tema centrale dell’operadi Marsh. Carl Sauer (1889-1975), Marston Bates (1906-1974), Lewis Mumford e altri decisero allora di tenere aPrinceton, nel 1955, un grande simposio i cui contributi so-no stati raccolti nei due volumi dell’opera curata da WilliamThomas Jr. e intitolata Man’s role in changing the face of

the Earth (Chicago, 1956).Dagli anni Cinquanta del Novecento si sono tenute decinedi conferenze internazionali su quella che, grossolanamen-te, è stata chiamata “ecologia”, ma poche hanno avuto lospirito profetico che ha animato gli studiosi, i geografi, i na-turalisti della fine dell’Ottocento e della metà del Novecen-to: Marsh, Aleksandr Ivanovich Woeikof (1842-1914), Eli-seo Reclus (1830-1905), Paul Vidal de la Blache (1845-1918), Mumford.I problemi descritti da Marsh e quelli analizzati nel 1955sono gli stessi che abbiamo di fronte oggi, anzi aggravatidall’ulteriore aumento della popolazione, dalla crescentescomparsa di boschi e di copertura vegetale, dall’espansio-ne delle aree urbanizzate, dai mutamenti climatici anch’es-si indotti dalle attività umane, come appare dall’analisicondotta da Virginio Bettini e altri nel libro L’uomo cam-

bia la faccia del pianeta. Mezzo secolo dopo il simposio

internazionale “Man’s role in changing the face of the

Earth” (2008).

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La salvezza, o quello che è possibile salvare, per le genera-zioni future, vanno cercati nella diffusione di una culturache analizzi le condizioni dei fiumi e delle valli, che rallen-ti la distruzione dei boschi, che ricominci a imparare la le-zione del moto delle acque. Le pagine, per esempio, in cuiMarsh tratta il problema delle sabbie e delle coste e il ruo-lo delle dune sabbiose, meriterebbero un’attenta lettura,specialmente in questo periodo in cui in Italia esiste unafrenesia per l’apertura di nuovi porti turistici e insediamen-ti costieri.Chi sa che cosa direbbe Marsh se vedesse le coste della suaamata Toscana in cui si fa fatica a trovare le tracce di quel-le dune che ancora esistevano ai suoi tempi, in cui sonostati spianati e cementificati i reticoli di fossi scolmatori ecanali che pure gli ultimi Lorena avevano curato con amo-re? Cosa direbbe delle valli italiane disboscate, in cui ognipioggia più intensa allaga i fondo valle e spazza via case eabitazioni?La cosa più impressionante è che si conoscono esattamen-te i meccanismi con cui “l’opera dell’uomo” modifica la na-tura e la “superficie terrestre” e si conoscono esattamentegli effetti che tali modifiche provocano sulla vita non solodella natura, ma degli stessi esseri umani. Non a casoMarsh aveva proposto per il suo libro il titolo Man, the di-

sturber. Troppo provocatorio per l’editore dell’Ottocento:figurarsi per i nostri contemporanei per i quali il progres-so, l’aumento dell’economia e del Pil possono avvenire sol-tanto “modificando” la natura, considerato compito prima-rio di una società moderna avanzata.

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Garrett Hardin e la parabola della mucca

Immaginate un pascolo, grande ma non illimitato, attraver-sato da un ruscello ricco di acqua fresca e pulita, uno diquei pascoli che possono essere utilizzati da tutti gli abi-tanti del villaggio vicino. In Inghilterra si chiamano benicollettivi, “commons”, in Italia sono beni soggetti a “usi ci-vici”. Qualunque abitante del villaggio può pascolare i pro-pri animali o raccogliere la legna. Una primavera un pasto-re, abitante nel villaggio, porta a pascolare nel prato le suedieci mucche; le mucche passano l’estate al pascolo, trova-no nel ruscello acqua buona e nel prato erba abbondante,si nutrono e producono latte; i loro escrementi cadono sulterreno, vengono assorbiti e forniscono elementi nutritiviper la crescita dell’erba la primavera successiva. Alla finedell’estate sono contenti tutti: il pastore che ha venduto illatte abbondante con un buon guadagno, le mucche chehanno vissuto bene, il pascolo che è pronto a fornire erbaquando tornerà la primavera, il ruscello che ha le sue ac-que ancora incontaminate. Ma si sa come sono gli uomini: durante l’inverno il pastorepensa che potrebbe guadagnare di più se portasse a pasco-lare, come del resto è suo diritto in quanto membro del vil-laggio, cinquanta mucche invece di dieci. E così fa quandoarriva la primavera, ma adesso le mucche sono “troppe”, ri-spetto alla dimensione del pascolo e alla portata del ruscel-lo; il pascolo non fornisce erba sufficiente, anche perché glizoccoli delle mucche pestano e schiacciano l’erba e fannoindurire il terreno; gli escrementi di così tante mucche nonsono più assorbiti dal suolo e ristagnano nel terreno e scor-

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rono verso il ruscello che viene così inquinato e non è piùin grado di fornire acqua da bere.Alle fine dell’estate il pastore ha ottenuto un po’ più latte,ma non certo cinque volte di più dell’anno precedente, edè infelice perché sono sfumate le sue speranze di grandiguadagni; sono scontente le mucche che hanno trovato po-ca erba e poca acqua pulita; è scontentissimo il pascolo lacui fertilità è compromessa e il suolo indurito dagli zoccolidelle mucche ed è infelicissimo anche il ruscello perché lasua acqua è ora sporca. L’avidità del pastore ha fatto sì chela prossima primavera non ci sarà più erba né per cinquan-ta, né per dieci mucche e neanche per le mucche degli al-tri abitanti del villaggio che, come il pastore, hanno dirittoa pascolare nello stesso prato – di proprietà comune, comesi è detto – e neanche per quelle degli abitanti futuri.Si tratta di una parabola, proposta nel 1833 da un certoWilliam Forster Lloyd (1795-1852), un quasi sconosciutodemografo inglese, e “ripescata” da Garrett Hardin (1915-2003), professore di ecologia umana nell’Università dellaCalifornia, in un celebre articolo apparso nel dicembre1968 nella rivista Science.Il pascolo corrisponde alla Terra, un pianeta grande, riccodi beni materiali e di acque, che fornisce tutte le risorsenecessarie alla vita degli umani che hanno tutti uguale di-ritto, in quanto abitanti e “proprietari” del comune piane-ta. Le risorse sono sufficienti e si rinnovano finché gli uma-ni sono pochi e si accontentano di trarre dalla Terra queibeni che si rigenerano nei grandi cicli della natura. Maquando il numero delle persone aumenta, quando aumen-ta la loro avidità di possesso e di vantaggio individuale, ar-

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riva un punto in cui le risorse diventano insufficienti per glioccupanti di oggi e per quelli che verranno e il loro posses-so diventa motivo di competizione e di conflitti. In ecologiasi dice che un territorio, che può anche essere l’intera Ter-ra, grande ma non infinito, ha una capacità ricettiva o por-tante (una “carrying capacity”) limitata per gli esseri vi-venti, umani compresi, e per le loro attività “economiche”.L’articolo di Hardin fu tradotto in tutte le lingue (anche initaliano, su Sapere nel marzo 1969), fu ristampato decinedi volte nelle antologie che circolavano ai tempi della con-testazione ecologica e fu oggetto di roventi dibattiti, ormaidimenticati come è stato dimenticato l’autore. Su questocontroverso ecologo e pensatore, si veda utilmente il sitointernet: www.garretthardinsociety.org. C’è materiale perqualche bella tesi di laurea.La “parabola delle mucche”, il regalo che Hardin ci ha la-sciato, ripreso poi nei suoi numerosi scritti e libri, si prestaa varie interpretazioni. La più banale è che la crisi ambien-tale, lo sfruttamento delle limitate risorse naturali fino alloro impoverimento, dipendono dal numero “eccessivo” diesseri umani. Era la tesi di Thomas Robert Malthus (1766-1834), fortemente contestata da parte cattolica, anche sel’invito ad una paternità responsabile si trova nelle encicli-che Populorum progressio e Humanae vitae.L’altra lettura della parabola riguarda la contestazionedell’“economia”, la quale si basa sulla legge fondamentaledell’aumento della crescita della massa dei beni materialiusati, “consumati”, dagli individui e dalle comunità, espres-sa con quel curioso indicatore che è il “Prodotto InternoLordo”. La crescita economica in un pianeta di dimensione

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e risorse limitate comporta inevitabilmente l’impoverimen-to dei beni naturali disponibili ad altri componenti dellastessa comunità umana (nella parabola l’avidità di un pa-store toglie agli altri pastori la possibilità di usare lo stessopascolo) presente e futura.Una terza lettura riguarda come si può e chi deve regolarel’appropriazione individuale dei beni collettivi, consideran-do che, fino a quando tali beni sono di tutti, il più veloce, oil più “furbo”, o il più prepotente si appropria della maggiorparte e lascia poveri gli altri. Alcuni pensano che soloun’autorità centrale, uno “Stato”, possa e debba deciderequanto, dei beni comuni, ciascun soggetto economico puòottenere; altri pensano che il bene comune collettivo vadadiviso fra vari privati, ciascuno dei quali si comporterà neiconfronti degli altri usando il meccanismo dei prezzi e delmercato.Per farla breve, col povero professor Hardin se la sono pre-sa tutti: i cattolici per le prospettive di controllo della po-polazione, i comunisti per le proposte di liberalizzazionedei beni collettivi a favore del mercato, i conservatori peril pericolo di tentazioni comunistiche. Il che non escludeche Hardin abbia con coraggio descritto e indicato il pro-blema centrale non solo dell’economia e della democrazia,ma del futuro dell’umanità in questo pianeta di dimensionie risorse limitate e di crescente avidità dei suoi abitanti.Forse proprio nella gestione solidale e più giusta delle ri-sorse della Terra, nostra unica casa comune nello spazio,sta la ricetta per sradicare la violenza del terrorismo e del-le guerre e per aiutare l’umanità ad avviarsi verso un ge-nuino sviluppo umano.

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Robinia

Io amo la robinia, una pianta bella, ma anche di grande in-teresse ambientale. Il suo nome botanico esatto è Robinia

pseudoacacia, ma viene comunemente chiamata robinia oimpropriamente acacia per la sua somiglianza con le pian-te del genere Acacia. La robinia è originaria del Nord Ame-rica, forse della Louisiana, negli attuali Stati Uniti, ed è ar-rivata in Europa col flusso di semi di piante strane prove-nienti dal Nuovo Mondo. Carlo Linneo (1707-1778), ilgrande naturalista svedese a cui si deve la classificazionedelle piante, la chiamò così in onore di Jean Robin (1550-1629), erborista e farmacista dei re francesi, che avevaavuto l’incarico di organizzare l’Orto botanico dell’Univer-sità di Parigi. I semi di robinia erano capitati nelle sue ma-ni, pare, nel 1601; Robin li piantò e ne ottenne dei bellissi-mi alberi ornamentali, divenuti in poco tempo di gran mo-da e ben presto diffusi in tutta Europa.In Italia, la robinia fu coltivata per la prima volta già nel1602 nell’Orto botanico di Padova da dove si diffuse in Pie-monte e in Lombardia sia come pianta ornamentale, sia co-me specie forestale. Alessandro Manzoni (1785-1873) in-trodusse la robinia nel giardino della sua bella villa di Bru-suglio in Brianza e ne consigliò l’uso per il rimboschimentoe il consolidamento dei terreni collinari erosi.La robinia ha varie virtù: cresce rapidamente e spontanea-mente, con tronchi diritti che possono superare i 15-20metri di altezza e che raggiungono, in pochi anni, un dia-metro anche di un metro, sviluppando una gran massa difoglie che, per molti mesi, assicurano ombra e una grade-

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vole vista nel periodo in cui si formano grappoli di fioribianchi. Le robinie si prestano bene come piante ornamen-tali nelle città e nei parchi e giardini urbani anche perchéresistono bene all’inquinamento. Con la loro facile diffusio-ne e le radici profonde, rappresentano un economico e si-curo sistema di difesa del suolo contro l’erosione, un pro-blema che riguarda tante zone d’Italia, anche del Mezzo-giorno.Una seconda virtù è costituita dall’elevata resa di biomas-sa. La robinia è una “macchina” solare che cresce molto ra-pidamente fissando la radiazione del Sole per formare ma-teria vegetale: in molti casi, in un ettaro e in un anno si for-mano venti tonnellate di biomassa avente un valore ener-getico equivalente a quello di oltre cinque tonnellate di pe-trolio, e questo anno dopo anno. La terza virtù sta nel fat-to che la robinia è una leguminosa, cioè una pianta capacedi crescere senza bisogno di concimi perché fissa l’azotoatmosferico mediante batteri presenti in speciali nodulinelle radici. I batteri vivono in simbiosi con la pianta: trag-gono dalla pianta le sostanze necessarie alla propria vita e,in cambio, cedono alla pianta molecole organiche azotateche i batteri formano al proprio interno utilizzando l’azoto,gratuito, dell’aria. Piccole, quasi invisibili ma efficientissi-me fabbriche chimiche.Le foglie della robinia hanno, perciò, un elevato contenutodi proteine, dal 200 a 250 grammi per chilogrammo di fo-glie secche, e sono quindi adatte per l’alimentazione delbestiame, inoltre le foglie che restano nel terreno restitui-scono l’azoto al terreno stesso. I fiori della robinia attrag-gono le api che elaborano un miele di qualità, molto buono,

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commercializzato come “miele di robinia” (o di acacia): unettaro di robinieto può dare anche 800 chili di questo mie-le in un anno.Il maggiore interesse è rivolto al legno di robinia che è sta-to ed è usato come combustibile perché brucia bene, conpoco fumo anche quando è ancora umido, e con elevatopotere calorifico. Oltre che come combustibile, tale legno,fra i più duri e resistente agli incendi, è molto ricercato siaper la fabbricazione di mobili, giocattoli di legno, parquet,addirittura case, sia per la trasformazione in pali e traver-sine. In molte zone esiste il problema dello smaltimento ditraversine ferroviarie di legno rese resistenti all’attacco deimicrorganismi per addizione dell’inquinante creosoto; eb-bene i pali e il legname di robinia sono resistenti nel terre-no senza bisogno di alcun trattamento e sono, fra l’altro,utili per le palificazioni nelle miniere. Se la robinia ha tan-te virtù, qualche difetto dovrà pure averlo.Lo scrittore Carlo Emilio Gadda (1893-1973) aveva rim-proverato a Manzoni di aver avuto la malaccorta idea di dif-fondere una così “pungentissima” pianta. Effettivamente lespine del suo fusto sono fastidiose e inoltre la robinia è in-festante; se volete liberarvene farete una certa fatica, per-ché si diffonde in maniera invasiva e anzi soffoca altrepiante e tende a creare dei veri boschi di sole robinie. Levirtù tecniche e commerciali devono però essere prevalen-ti, perché la robinia è diffusa in tutti i Paesi dell’Europacentrale e orientale, dove si stima una presenza di due mi-lioni di esemplari.In Ungheria esiste addirittura un centro di ricerche, “Hun-garobinia”, dedicato alla diffusione delle conoscenze scien-

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tifiche, ma soprattutto applicative, della pianta e del suolegno. Le robinie crescono bene in ambienti molto diversi,anche in montagna, e la loro diffusione si sta estendendoanche in Africa e in altri Paesi. In Italia sono state e sonoabbastanza diffuse, come testimoniano i numerosi alberghie ville che ne portano il nome, anche se attualmente occu-pano appena 150.000 ettari, soprattutto nell’Italia setten-trionale. Un centro di ricerca sulla robinia come potenzia-le fonte energetica esiste a Porano, vicino Roma. Mi chie-do perché una maggiore attenzione a questa pianta non siadedicata in tutto il Mezzogiorno, dove terreni esposti al-l’erosione ce ne sono in abbondanza. Ancora una volta, dacapitoli meno conosciuti del regno vegetale, della biomas-sa “solare”, ci si possono aspettare occasioni di lavoro, evantaggi economici e ambientali.

Sprecare meno natura

Il primo decennio del 2000 è stato caratterizzato da eventimeteorologici (apparentemente) fuori dal comune: siccitàseguite da alluvioni, avanzata dei deserti e allagamento dipianure fertili, diminuzione della superficie e del volume deighiacci considerati “permanenti”. Ciascuno di questi eventiha destato chiacchiere senza fine, ma ben poco si è fatto perdare una risposta a tre domande: si tratta di eventi veramen-te fuori dal comune? In caso affermativo, qual è l’origine? Sele alterazioni derivano da azioni antropiche, ce la farà la Ter-ra a sopportare il “peso” di una popolazione umana crescen-te e di un crescente impoverimento delle risorse naturali?

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La “vita”, quella vegetale e animale e quella “economica”(cioè l’insieme della produzione e dell’uso di beni materia-li e di servizi), è resa possibile da una grande circolazionedi materia e di energia dai corpi della natura – l’aria, le ac-que, il suolo, il sottosuolo – agli esseri viventi, umani com-presi, e da un ritorno, negli stessi corpi della natura, deiprodotti di trasformazione della vita: gas della fotosintesi,delle respirazioni e delle combustioni, rifiuti solidi, eccete-ra. Mentre i cicli della vita vegetale e animale comportanol’emissione di “rifiuti” che vengono riassorbiti dalla naturae addirittura diventano nuove materie “utili” – gli escre-menti animali diventano concime per le colture vegetali,l’anidride carbonica emessa dalle respirazioni animali di-venta materia prima per la fotosintesi dei vegetali –, i ciclidella vita “economica”, la produzione di alimenti industria-li, di metalli, macchine, edifici, eccetera, comporta una sot-trazione di materie dalla natura – sabbia e ghiaia e argillaper i cementi e i laterizi, minerali, sostanze nutritive per ivegetali asportate dal suolo – che non si rigenerano maipiù, e un ritorno nei corpi naturali di scorie spesso non as-similabili, che alterano la qualità delle acque e dell’aria,rendendole meno utilizzabili dalla vita. Producono cioè in-quinamento.Tutto comincia dal Sole che, attraverso la fotosintesi, “fab-brica” ogni anno sui continenti circa cento miliardi di ton-nellate di biomassa vegetale secca: amido, cellulosa, pro-teine, grassi, eccetera. Di questa biomassa, circa cinquemiliardi di tonnellate ogni anno sono utilizzati come mate-rie prime commerciali dall’industria agroalimentare, dallazootecnia, dalle industrie del legno e della carta, della gom-

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ma, dei tessuti, eccetera. Gran parte dei “prodotti” alimen-tari e industriali ritornano abbastanza presto nella natura,ma per lo più come scarti che vengono sepolti nelle disca-riche o bruciati.La grande macchina “economica” che fornisce prodotti di“consumo” – sia pure in quantità e di qualità molto diverseda Paese a Paese – ai quasi 7.000 milioni di abitanti del pia-neta Terra, all’inizio del secondo decennio del 2000, richie-de inoltre, per il suo funzionamento, circa 12 miliardi ditonnellate ogni anno di carbone, petrolio, metano, eccete-ra. Anche questi derivano dal Sole e dal ciclo del carbonio,ma si sono formati centinaia di milioni di anni fa e la natu-ra ce li ha tenuti da parte nel sottosuolo, per ere geologi-che lunghissime: riserve che le nostre società umane stan-no svuotando in pochi secoli per far funzionare macchine eindustrie. E con questo siamo ad una sottrazione di circa17 miliardi di tonnellate all’anno di materiali organici.Gli “alimenti” derivati dal ciclo del carbonio attuale e quel-li fossili, necessari per l’economia, restituiscono nell’atmo-sfera gran parte del loro carbonio sotto forma di anidridecarbonica. Nel caso dei prodotti derivati dall’agricoltura sitratta dell’anidride carbonica sottratta pochi mesi o pochianni prima, ma nel caso dei combustibili fossili – carbone,petrolio, metano – l’anidride carbonica immessa “oggi” nel-l’atmosfera è quella sottratta dall’atmosfera milioni di annifa. Da qui, il graduale aumento della concentrazione del-l’anidride carbonica nell’atmosfera, con conseguente lentograduale riscaldamento della superficie terrestre per effet-to serra e modificazione del clima planetario. La costruzio-ne di macchine, strade, edifici, abitazioni, eccetera, richie-

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de altre materie tratte dalla natura sotto forma di rocce eminerali in quantità che si può stimare di circa venti miliar-di di tonnellate all’anno. Gran parte di questi materiali re-sta immobilizzata negli edifici, nelle fabbriche, nelle strade,per tempi lunghi o lunghissimi.Da questo conto è esclusa l’acqua che attraversa la “tecno-sfera” – case e città, fabbriche, campi, eccetera – in ragio-ne di circa mille miliardi di tonnellate all’anno, prelevatadal flusso continuo di acqua che scorre sulla superficie del-la Terra. L’acqua che esce da ogni casa, fabbrica o campocoltivato e ritorna alla natura è più o meno nella stessaquantità dell’acqua entrata, ma è stata addizionata conagenti chimici, residui di concimi, pesticidi, scorie alimen-tari, polveri, escrementi e la sua qualità – la sua possibilitàdi utilizzazione a fini biologici, e non solo umani e commer-ciali – peggiora. Ogni persona del peso medio di sessantachili “pesa” sulla Terra, movimentando ogni anno quasi seitonnellate di materiali (acqua esclusa, come si è detto). Ce la farà la Terra a sopportare una tale pressione umanasulle risorse naturali? Le società umane potranno soddisfa-re le proprie necessità di beni, di progresso, di sviluppo in-dividuale e sociale, di liberazione dalla povertà, di maggio-re giustizia distributiva, a condizione che tengano contodei precedenti numeri e che modifichino i modi di produr-re e di consumare, adattando i cicli economici a quelli del-la natura, utilizzando energie e materie rinnovabili che ilSole ricostruisce continuamente, depurando i rifiuti primache tornino nei corpi riceventi naturali. Un compito non fa-cile, ma che alcuni Paesi stanno già adottando; la storiamostra che quando le società umane hanno dovuto cam-

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biare le proprie abitudini, non sono diventate più povere,ma anzi hanno migliorato le proprie condizioni, con mino-re “spreco di natura”. Un compito che richiede ai gover-nanti e ai cittadini lungimiranza, coraggio e solidarietà.

Agosto torrido: commerci e clima

Davanti ai sempre più frequenti e vistosi segni di bizzarriedel clima ci sono due scuole di pensiero; alcuni ritengonoche ciò dipenda da un lento continuo riscaldamento plane-tario dovuto all’immissione nell’atmosfera di gas a “effettoserra” da parte delle attività umane di produzione e di con-sumo; altri ritengono che in certe stagioni ci sia stato dasempre “un gran caldo” e in altre “un gran freddo”, indi-pendentemente dal numero di automobili, dal consumo dicarbone e petrolio, dalla distruzione delle foreste, dal nu-mero delle mucche che, con il metano che emettono du-rante il metabolismo, alterano l’equilibrio energetico delpianeta, insomma dal lodato e vituperato Prodotto InternoLordo. Chi avrà ragione?La storia delle modificazioni umane della superficie del pia-neta ha interessato, fortunatamente, molti studiosi. Citeròsoltanto l’americano George Marsh, autore del famoso libroL’uomo e la natura, ossia la superficie terrestre modifi-

cata per opera dell’uomo e gli atti di un convegno sullemodificazioni della Terra ad opera dell’uomo, pubblicati aChicago a cura di William Thomas Jr. nel 1956, un tema ri-preso nel 2008 dal geografo Virginio Bettini, nel volumeL’uomo cambia la faccia del pianeta. Mezzo secolo dopo

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il simposio internazionale “Man’s role in changing the

face of the Earth”. Un interessante contributo al dibattitosui rapporti fra attività umane e clima è contenuto nel librodi Mike Davis Olocausti tardovittoriani. El Niño, le care-

stie e la nascita del Terzo Mondo, pubblicato da Feltrinel-li nel 2002. L’autore è uno storico e geografo americano, au-tore, fra l’altro, di due libri sulla crescita e fragilità di LosAngeles, La città di quarzo (manifestolibri), e Geografia

della paura (Feltrinelli).In Olocausti tardovittoriani, Davis passa in rassegna lecause delle carestie, della fame e dei relativi olocausti chehanno colpito l’Asia, specialmente l’India e la Cina, ma an-che l’Africa e il Sud America, nella seconda metà dell’Otto-cento, dominato dalla grande regina Vittoria che ha regna-to sull’Inghilterra e sul suo grande impero coloniale dal1837 al 1901, quasi un secolo, appunto, quello “vittoriano”.Anche quelle carestie sono state provocate dal bruscocambiamento delle secolari successioni di piogge e di pe-riodi secchi, a sua volta dovuto contemporaneamente, siaa fenomeni “naturali”, sia a profonde modificazioni dellecondizioni del suolo provocate dai cambiamenti delle colti-vazioni agricole e della copertura vegetale e forestale. Frai fenomeni “naturali”, un ruolo importante hanno le oscilla-zioni della temperatura degli oceani centrali e meridionalicon conseguenti alterazioni del ciclo dei monsoni, attribui-te all’influenza delle oscillazioni periodiche (ogni undicianni) dell’intensità e del numero delle macchie solari. Talioscillazioni si verificano verso Natale e possono essere ver-so il “caldo” (El Niño) o verso il “freddo” (La Niña).I rapporti fra commerci e clima sono ben illustrati dal caso

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dell’India, colonia dell’Impero britannico per tutto l’Otto-cento, i cui governatori avevano “il dovere” di trarre dallacolonia le merci, fra cui il cotone e l’indaco, in grado di as-sicurare i massimi profitti, in patria, all’industria manifat-turiera. L’industria britannica esportava poi i tessuti, otte-nuti dalle materie prime indiane, ad alto prezzo nella stes-sa India e nelle altre colonie, impoverendo e facendo inde-bitare gli abitanti, i quali avevano sempre meno denaro peracquistare anche un minimo di alimenti. Si realizzava così,in aggiunta ai mutamenti climatici “naturali”, la spirale per-versa: sfruttamento del suolo per sostituire i prodotti agri-coli alimentari con quelli da esportare in Inghilterra a bas-so prezzo, diminuzione delle rese e dei raccolti di prodottialimentari e aumento dei relativi prezzi e conseguenti ca-restie; importazioni ad alto prezzo di manufatti dall’Inghil-terra, diminuzione del denaro disponibile per acquistareprodotti alimentari, pressione per aumentare i redditi deicontadini con la crescente produzione e vendita di prodot-ti industriali, e così via. Questo è il capitalismo.Una situazione aggravata da pessimi, corrotti e soprattuttostupidi amministratori inglesi e locali, da una spietata stra-tificazione di classe con la complicità dei grandi proprieta-ri terrieri con i governanti britannici. Il tutto pagato dalproletariato con milioni di morti. Ma anche la produzionedel cotone indiano entrò in crisi: a partire dal 1873, finitala Guerra di Secessione (1861-1865), dagli Stati Uniti arri-varono in Europa grandi quantità di cotone a basso prezzo;crollato il prezzo internazionale del cotone, i proprietariterrieri delle colonie guadagnarono un po’ di meno, ma icontadini videro calare il già scarso reddito, dovettero af-

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frontare maggiori costi dei prodotti alimentari e si trovaro-no di fronte ad una terra impoverita. Un simile destino furiservato alla coltivazione dello zucchero e, in India alla fi-ne del secolo, a quella dell’indaco che l’industria chimicariuscì a sostituire con coloranti sintetici e addirittura, allafine dell’Ottocento, con lo stesso indaco sintetico.I governatori imperiali sono andati via, le colonie hanno ac-quistato una libertà politica, ma le regole che preparano emoltiplicano i disastri climatici sono ancora le stesse, anzisi sono estese a livello mondiale. Questa è la globalizzazio-ne. Nei tempi “vittoriani” c’era un “mondo” di poveri e po-verissimi sfruttato che subiva le conseguenze dei disastriecologici provocati dai colonizzatori, adesso esiste un solomondo che distrugge se stesso e gli altri, con un Sud delmondo che cerca di assimilare più rapidamente possibile imodelli di consumi e di distruzione ecologica dei Paesi delNord del mondo. Chi ci salverà?

Io amo la ginestra

Oltre ad amare la robinia, amo anche la ginestra che si tro-va, con i suoi arbusti spontanei perenni, nelle valli italianee specialmente nel Mezzogiorno, dove un mare di fiori gial-li accoglie, da maggio a ottobre, i viaggiatori. Sembra che ilSole, dopo aver fatto crescere la pianta, abbia voluto offri-re una fonte di energia e di materie prime rinnovabili, pro-prio sulla porta di casa e, per sovrappiù, aggiungere i caro-tinoidi per rendere ancora più belli e splendenti i suoi fio-ri, e un attraente profumo.

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Il principale genere di ginestra diffuso in Italia ha il nomebotanico Spartium junceum. La ginestra è citata dal bo-tanico greco Teofrasto (371-187 avanti Cristo) e dal natu-ralista romano Plinio (23-79 dopo Cristo) il quale addirit-tura credeva che le ceneri della pianta contenessero oro,chi sa?, forse ispirato dal colore oro dei fiori. La ginestra hamolte virtù ecologiche, per esempio, è una leguminosa ecome tale cresce fissando direttamente l’azoto atmosferi-co, senza bisogno di apporto di concimi azotati sintetici.La ginestra, con le sue radici, ha un effetto stabilizzantesulle scarpate e sui pendii e fornisce un contributo direttoe gratuito alla difesa del suolo contro l’erosione che conti-nua a distruggere ricchezza, provocando frane e alluvioni.Almeno una parte dei costi e dei dolori provocati dalle fra-ne e dalle alluvioni, specialmente nel Mezzogiorno, avreb-bero potuto e potrebbero essere evitati se si ricoprissero ipendii con le piante che trattengono il suolo, come appun-to la ginestra o la robinia. La ginestra è un’interessantefonte di fibre tessili naturali rinnovabili: i Fenici, i Cartagi-nesi, i Greci e i Romani avevano capito che i suoi steli po-tevano essere utilizzati per realizzare canestri e che pote-vano fornire una fibra tessile adatta per intrecciare corde;negli scavi di Pompei sono stati trovati degli stoppini perlucerne fatti con fibre di ginestra.L’utilizzo degli steli delle ginestre a fini tessili è però rima-sta circoscritta per molti secoli a livello artigianale e fami-liare, anche se fibre di ginestra sono state presentate allaFiera Campionaria di Napoli del 1821, alle Esposizioni diFirenze e di Napoli del 1850, 1857, 1864 e a quella di Pari-gi del 1878. L’interesse per le fibre di ginestra è aumenta-

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to nel periodo dell’autarchia fascista perché potevano so-stituire, per la produzione di tele, corde e sacchi, le fibre diiuta che dovevano essere importate. Negli anni Trenta delNovecento furono approfondite le conoscenze sulla colti-vazione della ginestra e furono perfezionati i sistemi di pro-duzione delle fibre. Nel 1940 funzionavano una sessantinadi ginestrifici, soprattutto in Toscana, con una produzionedi 700.000 tonnellate all’anno.Dopo la Liberazione, sono tornate disponibili le fibre di iu-ta di importazione e subito dopo c’è stato l’avvento delle fi-bre sintetiche che hanno oscurato l’interesse per le fibre diginestra, la cui produzione è sopravvissuta su piccola sca-la in poche comunità della Basilicata e della Calabria. Mu-sei della lavorazione della ginestra si possono visitare aLongobucco (Cosenza) e a San Paolo Albanese (Potenza),a testimonianza del lavoro di molte generazioni con questefibre. La nuova attenzione “ecologica” per le fibre naturalirinnovabili ha spinto molti studiosi, anche in Italia, a risco-prire quanto era noto sulla produzione delle fibre di gine-stra e sui suoi usi.Le fibre di ginestra si ottengono dai rami nuovi, o al più diuno o due anni, detti “verbene”. Le verbene devono esseresottoposte ad un processo di macerazione per decomporrele sostanze pectiche che tengono “incollate” fra loro le fi-bre, le quali, dopo la macerazione, vengono staccate pertrattamento meccanico. Si ottengono circa cinque chili difibre da cento chili di verbene, la cui resa arriva a dieci ton-nellate per ettaro; come sottoprodotto si ottiene un mate-riale adatto per la produzione della carta. Siamo quindi difronte ad un sistema integrato che consente la difesa del

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suolo e la produzione di fibre tessili e carta. Le fibre di gi-nestra sono state utilizzate in molti campi industriali chevanno da pannelli isolanti, a componenti delle carrozzeriedi automobili. È in corso una nuova attenzione della modaper oggetti “ecologici” a base di ginestra, come scarpe, bor-se, tessuti. Con i perfezionamenti tecnici già disponibili econ quelli che possono essere sviluppati, la ginestra puòavere un ruolo economico e merceologico importante, conprospettive di occupazione nel Mezzogiorno.Non sono certo il solo ad amare e ammirare la ginestra:Giacomo Leopardi (1798-1837) nel 1836 osservandola sul-le falde del Vesuvio le ha dedicato una celebre poesia,”ecologica” anch’essa: “Tu, lenta ginestra/che di selve odo-rate/ queste campagne dispogliate adorni”, riconoscendo lapaziente resistenza della pianta nelle condizioni avverse diun’arida natura, nel nome della forza della vita. E Gabrieled’Annunzio (1863-1938) nella poesia “La pioggia nel pine-to” chiama le ginestre “fulgenti /di fiori accolti”. La ginestradeve essere stata amata anche da tutti gli abitanti delle val-li italiane, poiché se ne trova così diffuso il nome in tantipaesi e villaggi. Un nome tristemente noto è quello di Por-tella della Ginestra in provincia di Palermo, l’altopiano incui i banditi di Salvatore Giuliano tesero un agguato ai con-tadini che celebravano pacificamente e festosamente il pri-mo maggio del 1947, uccidendone undici, fra cui due bam-bini. Gli altri sono nomi gioiosi come quelli di due paesi inprovincia di Benevento e di Potenza, di Ginestra degliSchiavoni anch’essa in provincia di Benevento, del torren-te Ginestra nel bacino idrografico del Calore, eccetera.

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La virtu’ della solidarieta’à

La sete in Italia e nel mondo aumenta sempre per la con-comitanza di vari eventi. Da alcuni decenni sono in corso mutamenti climatici chehanno fatto diminuire le piogge; apparentemente la quan-tità totale di pioggia diminuisce di poco, ma il caratteredelle piogge, spesso intense ma concentrate in brevi perio-di, impedisce la ricarica con acqua dolce delle falde sotter-ranee e dei laghi artificiali. Un secondo importante eventoriguarda le migliorate condizioni di vita delle popolazioni,un evento da salutare con gioia, senza dubbio, ma checomporta crescenti richieste di acqua che deve essere sot-tratta da riserve – fiumi, falde sotterranee, laghi naturali elaghi artificiali – che sono limitate. Un terzo aspetto riguar-da la svolta culturale e politica degli ultimi anni: la diffusio-ne della cultura degli affari finanziari e del libero mercatofa guardare con fastidio ad una pianificazione da parte del-lo Stato, anche quando si tratta di risorse naturali colletti-

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Acqua

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ve ed essenziali come l’acqua. Anzi, “pianificazione” è di-ventata una parolaccia.Il libero mercato può andare bene per le imprese che pro-ducono merci e servizi, le quali possono acquistare mate-rie prime – agricole, energetiche, minerarie, forestali, ma-no d’opera, tecnici – dove si trovano abbondanti (finchédurano) e a basso prezzo, in qualsiasi parte del globo, mail libero mercato fallisce quando una comunità può fare iconti soltanto con le risorse locali, come l’acqua. Le impre-se possono acquistare plastica o petrolio o pellami in Rus-sia, nel Sud Africa o in Argentina, ma la comunità italianapuò trarre acqua soltanto dalle riserve che la natura gli as-sicura nel suo territorio o a non grande distanza.Questo lo sapevano già nell’Ottocento, quando i governinazionali decisero, con una pianificazione nazionale, dichiedere alla Campania di rinunciare ad una parte dellesue acque per dissetare la Puglia attraverso il gigantescoAcquedotto Pugliese; lo sapevano gli economisti di mezzosecolo fa quando hanno deciso di creare in Puglia, Basilica-ta e Molise, una serie di laghi artificiali che avrebbero do-vuto essere collegati fra loro per raccogliere razionalmen-te ogni goccia di pioggia utilizzabile per le città e i campi.Lo sapeva il Parlamento, negli ultimi anni prima della trion-fale pressione del libero mercato, quando varò, nel 1989, lalegge n. 183 che stabiliva l’amministrazione delle acque se-condo i bacini idrografici.L’acqua di ciascun fiume non è di proprietà delle regioni at-traversate dal fiume, ma di tutti gli abitanti che gravitanonel bacino idrografico del fiume, dalle sorgenti al mare, val-li e affluenti compresi. La “183” era basata sul principio di

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solidarietà: le autorità di ciascun bacino idrografico, dopoaver redatto degli accurati inventari (che non sono maistati fatti) delle disponibilità idriche, avrebbero dovuto sta-bilire come distribuire quest’acqua, come renderne dispo-nibili le eccedenze ai bacini idrografici vicini. La “183” sta-biliva inoltre che ciascuna autorità di bacino avrebbe dovu-to realizzare opere per regolamentare il deflusso (irregola-re nel tempo e scarso) delle acque attraverso la pianifica-zione (sono parole di tale legge) di opere per la difesa delsuolo e per il rimboschimento.Non si potrà mai cancellare la sete dalle case, soprattuttodel Mezzogiorno, fino a quando non si farà un “piano” ba-sato sulla conoscenza di quanta acqua è disponibile, di co-me viene usata, di come si possono aumentare (sia pure dipoco) le disponibilità, almeno regolando la corsa dellepiogge verso il mare, piano basato su una coraggiosa com-partecipazione delle risorse idriche esistenti fra regioni vi-cine.La solidarietà è la chiave per la soluzione del problema. So-lidarietà significa, intanto, revisione e correzione degli er-rori compiuti, dei laghi artificiali lasciati abbandonati e di-ventati depositi di fango, significa volontà delle autorità digoverno, locali e nazionali, di superare le logiche municipa-li e di decidere di lavorare con gli enti vicini o lontani in uncomune servizio civile per la comunità. Solidarietà signifi-ca spiegare a tutti i cittadini, cominciando nelle scuole, chel’acqua è scarsa non solo nei villaggi sperduti o nei mesiestivi; che bisogna consumare meno acqua possibile: ognimetro cubo sprecato nelle case, nei bagni, nelle fontane aperdere, è acqua “tolta” a qualche altra persona, da qual-

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che parte. Perché l’acqua circola nel corpo fisico di ciascu-na regione e dell’intero Paese come il sangue circola nelcorpo umano; ogni rubinetto, ogni persona, è legato alla vi-ta di un’altra persona.Oggi, in una società basata sull’ideologia del consumo edello spreco, può sembrare fuori luogo parlare di un’eticadel “consumare di meno”, del limitare i consumi, eppurechi visita molti Paesi della Terra, a cominciare dagli stessiStati Uniti, vede spesso avvisi o pubblicità o francobolli chericordano che l’acqua è scarsa e preziosa e se ne deve con-sumare il meno possibile. “Save water”, risparmiate l’ac-qua, avverte un dirigibile che percorre il cielo di alcunegrandi città americane. Senza contare che la progettazionedi rubinetti, docce, gabinetti, capaci di svolgere la stessafunzione consumando meno acqua, potrebbe stimolare in-venzioni, innovazioni e nuove attività produttive e occasio-ni di lavoro.

L’acqua intorno a noi

Un bel tema per gli studenti di tutte le scuole potrebbe es-sere: “Spiegate da dove viene l’acqua che esce (quandoesce) dal rubinetto di casa vostra”. Un tema che, a mio mo-desto parere, potrebbe stimolare lo studente appassionatodi storia a ricordare quel Frontino che descrisse gli acque-dotti della città di Roma, a ricordare la nascita dell’indu-strializzazione italiana ai piedi delle Alpi e dei ghiacciai, lecui acque furono raccolte nei laghi artificiali che generava-no anche energia; lo studente appassionato di geografia a

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ricordare come la California è diventata il giardino dellafrutta e del cinema grazie a un gigantesco acquedotto cheporta l’acqua dal fiume Sacramento, a nord, a San Diego, fi-no a sud, a ottocento chilometri di distanza.E lo studente appassionato di storia politica potrebbe util-mente ricordare come la miopia e l’avidità siano state ca-paci di trasformare, nel 1963, l’acqua del lago artificiale delVajont in un veicolo di morte e come un quarto (un terzonell’Italia meridionale) dell’acqua prelevata dal sottosuolo,dai laghi artificiali e dalle sorgenti vada “perduta” per gua-sti negli acquedotti o per mancanza di acquedotti.Pochi conti mostrano che l’acqua in Italia è scarsa in asso-luto: sulla superficie del nostro Paese cadono circa 300 mi-liardi di metri cubi di acqua all’anno, circa. Il “circa” è d’ob-bligo perché ci sono gravi carenze nei servizi meteorologi-ci; una volta, pazientemente, sul tetto di grandi e piccolicomuni, in molte scuole, negli aeroporti, veniva misuratadiligentemente la quantità di acqua piovana. Le apparec-chiature sono relativamente semplici: una sorta di imbutidi superficie determinata, che raccolgono l’acqua, avviatapoi ad una bottiglia. La difficoltà sta nel trovare migliaia dipersone che ogni giorno, domeniche comprese, misurinocon precisione la quantità di acqua raccolta nella bottiglia.Naturalmente ci sono strumenti più raffinati e automatici,ma sono proprio quelli più rudimentali che usati, ripeto,con pazienza e diligenza, ben distribuiti nel territorio, con-sentono di rilevare le bizzarrie delle piogge e permettonodi avere dati statistici accurati.Dell’acqua piovana, circa la metà va perduta per evapora-zione; restano, sul territorio nazionale, circa 150 miliardi di

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metri cubi all’anno che vengono assorbiti, all’incirca (an-che qui la mancanza di statistiche accurate è drammatica),per 10 miliardi di metri cubi all’anno dalle comunità urba-ne, per circa 40 miliardi di metri cubi all’anno dall’agricol-tura, e per una quantità stimabile in circa 10 miliardi di me-tri cubi all’anno dalle industrie.L’acqua impiegata per l’irrigazione dei campi in parte vieneincorporata nei raccolti, ma per la maggior parte evapora ova a raggiungere le falde idriche del sottosuolo da cui tor-na al mare. Per farla breve: per una via o per l’altra circa150 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno in Italia tor-nano al mare scorrendo sul suolo o nel sottosuolo e, alla fi-ne, attraverso laghi e fiumi.L’acqua attraversa i sistemi umani – le abitazioni, le città, icampi, le fabbriche, eccetera – senza scomparire, ad ecce-zione di quella che evapora e ritorna nell’atmosfera. Lamaggior parte passa senza perdere il suo carattere di “ac-ca-due-o”, e prosegue il cammino, dopo l’uso, addizionata,però, di molte sostanze che essa discioglie, essendo dotatadi eccezionali proprietà di solvente. Per guardare meglioquesta storia naturale dell’acqua, proviamo a seguire il suociclo attraverso la vita quotidiana.Cominciamo con il bagno e la doccia. L’acqua viene impie-gata per sciogliere il sapone che asporta lo sporco dalcorpo; si forma una soluzione schiumosa, ma non moltosporca, che continua il suo cammino giù dal lavandino odalla vasca da bagno. Andremo a raggiungerla fra poco. Incucina l’acqua è usata per lavare le verdure, per cuocerela pasta, per bere: l’acqua usata per lavare le verdure por-ta con sé in sospensione poche sostanze, quelle che ade-

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rivano alla superficie delle foglie o dei frutti e, col suo purlimitato carico di sostanze estranee, viene buttata giù dalsecchiaio.L’acqua in cui è stata fatta cuocere la pasta contiene quelpoco di amido che la pasta rilascia e anche l’acqua di cot-tura per lo più va perduta giù dal secchiaio; nel secchiaio enegli scarichi va a finire anche l’acqua delle lavatrici, colsuo carico di detersivi e di sostanze estranee.L’acqua è usata come bevanda, circa un litro al giorno perpersona. Anche se l’acqua del rubinetto è fresca e di buo-na qualità, la società dei consumi spinge i cittadini italiania comprare e bere ogni anno 12 milioni di metri cubi di ac-qua in bottiglia, acqua che viaggia in bottiglie di vetro o diplastica, su camion o vagoni ferroviari, dalla Basilicata alTrentino e dal Trentino alla Toscana e dalla Toscana al Pie-monte, acqua pubblica, della collettività, che dovrebbe es-sere avviata agli acquedotti pubblici piuttosto che conces-sa alle imprese private.L’acqua che è stata assorbita con il cibo da ciascuna perso-na, in parte viene perduta con la respirazione, in parte colsudore e in parte ha un destino più prosaico e finisce nel ga-binetto sotto forma di escrementi liquidi o solidi. Pratica-mente tutta l’acqua che entra in un sistema umano – è unecosistema anche una casa o una fabbrica – sopravvive co-me acqua, praticamente nella stessa quantità, ma con uncontenuto più o meno rilevante di sostanze estranee di-sciolte o in sospensione. Se, con un po’ di fantasia, immagi-nassimo di seguire il moto dell’acqua scaricata nel lavandi-no, nel secchiaio o nel gabinetto, ci troveremmo dentro ungigantesco flusso di acque usate che confluisce in condotte

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più grandi, in fognature (dove esistono) e da qui in impian-ti di trattamento o depurazione (dove esistono) e infinequesto grande fiume di “acque usate” finisce nel mare.L’acqua che attraversa l’ecosistema urbano si può immagi-nare divisa in tre flussi: l’acqua piovana che cade sulle stra-de e che è poco contaminata; le “acque bianche”, prove-nienti dai lavandini o dalle docce, addizionate con poco de-tersivo; le “acque nere” provenienti dai gabinetti e moltopiù contaminate.È un puro delitto lasciare che questa grande massa di ac-qua vada persa. Una parte delle acque usate subisce qual-che trattamento essenzialmente per evitare l’inquinamen-to dei corpi riceventi – fiumi o mare – ma molto di più sipuò fare per recuperare gran parte dell’acqua presente neiflussi prima indicati e tali tecniche consentono di ottenereacqua adatta per lavare le strade, per irrigazione o per raf-freddamento di impianti industriali. I processi di tratta-mento delle acque usate possono essere progettati e sceltia seconda della qualità “merceologica” dell’acqua da depu-rare e possono dare acqua depurata adatta per molti degliusi nei quali adesso viene usata acqua rara e preziosa.È assurdo lavare le strade o annaffiare i giardini con la co-stosa acqua trasportata talvolta da centinaia di chilometri didistanza, dotata di caratteristiche igieniche di altissima qua-lità, essendo destinata ad usi igienici e alimentari. Così comeè assurdo usare acqua potabile di alta qualità igienica, costo-sa e sottratta ad altre regioni, per lo scarico dei gabinetti. Sa-rà il caso di cominciare anche in Italia, almeno nelle nuovecase, a predisporre una doppia rete di distribuzione dell’ac-qua, una alimentata con acqua di buona qualità per usi ali-

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mentari e igienici e un’altra, che potrebbe anche essere ali-mentata con acqua di recupero, per i gabinetti.

Guerre per l’acqua

Fin dai tempi più antichi, le comunità umane si sono inse-diate vicino all’acqua; l’acqua era essenziale per bere, perl’igiene, per irrigare i campi, per smaltire i rifiuti. Le anti-che civiltà sono state civiltà dei fiumi: del Nilo, del Tigri edell’Eufrate, del Fiume giallo e, in tempi relativamente re-centi, del Tevere e del Giordano.I fiumi sono vie di comunicazione fra l’interno e il mare e illoro controllo politico e militare è essenziale per la soprav-vivenza dei poteri economici. D’altra parte, nei conflitti fraPaesi vicini i confini sono stati tracciati proprio lungo i fiu-mi, perché sono facilmente difendibili contro un’invasione,permettono di riscuotere i dazi commerciali e frenano ilcontrabbando e le migrazioni ostili.Una situazione che si vede bene in Italia e nella Val Padana,dove il Ticino è stato per secoli il confine fra il regno del Pie-monte e gli occupanti della Lombardia; l’Adda fra i padronidella Lombardia e la libera repubblica di Venezia. Renzoscappa dalle angherie degli spagnoli a Milano varcando clan-destinamente l’Adda per cercare sotto la Repubblica un la-voro libero e tornare poi alla sposa promessa. E il sogno delRisorgimento è stato quello di riunificare l’Italia divisa daiconfini artificiali degli Stati creati dagli stranieri. “Sofferma-ti sull’arida sponda/volti i guardi al varcato Ticino/han giura-to: non fia che quest’onda/scorra più fra due rive straniere”.

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D’altra parte, poco prima, uno dei primi atti della rivoluzio-ne è stata la divisione del territorio francese in dipartimen-ti che prendevano il nome dal fiume principale. Fiumi e ac-que che uniscono in solidarietà i popoli che vivono in unbacino idrografico, ma che sono diventati motivi semprepiù spesso di tensioni e conflitti, a mano a mano che unapopolazione in aumento gravava su un fiume e si voleva ap-propriare delle sue acque, e a mano a mano che l’acqua di-ventava scarsa o inquinata.Gli organismi internazionali cercano di stabilire accordi perregolare i prelievi delle acque dei fiumi che attraversanovari Paesi, per frenare gli inquinamenti che fanno sentire iloro effetti nei Paesi a valle. Anche una legge italiana pre-vede che i bacini idrografici debbano essere governati daautorità, le quali dovrebbero prendere decisioni al di là de-gli egoismi delle regioni entro i cui confini scorrono le ac-que dello stesso fiume.Purtroppo, l’egoismo prevale sempre e in alcune zone por-ta a vere e proprie guerre, tanto che si stanno moltiplican-do i libri che parlano di “guerre dell’acqua”. Due libri re-centi, pubblicati in inglese, uno di Vandana Shiva e uno diMarq de Villiers, hanno lo stesso titolo: Water Wars.Il caso più noto è quello delle acque del Giordano, dove Ge-sù ha predicato la pace e che ora sono contese con un in-finito conflitto da Israele, dai palestinesi, da Siria, Giorda-nia e Libano. Le acque del Tigri-Eufrate, in cui si specchia-vano la favolosa Babilonia e la Bagdad dei Califfi, sono con-tese fra Turchia, Iraq e Siria. Su tali acque, oltre che sul pe-trolio, incombono le terribili ombre della guerra. Altrettan-to drammatica è la situazione dei fiumi africani, tutti inter-

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nazionali; ciascun Paese, sul “suo” pezzo di fiume vuole fa-re quello che gli pare: costruire dighe per produrre elettri-cità e per l’irrigazione, con la conseguenza di togliere ac-qua ai Paesi che si trovano a valle.Il Rio Grande fa da confine per centinaia di chilometri fragli Stati Uniti e il Messico e ciascun Paese rivendica dei di-ritti su una parte delle sue acque. Si pensi poi ai grandi fiu-mi internazionali dell’America meridionale. Talvolta, comenel caso di Israele e dell’Africa, siamo di fronte a vere eproprie guerre; in altri casi a contese forse non militari, maaltrettanto dolorose per le popolazioni.In Asia le acque del fiume Mekong “appartengono” a Viet-nam, Cambogia, Thailandia, Myanmar, Cina. E invece le ac-que di un fiume o di un bacino idrografico non appartengo-no a nessuno, sono beni collettivi, sono il “bene comune”per eccellenza. Lo ripete, al primo punto, il manifesto perun “contratto mondiale” dell’acqua. Proprio i fiumi sono – dovrebbero essere –- la prima scuo-la e palestra di solidarietà; proprio il carattere dell’acquache si muove continuamente da un posto all’altro, da unPaese all’altro, dovrebbe spingere le persone ad unirsi perusare insieme questo bene. Eppure, neanche i Paesi svi-luppati, neanche la nostra stessa Italia, sono esenti da con-flitti sull’acqua. Non si tratta di guerre, ma di controversiesenza fine: fra Basilicata e Puglia, fra Puglia e Molise eCampania, regioni e popolazioni unite e divise dalla stessaacqua che è scarsa.E che minaccia di diventare sempre più scarsa in futuro: imutamenti climatici di cui siamo testimoni renderanno infuturo l’acqua sempre più difficile da governare. L’acqua

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talvolta è scarsa al punto da rendere asciutti i laghi e inari-dire i campi, poi improvvisamente violenta e nemica, alpunto da spazzare le valli, portando nei fiumi i detriti del-l’erosione e allagando campi e città.Acqua amica e acqua nemica, suscettibile di diventare piùamica, più veicolo di solidarietà se cresce la comprensionedelle sue leggi. Vorrei concludere con la proposta di distri-buire nelle scuole delle carte geografiche in cui, al postodei (o “sopra”) i confini politici e le strade, fossero traccia-ti i confini dei bacini idrografici, insieme a dei quaderni chespieghino come l’acqua si muove sul suolo, come ha biso-gno di spazio per espandersi quando è abbondante e velo-ce, come può e deve essere usata con cautela. Molti annifa, negli Stati Uniti si tenne una conferenza intitolata pro-prio “Acqua per la pace”. Mai come adesso dall’acqua di-pende la pace fra i popoli.

Il costo in acqua delle merci

Le alterazioni dell’ambiente, che si manifestano sotto for-ma di mutamenti climatici, inquinamenti, erosione del suo-lo e alluvioni, hanno la comune origine nell’aumento deiconsumi di beni fisici e nell’errata progettazione e scelta ditali beni materiali, delle merci.Qualsiasi merce, dagli alimenti, ai metalli, alle macchine, aitessuti, eccetera, arriva nei negozi e nelle nostre case do-po un lungo cammino che comincia dalla natura, il grandeserbatoio di prodotti agricoli e forestali, minerali, idrocar-buri, acqua, passa attraverso dei processi di trasformazio-

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ne e alla fine fornisce quello che noi acquistiamo: frigorife-ri e scarpe, scatolette di carne e acqua in bottiglia e infini-te altre cose. Nel corso dei processi di produzione e di usodelle merci, una parte delle materie entrate in ciclo ritornanei corpi riceventi naturali – acqua, suolo, aria – sotto for-ma di scorie e rifiuti.In questa grande circolazione, “natura-merci-natura”, le ri-serve di risorse naturali, dai minerali al petrolio alle faldeidriche, risultano impoverite e la qualità delle acque e del-l’aria e del suolo “peggiora”, per la contaminazione con i ri-fiuti. Esposta in questi termini, la situazione potrebbe sem-brare disperata e potrebbe indurre a raccomandare una ri-duzione dei consumi di beni materiali; se una revisione deiconsumi è pure necessaria, una via di salvezza va cercataanche in una revisione della “qualità” delle merci, in nuovimetodi di progettazione dei processi e degli oggetti.Qualche segnale di speranza arriva. Per motivi economici,oltre che ecologici, un numero crescente di imprese ha de-ciso di progettare oggetti con più bassi consumi di energiaper unità di peso o per unità di servizio. Autoveicoli di nuo-va concezione permettono ad una persona di percorrereun chilometro consumando la metà dell’energia rispetto al1990; è possibile fare il bucato con meno energia e acquarispetto a dieci anni fa, lavando altrettanto bene. Adattescelte delle materie prime e innovazioni tecnico-scientifi-che consentono di ridurre il peso di agenti inquinanti im-messi nelle acque o nell’aria e quindi di ridurre i costi diproduzione.Per guidare queste innovazioni occorrono nuovi indicatoridel valore; al di là del valore monetario, è ora necessario

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identificare per ciascun prodotto o processo un “valore” inunità fisiche, espresso, per esempio, sulla base della quan-tità di energia o acqua o minerali necessaria per ottenereun’unità di peso di un oggetto o un’unità di servizio.C’è, per fortuna, un crescente interesse per questi proble-mi. Il consumo di energia per unità di merce prodotta è untema a cui molti studiosi di merceologia si sono a lungo de-dicati. Alcuni studiosi hanno esaminato quanto si sa sul“consumo” di acqua per ottenere una tonnellata di patateo di carne o di acciaio o per lavare cinque chili di bucato:acqua che viene estratta dalle sorgenti, dai fiumi e dallefalde del sottosuolo ed entra in un grande sistema di reti didistribuzione che consentono di farla arrivare nelle casedelle persone, nei campi e nelle fabbriche. Progettare le merci diversamente e in modo ecologicamen-te corretto è il primo passo; occorre poi spiegare agli ac-quirenti perché è virtuoso acquistare i prodotti a basso im-patto ambientale. A questo proposito un ruolo essenzialepossono avere le istituzioni: in Italia la legge sui rifiuti pre-scrive che gli uffici della pubblica amministrazione debba-no acquistare, per esempio, carta riciclata, ma troppi osta-coli ancora impediscono il pieno rispetto di questa norma,tanto che dei circa dieci milioni di tonnellate di carta e car-toni usati in Italia nel 2010, appena sei sono recuperati peressere riciclati e quattro milioni di tonnellate finiscono nel-le discariche e negli inceneritori.Un altro ruolo essenziale dovrebbe avere l’informazionenelle scuole. Eppure, le recenti riforme hanno espulso lematerie che si occupavano di questi temi: la Merceologia, eadesso anche l’“Educazione tecnica”, che era obbligatoria

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nelle scuole medie inferiori, come si chiamavano una volta.L’insegnamento di “Tecnologia”, introdotto nella Scuola se-condaria inferiore, offre certo molte occasioni per com-prendere come è possibile soddisfare i bisogni umani conminore consumo di energia e anche di acqua.Mi auguro che la crescente sensibilizzazione in atto, non-ché le pubblicazioni, scientifiche e non, apparse sul tema,stimolino produttori, distributori e consumatori – ed edu-catori – a riconoscere e spiegare che è possibile avere be-ni essenziali e sviluppo economico con minore violenzaverso la natura.

Il mare intorno a noi

Ogni anno il mare attrae turisti, persone in cerca di riposoe di natura, spesso deluse per le alghe puzzolenti, la plasti-ca galleggiante, gli escrementi e i mozziconi di sigarettesparsi vicino alle spiagge, la puzza di benzina che accom-pagna i gommoni, i motoscafi e le moto d’acqua che sfrec-ciano lungo le coste. Giustamente, nel 2006, col secondo governo Prodi, il Mini-stero dell’Ambiente ha voluto aggiungere, fra le sue finalità,oltre alla difesa del territorio anche quella del “mare”, rico-noscendo che il mare non è solo la base delle attività della“Marina mercantile”, non è solo l’autostrada per le navi datrasporto di merci e passeggeri, non è solo la sede di porti edella nautica o pesca commerciale, attrazione del turismo equindi di lavoro e di ricchezza, ma è il grande, anzi il piùgrande territorio dell’ambiente, sede e fonte di vita.

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Credo che i governanti potrebbero utilmente leggere (spe-ro “rileggere”) il bel libro Il mare intorno a noi, scrittonel 1951 dalla famosa biologa americana Rachel Carson(1907-1964, l’autrice del più noto libro Primavera silen-

ziosa). Il libro è stato pubblicato in italiano dall’editore Ca-sini e poi da Einaudi, e sarebbe utile che fosse letto nellescuole, a cominciare da quelle elementari e medie, quandoi ragazzi sono ancora disposti a meravigliarsi. Opportuna-mente, la televisione di Stato trasmette documentari conbelle immagini di vita marina, ma bisognerebbe che glispettatori si rendessero conto che non si tratta soltanto diroba da mari tropicali; la vita e la bellezza del mare riguar-dano qualcosa che è “intorno a noi”, nascosto anche nellepozze di acqua salina che si formano sulle spiagge e nellerocce costiere, nello sciacquio del mare avanti e indietro. Questa vita marina, che dovrebbe essere difesa gelosamen-te perché da essa dipende, direttamente e indirettamente,anche la nostra vita e salute, viene offesa continuamente e,quando è uccisa, si lascia dietro organismi putrefatti e puz-zolenti. Ogni anno, d’estate e d’inverno, nei mari italiani fi-niscono circa cinquecento miliardi di litri di acque di fognanon trattate, contenenti non solo gli escrementi umani, matutto ciò che fuoriesce dai gabinetti, lavandini, lavatrici,fabbrichette, allevamenti zootecnici, ristoranti, canalettedi scolo agricole, acque ricche di detersivi, pesticidi, conci-mi, medicinali non usati, e tanti altri veleni per la vita ma-rina. E non si tratta semplicemente della morte di alcunidegli esseri viventi del mare, non si tratta dei turisti che,indignati, lasciano le spiagge alla ricerca di mari più puliti,dei pescatori che vedono diminuire il pescato e il loro red-

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dito, ma si tratta di alterazioni dei delicati equilibri del ma-re che cominciano con le alghe fotosintetiche, gli alimentiper lo zooplancton, a sua volta nutrimento per tutti gli al-tri esseri viventi marini, alcuni dei quali arrivano sulle no-stre tavole.In troppe zone d’Italia i depuratori delle acque di fogna nonci sono o non funzionano; questi depuratori rappresentanole prime e più urgenti infrastrutture a cui mettere mano.Strade e ferrovie ad alta velocità serviranno a poco se i tu-risti vanno a fare il bagno altrove. È probabilmente lodevo-le, ai fini dell’economia cantieristica, incoraggiare la vendi-ta di barche, da quelle piccole a quelle grandi e grandissi-me che parcheggiano nei porti turistici, talvolta sfacciateesibizioni di opulenza guadagnata con soldi nascosti alletasse italiane, talvolta cialtronesche manifestazioni di ru-more e puzza come quelle degli scooter d’acqua; però nonsi può tollerare che nautica significhi sporcizia e inquina-mento per chi deve accontentarsi di bagnarsi nel mare. Cisono leggi di polizia marittima che stabiliscono che non sideve circolare a motori accesi ad una certa distanza dallecoste, sia per la sicurezza delle persone, sia per spostare ilpiù lontano possibile fumi e scarichi di benzina, ma tali leg-gi sono continuamente violate, anzi le violazioni sono vistequasi con benevolenza, giovanili manifestazioni sportive. Eancora: il mare è compromesso dalle costruzioni che arri-vano e portano i loro rifiuti proprio sulla riva, anche nellezone che la legge, e le minime norme di difesa del mare,vorrebbero sgombre da cemento e asfalto.Purtroppo, alla radice di tutte le violenze al mare c’è un di-storto senso della proprietà: se qualcuno venisse a versare

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il vaso da notte nel salotto della casa di ciascuno di noi, ciindigneremmo e lo denunceremmo; se lo fa nel mare, nel-la maggior parte dei casi nessuno dice niente. La salvezzadella salute individuale sarà possibile soltanto quando cirenderemo conto che il mare è “proprietà” di ciascuno dinoi, è un pezzo della nostra casa e del nostro salotto e co-me tale va rispettato e trattato.

Di chi la colpa?

L’acqua amica e nemica: anche il primo decennio del XXIsecolo è stato caratterizzato, in numero crescente, da fra-ne e alluvioni che spazzano via vite umane, povere case ele loro suppellettili e ricordi. Qualcuno dice che non è col-pa della natura, ma dell’“uomo”, quasi genericamente mal-vagio e nemico della natura; in realtà la colpa è della forzadel denaro e della speculazione e di un potere politico at-tento agli interessi degli affari e dei soldi, anche a costo deldisprezzo della vita umana e della natura.L’acqua fa il mestiere per il quale è stata predisposta dal-l’inizio del pianeta, come fonte della vita, non di morte: ca-de ogni anno sulla superficie della Terra in quantità abba-stanza costante e abbastanza prevedibile da luogo a luogo,da stagione a stagione. L’acqua raggiunge il terreno e scor-re verso il piano lungo i pendii, e poi nei canali e nei tor-renti e poi nei fiumi più grandi fino al mare; nel cadere sul-la superficie della Terra, l’acqua viene a contatto con lerocce e il terreno e ne sposta le parti più leggere che diven-tano sabbia e limo, che scendono per gravità, depositando-

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si nelle parti più basse, creando quei beni utili agli esseriumani come le fertili pianure alluvionali e le spiagge. Inquesto suo istancabile e provvidenziale andare, l’acqua dàvita ai vegetali, disseta gli animali, assicura la vita umana.E la vegetazione, in tutte le sue forme, dai prati agli alberi,alla macchia spontanea, è anche fondamentale nel regola-re la forza che l’acqua esercita nel disgregare e spostare ilterreno. Le foglie sono state inventate dal Padreterno pro-prio perché attenuano la forza erosiva dell’acqua. Nel cor-so dei millenni e dei secoli, le acque si sono assicurate lospazio in cui muoversi a seconda della loro velocità, cam-biando talvolta il loro corso e riservandosi degli spazi in cuiadagiarsi nei periodi di piogge più intense e di piene deifiumi.“Purtroppo”, le pianure e le zone lungo i torrenti, i fiumi ei laghi sono quelle più pregiate per gli insediamenti umani;i terreni agricoli si sono estesi anche sulle rive dei fiumi,nelle zone che la natura aveva riservato a se stessa per farespandere le acque di piena; case e villaggi e poi città efabbriche hanno occupato pendii e fondo valle e le rive deifiumi, dei laghi e del mare, creando ostacoli al moto delleacque; così quando cadono piogge più intense, le acque au-mentano di velocità e di forza erosiva e cercano con violen-za uno spazio per scendere a valle, spostando masse di ter-ra, alberi e addirittura edifici e ponti e strade.Tutto qui. Le frane e le alluvioni e i costi e i dolori e i mor-ti sono dovuti all’avidità di alcuni “soggetti economici” che,nel nome del proprio interesse “economico”, hanno edifi-cato od occupato gli spazi che dovevano essere lasciati li-beri per il moto delle acque, incanalando fiumi e torrenti in

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prigioni di cemento; altri, sempre per motivi “economici”,per guadagnare spazi edificabili hanno distrutto, anche colfuoco degli incendi, gli alberi e la vegetazione spontanea ele macchie, di conseguenza le acque hanno finito per muo-versi con maggiore violenza sul suolo; molte pratiche agri-cole intensive hanno reso il terreno più esposto all’erosio-ne che sposta a valle la terra fertile.Terra, fango, detriti, ramaglie, alberi, rocce, trascinati dal-le acque sempre più veloci, diventano un “tappo” fisico deicorsi d’acqua e ne facilitano l’uscita dalle loro vie naturali.È il quadro che appare dopo frane e alluvioni che divoranoda decenni, ogni anno in Italia, miliardi di euro di ricchez-za e centinaia di vite umane. L’unica nostra difesa dovreb-be essere lo “Stato” che, se operasse per il bene pubblico,dovrebbe impedire, con le leggi e con il loro rispetto, dal li-vello nazionale a quello delle amministrazioni locali, la co-struzione di opere, private e pubbliche, edifici e strade eponti, eccetera, nei luoghi da riservare al moto delle acque;che dovrebbe ricostruire la copertura vegetale, vietando ladistruzione del verde e dei boschi e dovrebbe provvederealla pulizia del greto di canali, torrenti e fiumi per assicu-rare il regolare fluire delle acque.Purtroppo le leggi, che sono giustamente attente a punirela violenza ai privati, sono silenziose, talvolta compiacenti,quando si tratta di impedire la violenza di privati – e talvol-ta dello stesso Stato – contro la natura, cioè contro la vitadi altri cittadini. Anche se è certo che tale violenza si ma-nifesterà periodicamente, sotto forma di disastri e morti edolori. Ogni volta che lo Stato dovrebbe dire a un cittadinoche “non deve” costruire in una golena o in una lama o sul

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greto di un torrente o in una zona franosa, sta zitto, perchébisogna “fare”, costruire, anche se ciò sarà pagato da altrie da tutti, oggi e in futuro. Eppure, con leggi e con unabuona amministrazione, si può “fare” e assicurare lavoro ecase e strade, costruendo diversamente, in altri luoghi,proteggendo il suolo contro l’erosione con il rimboschi-mento, combattendo gli incendi.E le leggi ci sono state: nel 1985 la legge 431 stabiliva chedovevano essere sottoposte a vincolo le rive dei torrenti edei fiumi e del mare, la legge 183 del 1989 stabiliva regoledi difesa del suolo e delle acque; e così prevedevano le leg-gi “Sarno” (267 del 1998), e “Soverato” (365 del 2000),emanate dopo i rispettivi disastri idrogeologici. Tutte legginon applicate o violate, o rimandate o vanificate da condo-ni, o abrogate. Si sentono promesse e programmi prima diogni elezione, ma non sento nessun impegno per aggiorna-re e far rispettare le leggi che impediscono gli interventisul territorio, nocivi per la vita futura degli italiani.Se proprio i governi locali e nazionali non hanno “il corag-gio di dire no” alla speculazione, all’egoismo, all’avidità chesi mangiano il territorio italiano, alla violenza contro la na-tura, almeno abbiano il pudore di smetterla con i piagnisteisui cadaveri che sono generati dalla loro incapacità di pre-vedere e prevenire le cause, che sono sotto gli occhi di tut-ti, delle morti e dei dolori e dei costi di ieri, di oggi, di do-mani e dopodomani.

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Veleni nel mare

Nel Tirreno c’è una nave piena di fusti contenenti sostanzetossiche, anzi radioattive, anzi la nave affondata è una co-mune nave mercantile, anzi di navi affondate con rifiutitossici ce ne sono molte fra Mar Tirreno e Mar Jonio. Qualè la verità? Il mare, con il suo volume di acqua di 1400 mi-lioni di miliardi di metri cubi, rappresenta una tentazionetroppo forte per coloro che, illegalmente, vogliono versar-vi un po’ di milioni di metri cubi di rifiuti prodotti dalle at-tività umane, quelli che è troppo costoso o che non si rie-scono a nascondere in qualche cava o pozzo sui continen-ti. Non credo sia mai stata scritta una storia naturale dei ri-fiuti finiti nel mare; peccato, perché si imparerebbero mol-te cose utili. Il mare, infatti, non è una massa ferma e neu-trale di acqua, ma è una soluzione contenente 35 grammidi sali ogni mille litri di acqua, leggermente alcalina, corro-siva, ed è sede di innumerevoli forme di vita influenzate eavvelenate dalle sostanze tossiche che vi finiscono dentro.Nella sua lunga (quattromila milioni di anni) storia, nel ma-re è finito di tutto. Le piogge che sono cadute ininterrotta-mente sulle terre emerse hanno disgregato e corroso lerocce superficiali e hanno trascinato i prodotti dell’erosio-ne, insolubili o solubili in acqua, fino ai mari; da tale flussocontinuo di materiali si sono formati i grandi depositi difanghi e rocce esistenti sui fondali marini, dentro i qualispesso di trovano giacimenti di metalli preziosi; sul fondodel mare sono finite le spoglie di innumerevoli esseri viven-ti che, decomponendosi, hanno generato i depositi di idro-carburi che si trovano sotto il fondo del mare.

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Le alterazioni del mare, però, si sono fatte più intense amano a mano che esso è diventato la grande via di comu-nicazione fra le terre emerse e non a caso nel mare si tro-vano i resti di navi affondate da tremila anni a questa par-te. Delle navi di legno i resti non si trovano più, scompostichimicamente e per attacco microbiologico, al più si trova-no alcuni degli oggetti trasportati: anfore, talvolta ancoracon parte del loro contenuto, statue di marmo o di metal-lo, eccetera. Per i tempi più vicini a noi si sa, ma non si sadove, che sono affondati dei galeoni, le grandi navi spagno-le e portoghesi che trasportavano le ricchezze del “NuovoMondo” alle corti dei Paesi europei.A partire dalla fine del 1800, quando le navi sono state fat-te di ferro, più resistente alla corrosione, e si sono fatte piùnumerose, è aumentato anche il numero degli affondamen-ti per cause accidentali o di guerra. Durante tutto il XX se-colo, le navi hanno trasportato attraverso gli oceani mate-riali strategici, idrocarburi, metalli; ogni parte in guerracercava di affondare le navi dirette al nemico, e ogni navetrascinava sul fondo dei mari non solo vite umane, ma an-che materiali che sono ancora lì, esposti da decenni al-l’azione corrosiva del mare. Un capitolo quasi inesploratodella chimica e della biologia del mare dovrebbe studiarecome si sono trasformate, sotto l’azione dei sali marini edegli esseri viventi marini, le sostanze finite in fondo al ma-re, fra cui acidi, gas di guerra, prodotti chimici industriali.La nostra attenzione recente maggiore è giustamente rivol-ta agli effetti sulla nostra vita dei “rifiuti” industriali che or-ganizzazioni criminali caricano su vecchie navi, affondatepoi da qualche parte, più o meno vicino alle coste. Nel ma-

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re finiscono illegalmente anche grandi quantità di prodottipetroliferi scaricati dalle navi cisterna che collegano ognianno i pozzi petroliferi e le raffinerie e i luoghi di consumo:milioni di tonnellate di idrocarburi ogni anno vanno ad ag-giungersi a quelle che, nei decenni, sono finite nel mare inseguito a incidenti. Fra i maggiori disastri, si ricordano lafuoriuscita di petrolio per incidente dal pozzo al largo diSanta Barbara in California nel 1969, l’incendio del pozzodi Nawruz nel Golfo Persico nel 1983. Ma la maggior pauradestano i prodotti velenosi come l’iprite, contenuta in fustifiniti nel mare di Bari e poi trascinati nell’Adriatico duran-te la Seconda Guerra Mondiale, o i fusti di piombo tetrae-tile finiti pure nell’Adriatico nel 1974 e in parte recuperati,o i prodotti (bromuro di metile e altri) affondati nel 1979con la nave Klearcos in Sardegna e riportati in superficienel 1981, o il petrolio nel relitto della nave Haven, affonda-ta nell’aprile 1991 davanti a Genova, riportati in superficienel 2008, per non citare che alcuni dei molti attentati allavita del mare, fino all’inquinamento ad opera del petrolio,circa un milione di tonnellate, fuoriuscito nel Golfo delMessico nell’agosto 2010.Di questi eventi si hanno notizie precise, ma certo molti al-tri avvelenamenti del mare sono rimasti sconosciuti e inqualche parte dei mari e degli oceani, sott’acqua, ci sonocontenitori che continuano a rilasciare sostanze tossiche eradioattive. Di queste ultime, poi, per anni, grandi quanti-tà sono state immesse nel mare, anche nel Mediterraneo,dagli enti governativi francesi e inglesi. E piccole, ma noninsignificanti, quantità sono state rilasciate nel Mar Joniodagli impianti di ritrattamento delle scorie radioattive di

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Rotondella in Basilicata. Un pericolo a cui saranno esposteper chi sa quanto tempo le generazioni future, perché al-cuni elementi continuano a rilasciare radioattività per se-coli e tale radioattività entra nelle catene alimentari mari-ne. Giustamente, ci siamo indignati per la scoperta che lamalavita ha praticato, per anni, lo scarico di rifiuti tossici eradioattivi anche nei mari vicini alle nostre coste e che so-lo una minima parte di questi eventi è stata identificata. Ilproblema ci riguarda da vicino, perché le coste italiane so-no lunghe ottomila chilometri.Tutte le forze scientifiche delle università, degli enti di ri-cerca e del Ministero dell’Ambiente e del “mare” dovrebbe-ro essere impegnate nella ricostruzione storica sia deglieventi criminali, sia degli inquinamenti accidentali o ancheautorizzati o tollerati senza pensare alle conseguenze; diciascuno dovrebbe essere localizzata con certezza la posi-zione per provvedere ad attenuarne le conseguenze. Nondimentichiamo mai quanto la nostra vita sia strettamentelegata a quella del mare.

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Le “cinque lampadine” e l’inizio dell’energiageotermica

Il 4 luglio 1904 veniva utilizzato per la prima volta a Larde-rello, in Toscana, il vapore caldissimo di uno dei soffioni,diffusi in quelle valli, per azionare un motore elettrico. Conquesto furono accese le “cinque lampadine” elettriche cheavrebbero rappresentato una svolta nell’uso delle risorserinnovabili offerte gratuitamente dal ventre della Terra.L’artefice dell’operazione era un giovane toscano, il princi-pe Piero Ginori Conti, e tutto era cominciato con il nonnodi suo suocero, Francesco de Larderel (1789-1858).Di nobile famiglia francese, questo de Larderel era venutonel 1814 in Toscana ai tempi di Napoleone e aveva comin-ciato a interessarsi degli strani fanghi biancastri che si for-mavano intorno ai soffioni nelle valli interne. Nel 1777, ilchimico tedesco Francesco Höfer, direttore delle farmaciedel Granducato di Toscana, aveva riconosciuto che la pol-vere bianca di questi fanghi era acido borico, trascinato dal

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Energia

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vapore geotermico che arrivava in superficie e poi si con-densava nella valle di Montecerboli, vicino Pisa. L’acido bo-rico era noto e raccolto fin dai tempi degli Etruschi e tro-vava impiego nella preparazione di smalti e vernici e anchein medicina come disinfettante.Già nel 1818, Francesco de Larderel decise di estendere erazionalizzare la produzione e la vendita di acido borico; ilgranduca di Toscana Leopoldo II aveva apprezzato l’inizia-tiva industriale e aveva nominato de Larderel conte diMontecerboli. Nel 1846, il villaggio di Montecerboli assun-se il nome di Larderello. Fino al 1827 l’acido borico era ot-tenuto facendo evaporare con forni a legna l’acqua dei fan-ghi, ma nel 1827 de Larderel ebbe l’idea di utilizzare perl’evaporazione il calore dello stesso vapore geotermico, pri-ma utilizzazione industriale ed economica di questa fonteenergetica. In quei primi decenni dell’Ottocento, la Toscana e la zonadi Livorno erano centri di vita intellettuale, commerciale efinanziaria con la partecipazione di una folla di personaggianche stranieri. In questa atmosfera, proprio in Toscana, aPisa, si era tenuta la prima Riunione degli scienziati italia-ni nel 1846 e negli stessi anni il toscano Eugenio Barsanti(1821-1864) aveva realizzato il primo motore a scoppio.Per farla breve, con l’acido borico la famiglia de Larderelfece una grossa fortuna, come testimonia fra l’altro un belpalazzo a Livorno, ora proprietà comunale. A Francescosuccesse il figlio Federigo e poi il figlio di quest’ultimo Flo-restano; Adriana, figlia di Florestano, sposò nel 1894 PieroGinori Conti (1865-1940), figlio di una nobiltà fiorentinache si era guadagnata fama e quattrini negli affari interna-

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zionali, orgogliosa della propria tradizione e nello stessotempo attenta alla cultura e alle innovazioni che attraver-savano l’Europa dell’Ottocento.Fra queste novità un ruolo speciale aveva l’elettricità. La di-namo, la macchina capace di trasformare un moto rotatorioin elettricità, era stata inventata da Antonio Pacinotti (1841-1912). Si trattava soltanto di trasformare il moto di una ruo-ta mossa da una macchina a vapore o dall’energia meccani-ca dell’acqua in movimento, per ottenere l’elettricità per il-luminare le strade, per realizzare reazioni chimiche.Negli ultimi anni dell’Ottocento, l’elettricità fu utilizzata perla fabbricazione dei primi prodotti chimici: del carburo dicalcio e della calciocianammide a Bussi, in Abruzzo, per laproduzione dell’idrato sodico e del cloro. L’uso del carboneper le macchine termiche che azionavano le dinamo era pe-rò costoso e Piero Ginori Conti pensò di utilizzare quel va-pore che la Terra offriva gratis nei suoi soffioni, e il cui calo-re era sottoutilizzato, per produrre elettricità. In quel giornodi cento anni fa, Ginori Conti alimentò col vapore geotermi-co di Larderello un motore a pistoni collegato con una dina-mo da 10 kilowatt, l’elettricità prodotta accese le storiche“cinque lampadine” già ricordate. L’operazione fu tanto piùimportante in quanto il commercio dell’acido borico stavaentrando in crisi dopo la scoperta, negli anni Ottanta dell’Ot-tocento, dei grandi giacimenti di borace nella Death Valleydella California e poi a Boron, nello stesso Stato.Con Ginori Conti la produzione di acido borico e quella dielettricità furono abbinate; nel 1912 fu fondata la SocietàBoracifera di Larderello. La produzione di elettricità geo-termica andò aumentando fino alla Seconda Guerra Mon-

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diale, quando le centrali furono distrutte. Dopo la Libera-zione, le centrali furono ricostruite e la società di Larderel-lo fu incorporata nell’Enel. Piero Ginori Conti fu uno straordinario personaggio che at-traversa la storia economica, scientifica e industriale dellaprima metà del Novecento. Una sua bella biografia, ricca diinformazioni su una pagina meno nota dell’industrializza-zione italiana, si trova in Internet. L’iniziativa di Larderelloattrasse enorme attenzione in tutto il mondo e Larderelloe la vicina Pisa divennero un centro di ricerca e consulen-za avanzata per tutti coloro che avevano a disposizione ma-nifestazioni geotermiche nel mondo. Tali manifestazionierano presenti nei Paesi industrializzati, come gli Stati Uni-ti o l’Islanda, ma anche in Paesi arretrati, in cui la nuovafonte di energia diede un contributo essenziale allo svilup-po economico.Nel mondo, l’elettricità geotermica è ottenuta con centraliche hanno una potenza di circa 8300 megawatt; l’Italia, conuna potenza istallata di 860 megawatt e una produzione(2010) di circa cinque miliardi di chilowattore all’anno, è alterzo posto dopo Stati Uniti e Filippine. Il vapore geotermi-co è usato anche direttamente come fonte di calore per ap-partamenti, serre, stabilimenti industriali.

Eugenio Barsanti e l’invenzione del motore a scoppio

L’invenzione del motore a scoppio, capace di trasformarenel moto rotatorio il calore liberato dalla combustione di

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un gas o di un liquido, ha permesso di ottenere la più im-portante “macchina” degli ultimi due secoli, quella che tie-ne in moto, nel mondo, centinaia di milioni di autoveicoli,che ha aperto le strade alla conoscenza fra i popoli, alla cir-colazione delle merci, alla “civiltà moderna”. A chi si deve tale invenzione? Agli italiani Eugenio Barsan-ti (1821-1864) e Felice Matteucci (1809-1887) o al france-se Etienne Lenoir (1822-1900), come viene per lo più det-to e scritto? La controversia si trascina da oltre un secoloe mezzo. I concittadini di Barsanti hanno costituito unaFondazione che si è presentata al Parlamento europeo conuna mostra e che girerà anche in molte città europee, perdimostrare che i due italiani hanno inventato il motore ascoppio nel 1853, vari anni prima che Lenoir depositasse,nel 1859, il suo brevetto per un motore simile a quello diBarsanti e Matteucci.Non si tratta di orgoglio nazionalistico, del resto insensatoin un’Europa unita, ma di far riconoscere il merito di un ge-niale studioso dimenticato. Eugenio Barsanti era nato (colnome Nicolò) nel 1821 a Pietrasanta, la bella cittadina del-la Versilia, da una famiglia di modeste condizioni e avevascelto l’insegnamento e la vita religiosa nella congregazio-ne dei Padri Scolopi che allora, come oggi, si dedicava al-l’educazione dei ragazzi. Appassionato di fisica, Barsanti(divenuto padre Eugenio) era rimasto affascinato dagliesperimenti che allora si facevano anche nelle aule scola-stiche in cui insegnava, a Volterra. Uno di questi consiste-va nel mettere una miscela di aria con idrogeno o con il gasilluminante dentro un cilindro metallico chiuso con un tap-po; la miscela veniva accesa all’interno con una scintilla

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elettrica, la “pistola di Volta”. I gas reagivano sviluppandocalore, aumentavano di volume e spingevano violentemen-te per aria il tappo, con gran divertimento degli scolari.Barsanti decise di sfruttare la pressione dei gas per muo-vere un pistone posto nel cilindro metallico, in questo mo-do si otteneva un movimento meccanico, che però era finea se stesso. Barsanti pensò, allora, di utilizzare la pressio-ne provocata dalla combustione per imprimere al cilindroun movimento in grado di far girare una ruota. Come eracomune agli scienziati e agli inventori dell’Ottocento, il fi-ne era di alleviare, con delle macchine, la fatica umana de-gli operai. A quel tempo erano già diffuse le macchine a va-pore che però erano grosse e ingombranti: Barsanti pensa-va invece ad una macchina piccola, adatta anche alle offi-cine artigiane, diffuse nella Toscana in cui viveva e inse-gnava. Per ottenere un moto continuo occorreva dotare il sistemacilindro-pistone di due valvole: una avrebbe dovuto faruscire i gas di combustione consentendo al pistone di tor-nare nella posizione primitiva; l’altra avrebbe dovuto aspi-rare all’interno del cilindro una nuova miscela di aria ecombustibile. Barsanti aveva, insomma, ideato un “motore”capace di generare una successione continua di salite e di-scese di un pistone dentro un cilindro, proprio quanto av-viene nel motore a scoppio odierno.Per realizzare il suo motore, Barsanti chiese, nel 1851, lacollaborazione dell’ingegnere toscano Felice Matteucci einsieme progettarono un “motore per ottenere una forzamotrice con l’esplosione di gas” che fu costruito dalla fon-deria fiorentina di Pietro Benini. Barsanti e Matteucci de-

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scrissero il loro motore in una dettagliata relazione e perassicurarsi la priorità dell’invenzione la affidarono, il 5 giu-gno 1853, in un plico sigillato, alla prestigiosa Accademiadei Georgofili di Firenze. La quale, in occasione dei 150 an-ni dell’invenzione, italiana, del motore a scoppio e in coin-cidenza del 250° anniversario della sua fondazione, nel2003 ha pubblicato un bel volume commemorativo.Barsanti e Matteucci depositarono una domanda di brevettoin Inghilterra nel 1854 e cominciarono a far conoscere la lo-ro invenzione: nel 1856 un primo esemplare azionava già al-cune macchine utensili nelle officine della stazione ferrovia-ria di Firenze; nel 1858 l’invenzione è dettagliatamente de-scritta in una rivista inglese di ingegneria e il motore a scop-pio comincia ad apparire in varie esposizioni internazionali.Come spesso accade, gli imitatori non tardarono a presen-tarsi: nel 1859 il meccanico francese di origine belga,Etienne Lenoir, costruì e pubblicizzò un motore a scoppiopiù rudimentale di quello di Barsanti ed ebbe subito gran-de ascolto in tutto il mondo. Non si dimentichi che glieventi qui descritti si svolgono in una Toscana che sta vi-vendo gli ultimi anni del dominio dei Lorena e il passaggioal Regno d’Italia. La Francia stava vivendo invece anni disuccessi politici internazionali, ben intenzionata a valoriz-zare i suoi inventori e i suoi valori.Nel 1863, le officine Bauer (poi Breda) di Milano costrui-rono altri esemplari del motore a scoppio e nel 1864 Bar-santi si recò in Belgio a Seraing per stipulare un accordocon le officine locali per la costruzione in serie del motoreda lui inventato. Ma in quella città Barsanti morì nello stes-so 1864.

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Nel 1867 il tedesco Nikolaus Otto (1832-1891) esponeva unmotore del tutto simile, anzi copiato da quello di Barsanti eMatteucci, e anche Otto ebbe ampi riconoscimenti, tantoche ancora oggi il ciclo del motore a scoppio prende da lui ilnome. Gli anni Sessanta dell’Ottocento furono anni di delu-sione per i due inventori italiani, meno attrezzati finanziaria-mente dei loro concorrenti stranieri, sconosciuti e anzi inparte anche derisi in Italia. Matteucci (frattanto, nel 1866,era fallita la “Società anonima del nuovo motore Barsanti eMatteucci”) cercò di rivendicare la priorità della loro inven-zione, ma tutte le proteste furono vane. Matteucci fu colpi-to da una profonda depressione e morì nel 1887. Molte altreutili informazioni si trovano nel sito Internet dedicato ai duegrandi: www.barsantiematteucci.it.La storia di Barsanti rappresenta un altro episodio delleoccasioni perdute dall’Italia in un mondo che si stava av-viando verso l’industrializzazione moderna ed è di qualcheconforto che qualcuno cerchi di ricordarla, sia pure a unsecolo e mezzo di distanza. Chi passa da Pietrasanta (e lagita merita), vada a vedere la lapide che fu apposta nel1887 sulla facciata della casa in cui Barsanti è nato, in ViaMazzini. La salma del grande inventore fu trasferita nel1954 nella chiesa di Santa Croce a Firenze, fra le “urne de’forti”. Sulla sua tomba c’è un busto, una copia del quale èstata posta all’angolo fra Via Barsanti e Via Mazzini a Fortedei Marmi, la bella località balneare a pochi chilometri daPietrasanta.In questo tempo in cui tutto è volatile, frivolo, virtuale echiacchiericcio, quando ci sediamo sull’automobile, accen-diamo il motore e ci mettiamo in moto, volgiamo un pen-

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siero a chi ha reso possibili questi gesti, fra l’incredulità ge-nerale, con la convinzione che l’inventare e l’innovare è unservizio civile, alla collettività.

Il picco di Hubbert

Nel 1956, un geologo della compagnia petrolifera Shell,King Hubbert (1903-1989), si presentò alla Conferenzadell’Istituto Americano del Petrolio per leggere una rela-zione sul futuro dell’energia. Hubbert aveva passato la suavita professionale fra le miniere di carbone e i campi petro-liferi, studiando la loro estensione e le riserve disponibili.Aveva scritto la sua relazione in fretta e furia e ne avevamandato una copia agli uffici della Shell, per cui lavorava.Mentre stava per leggerla, uno dei funzionari della Shell glitelegrafò di non presentarla, ma era troppo tardi e Hubbertespose quella che si sarebbe rivelata una bomba tecnico-scientifica ed economica. Sulla base dei suoi dati, Hubbertsostenne che, se si conosce la dimensione delle riserve diuna fonte di energia – carbone o petrolio (allora il metanosi affacciava appena all’orizzonte) – e si conoscono i con-sumi annui, si può prevedere che arriverà un giorno in cuile riserve cominceranno a diminuire e la produzione co-mincerà a diminuire, dopo aver raggiunto un massimo: il“picco di Hubbert”.Lo studio di Hubbert era rivolto principalmente alla situa-zione degli Stati Uniti; nel 1956 stava cominciando l’eradell’energia atomica a fini civili e il futuro ruolo di questanuova fonte di energia sarebbe dipeso da quanto a lungo

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sarebbero durate le riserve di petrolio americano. Stiman-do delle riserve di circa 30 miliardi di tonnellate, sulla ba-se dei consumi annui prevedibili, Hubbert calcolò che dal1975 in poi la produzione di petrolio degli Stati Uniti sareb-be andata diminuendo. Così è stato e oggi il Paese soprav-vive importando oltre la metà del petrolio che consuma: daqui la nervosa attenzione per i Paesi petroliferi come Iraqe Iran.Nel mezzo secolo trascorso da quando Hubbert presentò lasua relazione (il testo integrale si trova in Internet, in un“sito” intestato a Hubbert), decine di studiosi (fra cui l’in-glese Colin Campbell, il francese Jean Laherrere e l’italia-no Ugo Bardi) hanno riesaminato i suoi dati e hanno stu-diato l’andamento della produzione di petrolio nel mondo.I migliori dati oggi disponibili stimano delle riserve mon-diali di petrolio intorno a 150 miliardi di tonnellate e, all’at-tuale ritmo di estrazione di oltre 4 miliardi di tonnellate al-l’anno, tali riserve potrebbero durare meno di quarant’an-ni. Il massimo di estrazione (il “picco di Hubbert”) potreb-be essere raggiunto (o è già stato raggiunto) in questi pri-mi anni del XXI secolo e un declino nell’estrazione di pe-trolio si sta già osservando nei pozzi dell’Alaska, del maredel Nord e in alcuni pozzi del Golfo Persico. Qualche annofa si è arrivati all’esaurimento dei campi petroliferi del Ba-hrein, uno degli “emirati” del Golfo Persico in cui gli ingle-si avevano iniziato l’estrazione del petrolio già nel 1934.C’è poca speranza di trovare altri grandi giacimenti di pe-trolio, nonostante oggi le trivelle raggiungano grandi pro-fondità sotto la crosta esistente nel fondo degli oceani. An-che se le nuove riserve di petrolio sono raggiungibili sol-

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tanto a costi sempre più elevati. I giacimenti del nostro“Texas lucano” forniscono, ogni anno, una piccola frazionedel petrolio che l’Italia importa e stanno raggiungendo il“picco di Hubbert”, prima che la produzione declini, neiprimi anni Duemila.Resta il gas naturale, di cui esistono grandi, ma non illimi-tate riserve. La produzione italiana di metano ha raggiuntoil “picco di Hubbert” negli ultimi anni del secolo scorso el’Italia dipende dalle importazioni attraverso i grandi meta-nodotti, anche sottomarini: dal Nord Africa, dalla Siberiarussa, dal Mare del Nord. Gli Stati Uniti importano il gasnaturale dal Canada. Quanto durerà il metano esistente nelmondo? Forse ce ne sono riserve per alcuni decenni. I Pae-si dell’Estremo Oriente offrono all’Europa e agli Stati Unitidel metano, ma questo, per poter raggiungere i Paesi di de-stinazione, deve essere portato allo stato liquido, raffred-dandolo a bassissima temperatura. Il gas viene poi traspor-tato allo stato liquido in navi refrigerate e deve essere infi-ne riportato allo stato gassoso in adatti rigassificatori. Finoa quando anche l’estrazione di metano dai pozzi esistenticomincerà a declinare e allora diventeranno inutili le trivel-le, le navi refrigeranti, i rigassificatori.L’avvertimento di Hubbert è stato importante perché erabasato non su stime pessimistiche, ma sulle “leggi” che siincontrano in biologia ogni volta che si ha a che fare con ri-sorse non rinnovabili. La teoria matematica risale all’italia-no Vito Volterra e all’americano Alfred Lotka che, nel 1934,hanno descritto come una popolazione smette di crescere,e anzi comincia a diminuire, quando la disponibilità di cibofinisce. I pozzi petroliferi, o di metano, sono il “cibo” che

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alimenta i nostri mercati e le nostre società industriali equando questi pozzi cominciano ad esaurirsi, anche i con-sumi basati su tali fonti di energia (automobili a benzina,elettricità, riscaldamento domestico, plastica) vengonofrenati.Oggi ci è ben chiaro che le riserve energetiche fossili – pe-trolio e gas naturale – prima diventeranno scarse e più co-stose, poi, fra alcuni decenni, cominceranno ad esaurirsi. Ilpericolo di eventi che si verificheranno fra trenta o quaran-t’anni può sembrare lontanissimo, ma un cambiamentotecnico-economico e sociale richiede anni; sarebbe perciòutile cominciare fin da adesso a progettare e costruiremezzi di trasporto, sistemi di riscaldamento e centrali elet-triche che consumino meno energia e che siano basate sualtre fonti energetiche, non inquinanti o esauribili e chesiano rinnovabili, disponibili a lungo in futuro. Una bellasfida.

Nucleare: nessun sito adatto in Italia

Dal 2009 è in corso in Italia un vivace dibattito sulla possi-bile costruzione di centrali nucleari, dette “di nuova gene-razione”, che sarebbero capaci di “produrre energia su lar-ga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispettodell’ambiente”. Ci sono state prevedibili reazioni positive enegative: se l’elettricità nucleare è economica o no, se cisalverà dai cambiamenti climatici, se le centrali nuclearisono pericolose o inquinanti o no, se c’è o ci sarà una solu-zione per la sistemazione delle scorie. Qui voglio conside-

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rare l’aspetto ambientale relativo alla localizzazione delleeventuali centrali. Sono circolate notizie su possibili “siti”in cui le centrali potrebbero essere costruite, con nomipresto smentiti, anzi con la precisazione che le relative no-tizie vere saranno coperte dal segreto di Stato.La scelta di una località adatta per “ospitare” una centralenucleare presuppone alcune conoscenze: prima di tuttooccorre sapere quante centrali e di quale tipo si prevede lacostruzione. Quelle cosiddette “di nuova generazione”,cioè con maggiore sicurezza e minore inquinamento, di-sponibili in commercio sono varie: non se ne acquista unacome si sceglierebbe un’automobile.Le centrali nucleari cosiddette “di terza generazione”(Epr) hanno una potenza di circa 1600 megawatt ciascuna:ne esistono due, una finlandese ad Olkiluoto, a metà delsuo cammino costruttivo, una in Francia a Flamanville, chedovrebbe essere completata entro alcuni anni. Si tratta dicentrali che producono elettricità col calore che si libera inseguito alla fissione, mediante urto di neutroni, rallentatiper passaggio attraverso acqua, dei nuclei di uranio-235con formazione di vari sottoprodotti fra cui plutonio e nu-merosi nuclei più piccoli, tutti radioattivi. Il calore che si li-bera viene trasferito ad una massa di acqua sotto pressio-ne a circa 150 atmosfere e circa 300 gradi che circola in uncircuito “primario” di tubazioni, e viene poi trasferito ad al-tra acqua (circuito “secondario”) che si trasforma a suavolta in vapore e fa girare le turbine del generatore di elet-tricità. Un flusso di acqua di raffreddamento (circa 70 me-tri cubi al secondo, quattro volte la portata media alla focedi un fiume com l’Ofanto) trasforma di nuovo il vapore in

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uscita dalle turbine in acqua liquida che torna nella calda-ia del circuito secondario. In queste centrali l’acqua del cir-cuito primario del reattore, radioattiva, non viene a contat-to con l’acqua del circuito secondario.I reattori di terza generazione scoppiano come quello diChernobyl? Quasi certamente no, perché sono circondatida un doppio involucro di protezione di cemento armato esono dotati di speciali accorgimenti di raccolta del fluidodel reattore, nel caso si verificasse una frattura nella zonacontenente la radioattività.Dove potrebbero essere messi? Già le poche cose note in-dicano che il reattore, il circuito delle turbine, gli impiantidi presa e di circolazione dell’acqua di raffreddamento, so-no grosse strutture, del volume di circa un milione di me-tri cubi, che contengono una massa di cemento, acciaio emateriali vari di circa un milione di tonnellate. La centraledeve essere istallata in una zona dove è disponibile moltaacqua di raffreddamento (dato lo stato e la portata dei no-stri fiumi, l’unica soluzione è data dall’uso dell’acqua di ma-re), su suolo geologicamente stabile e senza rischi di terre-moti: i due reattori in costruzione, quello finlandese e quel-lo francese, sono in due promontori di rocce granitiche inriva al mare.L’eventuale centrale dovrebbe essere vicino ad un grandeporto perché una parte dei macchinari deve essere impor-tato via mare: il contenitore del reattore finlandese è statocostruito in Giappone. Qui comincia il lavoro degli analistidel territorio; si tratta di percorrere le coste italiane e ve-dere se si trova una zona adatta per una o per il “gruppo”di centrali annunciate. Ci sono naturalmente molti altri

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vincoli; ai tempi della precedente avventura nucleare ita-liana, dal 1975 al 1986, sono state condotte numerose in-dagini territoriali e fu elaborata una “carta dei siti” ritenu-ti idonei alla localizzazione delle (quattro) centrali nuclea-ri allora previste, che erano più piccole e con minori vinco-li di localizzazione. Allora le norme internazionali indicava-no la necessità di avere, intorno alle centrali nucleari, unazona di rispetto del raggio di circa quindici chilometri nel-la quale non dovevano trovarsi città o paesi, strade di gran-de comunicazione e ferrovie, impianti industriali, depositidi esplosivi, istallazioni militari.La varie località proposte – in Piemonte, a San BenedettoPo in Lombardia, ad Avetrana in Puglia – dovettero esserescartate dopo indagini territoriali più accurate, e l’idea dicostruire centrali nucleari in Italia fu finalmente abbando-nata dopo la catastrofe al reattore di Chernobyl.Anche se la, o le, localizzazioni delle nuove centrali saran-no coperte dal segreto di Stato, ci sarà pure un giorno incui i cittadini di una qualche zona d’Italia – il fiammiferoacceso toccherà ancora una volta al Mezzogiorno? – ve-dranno arrivare sonde e geologi e ruspe e recinzioni e gliamministratori locali dovranno fare i conti con autorizza-zioni ed espropri. Sarà quello il momento in cui gli abitan-ti delle zone interessate vorranno interrogarsi su quelloche sta accadendo, sulla propria sicurezza futura, sul desti-no delle acque sotterranee e delle spiagge e coste.Non sarà il segreto o il controllo militare a impedire ai cit-tadini di informarsi, di leggere le carte geologiche e la fre-quenza dei terremoti, le norme internazionali di sicurezzadelle centrali. A parte il fatto che le centrali nucleari non

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producono energia a costi competitivi e che è irrisolto ilproblema dello smaltimento delle scorie radioattive, ci siaccorgerà allora che non c’è neanche un posto in cui inse-diarle, nel rispetto dell’ambiente, in un Paese come il no-stro geologicamente fragile, esposto a terremoti e frane,con coste già sovraffollate, spiagge erose e mari inquinati.

L’energia osmotica

Noi ci affanniamo a cercare di ricavare energia dal petrolioo dal carbone, dal nucleo atomico o dal Sole, ma non ci ac-corgiamo che siamo circondati da altri grandissimi flussi dienergia che potrebbero essere messi al servizio delle fab-briche e delle città. Guardate una pianta o un albero: al lo-ro interno è continuamente in funzione una pompa che, insilenzio, senza macchine, preleva l’acqua dal terreno, attra-verso le radici, e la solleva anche a molti metri di altezza:la pompa delle piante e dei vegetali funziona mediante“forze” naturali, in particolare attraverso i fenomeni di ca-pillarità e osmosi.Le radici sono immerse nell’acqua, povera di sali, presentenel terreno; le cellule delle radici sono ricche di sostanzedisciolte e, attraverso le loro pareti, l’acqua passa all’inter-no delle cellule e sale fino alle estremità delle foglie e deirami e da qui evapora. Le pareti cellulari si comportano co-me membrane “semipermeabili” perché lasciano entrarel’acqua e non lasciano uscire le sostanze presenti all’inter-no delle cellule, un fenomeno descritto e chiamato “osmo-si” dal botanico Henri Dutrochet (1776-1847). Il botanico

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tedesco Wilhelm Pfeffer (1845-1920) scoprì che la pressio-ne osmotica, la forza che si manifesta ogni volta che un sol-vente entra in una soluzione attraverso una membrana se-mipermeabile, è proporzionale alla concentrazione dellasoluzione. Non è facile calcolare la quantità di acqua che,nei continenti, sale dal terreno alle estremità delle piante,ma una stima grossolana suggerisce che si tratta di oltre10mila miliardi di tonnellate all’anno. L’energia che sollevaquest’acqua si può stimare dell’ordine di 50-100 miliardi dichilowattora all’anno, corrispondente all’energia prodottada una decina di centrali nucleari.Perché non utilizzare il fenomeno dell’osmosi per produr-re energia commerciale? Immaginiamo di disporre di unatorre contenente acqua di mare, chiusa sul fondo da unamembrana semipermeabile e immersa nell’acqua di unfiume. L’acqua dolce del fiume entrerebbe all’interno del-la torre, passando attraverso la membrana, e in questomodo costringerebbe l’acqua di mare a sollevarsi anche dialcune decine di metri rispetto al livello originale, comespinta da una grande forza, la “pressione osmotica”. Dal-la torre, l’acqua di mare potrebbe essere fatta discenderedi nuovo al livello originale e quest’acqua, passando attra-verso una turbina, produrrebbe, con lo stesso principiodelle centrali idroelettriche, elettricità continuamente,senza emissione di anidride carbonica, pulita e rinnovabi-le. L’applicazione pratica comporta però varie difficoltà ela prima consiste nella preparazione di membrane semi-permeabili.Le prime membrane semipermeabili artificiali sono stateinventate nel 1959 da Sidney Loeb (1917-2008), parten-

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do da soluzioni di acetato di cellulosa in acetone. Sten-dendo una tale soluzione su una superficie di vetro e la-sciando evaporare il solvente, Loeb osservò che la parteesposta all’aria assumeva una struttura porosa, differenteda quella continua che si formava a contatto col vetro.Queste nuove membrane asimmetriche risultarono semi-permeabili. La prima applicazione fu nella dissalazione: sel’acqua di mare, salina, è separata da acqua pura da unamembrana semipermeabile, e se è compressa contro lamembrana ad una pressione superiore a quella osmotica(23 atmosfere per l’acqua di mare), l’acqua passa dall’ac-qua di mare all’acqua dolce e l’acqua marina viene cosìdissalata per “osmosi inversa”.Col passare degli anni, sono state fabbricate numerosemembrane semipermeabili perfezionate, anche a base dipoliammidi, tanto che i dissalatori a osmosi inversa sonoormai molto diffusi nel mondo. L’osmosi inversa viene uti-lizzata anche per separazioni nel campo dell’industria ali-mentare o del trattamento delle acque inquinate. Lo stes-so Loeb nel 1973 suggerì che il fenomeno osmotico avreb-be potuto anche essere utilizzato per produrre delle pres-sioni utilizzabili come fonti di energia per centrali elettri-che. Sono stati proposti vari tipi di centrali elettriche aenergia osmotica e secondo uno di questi progetti l’acquadolce priva o povera di sali, per esempio l’acqua di un fiu-me, viene fatta entrare in un lungo tubo al cui interno sitrova la membrana semipermeabile. Al di sopra di talemembrana si trova l’acqua di mare; dal flusso dell’acquadolce attraverso la membrana, l’acqua di mare diluita au-menta di volume e viene così spinta all’esterno attraverso

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una turbina che genera elettricità. La centrale può essereistallata in superficie o sotto il livello del mare.Una centrale elettrica osmotica funziona sempre, comun-que, ogni volta che si dispone di due soluzioni aventi dif-ferente salinità, separate da una membrana semipermea-bile. Si potrebbe, per esempio, utilizzare come soluzionea bassa salinità la stessa acqua di mare e come soluzioneconcentrata quella delle acque madri di una salina, comequella di Margherita di Savoia. Una simile proposta è sta-ta fatta per ottenere elettricità sfruttando l’elevata pres-sione osmotica dell’acqua di laghi salati come il Mar Mor-to, il Lago Salato negli Stati Uniti e altri laghi salati cheesistono in Russia, sulle Ande e altrove. Il successo com-merciale delle centrali osmotiche dipende anche dai per-fezionamenti delle membrane semipermeabili: tutte lecellule viventi, vegetali e animali, hanno delle pareti se-mipermeabili, ma è difficile riprodurre in laboratorio enell’industria la loro struttura chimica. C’è ancora moltoda inventare anche per gli aspetti meccanici, ma non bi-sogna scoraggiarsi.Il potenziale mondiale di energia elettrica ottenibile concentrali osmotiche è grandissimo, dell’ordine di mille mi-liardi di chilowattore all’anno, un ventesimo di tutta l’elet-tricità prodotta nel mondo, e si tratta di energia sempre di-sponibile e non soggetta a fluttuazioni. Un impianto adenergia osmotica della superficie di un campo di calcio po-trebbe fornire elettricità per 10.000 famiglie. I costi per orasembrano ancora elevati, ma non bisogna dimenticare checinquant’anni fa nessuno poteva immaginare che conl’osmosi inversa si potesse produrre acqua dolce dal mare

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e oggi questi impianti dissetano milioni di persone nelmondo. Le prime centrali elettriche osmotiche stanno perentrare in funzione e siamo appena all’inizio di un altro ca-pitolo delle fonti di energia rinnovabili e non inquinanti.

Vita, morte e miracoli del petrolio

Tanto per cominciare, “il petrolio” non esiste, esistono “ipetroli”. Da ogni pozzo nelle varie parti del mondo, nei de-serti, nelle giungle, in fondo al mare, nelle zone ghiacciate,sgorga una differente miscela di sostanze, principalmenteidrocarburi, molecole organiche costituite da carbonio eidrogeno legati fra loro, e poi altri elementi fra cui zolfo, va-nadio e tanti altri: innumerevoli qualità di “petrolio”. Ilprezzo, tanti dollari al barile, annunciato quotidianamentedai telegiornali, è quello riferito ad una particolare qualitàmerceologica di petrolio (Brent o Texas), scelta come ba-se delle contrattazioni.In secondo luogo, il petrolio come tale non serve a niente.Gli oltre quattromila milioni di tonnellate di petrolio estrat-ti ogni anno dai pozzi del mondo per servire a qualcosa de-vono essere sottoposti a processi chimici e fisici di “raffina-zione”, che permettono di ottenere dal petrolio carburantiper autoveicoli e navi, per il riscaldamento domestico, peralimentare le centrali termoelettriche, materie prime perprodurre plastica, fibre tessili sintetiche e innumerevolimerci. Tutto comincia, più o meno, nell’estate del 1859. Avevanodeciso di smontare tutta la baracca, quel 29 agosto1859,

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centocinquant’anni fa. Edwin Drake (1819-1880) e il suosocio avevano finito i soldi per le trivellazioni nel sottosuo-lo della Pennsylvania alla ricerca di petrolio, quel materia-le oleoso e bituminoso che affiorava qua e là e che venivavenduto per ricavarne olio da lampade e lubrificanti percarri. Di petrolio fino allora non avevano trovato traccia ela leggenda vuole che quella sera, perforando l’ultimo poz-zo, il petrolio finalmente sia sgorgato. La testardaggine diDrake aveva aperto una nuova pagina della storia del mon-do. In quel 1859 qualche pozzo petrolifero veniva scavatoin Russia e Romania, ma la richiesta di petrolio era limita-ta. Ai tempi di Drake, il petrolio veniva sottoposto ad unarudimentale distillazione e una delle frazioni, il cherosene,si rivelò adatta come olio per le lampade. Fino allora il prin-cipale olio per illuminazione era quello di balena, ma la ri-chiesta di olio di balena aveva portato all’impoverimentodelle popolazioni di balene e il nuovo “olio” risolveva unproblema di esaurimento di una risorsa naturale divenutascarsa.Negli anni successivi furono perfezionate le tecniche di“distillazione frazionata” del petrolio greggio con le quali sipotevano ottenere varie sostanze, alcune più volatili, altrepiù “dense”. La scoperta del petrolio “americano” diedeuna spinta decisiva all’uso commerciale della nuova risor-sa, apparentemente abbondante, offerta dalla natura. Sipuò quindi ben dire che il pozzo di Drake segnò l’inizio diuna nuova era, nel bene e nel male. Intorno al petrolio siscatenò ben presto una guerra per il diritto di sfruttamen-to dei giacimenti e nel 1865 entra in scena John Rockefel-ler (1839-1937) che comprò una traballante raffineria di

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petrolio, la potenziò e le diede il nome di Standard Oil. Inquell’anno era finita la Guerra Civile Americana (1861-1865) e, con l’unificazione fra Stati industriali del Nord eStati agricoli del Sud, l’America era assetata di energia. Ilpetrolio doveva essere trasportato dai pozzi alle raffineriee Rockefeller costruì i primi oleodotti. I “derricks”, le torriche sostengono le trivelle dei pozzi petroliferi, apparverosempre più spesso nell’orizzonte di sempre più numerosezone del mondo.Il successo commerciale dei derivati del petrolio ne feceaumentare l’estrazione in Russia e nelle colonie britanni-che, da dove il petrolio arrivava in Europa con navi petro-lifere che, dal 1869, potevano passare attraverso il canaledi Suez.Aumentavano le grandi compagnie petrolifere: la Standarddi Rockefeller, i russi, la britannica Shell, l’olandese RoyalDutch che sfruttava i pozzi delle colonie del Sud-est asiati-co. Nel vocabolario entravano parole nuove come “trust”,accordo fra le compagnie per spartirsi il mercato tenendoalti i prezzi e, naturalmente, i guadagni dei pochi baroni delpetrolio. Il perfezionamento del motore a scoppio e la suaapplicazione alle automobili e agli aeroplani fece aumenta-re, nei primi anni del Novecento, la richiesta di petrolio edei suoi prodotti di raffinazione e tale aumento fece cre-scere a sua volta la richiesta di automobili e di aerei.Gli usi militari durante la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) e gli anni della frenesia consumistica del dopoguer-ra videro l’esplosione dell’industria petrolifera. Una nuovasvolta nella storia del petrolio si chiamò “Texas” e si ebbeintorno al 1930: bastava fare un buco per terra perché nel

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Texas sgorgasse petrolio e si formasseroo sterminate ric-chezze. L’atmosfera di quel tempo è ben riprodotta nel filmIl gigante di George Stevens (1955), con James Dean (fuil suo ultimo film) che interpreta un giovane povero brac-ciante a cui il padrone aveva regalato un pezzetto delle sueimmense proprietà texane. Il povero bracciante scopre nelsottosuolo il petrolio (celebre la scena del protagonista chefa la doccia sotto il primo getto di petrolio) e diventa ric-chissimo.Petrolio, fonte di immense ricchezze e povertà, fonte di in-quinamenti e di conflitti. Afghanistan, Iran, Iraq, Sud Ame-rica, Libia, Indonesia, Caucaso, Ucraina, Nigeria: dovunqueci sono guerre, morti per violenza e per fame, c’è lui, il pe-trolio, e ci siamo noi con la nostra sete di benzina e di elet-tricità. Petrolio che oggi occorre estrarre da pozzi semprepiù profondi, sotto gli oceani, fra i ghiacci polari, da giaci-menti che mostrano i segni di impoverimento o esaurimen-to. Il libro Il premio di Daniel Yergin (editore Sperling eKupfer) spiega tutti i motivi di tutte le crisi e violenze eguerre attuali, e di quelle future.

Gassificazione sotterranea del carbone

Il carbone è il combustibile fossile più abbondante in natu-ra, con riserve accessibili valutate in oltre mille miliardi ditonnellate, ed è quello più prodotto nel mondo: circa settemiliardi di tonnellate all’anno. Ma il carbone è anche ilcombustibile più scomodo, innanzitutto perché è scomododa trasportare allo stato solido; poi perché si trova in giaci-

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menti sotterranei, talvolta a centinaia di metri sotto il livel-lo del suolo, dove il lavoro è nocivo ed è pericolosissimo;poi perché nella combustione produce gas contenenti zol-fo e polveri cancerogene e contenenti metalli tossici comearsenico e mercurio; poi perché dopo la combustione re-stano grandi, fra il 10 e il 15%, quantità di ceneri inorgani-che, contenenti anche elementi radioattivi, da immetterein discariche, e fonti anch’esse di inquinamento delle ac-que sotterranee; poi perché fra i gas di combustione si for-ma l’anidride carbonica, responsabile del riscaldamentoglobale del pianeta, in quantità superiore, per unità di ca-lore prodotto, a quella liberata dal petrolio e dal metano.Pur essendo abbondante nel mondo, il carbone è, insom-ma, un concentrato di nocività ambientali, il che non vietache sia usato nel mondo in una quantità superiore a quelladello stesso petrolio. Dal momento che è abbondante, dif-fuso in molti Paesi del mondo, dalla Siberia all’Africa meri-dionale, alla Cina, dal Canada al Sud America, e che costapoco, rispetto agli idrocarburi, tutti i Paesi del mondo cer-cano di inventare dei sistemi per utilizzarlo in maniera “pu-lita”, si fa per dire, in attesa di una transizione ad un cre-scente uso delle fonti energetiche rinnovabili, non fossili,non esauribili e non inquinanti. Molti sforzi in tutto il mon-do sono concentrati nella possibilità di trasformare il car-bone, nei suoi giacimenti sotterranei, in gas combustibilida portare in superficie senza bisogno di andare a metterele mani direttamente nei giacimenti di carbone.I processi di gassificazione sotterranea sono stati pensati eproposti già molte volte nel passato: il primo a proporli, nel1868, è stato William Siemens (1823-1883), uno scienziato

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tedesco a cui si devono anche fondamentali invenzioni insiderurgia. Quasi contemporaneamente la stessa idea fuproposta dal chimico russo Dimitri Mendeleev (1834-1907), quello della tabella degli elementi. Il primo brevet-to fu ottenuto nel 1909 dall’americano Anson G. Betts e ilchimico scozzese William Ramsey (1852-1916) propose su-bito di applicare il processo in Inghilterra. Queste ricercheattrassero l’attenzione di Lenin, allora in esilio a Zurigo,che nel 1913 scrisse un articolo sulla “Pravda”, citando ibenefici che la gassificazione sotterranea avrebbe potutodare ad una società socialista, eliminando il duro lavoronelle miniere. A partire dal 1928, Stalin decise di applicareil processo nell’Unione Sovietica e i primi impianti comin-ciarono a funzionare dal 1937 in poi.La gassificazione sotterranea del carbone si ottiene facen-do arrivare all’interno del giacimento, a centinaia di metridi profondità, nel sottosuolo, delle tubazioni verticali, simi-li a quelle usate per raggiungere i giacimenti petroliferi.Nel caso del carbone occorrono due tubi: attraverso uno diquesti viene iniettata nel giacimento di carbone dell’ariacalda o dell’aria insieme a vapore acqueo. Nel sottosuoloinizia una reazione di combustione parziale del carbone.L’ossigeno dell’aria e dell’acqua reagiscono con il carbonio,che rappresenta il principale elemento chimico presentenel carbone fossile, con formazione di ossido di carbonio,idrogeno e vapore acqueo, a seconda della proporzione deigas iniettati. I gas così formati vengono raccolti nel secon-do dei due tubi immersi nel giacimento e salgono in super-ficie; i gas di combustione parziale contengono ancora so-stanze inquinanti che però possono essere più facilmente

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separate e filtrate; le ceneri e molti elementi tossici e so-stanze cancerogene restano sul fondo del giacimento dicarbone.L’ossido di carbonio e l’idrogeno, i principali gas che ritor-nano in superficie in seguito alla gassificazione sotterraneadel carbone, sono entrambi combustibili, relativamente po-co inquinanti, possono essere immessi nei metanodotti esi-stenti, possono essere utilizzati come fonte di calore percentrali elettriche, industrie e abitazioni. Del resto, il “gasdi città”, ottenuto dal carbone nelle officine del gas (i “ga-sometri” esistenti in molte città) e utilizzato per molti de-cenni come combustibile per cucina e scaldabagni, era pro-prio costituito da ossido di carbonio e idrogeno. Questistessi due gas si prestano, inoltre, come materie prime persintesi organiche, quelle che oggi sono realizzate partendoda metano o da prodotti petroliferi, per esempio per la sin-tesi dell’ammoniaca e dei concimi azotati, e addirittura perla “benzina sintetica”, una miscela di idrocarburi uguali aquelli oggi ottenuti dalla raffinazione del petrolio.La gassificazione sotterranea del carbone deve essere con-dotta con grandi cautele, perché c’è il rischio che la reazio-ne sfugga ai controlli e si formi un incendio esteso all’inte-ro giacimento, con il conseguente rischio di un collassodelle rocce sovrastanti e di esplosioni; ma anche a questo iproponenti pensano si possa rimediare, regolando i flussidei gas in entrata o allagando i giacimenti sotterranei conle falde idriche che sovrastano il carbone.Non ci sono rischi? Possiamo, quindi, utilizzare questocombustibile abbondante, poco inquinante, libero da sco-rie e ceneri che restano nel sottosuolo, con produzione di

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gas che si prestano a molti usi? Non proprio, perché se al-cuni inconvenienti del carbone vengono così eliminati, e lagassificazione sotterranea merita comunque di essere stu-diata e perfezionata, alla fine, tutto il carbonio presenteoriginariamente nel carbone nel sottosuolo, anche se por-tato in superficie in forma gassosa, si trasforma nella solitaanidride carbonica, principale responsabile del riscalda-mento del pianeta, proprio come se il carbone fosse brucia-to in superficie. Purtroppo la natura non dà niente gratis.

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Fiammiferi e veleni

Anche quello di lavoro è un ambiente, e fonte di nocività,perciò esiste anche un’ecologia della fabbrica e dei campi.Un esempio è offerto dalla storia dei fiammiferi.Alla fine dell’Ottocento, il Regno d’Italia aveva disperatobisogno di quattrini dopo le costose stangate prese nellaguerra di Abissinia (1895-1896) e dopo i moti di protestaper il caro pane che il feroce generale Fiorenzo Bava Bec-caris (1831-1924) aveva soffocato nel sangue nel giugno1898. L’idea di unificare le grandi fabbriche di fiammiferi, edi creare un monopolio statale per riscuotere una fruttuo-sa imposta su un genere di così grande necessità come ifiammiferi, sembrava geniale ai governi che si succedeva-no senza tregua, spesso senza il controllo del Parlamento.Il “cartello” fra produttori avrebbe gettato sul lastrico mi-gliaia di piccoli fabbricanti e i loro sventurati operai.Sventurati davvero, perché la produzione dei fiammiferiera una delle manifatture più pericolose e nocive. I fiammi-

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Merci e ambienti

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feri erano allora fabbricati tagliando dei pezzetti di legno,immergendoli in una massa fusa e fumosa di fosforo bian-co e lasciando essiccare all’aria la capocchia. I fiammiferi siaccendevano sfregandoli su una superficie ruvida.Si trattava di un’industria relativamente giovane; la tecni-ca di fabbricazione dei fiammiferi era stata perfezionata in-torno al 1840, dopo che era stato messo a punto anche unprocesso per la produzione del fosforo. La materia primaera rappresentata dai fosfati minerali e dalle ceneri delleossa, contenenti fosfato di calcio. Per trattamento con aci-do solforico, altro prodotto dell’industria chimica nascen-te, si otteneva l’acido fosforico che veniva poi trattato concarbone e trasformato in fosforo. Ho parlato prima di fosfo-ro bianco, perché il fosforo esiste in due forme chimica-mente identiche, ma diverse come tossicità. Il fosforo bian-co, più facile da ottenere e più economico, ma molto tossi-co, era usato per i fiammiferi; col fosforo rosso, molto me-no tossico, era più difficile produrre i fiammiferi.Lavorare in spazi ristretti, pieni di fumi, rappresentava unadelle più gravi fonti di mortalità sul lavoro: si trattava di al-cune decine di migliaia di persone, per lo più donne e bam-bini, che letteralmente mangiavano “pane e fosforo”. Il pa-

ne attossicato, infatti, è proprio il titolo di un libro che of-fre uno sguardo agghiacciante su oltre un secolo di morti eincidenti. L’autrice Nicoletta Nicolini, chimica e storica, ri-percorre il lungo intreccio di rapporti fra industriali e go-verno, da una parte, e la voce di coloro che difendevano lasalute dei lavoratori, sparsi in alcuni grandi stabilimenti,ma anche in decine di fabbrichette presenti in tutta Italia,talvolta nelle cantine delle case.

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Nel corso di oltre mezzo secolo, il fosforo bianco dei fiam-miferi è stato causa di morti anche fuori dalle fabbriche. Aparte la nuova moda del suicidio per ingestione delle ca-pocchie degli ”zolfanelli”, erano numerosi i casi di intossi-cazione per contatto accidentale, specialmente nelle cam-pagne, con il fosforo dei fiammiferi, fino ai bambini che siustionavano per l’accensione accidentale dei fiammifericon cui stavano giocando. In un libro “pedagogico”, che sileggeva ancora quando ero ragazzo io, Pierino Porcospi-

no, è raccontata la triste favoletta dell’imprudente Paoli-nella, ridotta in cenere per aver acceso i fiammiferi nono-stante l’invito alla prudenza dei gatti di casa.Le morti e le malattie si potevano evitare sostituendo il fo-sforo rosso a quello bianco; addirittura l’Italia aveva firma-to accordi internazionali che vietavano l’uso del fosforobianco. Ma gli industriali, con la complicità anche di alcunigrandi cattedratici e di vari parlamentari, riuscirono a evi-tare i costi dei mutamenti tecnologici richiesti dal divietodell’uso del fosforo bianco, rimandando l’entrata in vigoredel divieto dal 1905 al 1924. Il libro citato è dedicato allemigliaia di giovani vite sacrificate, nel corso di quel venten-nio, sull’altare del profitto e racconta gli intrighi di questapagina sconosciuta della storia industriale ed economicaitaliana nell’Italia preunitaria poi di quella unita, fino allaPrima Guerra Mondiale e all’avvento del fascismo. Tuttieventi visti attraverso gli occhi di piccoli imprenditori, disconosciuti operai, di grandi affaristi. Il libro racconta anche la lunga storia dell’imposta sui fiam-miferi e dei tentativi per allontanare le industrie nocive daicentri urbani, due gruppi di eventi che ricevettero, a cavallo

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fra il XIX e il XX secolo, grande risonanza e furono oggettodi inchieste e dibattiti parlamentari, un’importante e dimen-ticata pagina della storia della chimica e della storia politica.

Goodyear e la scoperta della vulcanizzazione

Non potremmo andare in automobile, non potremmo usa-re Internet o scrivere con il computer, non avremmo luceelettrica nelle case, non potremmo godere delle merci edei beni della società moderna, se non fosse stato perl’americano Charles Goodyear (1800-1860), un uomo a cuidobbiamo tanto e a cui la società del suo tempo ha dato co-sì poco.Da ragazzo, Goodyear aiutava il padre in un negozio di fer-ramenta che fallì abbastanza presto; le imprese commercia-li a cui si dedicò nel corso della vita furono tutte degli insuc-cessi e morì in miseria; per tutta la vita fu ossessionato daimisteri della “gomma elastica” che, in quei primi anni del-l’Ottocento, veniva importata dal Brasile e che aveva trova-to soltanto qualche modesta applicazione commerciale.Si trattava della gomma estratta dalla corteccia di alcunepiante del genere Hevea, presenti nella foresta brasiliana;un materiale elastico che poteva essere sciolto in un sol-vente e, in soluzione, poteva essere steso su un tessutorendendolo impermeabile, anche se di pessima qualità. Lagomma diventava appiccicosa col caldo e dura col freddo.La “febbre della gomma”, che aveva investito l’America, eragià finita nel 1830, migliaia di oggetti di gomma venivanobuttati via o restavano invenduti per questi inconvenienti.

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La leggenda vuole che Goodyear, in prigione per debiti, sisia fatto portare dalla moglie dei campioni di gomma pervedere come potevano esserne migliorate le caratteristi-che. Se la gomma era appiccicosa, forse aggiungendo qual-che polvere l’inconveniente avrebbe potuto essere elimina-to. Nei mesi successivi, a Filadelfia, provò a scaldare lagomma con magnesia, ma i vicini protestavano per la puz-za che si levava dalla sua casa. Per farla breve, provò mol-te altre sostanze e, facendosi prestare dei soldi, cercò diprodurre a New York sovrascarpe di gomma che erano unapeggiore dell’altra. La grande crisi economica americanadel 1837 lo gettò sul lastrico e si ridusse a vivere con la mo-glie e i figli mangiando il pesce che pescava nel porto diStaten Island.Nel 1839, sempre nella miseria più nera, Goodyear si tra-sferì a Woburn, nello Stato del Massachusetts, cittadina de-stinata a diventare celebre proprio perché, nel febbraio diquell’inverno, Goodyear fece la scoperta fondamentale acui resta legato il suo nome: provò a preparare una misce-la di gomma e di polvere di zolfo e la lasciò su una stufa; lamiscela prese fuoco e Goodyear la raffreddò rapidamentee, con grande sorpresa, si trovò fra le mani una gomma, an-cora elastica, ma resistente al caldo e al freddo, impermea-bile all’acqua, facilmente lavorabile e finalmente adatta perla preparazione dei manufatti con cui l’inventore avrebbevoluto riempire il mondo. Il caso aveva premiato l’uomoche aveva dedicato tutta la sua vita a trasformare la gom-ma greggia nel materiale più importante della storia, quel-lo che si sarebbe chiamato “gomma vulcanizzata”.Dopo altri mesi di miseria, malattie, lutti familiari (dei dodi-

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ci figli, sei morirono da piccoli), finalmente trovò degli indu-striali che riconobbero l’importanza della scoperta. Goodyeartardò nel chiedere un brevetto per la sua invenzione e man-dò vari campioni della nuova gomma in Inghilterra; uno diquesti cadde sotto gli occhi di un famoso pioniere inglese del-la gomma, Thomas Hancock (1786-1865), che per vent’anniaveva cercato anche lui di eliminare gli inconvenienti dellagomma naturale, senza successo. Hancock notò la presenzadi tracce di zolfo nella gomma vulcanizzata e immediatamen-te ripeté gli esperimenti che tanta fatica erano costati a Good-year e brevettò, nel 1843, l’effetto vulcanizzante dello zolfo,appropriandosi della scoperta che Goodyear aveva fatto quat-tro anni prima. Quando Goodyear chiese di brevettare in In-ghilterra la sua invenzione, scoprì che Hancock lo aveva pre-ceduto di poche settimane.Goodyear espose alle fiere mondiali di Parigi e Londra del1850 i suoi oggetti di gomma vulcanizzata, riscuotendogrande attenzione e successo, ma finì di nuovo in prigioneper debiti, con tutta la famiglia. E fu in prigione che rice-vette la croce della Legion d’Onore assegnatagli dall’impe-ratore Napoleone III come riconoscimento per la sua rivo-luzionaria invenzione.Quando morì, nel 1860, Goodyear lasciò 200mila dollari didebiti alla famiglia e come testamento scrisse: “La vita nonsi può valutare soltanto sulla base dei soldi; non mi ramma-rico di avere seminato e che altri abbiano raccolto i fruttidel mio lavoro. Un uomo deve rammaricarsi soltanto se haseminato e nessuno raccoglie”.Quello che Goodyear aveva seminato fece esplodere la do-manda mondiale della gomma; dal Brasile la coltivazione

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delle piante della gomma passò nel Sud-est asiatico e inAfrica; la raccolta della gomma provocò crisi militari, sfrut-tamento dei lavoratori, guerre, disastri ecologici: quando lagomma naturale cominciò a scarseggiare furono inventatidei surrogati sintetici.Nel 2010 si sono prodotte nel mondo oltre dieci milioni ditonnellate di gomma naturale e quattordici di gomma sin-tetica. Trattato e vulcanizzato secondo l’invenzione diGoodyear, tutto questo materiale entra nei copertoni diautomobile e di aereo, nei fili elettrici, nei nastri traspor-tatori dei raccolti agricoli, nelle scarpe, in innumerevolimerci e processi industriali. “Goodyear” è oggi il nome diuno dei colossi dell’industria della gomma, anche se l’in-ventore della vulcanizzazione e la sua famiglia non ebbe-ro niente a che fare con questa impresa e non ne trasse-ro alcun vantaggio.

Plastica

“Sappi che l’avvenire è racchiuso in una sola parola, unasola: plastica”. Nel celebre film Il laureato, di Mike Nichols(1967), è questo il consiglio che un amico di famiglia dà algiovane Braddock (Dustin Hoffman) durante la sua festa dilaurea, per indicare dove orientare il suo futuro di lavoro.La frase rifletteva il pensiero corrente nell’età dell’oro del-la plastica; si può ben dire che il Novecento sia stato segna-to dai nuovi materiali sintetici che, del resto, sono “nati”, sipuò dire, proprio agli inizi del secolo scorso, nel 1906.Risale infatti a quell’anno il brevetto americano n. 942.699

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depositato da Leo Baekeland (1863-1944), per un nuovomateriale ottenuto dalla combinazione del fenolo con la for-maldeide. Quando fece la rivoluzionaria invenzione della“plastica”, questo Leo Baekeland era già un personaggiospeciale. Nato in Belgio da modesta famiglia, si era laureatoin chimica, poi si era trasferito negli Stati Uniti, animato dal-la passione per le invenzioni e per il successo economico.Baekeland aveva già inventato una carta fotografica, chia-mata Velox, con la quale era possibile sviluppare le fotogra-fie anche alla luce artificiale, un’innovazione molto impor-tante perché fino allora le fotografie potevano essere svi-luppate soltanto alla luce del Sole. Per la produzione diquesta carta Velox aveva fondato la società Nepera. Geor-ge Eastman (1854-1932), altro imprenditore nato poveroche aveva fatto una fortuna con l’invenzione della macchi-na fotografica popolare Kodak, capì l’importanza dell’inno-vazione e acquistò nel 1899 la Nepera e i brevetti Baeke-land per un milione di dollari, una cifra allora favolosa.Ma intanto altri problemi richiamarono l’attenzione di Bae-keland. La fine dell’Ottocento era stata caratterizzata dal-l’espansione dell’elettricità: le forze del calore e del motodelle acque potevano essere trasformate in elettricità me-diante dinamo e l’elettricità poteva azionare le macchinemediante motori elettrici e l’elettricità poteva arrivare dal-le dinamo ai motori e agli impianti di illuminazione e nellecittà e nelle fabbriche e ai telegrafi mediante fili di rame.Per evitare dispersioni e perdite nelle dinamo e nei moto-ri, i fili elettrici erano rivestiti con la gommalacca, una so-stanza resinosa che fuoriesce dai rami di alcune piante, inseguito alla puntura di una cocciniglia, l’insetto Laccifera

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lacca, che va a deporvi le uova. L’aumento della richiestaaveva reso la gommalacca scarsa e costosa e Baekelandcercò di ottenere un surrogato artificiale.Qualche anno prima, durante le ricerche per la sintesi del-l’indaco, il grande chimico tedesco Adolf von Baeyer (1835-1917) aveva osservato che dalla reazione del fenolo, un li-quido derivato dalla distillazione del catrame di carbone,con la formaldeide, un sottoprodotto della distillazione sec-ca del legno, si formava un residuo resinoso e appiccicosoche rappresentava uno scarto inquinante. Partendo da que-sto rifiuto, Baekeland studiò a fondo la reazione fra fenolo eformaldeide e osservò che il materiale resinoso risultanteera un buon isolante elettrico e rappresentava il surrogatoideale della gommalacca. Si trattava della prima vera macro-molecola artificiale e quindi era la prima materia plastica.La resina fenolo-formaldeide non si rivelò soltanto adattacome vernice e isolante elettrico; nel 1907 si scoprì che, mi-scelando la resina con farina fossile, si otteneva una materiasolida, stampabile a caldo, che fu chiamata “bachelite” e cheebbe un grande successo per oggetti domestici, telefoni, ap-parecchiature elettriche, eccetera. Baekeland creò la socie-tà “Bakelite” per la fabbricazione e commercializzazione del-le resine fenolo-formaldeide (la società fu venduta successi-vamente al gigante chimico Union Carbide).Gli anni successivi videro molti altri successi della materiascoperta da Baekeland. Mentre cercavano dei surrogati perla mica, il minerale usato come isolante elettrico in sottilifogli, alcuni scoprirono che una materia adatta allo stessoscopo, che fu chiamata “For-mica” (al posto della mica), siotteneva miscelando resine fenolo-formaldeide con sega-

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tura o polvere di legno. Da questa scoperta derivarono i la-minati plastici denominati “formica” ancora oggi usati, par-tendo da resine diverse.Leo Baekeland, che era stato, oltre che scienziato e inven-tore, un fortunato e abile imprenditore, morì nel 1944 nel-la sua villa vicino New York.Ormai si parla di resine fenoliche per indicare molte materieplastiche sintetiche termoindurenti, ottenute facendo reagi-re con formaldeide, o con altre aldeidi, il fenolo e i cresoli,con addizione di vari materiali di carica. Benché non sianofra le più diffuse materie plastiche commerciali, sono usateancora per molti oggetti di uso comune e addirittura alcunistilisti ne stanno riscoprendo alcune virtù estetiche.Questa storia offre l’occasione per ricordare che molte in-venzioni sono nate alla ricerca di surrogati di materiali di-ventati scarsi e costosi; molte invenzioni sono nate osser-vando le proprietà di cose buttate via, rifiutate; molti in-ventori erano nati poveri e sono diventati persone di suc-cesso perché tenevano gli occhi aperti sul mondo circo-stante. Louis Pasteur (1822-1895) disse una volta che il ca-so aiuta la mente preparata.

La guerra delle terre rare

Dimitri Mendeleev, il grande chimico russo, è ricordatoprincipalmente per aver “scritto”, nel 1869, una tabellanella quale aveva disposto in ordine di peso atomico cre-scente tutti i sessantatré elementi noti al suo tempo. A ma-no a mano che procedeva, quando trovava un elemento con

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proprietà chimiche simili a quelle di uno già incontrato, loscriveva in una casella sotto il primo, e così via. In questomodo ciascuna riga conteneva atomi con proprietà diversee ciascuna colonna conteneva atomi con proprietà simili. Lerighe si chiamano oggi “periodi” e le colonne “gruppi”. Eraun’intuizione sbalorditiva: infatti quando veniva scopertoun nuovo elemento, ancora Mendeleev in vita, questo anda-va a collocarsi proprio in una delle caselle lasciate vuote.Non solo, ciascuna posizione nella tabella mostrò di avereun significato chimico ben preciso. Immagino il dispiaceredi Mendeleev nel vedere che nella sua tabella c’erano deglienormi vuoti. Dopo il lantanio, che ha peso atomico 138(138 volte il peso dell’idrogeno). conosceva il cerio che pe-sava 140 (un metallo usato negli accendini a sfregamento),ma l’elemento successivo noto pesava 180. Deve esserecontento, là dove ora si trova, vedendo che tutte le casellesono state riempite e anzi che quel vuoto è ora pieno di bendiciassette elementi: i primi due sono lantanio e cerio, se-guiti da elementi dai nomi poetici: neodimio, promezio, sa-mario, europio, lutezio, eccetera, chiamati, per la loro limi-tata diffusione, “terre rare”.Non varrebbe la pena parlare delle terre rare, o “elementilantanidi”, se non fossero venuti a occupare delle posizionicommerciali e strategiche enormi, al punto che c’è un in-tenso crescente sfruttamento delle poche miniere in cui sitrovano, peraltro a bassissima concentrazione. Tanto percapirci, ve li nomino tutti, in ordine: lantanio, cerio, pra-seodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio,terbio, disprosio, olmio, erbio, tallio, itterbio, lutezio. Guar-date le pale dei motori eolici che si stagliano contro il cie-

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lo delle nostre colline, ruotando lentamente e producendoelettricità. Ebbene, questo è possibile perché sono stati in-ventati dei magneti permanenti che trasformano la rotazio-ne delle pale in elettricità e tali magneti sono costituiti dauna lega neodimio-ferro-boro contenente circa il 27% dineodimio. La lega è stata scoperta quasi contemporanea-mente nel 1982 dall’americana General Motors, dalla giap-ponese Sumimoto e dall’Accademia delle Scienze cinese.Una turbina da un megawatt di potenza contiene magnetiche richiedono circa 200 chili di neodimio.Sentite parlare delle automobili ibride, a benzina ed elettri-che, come la soluzione ecologica del futuro? Ebbene anchein ognuna di queste c’è un motore elettrico con magnetipermanenti contenente neodimio. Le auto elettriche, poi,hanno bisogno di batterie di accumulatori a idruri di nichelche richiedono uno degli elementi delle terre rare, il lanta-nio, con aggiunta di praseodimio, disprosio e terbio. Il neo-dimio è indispensabile anche in tutti i magneti permanentidi cui siamo circondati, dalla superficie dei CD e dei DVD,a quelle strisce nere delle carte di credito, senza le qualinon si potrebbero fare acquisti.Siete contenti dei bei colori brillanti delle immagini del vo-stro televisore? I vivaci toni del rosso sono possibili perchéil rivestimento del video contiene europio. I grandi pro-gressi degli schermi di computer, e di telefoni cellulari concui si può comunicare col tocco di un dito, sono stati resipossibili da rivestimenti contenenti terre rare. Senza con-tare l’uso del lantanio nella raffinazione del petrolio e diterre rare nelle ultrasofisticate apparecchiature militari.La richiesta dei metalli delle terre rare sta rapidamente au-

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mentando e aumenta anche il prezzo, dal momento che ilmonopolio della loro estrazione è cinese, e i cinesi fannosapere di voler limitare l’esportazione delle terre rare perusarle tutte nei loro grandi progetti di diffusione dei moto-ri eolici e di sviluppo dell’elettronica di consumo che pro-ducono ed esportano in tutto il mondo. Oltre il 90% di tut-te le terre rare prodotte nel mondo, poco più di 100milatonnellate all’anno, sono estratte da una grande minierache si trova a Bayanobo nell’altopiano della Mongolia. LaCina produce il 100% delle tre terre rare più “strategiche”:disprosio, terbio ed europio; assorbe il 60% della propriaproduzione ed esporta il resto, ma il grande Paese è in ra-pida espansione e si prevede che aumenterà l’uso internoe diminuirà l’esportazione di terre rare.Si può immaginare che i Paesi occidentali siano ben preoc-cupati e cerchino altri giacimenti dei minerali da cui è pos-sibile estrarre terre rare. A Mountain Pass, in California,c’è una grande miniera che, negli anni Ottanta del secoloscorso, era arrivata a produrre 20mila tonnellate all’anno dilantanio e ossidi misti di neodimio e praseodimio. Fu poichiusa nel 2002, quando la Cina cominciò a invadere ilmondo con le proprie terre rare a basso prezzo. Altri giaci-menti da cui estrarre terre rare, ma con maggiori costi, sitrovano in Canada, in Australia, in Russia. Per inciso, i mi-nerali contenenti terre rare sono accompagnati da altricontenenti gli elementi radioattivi torio e uranio. Se cesse-ranno le esportazioni cinesi di terre rare, aumenterà ilprezzo di molte apparecchiature elettroniche, dei motorieolici e delle tanto attese auto elettriche. Inutile dire chec’è una grande agitazione nei mercati mondiali dei metalli

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e una febbrile ricerca di nuove leghe adatte per la fabbri-cazione di magneti permanenti. Una di queste è costituitada cobalto e samario; quest’ultimo, però, è anch’esso unelemento delle terre rare. Insomma, gli elementi che Men-deleev non conosceva si stanno rivelando più preziosi del-l’oro e dei diamanti.

Olio di palma

Si fa una gran fatica ad essere amici dell’ambiente. Il grandibattito in corso ricorda che le modificazioni climatichesono dovute all’aumento della concentrazione nell’atmo-sfera dell’anidride carbonica (il principale dei “gas serra”),proveniente dalla combustione dei combustibili fossili. In-fatti, la combustione di ogni nuova tonnellata di carbone opetrolio immette nell’atmosfera circa tre tonnellate di ani-dride carbonica che va ad aggiungersi a quella che l’atmo-sfera già contiene. Ci sono altre cause del peggioramentodel clima, come gli incendi degli alberi delle foreste: ognialbero bruciato non “porta via” più, dall’atmosfera, l’anidri-de carbonica che continuamente, da vivo, assorbirebbe perla sua crescita e anzi libera altra anidride carbonica.Per rallentare i cambiamenti climatici in atto, un primopasso sarebbe la diminuzione dei consumi di combustibilifossili. In alternativa, per riscaldare le case, far circolare leautomobili e far funzionare i televisori, viene proposto diusare dei combustibili ricavati dai vegetali, sostanze ancheloro ricche di energia e che possono ricrescere, una voltausate, grazie ai grandi cicli della natura. Su questo criterio

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è basata la produzione di biodiesel, un derivato dei grassinaturali usato al posto del gasolio o come additivo del ga-solio petrolifero. Il biodiesel è costituito da sostanze deri-vate (si chiamano esteri) dagli acidi grassi presenti in tut-ti i grassi vegetali e animali: si tratta di prendere dei gras-si, per lo più vegetali, che costino poco e siano abbondantie di trasformarli con reazioni chimiche negli esteri metilicidei loro acidi grassi. La massima attenzione nel mondo dei produttori di biodie-sel è rivolta all’uso degli acidi grassi dell’olio di palma, l’oliovegetale di cui vengono prodotti nel mondo circa 35 milionidi tonnellate all’anno. Ci vorrebbero delle quantità enormi diolio di palma se si volessero sostituire tutte le centinaia dimilioni di tonnellate di gasolio usate ogni anno nel mondo,ma almeno è un passo avanti. Come risultato di questa inno-vazione tecnologica è aumentata la richiesta mondiale di oliodi palma che si ottiene dal frutto della palma da olio. I bota-nici la chiamano Elaeis guineensis perché è originaria del-lo Stato africano della Guinea, dove l’ha trovata e descritta,nel 1763, il botanico olandese Nikolaus von Jacquin (1727-1807). Il chimico francese Edmond Frémy (1814-1894) haanalizzato la composizione dell’olio di palma e ha identifica-to i due principali acidi grassi presenti: l’acido laurico e l’aci-do palmitico (che ha preso il nome dalla palma da olio); dueacidi grassi saturi, cioè privi di doppi legami, solidi.Ben presto l’olio di palma, l’unico grasso solido, proprio perquesta proprietà ha cominciato ad essere utilizzato indu-strialmente, nel corso dell’Ottocento, sia come grasso ali-mentare, al posto del burro, sia per la fabbricazione di sa-poni e di candele e anche come lubrificante per macchina-

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ri. Nel 1848, gli olandesi iniziarono la coltivazione della pal-ma da olio a Giava e, nel 1910, lo scozzese William Sime eil banchiere Henry Darby, che avevano già delle piantagio-ni di gomma in Malesia, pensarono di introdurre la coltiva-zione della palma da olio in quel Paese, allora colonia bri-tannica. La richiesta mondiale di olio di palma aumentòcontinuamente e dopo l’indipendenza della Malesia le pian-tagioni furono nazionalizzate, “malesizzate”. La Malesia,oggi Malaysia, è il principale produttore ed esportatore diolio di palma.Il frutto della palma pesa da 6 a 20 grammi e contiene unapolpa e un seme. La polpa, che contiene circa il 50% di gras-so, viene sterilizzata con vapore, e, dopo la separazione deisemi, viene cotta e pressata. L’olio di palma che se ne ricavaè di colore rosso per l’elevato contenuto di beta-carotene. Ilseme, a sua volta, contiene il 50% di grasso (olio di palmi-sto) e, dopo l’estrazione dell’olio, resta un panetto proteicoadatto per l’alimentazione del bestiame. La maggior partedell’olio di palma e di palmisto trova impiego per usi alimen-tari, nell’industria dei detersivi, eccetera, ma la produzionedi biodiesel sta rapidamente aumentando e di conseguenzaè aumentata la richiesta di olio di palma. Circa la metà dellaproduzione mondiale si realizza in Malaysia, che è anche ilgrande esportatore mondiale, seguita dall’Indonesia e dallaNigeria.Tutto bene, quindi? Un aumento della produzione di bio-diesel, e quindi una minore emissione di anidride carboni-ca per ogni chilometro percorso da un automezzo, l’au-mento della produzione di olio di palma in Malaysia e Indo-nesia, con conseguente vantaggio economico per questi

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due Paesi emergenti, nuove attività nell’industria chimica:sembrerebbe che le azioni per la difesa del clima siano ac-compagnate da vantaggi economici. Fino a un certo punto,perché la crescente richiesta di olio di palma ha indotto gliabitanti dei due principali Paesi produttori ad estendere lecoltivazioni in terreni fino allora occupati dalle foreste tro-picali che da anni vengono selvaggiamente tagliate o bru-ciate per lasciare spazio alle nuove colture.La distruzione delle foreste tropicali non solo contribuisce,come si accennava prima, al peggioramento del clima, macomporta anche la perdita di biodiversità, essenziale per lastabilità degli equilibri ecologici e per l’alimentazione dellepopolazioni locali. Inoltre, le foreste tropicali crescono interreni ecologicamente e geologicamente poveri e istabili:distrutte le foreste, ben presto le piogge tropicali provocanorapidi fenomeni di erosione che rendono poco produttivi iterreni liberati nella speranza di grandi guadagni. Nelle scel-te ecologiche future bisogna quindi vigilare, attraverso unaricerca scientifica lungimirante, per non uscire da una trap-pola tecnologica e cadere in un’altra. Davvero, ci piaccia ono, in natura, ogni cosa è legata a tutte le altre.

L’auto elettrica e il litio

Verrà un giorno in cui l’aria delle città sarà limpida e tra-sparente, il traffico sarà silenzioso, forse addirittura fintroppo silenzioso, tanto da dover stare attenti ad attraver-sare la strada guardandosi a destra e sinistra? Questo sce-nario potrebbe non essere tanto lontano, a giudicare dalla

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corsa fra le grandi società automobilistiche per arrivare amettere in commercio auto elettriche. Così, l’automobilistala sera attaccherà il filo dell’automobile alla presa di cor-rente nel proprio garage e la mattina dopo l’automobile sa-rà pronta a muoversi silenziosa e non inquinante e, duran-te un lungo viaggio, troverà dei distributori di elettricitàaccanto a quelli di benzina.La transizione ai veicoli elettrici non è comunque facile eindolore; richiederebbe una crescente quantità di elettri-cità prodotta in centrali inquinanti, poste in località lonta-ne dalle città. La pulizia dell’aria urbana, perciò, sarebbepagata con l’inquinamento e costi ambientali in altre zonedel territorio di ciascun Paese. L’interesse per le auto elet-triche è stimolato sia dalla necessità di diminuire l’inqui-namento dell’aria delle città, sia da crescenti difficoltà ecosti per l’approvvigionamento del petrolio, da cercare neideserti, nelle zone artiche, nelle paludi africane, in fondoal mare, con gli inconvenienti dimostrati dal disastro del2010 del Golfo del Messico. Ma la natura non dà nientegratis: se si vuole sfuggire alla schiavitù del petrolio occor-rono altri dispositivi che richiedono materiali anch’essi,materiali che potrebbero generare altre schiavitù econo-miche e ambientali.L’elettricità, infatti, ha l’inconveniente di non stare mai fer-ma: la benzina può essere raccolta in un serbatoio e usatadomani, l’elettricità deve essere usata subito. L’elettricitàpuò essere “conservata” in batterie di accumulatori cheforniscono elettricità per qualche ora, poi devono essere ri-caricate. Le batterie al piombo-acido delle attuali automo-bili sono pesanti e scomode e l’auto elettrica del futuro ha

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bisogno di batterie ricaricabili molto più potenti e leggeree le uniche oggi disponibili sono quelle a base di litio. Il litio è il terzo elemento della tabella di Mendeleev e vie-ne dopo l’idrogeno e l’elio; è un metallo “leggero” perché ilsuo peso specifico è appena la metà di quello dell’acqua.Finora, i composti del litio sono stati usati nella produzio-ne del vetro, delle ceramiche e di alcune leghe leggere, perla preparazione di fluidi lubrificanti, e in pochi altri campi.Il litio ha riscosso interesse nel campo nucleare per la pro-duzione delle bombe atomiche all’idrogeno. La grandesvolta nell’utilizzazione e richiesta del litio si è avuta conl’invenzione delle batterie a ioni di litio ricaricabili, piccoligeneratori di elettricità per telefoni cellulari, macchine fo-tografiche, computer, eccetera.In ogni batteria esiste un anodo e un catodo, separati da unelettrolita; durante la carica l’elettricità scorre in una dire-zione, dopo di che, con un flusso in direzione opposta, labatteria restituisce l’elettricità accumulata. Per gli autovei-coli occorrono batterie al litio di altro tipo, a litio-polimeri,come si dice, nelle quali il catodo è costituito da ossido dilitio e cobalto od ossido di litio e manganese, e l’anodo ècostituito da litio. Fra il catodo e l’anodo è posto un elet-trolita, capace di trasportare l’elettricità nell’una e nell’al-tra direzione. A differenza delle piccole batterie a ioni di li-tio, quelle a litio-polimeri possono arrivare ad erogare da0,13 a 0,30 chilowattore di elettricità per ogni chilo di pe-so. L’energia necessaria per percorre tragitti lunghi, anchedi 150 chilometri prima della ricarica, può essere contenu-ta in un ingombro relativamente modesto. Certo, l’automo-bile elettrica deve essere progettata in modo del tutto dif-

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ferente da quelle con motore a scoppio, ma sono già incommercio i primi modelli di auto tutte elettriche (che so-no diverse da quelle ibride in cui è ancora presente un mo-tore a scoppio).Il litio è diventato così, improvvisamente, una materia pri-ma strategica. Gli Stati Uniti hanno prodotto litio dai mine-rali estratti da una miniera nel Montana; altri produttorisono Cile, Argentina, Cina e Australia. Ma occorre moltopiù litio e un nuovo gigante si affaccia nel mercato di que-sto metallo: la Bolivia, in cui si trovano grandi deserti sala-ti, residui dell’evaporazione di antichi laghi. Simili laghi sa-lati si trovano anche in Argentina e Cile, ma la Bolivia pos-siede la metà delle riserve mondiali di litio nel Salar deUyuni, un giacimento grandissimo in una terra desolata,assolata e arida. I sali di questi giacimenti, contenenti damezzo grammo ad alcuni grammi di litio per chilogrammo,insieme a magnesio e altri elementi, vengono disciolti inacqua e dalle soluzioni risultanti vengono fatti precipitare isali meno solubili. Alla fine, si ottiene una soluzione con-centrata di cloruro di litio dalla quale, per aggiunta di car-bonato di sodio, viene fatto precipitare il carbonato di litioinsolubile che sarà trasformato in ossido e litio metallico.Finora lo sfruttamento del litio boliviano è stato ostacolatodalla popolazione locale, preoccupata dai danni ambientalidovuti alla formazione di grandi depositi di residui, centi-naia di tonnellate per ogni tonnellata di litio ottenuto, maanche dal sospetto che le compagnie multinazionali stra-niere si possano portare via questa ricchezza mineraria delPaese, senza lasciare niente ai suoi abitanti. La Bolivia haun governo socialista che ritiene (giustamente) che i pro-

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fitti della vendita del litio debbano restare al popolo dellaBolivia e si profila, perciò, una “guerra del litio”. La mag-gior parte delle batterie ricaricabili al litio è prodotta in Ci-na e Giappone che si offrono di finanziare le imprese perl’estrazione dei sali di litio in Bolivia e in Argentina, conl’obiettivo di essere le prime nell’offerta anche di auto elet-triche, in concorrenza con Germania e Stati Uniti. Questacorsa ha fatto aumentare in pochi anni di quattro volte ilprezzo del litio. Come scriveva il settimanale inglese “TheEconomist” anni fa: “Tutto il potere alle materie prime”.

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Love Canal: una bomba a orologeria

Love Canal non è, come qualcuno potrebbe pensare, il ca-nale dell’amore, ma il canale che un imprenditore america-no, William Love, fece scavare intorno al 1890 per alimen-tare di acqua ed energia una città industriale modello, Mo-del City, che aveva progettato di costruire sulla riva setten-trionale del fiume Niagara, a poca distanza dalle celebri ca-scate, usate, in quegli anni, per la produzione di energiaidroelettrica. Anzi, a Niagara Falls, nel territorio dello Sta-to di New York, nacque la grande industria elettrochimicaamericana.Il canale non fu mai completato, Model City non fu mai co-struita, il sogno del signor Love svanì, ma il suo nome sa-rebbe diventato tristemente celebre, molti decenni dopo,perché associato al primo clamoroso caso di avvelenamen-to collettivo dovuto ad una discarica di rifiuti industriali.Negli anni dal 1942 al 1953, la società chimica Hooker (og-gi Occidental) affittò (e poi acquistò nel 1947) una parte

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Lavoro e Ambiente

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del terreno e il canale abbandonato e lo usò come discari-ca di circa 20.000 tonnellate di rifiuti tossici. La discaricafu chiusa nel 1953 e il terreno fu venduto dalla Hooker aldistretto scolastico della città di Niagara Falls che vi co-struì la scuola elementare di un nuovo quartiere. L’edificiosi trovava sulla 99a strada, proprio di fronte alla discaricacoperta. La parte rimanente del terreno fu venduta dal di-stretto scolastico ad alcuni privati che vi costruirono unquartiere: durante la costruzione, iniziata nel 1966, il ter-reno fu livellato e qualsiasi traccia della vecchia discaricascomparve. Nel 1972, il quartiere era completato.Dall’autunno del 1975 alla primavera del 1976 si ebberopiogge intense che impregnarono il terreno che si abbassòin vari punti. Si formarono così delle pozze di acqua forte-mente contaminata che si infiltrarono nelle case. Gli abi-tanti cominciarono a lamentarsi di strani odori e della com-parsa di sostanze sgradevoli e, nel 1976, un analista incari-cato dagli abitanti scoprì la presenza di sostanze tossichenell’aria e nei pozzi di molte delle case che si affacciavanosul canale abbandonato.Nella fognatura furono trovate elevate concentrazioni dibifenili policlorurati (PCB) cancerogeni, e di altre sostan-ze tossiche. In seguito alla protesta, nel 1977 e nel 1978 ifunzionari del servizio sanitario dello Stato di New York ri-conobbero l’esistenza di una contaminazione, con pericoloper la salute degli abitanti, e fecero intervenire gli organifederali. Da quel momento in poi le cose precipitarono.Il 2 agosto 1978 le autorità sanitarie dello Stato di NewYork e il 7 agosto il presidente Carter dichiararono lo statodi emergenza. Lo stesso 7 agosto il governatore dello Sta-

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to di New York, Carey, annunciò il trasferimento degli abi-tanti delle 238 abitazioni site proprio a ridosso del canale.Lo Stato avrebbe acquistato quelle abitazioni ad un prezzoche consentisse ai proprietari l’acquisto di altre case in al-tra zona. Alla fine del 1979 erano stati spesi 20 milioni didollari di allora per il trasferimento degli abitanti e per l’ini-zio della bonifica della discarica; l’accesso alla zona fu vie-tato a tutti, un po’ come era avvenuto a Seveso dopo l’inci-dente all’Icmesa di Meda, del luglio 1976.Il 20 dicembre 1979, dopo un’inchiesta durata un anno, ilDipartimento della Giustizia americano ha avviato una cau-sa civile contro la società Hooker accusata di aver causato,o di aver contribuito a causare, un grave danno alla salutepubblica e all’ambiente. Su richiesta del Dipartimento del-la Giustizia, la Environmental Protection Agency (Epa) de-gli Stati Uniti ha condotto un’indagine citogenetica su tren-tasei abitanti o ex-abitanti della zona di Love Canal. Il 19maggio 1980 sono stati resi pubblici i risultati che hannodimostrato un eccesso, rispetto alla media, di anomalie edanni cromosomici nel gruppo di soggetti esaminati.L’indagine ebbe grande risonanza in tutti gli Stati Uniti eprovocò ulteriore allarme fra i cittadini, anche se i “minimiz-zatori” – ben capendo che stava per scoppiare la bomba del-le discariche industriali abusive in tutto il Paese – si affret-tarono a mettere in discussione la validità dei risultati.In seguito a questi eventi, il 21 maggio 1980 il presidentedegli Stati Uniti dichiarò, per la seconda volta, lo stato diemergenza e altre 800 famiglie furono fatte sloggiare e tra-sferite in altre case. Nello stesso tempo fu dato ordine al-l’Epa di condurre uno studio sulle condizioni ambientali

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dell’intera zona intorno al canale. Lentamente, iniziarono iprelievi di campioni di suolo, acqua e aria fra le protestedegli abitanti delle case di Love Canal che non si fidavanodelle procedure di indagine. I risultati delle analisi furonopubblicati nel 1982, in tre volumi, e furono oggetto di variecritiche e inchieste anche parlamentari.Ho raccontato questa storia americana perché suggeriscevarie considerazioni. La prima riguarda ancora gli StatiUniti: Love Canal ebbe, sull’opinione pubblica americana,lo stesso effetto che ebbe sugli italiani la parola “Seveso”.Nel caso Love Canal c’erano, inoltre: l’irresponsabilità eignoranza dell’industria che tratta sostanze tossiche; losfruttamento del territorio; la protesta popolare, anche sefatta non tanto nell’interesse generale, quanto perché era-no colpite le proprietà private; i modi di intervento del go-verno, tentennante fra la necessità di mettere quieta lagente e la volontà di non disturbare eccessivamente l’indu-stria; il ruolo degli “scienziati” impegnati, a favore dell’in-dustria, a minimizzare pericoli e danni; la vittoria, alla fine,della protesta.La scoperta di Love Canal mise in moto la ricerca di altre di-scariche e ne furono scoperte, negli Stati Uniti, centinaia, alpunto da indurre il governo a finanziamenti straordinari(con la legge cosiddetta “Superfund”) per la bonifica dellezone contaminate. I rifiuti tossici diventarono, per l’opinionepubblica e il governo americani, un “problema”, che mobili-tò ricerche, indagini territoriali e che, bene o male, portò adavviare bonifiche e nuovi controlli su larga scala.Comunque, l’esperienza di Love Canal mostra che il mag-gior pericolo per la popolazione viene dalle discariche di ri-

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fiuti tossici formatesi nel passato, di cui spesso si è perso ilricordo, in cui si sono miscelate e stratificate varie sostan-ze pericolose, e sulle quali spesso sono sorti quartieri e abi-tazioni.Nel corso della storia industriale, anche in Italia centinaia difabbriche hanno gettato nell’ambiente e depositato nel sot-tosuolo, anche in seguito a innumerevoli incidenti e sversa-menti, le più varie sostanze (fenoli, amianto, idrocarburicancerogeni, residui di pesticidi, cromo, altri metalli, altriveleni). Spesso le fabbriche se ne sono andate una dopo l’al-tra, lasciando – a parte la disoccupazione – le falde sotterra-nee inquinate e una terra desolata che gli ex-proprietari, do-po averla avvelenata, spesso vendono ad incauti acquirentiche andranno a vivere su una bomba ad orologeria.Una grande, coraggiosa ricostruzione della storia industria-le del territorio italiano e delle scorie abbandonate, l’iden-tificazione dei veleni ancora esistenti (un lavoro per centi-naia di chimici, biologi, geologi, professori d’università), dibonifica (un lavoro per migliaia di tecnici e operai), offri-rebbe un segno che il nostro Paese ha una certa voglia didiventare davvero moderno.

La premiata ditta Bossi

Il viandante che percorre, a Milano, Via Carducci si fermiall’angolo con Corso Magenta; se guarda verso Santa Mariadelle Grazie e il Palazzo delle Stelline si trova di fronte alsito in cui si è svolta una delle prime contestazioni ecologi-che italiane. L’interessante storia è stata raccontata molti

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anni fa da Valerio Broglia, professore di chimica e storicoappassionato, purtroppo scomparso, in due articoli dimen-ticati, pubblicati nella rivista Chimica, ormai scomparsaanch’essa. Merita di essere dissepolta dall’oblio.Alla fine del 1700, una fiorente industria chimica esistevagià in Inghilterra, Francia, Germania. Il processo di produ-zione dell’acido solforico dallo zolfo e dal salnitro era statoapplicato su scala industriale intorno al 1750 in Inghilterrae ben presto erano sorte fabbriche simili in altri Paesi eu-ropei. L’acido solforico era la materia essenziale per la pro-duzione delle altre merci chimiche importanti. Trattandocon acido solforico il sale, era possibile ottenere il solfatodi sodio e l’acido cloridrico. Dal solfato di sodio, per reazio-ne con la calce (idrato di calcio), si otteneva l’idrato di so-dio. Ossidando l’acido cloridrico si otteneva cloro. Questiprodotti erano richiesti dall’industria tessile e della carta,per il trattamento dei metalli, per la fabbricazione del ve-tro e del sapone.Nel 1781, gli industriali inglesi avevano ottenuto l’abolizio-ne dell’imposta sul sale, una pratica fiscale che poteva ave-re senso in una società agricola e arretrata, ma che ostaco-lava l’industria chimica che aveva bisogno del sale a bassoprezzo come materia prima. Negli altri Paesi europei l’im-posta sul sale fu abolita poco dopo. In questo fervore pro-duttivo internazionale, l’Italia doveva acquistare all’estero iprodotti chimici di cui aveva bisogno e ciò spinse un certoFrancesco Bossi a chiedere al governo, nel maggio 1799,l’autorizzazione per istallare una fabbrica di acido solforicoe di altri prodotti chimici. In quell’anno Milano e la Lom-bardia, dopo una temporanea occupazione da parte di Na-

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poleone, erano stati restituiti all’Impero austriaco che li oc-cupava dal 1748.Il procedimento proposto da Bossi consisteva nel bruciare,in un apposito fornello, una miscela di zolfo e salnitro: i gassviluppati dalla combustione venivano portati a contattocon acqua in una “camera”, una specie di recipiente, dipiombo. In un documento del 13 maggio 1800, Bossi de-scrisse il processo chiedendo anche un monopolio per ven-t’anni per i prodotti ottenuti. La richiesta fu esaminata dapadre Ermenegildo Pini (1742-1819), regio delegato alleminiere, che espresse un parere favorevole in data 30 mag-gio 1800. Pochi giorni dopo, il 14 giugno, in seguito allabattaglia di Marengo, al governo austriaco successe la Re-pubblica italiana.La pratica andò avanti col nuovo governo che nominò co-me perito Antonio Porati (1742-1819), “farmacista in delrion de Porta Ticines”. Questi riferì di aver visitato il labo-ratorio di Bossi e di averlo trovato conforme a quanto de-scritto “nelle più recenti opere di chimica”. Il vicepresiden-te della Repubblica italiana rifiutò però a Bossi il monopo-lio richiesto, probabilmente per non danneggiare gli inte-ressi dell’industria francese.Bossi allora chiese un dazio doganale sull’acido solforicoimportato dalla Francia e un prestito: non ottenne né l’uno,né l’altro, ma solo la concessione dell’uso gratuito di alcu-ni locali dell’ex-convento di San Girolamo, confiscato dalloStato repubblicano e adibito a caserma e ad abitazione.Questo convento di San Girolamo si trovava nei pressi del-la Porta Vercellina – l’attuale incrocio fra Via Carducci eCorso Magenta – lungo il naviglio oggi coperto e dava il no-

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me all’attuale Via Carducci. Prima dell’ingresso dei france-si, l’edificio era stato un collegio o un seminario dei gesui-ti ed è stato distrutto all’inizio del 1900. In San Girolamo,quindi, si può dire che sia nata la prima industria chimicaitaliana.Oltre all’acido solforico, Bossi produceva anche acido clo-ridrico, acido nitrico, cloruro di ammonio, solfati di sodio,di potassio, di magnesio e di rame. L’acido nitrico era, fral’altro, usato per la preparazione delle lastre per la stampadelle monete da parte della Zecca.Ben presto la fabbrica fece sentire la sua presenza con laproduzione di fumi e miasmi che provocarono la protestadei coinquilini e dei gendarmi, ospitati nello stesso conven-to. È uno dei primi casi di protesta popolare e di lotta con-tro l’inquinamento dovuto a scorie industriale. Il 13 giugno1802 fu emessa un’ordinanza che obbligava Bossi a inter-rompere subito la produzione. Bossi cercò di opporsi, ac-cusando i concorrenti e gli importatori di acido di aver so-billato la protesta contro di lui. Ancora più arrabbiati, gliabitanti dell’edificio di San Girolamo ricorsero, il 16 giugno1802, alla Commissione Sanità del Dipartimento dell’Olona(la struttura amministrativa che comprendeva Milano eprovincia), qualcosa come l’assessorato regionale alla Sani-tà. La Commissione fece fare subito un sopralluogo e il 18giugno 1802 – a giudicare dalle date i procedimenti ammi-nistrativi in difesa della salute pubblica erano più rapidi dioggi – diede a Bossi tre giorni di tempo per murare le fine-stre verso il cortile, “onde togliere ogni comunicazione de-gli effluvi solforici col caseggiato”.I guai non erano finiti. Il 10 luglio, Bossi e un suo operaio

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furono “mezzi abbrucciati” dall’acido solforico; i due mal-capitati con i vestiti in fiamme si gettarono in un sarcofagodi pietra pieno d’acqua e Bossi dovette rimanere tre mesiin ospedale.Con la ripresa del lavoro, l’inquinamento e la puzza conti-nuarono fra le proteste dei soldati e dei coinquilini. Nel no-vembre dello stesso sfortunato anno 1802 il povero Bossi,pieno di debiti, dovette cedere la sua quota nell’impresa alsocio L. Diotto e ad un certo Michele (o Carlo o Francesco)Fornara (detto il Folcione), una specie di impiantista cheaveva costruito le apparecchiature. I tre soci litigarono perqualche tempo e Bossi uscì definitivamente di scena pro-prio nel momento in cui, nonostante l’inquinamento, gli af-fari cominciavano ad andare meglio.La produzione della nuova ditta continuò nei locali di SanGirolamo, ma l’inquinamento e le nocività continuarono adestare le proteste dei gendarmi e del vicinato. Nel 1807, ilprefetto del Dipartimento dell’Olona (la Repubblica italia-na si era nel frattempo trasformata in Regno Italico) fececompiere un ennesimo sopralluogo nella fabbrica di acidosolforico, ora della ditta Fornara & C. Ancora una volta fucostatata la nocività delle esalazioni gassose irritanti e ilPrefetto ordinò il definitivo trasferimento della fabbrica.Dapprima venne proposto il convento sconsacrato dei Cap-puccini (dove più tardi fu istallata un’altra fabbrica di aci-do solforico), ma poi nel 1808, dopo lunghe discussioni, lafabbrica Fornara si trasferì in San Vincenzo in Prato, altrachiesa sconsacrata dalle parti di Porta Genova (esiste an-cora oggi Via San Vincenzo), che sorgeva appunto in mez-zo ai prati, abbastanza isolata.

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La chiesa di San Vincenzo fu venduta nel 1810 ai soci Diot-to & Fornara per lire 10.193. Questi la vendettero poco do-po alla ditta di Giuseppe Candiani (1830-1910) e Biffi chevi istallò una fabbrica di acidi e per questo nell’Ottocentoera chiamata “casa del Mago”. La chiesa fu riaperta al cul-to di nuovo intorno al 1880.In San Vincenzo, la fabbrica Fornara riprese la produzionedi acido solforico e derivati nella primavera del 1809, solle-vando altre proteste dei nuovi vicini, ma ci fu anche alloraun perito compiacente, ancora quel Porati che abbiamo in-contrato all’inizio, pronto a testimoniare che non c’era nes-sun posto migliore per una fabbrica di acido solforico. Sepuò esserci qualche disturbo per le persone che devono re-spirare i vapori di acido da vicino – al più, tanto, si trattadegli operai – questi vapori anzi “diventano salubri quandosi dilatano e si allontanano dalla loro sorgente”. Il mondonon cambia mai.Questa pagina della storia minore – ma la storia del lavoroe dell’industria è proprio “minore”? – di Milano meritereb-be di essere maggiormente conosciuta. Chi sa che qualcu-no non voglia ricordare, con una lapide, i luoghi in cui è na-ta l’industria chimica e si sono sperimentate le prime con-traddizioni fra produzione di merci, produzione di scorie erifiuti, e salute dei lavoratori e dei cittadini.

Seveso

La Icmesa era una fabbrichetta chimica di Meda, nell’hin-terland milanese, che produceva triclorofenolo, una so-

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stanza intermedia da cui si ottengono erbicidi e disinfet-tanti. La mattina di sabato 10 luglio 1976 il sistema di raf-freddamento della miscela contenente triclorofenolo e so-da caustica si interruppe e la temperatura della miscela co-minciò ad aumentare, provocando la formazione di una so-stanza poco nota, la tetraclorodibenzo-para-diossina, oTcdd, altamente tossica. Dentro il reattore si formò unamassa pulverulenta che avrebbe dovuto essere trattenutada un filtro, ma la valvola non funzionò e una polvere bian-ca – che sarebbe stata nota come la “nube tossica” – si di-sperse nell’aria e ricadde, col suo contenuto di alcuni chilidi diossina, sulle campagne e le case del vicino paese di Se-veso, abitato da piccoli agricoltori e artigiani.Gli animali da cortile cominciarono ben presto a morire,sulla pelle di alcune bambine comparvero delle pustolettedi cloracne, gli abitanti di Seveso furono presi dal terrore;intanto la polvere era finita nelle acque del vicino fiume,poi sulle strade attaccandosi alle ruote delle automobiliche portavano la diossina verso i laghi e le zone vicine. Pervari giorni scienziati, amministratori locali, uomini politici,dirigenti dell’Icmesa, diffusero notizie contraddittorie. Benpochi sapevano che cosa produceva la fabbrica e solo mol-ti giorni dopo l’incidente, al nome “triclorofenolo” fu asso-ciata la parola “diossina”. Eppure incidenti simili a quellodell’Icmesa si erano già verificati ed erano noti: la presen-za di diossina era stata scoperta e descritta, fin dal 1970,nei defolianti (prodotti da triclorofenolo impuro di diossi-na) che l’esercito americano spargeva in abbondanza nellegiungle del Vietnam “infestate” dai partigiani comunisti edalla povera popolazione ostile agli arroganti invasori, e

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che provocarono morti e intossicazioni nelle popolazionilocali e fra gli stessi soldati americani.In quel luglio del ‘76 nessuno era veramente in grado di in-dicare gli effetti biologici e genetici del contatto con la dios-sina. Che cosa sarebbe accaduto ai figli delle donne incintesulle quali era caduta la polvere tossica? Sarebbe stato op-portuno consigliarle di abortire? Pagine di dolore e di spa-vento umano, pagine di crisi e incapacità e viltà del poterepolitico, di fallimento degli “scienziati” incapaci di analizza-re i terreni contaminati, di suggerire dei rimedi per ferma-re la diffusione della diossina dai terreni di Seveso alle po-polose zone circostanti. Ormai è un capitolo lontano, di-menticato, della storia dell’ambiente: la biologa Laura Con-ti (1921-1993) ha scritto un bellissimo drammatico reso-conto di quei mesi di dolori, vissuti accanto alle, e dalla par-te delle, donne, nel libro Visto da Seveso, ormai una rarità. Negli anni successivi, la diossina di Seveso è stata grattatadai muri della fabbrica, dal terreno contaminato, è statabruciata in Svizzera o sepolta chi-sa-dove, i danneggiati so-no stati tacitati dai proprietari dell’Icmesa con un po’ disoldi e tutti cercano ora di dimenticare.Il dramma di Seveso, però, non va dimenticato. L’ultimoquarto del XX secolo è stato dolorosamente costellato dialtri incidenti e dolori e morti: a Massa Carrara, a Manfre-donia, a Marghera, a Napoli, in Piemonte, in Sicilia, eccete-ra. Il lungo calvario delle “Seveso” italiane ha mostrato cheil “progresso” tecnico-scientifico ci ha fatto circondare diimpianti produttivi di cui ben pochi conoscono i processi ela composizione delle materie trattate e la natura dellemerci fabbricate e delle scorie che si formano. Una diretti-

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va dell’Unione europea del 1982, con molte varianti suc-cessive, prescrive che le industrie “a rischio” debbano de-nunciare quali materie contengono quando queste supera-no un certo peso, ma il “doveroso” segreto industriale fa sìche le relative notizie siano sepolti negli uffici e che l’infor-mazione della popolazione “a rischio” sia praticamente ine-sistente.L’esperienza – e lo stesso evento di Seveso – mostrano chei pericoli per la vita dei lavoratori e degli stessi cittadini-consumatori derivano non soltanto dalle catastrofi, ma an-che dalla diffusione e dispersione, nelle officine, nei nego-zi e nell’ambiente, di sostanze che sfuggono alla conoscen-za dei singoli, dei governi, e ai controlli tecnici.La difesa della vita umana dipende invece dalla conoscen-za, diffusa, popolare, delle attività tecniche e delle materiecon cui si viene a contatto, da una cultura delle fabbrichee delle cose, dalla pressione sui governi perché difendanola vita umana prima degli interessi degli affari. Solo così sa-rà possibile evitare che altre bambine, altre donne, altri cit-tadini siano esposti ad altre “Seveso”, che pure sono intor-no a noi.

La trappola dell’amianto

Fra “il milione” di meraviglie che Marco Polo (1250-1323)racconta di aver trovato nel suo lungo viaggio in Asia, unadi quelle che hanno attratto maggiormente la curiosità èstata la tovaglia “che non brucia”. Oggi sappiamo che sitrattava di un tessuto di amianto, il minerale che si presen-

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ta, nelle rocce, in sottili filamenti biancastri che si presta-no ad essere filati e tessuti e che sono non infiammabili,anzi possono essere lavati mettendoli sul fuoco. Quell’anti-co ricordo ha stimolato, alla metà dell’Ottocento, numero-se invenzioni che hanno poi assunto crescente importanza.L’amianto è stato impiegato ogni volta che occorrevanodelle pareti o dei manufatti resistenti al fuoco e alle altetemperature e con buon isolamento termico: l’avvento deitreni e delle automobili richiedeva materiali per i freni e lefrizioni capaci di resistere alle alte temperature dovute agliattriti e alla fine dell’Ottocento è stato inventato il “fero-do”, un impasto di amianto e resine che poteva essere for-mato in dischi. Fili e tessuti di amianto si prestavano beneper la produzione di indumenti per vigili del fuoco; ma ilgrande successo dell’amianto si ebbe con la scoperta che,proprio per la sua natura minerale, inorganica, si prestavabene ad essere impastato col cemento per formare deipannelli e tubi di amianto-cemento commercializzati intutto il mondo col nome di “eternit” (quasi a indicare il ca-rattere eterno delle coperture di tetti e dei tubi di questomateriale), fibronit, ondulit, eccetera. Addirittura conl’amianto-cemento potevano essere costruite vasche econtenitori inattaccabili dagli acidi e dotati di notevole re-sistenza meccanica: un trionfo.L’amianto-cemento appartiene alla serie delle invenzioniche, salutate all’inizio come liberatorie, hanno poi rivelatodi nascondere delle trappole che ne hanno provocato il de-clino. Ben presto si è osservato un aumento delle malattiee dei tumori fra i lavoratori delle cave da cui veniva estrat-to l’amianto. Nelle rocce, l’amianto è presente in piccola

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concentrazione in mezzo a una grande quantità di rocciainerte che deve essere frantumata e polverizzata per rica-varne le fibre di amianto che si liberano nell’aria in polverefinissima. Una volta respirate, le fibre d’amianto, chimica-mente inerti, con le loro estremità appuntite, provocanomalattie respiratorie e mesoteliomi.I primi casi si sono osservati fra gli operai della principaleminiera italiana di amianto che si trova a Balangero, in Pie-monte. Poi altri casi sono stati osservati nelle operaie ad-dette alla preparazione di fili e tessuti di amianto. Poi ne-gli operai addetti alle fabbriche di amianto-cemento, pre-senti in varie zone d’Italia, e negli abitanti delle zone circo-stanti. Varie fabbriche di amianto-cemento a Casale Mon-ferrato, Massa Carrara, Bari, sono state in funzione per de-cenni, fino a quando non ci si è resi conto che l’interno de-gli stabilimenti e le zone vicine erano state contaminate dapolvere di amianto e dovevano essere “bonificate”.Ugualmente ci si è resi conto che fibre d’amianto, col pas-sare del tempo e con l’usura, si liberavano dalle pareti e daisoffitti contenenti amianto e posti nelle aule scolastichecome isolanti termici e acustici, e dai pannelli presenti neivagoni ferroviari e nelle navi, finendo nei polmoni degliscolari e dei viaggiatori. E ancora: fibre di amianto vengo-no rilasciate nell’aria durante l’usura dei “ferodi” dei frenie delle frizioni.Poi sono aumentati i sospetti che anche le tubazioni diamianto-cemento usate per trasportare l’acqua potabile,con l’usura provocata dal passaggio continuo di acqua, po-tevano liberare fibre di amianto che finivano nell’acqua delrubinetto. Poi sono finite sotto accusa le coperture ondu-

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late di amianto-cemento che pure sembravano così como-de, poco costose, attraenti... ed eterne. Per farla breve, dauna ventina di anni a questa parte gli organismi sanitari in-ternazionali hanno cominciato a emanare delle norme (inItalia con la legge 257 del 1992) che limitano la massimaquantità di fibre di amianto ammesse nell’aria e nelle ac-que, una opportuna decisione che ha segnato da una parteun declino degli usi dell’amianto, dall’altra la necessità dieliminare l’amianto da tutti i manufatti in cui esso ancorasi trova.E qui è apparsa la gravità della trappola in cui l’amianto ciha fatto cadere. “Bonifica” è operazione apparentementefacile, ma si tratta di pulire edifici e contenitori e suolospazzando, grattando e raccogliendo miliardi di miliardi difinissime fibre tossiche, con il lavoro di operai esposti a pe-ricoli ancora più grandi di quelli degli operai che avevanoestratto e istallato l’amianto. La polvere di amianto, che sisolleva nella bonifica delle fabbriche e degli edifici, “vola”all’esterno e compromette la salute degli abitanti delle zo-ne vicine. I milioni di tonnellate di coperture e pannelli diamianto-cemento, una volta smontati, nel caso migliore,vengono sistemati in discariche. Chi viaggia in treno vededei binari occupati da vecchi vagoni ferroviari arrugginitiall’aria e alla pioggia, con porte e finestre sigillate, cheaspettano qualcuno che li liberi dai pannelli di amianto.Molte scuole hanno dovuto essere chiuse per togliere ipannelli e le pareti di amianto e sostituirli con altre. E quel-li tolti dove finiscono?Si moltiplicano le ditte che dichiarano di essere in gradodi effettuare bonifiche di zone contaminate, di smontare

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e smaltire manufatti di amianto, ma ben pochi controllivengono fatti sull’efficienza delle operazioni promesse.Talvolta addirittura, come si è verificato, la malavita orga-nizzata si appropria delle presunte bonifiche dei vagoniferroviari. La lezione imposta da questa “bomba ad orologeria” eco-logica – altri casi di merci di successo che dopo poco han-no rivelato il loro carattere nocivo sono offerti dal Ddt,dal piombo tetraetile, dai clorofluorocarburi presenti amilioni di tonnellate nei frigoriferi e nei manufatti di resi-ne espanse, dalle scorie radioattive delle centrali nuclea-ri – invita ad un riesame critico del passato e ad un esa-me preventivo delle innovazioni tecniche. E suggerisceanche delicati problemi giuridici: i fabbricanti delle mer-ci nocive ne hanno tratto subito un profitto, ma chi pagai costi della riparazione dei danni provocati, a distanza ditempo, dalle loro merci? E dei malati e dei morti (suppo-sto che la perdita della vita possa essere risarcita con de-naro)?Si parla tanto di bioetica, ma non sarà male cominciare aelaborare un’etica delle merci e dell’impresa.

Le ragazze del radio

Il radio era stato “scoperto” nel 1903, a Parigi, da MarieCurie, la quale ne aveva isolato cento milligrammi da mol-te tonnellate di pechblenda: era stato questo l’argomentodella sua tesi di laurea in chimica. Da parte loro, FrederickSoddy (1877-1956) ed Ernest Rutheford (1871-1937)

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avevano chiarito che il polonio e il radio si trovano nellerocce terrestri, formati per decadimento “radioattivo” del-l’uranio.Soddy scrisse alcune opere fondamentali, anche di caratte-re divulgativo, sul radio e contribuì, insieme a Marie Curie,a richiamare l’attenzione su questo elemento “miracoloso”,le cui radiazioni erano in grado di curare il cancro e cheemetteva spontaneamente una “luce” bianca verdastra, os-servabile anche al buio. La richiesta di radio e la sua pro-duzione industriale aumentarono rapidamente.Marie Curie aveva usato, come materia prima per la prepa-razione del radio, la pechblenda ottenuta dai residui dellalavorazione delle miniere di Joachimsthal (oggi Yachimovnella Repubblica Ceca), allora sotto l’Austria. Il governoaustriaco vietò le esportazioni di pechblenda e sviluppòuna propria industria di fabbricazione del radio; un’indu-stria del radio sorse in Svezia e poi in Francia, utilizzandominerali di uranio inglesi, e poi negli Stati Uniti dove si uti-lizzava come materiale di partenza la carnotite.Oltre che a fini medici, il radio veniva utilizzato per la pro-duzione di vernici luminescenti che venivano applicate sul-le lancette e sui numeri degli orologi, e in vari strumenti dimisura che dovevano essere osservati al buio, come gli al-timetri degli aerei. Negli stessi primi anni del Novecentostava infatti nascendo l’industria aeronautica e il mondostava correndo verso la Prima Guerra Mondiale.Le eccezionali proprietà del radio avevano sollecitato innu-merevoli articoli di giornali e racconti; uno di questi, la tra-duzione di un libro americano del 1912 di Albert Dorrin-gton (1874-1953), era stato pubblicato, col titolo L’arma

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che uccide e risana, addirittura a puntate sulla “Domeni-ca del Corriere” nel 1916. La diffusa curiosità internaziona-le aveva spinto imbroglioni e avventurieri a mettere incommercio “rimedi” contro il cancro. Uno di questi, chia-mato “Radithor”, è stato in commercio per anni in forma disciroppo con una concentrazione di radio sufficiente aduccidere molti degli entusiasti acquirenti.A dire la verità, già nel 1906 erano apparsi articoli, anchedella stessa Marie Curie, che mettevano in evidenza la pos-sibile pericolosità del radio. Un numero crescente di medi-ci morirono per eccessiva esposizione al radio e la stessaMarie Curie morì per lo stesso motivo, nel 1934.Qui interessa ricordare la storia della intossicazione delleoperaie di una delle fabbriche americane di radio, la U.S.Radium Corporation, creata nel 1917 da un gruppo di im-prenditori a Orange, nel New Jersey. Lo stabilimento pro-duceva il radio dalla carnotite di un vicino giacimento efabbricava delle vernici luminescenti costituite da colla,polvere di radio e acqua. Le vernici venivano spalmate, conun pennello, sugli orologi da una settantina di ragazze chelavoravano in uno stanzone pieno di polvere, senza precau-zioni. Le ragazze – alle quali nessuno aveva spiegato la or-mai nota pericolosità del materiale che stavano maneg-giando – addirittura umidificavano con la saliva la puntadei pennelli e assorbivano così continuamente radio. Eracurioso, disse una delle ragazze, che quando ci si soffiava ilnaso anche il fazzoletto diventava luminescente; alcune,per far colpo sui fidanzati, si tingevano con la vernice ra-dioattiva le unghie che apparivano luminose al buio. E poitornavano al lavoro e ai loro pennelli.

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La prima a osservare dei disturbi fu una certa Grace Fryerche aveva lavorato a Orange dalla primavera del 1917 – laproduzione era al massimo perché la guerra in atto in Eu-ropa richiedeva orologi e strumenti luminosi al buio – finoal 1920, quando si era licenziata per un altro lavoro. Un pa-io d’anni dopo aveva cominciato a perdere i denti e a osser-vare degli ascessi in varie parti del corpo. Nel frattempo,nel 1922, era morta Amelia Maggia, un’altra operaia addet-ta alla verniciatura nella U.S. Radium; come causa dellamorte le era stata diagnosticata la sifilide, ma il dentistache l’aveva in cura aveva osservato la rapida caduta deidenti e aveva cominciato a sospettare che la sua morte fos-se dovuta al tipo di materia trattata nel posto di lavoro.A questo punto le morti sospette cominciarono ad attirarel’attenzione di Walter Lippmann (1889-1974), un giornali-sta d’assalto del quotidiano progressista “New York World”,e della Lega dei consumatori, un’organizzazione per la di-fesa dei consumatori e dei lavoratoriLa Fryer si rivolse all’ex-datore di lavoro per un rimborsodelle spese mediche affrontate per curarsi, ma i dirigentidella U.S. Radium rifiutarono: i loro consulenti di parte, do-po aver visitato la ragazza, la dichiararono sanissima. Unmedico assunto dalla U.S. Radium, il professor Cecil Drin-ker, osservò le condizioni di lavoro delle operaie e indicò aidirigenti che erano esposte ad un grave pericolo. Anche unchimico, un certo Lehman, aveva delle gravi lesioni allemani; questo Lehman, peraltro, per fedeltà al datore di la-voro, escluse che il disturbo potesse venire dal radio chemaneggiava senza precauzioni (morì l’anno dopo). Drinkersuggerì di modificare le condizioni di lavoro, ma l’impresa

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si rifiutò. Per onestà, pubblicò nel giugno del 1924 le sueosservazioni sulla fabbrica e denunciò che le ragazze lavo-ravano a mani nude in uno stanzone pieno di polveri congrave esposizione al radio, al quale andavano imputate legravi malattie. Drinker riferì che i campioni di polvere rac-colti nello stanzone erano tutti luminosi al buio: anche i ca-pelli, le facce, le mani, i vestiti e anche le sottovesti delleoperaie erano luminescenti per colpa del radio.A questo punto, Grace Fryer decise di fare causa alla U.S.Radium. Nessun avvocato accettò di difenderla fino aquando, nel 1927, trovò un giovane avvocato, RaymondBerry, che citò in tribunale la U.S. Radium. Alla Fryer siunirono altre cinque operaie e ciascuna chiese 250miladollari di danni. La U.S. Radium aveva trovato la solidarie-tà degli imprenditori e medici che avevano fino allora ven-duto e prescritto medicine, dichiarate curative, “al radio”.Le ragazze che avevano maneggiato il radio potevano es-sersi ammalate per colpa della colla delle vernici, sostene-vano. Il radio non poteva essere responsabile delle malat-tie osservate. Il caso di quelle che sarebbero state chiamate le “ragazzedel radio” ebbe grande risonanza in America e in Europa ela stessa Marie Curie confermò che si erano ammalate peresposizione al radio in condizioni inadeguate. Le fabbrichedi orologi luminescenti in altri Paesi usavano nei confrontidegli operai ben altre precauzioni.La U.S. Radium – che nel frattempo aveva dovuto chiude-re nel 1926 lo stabilimento di Orange trasferendosi altrovee che aveva tacitato gli altri operai con 13mila dollari – cer-cò di tirare in lungo il processo e intanto lo stato di salute

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delle operaie peggiorava continuamente. La Fryer, quandosi presentò al processo, non aveva neanche la forza di sol-levare il braccio per il giuramento e morì poco dopo. La re-lazione fra esposizione al radio e le malattie e le morti fuconfermata quando, nel 1928, fu riesumato il cadavere diAmelia Maggia e fu costatato che le sue ossa erano radio-attive. Altro che sifilide, come era stato diagnosticato seianni prima!Il processo andò avanti fino al giugno 1928, quando le vit-time ottennero dalla U.S. Radium 10.000 dollari ciascuna(molto meno di quanto avevano chiesto), 600 dollari all’an-no fino a quando fossero vissute (e vissero tutte poco) e ilrimborso delle spese mediche. Oltre a questa scia di mor-ti, la U.S. Radium ha lasciato terreni contaminati dai resi-dui contenenti radio gettati all’esterno e che devono esse-re bonificati ancora oggi.La storia delle “ragazze del radio” richiamò l’attenzione del-l’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro delle impreseche risparmiavano, esponendo i lavoratori a pericoli per lasalute, e mostrò che, con un poco di coraggio e di protesta,e con la solidarietà e il sostegno di una parte della stampa edegli scienziati, è possibile assicurare ai lavoratori condizio-ni di lavoro migliori. Che il discorso valga ancora oggi?

La tragedia di Marcinelle

Ogni tanto, qualche televisione ritrasmette le due puntate diuna vecchia miniserie Rai del 2003, Marcinelle, sulla trage-dia avvenuta in quella miniera belga di carbone l’8 agosto

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1956. È bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie dilavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempoin cui sembra cancellata dal vocabolario l’“odiata” espressio-ne “classe operaia”, che sa tanto di comunismo, e la stessaparola “operaio” viene usata il meno possibile, come se glioperai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.La storia della catastrofe di Marcinelle è un concentrato dieventi. L’incidente avvenne in una miniera dell’Europa ap-pena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, nella quale ilgrande flusso del petrolio e del gas naturale era appena al-l’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, cosìcome lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti iprogressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il prin-cipale combustibile fossile: nel mondo milioni di minatoriestraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellatedi carbone e lignite dalle viscere della Terra, risorse nasco-ste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni gior-no milioni di persone scendono dalla superficie nelle stret-te gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene stacca-to, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene cari-cato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato insuperficie con gli ascensori.Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragi-le, che genera, durante la frantumazione, polveri che ven-gono respirate dagli operai, anche se sono muniti di ma-schere e filtri, e che causano malattie polmonari dopo po-chi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è ilmetano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto in-trappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giaci-menti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nel-

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l’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici ven-gono a formarsi con la continua asportazione del carbone.Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lam-pade elettriche, ma nel passato, per molti decenni, le uni-che lampade disponibili erano lampade a fiamma libera cheprovocavano esplosioni quando la concentrazione di meta-no era superiore ad una soglia di sicurezza. Soltanto nel1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829), sono state inventate le lampade di sicurezza da mi-niera, poi continuamente perfezionate.Per essere respirabile, l’aria delle gallerie, a centinaia dimetri di profondità, deve essere continuamente ricambia-ta. Fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione efatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quellipiù usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condi-zioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle de-scritte nel telefilm, peraltro ambientato in una vera minie-ra in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un pocomigliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi ecomportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni an-no in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa,Cile, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo, perchél’elettricità che consente di accendere le lampadine, i tele-visori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali ter-moelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica diqualche operaio in qualche miniera in qualche parte delmondo. C’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta del-l’elettricità.Erano ancora infami le condizioni di lavoro nelle minieredel Belgio negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.

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In Belgio, in quegli anni, non c’erano abbastanza minatorie il governo belga strinse con quello italiano, nel marzo egiugno 1946, un accordo con cui l’Italia incoraggiava l’emi-grazione nel Belgio di operai per le miniere e, in cambio, ilBelgio assicurava la vendita del carbone a prezzi di favoreall’Italia, affamata di energia. Negli anni successivi, migra-rono nel Belgio oltre 50mila operai (dovevano essere gio-vani, in buona salute e dovevano restare per almeno un an-no in quel freddo e lontano Paese). Venivano dalla Sicilia,dove erano state chiuse le miniere di zolfo, dalla Calabria,dalla Puglia, dalle Marche. Un anno di lavoro di un operaioitaliano nelle miniere del Belgio “valeva” per l’Italia circauna tonnellata di carbone a basso prezzo.Gli operai italiani nel Belgio vivevano in condizioni misera-bili, in povere baracche; in questo viaggio della speranza al-cuni avevano portato le famiglie, altri avevano portato lastruggente nostalgia delle famiglie lontane a cui mandare ilpovero salario. La condizione degli immigrati era ancorapiù triste per l’ostilità che la popolazione locale manifesta-va per questi “stranieri” di lingua e abitudini diverse, chenon portavano vantaggi economici; alcuni locali pubblicivietavano l’accesso “ai cani e agli italiani”. Nella miniera diuno di questi paesini, Marcinelle, vicino Charleroi, avvennel’incendio e il crollo delle gallerie che costò la vita a 262 mi-natori, di cui 136 italiani, e che destò, in quel lontano 1956,un’enorme impressione in Italia e nel mondo. L’incidente fuprovocato dalla arretratezza delle strutture, dalla mancan-za di manutenzione, dall’egoismo dei proprietari che ave-vano già deciso di chiudere la miniera e volevano sfruttarefino all’ultimo le riserve di carbone e il lavoro dei minatori.

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Dovremmo chiederci più spesso “che ambiente fa” anchenelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere e nelle cave, ne-gli stessi campi in cui i lavoratori sono esposti a sostanzetossiche e a pericoli; e spesso questi lavoratori sono immi-grati, circondati da ostilità, come lo erano gli italiani nelBelgio. Non dimentichiamolo, perché c’è qualche famiglia,in qualche lontana parte del mondo, che mangia del paneche ha “dentro di sé” il dolore dei parenti lontani, in Italia;come, appena pochi anni fa, molte famiglie siciliane e cala-bresi mangiavano del pane che aveva “dentro di sé” il do-lore dei minatori italiani lontani, nel Belgio.

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La riciclo-logia

I numeri parlano da soli: ogni anno in Italia si producono(2010) circa 150 milioni di tonnellate di rifiuti solidi, il dop-pio del peso del petrolio greggio importato e raffinato in Ita-lia, venti volte di più del grano prodotto, quasi quattro vol-te di più del cemento prodotto in Italia nello stesso anno. Diquesti 150 milioni di tonnellate, quasi 40 milioni sono costi-tuiti dai rifiuti urbani, quelli che escono ogni giorno da mi-lioni di famiglie, di uffici, di negozi, che si accumulano neipuzzolenti cassonetti, quelli che finiscono nel terreno clan-destinamente e quelli che vengono buttati via senza chenessuno se ne accorga, qua e là, dove capita. Ma poi esisto-no i rifiuti delle demolizioni degli edifici, i rottami di mac-chinari, gli scarti di lavorazioni industriali e tanti altri.Eppure è possibile trasformare, almeno in parte, questiscarti, rottami e rifiuti in materiali utili, in ricchezza; addi-rittura molte leggi nazionali e la stessa legge europea pre-scrivono il riutilizzo dei rifiuti a fini produttivi, per rispar-

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Rifiuti

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miare materie prime, alberi, petrolio, minerali e per evita-re la contaminazione ambientale dovuta alle discariche eagli inceneritori.Purtroppo, nonostante i fiumi di parole che ogni anno ven-gono scritti e detti sui rifiuti e sul loro riutilizzo, la maggiorparte di questi rifiuti va perduta o distrutta, sepolta nellediscariche o bruciata negli inceneritori, pudicamente chia-mati termovalorizzatori. Ciò è dovuto a coincidenti interes-si: i profitti che pochi grandi gruppi ricavano dallo smalti-mento in discarica o dalla vendita e gestione di incenerito-ri, grazie anche a incentivi statali che premiano la costosaelettricità prodotta bruciando i rifiuti. I nemici del riciclodei rifiuti fanno inoltre circolare il falso mito che le merciriciclate costano troppo e sono di peggiore qualità rispettoalle merci prodotte con nuovi minerali, nuova cellulosa,nuova plastica, nuovo vetro, nuovi metalli.La delusione verso il riciclo dei materiali separati dai rifiu-ti deriva anche dal fallimento di una coraggiosa azione diricerca scientifica e tecnica e dalla mancanza di una cultu-ra dell’invenzione e dell’innovazione. A molti studiosi uni-versitari fa un po’ schifo pensare come è possibile trasfor-mare la plastica usata in oggetti ancora utili, la carta usatain materiali da costruzione, il vetro usato in abrasivi, ecce-tera. Eppure, tutte queste e molte altre soluzioni sono pos-sibili attraverso la diffusione di una nuova scienza del rici-clo – che chiamerei “riciclo-logia” – molto più difficile, maproprio per questo più affascinante, della normale merceo-logia.Chi volesse affrontare tale nuova scienza, può avere il con-forto della storia. Oggi, oltre la metà dell’acciaio prodotto

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nel mondo viene dal riciclo di macchinari usati; la metàdell’alluminio è prodotto dal riciclo di oggetti di alluminio,con forte risparmio di energia e di acqua; la quasi totalitàdei cartoni da imballaggio sono ottenuti da carta stracciariciclata. Ma anche il presente offre motivi di speranza: esi-stono già imprese che fabbricano mobili, attrezzi da giardi-no, contenitori di plastica riciclata, addirittura usando mi-scele di plastica usata non omogenee. Il bitume viene“strappato” dalle strade usurate e rifuso e steso di nuovoper la pavimentazione delle stesse strade. Polvere di vetrousato viene impiegata come antiscivolo sui pavimenti.Purtroppo, si tratta soltanto di pochi passi rispetto a quel-lo che si potrebbe fare. Negli Stati Uniti, i processi di rici-clo sono in continuo declino, a favore, anche là, di discari-che e inceneritori, mentre intere navi di merci usate, dallaplastica alla carta, ai computer, agli elettrodomestici ven-gono inviati in Estremo Oriente dove vengono trattati e ri-ciclati e trasformati in merci nuove che magari ritornanonegli stessi Stati Uniti o vengono da noi in Europa. Non èsolo questione di basso costo della mano d’opera, ma di ca-pacità inventiva e imprenditoriale.Il successo della riciclo-logia presuppone varie azioni.La prima è un genuino rilancio della raccolta separata, a li-vello delle singole famiglie, delle varie frazioni dei materia-li presenti nei rifiuti domestici che sono suscettibili di rici-clo in nuove merci. Se si miscela plastica e vetro, plasticae carta, vetro e lattine e magari tutto insieme al comunepattume, non si ricupera più né plastica, né vetro, né car-ta, né metalli in forma riciclabile.La seconda è una crescita della consapevolezza da parte

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dell’opinione pubblica che la raccolta separata e il riciclosono operazioni che giovano alla comunità e all’economianazionale, sotto forma di minori importazioni, di aumentodell’occupazione, di minore inquinamento. Non basta mar-ciare contro gli inceneritori se non si ha chiaro che l’alter-nativa è la raccolta separata e il riciclo, operazioni del re-sto indicate come priorità dalla troppo disattesa normativaitaliana sui rifiuti.La terza azione è una crescita della cultura tecnico-scienti-fica. Qualsiasi materiale separato dai rifiuti può essere tra-sformato in nuove merci se si conoscono la sua composizio-ne chimica e le sue caratteristiche fisiche: occorre, insom-ma, una merceologia dei materiali destinati al riciclo. Si ten-ga presente che i nemici delle operazioni di riciclo, quelliche si vedono sfuggire di mano gli affari delle discariche ola possibilità di bruciare plastica e carta negli inceneritori,sono capaci di invocare l’ecologia per sostenere che il rici-clo inquina di più dell’incenerimento, il che non è vero. Inquesta direzione va anche il mito, prima ricordato, dell’ec-cessivo “costo” delle merci riciclate, come se l’inquinamen-to, le malattie, la migrazione di rifiuti da un Paese all’altro,la gestione di discariche e inceneritori, non avessero deglielevati costi che proprio il riciclo potrebbe evitare.Una quarta linea d’azione riguarda l’innovazione: la produ-zione di nuove merci e manufatti partendo dalle frazioni dimateriali recuperate dai rifiuti, con una intelligente raccol-ta separata, sono tipiche iniziative da piccole imprese, ani-mate da una capacità di guardare al futuro. Il mercato deinuovi manufatti e materiali ottenuti dal riciclo può essererappresentato da una crescente sensibilità dei consumato-

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ri, da una pubblica amministrazione attenta ad una nuovaeconomia, e anche qui da ricerche sulla qualità merceolo-gica delle merci riciclate.Qualcosa si sta muovendo anche in Italia, ma purtroppo iproblemi del riciclo delle merci usate sono troppo pocopresenti nelle pubbliche amministrazioni, nelle università,fra le organizzazioni di imprenditori, quelle cooperative edei lavoratori. E, ancora peggio, sono troppo poco presen-ti nel mondo della politica.

L’oro nelle fogne

Ricordate quando Jean Valjean raccoglie Marius ferito esvenuto durante l’ultimo assalto dei soldati alla barricatadei patrioti repubblicani asserragliati in rue de la Chan-vrerie, in quel drammatico giugno del 1832? Jean Valjeansapeva che doveva, per amore della figlioccia Cosetta,salvare il giovanotto che lei amava e non aveva di frontealtra via che rifugiarsi, attraverso una botola nel pavimen-to stradale, nelle fogne di Parigi. A questo punto, VictorHugo (1802-1885) si ferma e dedica l’intero secondo librodella quarta parte de I miserabili (1862) ad una lunga edettagliata analisi che figurerebbe bene in un trattato diecologia.“Parigi butta nell’acqua venticinque milioni (di franchi del-l’epoca, NdA) all’anno, giorno e notte”. Si tratta del valoredelle sostanze organiche che le fogne della città raccoglie-vano, lasciavano scorrere nella Senna e poi nel mare, e cheavrebbero potuto invece essere utilizzate come concimi

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per aumentare la produzione dei campi. “Il nostro concimeè oro”, continua lo scrittore, “e che cosa facciamo di que-sto oro-concime? Lo spazziamo via nell’abisso. Con grandedispendio mandiamo convogli di navi per raccogliere al po-lo australe gli escrementi delle procellarie e dei pinguini(Hugo fa riferimento alle importazioni dal Perù e dal Ciledel guano usato come concime, NdA), e gettiamo nel ma-re l’incalcolabile elemento di ricchezza che abbiamo sottomano. Tutto l’ingrasso umano che il mondo perde, restitui-to alla terra invece d’essere buttato nell’acqua, basterebbea nutrire il mondo”.Nella metà dell’Ottocento era in corso un vasto dibattito intutta Europa: la rapida industrializzazione e diffusione diun certo benessere stava facendo aumentare la popolazio-ne e quindi la richiesta di cibo, mentre le rese dei campi di-minuivano anche per la continua migrazione dei contadiniverso le fabbriche in città e per la graduale diminuzionedella fertilità del suolo, malamente sfruttato da decenni.Gli scienziati scrivevano sui giornali che la soluzione anda-va cercata nell’addizione al terreno di concimi che veniva-no dagli escrementi animali, ma che dovevano anche esse-re importati. I prodotti di trasformazione degli escrementidi uccelli marini (guano) ricchi di azoto e fosforo, i due ele-menti essenziali per il terreno, venivano dal Perù, mentredal Cile arrivavano i nitrati, di cui esistevano grandi giaci-menti. I sottoprodotti della siderurgia, infine, contenevanofosforo. Azoto, fosforo e potassio erano e sono i principalielementi nutritivi del suolo, trasferiti poi nei prodotti agri-coli e negli alimenti.Ma l’azoto, il fosforo e il potassio presenti negli alimenti

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umani si ritrovano anche in gran parte negli escrementiche, per ragioni igieniche, venivano convogliati nelle fogneurbane e finivano perduti nel mare. Victor Hugo si fa, così,interprete dell’invito, formulato da vari scienziati, fra cui ilgrande chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873), ariutilizzare le sostanze nutritive presenti nelle fogne conadatti processi capaci di trasformarle in concimi. Se vives-se oggi, l’autore de I miserabili resterebbe sbalordito os-servando che, con tutta la nostra scienza, anche nelle no-stre città il grande valore delle sostanze nutritive delle fo-gne – l’oro-concime – viene gettato nei fiumi e nel mare.Con l’ulteriore aggravante che l’azoto e il fosforo degliescrementi diventano “concime” per le indesiderabili algheche si moltiplicano, soffocando i laghi e il mare, per il feno-meno dell’eutrofizzazione. Quest’ultima è una specie diiper-nutrimento delle alghe, dovuto a quelle sostanze chetanto meglio sarebbero utilizzate nei campi per far cresce-re grano e barbabietole.Esiste naturalmente una grande attenzione per la depura-zione delle acque di fogna urbane. Sono noti apparecchiche trattano le acque usate, dapprima facendo depositarele sostanze sospese, come le polveri della spazzatura stra-dale (trascinate delle piogge nelle fogne) o le materie soli-de che le persone distrattamente gettano nei gabinetti (re-sidui di cibo, carta e quei terribili batuffoli per la puliziadelle orecchie, indistruttibili, che vanno ad intasare filtri etubazioni). La frazione liquida viene poi filtrata in modo daseparare le parti più grossolane che costituiscono un fangoche va ad aggiungersi ai rifiuti solidi urbani.Infine, nei depuratori più progrediti (ma ce ne sono trop-

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po pochi in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno), i liquidisono soggetti ad un trattamento con batteri che decompon-gono le sostanze organiche. Quasi tutta l’acqua che entra,costosa e pulita, in una città fuoriesce contaminata e deveessere eliminata per lo più nei fiumi, nei laghi e nel maredove disperde il suo carico inquinante. Non a caso si parladi “metabolismo urbano” per ricordare che la città, come ilcorpo umano, trasforma tutto quello che la alimenta – dalcibo, alle materie plastiche, ai residui dei combustibili, allacarta, eccetera – e lo disperde nelle acque di fogna.Si potrebbe recuperare qualcosa? Anzitutto, come moltichiedono a gran voce, bisognerebbe recuperare almenouna parte delle acque usate che potrebbero trovare, dopoopportuna depurazione, impiego come acqua da irrigazio-ne. E poi potrebbe essere recuperata almeno una partedelle sostanze adatte come concimi.Purtroppo, il miope “progresso” merceologico ha introdot-to nella vita domestica e urbana moltissime sostanze estra-nee ai puri e semplici cicli vitali umani. Ai tempi de I mi-

serabili, l’unico detersivo era il sapone, facilmente degra-dabile ed eliminabile; oggi i perfetti preparati per lavarecon i tensioattivi sintetici in miscela con altri ingredienti,appena intuibili leggendo le etichette dei fustini, contengo-no sostanze che, se finissero nei campi, danneggerebberola crescita delle piante. Altrettanto dannosi sono i semprepiù raffinati prodotti chimici sintetici usati come cosmeti-ci, creme, coloranti per capelli, deodoranti. La maggiorparte delle persone, quando li usa, con soddisfacenti risul-tati per la bellezza e la moda, non pensa che essi non scom-paiono, ma vanno a finire nei lavandini e nei gabinetti, poi

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nelle fogne, poi nei depuratori (dove esistono), intralcian-done il funzionamento. Per non citare i batteri e i virusche, se finiscono nei campi e sulla verdura, diffondono epi-demie.Così la ricchezza “contenuta” nei prodotti del metabolismourbano, invece di diventare oro-concime per l’agricoltura,va in gran parte perduta quando non finisce per intossicarela natura. Naturalmente, migliaia di chimici, biologi, inge-gneri nel mondo stanno affrontando il problema sperimen-tando trattamenti chimici e microbiologici, talvolta con suc-cesso. Il cammino è però ancora lungo e il premio, per chiriuscisse a depurare e recuperare sostanze commerciali daicentomila miliardi di litri di acqua che ogni anno entranonelle case del mondo e ne escono carichi di rifiuti, è la co-scienza di aver alleviato, almeno un poco, la fame e di avermigliorato la salute dei nostri concittadini della Terra.

Quanto cibo buttato via

Qualche tempo fa, in Inghilterra sono stati resi noti i risul-tati di un’indagine condotta da Lord Haskins, che è statoconsulente del governo per gli affari agricoli e alimentari.Ogni anno in Inghilterra vengono gettati via circa 20 milio-ni di tonnellate di prodotti alimentari, per un valore di cir-ca 40 miliardi di euro. Lord Haskins ha fatto notare che lamassa di alimenti gettata dagli inglesi nei rifiuti equivale acirca la metà delle importazioni alimentari dell’intera Afri-ca e se fosse possibile evitare di gettare via anche solo unaparte di tali alimenti, si contribuirebbe a fare fronte alla

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crescente scarsità di cibo nei Paesi poveri. La popolazionedi questi Paesi, in aumento di circa 70 milioni di personeall’anno, è sempre più difficile da sfamare, a causa dell’au-mento continuo dei prezzi dei prodotti agricoli e alimenta-ri nel mercato internazionale. È la fame, e lo spettacolodell’egoismo e degli sprechi dei Paesi ricchi, alla base di ri-bellioni e violenza in molti Paesi poveri.Il Consiglio nazionale dei consumatori inglesi ha ricono-sciuto una delle fonti di spreco degli alimenti nella politicadi promozione delle vendite praticata da molti supermer-cati: “compri-due-e-paghi-uno”; anche per questo i consu-matori inglesi gettano via circa un terzo dei prodotti ali-mentari che acquistano. Lord Haskins ha sollecitato il go-verno inglese a prendere provvedimenti per diminuirel’inaccettabile spreco di cibo che rappresenta uno dei piùvergognosi aspetti delle moderne “società dei consumi”.E gli italiani quanti alimenti sprecano? Una risposta presup-pone la disponibilità di una buona contabilità, in unità fisi-che, dei flussi di materiali fra cinque importanti settori eco-nomici e merceologici: quello agricolo, quello agroindustria-le, quello della distribuzione, quello dei consumi finali delle“famiglie” (un termine che comprende qualsiasi unità in cuisi consuma del cibo, compresi ospedali, mense, ristoranti,caserme, scuole, eccetera) e infine il settore dei rifiuti soli-di. Ogni chilo di cibo – carne, pasta, vino, acqua in bottiglia,frutta e verdura, eccetera – che arriva sulla nostra tavola hafatto un lungo cammino. Lasciamo per il momento da partela storia merceologica degli alimenti importati e limitiamo-ci a quella degli alimenti di produzione nazionale.Storia merceologica e storia naturale perché, da questo

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punto di vista, gli esseri umani non sono diversi dagli altrianimali che gli ecologi chiamano “consumatori” di alimentiforniti sia dai vegetali (che gli ecologi chiamano organismi“produttori”), sia da altri animali. Il ciclo dell’alimentazio-ne umana comincia dall’agricoltura in cui si formano, perfotosintesi con l’energia solare, cereali, frutta, verdura, pa-tate, pomodori, eccetera, e altri vegetali che saranno usaticome alimenti per gli animali da allevamento: bovini, polla-me, eccetera. Di tutto quello che la natura produce, solouna parte diventa cibo umano: i prodotti agricoli sono trat-tati dall’industria che li trasforma in alimenti commercialicome pasta, farina, conserve, zucchero, eccetera. Già qui sicominciano ad avere delle prime perdite di prodotti che sa-rebbero utili per l’alimentazione, ma che finiscono negliscarti o nei rifiuti perché non sono graditi ai consumatori.L’industria agroalimentare vende gli alimenti non diretta-mente alle famiglie, ma al settore della distribuzione, i cuinegozi possono essere vicini o lontani, possono essere pic-cole botteghe o grandi supermercati. Di tutto quanto entranella distribuzione, solo una parte viene acquistata, un’al-tra parte si altera, o rappresenta scarti e finisce nei rifiuti.Nei negozi entrano le folle di “consumatori”, i quali com-prano quanto occorre in casa, ma anche prodotti in ecces-so rispetto ai bisogni, talvolta attratti dalla comodità di fa-re rifornimenti per alcuni giorni, oppure perché attratti dasconti, offerte speciali, eccetera. A questo punto, i prodot-ti acquistati entrano nelle cucine o nei frigoriferi e qui di-ventano il cibo che mangiamo quotidianamente, ma unaparte non viene consumata in tempo, prima della scaden-za, e viene gettata via perché alterata. Così, una parte del

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cibo viene gettata via. Badate che sto parlando delle so-stanze alimentari, nutritive, non degli imballaggi con i qua-li gli alimenti hanno viaggiato dai campi alle industrie, ainegozi fino a casa.Gli imballaggi – di metallo, plastica, vetro, carta e cartone,eccetera – finiscono direttamente nei rifiuti. Non è facileavere statistiche accurate di questi flussi, ma in manieramolto approssimata si può stimare che la massa degli ali-menti consumati in Italia si aggiri, ogni anno, intorno a 25milioni di tonnellate (in questa cifra sono comprese le be-vande che sono in gran parte acqua), per una spesa di cir-ca 50 miliardi di euro; più o meno, in grossolana media, unpaio di euro al chilo di alimenti veri e propri. Altrettantodifficile è avere statistiche della massa di prodotti alimen-tari che finiscono, non utilizzati e come scarti, nei rifiuti. Lasola massa dei rifiuti solidi urbani è di quasi 40 milioni ditonnellate all’anno e ci si deve accontentare anche qui distime. Detratta una decina di milioni di tonnellate di imbal-laggi dei prodotti alimentari, detratta una stima delle so-stanze nutritive vere e proprie che vengono mangiate dal-le persone, si può stimare che i rifiuti e gli scarti ancora do-tati di valore alimentare si aggirino intorno a 10-15 milionidi tonnellate all’anno. È quel pane, frutta, verdura, pastacotta e non consumata, eccetera, che molte famiglie, men-se e ristoranti gettano via e che riempie i sacchetti di im-mondizie.Se si aggiungono circa sei milioni di tonnellate di sostanze,ancora di valore alimentare, che ogni anno vengono scarta-te e gettate via dall’agricoltura, dall’industria di trasforma-zione e dalla distribuzione, si possono ragionevolmente sti-

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mare in circa 20 milioni di tonnellate all’anno gli sprechialimentari. Purtroppo, si tratta più o meno della stessamassa di materia alimentare gettata via dagli “spreconi” in-glesi e che, anche nel caso italiano, corrisponde ad un va-lore monetario di circa 40 miliardi di euro all’anno. Le pre-cedenti considerazioni hanno risvolti merceologici, econo-mici, politici ed etici. Se a qualcuno stesse a cuore il dirit-to di tanti terrestri ad una alimentazione sufficiente, do-vrebbero essere presi accorgimenti per diminuire talespreco, con una migliore organizzazione dei cicli produtti-vi dell’industria alimentare e con migliori accorgimenti nel-la distribuzione. Molto possono fare le accorte massaie nel-la gestione dei frigoriferi e con ricette che utilizzino i resi-dui ancora buoni.In tempi antichi, ai bambini si raccontava la favola di Gesùche scendeva da cavallo per raccogliere da terra una bri-ciola di pane il cui spreco era “un peccato”. Ci stiamo pian-gendo addosso per le montagne di rifiuti da seppellire o dabruciare, ma un’accorta gestione della vita domestica, oltrea sfamare un po’ di affamati, ridurrebbe anche della metàil costo e la richiesta delle discariche e degli inceneritori.

Carburanti dal pattume

Alcuni ritengono che i rifiuti urbani siano una delle poten-ziali fonti di energia del futuro. Di tutte le merci – alimen-ti, tessuti, carta, imballaggi, mobili, eccetera – che entranonell’ecosistema città e nell’ecosistema casa, solo una picco-la frazione, circa il 10%, è costituita da alimenti che vengo-

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no “bruciati” nel corpo umano, il resto finisce nei rifiuti euna parte di questo 90% è rappresentato da materialecombustibile: rifiuti di alimenti, scarti vegetali e animali,dei macelli e dei mercati generali, plastica, carta e cartoni,legno, stracci, eccetera. Il loro smaltimento può avvenire oin discariche o in inceneritori, operazioni che distruggonomaterie che potrebbero essere riutilizzate e riciclate, e chesono le meno costose e le più nocive dal punto di vista am-bientale.Gli “inceneritori”, soprattutto, sono oggetto di innumere-voli contestazioni perché generano fumi e residui (ceneri)inquinanti; d’altra parte sono molto “amati” dalle impresedi smaltimento dei rifiuti perché producono energia elet-trica che può essere venduta con buoni profitti, grazie aicontributi dati dallo Stato (cioè da tutti noi cittadini chepaghiamo le tasse), nel nome dell’ecologia, facendo fintache si tratti di una fonte energetica rinnovabile, il che nonè. Non meraviglia che in tanti cerchino di inventare ince-neritori meno esposti alla contestazione.Qualche tempo fa, nel 2009, la compagnia britannica dibandiera ha deciso di costruire un impianto industriale perprodurre una parte del carburante per i suoi aerei dai rifiu-ti delle città vicine. Che sia stato scoperto qualche nuovoprocesso per eliminare gli ingombranti rifiuti e addiritturaprodurre carburanti utili? Il processo su cui si basa la nuo-va impresa non è nuovissimo, anzi è una variante di uno deitanti processi di incenerimento, quello chiamato a volta avolta di dissociazione molecolare, torcia al plasma, gassifi-cazione, talvolta pirolisi. Esso consiste nel far passare i rifiuti sminuzzati in uno spa-

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zio ad altissima temperatura, circa 5000 gradi, in cui la ma-teria organica brucia e si decompone e la parte inorganicadei rifiuti (metalli, ceramiche, vetro, eccetera) fonde e sitrasforma in un materiale utilizzabile come riempimentostradale, ingrediente del cemento e simili. Sempre di ince-nerimento si tratta, anche se le ceneri alla fine si recupera-no in forma fusa anziché pulverulenta. L’unica variante stanel trattamento ad alta temperatura realizzata con un arcoelettrico che scocca fra due elettrodi attraversati da unacorrente elettrica.Il nome “plasma”, attribuito talvolta a questo processo, siriferisce in realtà ad uno stato della materia ad altissimatemperatura che si ha quando un arco elettrico è fatto pas-sare, in opportune condizioni, attraverso una massa di gasche assumono uno stato di altissima “agitazione”. Uno sta-to di plasma è quello che si cerca di raggiungere nella spe-ranza che i nuclei di deuterio e trizio “fondano” insieme, li-berando energia ad alcuni milioni di gradi di temperatura;una condizione che si verifica nelle bombe a idrogeno incui l’altissima temperatura di innesco è provocata dal-l’esplosione di una bomba a uranio. Nessun reattore nu-cleare a fusione ha mai funzionato nel mondo se non peruno o due secondi. Quello degli inceneritori è quindi unplasma per modo di dire, piuttosto è un arco elettrico,chiamato anche “torcia”.Gli inceneritori ad arco possono essere costruiti con moltevarianti; nel caso dei rifiuti di cui si parlava all’inizio, l’ideaè di condurre la decomposizione della materia organica deirifiuti, che contiene carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto,zolfo, eccetera, in modo da ottenere due gas, ossido di car-

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bonio e idrogeno, gli stessi che si formano per pirolisi (de-composizione mediante calore) di qualsiasi materia organi-ca. La miscela di ossido di carbonio e idrogeno è detta anche“gas di sintesi” o Syngas, o “gas d’acqua”, perché originaria-mente si otteneva trattando con vapore acqueo il carbone adalta temperatura. La miscela può essere trasformata in idro-carburi simili a quelli della benzina o del cherosene di origi-ne petrolifera, quelli che interessano la società aerea di cuisi parlava all’inizio, mediante un processo inventato negli an-ni Venti del Novecento dai chimici tedeschi Franz Fischer(1877-1947) e Hans Tropsch (1889-1935) per ottenere labenzina sintetica in condizioni autarchiche quando manca ilpetrolio ed è disponibile carbone. È stato impiegato nellaGermania nazista e per alcuni anni in Sud Africa.La grande innovazione consisterebbe quindi nel produrrela miscela di ossidi di carbonio e idrogeno per trattamentoad alta temperatura del pattume. Gli inceneritori, detti atorcia o plasma, hanno i loro problemi: l’arco elettrico de-ve essere raffreddato con acqua, le pareti interne dell’ince-neritore devono essere rivestite di materiale refrattario, c’èun consumo di elettricità per tenere in funzione l’arco elet-trico e un consumo del materiale degli elettrodi. Inoltre, lacorrente di gas destinato alla sintesi trascina con sé gascontenenti altri elementi presenti nella materia organica,come composti dello zolfo e ossidi di azoto, e polveri con-tenenti i metalli volatili presenti nei rifiuti, per cui devonoessere sottoposti a processi di depurazione e filtrazione.C’è un futuro per questi tipi di trattamenti? La compagniainglese prevede almeno altri tre anni di studi e perfeziona-menti prima che il nuovo carburante sintetico possa entra-

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re nei serbatoi degli aerei, per ora è una testimonianzapubblicitaria di amore per l’ecologia. Per il resto, i moltitentativi di costruire degli inceneritori a “plasma” per rifiu-ti urbani non hanno avuto grande successo. Credo proprioche la vera soluzione per il problema dei rifiuti sia produr-ne di meno; il che sembra difficile se l’imperativo è consu-mare di più, che significa produrre più rifiuti. Come uscireda questa trappola?

Lana verde

La moda scopre l’ecologia. Il fine della moda è quello di in-ventare sempre nuovi oggetti e merci da proporre per in-durre all’acquisto i consumatori già sazi: nuovi vestiti al po-sto di quelli già posseduti, nuove scarpe anche quandoogni persona ha soltanto due piedi, nuove automobili an-che quando non si sa dove metterle, di giorno e di notte, ecosì via. È questo, dicono, che tiene in vita l’economia. Nel-la sua ricerca di novità, la moda può anche scoprire qual-cosa di favorevole all’ambiente; è il caso della “riscoperta”di tessuti e indumenti fatti con fibre tessili e con materiali“naturali”, biodegradabili, ottenuti con processi meno in-quinanti, in alternativa a quelli finora ottenuti dal petrolio.L’ultima arrivata è la “lana verde”, fabbricata riutilizzandola lana usata, una tecnologia nota da secoli e di cui la cittàtoscana di Prato è stata la fortunata capitale mondiale perdecenni. La lana vergine, ricavata dal vello delle pecore, èbella, ma non è priva di inconvenienti ecologici. La sua tra-sformazione dal corpo delle pecore al tessuto è un lungo

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processo produttivo; la tosa delle pecore fornisce della la-na greggia che è rivestita di sporcizia e di una sostanza ce-rosa, la lanolina, che devono essere eliminate, in genere sulluogo di produzione. Talvolta la lana viene esportata in for-ma sudicia, “sucida”, come si dice, e deve essere lavata nelluogo di arrivo e di trasformazione. L’eliminazione delle so-stanze che sporcano la lana comporta inquinamento delleacque, anche se consente il recupero di un sottoprodotto,la lanolina, che trova impiego commerciale, per esempio incosmesi.La lana greggia, che ha fibre abbastanza corte, di alcunicentimetri, prima della filatura deve essere “oliata” per au-mentare l’adesione fra le singole fibre e la trasformazionein sottili fili continui; il filato che così si ottiene deve esse-re lavato con detergenti sintetici prima della tintura e del-la tessitura e anche questo lavaggio genera inquinamentodelle acque. A sua volta, il processo di tintura con coloran-ti sintetici e il successivo lavaggio delle fibre colorate com-porta anch’esso altro inquinamento delle acque. Infine, gliindumenti di lana usata, dopo un tempo più o meno breve,vanno ad aumentare la massa di rifiuti solidi. Alcuni di que-sti disturbi ambientali possono essere evitati riutilizzandola lana usata; talvolta si tratta di ritagli di lavorazione dellabiancheria di lana (e in questo caso si ha a che fare con la-na bianca di alta qualità) che possono essere facilmentesfibrati e ritrasformati in filati e tessuti bianchi e coloraticon minore inquinamento delle acque. In altri casi, si trat-ta di fibre o tessuti colorati, talvolta ritagli di sartoria, tal-volta indumenti usati più o meno puliti, che pure sono og-getto di un vasto commercio internazionale. Il nome volga-

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re è “stracci”, ma in realtà si tratta di materiali riutilizzabi-li con processi ben noti: dapprima in genere gli stracci ven-gono separati a seconda del colore e a seconda dell’even-tuale presenza di altre fibre, dopo aver tolto bottoni e cer-niere. A questo punto inizia un processo di sfibratura e fila-tura con speciali macchinari che forniscono il tessuto car-dato. Se il processo di cardatura viene applicato a fibre giàcolorate è possibile ottenere filati e quindi tessuti coloratisenza impiego di altri coloranti sintetici, evitando così gli in-quinanti processi di tintura. La capitale mondiale di questatecnologia è sempre stata Prato che dal Medioevo producee commercia, oltre a tessuti di lana, anche tessuti di lana“rigenerata” che vengono anche esportati (le divise dellagloriosa “Armata Rossa” sovietica per anni sono state rea-lizzate con cardato pratese). Gli “stracci”, ma qui li chiama-no “cenci”, hanno fatto la fortuna di imprenditori, invento-ri di macchine e tessitori di questa industriosa città, da mol-ti anni diventata capoluogo di provincia, nella quale ognianno vengono riciclate 22mila tonnellate di lana usata.E oggi, alla luce della nuova attenzione ecologica, la lana ri-generata è giustamente presentata come “lana verde”, pro-dotta con processi che, fra l’altro, non comportano immis-sione nell’ambiente del gas serra anidride carbonica, alpunto che i tessuti così fabbricati meritano il nome ”carda-to CO2 neutral”, che non contribuiscono ad alterare il cli-ma. Si susseguono, sempre più spesso, delle manifestazio-ni di moda ecologica per far conoscere e valorizzare, giu-stamente, questa attività italiana. Senza contare che, conopportune modifiche dei capitolati di acquisto delle merciper la pubblica amministrazione, la lana rigenerata potreb-

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be essere impiegata per divise e indumenti di dipendentipubblici nell’ambito della politica degli acquisti “verdi” chesono imposti dalla legge sullo smaltimento dei rifiuti, mache sono ancora così poco praticati. E bisogna fare presto,perché la produzione di lana rigenerata sta ormai attiran-do l’attenzione di altri Paesi industrializzati, tanto più chedai Paesi asiatici sta arrivando in Europa un crescente flus-so di stracci di lana e di altre fibre tessili.La più antica tradizione di produzione di tessuti di lana car-data al di fuori dell’Italia si ha in Inghilterra, dove la lana ri-generata “shoddy” ha cominciato ad essere prodotta agliinizi dell’Ottocento, quando le guerre napoleoniche fecerocessare l’afflusso in Inghilterra delle lane spagnole. Un cer-to Benjamin Law (1773-1837) iniziò la produzione di lanarigenerata a Batley, nello Yorkshire (che è una specie di“pratese” britannico); dapprima la sua impresa incontrò loscetticismo dei concittadini, ma poco dopo fu coronata daun successo che dura ancora oggi. La “lana verde” soppor-ta bene la presenza di fibre sintetiche eventualmente pre-senti negli stracci, per cui risulta, veramente, un prodottonon solo ecologicamente attraente, ma adattabile ad ungran numero di condizioni di lavorazione e di commercializ-zazione. La stessa raccolta degli stracci, condotta per ora suscala limitata da alcune associazioni di carità, può alleggeri-re i costi di smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

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La scoperta della fotoelettricita’ del selenio

Vi ricordate quando Edmond Dantès, il Conte di Montecri-sto del celebre romanzo di Alessandro Dumas (1802-1870), fa arrivare per telegrafo un’informazione sbagliataal malvagio e avido banchiere Danglars, che lo aveva ingiu-stamente fatto arrestare e finire per anni nel tetro carceredel castello d’If a Marsiglia? E così Danglars è punito conuna ingente perdita di denaro? Siamo nel 1838 e il Contedi Montecristo si mette di persona a muovere le tre brac-cia del telegrafo ottico che collegava tutta l’Europa, tra-smettendo i segnali da una torre di osservazione ad un’al-tra. Il telegrafo ottico era stato inventato alla fine del Set-tecento da Claude Chappe (1763-1805) e dal fratello Igna-zio (1760-1830) ed era sembrato una macchina talmenteimportante che l’Assemblea rivoluzionaria francese l’avevaufficialmente adottato nel 1792.Il racconto di Dumas si riferisce comunque ad uno degli ul-timi periodi di vita del telegrafo ottico. Nella lontana Ameri-

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Solare

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ca, Samuel Morse (1791-1872) aveva realizzato un sistemaper trasmettere lettere e messaggi utilizzando la correnteelettrica e un alfabeto da lui inventato, composto di linee epunti; il 24 maggio 1844 Morse trasmise il primo messaggiotelegrafico da Washington a Baltimora e da quel momento iltelegrafo elettrico passò da un successo all’altro.Il passo successivo era superare mari e oceani e qui inter-venne l’inglese Willoughby Smith (1828-1891), impiegatoin una fabbrica chimica che lavorava la “guttaperca”, unagomma elastica naturale estratta da piante dell’Indonesia eche presentava buone proprietà isolanti dell’elettricità ebuona resistenza all’acqua. Coprendo dei fili di rame conquesta guttaperca la società di Smith fabbricò i primi cavielettrici che potevano essere immersi nel mare, adattiquindi alle trasmissioni telegrafiche sottomarine. Il primocavo, lungo 50 chilometri, collegò nel 1850 Dover in Inghil-terra con Calais in Francia L’importante passo successivo fu fatto nel 1852, quando uncavo telegrafico ben più lungo fu steso fra la città di LaSpezia, ancora nel Regno di Sardegna, con la Corsica e poicon la Sardegna e l’Africa settentrionale, unendo per la pri-ma volta direttamente due continenti.I collegamenti intercontinentali continuarono nel 1858 conla posa del cavo telegrafico sottomarino che univa l’Irlandacon l’isola di Terranova nel Nord America. Nasceva la so-cietà moderna e la globalizzazione, mezzo secolo primadelle trasmissioni “senza fili” della radio di Marconi e un se-colo prima delle trasmissioni con satelliti artificiali.Tuttavia, i satelliti artificiali, e tutta l’attuale “società sola-re”, non sarebbero mai stati realizzati se Willoughby Smith

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non avesse fatto anche un’altra scoperta. Per le prove diisolamento, durante l’immersione dei cavi telegrafici sotto-marini, Smith usò delle barrette di selenio metallico, con-siderato un cattivo conduttore dell’elettricità. Smith scoprìperò che le proprietà elettriche del selenio variavano quan-do era tenuto al buio, rispetto a quando era esposto al So-le. Al buio le barrette di selenio non lasciavano passarel’elettricità e alla luce diventavano, sia pure limitatamente,conduttrici di elettricità. Colpiti da questa strana proprie-tà, altri due inglesi, William Adams (1836-1915) e RichardDay, condussero altri esperimenti e nel 1876 scoprironoche nel selenio esposto alla luce si generava addiritturauna corrente elettrica. Questa corrente cessava quando lasuperficie di selenio era tenuta al buio e chiamarono que-sto fenomeno “fotoelettricità”. Fra tutti questi stranieri,non dimentichiamo che anche gli italiani hanno avuto unruolo nell’utilizzazione dell’energia solare: al professore pi-sano Antonio Pacinotti si devono alcuni fondamentali stu-di, pubblicati nel 1863-64, sulle proprietà fotoelettriche delselenio.Ormai erano aperte le porte per la produzione di elettri-cità direttamente dalla luce del Sole. Al fianco di alcuneapplicazioni commerciali, come le celle fotoelettriche perl’apertura e chiusura automatica delle porte o per gliesposimetri delle macchine fotografiche, il selenio fu im-piegato per la costruzione delle prime cellule fotovoltai-che solari in senso moderno. Nel 1884, l’americano Char-les Fritts (1850-1903) realizzò un pannello fotovoltaicostendendo un sottile strato di selenio su una lastra di me-tallo e constatò che il pannello produceva una corrente

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elettrica quando era esposto sia alla luce solare, sia allaluce artificiale.Fritts mandò uno dei suoi pannelli fotovoltaici al grande fisi-co tedesco Werner von Siemens (1816-1892) che ne riferì al-l’Accademia reale di Prussia e pubblicò nel 1885 un articolo“sulla forza elettrica generata dal selenio esposto alla luce,scoperta dal sig. Fritts di New York”. Nel lungo cammino perla comprensione del fenomeno delle fotoelettricità, ci sareb-be voluto addirittura Albert Einstein (1879-1955) per spiega-re che la luce “contiene” dei fotoni dotati di energia, i qualimettono in moto gli elettroni all’interno di alcuni materialicome il selenio e, si scoprì in seguito, il silicio e altri ancora. Per farla breve, il primo pannello solare fotovoltaico in sen-so moderno, a strato di selenio, fu costruito nel 1931, ma ilsuo rendimento era molto basso: solo meno dell’1% del-l’energia solare veniva trasformata in energia elettrica. Sol-tanto nel 1953 fu scoperto, nei laboratori americani dellasocietà elettrica Bell, che il selenio poteva essere sostitui-to dal silicio opportunamente trattato e in pochi anni lecelle fotovoltaiche al silicio sarebbero diventate commer-ciali e avrebbero raggiunto, oggi, la capacità di trasforma-re circa il 12% dell’energia solare in energia elettrica. Sono i pannelli solari che forniscono continuamente l’elettri-cità ai satelliti artificiali che trasmettono notizie, film, le par-tite di calcio, le informazioni meteorologiche, eccetera. Ipannelli solari, che si stanno diffondendo in tutto il mondo,producono, alle nostre latitudini, circa 100-120 chilowattoredi elettricità all’anno per ogni metro quadrato di superficieesposta al Sole. I pannelli solari sono importanti strumentiper mettere il Sole al servizio degli esseri umani nei Paesi in-

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dustrializzati, ma soprattutto nei Paesi del Sud del mondo.Pannelli solari, senza parti in movimento, di semplice fun-zionamento, possono portare l’elettricità per far funziona-re frigoriferi per la conservazione dei medicinali, per por-tare conoscenze e per illuminare le case in milioni di villag-gi nei deserti, nelle foreste, sulle montagne, grazie al Sole.Ma niente di quello che abbiamo oggi sarebbe stato possi-bile senza il contributo talvolta glorificato, ma spesso di-menticato e ignorato, di tante persone che ci hanno prece-duto. Almeno un grazie!

Il Sole eliminera’ tutta la poverta’à

“Il problema dell’impiego dell’energia raggiante del Sole siimpone e s’imporrà anche maggiormente in seguito. Quan-do un tale sogno fosse realizzato, le industrie sarebbero ri-condotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrreb-bero lavoro colla forza della luce del giorno, che non costaniente e non paga tasse!”. Con queste parole Giacomo Cia-mician (1857-1922), professore di chimica nell’Universitàdi Bologna, concludeva, la “lezione” inaugurale dell’annoaccademico 1903-1904 della sua università.Pochi anni dopo, nel 1912, in una conferenza tenuta negli Sta-ti Uniti, lo stesso professore affermava: “Se la nostra nera enervosa civiltà, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltàpiù quieta, basata sull’utilizzazione dell’energia solare, non neverrà certo un danno al progresso e alla felicità umana!”.Quando sono state pronunciate queste parole, il consumototale mondiale annuo di energia era di poco più di un mi-

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liardo di tonnellate equivalenti di petrolio (tep). Taleconsumo era salito a circa due miliardi di tep/anno nel1950 ed è oggi (2010) di circa undici miliardi di tep/anno!Il rapido aumento dei consumi energetici e la crescentescarsità del petrolio hanno ridestato l’attenzione deglistudiosi e dei governi verso l’energia solare: nuovi finan-ziamenti e stimoli arrivano a professori e inventori, ma ipassi avanti sono modesti. Ho voluto citare le parole diCiamician per suggerire che forse la vera soluzione stanon tanto nel correre dietro a nuove invenzioni, quantonello studiare e analizzare criticamente e perfezionarequanto è già noto.Ciamician è stato un importante personaggio: era nato aTrieste nel 1857 e aveva studiato a Vienna. Aveva poi vin-to la cattedra di chimica all’Università di Padova ed era sta-to successivamente chiamato all’Università di Bologna do-ve ha insegnato fino alla morte, nel 1922, e dove ha creatoil più importante centro di ricerche chimiche in Italia.Ciamician, che fu anche nominato senatore, dedicò granparte delle sue ricerche alla fotochimica, cioè allo studiodelle modificazioni che le sostanze chimiche subisconoquando sono esposte alla luce. Sulla terrazza dell’Istitutochimico dell’Università di Bologna (che oggi porta il suonome), Ciamician esponeva alla luce del Sole migliaia dicampioni di sostanze di cui studiava le modificazioni colpassare del tempo. Negli stessi anni ancora un italiano, An-tonio Pacinotti, aveva studiato la formazione di una corren-te elettrica fra le saldature di due metalli, alternativamen-te esposte alla radiazione solare e tenute al buio. Pacinottiaveva anche riconosciuto le leggi della termoelettricità, un

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altro sistema per trasformare l’energia solare direttamentein elettricità.Alcune delle ricerche fotochimiche di Ciamician furono de-dicate alla “fissazione” dell’energia solare nei vegetali perfotosintesi clorofilliana, la reazione che, silenziosamente,sotto i nostri occhi, ogni giorno, fa aumentare la massa del-le foglie, dei fiori, degli alberi, dei pascoli. E poiché già aitempi di Ciamician era nota l’enorme quantità di materialeorganico ottenuto dal Sole nel mondo vegetale, nel pensarealla chimica del futuro, Ciamician indicò l’uso chimico dellabiomassa vegetale come una delle strade da seguire per li-berarsi dalla schiavitù dei combustibili fossili inquinanti,dalla “nera e nervosa civiltà” del suo (e nostro) tempo.L’attenzione per l’energia solare ha avuto vari cicli: è cre-sciuta fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, negli an-ni Trenta del Novecento, poi è declinata; è cresciuta dinuovo, con altre scoperte e innovazioni, dopo la SecondaGuerra Mondiale, negli anni Cinquanta del Novecento,quando l’energia nucleare non aveva ancora mantenuto lepromesse annunciate, poi è declinata nell’era del petrolioabbondante a basso prezzo; infine è risorta dopo le crisi pe-trolifere degli anni Settanta del Novecento. La passioneper l’energia solare sta tornando “di moda” adesso.Si potrà ottenere energia per le necessità umane dal Solesoltanto se si studierà con attenzione la storia degli esperi-menti, dei successi e degli insuccessi del passato.La storia dell’energia solare spiega bene quanto è già notosulle molte forme in cui l’energia solare può essere usata co-me fonte di calore a bassa temperatura per scaldare l’acquae gli edifici, come calore ad alta temperatura per concentra-

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zione mediante specchi, come calore per ottenere acquadolce dal mare, come calore raccolto e “immagazzinato” ne-gli strati superficiali dei mari. L’energia solare può fornireelettricità mediante fotocelle, utilizzando le forze del vento,del moto ondoso, del movimento delle acque, forze tutte de-rivate dal Sole. E infine è l’energia solare che “fabbrica” lamateria vegetale – in ragione di 100 miliardi di tonnellate al-l’anno sui continenti – biomassa che a sua volta può essereusata come fonte di energia per le necessità umane, diretta-mente o trasformata in alcol etilico o in altri carburanti.Ai fini dell’utilizzazione “umana” dell’energia solare, va nota-to subito che l’intensità della radiazione solare è maggiorenei Paesi meno abitati e in quelli oggi arretrati che sarebbe-ro quindi favoriti da un crescente ricorso a questa fonte dienergia: una società solare contribuirebbe quindi a ristabili-re una forma di giustizia distributiva energetica fra i diversiPaesi della Terra. Come affermò nel 1912, nella conferenzaamericana già ricordata, il professor Ciamician: “I Paesi tro-picali ospiteranno di nuovo la civiltà che in questo modo tor-nerà ai suoi luoghi di origine”.

Rudolf Diesel e il motore a olio di arachide

“L’uso degli oli vegetali come carburanti per i motori puòsembrare insignificante oggi, ma tali oli nel corso del tem-po possono diventare altrettanto importanti quanto il pe-trolio e il carbone; la forza motrice potrà essere ottenutacol calore del Sole anche quando le riserve dei combustibi-li liquidi e solidi saranno esaurite”. Queste parole non ven-

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gono da qualche esponente ecologista fautore dei biocar-buranti, ma sono state pronunciate nel 1912 da un “certo”Rudolf Diesel (1858-1913). Fra la fine dell’Ottocento e iprimi del Novecento, l’energia per tutte le società indu-striali era fornita dal carbone, di cui esistevano grandi gia-cimenti in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Russia(che allora includeva la Polonia), negli Stati Uniti. Col car-bone si otteneva calore e venivano alimentate le centralielettriche; dalla distillazione del carbone si ottenevano lematerie prime per l’industria chimica, il gas illuminante edei liquidi adatti come carburanti.La quantità del carbone estratto dalle miniere aumentavacosì rapidamente che un economista inglese, Stanley Je-vons (1835-1882), aveva scritto un libro intitolato Il pro-

blema del carbone (1865), in cui prevedeva che un gior-no le miniere di carbone avrebbero potuto esaurirsi. Da-vanti allo spettro di una possibile scarsità di energia, inven-tori e scienziati si diedero da fare per utilizzare l’enormeenergia che il Sole rende disponibile ogni anno, dovunque,sempre nella stessa quantità: una fonte di energia, come sidice oggi, rinnovabile e inesauribile.La storia dell’energia mostra che l’attenzione e i progressinel campo dell’energia solare sono figli dei periodi di scar-sità. Un secolo fa, alla fine dell’Ottocento, appunto, davantial rischio dell’esaurimento del carbone e in questo inizio delDuemila davanti agli alti costi del petrolio e al pericolo delsuo esaurimento. Negli anni 1880-1910, in quella che si puòchiamare l’“età dell’oro” dell’energia solare, c’è stato un fer-mento incredibile di ricerche. L’italiano Antonio Pacinottiha descritto la possibilità di ottenere elettricità per effetto

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fotovoltaico (usando la radiazione luminosa del Sole) e pereffetto termoelettrico (sfruttando il calore solare). L’inge-gnere cileno Carlos Wilson dissetò per oltre trent’anni i mi-natori che lavoravano nell’assolato e arido altopiano del Ci-le, trasformando, per distillazione col calore solare, l’acquasalmastra, disponibile sul posto, in acqua dolce. I distillato-ri solari di oggi sono ispirati a quell’impianto che produce-va 22.000 litri di acqua potabile al giorno.Grandi fisici e chimici, come il tedesco Friedrich Ko-hlrausch (1840-1910) e l’inglese Joseph John Thomson(1856-1940), scrissero dei trattati indicando come le socie-tà del futuro avrebbero potuto essere alimentate per sem-pre dall’inesauribile forza del Sole. Il francese August Mou-chot (1825-1912), lo svedese John Ericsson e gli america-ni Aubrey Eneas (1860-1920) e Frank Shuman (1862-1918) costruirono macchine e pompe per sollevare l’acqua,azionate dal vapore prodotto concentrando con specchil’energia solare su adatte caldaie. Nel primo decennio delNovecento, il grande chimico italiano Giacomo Ciamician,professore nell’Università di Bologna, descrisse gli esperi-menti di fotochimica, mostrando che la radiazione solarealla base della fotosintesi clorofilliana, e quindi della pro-duzione di tutti i vegetali, avrebbe consentito di istallaregrandi fabbriche chimiche nei deserti assolati. Tutta que-sta multinazionale della scienza e della tecnica pensavache il Sole, disponibile in uguale maniera per tutti i popolidella Terra, avrebbe potuto diffondere benessere e svilup-po con una migliore distribuzione della ricchezza e unamaggiore giustizia internazionale.Il tedesco August Bebel (1840-1913) scrisse che l’energia

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solare avrebbe consentito la realizzazione di una societàsocialista e la liberazione delle donne e degli uomini dal-la fatica del lavoro. Gli anni di cui stiamo parlando, fra il1890 e il 1910, videro, oltre a molte altre invenzioni, an-che la nascita di veicoli capaci di muoversi da soli, “auto-mobili”, appunto, le cui ruote potevano essere tenute inmovimento dal motore a scoppio inventato dai toscaniEugenio Barsanti e Felice Matteucci. Per alimentare ilsuo motore a combustione interna, Barsanti utilizzò il gasilluminante che veniva introdotto in un cilindro, insiemeall’aria; la miscela era poi compressa con un pistone, bru-ciata mediante una scintilla elettrica e la massa di gas cal-di che si formava spingeva in basso il pistone e faceva gi-rare le ruote.I progressi nella raffinazione del petrolio misero a disposi-zione la benzina con cui era possibile migliorare il rendi-mento dei motori a scoppio che, comunque, avevano di-mensioni e potenza limitate. Arriva, a questo punto, il gio-vane chimico e ingegnere franco-tedesco Rudolph Diesel.Diesel pensò di costruire dei motori a scoppio che nonavessero bisogno di accensione con una scintilla, che po-tessero essere di maggiori dimensioni e potenza e che nonavessero bisogno di benzina. I suoi primi motori – poi co-nosciuti col nome “diesel”, quello dell’inventore, e che co-sì si chiamano ancora oggi – furono presentati con succes-so all’Esposizione universale di Parigi del 1900 e attrasse-ro molta attenzione, anche perché funzionavano con olio diarachide, con un carburante ottenuto dall’agricoltura. Die-sel, che guardava al futuro, come dimostra la frase citataall’inizio, era di idee progressiste e pacifiste e pensava che

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i suoi motori avrebbero potuto generare forza motrice perfar viaggiare grandi treni e navi, capaci di trasportare mer-ci e persone facendo progredire i commerci e l’umanità.L’uso di carburanti di origine vegetale avrebbe contribuito,inoltre, allo sviluppo dell’agricoltura, soprattutto nei Paesiin cui si coltivano piante oleaginose. Adesso, dopo un seco-lo, si riscopre la “ricetta” di Diesel e viene incentivata laproduzione di carburanti a base di oli vegetali e animali edi loro derivati, quelli che si chiamano “biodiesel”, e cheaddirittura possono essere prodotti con gli oli residui difrittura. Rudolph Diesel fu un personaggio straordinario,un teorico nel campo della termodinamica e un inventoregeniale. Fu un attento imprenditore e diventò ricchissimo,girò il mondo diffondendo, nei congressi e fra gli industria-li, la conoscenza e i vantaggi del suo motore, ma poi persetutti i propri averi e scomparve, cadendo da una nave nelmare durante un viaggio verso l’Inghilterra. I motori dieselmuovono oggi centinaia di milioni di automobili, treni e na-vi nel mondo.

Il Sole, il vento e il buio

C’è un famoso racconto, attribuito a Esopo, intitolato Il pa-

dre, il figlio e l’asino. Un padre anziano, un figlio giovi-netto e un asino andavano per la loro strada. Il padre, stan-co, sale sull’asino e la gente che li vede passare dice: “Cheegoista quel padre che lascia andare un giovinetto a piedi”.Allora il padre scende e fa salire sull’asino il figlio e la gen-te che li vede passare dice: “Vergogna quel giovinetto che

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lascia andare a piedi il padre anziano”. Allora padre e figliosalgono tutti e due sull’asino e la gente dice: “Vergogna:due persone che sfiancano il povero asino”. Allora padre efiglio scendono e vanno a piedi al fianco dell’asino e la gen-te dice: “Ma sono proprio scemi quei due che potrebberoandare senza stancarsi”. Il racconto non dice come è finita:forse si sono fermati tutti e tre. È quanto sta avvenendo neldibattito sulle fonti energetiche rinnovabili che vi propon-go qui di seguito.L’uso dei combustibili fossili comporta l’esaurimento delleriserve esistenti e provoca mutamenti climatici e la solu-zione nucleare è inaccettabile. La vera soluzione va cerca-ta nel ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, tutte deri-vate dal Sole, sotto forma di calore solare o di energia eo-lica o di moto delle acque.Niente vero. Sulla produzione di energia dal Sole non sipuò contare perché occorrerebbero migliaia di chilometriquadrati di superficie terrestre coperta di pannelli solariper avere quantità apprezzabili di calore o elettricità. Inve-ce, sarebbe una cosa molto buona perché le grandi zoneterrestri in cui la radiazione solare è elevata sono proprionei deserti poco abitati dei Paesi poveri e quindi da questipotrebbe venire il rifornimento di energia futura per i Pae-si industrializzati. No, è inaccettabile la dipendenza danuovi monopoli energetici, questa volta costituiti dai Paesiricchi di Sole e di impianti solari. Però i Paesi industrializ-zati potrebbero vendere pannelli solari ai Paesi con eleva-ta insolazione e comprare in cambio energia elettrica oidrogeno solari dai Paesi oggi arretrati.Il ricorso al solare sarebbe una soluzione pessima perché

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gli impianti solari, termici o fotovoltaici, hanno una duratalimitata, e dopo alcuni anni o decenni si dovrebbero smal-tire enormi quantità di rottami inquinanti. Però solo i pan-nelli solari al silicio comportano problemi di smaltimento edi inquinamento, tanto che tendono ad essere sostituiti dapannelli fotovoltaici a semiconduttori organici. Non ci sideve neanche pensare, perché il rendimento dei nuovipannelli fotovoltaici è basso e occorrerebbero superfici ter-restri ancora più grandi per fornire l’elettricità oggi neces-saria nel mondo.Per produrre elettricità dal Sole conviene usare non i pan-nelli fotovoltaici, ma piuttosto il calore solare con concen-trazione per ottenere vapore per alimentare turbine. Que-sta soluzione non convince perché i sistemi per concentra-zione producono vapore in maniera intermittente e la pro-duzione di vapore cessa se il cielo è coperto di nuvole. Pe-rò il calore solare ad alta temperatura può essere accumu-lato in speciali materiali e reso disponibile durante tutto ilgiorno.Allora, se proprio si vuole ottenere elettricità dalle fontirinnovabili, meglio usare i motori eolici alimentati dal ven-to che si genera sulle terre emerse e sugli oceani dal movi-mento di aria che scorre dalle parti calde alle parti freddedel pianeta, dal momento che il vento ha dentro di sé unaforza grandissima. Ma le centrali eoliche deturpano il pae-saggio e uccidono gli uccelli che vengono risucchiati dalmoto delle pale. Però l’energia eolica potrebbe fornire elet-tricità in forma decentrata e quindi si eviterebbero le gran-di reti di trasmissione dell’elettricità generata dalle grandicentrali termoelettriche e nucleari. Sarebbe una soluzione

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pessima perché gli impianti eolici forniscono elettricità informa discontinua e una interruzione dell’erogazione po-trebbe far morire negli ospedali i pazienti dipendenti daapparecchiature elettriche. Ma i problemi della disconti-nuità sono inesistenti perché l’elettricità di origine eolicapuò essere accumulata, a mano a mano che si forma, inadatte batterie ricaricabili come le recenti a ioni di litio. Sa-rebbe un disastro perché le maggiori riserve mondiali di li-tio sono nelle mani della Bolivia, un Paese socialista e ne-mico del capitalismo, e il prezzo delle batterie al litio sareb-be destinato ad aumentare. Allora la forza del vento po-trebbe essere utilizzata nella maniera migliore usando laforza delle onde generate dal vento. Ma le centrali elettri-che a onde marine comportano devastanti interventi sullecoste. La principale funzione che il Sole sa svolgere bene è la”fabbricazione” di biomassa vegetale con la fotosintesi clo-rofilliana, che porta via anidride carbonica dall’atmosfera,e dalla biomassa vegetale è possibile ottenere sia combu-stibili solidi, sia combustibili liquidi come l’alcol etilico o ilbiodiesel da usare come carburanti per autoveicoli.Niente vero. La produzione di alcol etilico, o bioetanolo,dagli amidi di cereali, alimenti indispensabili per gli esseriumani e ancora di più per le popolazioni povere, sottraeuna grande massa di alimenti alle bocche di chi ha fame;così i poveri non avrebbero di che mangiare per permette-re ai Suv dei Paesi ricchi di andare a tutta velocità. Ma l’usodell’alcol etilico come carburante libera dalla dipendenzadal petrolio e il bioetanolo può essere ottenuto da zucche-ri o da materiali lignocellulosici e scarti della lavorazione

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del legno. Anche in questo modo si incentiverebbe la pian-tagione di piante da zucchero o alberi a rapida crescita chealterano molti ecosistemi naturali e impoveriscono la bio-diversità.Invece di alcol carburante si possono usare biocarburanti ot-tenuti dai grassi, il biodiesel. No, non si devono usare grassida trasformare in biodiesel perché i grassi sono prodotti inmonocolture che sottrarrebbero terreno alle coltivazioni dipiante alimentari. Conti accurati mostrano che la quantità dienergia impiegata nelle varie operazioni di produzione deibiocarburanti è inferiore, talvolta molto inferiore, a quellache i biocarburanti liberano nei motori a scoppio. Invececonti accurati mostrano che il consumo di energia, in parteottenuta da combustibili fossili, per la preparazione dei ter-reni da coltivare a piante energetiche, per la semina, per ilraccolto, la trasformazione in carburanti, per la distillazione,e lo smaltimento dei residui e sottoprodotti è molto più altadi quella che i biocarburanti liberano nei motori a scoppio.Anche se i sottoprodotti della trasformazione di prodottiagricoli e forestali in biocarburanti possono trovare utile im-piego nell’alimentazione del bestiame.Però, la produzione di carburanti dalla biomassa vegetale,fatti bene i conti, contribuisce anche lei ai mutamenti cli-matici. Ma no, l’uso dei biocarburanti è importante percontrastare il riscaldamento globale perché essi immetto-no nell’atmosfera anidride carbonica e gas serra nella pro-duzione e nella combustione, ma si tratta dell’anidride car-bonica sottratta dall’atmosfera quando le materie prime sisono formate per fotosintesi.Potrei andare avanti a lungo sugli esempi di negazionismo

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e revisionismo associati ai soli problemi energetici e am-bientali. Sembra che il revisionismo sia il grande sport delXX e XXI secolo applicato a molti aspetti della vita civile.Direi della vita “incivile”, perché il progresso richiedereb-be una grande operazione di ricerca della vera-verità an-che nel campo scientifico e tecnologico e la fine del chiac-chiericcio che esplode intorno ad ogni nuovo o vecchioaspetto, amplificato dai giornali, dalle televisioni e da In-ternet spesso disposti a credere a chiunque sia in cerca diqualche visibilità con idee anche strampalate. Una persona potrebbe essere indotta a credere che la veri-tà vada cercata nella “scienza”, ma purtroppo spesso sono“scienziati” apparentemente “attendibili”, quelli che dico-no una cosa e quelli che dicono il suo contrario. Stiamo vi-vendo in un’epoca in cui, come diceva Mao, al buio tutti igatti sono grigi. Ci deve essere allora qualche guida cheaiuti a districarsi nella selva di semi-verità e di semi-men-zogne. Purtroppo la risposta non va cercata nei computer,nelle riviste o nei trattati, ma nella propria testa, nello sfor-zo di conoscenza e di approfondimento diretto dei fatti,nella verifica delle notizie alla luce dei valori che ciascunoporta nel proprio cuore.È un valore la possibilità di muoversi e di illuminare le ca-se e di avere un lavoro ed è un valore il diritto alla salute ead avere cibo sufficiente e acqua pulita. La tale proposta oinvenzione in quale maniera rende massimo l‘accesso a cia-scuno di questi diritti da parte di ciascuno e di tutti? Chiguadagna proponendo una certa invenzione o innovazionee chi ci rimette, natura e ambiente compresi? E io da cheparte sto fra chi ci guadagna e chi ci rimette?

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Non c’e’ pace

Non c’è pace neanche fra le fonti energetiche rinnovabili.A prima vista ci dovrebbe essere un generale accordo perpassare dall’attuale dipendenza dalle fonti energetiche co-stituite da combustibili fossili come petrolio, gas naturale,carbone, o rifiuti, tutte inquinanti e non rinnovabili, a fon-ti energetiche rinnovabili, dipendenti dal Sole: calore sola-re, elettricità solare, elettricità dal vento o dal moto delleacque, calore dalle biomasse agricole e forestali ricreateogni anno attraverso la fotosintesi solare. E invece, anchefra i sostenitori di questa transizione ci sono opinioni nonsolo differenti, ma spesso in vivace contrasto, quasi una vo-lontà di distruggere quello che si sta faticosamente facen-do, quasi una conferma di quello che diceva Pogo nel famo-so fumetto: “Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi”.I giornali, per un lungo periodo, sono stati pieni di notiziesullo “scandalo dell’eolico” che avrebbe portato ad illecitiarricchimenti nella costruzione di centrali eoliche. Nel ca-so dell’energia solare, vengono venduti pannelli fotovoltai-ci, in grado di trasformare la radiazione solare in elettrici-tà, con contratti che assicurano, oltre a elettricità meno in-quinante, un guadagno a chi li compra o agli enti o aziendeche li istallano. A rigore, un utente dovrebbe spendere sol-di per ottenere la merce-energia, ma adesso molti di quel-li che istallano pale eoliche o pannelli fotovoltaici guada-gnano dei soldi provenienti da vari incentivi finanziari, pa-gati da tutti i cittadini sia direttamente attraverso le tasse,sia con un sovrapprezzo nelle bollette dell’elettricità (lacomponente A3 del prezzo dell’elettricità). È giusto che

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soldi pubblici o anche dei singoli cittadini siano spesi perdiffondere l’uso delle energie rinnovabili non inquinanti,con vantaggio per l’economia nazionale e per la salute, mami sembra meno giusto che tali incentivi finiscano nelle ta-sche di singoli privati o di speculatori. C’è qualcosa chenon funziona.I pannelli fotovoltaici sono venduti sulla base della “poten-za di picco” (capacità di produrre energia) corrispondentea circa un chilowatt per pannelli di circa 10 metri quadra-ti. L’elettricità effettivamente prodotta da 10 metri quadra-ti di pannelli fotovoltaici, nel corso di un anno, ammonta acirca 1000-1200 chilowattore, circa un terzo del fabbisognomedio annuo di elettricità di una famiglia. Questa elettrici-tà è però disponibile in maniera differente nelle varie oredel giorno e nei vari mesi dell’anno, per cui, se non si di-spone di grandi batterie di accumulatori, scomodissime,l’elettricità solare, a mano a mano che viene prodotta, vie-ne venduta alle reti elettriche “intelligenti” delle compa-gnie elettriche le quali si impegnano a fornire alla famiglia,o all’utente, l’elettricità corrispondente a mano a mano chene hanno bisogno (quindi anche quando il Sole non splen-de nel cielo).L’altra tecnologia solare è costituita dagli impianti a spec-chi che concentrano la radiazione solare su caldaie o tubinei quali un fluido è scaldato ad alta temperatura e può, asua volta, produrre vapore da avviare alle turbine, comeavviene nelle normali centrali termoelettriche; in questeultime, il vapore è generato dalla combustione di combu-stibili (carbone, gas naturale, prodotti petroliferi, rifiuti)inquinanti, responsabili dell’immissione nell’atmosfera di

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gas, soprattutto anidride carbonica, che provocano muta-menti climatici. Ottenere lo stesso effetto, senza danni am-bientali, con il calore di origine solare è il fine della tecno-logia del “solare termodinamico”. Alcuni impianti usanospecchi cilindro-parabolici, lunghe superfici riflettenti chesi muovono continuamente per “seguire” il Sole nel suomoto apparente nel cielo: la radiazione solare viene con-centrata su un tubo, posto nel “fuoco” della parabola, iso-lato con una copertura trasparente in modo che il calorecosì concentrato non venga disperso nell’aria circostante.Le superfici riflettenti possono anche essere lunghi spec-chi piani che concentrano il calore solare su un solo tubocentrale sopraelevato, secondo una proposta fatta già mez-zo secolo fa dell’italiano Giovanni Francia (1911-1980), co-me ricorda un articolo di Cesare Silvi pubblicato nella rivi-sta Energia Ambiente Innovazione.Il calore solare concentrato nel tubo ricevente dagli spec-chi scalda, a centinaia di gradi, un olio sintetico o una mi-scela di sali come nitrato di sodio e nitrato di potassio. Inquesto caso, i sali fusi caldi vengono avviati ad un deposi-to in cui restano caldi anche di notte, quando il Sole nonc’è. Giorno e notte il calore solare “immagazzinato” nei sa-li fusi viene gradualmente trasferito al vapore acqueo cheaziona una turbina, in modo simile a quanto avviene nellecentrali a combustibili fossili. Le centrali termoelettrichesolari a specchi sono macchine ingegnose, ma delicate ecomplicate.La citata rivista Energia Ambiente Innovazione forniscei dettagli del più recente impianto solare a specchi costrui-to a Priolo, vicino Siracusa (simbolicamente chiamato “Ar-

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chimede”), costituito da specchi cilindro-parabolici dellasuperficie di 30mila metri quadrati. La potenza è di 4.700chilowatt elettrici e la produzione di elettricità è previstain 9.200.000 chilowattore all’anno, corrispondenti a circa300 chilowattore all’anno per metro quadrato di superficiedi raccolta del Sole. Il principale limite del “solare termodi-namico” sta nel fatto che è possibile utilizzare soltanto laradiazione solare “diretta”, quella che si ha quando il cieloè limpido. Se il cielo è nuvoloso, la radiazione solare nonviene concentrata dagli specchi.Il Sole è un’affascinante, ma scomoda, fonte di energia.Energia che può fornire agli esseri umani soltanto se gli sichiede di fare le cose che sa fare bene: produrre raccoltiagricoli e alberi, scaldare corpi a bassa temperatura, dissa-lare l’acqua marina e produrre elettricità con i sistemi fo-tovoltaici o per effetto termoelettrico, per i quali sono pos-sibili ancora grandi perfezionamenti.

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Voglia di pace

Tutti, o quasi, parlano di pace. Ciononostante continua-no, senza tregua, a rombare i cannoni, a fischiare i missi-li e si sente nel mondo una grande delusione verso lesperanze che in tanti avevamo riposto in un’organizza-zione di Paesi uniti, quella delle Nazioni Unite, appunto,preposta alla soluzione dei conflitti. Eppure, l’Ottocentoera pur sembrato chiudersi con qualche spiraglio di spe-ranza.Il 18 maggio 1899, lo zar di Russia Nicola II aveva invitato icapi di Stato all’Aja, in Olanda, per una grande “Conferen-za della pace”. In una “casa nei boschi”, ventisei Paesi siriunirono per assumere un comune impegno di risparmia-re alle popolazioni civili i dolori e i danni delle guerre, pervietare l’uso di pallottole dirompenti e di gas asfissianti,fonti di ancor maggiori dolori, per porre un limite alle in-venzioni che avrebbero prodotto armi ancora più terribili edolorose, per limitare le morti nella guerra marittima e ter-

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Pace

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restre, per trovare una sede in cui risolvere pacificamentele controversie internazionali.I lavori della conferenza durarono fino al 27 luglio del1899 e si conclusero con la firma di vari accordi e conven-zioni. I più importanti non furono firmati dagli Stati Uni-ti, né dal Regno d’Italia (che proprio l’anno prima avevamostrato il suo amore per la pace mitragliando gli operaiinermi a Milano per ordine del generale Fiorenzo BavaBeccaris, per questo molto lodato dal re e dalla regina),né da un’altra diecina dei ventisei partecipanti. I verbalidella conferenza del 1899, con l’elenco di chi votò a favo-re e di chi votò contro le azioni per alleviare i dolori del-la guerra, si trovano nel sito internet www.yale.edu/law-web/avalon/lawofwar/hague99.La conferenza dell’Aja del 1899 – anche se sul piano prati-co non cancellò, né rese meno dolorose le guerre, né fecerinsavire i potenti della Terra, né risparmiò lutti innumere-voli – merita tuttavia di essere ricordata perché mostrò chela voce anche di poche persone può smuovere, almeno unpoco, i governi. E fra tali voci era risuonata, altissima, quel-la di una donna, Bertha von Suttner (1843-1914), nata aPraga, educata in una nobile famiglia di militari, la quale, atrent’anni, aveva deciso di guadagnarsi da vivere per con-to proprio, facendo l’istitutrice a Vienna.Bertha sposò il barone Arthur von Suttner (1850-1902),contro la volontà dell’orgogliosa famiglia del marito, e la cop-pia visse poveramente, dando lezioni di lingue e di musica.In questo periodo, la giovane Bertha cominciò a dedicarsi al-la causa della pace e a scrivere dei libri che, nell’Europa del-la fine dell’Ottocento, ebbero una risonanza e un effetto

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straordinari. Il suo libro più famoso, Giù le armi!, del 1889,fu tradotto in moltissime lingue e nel 1897 apparve la primatraduzione italiana, fatta sulla tredicesima (!) edizione tede-sca. Dopo un lungo oblio, solo nel 1989 le edizioni Abele diTorino ne fecero una riedizione, commentata dalla notascrittrice e teologa Adriana Zarri (1919-2010). Un’altra edi-zione, Abbasso le armi: storia di una vita, è stata pubbli-cata nel 1996 a Cavallermaggiore (in provincia di Cuneo).Bertha von Suttner – “la baronessa” – trascorse il resto del-la sua vita a organizzare iniziative antimilitariste e di pace,dalla Lega per la pace a vari giornali pacifisti, arrivando aconvincere Alfred Nobel (1833-1896), l’uomo che aveva in-ventato la dinamite ed era diventato ricchissimo con que-sto strumento di morte, a sostenere la causa della pace e aistituire il premio che porta il suo nome.La Suttner e il marito ebbero una parte centrale nella con-ferenza dell’Aja del 1899 e furono istancabili nel farne co-noscere l’importanza e il grande contenuto di speranza, enel diffondere l’idea di una Corte internazionale perma-nente per la soluzione, mediante arbitrati, delle controver-sie fra Stati, l’obiettivo che avrebbe dovuto porsi la Socie-tà delle Nazioni e che dovrebbe avere l’organizzazione del-le Nazioni Unite. Nel 1905, “la baronessa” ricevette il Pre-mio Nobel per la pace (la prima donna ad avere questoonore) e da allora fino alla morte tenne, istancabile, confe-renze in tutto il mondo. Sostenne energicamente la “secon-da” conferenza sulla pace, che si tenne all’Aja nel 1907. Laterza avrebbe dovuto svolgersi nel 1914, ma fu annullatadall’inizio del primo grande massacro del Novecento, quel-lo che la Suttner con ogni mezzo aveva voluto evitare.

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Vorrei concludere con una modesta proposta. Non so comee quando finiranno le tante guerre in corso in Africa e inAsia; sarebbe però bello se qualche insegnante parlasse airagazzi dello spirito della Conferenza mondiale della pacedi oltre un secolo fa, dell’idea universale della pace e di co-me qualche passo verso la pace possa essere fatto ancheda tante singole persone. Sarebbe bello se qualcuno spie-gasse che alla vacuità e futilità delle tante chiacchiere e di-battiti televisivi, dovrebbe essere contrapposto il raccontodel coraggio di tante donne e uomini che, come BerthaSuttner, hanno parlato e scritto che il mondo dei conflitti edella morte si può cambiare, che si possono mettere “giù learmi!”.Una biografia di questa grande donna si trova in Internetnel sito http://nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laurea-tes/1905/suttner-bio.html.

Tecnica e cultura: Lewis Mumford

Lewis Mumford (1895-1990) ha segnato un’epoca con unpensiero e con idee, in gran parte dimenticate, che hannolasciato profonde tracce. Di Mumford è difficile dare unadefinizione: urbanista e studioso di architettura, scrittoredi arte e di letteratura, analista e critico della tecnica e del-le sue innovazioni, giornalista attento ai mutamenti del suotempo, polemista e pacifista. Ogni lettore delle sue operepotrebbe classificarlo in una casella corrispondente allesue personali sensibilità.Nato a Long Island, vicino New York, e vissuto nella citta-

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dina di Amenia, pure vicino New York, da questo postotranquillo ha osservato come pochi altri i mutamenti delmondo: la Prima Guerra Mondiale, la grande crisi, l’avven-to dei fascismi in Europa e del “New Deal” in America, laSeconda Guerra Mondiale, l’avvento dell’era atomica, l’uti-lizzo della tecnica come strumento del potere.Mumford tratta i rapporti fra tecnica e potere principal-mente nella trilogia Tecnica e cultura, Il mito della mac-

china e Il Pentagono del potere. In realtà, Mumford ave-va pensato Tecnica e cultura (1934; traduzione italiana,1961) come il primo volume del ciclo The renewal of life

che sarebbe continuato con La cultura delle città (1938;traduzione italiana 1954) e The conduct of life (1951). Fi-no all’opera fondamentale: La città nella storia (1961;traduzione italiana 1963). Il titolo del libro noto in italianocome Il mito della macchina era in realtà il titolo comu-ne di due volumi, il primo dei quali aveva come sottotitoloTechnics and human development (1967; in italiano, ap-punto, Il mito della macchina), mentre il secondo avevacome sottotitolo Il Pentagono del potere (1970; traduzio-ne italiana, 1973). Inutile dire che il tema della violenzadella tecnica usata dal potere anche contro la natura el’ambiente ricorre in moltissimi altri delle centinaia discritti di Mumford, apparsi in numerosissimi volumi di at-ti di conferenze e in moltissime riviste.Tecnica e cultura è stato scritto dopo la fragile avventuradel boom economico americano dei ruggenti anni Venti delNovecento, in quel 1934 che vedeva da una parte la con-quista del potere da parte dei fascismi in Italia e in Germa-nia, e dall’altra la primavera del “New Deal” rooseveltiano

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negli Stati Uniti. Nel licenziare, nel 1963, una riedizione diTecnica e cultura, Mumford aggiunse una breve introdu-zione e alcuni passi in corsivo suggeriti dall’avvento dellabomba atomica e della guerra fredda e dalla degenerazio-ne autoritaria nell’Urss di quel comunismo che Mumford,in molte occasioni, aveva ritenuto una strada per un usoumano della tecnica.Mumford ha usato il termine “technics” per indicare l’artedella trasformazione della natura con l’abilità umana in co-se utili agli individui e alla società, e parla della necessitàdi usare la tecnica al servizio umano, come “tecnologia so-ciale”.Tecnica e cultura riprende le idee di opere di autori am-mirati da Mumford: Robert Owen (1771-1858), il principeanarchico russo Piotr Kropotkin (1842-1922), EbenezerHoward (1850-1928), Thornstein Veblen (1857-1929),Werner Sombart (1863-1941), George Marsh (1801-1888),Patrick Geddes (1854-1932). Soprattutto riprende le ideedi Patrick Geddes, di quello straordinario scozzese che hascritto di urbanistica (ha “inventato” la parola “conurbazio-ne”), di biologia, di economia, di storia della tecnica. Mum-ford ha considerato Patrick Geddes come suo maestro spi-rituale, al punto da dare il nome Geddes al figlio, morto di-ciannovenne in combattimento sull’Appennino durante laSeconda Guerra Mondiale e sepolto nel Cimitero di guerraalleato di Firenze.Dalle opere di Geddes, soprattutto da Città in evoluzione

(1915), Mumford trae alcune idee sull’evoluzione della tec-nica per mettere in evidenza come il potere, più di recen-te il potere capitalista, si appropri, per rafforzare e accre-

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scere se stesso, delle innovazioni che potrebbero essere li-beratorie per tutti gli esseri umani.Seguendo Geddes, Mumford individua un’epoca “eotecni-ca”, nella quale gli esseri umani utilizzavano una tecnicabasata sull’uso di fonti di energia rinnovabili come il motodelle acque, la forza del vento, il calore della legna. Il legnoforniva il principale materiale da costruzione per gli edificie le navi. Nell’era eotecnica gli esseri umani conoscevano imetalli, alcuni rudimenti della chimica, le tecniche minera-rie, sapevano costruire edifici anche giganteschi, strade,ponti.Anche se il ricorso alle “macchine”, intese in senso moder-no, era limitato, le strutture del potere ragionavano edoperavano già come una “megamacchina”, cioè con la ge-rarchia e l’organizzazione che consentivano di mobilitaregrandi masse di persone e grandissime quantità di materia-li per realizzare opere pubbliche e private funzionali alconsolidamento e all’estensione del potere stesso.All’era eotecnica seguì, a partire dal 1600 circa, una nuo-va era, che Geddes e Mumford chiamano “paleotecnica”,resa possibile dai perfezionamenti nell’estrazione del car-bone, dall’uso del carbone per la produzione su larga sca-la del ferro, dalla trasformazione del ferro in macchinecapaci di fornire energia e di compiere operazioni che fi-no allora erano state svolte dal lavoro umano, dal pro-gresso nelle conoscenze chimiche. Mumford, in Tecnica

e cultura, chiama questa condizione il “capitalismo delcarbone”: “La macchina, scaturita dall’intento di conqui-stare l’ambiente circostante e di canalizzare i suoi impul-si in attività ordinate, nella fase paleotecnica provocò la

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sistematica negazione di tutte le sue promesse: fu il Re-

gno del Disordine”.L’avvento dell’era paleotecnica è resa possibile dalla nasci-ta, nell’ambito della borghesia commerciale, di una classedi studiosi e pensatori, insieme filosofi e naturalisti, e dal-la rapida circolazione delle conoscenze attraverso le acca-demie scientifiche, le riviste internazionali. Il filosofo nonsi vergogna di fare, incoraggiare e contribuire a diffondereinvenzioni e scoperte di rapida ricaduta commerciale, de-stinate al dominio della natura da cui trarre beni materialie ricchezza. Il principale carattere dell’era paleotecnica èrappresentato dall’espansione della produzione delle mer-ci che ben presto diventano, da mezzi per soddisfare biso-gni umani, strumenti di oppressione e di potere.“Dall’orientamento verso la produzione quantitativa deri-va”, scrive Mumford, “la tendenza a concentrare l’efficien-za della macchina nell’esclusiva produzione di beni mate-riali. La gente sacrifica il tempo e le soddisfazioni attualinella mira di procurarsene altri, in quanto suppone che cisia un rapporto diretto fra il benessere e il numero di va-sche da bagno, di automobili e di altre simili cose fatte amacchina. È tipico della macchina il fatto che invece di ri-manere limitati ad una sola classe, questi ideali si sonoestesi, per lo meno come aspirazione, ad ogni strato dellasocietà. Si potrebbe definire questo aspetto della macchi-na come ‘materialismo senza scopi’. Ha il particolare difet-to”, continua Mumford, “di gettare un’ombra di discreditosopra tutti gli interessi e le occupazioni non materiali, con-dannando gli spunti puramente estetici e intellettuali per-ché ‘non servono a nulla di utile’”.

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La produzione su scala sempre più vasta presuppone unconsumo anch’esso su scala sempre più vasta. Si possonoutilmente rileggere le pagine, ironiche e drammatiche, diMumford sull’esercito, consumatore ideale. L’“uniforme”che doveva essere indossata dai soldati, a partire dal XVIsecolo, innescò la prima richiesta su larga scala di beni as-solutamente standardizzati e la macchina da cucire, inven-tata a Lione nel 1829, forniva una formidabile risposta allaproduzione delle uniformi militari.“L’esercito fu il modello del consumatore ideale nel sistemadelle macchine”: esso richiede crescenti quantità di mercie non fornisce in cambio alcun servizio, salvo la “protezio-ne” in tempo di guerra. Anzi, “uno degli effetti più sinistridella disciplina militare è una impenetrabilità ai valori del-la vita”. “Durante una guerra, inoltre”, continua Mumford,“l’esercito non è solo un puro consumatore, ma un produt-tore negativo: cioè invece che benessere produce miseria,mutilazioni, distruzione fisica, terrore, carestie e morte.L’esercito, inoltre, è ideale come consumatore in quantotende a ridurre a zero l’intervallo di tempo fra vantaggiosaproduzione e vantaggiosa sostituzione. La casa più lussuo-sa e sovraccarica non può competere, per la rapidità diconsumo, con un campo di battaglia. Mille uomini abbattu-ti dai proiettili corrispondono più o meno alla richiesta dimille nuove uniformi, di mille fucili, di mille baionette emille colpi sparati da un cannone non possono venire recu-perati e reimpiegati. La guerra è, insomma, la salute dellamacchina”.Il sistema della macchina comporta non solo una crescen-te schiavitù umana, ma un crescente assalto alle risorse

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della natura. Mumford dedica molte pagine al sistema diminiera, che distrugge i boschi, inquina le acque con me-talli tossici e l’aria con fumi pestilenziali. “Il primo segno di-stintivo dell’industria paleotecnica fu l’inquinamento del-l’aria. Il fumo del carbone era l’incenso del nuovo industria-lismo”. Ma davvero non è forse, insieme al più modernopuzzo della benzina, l’incenso anche della società paleotec-nica del nostro tempo?La produzione di merci come fine unico di produzione diricchezza induce i fabbricanti e i commercianti alle frodi, aprodurre merci tossiche e pericolose pur di aumentare iguadagni, all’“immiserimento della vita”. Il sistema di fab-brica comporta l’abbandono delle campagne e la migrazio-ne di una crescente popolazione nelle città, vicino alle fab-briche, e la nascita di quartieri squallidi all’insegna dellaspeculazione immobiliare, comporta “la degradazione dellavoratore”. Dai costi sociali e umani provocati dalla mega-macchina – di cui furono e sono simboli, modernissimi, an-che se intrinsecamente paleotecnici, la bomba e l’energiaatomica, l’automobile, il grattacielo – e dal suo “impero deldisordine” ci si può liberare soltanto con profondi muta-menti sia tecnici, sia politico-sociali.In Tecnica e cultura, del 1934, Mumford immagina chemolte innovazioni tecniche, che già si profilavano all’oriz-zonte, avrebbero portato più o meno presto alla transizio-ne dall’era paleotecnica ad un’era neotecnica: la sostituzio-ne del ferro con l’alluminio, la sostituzione del carbone edel petrolio con l’elettricità. I successi delle sintesi chimi-che avrebbero potuto portare a città più umane, a una piùrazionale distribuzione della popolazione fra città e campa-

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gna, a una società meno inquinata, e poi ad una società“biotecnica” con crescente ricorso alle fonti di energia e al-le materie rinnovabili. Le parole di Mumford risentono del-le aspirazioni e speranze che caratterizzarono l’età di Roo-sevelt: la pianificazione territoriale, la difesa del suolo con-tro l’erosione, le grandi dighe per la produzione di energiaidroelettrica, un nuovo rapporto fra città e campagna, l’usodei prodotti e sottoprodotti agricoli come materie primeper l’industria chimica, la lotta alle frodi commerciali.Sembra di grandissima attualità tutto il quadro che Mum-ford presenta delle soluzioni tecnico-scientifiche e dellevie da percorrere verso la realizzazione di un’era neotecni-ca e biotecnica, meno violenta, più equilibrata, più rispet-tosa degli esseri umani e delle risorse naturali attraversoun uso maggiore della scienza e della tecnica, ma lungo viecompletamente diverse da quelle a cui siamo abituati.Nel parlare delle enormi “montagne di scorie” generatedalla “civiltà della macchina”, Mumford afferma: “Possiamooggi guardare avanti al giorno in cui i gas velenosi e i muc-chi di trucioli, i sottoprodotti della macchina una volta inu-tilizzabili, potranno venire trasformati dall’intelligenza edalla cooperazione sociale, e adattati ad usi più vitali” e di-scute a lungo “la possibilità di utilizzare l’energia solare ola differenza di temperatura che sussiste tra le profonditàe la superficie dei mari tropicali; di applicare su vasta sca-la nuovi tipi di turbine a vento; disponendo di una efficien-te batteria di accumulatori, il vento basterebbe da solo afornire le necessarie quantità di energia”.Per una svolta neotecnica “si impone l’appropriazione so-ciale delle riserve naturali, il ridimensionamento dell’agri-

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coltura, la valorizzazione di quelle regioni in cui vi è gran-de disponibilità di energia cinetica sotto forma di sole, ven-to, acqua. La socializzazione di queste sorgenti di energiaè la condizione prima dello sfruttamento efficace”, con unanuova distribuzione delle attività umane nel territorio, ilrecupero della potenziale ricchezza del regionalismo.Inutile dire che queste idee sono state ridicolizzate, o me-glio ancora ignorate, per il pericolo non solo della perditadi profitti, ma della discussione critica di tutto il sistemasociale, unica reale soluzione della crisi ambientale in cuisiamo impantanati. La crisi delle risorse naturali è infattidovuta, come aveva spiegato Mumford, allo scontro fra in-teressi privati e beni collettivi; allo sfruttamento privato dirisorse, come l’aria o l’acqua o la fertilità del suolo, che a ri-gore non hanno un padrone. La crisi ecologica è sostanzial-mente crisi del bene collettivo. Alcuni traggono beneficisenza alcun costo, tengono, per esempio, pulita la propriacasa, il proprio “oikos”, scaricando i rifiuti all’esterno, nel-l’ambiente, in una più vasta casa d’altri.Possiamo salvarci solo mettendo in discussione i principistessi della proprietà privata, recuperando il caratterepubblico dei beni come l’aria o il mare o le acque e intro-ducendo il principio di delitto per chi tali beni viola o rapi-na o sporca. “Gli obiettivi dell’economia finanziaria e quel-li dell’economia sociale non possono coincidere; la proprie-tà collettiva delle fonti di energia, dalle regioni montagno-se dove i fiumi nascono, fino ai più remoti pozzi di petrolio,è la sola garanzia per un uso e una conservazione efficace”.Soltanto una società pianificata e socialista potrebbe darsidelle nuove regole, compatibili con i problemi di scarsità e

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di distribuzione secondo giustizia. Mumford insiste moltosulla necessità di una pianificazione dei bisogni fondamen-tali, del potenziamento dei servizi e dei beni collettivi.Mumford intravvedeva la soluzione in un “comunismo di ba-se”, ben diverso dalla struttura burocratica e assolutista deiPaesi del socialismo realizzato e proponeva un “comunismodi fondo che implichi l’obbligo di partecipare al lavoro dellacomunità”, che consenta di soddisfare i bisogni fondamenta-li con una pianificazione della produzione e del consumo.“La sola alternativa a questo comunismo”, insiste Mum-ford, “è l’accettazione del caos: le periodiche chiusure de-gli stabilimenti e le distruzioni, eufemisticamente denomi-nate ‘valorizzazioni’, dei beni di alto valore, lo sforzo conti-nuo per conseguire, attraverso l’imperialismo, la conquistadei mercati stranieri. Se vogliamo conservare i beneficidella macchina non possiamo permetterci il lusso di conti-nuare a rifiutare la sua conseguenza sociale, ossia l’inevita-bilità di un comunismo di base. Questa prospettiva appareingrata all’operatore economico di stampo classico, ma sulpiano umano non può non rappresentare un enorme pro-gresso”.Si capisce bene perché Mumford è stato attivo nel movi-mento di protesta contro la guerra, contro la bomba atomi-ca: la più moderna forma nella quale si incarna la “mega-macchina”, il concentrato della violenza della società pa-leotecnica. Nel febbraio 1965, due giorni dopo l’ordine dibombardamento del Nord Vietnam, Mumford scrisse unalettera aperta al presidente Johnson per protestare controtale azione.

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Scienza e pace: Linus Pauling

Linus Pauling (1901-1994), premio Nobel per la chimica eper la pace, lo scienziato che ha avuto il coraggio di rifiu-tarsi di collaborare, per motivi di coscienza, alla produzio-ne della bomba atomica, non si è mai stancato di combat-tere per la pace, guidato nel lungo cammino della sua vitada un profondo amore per l’umanità, dal principio eticoche tutti, e specialmente gli studiosi, hanno il dovere direndere minima la sofferenza umana: “the minimization ofsuffering”.Linus Pauling nacque a Portland, nello Stato dell’Oregon,nel nord ovest degli Stati Uniti, il 28 febbraio 1901 e si lau-reò in chimica industriale a Corvallis, in quello che eral’Oregon Agricultural College, ora Oregon State University.Nel 1923 sposò Ava Helen (1903-1981) che fu una straor-dinaria moglie, anch’essa attiva nei movimenti per la dife-sa dei diritti civili e della pace, che lo ha accompagnato inuna lunga vita.Fin dall’inizio, Pauling è stato attratto dalla ricerca del mo-do in cui gli atomi si uniscono nei cristalli e nelle molecole.Dopo la laurea, si trasferì al California Institute of Techno-logy, dove, con un piccolo stipendio guadagnato con l’inse-gnamento, ottenne il dottorato in chimica e in fisica mate-matica nel 1925. Nel 1926-27 studiò in Europa con unaborsa Guggenheim e tornò al “Caltech” nell’autunno 1927.Dedicatosi alle ricerche sulla struttura del legame chimicoe delle molecole, chiarì la struttura dei silicati e di moleco-le complesse organiche misurando, con nuove tecniche, ladistanza e l’angolo fra gli atomi. L’interpretazione del com-

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portamento dei quattro legami dell’atomo di carbonio me-diante la formazione di legami covalenti attrasse l’attenzio-ne mondiale sul giovane studioso che interpretò, con feno-meni di risonanza, la geometria e la stabilità di molecolecome quelle del benzene e della grafite. Pauling applicò iprincipi della risonanza ai legami fra metalli e nei compostiintermetallici.Nel 1939, Pauling riunì i risultati del suo lavoro in un librodiventato un classico: The nature of the chemical bond

and the structure of molecules and crystals. La teoria diPauling si affiancava a quella del tedesco Walter Hückel(1895-1980) che proponeva la descrizione del comporta-mento molecolare con la teoria degli orbitali. Le opere deidue studiosi erano note anche in Italia, soprattutto quelledi Hückel, specialmente in relazione alla soluzione di inte-ressanti problemi pratici, come quello della sostituzionenelle molecole aromatiche, che stavano alla base, fra l’al-tro, della sintesi di coloranti.Durante la Seconda Guerra Mondiale, a Pauling fu offertodi collaborare al progetto “Manhattan” per la fabbricazionedella bomba atomica, ma egli rifiutò: nello stesso tempocollaborò col governo alla realizzazione di strumenti chepotessero salvare la vita umana. Inventò uno strumentoche permetteva di misurare il contenuto di ossigeno del-l’aria dei sottomarini e degli aeroplani. L’apparecchiaturaservì poi per assicurare il flusso di ossigeno nelle incubatri-ci per neonati e durante le anestesie. Mise a punto, inoltre,un sostituto sintetico del plasma sanguigno da usare in tra-sfusioni di emergenza sui campi di battaglia.Alla fine della guerra, Pauling tornò a dedicarsi, presso il

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Caltech, alla struttura delle proteine, anche se altri proble-mi attrassero la sua attenzione. Si era all’alba dell’era ato-mica e Pauling con altri scienziati, fra cui Albert Einstein(1879-1955), era preoccupato di quello che avrebbe potu-to accadere alla società umana dopo Hiroshima. Paulingcominciò a tenere conferenze sugli sviluppi del mondo do-minato dalle armi atomiche, sulle conseguenze sulla vitaterrestre delle esplosioni sperimentali di bombe atomichenell’atmosfera e contro la cappa di segretezza che le nuo-ve armi imponevano sulla ricerca. Queste iniziative rappre-sentano le prime manifestazioni della protesta civile controgli inquinamenti e i danni alla vita che sarebbe diventata,negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la “contesta-zione ecologica”.Già nel 1948, Pauling con pochi altri, fra cui Einstein, ave-va fondato un comitato che chiedeva a tutti i Paesi di col-laborare per tenere sotto controllo internazionale gli stru-menti di guerra nucleare e per promuovere la pace. Perqueste attività, nel novembre del 1950 fu sottoposto ad in-chiesta da parte di una commissione del senato dello Sta-to della California. Erano i primi giorni della caccia allestreghe lanciata dal senatore repubblicano Joe McCarthy egli effetti si fecero subito sentire: a Pauling fu negato il pas-saporto con la motivazione, data dal Dipartimento di Stato,che i suoi viaggi all’estero sarebbero stati contrari “all’inte-resse degli Stati Uniti”. Secondo l’isterismo dominante, inquegli anni essere un pacifista o dichiarare i pericoli dellearmi atomiche equivaleva ad essere un comunista.Pauling dichiarò sotto giuramento di non essere un comu-nista, di non aver avuto legami col Partito comunista e di

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essere un leale cittadino americano, ma questo non bastòe non bastò neanche la lettera che Einstein scrisse al Di-partimento di Stato degli Stati Uniti, rivendicando il dirittoche questo scienziato aveva di viaggiare. Solo quando aPauling fu assegnato il premio Nobel per la chimica, gli fuconcesso un passaporto temporaneo per Stoccolma.Negli anni precedenti, durante una serie di lezioni a Ox-ford, nel 1948, Pauling aveva elaborato un’ipotesi di strut-tura delle proteine, secondo la quale gli amminoacidi checostituiscono un polipeptide sono “arrotolati” in una strut-tura ad elica che chiamò “elica alfa”. La verifica sperimen-tale di questa ipotesi si ebbe con le analisi di diffrazione coiraggi X di alcune proteine, fra cui la cheratina, che mostra-rono che una struttura ad elica spiegava la disposizione de-gli amminoacidi, i legami idrogeno e alcuni comportamen-ti delle proteine.Pauling si stava interessando alla struttura del Dna, di cuialcuni ricercatori inglesi, Maurice Wilkins (1916-2004) eRosalind Franklin (1920-1958), avevano ottenuto dellebuone fotografie di diffrazione, rese pubbliche il 28 aprile1952 durante un congresso sulle proteine in Inghilterra. Atale congresso Pauling, privato del passaporto, non potépartecipare. Nel gennaio 1953, Pauling e Corey proposeroun’interpretazione della struttura del Dna. Successivamen-te, i loro risultati furono corretti, sulla base delle nuove co-noscenze, dagli inglesi James Watson e Francis Crick(1916-2004) che proposero per il Dna una struttura in cuile basi sono disposte a doppia elica, scoperta alla quale do-vettero la loro celebrità e il premio Nobel nel 1962.Le scoperte della struttura a elica e a doppia elica delle

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proteine e del Dna aprirono le porte agli studi di geneticamolecolare che hanno rivoluzionato la biologia. A Paulingfu assegnato il premio Nobel per la chimica nel 1954.Il prestigio che gli venne da questo riconoscimento inter-nazionale giovò ai suoi sforzi per mobilitare l’opinione pub-blica americana e internazionale nella protesta contro leesplosioni sperimentali di bombe atomiche nell’atmosferache, in quegli anni Cinquanta del Novecento, si stavanosuccedendo, da parte degli Stati Uniti, dell’Unione Sovieti-ca, del Regno Unito, della Francia, al ritmo di alcune cen-tinaia all’anno: mille dal 1946 al 1963. Pauling dimostrò,con dati scientifici e statistici, che la ricaduta radioattivadei test atomici, divenuti ancora più potenti con l’invenzio-ne della bomba a idrogeno, avrebbe fatto aumentare la dif-fusione del cancro e di difetti genetici negli adulti e neineonati.Il 15 luglio 1955, Pauling, con altri cinquantadue premi No-bel, firmò la “dichiarazione di Mainau” che chiedeva la so-spensione delle esplosioni nucleari nell’atmosfera. La di-chiarazione concludeva che “tutti gli Stati devono decide-re di rinunciare alla forza per la soluzione dei problemi po-litici: se non sono pronti a farlo cesseranno di esistere”.Sulla base di questo appello, Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel per la pace nel 1952, il 23 aprile 1957lanciò dalla radio di Oslo un celebre messaggio che fu ri-prodotto nella stampa internazionale, anche se fu delibera-tamente ignorato in alcuni Paesi.Nel maggio del 1957, Pauling tenne una conferenza allaWashington University di St. Louis, nel Missouri, dove in-segnava anche il biologo Barry Commoner, anch’egli attivo

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nella mobilitazione degli scienziati contro le armi nucleari.Proprio quel Barry Commoner che sarebbe diventato cele-bre in Italia, anni dopo, come leader della contestazioneecologica. Con Commoner e con Edward Condon (1902-1974), Pauling redasse un appello, firmato da 2000 scien-ziati americani e da oltre 8000 scienziati stranieri, che fuconsegnato, il 15 gennaio1958, al Segretario generale delleNazioni Unite, Dag Hammarskjold. L’appello metteva inguardia contro i pericoli della ricaduta radioattiva delleesplosioni nucleari nell’atmosfera e ne chiedeva l’immedia-ta cessazione e un controllo internazionale dell’energiaatomica. Il governo americano orchestrò una campagna didiffamazione contro Pauling sulla stampa, con la collabora-zione di volonterosi scienziati, come quell’Edward Teller(1908-2003) che ispirò la figura del dottor Stranamore nelnoto film di Stanley Kubrich del 1964.Nello stesso 1957, Pauling pubblicò il libro No more war!

(Mai più guerre!) per diffondere la consapevolezza chel’aumento della produzione e della sperimentazione dellearmi nucleari avrebbe potuto mettere in pericolo la soprav-vivenza dell’umanità e della stessa vita sul pianeta. Con pa-zienza e diplomazia diffuse le sue idee, sostenendo soprat-tutto che gli scienziati avrebbero dovuto operare comeportatori e strumenti di pace. Nel giugno 1960, Pauling fuconvocato da una speciale commissione del senato ameri-cano e fu invitato, sotto giuramento, a riferire come eranostate raccolte le firme dell’appello. Pauling si rifiutò di faretali nomi.Pauling non si fermò neanche il 29 aprile 1962, giorno incui il presidente Kennedy lo invitò a cena, insieme ai pre-

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mi Nobel occidentali, alla Casa Bianca. Quello stesso gior-no partecipò con la moglie ad una manifestazione contro lebombe atomiche proprio davanti alla residenza presiden-ziale, e poi andò alla cena ufficiale. I suoi sforzi ebbero suc-cesso quando, nel 1963, le tre potenze nucleari – Stati Uni-ti, Unione Sovietica e Regno Unito (ma non la Francia) –firmarono il trattato che vieta le esplosioni nucleari nell’at-mosfera, il cosiddetto “Limited Test Ban Treaty”. Il 10 ot-tobre 1963, il giorno in cui il trattato entrò in vigore, fu an-nunciato che a Pauling era stato assegnato il Premio Nobelper la pace. Pauling è stata l’unica persona a ricevere duepremi Nobel.La Commissione norvegese riconobbe che l’azione senzatregua di Pauling ha risparmiato a innumerevoli personesofferenze e morte per tumori e difetti genetici. Negli Sta-ti Uniti questo secondo Premio Nobel suscitò varie prote-ste negli ambienti filonucleari e conservatori. Il settimana-le “Life” il 25 ottobre 1963 scrisse che il premio Nobel aPauling era un insulto per l’America.Nel 1963, il California Institute of Technology mostrò dinon gradire il suo impegno politico e Pauling lasciò l’inse-gnamento per continuare, in un proprio “Linus Pauling In-stitute”, le ricerche sulla chimica delle funzioni cerebrali esulle malattie mentali, sulle cause dell’anemia perniciosa ele modificazioni dell’emoglobina nel sangue delle personecolpite da questa malattia, e sull’effetto di forti dosi di vi-tamina C sia sul raffreddore, sia su alcuni tipi di tumori.Questi studi hanno portato Pauling a elaborare la teoriadella medicina e della psichiatria “ortomolecolare”, che so-no state al centro di dibattiti e polemiche. Negli ultimi an-

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ni della sua vita ha anche studiato la superconduttività adalta temperatura.Pauling ha disposto che la sua biblioteca e il suo archivio,di decine di migliaia di libri e articoli e di centinaia di mi-gliaia di lettere e appunti, fosse lasciato all’Università sta-tale dell’Oregon, da cui aveva mosso i primi passi. Un cata-logo di tale immenso patrimonio, una bibliografia comple-ta e molte notizie su Linus e Ava Helen Pauling si trovanoin Internet nel sito http://osulibrary.oregonstate.edu/ allavoce “Special Collections”. Inoltre, duemilacinquecentopagine su Pauling si trovano nell’archivio dell’Fbi; anche inquesto caso il coraggio civile ha avuto la meglio sull’oscu-rantismo e sulle persecuzioni politiche.Pauling ha sempre sostenuto che l’avvento della bombaatomica avrebbe dovuto portare nel mondo la fine delleguerre e l’avvento del regno della legge: la sopravvivenzaumana nell’era nucleare sarebbe stata possibile soltantocon la pace, il disarmo e il dialogo razionale. Un invito an-cora del tutto valido, perché nel 2010 negli arsenali nuclea-ri di tutto il mondo si trovano ancora oltre 20mila bombenucleari, con una potenza distruttiva cinquecento volte su-periore a quella di tutti gli esplosivi usati durante la Secon-da Guerra Mondiale.Continuando l’impegno pacifista che aveva manifestatoprotestando contro l’intervento militare americano nelVietnam, nel Sud-est asiatico e nei Paesi dell’America lati-na, nel 1991 comprò a proprie spese un’intera pagina del“New York Times” e del “Washington Post”, condannandol’intervento militare americano in Iraq. Pauling disse: “Nonmi illudo che serva a qualcosa ma so che dovevo farlo”. Nel

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1991, ha scritto un ”Appello per la pace in Croazia” e ha fir-mato appelli contro le violazioni dei diritti umani.Pauling non ha mai esitato nel sollecitare l’impegno degliscienziati nella politica e nella società, queste le sue parole:“Si dice talvolta che la scienza non ha niente a che fare conla morale: è sbagliato. La scienza è la ricerca della verità, losforzo di comprendere il mondo, e comporta il rifiuto di di-vieti, dogmi, rivelazioni, ma non il rifiuto della moralità. Lascienza non è una gara in cui uno cerca di sconfiggere ilconcorrente, di arrecare danno agli altri. Bisogna trasferi-re lo spirito della scienza negli affari internazionali per in-durli a cercare una soluzione”.

L’uomo del futuro

A molti dei lettori, il nome Robert Jungk (1913-1994) forsedice poco, benché si sia trattato di uno scrittore le cui operehanno avuto un successo e un effetto grandissimi come con-tributi alla pace, all’ambiente e alla conoscenza del futuro.Jungk era nato nel 1913 in Austria e aveva iniziato una for-tunata carriera di giornalista. Dopo l’occupazione nazistadell’Austria era dovuto fuggire in Svizzera dove aveva conti-nuato a scrivere contro il nazismo, passando un periodo an-che in un campo di internamento svizzero. In quegli anni hapotuto analizzare a fondo il destino e il futuro dell’umanitàin un mondo dilaniato da stermini, massacri, dalla bombaatomica, dalla contrapposizione fra popoli e Paesi.Il suo primo libro di successo, Il futuro è già cominciato,del 1952, pubblicato in italiano da Einaudi, lo fece cono-

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scere in tutto il mondo e fu dedicato alla descrizione deipossibili futuri condizionati dalle nuove tecnologie, primadi tutto quelle nucleari, e alla propaganda della necessitàdi far prevalere la pace sugli egoismi, pena la distruzione ela contaminazione planetaria. In questo, Jungk anticipava itemi che si sarebbero chiamati “ecologici”. Il libro succes-sivo, del 1956, a mio parere il più bello, pubblicato in italia-no col titolo Gli apprendisti stregoni, descrive le con-traddizioni e i dilemmi, le viltà e il coraggio degli studiosiche hanno trasformato il progresso della conoscenza dellanatura nell’arma di sterminio di massa per eccellenza, labomba atomica, la grande fonte di devastazione e altera-zione dell’ambiente.La storia degli scienziati atomici, è il sottotitolo del libro,mostra come la volontà di conoscenza possa essere asser-vita alla volontà di potere e come ben pochi scienziati ab-biano avuto il coraggio di dire “no” alla costruzione diun’arma che ha condizionato e condizionerà la vita di mi-liardi di persone.Sarà vero che la costruzione e l’uso della bomba atomicahanno accelerato la fine della Seconda Guerra Mondiale, sa-rà vero che la sfrenata concorrenza nucleare fra Stati Unitie Unione Sovietica ha di fatto impedito, per mezzo secolo,una terza guerra mondiale, sarà vero che la “scienza” trove-rà una qualche soluzione per la sistemazione delle code av-velenate della grande macchina militare-industriale, dallescorie radioattive all’uranio impoverito, nuova forma di av-velenamento e morte di civili e militari, ma la storia degliscienziati atomici insegna chiaramente che bisogna semprechiedersi quanto c’è di morale nelle decisioni che uno stu-

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dioso, un amministratore, un soldato, un imprenditore, unlavoratore, decidono di, o sono costretti a, prendere.Nel filone di questo invito a interrogarsi sulle conseguenzemorali del “progresso” rientra un altro libro di RobertJungk, Lo stato atomico, scritto con grande passione perindicare le conseguenze politiche ed ecologiche della diffu-sione delle centrali nucleari. Inevitabilmente, un Paese cheaffronta l’avventura nucleare, sia militare, sia nella costru-zione dei reattori commerciali, deve avere un governo au-toritario, deve sottostare a rigide regole di segreti. Il libroapparve nel 1977, quando tanti governanti, anche in Italia,sostenevano che il futuro energetico richiedeva la moltipli-cazione delle centrali nucleari, quando in Europa esisteva-no depositi di armi e sottomarini e basi nucleari. ConobbiJungk a Salisburgo nel maggio dello stesso 1977, duranteuna manifestazione contro una grande conferenza interna-zionale a favore dell’energia nucleare. In una piccola pattu-glia, con alla testa Jungk, avevamo organizzato una prote-sta e un picchettaggio all’entrata dei delegati ufficiali allaconferenza. La polizia austriaca ci fermò per identificarci,ma Jungk, che a Salisburgo era un’autorità, ottenne chefossimo tutti rilasciati.Gli anni Settanta del Novecento furono quelli della crisienergetica, seguiti dalle guerre per la conquista delle mate-rie prime, e sempre di più c’era bisogno di una voce alta cheparlasse di pace e di disarmo. Proprio in questo periodotempestoso, nel 1983, Jungk pubblicò il libro L’onda paci-

fista, edito in italiano da Garzanti. Jungk voleva completa-re il suo contributo alla diffusione di una cultura della pacecon un libro sull’energia solare che riconosceva, giustamen-

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te, come l’unica fonte di energia che avrebbe potuto ferma-re i conflitti in corso e il degrado ambientale che già si ma-nifestava con i cambiamenti climatici provocati dal crescen-te uso del carbone e delle altre fonti energetiche fossili.Parlò di questo suo progetto durante una conferenza sul-l’energia solare a Dobbiaco nel 1989, ma ormai malato – èmorto il 14 luglio 1994 – non terminò mai il libro.Jungk ha voluto legare alla città di Salisburgo la sua biblio-teca e l’archivio dei manoscritti e dei documenti raccoltinella sua lunga vita di lavoro, di insegnamento e di passio-ne civile, di persona attenta al futuro, istancabile nel par-lare dei pericoli provocati dalla miopia e dall’arroganza delpotere e nel diffondere un messaggio di speranza e di co-raggio.

Pace e ambiente

Ogni anno comincia con le autorità politiche, morali e reli-giose che invocano la pace. Una pace che è indispensabileper salvare vite umane ed evitare dolori umani, ma ancheper salvare il pianeta e l’ambiente. È la tesi di un dimenti-cato libro di Barry Commoner, Far pace col pianeta (Mi-lano, Garzanti, 1990) e il tema è ripreso in un libro, Am-

biente e pace: una sola rivoluzione (Milano, EdizioniPunto Rosso, 2008), di Carla Ravaioli, autrice di molti altrilibri sul lavoro, sull’economia e sull’ambiente. Anche pertutto il primo decennio del XXI secolo, i cannoni e le bom-be hanno fatto sentire la loro voce in tante parti del mon-do: in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, nel Myanmar, in In-

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donesia, nel Pakistan, in India, nel Darfur, nel Congo, in Ni-geria, nello Sri Lanka, eccetera, uccidendo insieme perso-ne e foreste, inquinando le acque e distruggendo abitazio-ni e campi coltivati.Quante volte si è ripetuta la stessa storia! Sodoma e Go-morra, le ricche città sul Mar Morto in Palestina, sono sta-te messe a ferro e fuoco (lo racconta il capitolo 13 dellaGenesi) da chi voleva impadronirsi dei loro giacimenti disale (materiale strategico prezioso, quattromila anni fa, co-me oggi il petrolio). Ogni popolo invasore ha reso sterili leterre e i pascoli del nemico e anche in tempi più vicini a noile stesse ricchezze della natura, che la pace e un’equa di-stribuzione potrebbero far utilizzare e godere da tutti i po-poli della Terra, sono diventate la fonte della violenza edelle guerre. Gli europei del Cinquecento, con la scusa diportare la civiltà cristiana ai “selvaggi”, miravano a conqui-stare materie prime preziose – le spezie, l’oro, l’argento –per le quali non esitarono a sterminare i nativi che aveva-no la pretesa di ritenere che tali beni naturali fossero loro.La stessa cosa avvenne nel Nord America, dove i colonibianchi distrussero pascoli e boschi e sterminarono i nati-vi, quelli che noi chiamiamo “indiani” o pellirosse. Distru-zione della natura per la conquista di materie preziose han-no caratterizzato le guerre, nella metà dell’Ottocento, fraCile e Bolivia per il salnitro (1879-1883), fra Brasile e Bo-livia per la gomma (1899-1903) e la Prima Guerra Mondia-le (1914-1918) per la conquista dei ricchi giacimenti dicarbone, di minerali di ferro e di sali potassici dell’Alsazia-Lorena. Durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945),le violenze ambientali hanno accompagnato la spinta dei

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giapponesi alla conquista del petrolio e della gomma delSud-est asiatico e dei nazisti alla conquista dei giacimentipetroliferi sovietici del Mar Caspio. I perfezionamenti tecnici hanno offerto sempre più “effica-ci” mezzi di distruzione di vite umane e dell’ambiente: dal-le armi chimiche usate nella Prima Guerra Mondiale, finoalle bombe atomiche, la superarma che può avvelenarepersone e natura in tutto il pianeta per decenni e secoli.Durante la guerra del Vietnam (1959-1975), gli erbicidiusati dagli americani per distruggere la giungla in cui tro-vavano rifugio i partigiani Vietcong, non solo fecero scom-parire centinaia di migliaia di ettari di foresta tropicale, macontaminarono grandi estensioni di campi e terreno e ilcorpo degli abitanti e degli stessi soldati americani con ladiossina, una sostanza tossica e cancerogena che era pre-sente come impurità nei prodotti sparsi dagli aerei. Ladiossina, entrata con la guerra nel vocabolario mondiale, sisarebbe poi trovata nelle fabbriche di sostanze clorurate,come quella che avvelenò i campi di Seveso (1976), nei fu-mi degli inceneritori di rifiuti, e in molti altri luoghi.Durante la lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988) e nelle dueguerre del Golfo (1990-1991 e 2003) i cieli furono invasidai fumi degli incendi dei pozzi petroliferi, il petrolio rico-prì larghi tratti del Golfo Persico, il delicato ecosistemadello Shatt al-Arab, l’estuario del Tigri-Eufrate, fu sconvol-to e sulle terre furono sparse polveri contenenti uranio im-poverito. Durante le lunghe guerre nella ex-Jugoslavia(1991-1993), le esplosioni e gli incendi delle fabbrichebombardate sparsero veleni nei terreni e nei fiumi. Leguerre e guerriglie in Africa, nel Sud-est asiatico, in Afgha-

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nistan da anni provocano la distruzione delle foreste, im-mettono milioni di tonnellate di gas dannosi nell’aria, fan-no finire i rifiuti tossici nei fiumi; la mancanza e l’inquina-mento dell’acqua peggiorano le condizioni igieniche di mi-lioni di persone e facilitano la diffusione di epidemie.Ciascuna delle guerre per le materie prime si lascia allespalle terre desolate, montagne di scorie tossiche e radio-attive. Il valore monetario delle perdite di ricchezze econo-miche e ambientali che la pace avrebbe potuto e potrebbeevitare sono stimate in 2000 miliardi di euro all’anno, qua-si una volta e mezzo il Prodotto Interno Lordo dell’Italia, aparte le perdite di vite umane e di beni della natura chenon hanno prezzo. Mentre nei Paesi sviluppati ci si sforza,bene o male, di ridurre l’inquinamento dell’aria, di costrui-re depuratori, di salvaguardare e proteggere alcune zone diboschi e vegetazione, in molti Paesi sottosviluppati le guer-re, in cui direttamente o indirettamente sono stati e sonocoinvolti, lontano da casa propria, gli stessi Paesi sviluppa-ti arrecano continui danni ad ecosistemi delicati e irripro-ducibili.Sembra che i Paesi progrediti si sforzino di tenere pulita lapropria casa contaminando la casa altrui, facendo finta dinon accorgersi che l’ambiente è tutt’uno, che l’aria è lastessa, nei cieli di Londra o di Bassora, che il mare è lostesso, sia esso il Mediterraneo o il Golfo Persico. Mentre aRoma o a Milano i laboratori giustamente controllano se laconcentrazione delle polveri microscopiche sospese nel-l’aria urbana superano le soglie di sicurezza, nel qual casoscattano doverosi provvedimenti di limitazione del traffico,a Bagdad nel marzo-aprile 2003 cinque milioni di persone,

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donne e uomini come noi, hanno respirato per giorni inte-ri aria carica non solo di polveri, ma di ossidi di zolfo, mer-curio, diossine, furani, sostanze cancerogene. Non ci saràmai pace con l’ambiente naturale se non ci sarà pace fra gliesseri umani che tale ambiente abitano, e non ci sarà maipace fra gli abitanti della Terra senza un’equa distribuzio-ne dei beni che la Terra offre. La pace è figlia della giusti-zia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafra-sandolo, si può ben dire che l’ambiente è figlio, a sua volta,della pace.

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Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge

L’Associazione Gaia Animali & Ambiente nasce nel 1995 per iniziativa di ungruppo di giornalisti, di ambientalisti, di animalisti e di imprenditori nel campodella comunicazione, tra i quali Edgar Meyer (attuale presidente), ricercatore,storico dell’ambiente e giornalista, Stefano Apuzzo, ex-parlamentare, giornali-sta ambientalista e scrittore, Stefano Carnazzi, scrittore e direttore editoriale diLifegate Magazine e Lifegate Radio.L’Associazione promuove, da subito, campagne di forte impatto mediatico. Leiniziative sono prevalentemente per la difesa degli ecosistemi e delle forestepluviali, contro l’abbandono degli animali, per lo sviluppo sostenibile, per la dif-fusione dei prodotti “bio”, per la salute umana. L’Associazione viene ricono-sciuta come Onlus – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale e collabo-ra con ministeri e istituzioni nazionali e locali. Dal settembre 2004, viene creato Gaia Lex, il centro di azione giuridica del-l’associazione che si occupa di dare informazioni e risposte alla richiesta di as-sistenza legale dei cittadini sui temi dei diritti animali e della salvaguardia am-bientale. La collaborazione con aziende amiche dell’ambiente, e la denuncia di attivitàproduttive devastanti per l’ecosistema, rendono Gaia un’associazione attentaal mondo delle imprese e alla comunicazione. Dal 2006, Gaia è titolare della collana editoriale intitolata “I Libri di Gaia – Eco-alfabeto” con la casa editrice Stampa Alternativa, con la quale sono stati pub-blicati diversi libri sulle tematiche dell’ambiente e della sostenibilità, dei dirittianimali, della salute umana e della sicurezza alimentare. Tra i titoli pubblicati ri-cordiamo: Fido non si fida, Qua la zampa, Bimbo Bio, Homo scemens, Dallaluna alla terra, Quattrosberle in padella, Foglie di fico, Farmakiller, EcoLogo,Cosmesi naturale e pratica, Le ecoconserve di Geltrude, Ecoalfabeto, Unitedbusiness of Benetton, Senza trucco, La città del Sole, Bici ribelle, Quattrozam-pe in tribunale.

Gaia Animali & Ambiente Onlus è in Corso Garibaldi 11 a Milano (tel/fax02.86463111 – mail: [email protected]), con sedi decentrate indiverse città italiane, in Congo (R.D.) e in Gabon.

www.gaiaitalia.it

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Indice

Introduzione di Edgar Meyer 5

Pi oni er i 9Occam e l’elogio della semplicità 9Marie Curie e la scoperta del polonio 12Vladimir Ivanovich Vernadskij: la biosfera e la noosfera 16Cecil Pigou e le radici dell’economia ambientale 21Girolamo Azzi e la prima cattedra di ecologia 24Georgescu-Roegen, padre dell’economia ambientale 27Barry Commoner: chiudere il cerchio della natura 31

Ecol ogi a 35Ecologia e storia 35George Perkins Marsh 40Garret Hardin e la parabola della mucca 45Robinia 49Sprecare meno natura 52Agosto torrido: commerci e clima 56Io amo la ginestra 59

Acqua 63La virtù della solidarietà 63L’acqua intorno a noi 66Guerre per l’acqua 71Il costo in acqua delle merci 74

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Il mare intorno a noi 77Di chi la colpa? 80Veleni nel mare 84

Ener gi a 88Le “cinque lampadine” e l’inizio dell’energia geotermica 88Eugenio Barsanti e l’invenzione del motore a scoppio 91Il picco di Hubbert 96Nucleare: nessun sito adatto in Italia 99L’energia osmotica 103Vita, morte e miracoli del petrolio 107Gassificazione sotterranea del carbone 110

Mer ci e ambi ent i 115Fiammiferi e veleni 115Goodyear e la scoperta della vulcanizzazione 118Plastica 121La guerra delle terre rare 124Olio di palma 128L’auto elettrica e il litio 131

Lavor o e Ambi ent e 136Love Canal: una bomba a orologeria 136La premiata ditta Bossi 140Seveso 145La trappola dell’amianto 148Le ragazze del radio 152La tragedia di Marcinelle 157

Ri f i ut i 162La riciclo-logia 162L’oro nelle fogne 166

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Quanto cibo buttato via 170Carburanti dal pattume 174Lana verde 178

Sol ar e 182La scoperta della fotoelettricità del selenio 182Il Sole eliminerà tutta la povertà 186Rudolf Diesel e il motore a olio di arachide 189Il Sole, il vento e il buio 193Non c’è pace 199

Pace 203Voglia di pace 203Tecnica e cultura: Lewis Mumford 206Scienza e pace: Linus Pauling 216L’uomo del futuro 224Pace e ambiente 227

Gaia Onlus, il pianeta che vive e che legge 233

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2010

dalla tipografia Iacobelli srl, Pavona (Roma)

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