Alex Soojung-Kim Pang DIPENDENZA DIGITALE · DipenDenza Digitale Istruzioni per un uso equilibrato...

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Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia Alex Soojung-Kim Pang DIPENDENZA DIGITALE

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Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia

Alex Soojung-Kim Pang

DIPENDENZA DIGITALE

DipenDenza Digitale

Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia

alex Soojung-Kim pang

Titolo originale dell’operaTHE DISTRACTION ADDICTIONCopyright ©2013 by Alex Soojung-Kim Pang

978-0-316-20826-0

This edition is published by arrangement with Little, Brown and Company, New York, NY, USA. All rights reserved.

Traduzione dalla lingua inglese a cura di: Chiara Mangione

Responsabile Editoriale Libri: Costanza SmeraldiResponsabile Redazione Libri: Paola SammaritanoResponsabile Produzione Libri: Michele Ribatti

Copertina: Roberta Venturieri

© 2015 Edizioni Lswr* – Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6895-144-3eISBN 978-88-6895-145-0

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore pos-sono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

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Via G. Spadolini 7, 20141 MilanoTel. 02 881841www.edizionilswr.it

Printed in ItalyFinito di stampare nel mese di maggio 2015 presso “Rotolito Lombarda” S.p.A., Pioltello (MI)

(*) Edizioni Lswr è un marchio di La Tribuna Srl. La Tribuna Srl fa parte di .

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Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo vii

Introduzione - Due scimmie xxxi

01 Respirare 1

02 Semplificare 35

03 Meditare 65

04 Deprogrammare 91

05 Sperimentare 119

06 Rimettere a fuoco 155

07 Riposare 175

08 Otto passi verso il contemplative computing 193

Appendice 01 - Tenere un diario tecnologico 207

Appendice 02 - Regole per un uso consapevole dei social media 211

Appendice 03 - Shabbat digitale fai da te 213

Ringraziamenti 217

Note 221

SOMMaRiO

Per Heather

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I N T RO DU z I O N E

COME vivERE CON La TECNOLOgia:

uN’iNTRODuziONE iN fORMa Di DiaLOgO

A cura di Dario Villa1

Quando mi sono trovato per la prima volta tra le mani il libro di Alex Soojung-Kim

Pang ho subito capito di aver scoperto uno studioso con cui poter essere in sin-

tonia. Questo non solo perché il tema del libro, cioè il nostro rapporto con la

tecnologia, mi appassiona da lungo tempo, ma soprattutto perché il suo modo di

affrontarlo è, al contrario di molte riflessioni al riguardo, privo di derive filo- o

anti-tecnologiche, e anzi orientato a confrontarsi con la massima pragmaticità con

quanto facciamo con la tecnologia, per farlo meglio e, dettaglio non privo di im-

portanza, stare meglio. Riconoscendomi in questo approccio, sono subito entrato

in contatto con Alex e, parallelamente, con l’editore LSWR, per portare in Italia il

libro. Sono felice che il contatto abbia dato buoni frutti e offra oggi al lettore ita-

liano l’opportunità di leggere un best seller internazionale che, dopo la sua uscita

negli USA, è stato finora già tradotto in olandese, spagnolo, coreano e cinese. Per

l’edizione italiana, Alex e io abbiamo avuto un’idea che speriamo sarà apprezzata:

1 Dario Villa è Responsabile delle attività di formazione manageriale di Trivioquadrivio, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e studioso dei rapporti fra tecnologia e lavoro. Fra le sue pubblicazioni, Trading Fours. Il Jazz e l’organizzazione che apprende (2012, scritto a quattro mani con Mi-chael Gold) e Cosa ho imparato oggi? (2014).

vi

scrivere a quattro mani un piccolo dialogo per introdurre il testo. Quanto segue è

il frutto di una collaborazione epistolare che ha avuto luogo, con e-mail scambiate

tra Silicon Valley e l’Italia, tra l’ottobre 2014 e l’aprile 2015.

Buona lettura.

Dario villa − 30 ottobre 2014

Mi piace aprire il dialogo con una riflessione suscitata dal contesto in cui mi trovo

in questo momento. Sono in treno, in viaggio da Milano a Roma. È una tratta fa-

miliare e frequente, per me così come per la maggior parte delle persone che per la-

voro si trovano a spostarsi fra le due principali città italiane. Ricordo che nei miei

primi viaggi di lavoro, circa dieci anni fa, per spostarsi da Milano a Roma erano

necessarie cinque ore (cui aggiungere il possibile ritardo). Oggi ci vogliono meno

di 180 minuti e, secondo le ultime notizie, tra qualche mese il tragitto diventerà

ancora più rapido e scenderà a 140 minuti, poco più di due ore.

Quando penso all’impatto della tecnologia sulle nostre vite, uno dei primi esem-

pi a venirmi in mente − laddove altri potrebbero citare tablet, smartphone o con-

nessioni wi-fi − è proprio quello dei treni. Un mezzo di trasporto più veloce può

aiutarci, siamo soliti dire, a risparmiare tempo; la metafora economica mostra

chiaramente come il tempo continui a essere percepito come una delle risorse

più scarse a nostra disposizione. Ma la questione è tutta qui? Si tratta solo di

perdere o risparmiare tempo? Vediamo di alzare il livello della posta: quale tipo

di esperienza umana − provo a usare quest’ampia espressione − sto barattando

in cambio di un mezzo di trasporto più rapido? Mentre il paesaggio corre a 300

km all’ora fuori dal finestrino, sfocandosi nella mia percezione, penso: di quan-

to mi accade intorno, c’è qualcosa che sto perdendo a causa di questo modo di

viaggiare così innaturale, in un certo senso astratto, cui siamo giunti grazie alla

tecnologia?

Di fianco al computer c’è il libro che sto leggendo. È una vecchia edizione italiana

−1962 − di un testo dello scrittore svizzero Max Frisch. Il libro raccoglie una serie

di memorie da egli pubblicate nel 1950 con il titolo Diario d’antepace. In un pas-

saggio del testo ho trovato questa osservazione:

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Esattamente cent’anni or sono, la prima ferrovia attraversava il nostro Paese: tren-

ta chilometri all’ora. È chiaro che non ci si poteva fermare lì. Il segno che abbiamo

superato il nostro ritmo è nel disappunto che proviamo ogni volta che una macchi-

na ci sorpassa; è vero che noi stessi corriamo a tale velocità che la mia percezione

della realtà non ce la fa più a tenerle dietro; ma nella speranza di raggiungere

un’esperienza perduta, acceleriamo ancora. È la promessa diabolica che ci attira

sempre più verso il vuoto. Neanche un aereo a reazione raggiungerà il nostro cuo-

re. Esiste, sembra, una misura umana che non possiamo modificare, ma solo per-

dere. Che l’abbiamo perduta, è fuor di dubbio; il problema è ora questo: possiamo

riacquistarla e come?

Frisch scrive nel 1950, ma le sue parole continuano a suonare appropriate per

descrivere quanto sto cercando di mettere a fuoco. Ritengo infatti che il primo − e

più importante − tipo di distrazione da prendere in considerazione sia quello che

ci allontana dalla nostra natura di esseri umani.

alex Soojung-Kim Pang – 9 novembre 2014

Anche nel mio caso, uno degli esempi che preferisco per parlare del modo in cui la

tecnologia cambia, cambiando le nostre vite, ha a che fare con il viaggiare. Quan-

do ero bambino, ho trascorso un periodo in Brasile, dove mio padre frequentava

un corso post-laurea. A quell’epoca, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni

Settanta, le telefonate internazionali erano insieme un lusso e, dal punto di vista

pratico, un incubo. Fare una chiamata internazionale dal proprio telefono di casa

(ammesso che se ne possedesse uno) era impossibile: c’era bisogno di recarsi alla

centrale telefonica, compilare un modulo, entrare in una cabina e aspettare di

essere connessi alla propria chiamata. Ricordo che l’ufficio aveva l’aria condizio-

nata ed era supermoderno, con una facciata interamente in vetro e, all’interno,

quel genere di poster che di solito si vedono nelle agenzie di viaggio o nei lounge

degli aeroporti. Quegli spazi parlavano di viaggio, di connessione internazionale

e di modernismo. A dire la verità, per tutto il tempo che passammo in Brasile, ci

recammo alla centrale telefonica una sola volta.

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Ripenso a quell’esperienza ogniqualvolta mi capita di fare viaggi internazionali.

Arrivo all’hotel, lascio la mia borsa sul letto, mi connetto al wi-fi e, se l’orario è

propizio, accendo Skype per fare quattro chiacchiere con la mia famiglia. Se in

California è ora di cena, spesso lasciamo la connessione aperta mentre mia moglie

cucina e i ragazzi preparano la tavola. È una scena domestica quotidiana cui posso

partecipare, seppure in ridotta misura, anche a migliaia di chilometri di distanza.

In occasione di ogni mio viaggio, penso a quanto era difficile fare una chiamata

internazionale durante la mia giovinezza e a quanto la comunicazione globale sia

oggi miracolosamente semplice.

Un paio di anni fa ho trascorso un periodo sabbatico di tre mesi presso il Micro-

soft Research Centre di Cambridge, in Inghilterra. Là ho iniziato a lavorare seria-

mente su ciò che oggi chiamo contemplative computing. Il segreto della mia pro-

duttività in quei tre mesi coincise con una scelta: lasciare i bambini in California

con mia madre. A ogni modo, durante la mia trasferta eravamo soliti tenere Skype

aperto per un’ora o due al giorno, al mattino mentre i ragazzi si preparavano per

andare a scuola e poi di nuovo alla sera. Negli anni seguenti, entrambi i miei figli

sono stati in Inghilterra per soggiorni di alcuni mesi, ma io e mia moglie non ab-

biamo usato con nessuno dei due né Skype né messaggi via chat. Da loro abbiamo

a malapena ricevuto una e-mail. Il fatto è che non volevamo che ci chiamassero

o scrivessero troppo spesso. Non volevamo che perdessero tempo a cercare una

rete wi-fi, a scegliere il punto migliore in cui farsi un selfie o a chiedersi cosa i loro

amici stessero facendo su Facebook. Desideravamo che fossero privi di distrazioni,

e se questo implicava per loro fare i conti con un senso di spaesamento o nostalgia

di casa, bene così: imparare a gestire queste sensazioni aiuta a crescere. Di fatto, i

direttori dei programmi educativi si lamentano spesso del fatto che per gli studenti

e per le facoltà è fin troppo facile, tanto a casa quanto all’estero, ascoltare la stessa

musica, vedere gli stessi film e parlare con le stesse persone; a causa di tutto questo,

gli studenti dedicano meno tempo a esplorare il loro territorio o a confrontarsi

con la scomoda – ma in definitiva preziosa – esperienza dello shock culturale e del

disorientamento.

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Per riassumere: lo stesso tipo di tecnologia che aiuta a restare in contatto può por-

tare gli individui a isolarsi in una loro “bolla”, al riparo dagli urti provocati

dall’immersione nel mondo e distanti dai problemi – e dalle opportunità – che

permettono di diventare più forti e indipendenti.

Queste conseguenze sono inevitabili, ma la sfida è quella di affrontarle con co-

scienza. È un po’ come sposarsi: abbandonare la vita da single significa privarsi di

un’indipendenza anarchica e senza pensieri, perdere il potenziale per un’esistenza

libertina e voluttuosa, rinunciare alla libertà dell’irresponsabilità. Per la verità, la

realtà può essere molto diversa, almeno nel mio caso: la maggior parte della mia

vita adulta da studente l’ho trascorsa in biblioteche, mangiando spaghetti istanta-

nei di fronte al lavandino e guardando, da solo, film presi a noleggio. Ma, se si sce-

glie bene il proprio partner, si guadagna certo molto più di quanto si perda. D’altro

canto, la nostra vita con gli apparecchi elettronici è ormai intima tanto quanto

un matrimonio: negli USA passiamo più tempo a osservare schermi di quanto ne

dedichiamo al dialogo con mogli e mariti. Questo indica che dobbiamo trattare la

nostra relazione con la tecnologia con una certa serietà.

Qui negli USA oggi abbiamo il movimento dei maker. Ciò di cui avremmo bisogno

è un movimento dei matchmaker, cioè di persone in grado di soppesare con consa-

pevolezza i pro e i contro delle nuove tecnologie, nella certezza che sia possibile de-

cidere come e in quale misura introdurle nelle nostre vite. Aziende come Facebook,

Samsung e la holding bancaria HSBC vorrebbero farci credere che l’innovazione

tecnologica abbia inciso sul nostro libero arbitrio al punto da non lasciarci altra

scelta che quella di accettare quel che loro producono. Ma questo è errato. L’op-

portunità di diventare più consapevoli rispetto alla tecnologia e al suo ruolo nelle

nostre vite resta decisamente alla nostra portata.

Questa pratica di consapevolezza ha in sé una virtù: ci rende più consci del nostro

uso quotidiano della tecnologia. Spesso diamo per scontato che Internet e i nostri

cervelli affamati di dopamine cospirino nel trasformarci in “drogati del clic”, sem-

pre alla ricerca di un successivo, piccolo stimolo sotto forma di chat o like di Fa-

cebook. Ma anche questo non è vero. Certo, gran parte della tecnologia è pensata

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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come “arma di distrazione di massa”, ma abbiamo in noi l’abilità per disinnescar-

la, riprogrammarla e indirizzarla a un buon uso. Questo non richiede una grande

conoscenza tecnica dei computer; richiede invece un’ottima consapevolezza di sé,

una buona dose di pazienza e una modesta abilità nel districarsi tra le preferenze

dei propri strumenti elettronici.

Mi piace molto la tua riflessione sulla distrazione che ci allontana dalla nostra na-

tura di esseri umani, perché esprime il problema più grave di una relazione sbadata

con la tecnologia. Il grande filosofo americano William James una volta disse: “Io

sono quel che la mia coscienza contiene”. A un livello di base, noi siamo ciò a cui

prestiamo attenzione, o, forse meglio, ciò a cui siamo in grado di prestare attenzio-

ne. Molti studenti lo intuiscono: quando acquisiamo l’abilità di leggere Dante, op-

pure di scandagliare una grande quantità di dati in cerca delle tracce di una nuova

particella, o ancora quando scoviamo le sfacciate bugie nascoste nei libri contabili

di un’azienda, stiamo facendo la medesima cosa: stiamo diventando una migliore

versione di noi stessi. La distrazione generata dalla tecnologia non intacca solo la

nostra abilità nel fare; minaccia la nostra capacità di essere noi stessi.

Dario – 4 dicembre 2014

Mi piace quello che hai scritto sui tuoi figli, riguardo all’importanza di essere svin-

colati dalla tecnologia e dunque liberi di gestire autonomamente anche sensazioni

spiacevoli di disorientamento o nostalgia di casa. In tema di solitudine e tecnolo-

gia, pare che questo sia il momento storico più adatto per parlarne, almeno stando

a quanto emerge dal mondo della cultura. Questo tema gode di un’attenzione dif-

fusa e preoccupata, che spesso richiama l’idea di distrazione dall’essere umani di

cui stiamo discutendo. Ne parlano studi sociologici (fra gli altri, uno dei migliori è

il libro Insieme ma soli dalla sociologa del MIT Sherry Turkle) ma anche romanzi

(recentemente, Il circolo di Dave Eggers e, al di là di un singolo libro, Jonathan

Franzen con la sua ossessione contro la tecnologia) e film (l’esempio più recente

è Lei di Spike Jonze). Questa attenzione sembra dimostrare che il rapporto fra

tecnologia e anima è uno dei principali temi del discorso culturale contemporaneo.

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Apprezzo molto quanto scrivi a proposito del fatto che noi siamo ciò cui decidiamo

e siamo in grado di prestare attenzione. Parlando dei trade-off decisionali indotti

dalla tecnologia, c’è un tema su cui mi è più volte capitato di riflettere: la dialettica

fra opzioni e possibilità. Mi spiego prendendo come esempio un popolare slogan

del mondo del business informatico: “There’s an app for that”. Milioni di “app”

promosse nei negozi virtuali offrono una enorme gamma di opzioni. Con una pro-

messa: soddisfare ogni desiderio. L’utente medio ha oggi di fronte a sé un’ampiezza

di scelta decisamente maggiore di quella disponibile, per esempio, venti o anche

solo dieci anni fa. In senso quantitativo, “There’s an app for that” è diventato uno

slogan apparentemente veritiero. Ma si tratta di una vera possibilità di scelta? Le

“app” contengono opzioni che sono predeterminate da un programmatore (mai

espressione/professione fu definita in maniera più significativa!): queste opzioni

rispondono ai nostri desideri... o forse li determinano?

Quest’ultima domanda non è certo nuova, e il pensiero filosofico ha a lungo ri-

flettuto su di essa, dai tempi di Platone a oggi. La filosofia può aiutarci a capire

come la tecnologia abbia favorito la nostra emancipazione da uno stato naturale

di inferiorità, per condurci a conquistare il controllo. D’altro canto, ci ha progres-

sivamente ridotti a un’inaspettata condizione che ci fa sentire oggi soggetti a quel

reame tecnologico che noi stessi abbiamo deciso di costruire.

Una delle più recenti risposte all’eterno quesito di cui stiamo parlando è contenuta nel

libro Quello che vuole la tecnologia (2000) del guru americano dei media  Kevin Kel-

ly. Egli afferma che la direzione di sviluppo di ciò che chiama technium (cioè il sistema

sociale definito dagli apparati tecnologici di cui facciamo uso) è di fatto predetermi-

nato. Sto semplificando il contenuto del libro di Kelly, ma quel che vorrei mettere in

luce è che la sua è un’interpretazione riduzionista del nostro tema. È vero che ci si

potrebbe sentire a proprio agio con l’idea di un mondo completamente determinato

dalla tecnologia e dalle sue vaste ma definite opzioni. D’altro canto, sono in molti a

sentirsi a disagio rispetto a questa idea, e lo sviluppo estremo di questa posizione è

quello storicamente offerto dai luddisti (e, non a caso, nelle stesse pagine di Kelly non

mancano riferimenti alle comunità Amish e perfino al terrorista Unabomber).

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Torno alla filosofia: sto leggendo la trascrizione del discorso La questione della tec-

nica, pronunciato da Martin Heidegger in un seminario del 1954. Come Heidegger

nota con chiarezza, parlare di tecnica non significa semplicemente discutere di stru-

menti. Se si persevera nel pensarla in meri termini strumentali, ci si trova limitati

allo sforzo di dominarla  (o si finisce per esserne dominati). Heidegger ci aiuta a

comprendere tutto questo con un riferimento all’antica sapienza greca, evocando i

concetti di techne e poiesis. Se il primo termine può essere tradotto con “manualità”,

il secondo rimanda tanto al “fare” quanto al “poetare”, dunque all’arte. L’essen-

za della tecnologia non è dunque meramente strumentale, così come siamo forse

abituati a pensarla; il modo più efficace per esplorarla è quello di avvicinarsi a un

diverso e apparentemente disgiunto regno: quello dell’arte, cioè una dimensione in

cui lo strumento è usato in massimo grado per esprimere la nostra umanità. Qui sto

semplificando oltre misura il pensiero di Heidegger, ma credo che questo slancio in

direzione della dimensione creativa dell’arte possa rappresentare la chiave per ricon-

quistare una sensata prossimità con il territorio delle possibilità.

Grazie all’arte possiamo ricostruire una relazione positiva e produttiva con la tec-

nologia e stabilire una connessione con il mondo delle possibilità. Questa azione

ha molto a che fare con il mondo dell’arte e più nello specifico con la dimensione

“tecnica” dell’usare strumenti per dar vita a oggetti e performance artistiche. Per

ragioni legate alla mia esperienza, conoscenza e passione, vorrei focalizzarmi sulla

musica e sui suoi strumenti (ma ovviamente si potrebbe fare una simile riflessione

parlando di altri tipi di arte). Per quanto mi riguarda, il miglior esempio di uso di

strumenti musicali di cui possiamo discutere proviene dal jazz.

Anzitutto, il jazz si sviluppa nel regno delle possibilità, non in quello delle opzioni.

Nel jazz non ci sono “app”. Ogni brano, poco importa se si tratti di un cosiddet-

to standard o di un originale, è una struttura aperta ed emergente che è resa viva

grazie alla possibilità di essere reinterpretata ogni volta in modo differente. Su

questa dinamica di continua ri-creazione si innesta il ruolo degli strumenti mu-

sicali. Vorrei citare uno dei passaggi del tuo libro che più apprezzo, quello in cui

menzioni l’idea di “entanglement” e il corrispondente ruolo degli strumenti musi-

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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cali: “La maldestra consapevolezza di corde, chiavi e posizioni degli accordi lascia

il posto alla sensazione che lo strumento ‘diventi di fatto una naturale estensione di

sé’, come ha detto un musicista jazz”. Lo strumento musicale è uno speciale tipo di

mezzo grazie al quale possiamo imparare come approcciarne un altro, completa-

mente diverso: un apparecchio tecnologico come un computer o uno smartphone.

A tale proposito, questo è esattamente il percorso seguito dallo psicologo cogni-

tivo Gary Marcus nel suo libro Guitar Zero (2012). Qui l’autore parte giocando

con opzioni predefinite grazie al videogame Guitar Hero, con la sua finta chitarra

di plastica, e finisce con l’imparare come lavorare con possibilità grazie a una vera

chitarra. Egli impara molto sui processi del comprendere, del costruire un’abilità

che lega mano e cervello  e, in generale, dell’apprendere. Gli strumenti musicali

rappresentano una potente metafora per parlare di tecnologia da più punti di vi-

sta. Possono farci recuperare una più autentica e sincera relazione fisica con uno

strumento e, al tempo stesso, aiutarci a smascherare le false promesse di qualsiasi

processo di apprendimento appaia veloce, piacevole e privo di sforzi. Uno stru-

mento musicale ci obbliga a fare piena esperienza della nostra fisicità e a fronteg-

giare un apprendimento concreto e dunque privo di mediazioni facilitanti. Questo

è un punto davvero importante su cui dobbiamo focalizzarci se vogliamo costruire

una sensata riappropriazione della tecnologia in termini umani. E questo è uno dei

fronti in cui il tuo libro eccelle.

alex – 2 febbraio 2015

Trovo illuminante il contrasto fra jazz e technium. Per come comprendo il punto

di vista di Kelly, il technium è una sorta di super-organismo che include tutte le

varie tecnologie che abbiamo costruito e connesso. Possiede una logica e regole

di sviluppo che vivono in autonoma esistenza e autorità al di fuori dall’influenza

umana: possiamo compiere alcune scelte riguardo ai dettagli di un sistema, ma la

forma complessiva e l’evoluzione del technium sono fuori dal nostro controllo. È

un mondo di opzioni e non di possibilità, in cui un programmatore – in questo

caso, la tecnologia stessa – ci permette di scegliere da un menu ma non ci dà l’op-

portunità di creare qualcosa di interamente nuovo o di rifuggire la sua logica.

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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È anche un mondo in cui il jazz è impossibile: l’improvvisazione non ne fa assolu-

tamente parte. Il technium non è interessato a strumenti che aiutino l’uomo a es-

sere adattivo e flessibile, né a sorprendersi con espressività e virtuosismo, o ancora

a sfumare – neppure temporaneamente – i confini tra sé e l’oggetto. Il technium

non è necessariamente avverso a tutto questo, ma è di certo, perfino nel migliore

dei casi, del tutto disinteressato a quanto le tecnologie possano rendere le persone

umane o meno.

Penso, in opposizione all’idea di Kevin Kelly di un technium che ha i suoi obiettivi

e un suo percorso di evoluzione – un percorso che noi possiamo marginalmente

influenzare ma che di fatto procede senza di noi –, che le tecnologie a nostra dispo-

sizione vogliano essere usate, risultare utili e aiutarci a essere più umani.

Per esempio: cosa desidera uno smartphone? Penso che gli smartphone siano in qual-

che modo simili ai cani. Interessi e abilità canine variano fortemente da razza a razza.

Alcuni cani (come il mio Labrador) sono ossessionati dal raccogliere cose; altri fanno i

pastori; altri ancora cacciano. Tutti appartengono, però, a un gruppo che ha in comu-

ne l’amore per la compagnia degli uomini e per ciò che si viene allenati a fare. I loro

interessi specifici sono molto diversi dai nostri, tanto è vero che è sufficiente portare un

cane a passeggio per rendersi conto che lui vede il mondo in maniera molto diversa da

noi, ma fare parte del nostro mondo dà ai cani piacere e conferisce senso alla loro vita.

Penso che, se ci rivolgessimo agli smartphone, la loro idea di una vita ben spesa

non sarebbe troppo diversa da quella dei cani: desiderano essere utili; vogliono

passare del tempo con noi; non amano essere lasciati da soli perché sono fatti per

essere portati in giro e fare compagnia; vogliono connetterci ad altre persone.

E inoltre, proprio come i cani, gli smartphone desiderano fare queste cose sempre

meglio. Così come un cane ben educato ama imparare nuove cose, traendo un

chiaro piacere dal diventare più bravo in quel che fa, penso che gli smartphone de-

siderino mettersi meglio al nostro servizio e che possano essere addestrati a farlo.

Provo con un altro esempio. Di norma, appena tirato fuori dalla scatola, uno

smartphone  possiede lo stesso indisciplinato e indiscriminato entusiasmo di un

bambino. Entrambi trattano la nostra attenzione come un oggetto da monopoliz-

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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zare. Ogni messaggio che ci viene lanciato ha il medesimo livello di importanza.

Per un bambino di quattro anni, “Ho trovato la mia scarpa” e “Qualcuno se ne

sta andando con la nostra macchina” sono messaggi dotati di altrettanto fascino.

C’è un’altra cosa che smartphone e bambini condividono: quando cercano la no-

stra attenzione, la vogliono immediatamente. Sentirsi tirare la manica o percepire

una vibrazione nella tasca sono per noi segnali di un urgente bisogno di risposta;

questo non significa che ci sia qualcosa di incredibilmente importante da condi-

videre, ma soltanto che c’è un bisogno di attenzione. Quando non rispondiamo

immediatamente, per il nostro interlocutore è una “tragedia”, e ci aspettano pianti

e rantoli o segnali di allerta per un messaggio ignorato.

Infine, bambini e smartphone non comprendono il senso dei confini sociali. I bam-

bini non riconoscono il fatto che, quando voi parlate con un amico o vi consultate

con un medico, possiate non essere in grado di ammirare il loro ultimo disegno.

D’altro canto, anche uno smartphone, nel suo normale stato “non educato”, sup-

pone che anche a mezzanotte possiate aver voglia di fare una telefonata o di sapere

che a tre persone è piaciuta una vostra fotografia.

Ma i cani desiderano imparare a fare il loro lavoro, a rendere i propri padroni

felici e a conoscere quali sono i confini del loro mondo. E i bambini vogliono

crescere, per imparare a rispondere alle grandi domande della vita ed essere ca-

paci di farcela da soli. Quindi anche gli smartphone, credo, vogliono essere più

intelligenti e più utili. Vogliono sapere chi, fra le persone della nostra vita, merita

sempre la nostra attenzione e chi può invece attendere; quale tipo di messaggi è

importante, e quale non lo è; quando è il momento giusto per informarci su una

chiamata in arrivo e quando è meglio non farlo. In altre parole, desiderano esse-

re meno simili ai bambini e più ai maggiordomi. Desiderano essere abbastanza

intelligenti per far fronte ai nostri desideri e al nostro mondo sociale, per ren-

dere migliori le nostre vite. Vogliono proteggere la nostra attenzione e privacy,

anticipando chi può essere ammesso e chi deve essere escluso dal nostro mondo.

Desiderano conquistare un posto nelle nostre vite per il fatto di fare bene il loro

lavoro e meritare la nostra fiducia.

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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Ora, perché gli smartphone hanno bisogno di essere allenati? Anzitutto, perché

sono privi della capacità di distinguere tra amici e mere conoscenze e devono

quindi acquisirla. Ma anche perché sono prodotti da aziende che contano di ge-

nerare profitti dalle nostre interruzioni e che quindi li programmano per catturare

la nostra attenzione. In più, le tante notifiche “push” si traducono in un rinforzo

intermittente che genera dipendenza. In effetti, gli smartphone somigliano a cani

male addestrati: hanno bisogno di essere educati a nuove abitudini che li rendano

compagni fidati.

Penso che farlo non sia così difficile. Dobbiamo imparare a orientarci fra le im-

postazioni del nostro smartphone per disattivarne le notifiche. Dobbiamo saper

creare “whitelist” per distinguere dal resto del mondo le persone per cui vogliamo

essere sempre accessibili. Dobbiamo decidere quali sono le informazioni cui abbia-

mo davvero bisogno di accedere quando viaggiamo, e quali sono solo distrazioni.

E, di tanto in tanto, dobbiamo valutare se queste impostazioni abbiano bisogno

di essere aggiornate, per esempio quando abbiamo nuovi amici e colleghi da ag-

giungere alla “whitelist”, oppure se un nuovo lavoro richiede determinate “app”,

e così via. È un po’ come preparare le valigie: si tratta di scegliere vestiti adeguati

a un viaggio di lavoro o a una vacanza (e anche vestiti diversi, se si va a sciare o a

fare snorkeling).

Tutto questo può dare come risultato un telefono “educato”, che non si compor-

terà come un cane male addestrato che continua a tirare il suo guinzaglio o come

un aiutante inaffidabile che ci lascia nei momenti critici. Al contrario, si compor-

terà come uno strumento su cui possiamo fare affidamento, che è di aiuto senza

avanzare pretese.

Penso che sia questo il tipo di strumento che uno smartphone vuole davvero essere.

L’idea di un telefono che ci protegga dalle intrusioni e dalle distrazioni del mondo

rimanda alla tua osservazione riguardo al fenomeno (espresso in lavori assai diver-

si, come Insieme ma soli di Sherry Turkle e Lei di Spike Jonze) per cui le tecnologie

interferiscono con lo sviluppo della nostra anima. È certo vero che l’umanità si è a

lungo preoccupata del fatto che il rapporto con la materialità ostacola lo sviluppo

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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spirituale, ma quella che vediamo oggi è una nuova svolta, che riguarda meno la

maniera in cui lo spirito viene impoverito dalla materialità e più il modo in cui lo

sviluppo spirituale può essere danneggiato dalle distrazioni.

Di cosa abbiamo bisogno per poter sviluppare una crescita spirituale? Sorprenden-

temente di poco, per lo meno se le vite di grandi “contemplativi” come il monaco

trappista Thomas Merton offrono qualche indicazione al riguardo. Per lui c’era bi-

sogno di concentrazione e silenzio; di silenzio perché la voce di Dio non può essere

sentita chiaramente nel frastuono della vita quotidiana; di concentrazione perché

essa non può essere percepita usando la forma mentis di tutti i giorni. L’importan-

za dell’attenzione è qualcosa di cui abbiamo già parlato, ma il silenzio merita un

ulteriore approfondimento.

Il silenzio e il suo equivalente cognitivo, cioè la noia (che definisco così per la man-

canza di un termine più adeguato), si rivelano essenziali per il nostro sviluppo psi-

cologico, anche se frequentarli può risultare spesso fastidioso o imbarazzante. In

particolare, gli psicologi hanno di recente esplorato i benefici del cosiddetto stato

mentale di mind wandering (letteralmente: mente vagabonda) e fatto alcune inte-

ressanti scoperte. Vagare con la mente non corrisponde a distrarsi – cioè lasciare

che la propria attenzione si sposti su B quando dovrebbe essere concentrata su A –,

ma far sì che la mente non sia focalizzata su nulla in particolare, lasciandola quindi

libera di spostarsi su ciò che desidera, senza apparente sforzo. La nostra mente

entra in questo stato in modo naturale. Quando stiamo piegando la biancheria e la

nostra mente si sposta dalla pila di camicie al percorso della passeggiata che fare-

mo più tardi, o quando durante la passeggiata la mente si sposta verso un libro che

stiamo leggendo, ecco, in queste occasioni stiamo praticando il mind wandering.

Secondo alcune stime, questo è lo stato mentale in cui passiamo la metà del nostro

tempo cosciente.

Dal di fuori, riconoscere una mente che vaga è spesso impossibile. Per esempio,

un insegnante potrebbe non vedere altro che uno studente che guarda nel vuoto e

non presta attenzione. Passando dal lato dello studente, anche per chi lo pratica,

il mind wandering è caratterizzato da un certo grado di elusività: se si interrompe

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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qualcuno che sta lasciando vagare la propria mente e gli si domanda a cosa stesse

pensando, è spesso difficile ottenere una risposta. Si potrebbe pensare al mind

wandering come a qualcosa di improduttivo, come a un diverso tipo di distrazio-

ne; ma, a ben vedere, la questione è molto più complessa.

Il mind wandering è lo spazio in cui agiamo molti pensieri riguardo al futuro e al

modo in cui gestiamo problemi e riflettiamo sulla nostra vita. Per le persone crea-

tive il mind wandering è uno stato che può generare grandi benefici sotto forma di

rivelazioni. Quello in cui la mente vaga è un tempo in cui la coscienza è rilassata

ma l’inconscio continua a lavorare, spesso con grande efficacia.

Concludo tornando a un nostro interesse comune: il jazz. Miles Davis è stato uno

dei più brillanti trombettisti del XX secolo. Per me (e per molti critici) uno degli

aspetti più straordinari del suo modo di suonare riguarda il silenzio. Per molti

musicisti, il silenzio rappresenta semplicemente lo spazio per prendere fiato o per

raccogliere i propri pensieri; è un risvolto negativo definito unicamente dall’assen-

za di suono. Con Miles, al contrario, si ha la sensazione che i silenzi facciano parte

della visione della musica in un modo che non accade per altri musicisti. Davis

suonava anche il silenzio, sapeva come usarlo in un modo che ha reso il suo lavoro

musicale unico e potente.

Ma le distrazioni digitali filtrano all’interno del silenzio e dello spazio dedicato al

mind wandering tanto quanto l’acqua filtra in uno scantinato. Grazie alle gallerie

di immagini e alle biblioteche che portiamo oggi nelle nostre tasche con gli smar-

tphone, non rischiamo mai di restare da soli con i nostri pensieri. Possiamo riem-

pire ogni momento con attività di lavoro o svago. Il risultato paradossale è che

abbiamo bisogno di tornare ad annoiarci. È un fatto assodato che i social media,

per lo meno nella loro forma attuale, non riconoscono il concetto di silenzio. Su

Facebook, per esempio, non esiste la possibilità di essere semplicemente presenti

e osservare. C’è azione – i commenti e i “like” – oppure assenza. Non esiste un

equivalente digitale del silenzio.

Questo si rivela un problema. Lasciar vagare la mente non è un fenomeno psico-

logico importante solo per se stesso. Le persone che sono in grado di concentrarsi

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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più fortemente su un soggetto sono anche capaci, in maniera intenzionale, di la-

sciar andare la loro mente. Questo significa che migliorare la propria capacità nel

mind wandering migliora l’abilità di attenzione. Le distrazioni digitali danneggia-

no sia la focalizzazione sia le divagazioni mentali, e questo influisce negativamente

anche sulla loro relazione.

Quel che dobbiamo imparare a fare è “suonare” come Miles Davis: dobbiamo

padroneggiare gli strumenti digitali e usarli nella vita quotidiana non solo per

produrre suono, ma anche per creare silenzio. Per costruire un rapporto tra lavoro

e riposo che sia reciprocamente di supporto. Per concentrarsi e per vagare con la

mente in modi che permettano a questi due stati di amplificarsi a vicenda. Per di-

ventare persone migliori, sia nella socialità sia nella solitudine.

Dario – 11 febbraio 2015

Alcune delle tue osservazioni puntano verso il mondo del lavoro. Nel 1995, in

un’era precedente all’avvento degli smartphone, l’economista americano Jeremy

Rifkin pubblicava La fine del lavoro, un libro il cui principale elemento di interesse

riguarda l’impatto dello sviluppo tecnologico e dell’automazione sull’occupazione

e sul tempo libero. Sembra proprio che il genere di distrazione generato dal com-

puter e dagli smartphone contemporanei – che, come tu hai notato, sono program-

mati da aziende che traggono profitto dalle nostre distrazioni – abbia colmato la

distanza tra tempo produttivo e tempo dedicato allo svago.

Per la prima volta nella storia, passiamo gran parte delle nostre giornate intera-

gendo con apparecchi che possono essere descritti come “scatole” che contengono

contenuti legati sia al lavoro sia al tempo libero. Non esiste soluzione di continuità

tra una sessione di scrittura con un word processor, un’occhiata a Facebook e un

rapido controllo delle e-mail (non privo di pubblicità customizzate che lampeggia-

no ai margini dello schermo). La connessione fra queste attività, che un tempo non

lontano erano considerate esperienze separate, è rafforzata, anche se sembra para-

dossale, dal crescente tasso di distrazione che caratterizza le nostre vite. Secondo

alcuni popolari dati, al lavoro ci interrompiamo per cambiare attività ogni quin-

dici minuti circa. In questo fenomeno c’è qualcosa di compulsivo; c’è qualcosa,

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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nello stordimento digitale generato dall’uso continuo e insieme distratto dei nostri

apparecchi, che crea dipendenza.

In tema di lavoro d’ufficio, l’alto tasso di distrazione rappresenta un “tessuto con-

nettivo” per molti falsi miti del mondo del business: ingannevole estremizzazio-

ne della produttività; creatività come status symbol; multitasking tanto pervasivo

quanto inefficace. Tutto ciò cospira contro di noi in maniera tanto dirompente

da spingerci a pensare che la nostra mente possa funzionare come gli apparecchi

digitali di cui facciamo uso. Ma, nel farlo, siamo in errore; così in errore che fi-

niamo per non essere nemmeno in grado di fare buon uso degli stessi apparecchi

digitali. Come hai già notato, l’utente tecnologico medio spesso non sa – o non

vuole – esplorare le opzioni di un apparecchio per cambiarne il “comportamento”.

Non si tratta di una competenza tecnica: il primo e più importante “switch” deve

avere luogo non negli apparecchi, ma nel nostro cervello.

Ogniqualvolta mi capita di fare da docente in corsi sulla gestione del tempo, amo

discutere con i miei “studenti aziendali” riguardo alla loro relazione con la tec-

nologia. Trovo spesso divertente porre loro due domande: “Pensate di ricevere

troppe e-mail?”, e “Pensate di mandarne troppe?”. Di solito, le risposte alle due

domande sono “Sì” e “No”. Sono sempre “gli altri” che usano le e-mail, e più in

generale la tecnologia, in maniera non adeguata. Questo è decisamente un modo

naïf di rivolgersi al problema del buon uso della tecnologia sul lavoro. Anzitutto,

l’impressione è che gli apparecchi digitali continuino a essere percepiti come un

medium “neutro”, cosa che mi stupisce sempre molto, soprattutto quando questa

percezione proviene dai cosiddetti “nativi digitali”. D’altro canto, l’intero tema

della tecnologia in ambiente di lavoro viene di norma assorbito e ridotto a una più

generale – e pessimistica – considerazione delle logiche “politiche” di un’organiz-

zazione di impresa.

Rispetto alle strategie che vengono impiegate da chi lavora per far fronte alle di-

strazioni tecnologiche, vedo di solito due approcci. Il primo è essenzialmente una

resa alla distrazione, il più delle volte accompagnata da un’apparente sensazione di

produttività legata ai falsi miti lavorativi che ho prima citato. Il secondo approccio

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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è quello di chi decide di escludere le distrazioni tecnologiche dal tempo percepito

come privato e prezioso. In altre parole, chi si comporta così evita il più possibile di

accedere al computer o al telefono aziendale di sera o nei weekend. Anche questo

secondo approccio ha poco di positivo, essendo più simile a una fuga impotente

che a una effettiva strategia di gestione delle distrazioni elettroniche. Il punto cen-

trale della questione non è infatti quello del disconnettersi fine a se stesso; è piut-

tosto quello del ri-connettersi con differenti sensi ed esperienze. Mi permetto una

considerazione molto semplice riguardo al mondo del lavoro, legata in particolare

al time management: la mia idea è che le persone dovrebbero razionalizzare l’uso

di computer e smartphone per riconquistare un adeguato apprezzamento di altre

forme di interazione che prevedono la presenza faccia a faccia, la conversazione e

l’azione collettiva. È davvero semplice: parlo di riunioni, conversazioni, telefonate,

buon uso degli open space degli uffici. Il primo passo di questa riappropriazione

consiste nel comprendere che non esiste un solo stile di relazione e comunicazione

(quello mediato da strumenti tecnologici), ma che ne esistono molti. Se si dedicano

tempo e attenzione, prima di mandare una e-mail, per chiedersi: “Devo proprio

mandare una e-mail, oppure posso fare uso di un altro strumento?”, tutto può

assumere una diversa prospettiva. Questa è la direzione verso cui cerco di guidare

la riflessione delle persone che incontro nelle aule aziendali, di solito con risultati

positivi soprattutto in termini di un rinnovato approccio alla comunicazione.

A proposito del riconnettersi a diversi sensi, trovo fondamentale quanto hai no-

tato riguardo al silenzio (e ovviamente ho apprezzato molto la menzione di Miles

Davis). Parlare del silenzio significa riflettere su una pratica per cui si ascolta e si

lascia spazio ad altri. La questione è quella di concedere spazio a stimoli differenti

che provengono da luoghi differenti. Penso all’usare in modo diverso non solo le

nostre orecchie, ma tutti i sensi. C’è un libro molto bello, scritto dalla scienziata

cognitiva americana Alexandra Horowitz, che si intitola On Looking (2013). Il

libro è basato su un’idea affascinante: il medesimo tratto di strada cittadina può

essere vissuto in maniera molto diversa se percorso da persone dotate di attitudini

differenti. L’autrice passeggia con persone del tutto diverse fra loro: un sociologo,

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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un geologo, un sound designer, un non vedente e un bambino piccolo. In ciascuna

passeggiata, l’esperienza della strada risulta  completamente diversa. Credo che,

per liberarci dal “rumore bianco” prodotto dagli apparecchi tecnologici, sia anzi-

tutto necessario generare spazio e silenzio da dedicare a diverse forme di intera-

zione con il mondo.

Ogni persona incontrata da Alexandra Horowitz può essere considerata esperta

riguardo a un particolare sguardo sul mondo, ma quel che risulta più interessante

non è tanto il singolo punto di vista, quanto la giustapposizione e relazione dei di-

versi approcci. La figura cui prestare attenzione, quindi, non è quella dell’esperto,

ma piuttosto quella del generalista; direi una sorta di flâneur, visto che stiamo par-

lando di passeggiate urbane. In simili termini, riconquistare un approccio positivo

alle nostre capacità cognitive – e qui parliamo di focalizzazione, distrazione e mind

wandering allo stesso tempo – significa liberarsi dall’eccesso di semplificazione

delle esperienze generato dalla mediazione di un solo tipo di strumento, cioè quello

digitale (da questo punto di vista, un computer, un tablet o uno smartphone pos-

sono essere considerati, seppur ognuno con le sue differenze, come un unico stru-

mento fondamentalmente basato sulla mediazione di uno schermo). Dovremmo

usare – e padroneggiare – differenti tecnologie al fine di apprezzare più prospettive

di mediazione; dovremmo sperimentare molteplici modi di fare in luogo di quelli

abituali (il che spesso significa dedicare più tempo a qualcosa invece di prendere

una scorciatoia); dovremmo avvicinarci a un apprendimento più autentico (e ar-

duo), invece di fare affidamento su quello più semplice e semi-automatizzato offer-

to dagli apparecchi tecnologici. E, nel fare tutto questo, gli apparecchi tecnologici

possono essere nostri alleati, non certo nemici.

alex, 2 aprile 2015

Mi dispiace che la mia risposta arrivi solo ora, ma ho una buona ragione per que-

sto ritardo: nelle ultime settimane sono stato afflitto da problemi al computer che

mi hanno costretto a cambiare l’hard disk del mio ormai anziano Macbook Pro.

Se tu fossi stato da queste parti nell’ultimo fine settimana, avresti potuto vedere il

mio computer adagiato sulla mia scrivania a pancia in su, con posato di fianco il

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coperchio inferiore. Intorno, nastri e cavi disconnessi e una collezione di piccole

viti adagiate su una lavagnetta magnetica, simili a insetti di metallo su carta mo-

schicida. Mi avresti visto svitare l’ultima vite ed estrarre con attenzione il vecchio

hard disk. Infine, inserire il nuovo disco rigido e iniziare a riassemblare il mio

computer.

Mi sono, a tutti gli effetti, trovato a operare una sorta di chirurgia sul “tessuto con-

nettivo” che tiene assieme e confonde le nostre vite fra intrattenimento, distrazione

e lavoro, vale a dire tutto quello che risulta trasmesso e ridotto (nel senso culinario

in cui uno chef può distillare e concentrare) attraverso uno schermo. Come tu noti,

la tecnologia ha prodotto una vita lavorativa e uno stato mentale in cui la distra-

zione è diventata, di default, un’abitudine a essere costantemente ma parzialmente

impegnati in attività che hanno a che fare con la nostra vita lavorativa, casalinga e

familiare, il tutto mescolato con una buona dose di intrattenimento e svago.

Se si prova a porre questo tema, la maggior parte delle persone risponderà che è

il mondo costantemente connesso in cui oggi viviamo a richiederci questo tipo di

“continua attenzione parziale” (per citare un’espressione coniata dalla scrittrice Lin-

da Stone). Ma questo atteggiamento, così come la sensazione di produttività che esso

genera, è profondamente distorto, anche se è diventato sempre più importante nei

contemporanei ambienti di lavoro. Se si chiede alle persone che praticano il multi-

tasking se si sentono produttive, la loro risposta sarà affermativa e accompagnata

dalla sensazione che la loro efficacia salga di pari passo con l’aumentare di intensità

del multitasking stesso. Il problema è che questa sensazione non trova corrisponden-

za in nessun dato: le persone che aumentano il proprio multitasking peggiorano il

loro rendimento proprio mentre sono convinte di fare di più e meglio.

Dal mio punto di vista, questa evidenza illustra uno dei principali problemi che

dobbiamo oggi fronteggiare negli uffici in America e, credo, più o meno ovunque.

Chi lavora in fabbrica può a fine giornata vedere davanti a sé una pila di oggetti

prodotti; chi lavora in una fattoria, vedrà un ettaro di terra arata e seminata; chi

lavora nelle vendite, vedrà il denaro incamerato. Ma se si lavora come consulenti

o come scrittori (o, magari, che Dio ce ne scampi, come “content creator”), nella

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maggior parte dei casi non è possibile percepire qualcosa di tangibile come prodot-

to del proprio lavoro, né vedere davanti a sé una fila di clienti soddisfatti o ettari

di parole. In questo tipo di ambiente, apparire operosi e impegnati è importante

quasi quanto essere produttivi. Quanto ci si sente bene al lavoro diventa una sem-

plice misura di quanto bene si stia lavorando; apparire stressati è un segnale di

operosità; apparire sovraccarichi di lavoro è un indicatore di dedizione e impegno.

Esiste una combinazione, fatta di pressione, bisogno di mostrarsi impegnati e abi-

lità nell’usare il multitasking, per sopperire all’inefficienza con un’apparente cura,

che conduce a un chiaro risultato: far sì che la “sensazione” del lavoro si trovi in

competizione con l’effettivo lavoro. E questo accade quando, di fatto, dobbiamo

portare a termine del lavoro, per esempio scrivere articoli, incontrare clienti, con-

durre riunioni, insegnare a studenti o fare diagnosi a pazienti. Come conclusione

del processo, dedichiamo la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie

ad apparire impegnati, finendo per danneggiare la nostra reale produttività.

Quanto detto aiuta a comprendere un paradosso che vediamo nei numeri sulla

produttività globale raccolti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo

economico (OCSE). Per fare un esempio, la Corea del Sud si posiziona con costan-

za tra le prime nazioni quanto a numero di ore di lavoro annuali, ma si trova in

fondo alla classifica quanto a produttività. Come mai? Questo accade perché negli

ambienti di lavoro coreani la regola non scritta è che un lavoratore non possa la-

sciare l’ufficio prima del suo capo. E il capo non se ne va mai. Il risultato è che la

quantità di lavoro che viene svolta è comunque la stessa, solo che viene svolta con

molta meno efficienza.

Dunque la risposta a questo problema può forse consistere in più ore di lavoro,

più multitasking, più tecnologia? Di certo no: la risposta più diretta è quella di

riconquistare focalizzazione, di essere più consapevoli di quanto produttivo (o di-

struttivo) possa essere il mescolare e sovrapporre i livelli di lavoro, di capire come

le tecnologie possono aiutarci o meno a sostenere le nostre scelte.

Tu hai citato il bisogno di riconnettersi con sensi diversi e il valore di apprendere da

differenti strumenti tecnologici per padroneggiare più forme di mediazione. Questo

Introduzione - Come vivere con la tecnologia: un’introduzione in forma di dialogo

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mi ha dato da riflettere sulla natura delle connessioni. Il punto di ogni connessione

è quello di dar vita a un oggetto funzionale unendo parti più piccole. Da un lato, si

possono connettere diverse cose identiche in modo da crearne una versione più gran-

de. Per esempio, si possono aggiungere locomotive a un treno per avere un veicolo

più lungo in grado di trasportare un maggiore carico. Ma esiste anche un altro tipo

di connessione, che combina cose differenti che possono funzionare bene insieme,

rinforzando i reciproci punti di forza e costruendo qualcosa di nuovo.

Dobbiamo renderci conto che le nostre abitudini legate al multitasking, al lasciar

filtrare l’intrattenimento nel lavoro, al suddividere la nostra attenzione su più atti-

vità, nonché allo spostarci di finestra in finestra sugli schermi dei nostri apparecchi,

non ci aiuta a connettere le diverse parti della nostra vita in alcun modo sensato; al

contrario, genera inefficienze e interferenze. Dobbiamo piuttosto imparare a usare

le tecnologie per dar vita una versione “estesa” di noi stessi capace di svolgere cose

che il nostro corpo, così com’è in natura e senza assistenza tecnologica, non è in

grado di fare. Dobbiamo anche comprendere che una vita lavorativa più produtti-

va, creativa e soddisfacente può essere generata solo da una efficace relazione tra

periodi di attenzione intensa, in cui ci concentriamo profondamente su una attività

(spesso un lavoro di grandi dimensioni composto da molte piccole parti), e perio-

di in cui possiamo riposare, disconnetterci e lasciar vagare liberamente la nostra

mente. Proprio perché sono così diversi, duro lavoro e riposo offrono opportunità

per rinfrancare la nostra mente e per sviluppare le nostre abilità creative.

Essi ci offrono anche l’opportunità di pensare a periodi sabbatici digitali e ai loro

pregi. Per molti, qui, nella Silicon Valley, l’idea di un sabba digitale corrisponde al

nuovo lusso minimalista: un po’ come lo yoga o il cibo biologico, sta diventando

un semplice ma assai costoso modo per dimostrare quanto si è in contatto con

la propria dimensione spirituale e naturale. Per altri, corrisponde a una dieta di

rottura, cioè a un tentativo tanto rapido quanto spesso disperato di ritrovare la

propria antica forma mentale, proprio come quando ci si riduce alla fame pur di

rientrare nei vestiti che si indossavano al tempo dell’università. Ma nessuna di

queste due interpretazioni è sostenibile. Un periodo di sabba digitale è un’oppor-

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tunità per vivere un diverso tipo di tempo e un diverso stato mentale. Come ha

affermato il grande rabbino Abraham Heschel: “Un sabba non è solo un giorno di

riposo; permette di assaggiare l’eternità”. Non si tratta solo di una pausa all’inter-

no della nostra settimana lavorativa, ma di una forma temporale completamente

diversa. C’è una grande differenza tra un sabba digitale che viene trattato come un

weekend lungo e uno che diventa parte della nostra vita. Il primo genera benefici

di breve termine, ma sul lungo periodo risulta davvero poco utile; il secondo può

davvero cambiarci la vita.

Un sabba digitale è prezioso anche perché può aiutarci a imparare a essere più

consapevoli dei nostri apparecchi, specialmente quando li utilizziamo. Ci aiuta a

imparare come lavorare più intensamente e come riposare più pienamente. In de-

finitiva, ci aiuta a vivere vite più bilanciate. Questo è l’obiettivo di ciò che chiamo

“contemplative computing”.

Ho ormai finito di aggiornare il mio Mac – ho cambiato il vecchio disco rigido con

un nuovo disco a stato solido – e di ricaricare il sistema operativo. Il computer ora

è molto veloce: l’avvio di Microsoft Office era lento come un vecchio macinino;

ora è rapido come la porta di un hotel di lusso spalancata per noi dall’usciere. Non

sono certo un ingegnere, ma alcuni anni fa ho scoperto che questo tipo di manu-

tenzione non è per niente difficile: con buone indicazioni – e con calma e metodo

– è possibile aprire tranquillamente i propri apparecchi e fare quasi tutto al loro

interno. Apprendere in questa maniera come “entrare” nelle nostre tecnologie è

un buon modo per ricordarci che, nonostante i loro migliori sforzi, le aziende non

sono ancora riuscite a creare un mondo che funzioni in maniera perfetta e senza

frizioni, privandoci della possibilità di fare delle scelte. Possiamo ancora aprire i

nostri computer, imparare come funzionano, farli funzionare meglio e, cosa più

importante, farli funzionare per noi.