Aleph - mostra collettiva

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Collettiva: Carlo Borin, Andrea Fabbro, Martino Genchi, Rachele Maistrello, Sara Mazzoni, Ordox Ortebla, Alberto Scodro, Claire Scoville, Marcello Spada, Chiara Zenzani «Un bicchierino di pseudo-cognac,» ordinò «e ti tufferai in cantina. Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l’oscurità, l’immobilità, una certa assuefazione dell’occhio. Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della relativa scala. Me ne vado, abbasso la botola e tu resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l’Aleph…» J.L.Borges “L’aleph”,1949.

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Alepha cura di Matteo Efrem Rossi e Tommaso Zanini9/15 Ottobre 2009

in occasione di Krossing, evento collaterale della 53. Esposizione Internazionale d’arte La Biennale di Venezia

Artisti partecipanti:Alberto Scodro, Andrea Fabbro, Carlo Borin, Claire Scoville, Chiara Zenzani, Martino Genchi, Marcello Spada, Rachele Maistrello, Ordox Ortebla, Sara Mazzoni.

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«Un bicchierino di pseudo-cognac,» ordinò «e ti tufferai in can-

tina. Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche

l’oscurità, l’immobilità, una certa assuefazione dell’occhio. Ti sdrai

sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo

gradino della relativa scala. Me ne vado, abbasso la botola e tu

resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi

minuti vedrai l’Aleph…» Carlos prese un sacco, lo piegò e lo

sistemò in un punto preciso.

«Il guanciale è umile,» spiegò «ma se lo alzo di un solo

centimetro non vedrai nulla e rimarrai confuso e vergognoso.

Sdraia in terra questo corpaccio e conta diciannove scalini».

Seguii le sue ridicole istruzioni; finalmente se ne andò. Chiuse

cautamente la botola; l’oscurità, nonostante una fessura che

in seguito distinsi, mi parve totale. Improvvisamente compresi

il pericolo che correvo: mi ero lasciato sotterrare da un pazzo,

dopo aver bevuto del veleno… sentii un confuso malessere,

che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto di un narcotico.

Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph».

Jorge Luis Borges, L’aleph,1949.

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Aleph è il nome della prima lettera dell’alfabeto fenicio e della prima lettera dell’alfabeto ebraico. Essa ha come corrispondente greco l’alfa, l’arabo alif e da questa lettera origina anche la A. In origine la sua forma assomigliava a una testa di bue stiliz-zata (aleph significava infatti “bue”). In seguito ad una rota-zione della lettera, connessa col variare del senso della scrittura, le due “corna” del bue sono diventate le due “gambe” della A stampatello. In questo senso si vuole suggerire uno slittamento della prospettiva a partire dal quale è possibile ampliare il senso del fare artistico e la percezione estetica dello spazio in cui ven- gono a vivere le opere. In un racconto dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, ispirato alla riflessione grammatologica talmudica, si suggerisce inoltre che attraverso l’aleph si con- centrino le tensioni che pervadono il tessuto della realtà ed, attraverso una adeguata disciplina interiore, si possa varcare quel punto che la lettera rappresenta per riuscire ad avere una visione dello spettacolo assoluto, senza per questo passare ad una dimensione altra e separata dalla parzialità della pro- spettiva che ci costituisce. In questo senso perciò, ogni opera dovrà contenere una poli-valenza strutturale capace di far inte- ragire la sua posizione ed i suoi materiali con i loro opposti: l’interno deve relazionarsi con l’esterno, l’insensibile con il sensibile ed il materiale con l’immateriale. L’opera di Alberto Scodro (pavimento) ha il pregio di rovesciare la direzione dell’orizzontale nel verticale, facendo compiere una rotazione di novanta gradi ad una superficie che non è mai soggetta

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ad un’esperienza diretta. Ogni opera dovrà rappresentare una soglia, qualcosa che si attraversa per giungere ad una altri-menti inaccessibile dimensione dello spazio. Perciò, la frui- zione delle opere sarà pensata per produrre delle condizioni di osservazione ed esperienza transitorie e di passaggio, in maniera tale che attra-verso la visione delle opere si passi da una dimensione all’altra avendo un punto di vista privile-giato in cui si genera la consapevolezza della soglia. In que- sto senso l’opera di Carlo Borin (installazione audio su scala) indica un percor-so da cui è possibile salire fino un punto di vista quasi integrale dell’intero spazio espositivo, valoriz-zando una prospet-tiva d’insieme che non è mai disponibile allo spettatore ordinario, ma che segretamente disinnesca il senso della disposizione e degli ambienti della mostra stessa. Ciò che vogliamo suggerire per realizzare le vostre opere è dunque analogo alla mossa del cavallo negli scacchi, in cui per ogni movi-mento che corrisponde ad un punto nella scacchiera - la vostra opera, l’aleph - si realizza un cambio di angola-zione del gioco all’interno della scacchiera stessa. Tommaso Zanini

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Caduceo, Alberto Scodro, installazione ambientale, 2009.

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Senza titolo, Alberto Scodro, installazione, 2009.

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Senza titolo, Carlo Borin, installazione audio, 2009.

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Carlo Borin, Senza titolo, particolari 1 e 2.

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Senza titolo, Carlo Borin, particolare.

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Senza titolo, Andrea Fabbro, installazione, 2009.

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Senza titolo, Marcello Spada, installazione sonora, 2009.

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Complementari della misura (valis), Martino Genchi, installazione, 2009.

Senza titolo, Claire Scoville, video, 2009.

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Martino Genchi, Complementari della misura (valis), particolare 1 e 2.

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Complementari della misura, Martino Genchi, installazione, 2009, particolare.

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Senza titolo, Rachele Maistrello, installazione, 2009.

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Tutte le immagini di Beatriz, Sara Mazzoni, fotografie, 2009, particolare.

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L’agente Christian, rapato, smilzo, abbronzato, vestito di nero come gli altri membri dell’agenzia Dott. Franco, mi mostrò la torre. Consisteva di un’unica stanza quadrata dal soffitto molto alto. Su ogni lato vi era una porta vicina all’angolo e ciascun muro misurava il doppio della larghezza della porta. A causa del forte vento che colpiva la regione le porte sbatte-vano tra loro e si richiudevano, e le serrature eran di nuovo schiantate - tale era la forza del vento. Ed era impossibile farsi un’idea dell’aspetto interno della stanza. Mi provai con forza a tenerne aperta una, ma le altre tre vi sbattevano contro. Balzar dentro fulmineamente approfittando dell’apertu-ra di una sarebbe stato come essere la vittima di un cerchio di gente armata di spranghe. Ma per un curioso fenomeno, di quelli studiati dalla fisica, se ci si manteneva a debita distan- za dall’edificio girandogli attorno si vedevano tutte e quattro le porte mantenersi aperte verso l’interno perpendicolari alla loro parete, in una immobilità che divideva la stanza in quat-tro. Vedere l’interno della stanza non era possibile - contem-plarlo concettualmente sì. Questa è la ragione per cui poi ho aquistato la torre, non certo perché Christian insisteva a ripe- termi: «È molto valida, la casa è molto valida.»

Giulio Bellocchio

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Design Marta Maldini, 2011