ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VERONA - Massimo Caiazzo · 2014-01-02 · Glossario 49 ... nato agli...
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Relatore tesi: Diplomanda:
Prof. M. Caiazzo Margherita Ruggieri
ANNO ACCADEMICO 2011/2012
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI VERONA
DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO
IN
PITTURA
TESI SCRITTOGRAFICA
L’estetica tra percezione e visione cromatica
Anomalie artistiche della mente
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Indice
Introduzione p...5
Il cervello 7
Come funziona 10
Visione. Dentro e fuori 12
Visione del colore 13
La neuroestetica 18
L’estetica del cervello 20
Coinvolgimento estetico 22
L’astrazione 23
Il concetto sintetico 24
L’arte irregolare 27
La malattia della creatività 30
L’arte schizofrenica: James Ensor 34
Disfunzioni cerebrali nell’arte 38
Otto Dix: distorsione artistica da ictus 40
Guarire con l’arte 43
Conclusioni 47
Glossario 49
Bibliografia 53
Ringraziamenti 57
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Introduzione
L’arte è un linguaggio semantico, nato agli albori dell’evoluzione umana che
racchiude in sè creatività e capacità tecnica; oggi si sa che può essere una forma
grezza di espressione del proprio inconscio, della propria anima, senza il filtro
imponente del razionalismo che governa irrimediabilmente la nostra espressività
dialettica. Ma cos’è l’arte per definizione? Domanda che nei secoli ha assillato
milioni di persone tra filosofi, scrittori, artisti, intellettuali, che hanno tentato in-
vano di rispondervi, fomentando testi ed elaborando tante definizioni quanti sono i
pensatori che hanno azzardato alla risoluzione dell’incognita. Ancora al giorno
d’oggi, nessuno ha potuto definirla; è un concetto incerto, talmente vasto ed ela-
borato, polivalente e poliedrico, tanto simbolico quanto concreto, sicché non può
esistere una definizione netta di “arte”, nonostante sia una pratica antica quanto
l’uomo, più della civiltà, del linguaggio e della scrittura! L’arte è una sorta di co-
municazione simbolica dell’espressione del proprio Io interiore, è tanto importan-
te quanto inclassificabile, perché è il risultato di un processo di elaborazione della
realtà da parte del cervello umano, un prolungamento di quest’organo,
un’espressione e una creazione del cervello stesso (Zeki, 1999). Si potrebbe pen-
sare di categorizzare il concetto, ma la scienza ha intrapreso un viaggio proprio tra
le sinapsi dell’encefalo, scoprendo che è talmente complesso, talmente elaborato e
sofisticato, da non poter esser compreso razionalmente. Non del tutto almeno. E
l’arte, in quanto trasformazione in concreto di un processo mentale non può che
essere altrettanto complessa. Per cui la scienza, soprattutto le neuroscienze, nel
tentativo di conoscere e comprendere il cervello, sia dal punto di vista biologico,
sia funzionale, affronta un viaggio attraverso la creazione dell’opera artistica. A
primo acchito potrebbe sembrare un’idea folle, siccome da secoli arte e scienza
vengono perentoriamente considerati agli antipodi, un connubio stonato. Eppure
la scienza studia il cervello, e il cervello produce arte. L’idea che la creatività non
fosse solo dominio artistico, ma potesse essere utile agli scienziati, l’ha avuta in
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particolare Semir Zeki, docente presso l’University College di Londra e direttore
del Dipartimento Wellcome di Neurologia Cognitiva.
Lui che, scienziato, ha sempre amato l’arte, visitato gallerie e musei, si chiese
un giorno cosa spingesse un uomo a comporre un quadro, come avvenisse il pro-
cesso creativo, che cosa accade all’interno della mente quando una persona osser-
va un dipinto. Così durante l’ultimo decennio del XX secolo nasce la neuroesteti-
ca, ovvero la neurologia dell’estetica (Zeki, 1999). Un termine bizzarro se si pen-
sa all’associazione che questi due campi potrebbero avere, eppure, si scopre oggi
quanto siano in armonia.
La neuroestetica vuole indagare e scoprire come funziona quella meravigliosa
macchina che ogni uomo possiede nella scatola cranica senza nemmeno realizzare
le capacità di cui è in grado, quell’organo così sconosciuto e misterioso, nonostan-
te decine di anni di ricerche, quel centro di potere che comanda e dirige le nostre
vite perlopiù a nostra insaputa, ma che ci da coscienza del mondo e del Sè. Sem-
brerebbe di parlare di un paradosso, invece è proprio il cervello, un miracolo della
natura, così relativamente piccolo, ma incredibilmente complesso e potente. Lì si
origina ogni più piccolo atto, pensiero, parola dell’uomo; in quella sfera che ricor-
da l’anatomia di una noce tutto il mondo circostante prende vita, la coscienza del
proprio essere e la realtà si conformano, ciò che vediamo esternamente si delinea,
tutto senza sosta, solo grazie a reazioni chimiche e stimoli elettrici.
Attraverso questi studi si potrebbe capire cosa spinge le persone a creare, come
nasce la creatività e, soprattutto, come una malattia mentale o una lesione cerebra-
le può influenzare e alterare la percezione del mondo e della realtà. Alcuni tra i
maggiori esponenti dell’arte di tutti i tempi, si è scoperto avessero lesioni cerebra-
li o soffrivano di malattie neurodegenerative o psicologiche, probabile causa della
loro percezione distorta del mondo, che ha però reso le loro elaborazioni artistiche
uniche e innovative.
Questa ricerca vuole insinuarsi nelle vie più recondite e sconosciute della men-
te, viaggiare tra le opere d’arte di importanti artisti di tutti i tempi per capire come
la mente umana riesca a produrre arte, cosa succede all’interno del cervello duran-
te l’atto creativo e la visione di un oggetto artistico, come quest’organo si rapporta
al mondo esterno.
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Il cervello
Tutta la nostra vita dipende da quest’organo, una palla da poco più di un chilo
che consuma il 20% dell’energia totale del corpo, in grado di percepire una real-
tà filtrata dalle proprie elaborazioni, creando illusioni e sensazioni, spingendo
l’artista verso scelte apparentemente inconsce.
Il cervello è l’organo più complesso degli esseri viventi. Una macchina instan-
cabile che, da quando nasce a quando muore, non cessa mai di lavorare, elaborare,
imparare e crescere. Gli uomini, seppur coscienti di averlo in testa, non si rendono
conto di quanto sia elaborato, della sua complessità, della sua infinita potenzialità,
eppure rimarremmo affascinati e sconvolti scoprendo quanto il cervello umano sia
in grado di fare. A differenza dei mammiferi e altre specie viventi, gli esseri uma-
ni hanno potenzialità incredibili e inspiegabili, ciò che ci rende unici o, per dirla
con un termine di Darwin, “angeli caduti”.
Esso è composto da 3 parti principali: il cervello primitivo, il cervello limbico e
la corteccia cerebrale.
La tripartizione del cervello elaborata dal neuroscienziato P. MacLean
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Il primo consiste nel cervello primario, rettiliano, antico di 450milioni di anni,
alla base dei comportamenti istintivi e incapaci di adattamento, adibito alla ge-
stione del pericolo, alla salvaguardia dell’individuo e la sua funzione consiste nel
garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, come mangiare, dormire, bere e
riprodursi. Agisce in modo rigido e stereotipato, si trova nel diencefalo, mesence-
falo e in parte anche nel telencefalo.
Il cervello limbico, da latino limbus (bordo), avvolge il cervello arcaico e rap-
presenta la sede dell’emotività; il sistema limbico comprende tra gli altri
l’amigdala, il cingolo anteriore, l’ipotalamo, l’ippocampo. Esso contribuisce al
controllo delle emozioni, che si occupa di attribuire agli eventi vissuti, registrando
le esperienze di vita sotto forma di sentimento, creando una relazione empatica
con l’ambiente circostante. In particolare l’amigdala provvede ad innescare, attra-
verso l’ipotalamo, opportune reazioni a oggetti, persone e situazioni, mentre alla
sua funzione affettiva presiedono in parte i lobi frontali. Il cingolo anteriore pare
sia importante nel libero arbitrio, nella vigilanza e nell’attenzione.
L’ippocampo svolge funzioni essenziali quali la percezione dello spazio, la
memoria a lungo termine e l’inibizione.
Lesioni a questa zona del cervello causano gravi difficoltà a rapportarsi con gli
altri, a provare emozione ed empatia, quindi a stabilire relazioni sentimentali con
le persone.
Infine, più esternamente si trova la neocorteccia, la cui superficie è percorsa da
solcature e sporgenze flessuose che consentono un ampliamento della corteccia
cerebrale dette circonvoluzioni cerebrali; fondamentale per la capacità linguistica,
la comprensione delle relazioni, il pensiero astratto e la percezione del Sé. Forma-
ta da materia neuronale, riveste completamente il cervello, ed ha l’importante
compito di regolare e moderare le emotività dell’amigdala, garantendo un atteg-
giamento “civile”.
Esistono diverse metodologie di suddivisione dell’encefalo a seconda
dell’anatomia, quindi a livello sagittale distinguendo cosi l’emisfero destro e
quelllo sinistro, sia secondo la struttura ossea del cranio, da cui i diversi lobi pren-
dono il nome.
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Gli emisferi sono collegati rispettivamente alla parte opposta del corpo, divisi
da un corpo calloso, il grande fascio di fibre nervose che consente loro di interagi-
re. Per credenza popolare si attribuiscono funzionalità distinte alle due parti pre-
sumendo che il destro abbia capacità creativa, rilegando al sinistro le rigidità del
razionale. In parte lo si può considerare corretto, siccome gli emisferi hanno abili-
tà specifiche dovute alle aree di specializzazione distribuite nel cervello; ad esem-
pio l’area di Broca e area di Wernicke, preposti al linguaggio, si trovano
nell’emisfero sinistro. Da qui si può desumere che l’emisfero destro sia la parte
dedita alla sintesi, al linguaggio visivo, intuitivo e percepisce per insiemi;
l’emisfero sinistro è legato all’analisi, alla comunicazione verbale, alla logica e
percepisce per sequenze.
La zona corticale, legata al pensiero, comporterà nell’emisfero sinistro una ca-
ratterizzazione per l’analisi, l’astratto, la tecnica e la logica, mentre la zona limbi-
ca attingerà al compito dell’organizzazione e il controllo. Per l’emisfero destro, la
cui area corticale è concentrata sull’intuizione, la sintesi, la creazione e il mondo
concreto, la zona limbica, legata alle emozioni, sviluppa la comunicazione,
l’espressione e i contatti umani.
La suddivisione dei lobi riguarda invece entrambi gli emisferi, e si distinguono
in quattro parti:
lobi frontali, comprendono la corteccia motoria, premotoria e la corteccia pre-
frontale, sede dell’etica, della personalità e altri attributi esclusivamente umani;
Suddivisione del cervello in lobi
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lobi temporali, presiedono alla percezione acustica e a quella visiva di volti e
oggetti, all’acquisizione di nuovi ricordi e controllano il comportamento emotivo;
lobi parietali, provvedono alla propriocezione e alla coordinazione dei movi-
menti, come la scrittura;
lobi occipitali, individuabili posteriormente, sono interamente deputati alle
aree della visione.
Come funziona
Quest’organo così complesso è la fonte di ogni singolo movimento dell’uomo,
ogni pensiero, parola o idea. Per ogni attività compiuta dal corpo o a livello men-
tale, il cervello lavora ad una velocità sorprendente; si pensi, ad esempio, alla
scrittura manuale, un gesto automatico che svolgiamo senza riflettere che compor-
ta l’attivazione di più aree cerebrali: da quella specializzata nel movimento moto-
rio, alla memoria procedurale (che ha il compito di memorizzare le azioni abitudi-
narie consentendoci di svolgere attività in modo “inconscio” come andare in bici-
cletta), la visione, il cervelletto che agisce per regolare la sincronia dei movimenti
ecc.. e solo per il movimento della mano necessitiamo di centinaia di micromovi-
menti al minuto!
Tutta questa capacità di coordinare contemporaneamente migliaia di attività
all’interno di un organo così relativamente piccolo, è dato dalla fitta rete di comu-
nicazione tra neuroni: cellule cerebrali che si trovano nel cervello e nel midollo
spinale, formati da un nucleo, un prolungamento fibroso detto assone per inviare
stimoli, e dai dentriti, prolungamenti arboriformi dalla testa del nucleo che rice-
vono i segnali inviati da assoni di altre cellule. Queste relazioni permettono la tra-
smissione di messaggi via stimoli elettrici da un neurone ad un altro, per la più
parte grazie ad un processo detto sinapsi: dato che le cellule sono separate da un
micro spazio (detto spazio sinaptico) che il segnale elettrico non può attraversare,
esso viene provvisoriamente convertito in segnale chimico, per cui il neurone pre-
sinaptico libera un neurotrasmettitore in grado di raggiungere il neurone successi-
vo, momento in cui il segnale ritorna di natura elettrica.
Così avviene che i cento miliardi di cellule cerebrali comunicano tra loro in-
viando segnali elettrici o chimici, a seconda del tipo di neurone coinvolto nel mes-
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saggio, ed essendo ognuno composto da decine di dentriti, è collegato ad altrettan-
te cellule, formando una fitta rete di collegamenti, necessaria al passaggio di se-
gnali e al funzionamento dell’organo altrimenti incapace di tutte le sue facoltà,
siccome è l’interazione tra neuroni in grado di dare vita al cervello per come lo
conosciamo, mentre una cellula da sola sarebbe inutile e interdetta
all’espletamento di qualsiasi azione.
Resta un mistero come questi stimoli riescano ad esser interpretati a livello
conscio, come possano acquisire la forma di messaggi decifrabili, eppure tutto ciò
che siamo, pensiamo, capiamo è dato da micro-scosse elettriche o reazioni chimi-
che trasmesse da miliardi di cellule grandi pochi millesimi di millimetro, destinate
ad invecchiare e causare la degenerazione cerebrale, stante che, contrariamente al-
le altre cellule del corpo, non sono in grado di rigenerarsi, anche se di recente si è
scoperta la neurogenesi in alcune parti del cervello.
Pare infatti che ci sia qualche componente (forse l’ippocampo) in grado di ri-
generare le proprie cellule, in condizioni favorevoli, quando si conduce una vita
attiva sia fisicamente che mentalmente. Il problema permane, in quanto non tutti i
neuroni vengono ricreati autonomamente dal cervello e ciò comporta inevitabil-
mente l’invecchiamento e il deperimento delle sua abilità. Per questo motivo, in-
vecchiando, le capacità intellettive diminuiscono, si perde la memoria, si è più
lenti nella comprensione e nelle attività in genere; in particolare, un estremo in-
vecchiamento cellulare, provoca l’Alzheimer e il Parkinson.
Diversi studi negli ultimi anni hanno tentato di capire se fosse possibile, attra-
Il neurone nelle sue parti e gli stimoli input e output
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verso le cellule staminali, riprodurre questi neuroni e si suppone che in un futuro
prossimo sarà una meta raggiungibile. Ciò significherebbe guarire da quelle ma-
lattie oggi definite irreversibili.
Le cellule staminali, contrariamente a ciò che la più parte delle persone pensa,
non sono artificiali o mostruose, ma vengono ricreate da quelle già esistenti con
l’ausilio di un laboratorio: viene prelevata una parte di tessuto o midollo ricco di
cellule in grado di svilupparsi e adattarsi all’ambiente circostante, per cui una vol-
ta inserite in un nuovo habitat e lasciate abituare, si trasformano in base ai bisogni
richiesti dal nuovo sito, imparando a svolgere i compiti adibiti alla posizione che
ricoprono. Ciò consentirebbe un ricambio di cellule cerebrali invalide, mantenen-
do una mente giovane e attiva anche in età avanzata, combattendo malattie cere-
brali degenerative.
Il cervello, nonostante i notevoli sviluppi scientifici, rimane ad oggi un vero
mistero: come agisce, come si attiva nelle diverse situazioni, come nasce il pen-
siero, come funziona l’immaginazione e la proiezione di immagini mentali, o, an-
cora, come riesca a creare i sogni. L’unica certezza è la sua incessante attività, la
sua incredibile capacità di adattamento e le potenzialità apparentemente poco
sfruttate.
La visione. Dentro e fuori
L’uomo, per poter interagire con il mondo esterno, ha bisogno di conoscerlo e
di capirlo. Questo processo avviene per gran parte tramite i cinque sensi, ed in
particolare, la vista. I sensi sono ciò che consentono al corpo di entrare in diretto
contatto con la realtà circostante e questi mandano messaggi al cervello perché lui
possa ricreare l’ambiente, capirne e conoscerne l’essenza. La vista è il senso più
rapido e utile alla scoperta del mondo, peraltro l’unico direttamente collegato al
cervello.
Esso adempie al suo compito di conoscere creando dei concetti: immagini e
idee formate da tutto ciò che coglie all’esterno, assumendo solo i dati fondamenta-
li e scartando i miliardi di stimoli meno importanti. Ad esempio, una casa la si ri-
conosce come una casa, indipendentemente dall’angolazione dalla quale la si os-
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serva, dal colore, dalla luce, dalla forma (Zeki, 1999). Eppure tutte le case sono
diverse, ma noi la riconosciamo; così come una macchina, un viso e una bicicletta.
Qualsiasi cosa il nostro cervello abbia avuto modo di vedere, ne ha riassunto le
caratteristiche fondamentali comuni e ne ha elaborato un concetto, uno schema,
per potersi destreggiare in un mondo che cambia continuamente e che invia inces-
santemente migliaia di segnali che altrimenti ci confonderebbero. Abbiamo quindi
la necessità di creare delle costanti, elaboriamo le informazioni per creare concetti
astratti, ma essenziali, e siamo in grado di riconoscere tutto proprio grazie a que-
sto processo di elaborazione e immagazzinamento.
Non bisogna però dimenticare che il cervello elabora la realtà a modo suo, co-
me più gli conviene, come meglio gli permette di destreggiarsi fra tutti i dati rice-
vuti e ciò significa, inevitabilmente, che la realtà circostante non la viviamo per
come è, ma per come la interpreta il nostro cervello. Egli cerca sempre la risposta
più ovvia, veloce e semplice; ciò comporta innanzitutto la formazione delle illu-
sioni ottiche: risposte che il cervello elabora di fronte a scene altrimenti inspiega-
bili razionalmente, e per facilitare l’adattamento crea dinamiche al suo interno che
non corrispondono alla realtà concreta, come ad esempio la visione del colore.
Il colore come proprietà oggettiva non esiste nella realtà, ma è un risultato del
processo di rielaborazione svolta dal cervello. Ancora più affascinante e inspiega-
bile, è il processo con cui esso riesce a proiettare immagini mentali; quando pen-
siamo a qualcosa, a un oggetto, riusciamo a visualizzare l’immagine nella mente,
ma non si conosce l’origine di questo fotogramma, dove venga proiettato e dove si
formi.
La visione del colore
Il colore non è una caratteristica personale degli oggetti, bensì una questione di
sensibilità del cervello umano alle onde della luce, la quale essendo composta da
raggi di lunghezze d’onda di diverso grado colpisce i coni, che a loro volta invia-
no il segnale ricevuto al cervello. Qui avverrà il riconoscimento del colore tramite
alcuni processi, come la costante cromatica.
L’occhio umano è composto da bastoncelli, microscopiche particelle che con-
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sentono la visione scotopica, e da coni, sensibili alle lunghezze d’onda della luce,
che sono di tre tipi: rossi, verdi e blu, per percepire rispettivamente onde lunghe,
medie e corte.
L’organo riesce a decodificare onde che vanno da 400 µm a 700 µm, segnali
raccolti dai coni e inviati tramite la corteccia visiva all’area deputata alla visione
V1.
Si è infatti scoperto che esiste un’area, situata nella parete posteriore
dell’encefalo, nel lobo occipitale, totalmente dedicata alla visione, dove si trovano
circa una trentina di aree minori specializzate alla visualizzazione di attributi della
scena. Tutte le informazioni passate dall’occhio, arrivano all’area V1, l’area mag-
giore, dove avviene un processo di scrematura di tali informazioni: qui sono pre-
senti milioni di cellule, ognuna sensibile a una precisa caratteristica di ciò che si
osserva, ad esempio il colore, la forma, il movimento. Ogni particolare attributo
stimolerà le particelle predisposte al riconoscimento della caratteristica che esso
richiama; cellule sensibili al rosso risponderanno solo nel caso in cui si presenti
una luce composta di onde lunghe, quelle sensibili al movimento verso destra rea-
giranno solo quando si manifesta un movimento in tale direzione. I neuroni, ri-
spondendo allo stimolo, si eccitano, ovvero producono un movimento per cui si
accelera il loro metabolismo, consumando più energia, il che richiede una mag-
giore concentrazione di sangue in quel punto per ricevere l’ossigenazione necessa-
ria. Da questo presupposto è stato possibile inventare la fMRI, la risonanza ma-
gnetica nucleare funzionale, uno degli strumenti utilizzati dai medici per
l’osservazione dell’attività cerebrale.
Lo spettro elettromagnetico visibile all’occhio umano
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Successivamente, i messaggi decodificati nell’area primaria passano per V2,
che si accerchia alla zona precedente, dove avviene un’ulteriore scrematura. Ciò
significa quindi che le prime due aree sono addette al riconoscimento superficiale
dei dettagli scenici grazie a insiemi di neuroni specializzati. Da qui i segnali speci-
fici vengono trasmessi all’area specifica: si trovano quindi ulteriori aree minori,
sempre circoscriventi l’area primaria V1 nelle quali le cellule sono unicamente
preposte al riconoscimento degli stimoli legati ad un solo attributo: forma, colore,
movimento, contorno..
La visione del colore, come accennato precedentemente, consiste in un attento
e preciso calcolo da parte del cervello; questo perché gli stimoli luminosi che so-
praggiungono ai nostri occhi sono infinti e sempre diversi, rischiando di mandarci
in confusione. Così la visione si adatta a poter riconoscere una foglia verde anche
al tramonto, quando la luce è rossa, a percepire la nostra casa sempre dello stesso
colore anche in un giornata grigia. Il processo, detto costanza cromatica, avviene
sottraendo alla luce della rifrazione dell’oggetto osservato il resto della scena, cal-
colando una media del colore circostante. Non semplice da capire o da spiegare, si
tratta di un’elaborazione complessa, e stupefacente. Questa facoltà avviene
nell’area V4, mentre altre aree importanti sono V3 che si occupa della forma, la
V3a decodifica i contorni e la V5 dedita al movimento cinetico.
Le principali aree visive nel lobo occipitale
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La visione modulare consente all’uomo di vedere nonostante lesioni a determi-
nate aree; ad esempio, una lesione all’area V4 comporta l’acromatopsia,
l’incapacità di percepire i colori. In tal caso si mantiene una visione completa e
ben dettagliata, nonostante la totale deficienza cromatica. Contrariamente
all’acromatopsia genetica che comporta altri disfunzionamenti e alterazioni nella
visione, la lesione all’area dei colori comporta disabilità solo nella percezione
cromatica. Una lesione all’area V5 invece comporta achinetopsia, l’incapacità di
percepire il movimento. Per quanto sembri di poco conto, questa lesione influenza
gravemente la vita quotidiana dei soggetti lesi: non sono nemmeno in grado di
versarsi il caffè nella tazzina, perché non vedono che questa si riempie.
Di maggior gravità è una lesione all’area principale, V1, che consiste in una
cecità totale, o quasi. Si è scoperto infatti che la visione attraversa il nervo ottico,
il canale principale per sfociare in quest’area, ma in realtà, vi è un collegamento
diretto anche tra gli occhi e l’area V5; ciò significa che persone totalmente cieche
a causa di lesioni cerebrali all’area V1 sono comunque in grado di percepire i mo-
vimenti provenienti dal mondo esterno. Essendo appunto V5 specializzata alla
percezione del movimento, è possibile che, per quanto questi soggetti non siano in
grado di vedere, riescano comunque a percepire gli oggetti che effettuano un so-
stanziale spostamento nello spazio, ad una certa velocità.
Tuttavia, è ormai risaputo che il cervello è una macchina ingegnosa e piena di
risorse, e in mancanza della principale fonte di acquisizioni di conoscenza del
mondo esterno, i non vedenti possono comunque nutrirsi di informazioni grazie
allo sviluppo maggiore degli altri organi di senso; questi infatti, dovendo compen-
sare alla mancanza della vista diventano più sensibili alla ricezione di stimoli,
permettendo loro di acquisire maggiori informazioni sul mondo tramite l’udito, il
tatto, il gusto e l’olfatto. Ma è stato dimostrato come queste persone siano co-
munque in grado di disegnare e dipingere, nonostante non abbiano mai visto
un’immagine; ciò è forse dovuto a schemi cerebrali ereditari innati.
Così avviene anche per chi è colpito da acromatopsia, che non vede i colori,
non fanno più parte del suo mondo, non può ricordarli visivamente, ma pare che
alcuni continuino a sognarli nei primi periodi successivi alla lesione. Questo fe-
nomeno della capacità di proiezioni immaginifiche interne al cervello resta un
completo mistero anche per la scienza, che riguardi la visione onirica di colori in
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pazienti acromati, o che riguardi persone totalmente cieche dalla nascita in grado
di disegnare.
Ormai di fama mondiale è appunto il caso del pittore turco Eşref Armağan, co-
nosciuto per i suoi dipinti un po’ naïf e semplici, ma di grande sensibilità cromati-
ca. Forte di una tecnica quanto mai bizzarra, Eşref si fa strada tra i suoi lavori di-
pingendo con le dita, ottenendo una tridimensionalità ed una prospettiva realisti-
che.
Nulla di eccezionale per un pittore, ma assolutamente incredibile se si tiene
conto di un dettaglio piuttosto rilevante: Eşref è cieco dalla nascita.
Eşref Armağan (1953), olio su tela
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La neuroestetica
Presupponendo che la scienza sia in grado di dare risposte convincenti a dub-
bi apparentemente insolubili, accettiamo che le sue scoperte a livello estetico sia-
no abbastanza soddisfacenti per chiarire alcuni nodi filosofici antichi come l’arte.
La neuroestetica è un ramo delle neuroscienze, nata poco più di vent’anni fa
grazie alla curiosità e l’intraprendenza di uno neurobiologo inglese, il professor
Semir Zeki, docente presso l’University College di Londra e direttore del Dipar-
timento Wellcome di Neurologia Cognitiva, che decise di avviare delle ricerche
sperimentali sulla visione cerebrale. I suoi studi consistono nel capire il cervello
tramite lo studio dell’arte, delle opere di grandi artisti e conducendo sperimenta-
zioni sulla visione di soggetti perlopiù cerebrolesi o malati. Il suo team è costituito
da specialisti tra i più impensabili, da scienziati, a storici dell’arte e critici, pronti
ad indagare e analizzare i più svariati settori: l’arte pittorica, la scultura, la musi-
ca compositiva, la filosofia, la psicologia e, ovviamente, il tutto analizzato da un
punto di vista scientifico neurologico. Inizialmente ciò comportò un notevole ri-
schio, poiché da secoli gli uomini distinguono i settori della scienza e dell’arte, ri-
tenendoli totalmente opposti, cosa che invece lo scienziato credeva sbagliata.
Padre fondatore della neuroestetica, Semir Zeki ha portato la conoscenza del
cervello umano a livelli incredibili, non solo per quanto riguarda la visione, ma
anche la percezione, la coscienza e la capacità di astrazione (Zeki, 2010).
Negli ultimi anni si sono interessati a questo ramo diversi studiosi, scienziati,
neurologi, professori, portando avanti ricerche e studi, andando, poco alla volta, a
svelare la relazione tra la creatività, l’arte e il cervello. Tra questi è importante ci-
tare il professor Vilayanu S. Ramachandran, direttore del Center for Brain and
Cognition dell’Università della California, dove insegna psicologia e neuroscien-
ze, il quale ha dato un importante contributo al settore grazie alle sue ricerche.
La neuroestetica non vuole minimizzare la grandezza artistica a mere questioni
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neurali, bensì tenta di capire come il processo artistico avviene nelle persone, per-
ché non tutti riescono a compiere capolavori michelangioleschi, come si forma
nell’uomo il concetto di bello e come funziona il processo di visione e immedesi-
mazione in un’opera d’arte.
Tutti i cervelli funzionano allo stesso modo, in tutti è una questione di impulsi
elettrici e chimici, eppure i gusti di ognuno sono diversi di fronte ad un quadro,
una statua o una canzone…
La domanda sorge spontanea, perché? Per rispondere ad un tale quesito,
dall’apparenza banale, dovrà passare ancora tantissimo tempo e dovranno essere
svolte infinite ricerche, se non che questa sia una domanda alla quale una risposta
definitiva non potrà mai essere data.
Ciò non impedisce che vengano fatte diverse supposizioni, appoggiandosi a pi-
lastri della filosofia quali Platone, Nietzsche, Kant, passando da Freud e altri, ana-
lizzando e comparando studiosi di rilievo del campo e, perché no, lasciandosi gui-
dare un po’ dal proprio intuito.
Il concetto di arte è da tempi immemorabili legato all’idea del bello, soprattutto
nell’arte occidentale. La questione dell’estetica in campo artistico è notoriamente
alla base della sue evoluzione espressive e stilistiche, così come lo è il concetto di
bello, anche se, bisogna tenere presente la differenza etimologica tra i due termini:
bellezza, dal latino bellus (grazioso), inteso come un oggetto o emozione percepi-
ta che susciti sensazioni piacevoli; estetica deriva dal greco aestesis che significa
sensazione, termine inizialmente utilizzato per discipline della percezione e del
sensibile, e solo dal XVIII secolo rilegato al campo artistico, anch’esso ricono-
sciuto come disciplina solo dalla metà del 1700.
Ad oggi le scuole che si occupano dell’estetica dell’arte, di creatività, perce-
zione e di concetto di bello sono diverse; la più influente del XX secolo è stata la
Gestalt1, che attraverso lo studio della percezione visiva va a sondare il concetto
di bello e stabilisce leggi stilistiche e visive per l’elaborazione delle sue teorie. Il
campo della neurologia indaga l’arte per capire come il cervello umano funziona,
spiegando i meccanismi della visione, percezione, bellezza e creatività da un pun-
1 La Gestalt è una disciplina nata agli inizi del 1900 in Germania, con l’intento di studiare la rela-
zione tra percezione umana e realtà, disponendo delle leggi universali secondo cui la visione si rapporta al mondo, e concentrando le sue ricerche sullo studio di opere d’arte.
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to di vista strettamente scientifico e neurale. In termini riduzionistici, tutto avvie-
ne grazie alle cellule cerebrali: a seconda degli impulsi, delle scariche eccitatorie o
inibitorie, delle sinapsi, l’uomo vive il suo rapporto con la realtà e l’arte. Ma ciò
non significa che tutti debbano assecondare tali teorie, per questo motivo la strada
per individuare una risposta congeniale a tutte le scuole di pensiero e le menti
umane su ciò che è il concetto di arte e tutti i filoni ad essa correlati, sarà ancora
molto lunga, tortuosa e fortemente dibattuta.
Estetica del cervello
Il professor Zeki definisce gli artisti, in particolare i pittori, dei neurologi in-
consapevoli: essi percepiscono il mondo come qualsiasi altra persona, ma hanno
la capacità di astrarre la realtà e rielaborarla tramite la creatività, svolgendo così
una ricerca dell’essenziale per poter esprimere un mondo filtrato dalla propria
mente, cosa che anche il cervello espleta per prendere coscienza del mondo circo-
stante (Zeki, 1999). Arte e cervello hanno appunto in comune la necessità di as-
sorbire informazioni e stimoli in grandi quantità, e a seguito dell’eliminazione di
tutto il superfluo, focalizzare un’idea precisa e trasformarla in concetto essenziale.
Ecco che gli artisti, nella reinterpretazione della loro realtà, ricercano
l’essenziale, proprio come il cervello lavora per conoscere il mondo.
D’altra parte, l’arte è un proseguimento del cervello, un suo prodotto; si po-
trebbe quasi azzardare un assunto del tipo: “l’arte è la concretizzazione del fun-
zionamento del cervello”. La produzione d’arte resta strettamente connessa
all’estetica, ad oggi delimitata ad un’estetica del bello, dove l’opera deve piacere
all’osservatore anche dal punto di vista fisico. Il concetto di bello è variato nei se-
coli: da quando, nel Rinascimento era legato alla verosimiglianza, per diventare
una questione di fronzoli e fastose decorazioni nel periodo barocco, passando per
l’emotività suscitata dai colori e i temi del Romanticismo, fino ad arrivare al ‘900
dove il bello era fondamentalmente “brutto”.
Al giorno d’oggi vi è un’estetizzazione del mondo, in tutti i settori, dove si ten-
de a rendere bello qualsiasi cosa, dilagando arte ovunque, nel quotidiano, lascian-
do così decadere il valore di bello e di arte, in una società che oramai reputa tutto
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arte e non la riconosce più come valore, ma solo come principio estetico (Franck,
2010). Ma qui si prenderebbe una strada di riflessione filosofica che non rientra
nei piani, per cui mi limiterò a reclamare quanto la nozione di bellezza oggi sia
sfumata rispetto alla sua originale concezione, ma rimane pur sempre un rompica-
po per studiosi e filosofi.
L’estetica è centrale nella vita degli esseri umani (e non solo) anche per la ri-
produzione della specie: secondo alcuni studiosi, il cervello individua e viene at-
tratto dalla simmetria, anche nel sociale, dove un partner con una corretta simme-
tria del volto è percepito come sano, perché non presenta le microdeformazioni
tipiche di parassiti che attaccano il feto, quindi è un ottimo partito per la prosecu-
zione della specie (Ramachandran, 2012).
Il professor Ramachandran, già citato precedentemente, fautore di importanti
scoperte a livello neurologico per la riabilitazione da dolori cronici, ha affrontato
il connubio estetica-scienza, ribadendo nel suo ultimo libro “L’uomo che credeva
di essere morto”, come la prima non consista in una ricerca del bello esclusiva-
mente umana, giacché animali come il ptilonorinco maschio, un uccello
dell’Australia, crea nidi spettacolari, colorati e fastosi seguendo alcuni princìpi ar-
tistici come il contrasto e la simmetria per attirare le femmine. Anche i fiori si so-
no evoluti in organismi esteticamente belli, non tanto per il piacere umano, ma per
attirare le api, così uccelli e animali di varie specie sono di una bellezza imbaraz-
zante, variopinti e simmetrici, per assicurare la riproducibilità della razza.
A questo punto non sarebbe del tutto errato affermare che l’estetica sia un con-
cetto legato alla sopravvivenza.
Ramachandran delinea nove regole dell’estetica, sulle quali si dovrebbe basare
l’arte, intesa come percezione estetica. Non è necessario riportarle qui, basti pen-
sare che queste leggi si rifanno a nozioni percettive che suscitano piacere
nell’osservazione, ma furono inizialmente, ai tempi dell’evoluzione degli ominini,
soluzioni visive necessarie alla mera sopravvivenza, al riconoscimento di pericoli
e alla riproduzione.
Pare infatti che la capacità di raggruppare percettivamente macchie di colore
alternate ad altre tonalità (raggruppamento percettivo), abbia permesso ai nostri
antenati di riconoscere predatori nascosti tra le piante, consentendo la fuga; per
questo la visione si è specializzata nel mettere in risalto colori ad alto contrasto fra
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loro, piuttosto che tonalità prossime (viene citato l’esempio del leone, giallo-
arancio, nascosto dietro piante verdi).
Così come la visione del colore si è evoluta per riconoscere le femmine in gra-
do di riprodursi, o per localizzare meglio i frutti maturi in mezzo al fogliame e via
discorrendo. Altre proprietà inscindibili dell’estetica sono l’ordine, la simmetria,
come già detto in precedenza, e la metafora, prerogativa unica e incredibile degli
esseri umani. La metafora non è solo legata al linguaggio, ma viene fortemente
utilizzata nell’arte figurativa per richiamare simbologie, significati complessi e
molto più sottili di quelli elaborati dal linguaggio.
Altre importanti regole secondo lo scienziato per la fruibilità artistica sono il
contrasto e il peak shift, ovvero l’esagerazione di alcuni tratti, oltre alla normalità
(spiegando così l’esteso apprezzamento per le caricature).
Coinvolgimento estetico
Parlando di contemplazione di un’opera d’arte, non è possibile omettere la fun-
zione svolta dai neuroni specchio. Scoperti solo nel 1995 da ricercatori coordinati
dal professor Giacomo Rizzolatti, presso l’università di Parma, hanno apportato
una grande rivoluzione in ambito scientifico. Gli esperimenti furono condotti sulle
scimmie, nelle quali fu osservato come alcune cellule nel lobo frontale scaricava-
no osservando un loro simile, o anche un esser umano, compiere un gesto come
prendere in mano un oggetto. La sorpresa maggiore è stata realizzare come queste
fossero le stesse che si attivano quando è la scimmia stessa a compiere il gesto.
Nell’uomo è più difficile riuscire a studiare e verificare questo sistema neurale,
visibile grazie a macchinari come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), ma
si è comunque giunti alla conclusione che i neuroni specchio ci consentono di si-
mulare le intenzioni di un nostro simile che compie un gesto o di “leggere” nella
sua mente.
Esistono neuroni specchio del tatto, che si attivano quando veniamo toccati e
quando osserviamo qualcuno che viene toccato, quelli connessi all’azione e al ri-
conoscimento delle espressioni facciali e quelli coinvolti nel senso di empatia e
intelligenza emotiva. Incredibilmente queste cellule si comportano allo stesso mo-
do di quando siamo noi stessi a compiere un’azione, per cui è grazie all’intervento
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di qualche altro fattore inibente che non scattiamo a prendere la tazza del nostro
amico nel momento in cui sta per bere il caffè. Non si è ancora scoperto come
l’inibizione avvenga, ma è essenziale per impedirci di ballare a teatro guardando
un ballerino sul palco; guardare qualcuno danzare attiva questi neuroni, per cui
abbiamo un impulso di lanciarci in un ballo improvviso, un’opera d’arte scatena
una risposta empatica, facendoci sentire le stesse pulsioni rappresentate, se ve-
diamo qualcuno soffrire, proviamo tristezza, per lo stesso motivo per cui ridiamo
quando qualcuno ride.
Il meccanismo di queste cellule è piuttosto complesso da capire, ma è grazie a
loro che siamo in grado di provare empatia e apprezzare l’arte, lasciandoci esterre-
fatti di fronte ad un quadro emotivamente coinvolgente.
L’ipereccitazione dei meccanismi di immedesimazione, attuati dai neuroni
specchio, pare siano la causa scatenante della sindrome di Stendhal, il disturbo
psicosomatico che colpisce persone particolarmente sensibili intente a contempla-
re un’opera artistica, che si manifesta solo temporaneamente e provoca tachicar-
dia, vertigini, confusione e allucinazioni.
L’astrazione
Partendo dal presupposto che il cervello, per quanto lo si conosca oggi anato-
micamente, è una macchina che opera misteriosamente per la maggior parte delle
sue facoltà, non è chiaro come e che cosa gli consentano di attivare le facoltà su-
periori (il pensiero), come riesca a rapportarsi al mondo, cosa lo spinga a costruire
schemi e concetti secondo un certa impostazione, e soprattutto, intellettuali di tut-
te le epoche si chiedevano e si chiederanno se la realtà che l’uomo vede è oggetti-
va o soggettiva, se è reale o solo una costruzione del nostro cervello.
Secondo la neuroestetica (Zeki, 2010), la mente è in grado di creare concetti
sintetici e astrarre la realtà. Ciò significa che egli assorbe i dati essenziali che pro-
vengono dall’esterno, li scarta, selezionando solo quelli essenziali alla conoscenza
del mondo, successivamente li immagazzina astraendoli, ovvero formando
un’“idea” generica su ciò che esiste in concreto. Ad esempio, Platone scriveva
come la pittura fosse una delusione perché incapace di rendere un’idea completa
di un determinato oggetto (nel suo caso parlava di un letto). Il letto dipinto è solo
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un’immagine, vista da una certa prospettiva, non è l’idea che si ha dell’oggetto, la
quale può crearla solo il cervello che anche se vede il letto da un’angolazione, ha
la capacità di visualizzarlo interamente in modo astratto, cosa che la pittura non
può fare. Zeki afferma quindi che il cervello è in grado di farsi un’idea sul concet-
to di letto, lo vede in modo completo al suo interno, lo riconosce da qualsiasi an-
golazione e in qualsiasi condizione di luce. Come questo sia possibile, resta igno-
to. Non si sa come e dove venga proiettata l’immagine mentale, di fatto, siamo in
grado di visualizzare a grandi linee qualsiasi cosa facendo riferimento a schemi o
oggetti già conosciuti.
La capacità di astrazione è una proprietà miracolosa del cervello umano, che
non solo organizza il mondo visivo, riconoscendo oggetti e volti, ma si estende a
nozioni del linguaggio, delle emozioni e del tempo-spazio (Ramachandran, 2012).
L’essere umano è l’unico in grado di astrarre l’idea di tempo, creando mentalmen-
te una linea temporale tra passato e futuro, così come è in grado di visualizzare
spazi numerici, e riesce ad affibbiare molteplici significati ad una singola parola,
caratteristica basilare per la metafora.
Concetto sintetico
Il cervello, oltre a visualizzare l’idea generale degli oggetti per riconoscerli,
crea anche dei concetti sintetici di nozioni astratte; ciò significa che crea un con-
cetto suo su ciò che è l’amore, la bellezza, la felicità (Zeki, 2010).
Questi sono il risultato di tutte le informazioni pervenute dal mondo esterno e
conciliate in un unico ideale; i concetti necessari al cervello al suo sviluppo e con-
fronto con la realtà, sono di due tipi: i concetti ereditari, ovvero quelli che si in-
staurano tramite la famiglia, per questioni genetiche e attraverso la società
all’interno della quale si cresce, e concetti acquisiti, ovvero tutto ciò che si impara
nel corso della vita, tramite le esperienze. I concetti sintetici sono quindi il risulta-
to di una sintesi di tutto ciò che il cervello ha elaborato nel corso della vita, da ciò
che gli è stato tramandato a ciò che ha imparato autonomamente. L’idea di amore
o di bellezza potrebbe quindi essere, oltre a tutte le filosofie che ne sostengono
un’idea, un concetto nato dalle influenze della famiglia, della società, delle pro-
prie esperienze e così via. Ciò porterebbe a pensare che bellezza e amore, così
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come l’arte, la felicità e tante altre nozioni per cui l’uomo ha sempre spremuto le
proprie meningi nel tentativo di definirle, risulterebbero esser una questione to-
talmente soggettiva. O forse è oggettiva, ma viene reinterpretata soggettivamente?
Difficile dirlo. Con questa teoria si verrebbe a delineare una spiegazione relativa
al perenne senso di insoddisfazione propria del genere umano. Si suppone infatti
che se il cervello ha elaborato un’idea sintetica di un particolare concetto, cercherà
la sua realizzazione concreta nel mondo reale. Essendo però quest’idea formata
dalla somma di tante elaborazioni, pensieri e idee, nella realtà è impossibile trova-
re qualcosa che sappia rispecchiare un’idea tanto elaborata e complessa come
quella che il cervello si è formato e questo comporta l’incessante ricerca, la delu-
sione e l’insoddisfazione, in un ciclo continuo. Ciò è il motivo per cui un’artista
non riesce mai a smettere di dipingere, preso dall’ossessione di rendere concreto
un concetto mentale, ma trovandosi di fronte un muro impossibile da abbattere.
Semir Zeki suppone che i concetti sintetici siano dunque il risultato di un intero
processo di rielaborazione compiuto dal cervello, che prosegue nel corso della vi-
ta, seguendo lo sviluppo, la crescita e i cambiamenti ai quali si va incontro inevi-
tabilmente.
Egli sostiene inoltre che l’idea di bellezza sia il risultato di acquisizioni, sia
consce che non, ma anche di geni, ovvero nozioni insite, già presenti dentro di
noi, cosi come i ciechi che sanno disegnare un uomo perché l’immagine è insita
nelle loro menti, anche se non lo hanno mai visto. Ma il dubbio permane perché
ciò non risponde alla questione dell’oggettività: abbiamo tutti un’idea comune di
bello, di felicità che cambia nel tempo a seguito di esperienze personali? Oppure
ognuno ha già in partenza un idea soggettiva, per cui non può esistere una nozione
oggettiva di bello? Secondo Ramachandran, a tutti piace la stessa cosa, lo stesso
quadro; la differenza sta nell’ammissione (Ramachandran, 2012). Riferendosi alle
statue Chola2, sostiene che a tutti piacciono, siccome i neuroni, guardando l’opera,
scaricano allo stesso modo nelle persone, ma alcuni non lo riconoscono, ne nega-
no il piacere per questioni legate alla coscienza: i concetti acquisiti portano
l’uomo ad elaborare proprie idee su nozioni astratte, decidendo razionalmente co-
sa è bello e cosa no, ma a livello neurale pare che la reazione sia uguale per tutti.
2 Statuette in bronzo raffiguranti divinità, prodotte durante la dinastia Chola, una della più impor-
tanti potenze dell’India meridionale (IX - XIII sec a.C).
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Probabilmente complessi filosofici come l’idea di bello e di amore resteranno
miti che affascinano l’uomo da sempre, proprio per l’impossibilità di classificarli
e definirli in modo chiaro. Ciò comporta la costante ricerca, lo studio, la cono-
scenza e l’evoluzione dell’uomo in svariati settori, per cui è forse auspicabile che
non venga mai trovata una definizione soddisfacente per tali argomenti.
27
L’arte irregolare
L’arte è un prodotto del cervello, ma se il cervello funziona in modo impro-
prio, l’arte lo rende visibile, concretizza le anormalità tra forme e colori. E, al
tempo stesso, lo guarisce.
Nel mondo occidentale, sin dai tempi più antichi, la figura dell’artista richiama
la genialità controversa, la follia, colui che vive nella perenne insoddisfazione del
proprio operato ed è incline alla pazzia3.
Già Aristotele attribuì all’artista l’umore della bile nera, ovvero l’eccessivo
sangue caldo che ribolliva desiderio sessuale, provocava una maggiore soggezione
alle sbandate dell’amore e un comportamento malinconico: un senso di inadegua-
tezza perenne, insoddisfazione inspiegabile e quindi un’elevata delicatezza per gli
squilibri della mente.
Da allora le teorie e le credenze sul rapporto tra malattia e creatività non sono
di certo mancate. La figura dell’artista è ermeticamente connessa a una diversa
sensibilità di rapportarsi al mondo, ma l’imperpetrabile dubbio è se l’artista per-
cepisce il mondo diversamente, o se lo interpreta in modo diverso.
Con l’evoluzione delle neuroscienze e della neuroestetica, gli esperimenti e le
ricerche per porre fine ad un quesito tanto agognato sembra inizino a lasciare in-
travedere uno spiraglio di risposte plausibili.
Esiste davvero un correlazione tra creatività e pazzia?
Gli studiosi, oltre a svolgere esperimenti su artisti contemporanei, collegati a
elettrodi per monitorare l’attività cerebrale durate l’atto artistico, hanno preso in
esame diversi esponenti del passato, soprattutto casi dall’Ottocento in poi, epoca
di sviluppo scientifico e psicologico, documentati grazie all’innovazione di questi
3 Si noti come questo preconcetto di follia legato alla figura dell’artista sia strettamente occiden-
tale. Infatti nella cultura orientale prevale l’essenza interiore, la meditazione. In particolare in quella giapponese, esiste il concetto di Shibusa, termine che miscela moderazione e spontaneità, riferendosi alla bellezza massima.
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campi (Cappelletto, 2010).
Già dalla metà del 1800 l’arte “malata” suscita l’interesse degli psichiatri, che
iniziano a conservare i lavori dei pazienti, a studiarli e analizzarli. Tra questi
compare Cesare Lombroso, che fu tra i primi in Europa a collezionare opere di
malati mentali, e ne trasse importanti conclusioni sul rapporto inscindibile tra il
genio e la follia nell’uomo. All’inizio del ‘900 alcune correnti artistiche, in parti-
colare il surrealismo, si interessarono all’arte dei malati mentali, finché nel 1947
André Breton e Jean Dubuffet fondarono la “Compagnie de l’Art Brut”, con
l’obiettivo di raggruppare tutte quelle opere spontanee e immaginative, risultanti
da impeti infantili; solo successivamente il termine, conosciuto anche come Ou-
tsider Art o Raw Art, assumerà un’accezione più ristretta, legandosi all’arte dei
malati di mente e i reclusi.
Recentemente, è stato dimostrato come l’arte aiuti nella riabilitazione a seguito
di ricoveri per malattie mentali, migliorando i sintomi patologici dei pazienti, e a
seguito di paralisi cerebrali: chi ne viene colpito, se segue una terapia artistica,
riesce più facilmente e in tempi minori a recuperare alcune funzioni. Al momento
il motivo di tale successo resta incerto.
È risaputo che molti artisti hanno continuato la loro carriera a seguito di parali-
si cerebrali, ed è stato riscontrato come, a seconda di dove sia avvenuta la lesione,
vi sia un diverso approccio nell’esecuzione del quadro (Mazzucchi, 1994).
La creazione artistica distorta da un cervello compromesso ha sempre stimolato
la curiosità degli uomini, sia di artisti che psicologi o scienziati. Importante è stato
il contributo che diede all’arte dei pazzi Jean Dubuffet, ufficializzando il genere.
Prima di allora non era stato molto considerato il talento artistico di persone af-
fermate malate, mentre anche grazie al suo contributo viene riconosciuta oggi la
pratica artistica sia come terapia per il miglioramento delle condizioni psicopato-
logiche di pazienti ricoverati, sia come forma artistica indipendente, dove l’artista
esprime la propria forza creativa senza il condizionamento esterno del mondo,
della società e dell’ambiente, dovuto alla sua alienazione autistica.
Un diverso approccio lo ha dato il poliedrico studioso dell’arte dei folli Hans
Prinzhorn, che nel 1922 pubblica “Bildnerei der Geisteskranken”, un’analisi di
opere di schizofrenici, esposte oggi al museo di Heidelberg, ex clinica psichiatrica
dove iniziò ad occuparsi dello studio di disegni e pitture dei pazienti.
29
L’impermeabilità all’esterno data dalla malattia permette una creazione carica
di espressività, ma in casi di bambini autistici come Nadia, affetta da un grave ri-
tardo mentale, l’alienazione dal mondo comporta un genio artistico sconcertante,
mentre la capacità tecnico-espressiva dell’arte grafica viene fortemente elusa
dall’interazione sociale (Ramachandran, 2012). Questa bambina disegnava cavalli
in modo tecnicamente perfetto, alludendo ad un senso cinetico ed espressivo stra-
biliante, ma questa incredibile capacità è stata totalmente persa con la crescita, in
concomitanza ad un miglioramento delle facoltà linguistiche e di interazione con
l’ambiente. Ciò pare possa indicare come interazione sociale, linguistica e razio-
nale vadano a inibire l’espressione artistica, dovuto forse al funzionamento modu-
lare del cervello.
Lo stesso Prinzhorn notava nel suo saggio già agli inizi del secolo scorso come
“il modo spontaneo di disegnare del bambino dotato d’immaginazione si affievo-
lisce con la sua entrata a scuola” (Prinzhorn, 2011). Egli, oltre a sostenere che lo
sviluppo dell’immagine visuale viene pregiudicata dalla formazione dei concetti e
dall’acquisizione di un linguaggio più evoluto, osserva che nei bambini con “de-
bolezza mentale leggera” si evidenziano talenti artistici oltre la normalità e, dai
risultati di studi condotti all’epoca, che i bambini sordomuti hanno una predispo-
sizione all’immagine visuale più che concettuale.
Forse il fascino della creatività degli artisti sta nella capacità di preservare una
stabilità nel sociale (a differenza degli psicotici che a fronte di una grande creati-
vità non hanno capacità di relazionarsi al mondo), riuscendo a scindere la raziona-
lità dal flusso espressivo, in modo abbastanza tenace da impedire che questo in-
tervenga a bloccare razionalmente il canale espressivo.
In questo capitolo verrà analizzato il rapporto che intercorre tra l’arte e la men-
te deviata, sia per casi di malattia psicologica, sia in casi di lesioni cerebrali. Nello
specifico verranno trattati i pittori espressionisti Otto Dix, in quanto artista colpito
da ictus, e James Ensor, come caso di schizofrenia.
30
La malattia della creatività
Innumerevoli sono i casi citabili in correlazione al connubio genio e follia. Tra
i personaggi più illustri di tutte le epoche, moltissimi i malati mentali affetti dai
più svariati disturbi, quali schizofrenia, disturbo bipolare, abuso di alcool e dro-
ghe, depressione, ansia. Scrittori, poeti, scienziati, musicisti e pittori come
Basquiat, Dalì, Goya, Pollock, Ensor, Modigliani, Schiele. Casi di emicranici qua-
li De Chirico e forse Picasso aprono le porte ad interessanti indagini sul campo,
soprattutto gli studi condotti su artisti epilettici, di cui la storia è piena: Van Gogh,
Caravaggio, innumerevoli scrittori del calibro di Dostoevskij e cariche politiche
come Giulio Cesare e Napoleone.
L’affascinante caso di de Kooning, l’artista che, malato di Alzheimer, ha conti-
nuato a produrre arte grazie al fatto che i meccanismi tecnici erano ormai integrati
all’interno della memoria automatica, mentre i temi erano sempre gli stessi che si
ripetevano da prima dell’insorgere della malattia.
Moltissimi personaggi eccelsi della storia erano malati mentali, epilettici o sof-
frivano di qualche patologia, e viene quasi automatico chiedersi se la creatività
non sia veramente correlata ad una psiche distorta.
La domanda può essere molto più complessa: è la malattia che comporta una
vivida creatività, o è la creatività che porta alla malattia per impossibilità di
esprimere un’essenza diversa, originale, rinchiusa in un mondo che non sa capir-
la?
Ad oggi si moltiplicano velocemente le ricerche e gli esperimenti per com-
prendere il rapporto esistente tra malattia e arte.
Un importante studio è stato condotto recentemente dal Karoline Institute of
Stoccolma, guidato da Simon Kyaga, che prendendo in esame 1,2 milioni di pa-
zienti psichiatrici, coinvolgendo le loro famiglie fino ai cugini di secondo grado
ha scoperto che i mestieri creativi rivelano un più alto tasso di psicosi, quali de-
pressione, ansie, dipendenza abusiva da alcool e droghe, in sintonia con recenti
scoperte che dichiarano come alcune malattie mentali siano genetiche ed eredita-
rie. In particolare, la categoria più colpita dalla schizofrenia o disturbi mentali è
quella degli scrittori, molto più a rischio di altri geni artistici di soffrire di malattie
o suicidarsi.
31
Non si conosce il motivo di tale interazione fra arte e malattia, l’ipotesi più
plausibile è che il cervello degli artisti non sia in grado di filtrare correttamente il
mondo esterno, portando comunque ad un originalità di pensiero, scardinato da
schemi e connessioni lineari.
L’arte dei malati mentali non è decadente o diversa da quella di un artista af-
fermato, al contrario, pare che disfunzioni mentali favoriscano la disinibizione
creativa, forse dovuta al fatto che i freni inibitori vengono a mancare più di quanto
non facciano per una persona normale, oltre a consentire una più libera associa-
zione di idee, lasciando fluire un’espressione maggiormente disinvolta e originale;
artisti diventati schizofrenici hanno potuto ritrovare una spiccata originalità e vita-
lità nella loro arte.
Si potrebbe facilmente supporre che sia la malattia a fomentare la creatività,
come già si è visto accadere in persone che a seguito di psicosi o epilessia si sono
iniziati all’arte, la quale è oggi considerata una delle migliori terapie, in particola-
re in pazienti incapaci di esprimersi verbalmente; è quindi difficile dedurre che sia
la creatività a scatenare la pazzia, anzi, in molti casi il gesto artistico aiuta il mala-
to a restare ancorato ad un mondo ormai alienato al cervello.
Uno dei primi studiosi del settore fu Cesare Lombroso (citato con i dovuti ri-
guardi), che alla fine del XIX secolo stabilì la correlazione tra follia e genio, e
tramite l’analisi di una vasta collezione di opere, ad oggi conservate presso il Mu-
seo di Criminologia di Torino, determinò alcune caratteristiche tipiche dello stile
schizofrenico, notando come questo stile avesse analogie con l’arte primitiva.
Contemporaneamente in Francia, studiosi come Ambroise Tardieu e Max Si-
mon ricercavano la diagnosi di pazienti malati nelle simbologie dei loro dipinti,
trascurando le qualità estetiche; Simon realizzò quanto la produzione artistica fos-
se liberatoria e terapeutica per i pazienti, ponendo le future basi alla divulgazione
dell’arteterapia.
Nel corso del secolo, con lo sviluppo della psichiatria organicista - nata solo
negli anni ’20 grazie a Philipppe Pinel che per primo categorizza i malati mentali
riconoscendogli la necessità di una trattamento specifico - i sintomi, le sindromi e
le patologie vengono studiate e descritte avvalendosi di una visione strettamente
neurologica, in quanto prevale la convinzione che la malattia sia dovuta ad altera-
zioni o lesioni cerebrali, ricercando all’interno della sua biologia le cause scate-
32
nanti la follia, divisa principalmente in due tipologie: quella dei pazzi divenuti tali
e quindi trattabili con un approccio morale, e i deficienti malati, nati tali4.
Non c’è da meravigliarsi quindi che fino alla fine del secolo, l’approccio fosse
strettamente diagnostico e che l’aspetto estetico delle produzioni dei pazienti fosse
completamente trascurato.
La situazione verrà stravolta con l’avvento della psicoanalisi, all’inizio del
‘900, quando anche gli psichiatri di formazione organicista cominciarono a inter-
pretare la malattia da un punto di vista psicodinamico, come espressione di un
mondo interiore che bisognava scoprire, non solo come degenerazione del sistema
nervoso. È in questo stesso periodo che viene coniato il termine “schizofrenia”
(dal greco σχιζοφρένεια - schizein-phren: “mente divisa”) dallo psichiatra svizze-
ro Eugen Bleuler, che a differenza del concetto Kraepeliniano di Dementia Prae-
cox, stabiliva come la sindrome fosse caratterizzata da delirio paranoide, dissocia-
zione e autismo, e come le manifestazioni cliniche descritte dallo psichiatra tede-
sco Emil Kraepelin corrispondessero a diverse forme e variazioni della sindrome
di base; tra l’altro il termine fu ritenuto inadatto da Bleuler siccome la patologia
non era riconducibile al solo degrado cognitivo tipico della demenza, date le com-
plicazioni comportamentali e affettive, altresì la comparsa dei sintomi può avveni-
re a qualunque età, anche se la maggioranza delle forme psicotiche esordiscono in
giovane età.
Inoltre, con l’avvento delle avanguardie, tutte le forme stilistiche considerate
degeneranti da Lombroso, diventano princìpi compositivi e formali. Gli psichiatri
iniziano così ad interpretare le opere dei malati considerandone le espressioni arti-
stiche, in particolare Walter Morghenthaler, che analizza l’organizzazione spazia-
le e ritmica delle composizioni, tenta di stabilire un legame tra immagine e scrittu-
ra, e individua l’insieme dei motivi iconografici che caratterizzano le opere. Sarà
lui a portare a conoscenza il famoso caso di Adolf Wölfli, psicotico e criminale
pedofilo internato in ospedale dal 1895, che il medico incontrò dodici anni più
tardi, scoprendo le sue abilità pittoriche illustrative, musicali e narrative.
Oggi è considerato uno dei maggiori artisti del filone dell’Art Brut, e la sua ar-
te ha preceduto e ispirato procedure compositive e stilistiche di correnti come la
Pop Art, il cubismo e il Dada. Internato per tutta la vita, Wölfli affronta tre princi-
4 La distinzione venne sostenuta da J.E.D. Esquirol, con un trattato pubblicato nel 1838.
33
pali fasi nella sua malattia: passa da un umore incontrollato, violento e instabile, a
una costante necessità di disegnare e dipingere che lo placa notevolmente, fino a
diventare più socievole e gentile con gli altri pazienti. È importante sottolineare
che il medico cita la vera identità del paziente che per la prima volta viene consi-
derato un vero artista.
Nel 1922 sarà Hans Prinzhorn a dare un forte contributo allo studio della com-
plessità delle opere plastiche create dai malati. Con “Arte e follia, l’attività plasti-
ca nei malati di mente”, il medico psichiatra analizza migliaia di opere di centi-
naia di pazienti internati colti da sindromi diverse, tracciando un rapporto tra atti-
vità artistica e componente schizofrenica, spingendosi ad approfondire l’arte “de-
viata” di dieci tra i più importanti artisti dell’epoca, tra cui Van Gogh, Ensor, Ku-
bin. Secondo Prinzhorn la struttura di partenza dell’esigenza creativa è la Gestal-
tung, la stessa a dare un senso all’oggetto artistico; è l’impulso creativo originario,
privo di finalità esteriore sociale. La Gestaltung, rifacendosi alla concezione este-
tica di Tolstoj, non si esercita solo nel momento in cui si crea un’opera, ma anche
nella percezione di un oggetto in quanto cosa, e questo stesso impulso guida e da
forma alla personale concezione del mondo.
Se fino al secolo precedente si riteneva di poter diagnosticare la patologia at-
traverso l’attività creativa dei pazienti, lo studioso osserva come un’opera non
può essere indicatore della patologia, ma ipotizza che questa potrebbe essere cura-
ta dalla libera espressione artistica, fomentando ulteriormente l’idea terapeutica
dell’arte.
Avanguardie e arte dei folli si influenzano a vicenda: le prime permettono agli
psichiatri di approcciarsi alle opere dei malati con una rinnovata sensibilità, men-
tre l’arte dei folli, insieme a quella dei primitivi e dei bambini, da ispirazione alle
avanguardie come fonte stilistica rispetto la tradizione accademica, in quanto ori-
ginali e spontanee. La forza espressiva dell’arte malata viene ammirata da molti
artisti, tra cui Max Ernst che nel 1919, dovendo organizzare una mostra a Colonia
sulle nuove tendenze dell’arte, affiancò agli artisti Dada, opere di malati mentali e
dilettanti. Per la prima volta psicotici e artisti vengono posti allo stesso livello,
provocando un grave scandalo; l’”arte dei folli”, considerata da Dubuffet come
una forma artistica degna del consenso dell’arte istituzionale, sarà destinata a ri-
manere giudicata e confinata culturalmente, fino agli anni Sessanta.
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Il surrealismo, corrente a cui Ernst contribuisce a dare vita, sarà strettamente
affiatato nella sua relazione con la creatività schizofrenica, e nel suo manifesto del
1924 edito da Breton, mette in luce la sua opposizione nei confronti della psichia-
tria e del metodo di cura disumano utilizzato nei manicomi, sostenendo la libertà
espressiva della malattia, che consente di evadere dalla sofferenza clinica.
L’interesse nei confronti di questa corrente stilistica esploderà alla fine degli
anni Sessanta, quando il clima di rivoluzione sociale e intellettuale predispongono
il pubblico ad una particolare sensibilità verso questo genio artistico oscuro e
marginale: l’allestimento di numerose mostre in Europa e in America rendono
l’Art Brut fenomeno di tendenza, dove la componente di marginalità viene neutra-
lizzata, mentre anche negli ospedali vengono aperti atelier che educano i pazienti
all’espressione artistica, così luoghi prima di reclusione diventano affollati di
esperti che portano da fuori il loro sapere condizionando l’ingenuità espressiva dei
malati. Con l’avvento della modernità, le trasformazioni e chiusure dei manicomi,
la scolarizzazione, l’avvento dei mass media si ha un’apertura verso l’esterno
maggiore, gli scambi, le informazioni pervadono ogni angolo, e così il mito
dell’artista esiliato ai confini della società, sembra ormai consumato.
Con lo sviluppo della scienza, le ricerche sulla schizofrenia si sono moltiplicate
rivelando come la malattia potrebbe essere legata ad una mera questione biologi-
ca: sembrerebbe infatti che nelle persone malate il lobo frontale e l’area visiva V1
siano meno spessi, con una densità neurale in quest’ultima incrementata del 10%.
Nei pazienti con minor materia nel lobo occipitale, pare vi sia un difetto nel rico-
noscimento di forme e sensibilità ai contrasti, più evidente rispetto a quelli con
decremento neurale in altre zone cerebrali anteriori (Clark et al, 2010).
L’arte schizofrenica: James Ensor
James Ensor nasce a Ostende, in Belgio, il 13 aprile 1860, da padre inglese e
madre fiamminga, la quale aveva un negozio di maschere e oggetti particolari,
fortemente presenti nelle opere artistiche del pittore. Sin da piccolo il futuro arti-
sta si dimostra timido, pauroso, sensibile e prono a scoppi di rabbia. Resterà inde-
lebilmente segnato da una famiglia all’interno della quale i ruoli sono confusi, e
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alla quale resterà morbosamente legato, compromettendo il suo sviluppo in adulto
autonomo: non frequentò la scuola, ma si istruì da autodidatta leggendo classici,
fin quando iniziò a frequentare corsi di disegno a 13 anni. Pochi anni dopo si tra-
sferì a Bruxelles per frequentare l’Academie des Beaux Arts contro la quale in-
sorgerà definendo l’accademismo come “miope”, tornando a vivere con la fami-
glia. A 24 anni l’alcolismo degenerato del padre e la sua successiva morte, dete-
riorano la situazione psichica di Ensor, che soffre di ipocondria, paranoia e de-
pressione, ma in questa emotività segnata produsse le sue creazioni più originali.
Sostenuto dagli amici, riuscì a vivere isolato per dedicarsi all’arte, che lo conduce
verso la guarigione, scemando la forza estetica del suo operato. Nel 1883 sarà co-
fondatore del movimento “Les XX” quando dipinge il primo autoritratto con una
maschera, e pochi anni dopo prende vita il suo più famoso quadro “Entrata di Cri-
sto a Bruxelles”, rifiutato al Salon dei XX; solo col debutto del nuovo secolo En-
sor vedrà riconosciuta la sua arte e sarà fatto Barone a vita, ma la frustrazione per
una fama arrivata troppo tardi lo porterà ad abbandonare la pittura pochi anni pri-
ma della morte, avvenuta nel 1949, per dedicarsi alla musica.
Artista dalla satira pungente, sarcastico e grottesco, i suoi lavori traboccano di
simbolismi, percorsi da una tensione allucinatoria. Affascinato dalla luce, riprodu-
ce oggetti familiari svuotati di senso, resterà legato a temi quali la maschera, il
carnevale e la massa, simboli del suo malessere interiore.
Ensor è un importante ispirazione per correnti artistiche del XX secolo: il parti-
colare uso del colore sarà d’ispirazione per l’Espressionismo, il suo immaginario
inizierà i surrealisti.
A seguito di un’intensa produzione dal 1880 spronata dalle turbe psichiche, nel
1890 la sua forza espressiva decade notevolmente con la ripresa di una stabilità
mentale e per il resto della sua carriera ripeterà i temi del passato, avviandosi ver-
so uno stile più realistico. I caratteri stilistici dei suoi lavori sono tema di studio
per Hans Prinzhorn5, che trova una forte correlazione tra arte dei folli ed espres-
sionismo. In Ensor la ripetitività, l’ordine strutturale, l’horror vacui che invadono
5 Hans Prinzhorn, “Arte e follia, l’attività plastica nei malati di mente”, Mimesis, 2011. L’opera
originale fu redatta nel 1922, ed è ancora oggi uno dei più importanti studi sulle opere di malati mentali.
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le sue tele richiamano motivi tipici utilizzati dagli schizofrenici.
Il medico osserva come i pazienti con diagnosi di schizofrenia mostrino affinità
con la produzione artistica dei bambini e dei “primitivi”, richiamano temi religiosi
ed erotici, e l’opera è predominata dal gioco, dall’ambiguità, oltre al fatto che non
hanno un significato preciso, ma vengono prodotte in risposta ad una spinta ludi-
ca.
Prima di lui, anche Lombroso delineava affinità tra l’arte dei folli, dei bambini
e dei primitivi, definendo i caratteri fondamentali che compongono le opere di
queste persone, come la mancanza di prospettiva, la propensione per forme geo-
metriche e arabeschi, l’abbondanza di simboli, scrittura, caratteri geroglifici, e la
tendenza a rappresentare oscenità.
Il pioniere dell’arte emicranica O. J. Grüsser, insieme ad altri scienziati, verso
la fine del 1980, mettono in evidenza come un frequente disturbo di malati di
schizofrenia sia l’anormale percezione delle facce: i volti osservati da queste per-
sone cambiano espressione molto velocemente, assumendo sembianze mostruose.
Naso e occhi si ingrandiscono in modo sproporzionale, le pupille si dilatano e la
bocca si apre in una smorfia che lascia scorgere i canini, dando un senso di paura
e minaccia. Queste caratteristiche sono state confermate da disegni e dipinti fatti
da malati ricoverati, che tramite la percezione deformata della facce raccontano la
sofferenza di questa malattia, una follia che può tramutarsi in genio creativo, co-
me nel caso di Ensor.
Altro importante fattore dell’arte schizofrenica è la vena comica, proposto in
diverse forme, la cui prevalente è il grottesco. L’humor meditativo e l’ironia sono
quasi inesistenti, siccome derivano da un’implicita accettazione di convenzioni
che il malato autistico rifiuta per sua propria introspezione. Si distinguono perlo-
più scherzi grossolani, popolari, combinazioni insolite allo scopo di deridere la
realtà, spesso presenti anche nel linguaggio verbale (Prinzhorn, 2011).
Se analizziamo un’opera del pittore, come “Entrata di Cristo a Bruxelles”
(1889), si potrebbe trovare riscontro con alcuni di questi fattori. Nel dipinto Ensor
raggiunge l’apoteosi del sovraffollamento, una massa confusa di persone bizzarre,
volti svuotati e deformi, si respira un aria carica di ansietà e paura, un popolo
permeato dall’ossessività, che sembra urlare un disturbo interiore, lasciando intra-
vedere la patologia che sconvolge la mente dell’artista.
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La maschera è un modo per nascondersi, per celare il vuoto interiore, la folla
odiata è l’immagine di una società ipocrita, il tema religioso diventa una parata
carnevalesca, una fiera, dove Cristo passa quasi inosservato, non ha più un valore
simbolico religioso, bensì il pittore sfregia le regole pittoriche ed ecclesiastiche
facendo di Cristo il proprio autoritratto: è lui stesso ad entrare nella Bruxelles
gioiosa e ipocrita. Secondo diversi studiosi, tra cui Gedo6, il tema allude al destino
degli artisti d’avanguardia tra i Farisei.
Prinzhorn nota come arte dei folli ed espressionismo siano analizzabili secondo
gli stessi termini: la creazione puramente ludica, la forza espressiva, l’utilizzo dei
colori, l’elaborazione ornamentale e la strutturazione ordinata dell’immagine, tutte
caratteristiche presenti nelle opere di Ensor, nel quale la componente autistica e
l’isolamento sono decisamente più sfumate. A differenza del lavoro recluso dei
malati di mente, l’opera dell’artista nasce da una consapevole esclusione dal mon-
do e dalla società, tesa a trovare un’ispirazione che ricorda i comportamenti psi-
chici presenti nella schizofrenia, ma in modo consapevole.
6 Da “Eminent creativity, everyday creativity and health” di M. Runco, R. Richard, 1997, edizione
Greenwood Publishing Group, “The healing Power of art: the case of James Ensor” di J. E. Gedo, pp.190-212.
James Ensor, Entrata di Cristo a Bruxelles, 1889, olio su tela, 253x429 cm, Paul Getty Museum,
Malibu
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Per quanto vi sia affinità tra le correnti dell’espressionismo e l’arte schizofreni-
ca, la differenza sostanziale resta nella propensione dell’avanguardia ad essere
aperta, per quanto destrutturante, ma è esplorativa ed evocativa di un altro mondo,
esterno, lì dove invece il malato, chiuso in se stesso, è minacciato dal mondo sen-
sibile che tenta di combattere fino a cedere, esiliandosi nel suo mondo delirante e
rifiutando di comunicare con l’esterno, non vuole esporsi all’interazione sociale e
la sua opera rappresenta questo limite.
Ma è importante ricordare, come lo stesso Prinzhorn ribadisce nei suoi scritti,
che non è in alcun modo possibile stabilire gli stati psichici implicati durante la
creazione artistica soltanto attraverso l’osservazione delle caratteristiche esteriori
dell’opera; asserire che un artista soffre di malattia mentale solo perché lo stile
pittorico è simile a quello di uno psicotico, varrebbe come sostenere che se uno
scultore produce statue in legno simili a quelle dei neri del Camerun, allora è un
nero del Camerun (Prinzhorn, 2011).
Disfunzioni cerebrali nell’arte
Se l’arte è il risultato dell’elaborazione del cervello, cosa accade quando il cer-
vello che produce arte è gravemente compromesso? Nel mondo occidentale,
James Ensor, Entrata di Cristo a Bruxelles, particolare
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l’ictus è una delle principali cause di morte ed è risaputo come questo fenomeno
comprometta l’attività cerebrale in maniera spesso irreversibile.
Quando sono gli artisti ad esser colpiti da paralisi cerebrali, è interessante nota-
re come le loro opere risentano di una percezione della realtà deformata. Se la le-
sione riguarda i lobi parietali, indipendentemente dall’emisfero, si evidenziano
gravi difficoltà nel disegno, dovute nello specifico ad un deficit delle funzioni
spaziali. È stato riscontrato come le lesioni all’emisfero destro comportino diffi-
coltà ad attribuire gli oggetti ad una specifica categoria, l’incapacità grafica a sta-
bilire rapporti di grandezza tra oggetti e l’attribuzione del colore idoneo. Contra-
riamente i soggetti colpiti all’emisfero sinistro presentano una difficoltà nella ri-
costruzione mentale di oggetti.
Per quanto riguarda la produzione pittorica si sostiene che gli artisti lesi
all’emisfero destro tendano ad agire con tocchi rapidi sulla tela, costruendo im-
magini unitarie, trascurando i particolari e lasciando parti non concluse. Il dipinto
si risolve in un’opera non finita, caratterizzata da una forte stilizzazione, la man-
canza di tridimensionalità e la negligenza per i dettagli. Si è inoltre osservato co-
me questi artisti reiterano temi e strutture pittoriche concepite prima della lesione,
attuando quindi una perseveranza stilistica. Gli artisti colpiti da lesione emisferica
sinistra affrontano la tela frammentando le operazioni compositive, riempiendo la
superficie senza che vi sia un’immagine globale, ottenendo un effetto a collage.
Ne consegue una resa anomale dei rapporti “pieni e vuoti”, oltre che un appiatti-
mento prospettico, meno evidente però rispetto ai cerebrolesi destri.
In entrambi i tipi di lesioni è evidente la degradazione della resa espressiva, ac-
centuata dall’uso elementare dei colori: i primi tendono a contrapporre colori ele-
mentari, creando contrasti stridenti, mentre i secondi prediligono tinte chiare e pa-
cate (Mazzucchi, 1994).
Un’ulteriore difficoltà nell’esecuzione dell’opera viene spesso apportata dalla
capacità motoria compromessa, dovendo escogitare metodi di lavoro alternativo:
imparare ad utilizzare la mano secondaria, o utilizzare quest’ultima per guidare la
mano pilota paralizzata, come ad esempio fece il pittore Afro. Gli artisti colpiti da
deficienze visive o motorie devono ricorrere a soluzioni per ovviare al problema:
ad esempio Lusignoli, affetto da negligenza spaziale sinistra, verticalizzò la tela
per poterla vedere al completo. Alcuni importanti artisti colpiti da ictus, con con-
seguente lesione all’emisfero destro sono Lovis Corinth, Otto Dix, Guglielmo Lu-
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signoli, mentre alcuni con lesione all’emisfero sinistro sono Renzo Schirolli e
Afro (Cappelleto, 2010).
Uno studio del 2012, condotto presso l’università di Roma, diretto dal profes-
sor Ercole Vellone, ha dimostrato come pazienti colpiti da ictus, siano stati in gra-
do di recuperare più velocemente le diverse abilità motorie e mentali seguendo un
percorso di riabilitazione artistico, interagendo in campi come la pittura, la musica
e il teatro. Contemporaneamente in Korea veniva condotto uno studio sulla riabili-
tazione di pazienti colpiti da paralisi cerebrale e i suoi tutori, provati psicologica-
mente dalla difficoltà della situazione, tramite un percorso di arteterapia basato sui
colori. La qualità della vita dei soggetti che hanno seguito la terapia cromatica è
migliorata notevolmente rispetto al campione che ha seguito una normale terapia
riabilitativa.
Si presume che la forza dell’arte sul cervello sia dovuta in particolare alla libe-
razione di dopamina: un neurotrasmettitore prodotto da più aree, con importanti
funzioni, tra cui la gratificazione a seguito di stimoli che producono motivazione e
ricompensa.
Otto Dix: distorsione artistica da ictus
Nato nei pressi di Gera, in Germania, nel 1892, Otto Dix studia alla scuola di
Arti Figurative a Dresda, per poi arruolarsi come volontario nella Prima Guerra
Mondiale, che lo segnerà irrimediabilmente per tutta la vita, rendendolo più su-
scettibile alle ingiustizie e all’ipocrisia della società borghese del dopoguerra.
Nelle sue opere si ritrova spesso il tema del conflitto, dovuto all’esigenza di esor-
cizzare la sofferenza e la tragicità umana di un simile evento. Sarà sempre molto
attivo e coinvolto in gruppi importanti d’avanguardia (Gruppo 1919, November-
gruppe e altri), si dedicherà ad uno stile dadaista tra il 1919 e 1922, seguito da un
periodo di realismo e critica sociale e parteciperà a numerose mostre, ma con
l’avvento del nazismo viene rimosso dalle cariche pubbliche e, dichiarata la sua
arte degenerata, dal 1934 gli viene vietato di esporre, mentre ben 260 opere ven-
gono sequestrate dalle collezioni pubbliche. Incarcerato e successivamente ri-
chiamato alle armi, sarà infine riconosciuto membro ufficiale dell’Akademie der
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Künste di Berlino est. Nel 1967 viene colpito da un ictus nell’emisfero destro, che
ebbe come conseguenza un emiparesi sinistra, emianopsia parziale (decremento o
perdita della visione parziale) e disturbi nella percezione spaziale, quali eminat-
tenzione sinistra. Inoltre soffrì di una ridotta propriocezione e aprassia del braccio
sinistro (il disturbo neuropsicologico del movimento volontario, non tanto dovuto
alla perdita di funzioni motorie, quanto all’incapacità neurologica di coordinare
gesti ad uno scopo preciso). Nei tre giorni successivi la paralisi cerebrale, Dix fu
totalmente incapace nel disegno, e solo al quarto giorno poté realizzare un banale
schizzo di un albero, curato con un ombreggiatura che gli diede il senso plastico,
lasciandolo però incompleto nella metà sinistra, dovuta alla negligenza spaziale.
La settimana successiva, tale deficienza sembrò migliorare notevolmente, e
realizzò un altro schizzo di un albero più completo. Secondo Jung i suoi disegni
mantennero lo stesso stile grafico nel corso della vita, anche dopo la paralisi cere-
brale, ma è evidente come vi sia un forte cambiamento soprattutto nei suoi ultimi
lavori di autoritratto.
Nel 1968, l’anno successivo all’ictus, compie diversi ritratti di se stesso ed è chia-
ro come l’incidente lo abbia negato di una percezione e visione accurate, siccome
tutti i dipinti mancano di assomigliare al pittore.
Contrariamente a ritratti precedenti che lo rappresentano in maniera fedele, in
questi si notano delle deformazioni che nella realtà non sarebbero possibili: in
“Ritratto con colletto nero” si nota una vaga somiglianza, ma le relazioni spaziali
e la struttura facciale sono distorte, dove l’occhio destro sembra protrudere, il vol-
to appare sostenuto da una cornice scura che lo sostiene, dando l’impressione che
il viso sia sbilanciato in avanti.
Fotografia dell’artista Otto Dix, 1967 Autoritratto, 1957
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Il secondo autoritratto sembra più una caricatura, goffa e dall’espressione in-
certa, i tratti non sono chiaramente delineati e gli spazi mancano del loro naturale
equilibrio.
L’autoritratto in cui si rappresenta mentre dipinge è fortemente distorto nella
struttura anatomica e spaziale. La mano e la matita coprono la maggior parte della
faccia nella parte inferiore, appena visibile posteriormente; la mano è formata da
dita inspiegabilmente attaccate all’arto, così come resta inspiegabile la loro posi-
zione anatomicamente distorta e funzionalmente inutile7.
Come per il dipinto “Autoritratto con Marcella” (Selbstbildnis mit Marcella),
realizzato nel ’69, dove il pittore tiene tra le mani la nipote neonata, si nota come
la mano destra sia rappresentata con sei dita, senza riuscire a capire come siano
strutturare anatomicamente (Mazzucchi, 1994).
Dix continuò a dipingere fino alla morte, concentrandosi principalmente sulle
litografie. Morì nel 1969 a seguito di un secondo ictus cerebrale.
Nelle sue ultime opere si delinea l’instabilità del tratto, dovuta alla difficoltà
motoria, mentre non è più rappresentata l’esteriorità, bensì l’espressione di un ma-
lessere interiore, come afferma Kinkel “Le linee divennero tratti sismografici; la
struttura fu scomposta in tremanti geroglifici. L’apparenza esterna venne rim-
piazzata dalla similarità interiore” (traduzione mia).
7 Da “Neurological disorders in famous artists –part 2” di J. Bogousslavsky, M.G. Hennerici, 2007,
Karger, “Painting after right hemisphere stroke-case studies of professional artists” di H. Bäzner, M.G. Hennerici, vol.22, pp.1-13.
Otto Dix, litografie eseguite nell’anno 1968, a seguito dell’ictus.
1. Autoritratto con colletto nero – 2. Piccolo autoritratto - 3. Autoritratto con mano
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In diversi artisti colpiti da lesione emisferica destra, la distorsione facciale rive-
la la predisposizione al riconoscimento dei volti e all’organizzazione spaziale
dell’emisfero in questione. Inoltre la perdita di capacità nell’autoritrarsi verosi-
milmente, come anche avvenne per Lovis Corinth e Räderscheidt indica un certo
livello di prosopagnosia, l’incapacità a riconoscere i volti.
Notevole è il disturbo apportato all’organizzazione spaziale, che comporta di-
fetti nella prospettiva o nella tridimensionalità delle opere scultoree; si può osser-
vare l’anatomia stranamente alterata, mentre i dettagli sono posti erroneamente.
La terapia artistica
Ormai secolare è la consapevolezza che la pratica artistica abbia poteri terapeu-
tici, è in grado di comunicare un intimo celato e inibito, svela le emozioni sopperi-
te all’intellettualizzazione, apre le porte a una comunicazione simbolica e metafo-
rica, consentendo a chi espleta la pratica a mantenere una distanza e un’obiettività
verso il proprio prodotto, senza realizzare quanto le proprie turbolenza più recon-
dite siano messe a nudo.
A seguito di evidenti prove a sostegno della sua forza terapeutica, negli anni
Otto Dix, Selbstbildnis mit Marcella, litografia a colori, 68x52cm, 1968-’69
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’70 nasce l’arteterapia, oggi ampiamente praticata in tutti gli ambiti medici, es-
sendo ritenuta una valida pratica di cura della psiche.
Con l’apertura verso il mondo dei reclusi, dei pazzi, la cura è approdata ini-
zialmente negli ospedali psichiatrici, e nel tempo si è largamente diffusa per ogni
sorta di esigenza, più o meno grave: non è solo una terapia per malati mentali, ma
è praticata da bambini, anziani, adolescenti, adulti, persone con dipendenze, di-
sturbi, traumi, difficoltà emotive, o chiunque abbia voglia di conoscersi più
nell’intimo.
Di fronte a problemi, difficoltà, traumi, perdite o situazioni emotivamente forti,
si attuano i meccanismi di difesa, ovvero avviene una deviazione di ricordi spia-
cevoli, per merito di meccanismi psicologici inconsci, quali la repressione, la ne-
gazione, la razionalizzazione, spesso associabili a specifici tratti della personalità.
L’arteterapia permette di svincolarsi inconsciamente da queste barriere di dife-
sa consolidate, dando l’opportunità alle emozioni di fluire liberamente siccome la
creazione artistica avviene per simbolizzazione, così il paziente può rappresentare
le proiezioni mentali che non esprime a parole (Moschini, 2008).
Come riesce l’arte a sviare l’intellettualizzazione e rappresentare tramite la
simbolizzazione la psiche più profonda? Il cervello lavora principalmente per pen-
sieri visivi, ovvero la capacità di organizzare per mezzo di immagini tutto ciò che
riguarda la nostra interazione col mondo esterno, come sentimenti, pensieri e per-
cezioni. Già Sigmund Freud, notava come i suoi pazienti, riuscivano a descrivere i
sogni disegnandoli perché, riteneva che, siccome la percezione visiva è una capa-
cità innata precedente lo sviluppo del linguaggio verbale, è quindi più vicino
all’inconscio rispetto alla facoltà razionale dell’espressione orale. Anche Carl Gu-
stav Jung sottolineava l’importanza della forza espressiva delle immagini, e recen-
temente si è scoperto come gli eventi traumatici vengano codificati dalle mente
sotto forma di immagini e l’arte può esser uno strumento per riesumarle alla co-
scienza in maniera meno aggressiva (Malchiodi, 2009).
L’arteterapia è molto utile per chiunque, soprattutto per persone incapaci di
esprimere problemi o vissuti attraverso le parole, come malati o bambini in parti-
colare.
La sostanziale differenza nell’osservazione di un prodotto artistico a fini tera-
peutici, rispetto alla contemplazione di un’opera artistica, sta nell’ interagire con il
paziente che l’ha creata, facendolo riflettere sulla sua stessa creazione e indagan-
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done il significato, senza che il terapeuta vi imponga una propria interpretazione,
proprio perché “il significato di un’immagine artistica sta nell’occhio di chi la
contempla” (Malchiodi, 2009). Ognuno, guardando un’immagine, ne interpreta il
senso secondo la propria esperienza, il proprio vissuto, quindi è necessario inda-
gare sui significati che il paziente ha celato tramite metafora.
Il processo terapeutico dell’arte consiste in un percorso guidato da un esperto,
utilizza tecniche artistiche quali la scultura, la pittura e il disegno, per affrontare
un viaggio all’interno di se stessi, esplorando la propria interiorità e talvolta supe-
rando situazioni avverse. La riuscita di questa terapia è risaputa, ma non si sa co-
me questa agisca concretamente sul cervello: dal punto di vista psicologico eman-
cipa l’inconscio tramite un linguaggio analogo, quindi permette di affrontare e su-
perare ciò che viene automaticamente soppresso dalla mente per difendersi. Dal
punto di vista prettamente artistico rivela un’originalità altrimenti improbabile,
proprio perché deriva dalla mutevole e volubile incoerenza del pensiero, restando
slegato dalla razionalità, e come già osservato precedentemente, spesso attrae an-
che nell’estetica.
Ma dal punto di vista neurologico e biologico non si è ancora certi di come la
pratica artistica agisca sul cervello, quali meccanismi neurali avvia e come possa
garantire una gratificazione a livello mentale. Come accennato precedentemente,
si suppone che il fattore principale in questione sia la dopamina: sintetizzata nel
1910, conosciuta come un ormone fino al 1958, dal 2000 è stato scoperta nella sua
funzione di neurotrasmettitore, oltre che precursore della noradrenalina e succes-
sivamente dell’adrenalina, scoperta che valse il premio Nobel per la medicina ad
Arvid Carlsson.
Questa sostanza viene liberata nella comunicazione tra neuroni in più parti spe-
cifiche del cervello, indicativamente nel sistema limbico e nella corteccia prefron-
tale, e agisce nei centri di piacere e gratificazione.
La sua funzione è strettamente legata alla memoria di lavoro, all’umore, al mo-
vimento volontario, alla concentrazione, al sonno, all’apprendimento e alla ricom-
pensa; viene rilasciata dai neuroni a seguito di stimoli che diano piacere o gratifi-
cazione, come il sesso, il cibo, l’attività fisica, l’uso di droghe, ma anche l’ascolto
di musica.
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Guardare un opera d’arte o produrla consente ai neuroni di rilasciare questa so-
stanza, garantendo così un senso di benessere generalizzato, unitamente
all’attivazione dei neuroni specchio, più presenti nell’osservazione.
Indubbiamente le domande sono molte e ancora non trovano risposta, ma la
scienza si adopera per trovarvi soluzione, e chissà che un giorno si riusciranno a
curare malattia degenerative e psicologiche, oggi ritenute inguaribili. Al momento
però, l’arte si dimostra essere un’efficace terapia nei casi più disparati, compresa
la schizofrenia, dalla quale si può guarire o comunque migliorare notevolmente
tanto da garantirsi una normale quotidianità.
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Conclusioni
La neuroestetica ha dato una profonda svolta alla conoscenza del cervello e di
come questo vive l’arte, la quale rimane un concetto astratto e troppo complesso
perché sia definibile. Forse se si potesse spiegare l’arte, avremmo già smesso di
farla o non ci attirerebbe tanto; proprio il suo alone misterioso ci attrae, la sua for-
za espressiva ha capacità inscindibile di affascinarci, stupirci e ammaliarci. Sap-
piamo adesso perché ci emozioniamo osservando un dipinto, sappiamo che è
l’osservatore a dare senso all’opera con la sua propria interpretazione, sappiamo
che la nostra ricerca costante di perfezione ci limita in un angusto senso di insod-
disfazione, sappiamo che la realtà per come ci appare è un’elaborazione del nostro
cervello, che le illusioni ottiche, gli schemi e i concetti mentali sono un modo per
affrontare e conoscere il mondo esterno.
Sappiamo che i colori sono una creazione mentale, e che il nostro sistema visi-
vo, sia esterno che interno, si è sviluppato con l’intento di facilitare l’adattamento
dell’uomo nel mondo, come d’altronde tutti gli sviluppi percettivi mirano alla so-
pravvivenza e al benessere psicofisico.
Insomma, l’era del nuovo millennio è aperto alla scoperta scientifica e tecnolo-
gica, approda irrefrenabile a conoscenze che aprono nuovi orizzonti, sempre più
vasti, per allietare la curiosità umana che invano persegue all’entropica compren-
sione dell’essenza umana, della vita, della felicità e dell’amore.
Eppure siamo ancora spaventosamente lontani da comprendere i meccanismi
della vita e delle emozioni, e per quante risposte la scienza potrà dare, la nostra
sete di curiosità non verrà dissetata, non finiremo forse mai di porci domande.
Perché anche sapendo come il cervello elabora il mondo, sapendo come nasce
la creatività, l’idea, come si formano i pensieri, non importa quante cose arrive-
remo a scoprire, le risposte biologiche non soddisferanno mai la concezione filo-
sofica della vita.
C’è chi forse teme che la scienza, spiegando l’arte, ne riduca il fascino, vada a
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comprometterne l’essenza e limiti la sua forza espressiva, ma poco importa quanto
ci dicano sui neuroni, o sul perché ci emozioniamo davanti un quadro, e anche se
sappiamo che i quadri di Caravaggio e Michelangelo ci colpiscono emotivamente
perché stimolano i neuroni specchio, continueremo ad ammirare l’arte e ad ap-
prezzarla. Se ci verranno svelati nel dettaglio i meccanismi che stanno alla base
del nostro interesse verso le immagini e la musica, osserveremo opere e ascolte-
remo melodie con la stessa passione e lo stesso trasporto. Non è scoprendo come
il cervello vive le emozioni che queste sbiadiranno, non è sapendo cosa ci spinge
a creare una scultura, a scrivere una poesia, o a comporre una sinfonia che allora
non ne saremo più in grado.
La neuroestetica tenta di spiegare il fenomeno di immedesimazione che subia-
mo di fronte all’arte, ma è l’arte che suscita in noi il fascino e l’emozione, e non la
consapevolezza di avere neuroni in testa che scaricano.
Capendo come il cervello funziona, si spera di poter curare e rimediare a malat-
tie e lesioni, di migliorare le nostre capacità e di mantenerle in buone condizioni,
evitando quei comportamenti autolesionistici tanto in voga.
Per ora non siamo che ai piedi della montagna, e chissà che ben presto tutto ciò
che finora è stato scoperto non venga totalmente rinnegato; d’altronde la meravi-
glia della vita sta anche nel fatto che non si finisce mai di scoprire, e se appena ci
si lascia avvolgere dalla presunzione di sapere tanto, ci si ritrova davanti
all’abisso dell’ignoranza, dove ogni certezza di conoscenza crolla di fronte ad una
novità.
L’importante è che non si smetta di fomentare la curiosità, che tra tutte le fun-
zioni mentali, quella sarà l’unica a spingerci sempre oltre, in qualsiasi ambito.
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Glossario
Alzheimer, malattia di – patologia degenerativa del sistema nervoso, dovuta
ad atrofia cerebrale (perdita dei neuroni), che provoca demenza senile o presenile,
caratterizzata da disfunzioni cognitive quali amnesia (perdita di memoria), agno-
sia (riconoscimento di volti e oggetti), afasia (capacità linguistiche) e aprassia.
Amigdala - Struttura essenziale del sistema limbico, interagisce soprattutto con
l’ipotalamo e i lobi frontali per innescare le adeguate reazioni agli oggetti, provare
affetto, e contribuisce ad attivare il sistema nervoso simpatico.
Aprassia - disturbo cognitivo che impedisce di compiere movimenti volontari
coordinati, spesso caratterizzati dalla negazione del disturbo.
Area di Broca - localizzato nel lobo frontale, è una delle strutture indispensa-
bili per la sintassi del linguaggio.
Area di Wernicke - fondamentale nella comunicazione verbale o scritta, pre-
siede alla sua comprensione e consente di dargli un senso compiuto.
Cervelletto - presiede al controllo motorio, contribuisce alla sincronizzazione e
alla coordinazione dei movimenti.
Cingolo anteriore - posto vicino al corpo calloso, è adibito al libero arbitrio,
all’attenzione e alla vigilanza.
Corpo calloso - fascio nervoso interposto tra i due emisferi, ai quali consente
di comunicare.
Diencefalo – sistema complesso anatomico e funzionale, si trova tra il telence-
falo e il mesencefalo.
Emianopsia - perdita o diminuzione della visione per metà campo visivo do-
vuto a deficit cognitivo, ovvero il disturbo compromette un solo occhio.
Eminattenzione - vedi negligenza spaziale unilaterale.
Emiparesi - paresi parziale, ovvero solo una metà del corpo è compromessa
dalla paralisi.
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fMRI - risonanza magnetica che scansiona mappe topografiche del cervello
basandosi sulle proprietà magnetiche dell’emoglobina.
Ictus - interruzione dell’afflusso di sangue in una zona del cervello, che provo-
ca la morte dei neuroni presenti nell’area che, in mancanze di ossigeno smettono
di funzione, per cui la parte dell’organismo ad essi collegata cessa a sua volta di
funzionare.
Intellettualizzazione - processo mentale attuato a fronte di un emozione o im-
pulso, con lo scopo di controllare razionalmente le emotività.
Ipotalamo - composto da diversi nuclei adibiti a diverse funzioni, si occupa
delle emozioni e del controllo di organi interni.
Ippocampo - componente del sistema limbico, contribuisce nell’apprendi-
mento, attenzione, condizionamento e nell’acquisizione di nuovi ricordi.
Meccanismi di difesa - meccanismi psicologici inconsci che prevedono di de-
viare informazioni potenzialmente minacciose per l’Io, come traumi, perdite o ri-
cordi spiacevoli.
Mesencefalo – parte mediana dell’encefalo, derivante dalla seconda vescicola
embrionale.
Negligenza spaziale unilaterale - deficit cognitivo per cui non viene percepito
lo spazio e il corpo nella metà controlesionale della persona (il lato opposto
all’emisfero leso).
Neurogenesi - generazione o nascita di nuovi neuroni.
Neuroni dopaminergici - neuroni il cui principale neurotrasmettitore è la do-
pamina.
Neuroscienze – insieme di discipline mediche che studiano i vari aspetti del si-
stema nervoso, quali farmacologia, biologia molecolare, neurofisiologia ecc...
Parkinson, morbo di - Malattia degenerativa di alcuni centri del sistema ner-
voso che provoca disturbi motori, quali tremori e rigidità muscolare, alterazioni
della mimica e del linguaggio.
Pensiero visivo - trasformazione di concetti, quali sentimenti, percezioni, emo-
zioni ecc.. in immagini mentali.
Propriocezione – insieme delle funzioni deputate al controllo e alla percezione
della posizione e dei movimenti del corpo.
Prosopagnosia - disfunzione del sistema nervoso centrale che impedisce di
percepire correttamente i volti delle persone.
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Rombencefalo – parte dell’encefalo situato posteriormente al mesencefalo e si
continua nel midollo spinale.
Schizofrenia – termine coniato da E. Bleuler che indica un disturbo psicopato-
logico di dissociazione della personalità psichica che si manifesta in gravi diffi-
coltà della strutturazione del pensiero, dell’affettività e dell’interazione tra l’Io e
l’ambiente circostante.
Sinapsi - processo chimico che consente la trasmissione dei segnali tra neuro-
ni.
Telencefalo - corrisponde alla parte più esterna dell’encefalo, ricoperto da cir-
convoluzioni cerebrali, solchi e scissure per consentire un incremento materico
della corteccia cerebrale.
52
53
Bibliografia e sitografia
Il materiale bibliografico della neuroestetica rivolta all’arte visiva è in forte crescita,
soprattutto per quanto riguarda le pubblicazioni su riviste, spesso reperibili online. Data
l’attuale difficoltà di pervenire materiale cartaceo sugli argomenti esposti, l’ampio riferi-
mento alle riviste online è d’obbligo.
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