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Dalla cultura gastronomica etrusca alcuni piatti della tradizione umbra Etruschi a tavola

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Dalla cultura gastronomica etrusca alcuni piatti della tradizione umbra

Etruschia tavola

Etruschia tavola

M. Luciana Buseghin

Dalla cultura gastronomica etruscaalcuni piatti della tradizione umbra

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Soprintendenzaper i Beni Archeologicidell’Umbria

Nella gastronomia d’Um-bria, Toscana, Emilia, Val-le Padana, Lazio e Cam-

pania emergono delle costanti:possiamo ipotizzare che trovino laloro origine negli usi gastronomicie nelle abitudini alimentari del po-polo etrusco che abitò e lasciò lasua impronta in queste terre ormaimigliaia d’anni fa.In particolare, se consideriamo l’a-rea compresa tra la riva destra delTevere e quella sinistra dell’Arno e ilmare Tirreno – il cui nome derivaproprio dagli Etruschi, così chiama-ti dai Greci – dobbiamo riconosce-re che, al di là delle differenze sen-sibili e delle particolari interpretazionilocali di ricette che solo apparente-mente possono sembrare le stesse,tanto c’è di comune o quanto me-no di affine, di somigliante: affinitàe strette assonanze che derivano an-che dall’importante presenza etruscanella vasta zona attraversata dalla viaAurelia, antica strada romana iniziatanel II sec. a.C. che univa Roma adArles/Arelate lungo la costa tirreni-ca toccando Civitavecchia, Pisa eGenova; dalla Cassia, strada con-solare romana che da Roma con-duceva a Luni nell’Etruria setten-trionale, attraverso Chiusi (Clusium)– da cui si poteva dirottare, verso est,per Volsinii e Perusia – Arezzo, Fie-sole e Pistoia. Significativa, a que-sto riguardo, la considerazione fat- 1 Arieti, 2001, p. 7.

ta da Italo Arieti, appassionato stu-dioso di tradizioni gastronomiche po-polari, a proposito della cucina la-ziale della Tuscia, identificabile conl’antica Etruria meridionale, <riuscitasintesi fra la cucina toscana, quellaumbra e quella romana, a testimo-nianza del fatto che non esiste la pos-sibilità di delimitare geograficamen-te in modo netto le varie cucine>poiché <il mangiare di tutti i gior-ni, specie nei piccoli centri e nellecampagne, nei tempi passati erachiaramente legato alla disponibili-tà in loco di quelle materie prime cheun’economia tradizionalmente agri-cola offriva, non certo generosa-mente, ma a prezzo di grandi fati-che e d’incomparabili sacrifici>1.Considerando poi, ancora più spe-cificatamente, l’odierna Umbria –

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oggi “cuore verde” d’Italia ma al-lora dell’Etruria interna, con i suoiboschi, le sue colline, le sue ferti-li pianure – possiamo affermareche la cultura, anche culinaria egastronomica, si è integrata, neltempo e nello spazio, a quella del-le popolazioni locali: Umbri, Osci,ma anche Sabini, Piceni ed altri po-poli confinanti.

Mancando, però, una con-sistente documentazionearcheologica di settore,

possiamo ricostruire la gastronomiaetrusca sostanzialmente dall’icono-grafia – che si tratti di urne cinera-rie, di vasi fittili o di affreschi in ne-cropoli, tra cui Tarquinia, Velletri,Chiusi e Volterra – o da quanto rac-contano autori della letteratura gre-ca e latina, spesso, specialmentequest’ultimi, piuttosto critici verso lostile di vita etrusco, presentato cometroppo gaudente, per intemperanzeed eccessi di varia natura, che si tra-ducevano in banchetti di lusso, ad-dirittura con presenza di donne chebevevano e mangiavano, distese sultriclinio e al suono dei musicanti, al-

trettanto quanto gli uomini. In unaparola, gli storici greci e romani, al-meno dal IV-III secolo a.C., hannoprevalentemente stigmatizzato gliEtruschi come un popolo lussuriosoe molle, attuando una chiara operadi propaganda: solo Posidonio e Dio-doro Siculo, del II-I secolo a.C., cihanno lasciato un giudizio più miteed obiettivo. In particolare, Diodoroci tramanda l’immagine di popolo for-te, conquistatore e dotato di notevo-le ingegno pratico: <La maggior par-te delle invenzioni degli Etruschi so-no state imitate dai Romani. Il po-polo etrusco appare molto progredi-to nella letteratura, nella teologia enella scienza, poiché essi hanno stu-diato più di altri popoli l’origine deifulmini>2. A questo proposito, ri-cordo fuggevolmente che divinità su-prema per gli Etruschi era Tinia, ar-mato di fulmine, sposo di Uni; im-portanti ed autoctone anche Turan,

2 Tra i più “malalingua” degli storici e poe-

ti greci e romani, Pezzella cita Teopompo e

Timeo tra il IV e il III sec. a.C.: Pezzella,

1989, pp. 101-103; in particolare la cita-

zione da Diodoro è V, 1 e sgg.

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dea dell’amore, e Nortia, cultuata aVolsinii (Orvieto) in relazione allo scor-rere del tempo e al destino – secon-do quanto riferisce Livio3 –, da cuideriva forse il nome della città diNorcia, “capitale” di quell’anticomondo magico dei Sibillini tra ter-ritorio umbro e piceno e ritenutaespressione locale del mito della“Grande Madre”, proprio come laCupra degli Umbri e dei Piceni.Continuava Diodoro Siculo: <Ri-nomati sono i tessuti di lino etru-schi, di una particolare robustezza,adatti, oltre che alla confezione diabiti eleganti, a fare robuste vele perle navi e reti per caccia. Tali tessutisono così solidi, come afferma Pli-nio, che resistono al fendente di unalama; sono così sottili che posso-no passare attraverso un anello ecosì leggeri che un solo battitore nepoteva portare facilmente sulle spal-le tante di queste reti (...) quantene occorrevano per recingere un’uc-celleria. Era loro costume imban-dire sontuosi banchetti, con raffi-

natezze di ogni genere. Usavanovasellame d’argento e possedeva-no un gran numero di schiavi>4. La bellezza e varietà dei tessuti etru-schi saltano agli occhi anche os-servando le pitture murali delle no-te tombe di Tarquinia in cui com-paiono coperte da triclinio e da ta-vola, oltre ad interessanti capi d’ab-bigliamento: i primi sono decoraticon motivi a rombo e a scacchie-ra, passati poi in eredità alle operetessili per arredamento prodotte nel-le manifatture tessili umbre d’epo-ca medievale e rinascimentale.Jacques Heurgon, autore di un te-sto sulla vita quotidiana degli Etru-schi edito nel 1961 e divenuto or-mai un classico, scrive che sull’or-ganizzazione della giornata dell’e-trusco <la sola informazione esat-

3 Livio, VII, 3,7 citato in Heurgon, 1992,

p. 256. 4 Diodoro, V, 1 e sgg. in Pezzella, 1989, p. 103.

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ta che ci è stata trasmessa sull’im-piego del tempo a sua disposizio-ne concerne il regime alimentare didue pasti al giorno>5 e chiarisceche si trattava di un vero pasto, contanto di apparecchiatura e triclini,mentre i Romani – che pur man-giavano ben tre volte al giorno – fa-cevano un solo pranzo, a partire dal-le due o dalle tre del pomeriggio, eper il resto si accontentavano dispuntini e colazioni, anche in pie-di. Scriveva Diodoro nel I secoloa.C.: <Gli Etruschi si fanno appa-recchiare due volte al giorno una ta-vola sontuosa con tutto ciò che con-tribuisce a una vita delicata, pre-parare le coperte da letto ricamatea fiori, disporre una quantità di va-sellame d’argento, serviti da un nu-mero considerevole di servi>6.

Salvatore Pezzella – paleogra-fo e paleobotanico, appas-sionato studioso ed esperto di

gastronomia storica – scriveva nel1985 che per capire come si nutri-vano gli Etruschi bisogna rifarsi al vit-

5 Heurgon, 1992, p. 256.6 Diodoro, V, 40 citato in Heurgon, 1992,

p. 257.7 Le pitture, staccate nel 1950 e restaurate

nel laboratorio del Museo Archeologico Na-

zionale di Firenze, dal 1982 sono esposte al

Museo Archeologico Nazionale nel Palazzo

Papale d’Orvieto. Cfr. Cenciaioli, 2002, p. 23.

Cfr. anche: Pezzella, 1989, pp. 100-101 e

Heurgon, 1992, pp. 258-263.

to dei Romani, poiché l’agricolturaromana non è altro che una appli-cazione dell’insegnamento etrusco.Suggeriva inoltre di considerare le pit-ture murali delle tombe collocate nel-le zone di Chiusi, Cerveteri, Tarqui-nia ed Orvieto. A quest’ultima ap-partiene la fondamentale Tomba diSettecamini, presso Porano, scoper-ta nel 1863 da Domenico Golini, dacui prese il nome. Costruita nel IV se-colo per la famiglia Leine, nel tra-mezzo che separa in due parti la ca-mera quadrangolare si trovano raffi-gurate sia la dispensa delle carni edella selvaggina – un bue, una lepre,un cerbiatto, due anatre e un ghiro7

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– sia il banchetto funebre dei due fra-telli Lenii che si svolge alla presen-za di Aita (Ade) e Phersipnai (Pro-serpina), divinità degli Inferi comu-ni a Etruschi, Romani e Greci, pre-sumibilmente approdati in Etruriagrazie ai fruttuosi scambi commer-ciali e culturali col mondo ellenicoconsolidatisi proprio in quel periodo.Sono raffigurati 11 servi, di cui so-lo 2 donne e un suonatore di flautodoppio – gli Etruschi, infatti, solevanocucinare a ritmo di musica – chesvolgono le diverse funzioni di cu-cina: chi taglia la carne, chi la fa ar-rostire, chi è impegnato a frantumarecon pestelli in un ampio mortaio conbeccuccio, forse per preparare <unodi quei piatti misti di cui gli antichierano ghiotti e nei quali entrava ognisorta di ingredienti triturati diligen-temente e di spezie da risvegliare unmorto> scrive Heurgon8. Sulle ta-vole rettangolari a tre piedi, di for-ma equina – secondo la moda gre-ca diffusasi in Etruria – la maggiorparte dei commentatori hanno rite-nuto di poter individuare mucchiet-

ti di focacce, uova, grappoli d’uva ne-ra, melagrane e piccole piramidi, pre-sumibilmente di dolciumi9. Co-munque, sia in questo caso, che inaltri – come per esempio nella fa-mosa Tomba degli Scudi, attribuitaal III-II secolo a.C. e conosciuta an-che come “Velcha” o in quella det-ta del Triclinio, entrambe di Tarqui-nia – l’individuazione degli alimen-ti è quanto mai aleatoria, eccezionfatta per alcuni: focacce, frutta, ecc.Quanto alle varietà di frutta, Arieti af-ferma che <Sicuramente esisteva ilcastagno, il sorbo, la noce, l’uva, ilmelograno, il pero, il melo, che Ca-tone afferma essere stato introdottoa Roma dagli Etruschi, i fichi, famosierano quelli di Chiusi, e le noccio-le, i cui gusci sono stati ritrovati a Ble-ra e a Bolsena nell’insediamento delGran Carro>10; noccioline intere ed

8 Heurgon, 1992, pp. 259-260.9 Heurgon, 1992, pp. 260-261.10 Arieti, L’alimentazione al tempo degli

Etruschi, dattiloscritto, s.d.

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incorrotte si possono ammirare nel-le bacheche del Museo della Civil-tà Villanoviana di Verucchio (Forlì),oltre a tantissimi eccezionali reper-ti che documentano la vita quoti-diana degli Etruschi conservatisi gra-zie a condizioni particolari di habi-tat. Un valido aiuto è arrivato, a par-tire dagli anni Ottanta, da ricerchearcheologiche più focalizzate e dal-la paleobotanica che ha permessodi risalire con maggiore precisione,grazie a pollini e resti sia di flora chedi fauna, <alle diverse specie ani-mali, sia domestiche che selvatiche,utilizzate probabilmente per l’ali-mentazione, e ai tipi di colture pre-valenti e quindi ai prodotti agricoli dipiù largo consumo>11.

Etruschi (e Romani) erano piùcarnivori dei Greci: preferito,pare, fosse il porco, offerto

anche agli dei, arrostito allo spiedoo sulla griglia, condito con erbe aro-matiche e con il suo stesso grasso(come del resto anche altri tipi dicarne): secondo un’antica usanza ri-portata da Varrone, costituiva il pa-sto rituale delle occasioni solenni,specialmente i matrimoni. I maialierano gli animali più frequente-mente allevati, come attestato dal-lo stesso Varrone e da Polibio: a te-stimonianza di questa pratica ci ri-mane la situla d’argento del VII se-colo a.C. rinvenuta a Chiusi, in cui

è raffigurato un porcaro che conduceuna mandria di verri. Al secondo po-sto veniva l’allevamento di ovini ecaprini, da cui si ricavava latte, for-maggi e lana, filata e tessuta dallesignore dell’Etruria sin dall’età delbronzo, epoca dello sviluppo dellaciviltà etrusca che si fa risalire al-meno al XIII secolo a.C. ma, alcu-ni secoli più tardi, anche dalle ma-trone romane poiché gli Etruschi fu-rono anche grandi esportatori di la-na greggia12, oltre che di vele di ro-bustissimo lino per le navi, prodot-te specialmente a Tarquinia.Plinio e Marziale parlano di un for-maggio che dovrebbe corrispondereal nostro pecorino e si sa che gliEtruschi conoscevano già l’uso del-la grattugia, per cui è assai proba-bile usassero pecorino grattugiatosulla puls o polenta, di farro o dialtri cereali13 e pare anche di semi

11 Arieti, s.d.: l’autore cita, in quanto fece il

punto sulla questione, la mostra sull’Alimen-

tazione nel mondo antico, presentata alla

Rocca degli Albornoz a Viterbo nel 1987.12 Giovenale, VI, 287-290.13 Arieti, s.d.

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di lino. Producevano anche for-maggi freschi, tra cui la ricotta, dicui è forse erede la ricercata ricot-ta affumicata di tutta l’area delladorsale appenninica, salata unavolta che si è asciugata, fatta ripo-sare per una settimana e tenuta inun ambiente chiuso dove viene bru-ciato legno di ginepro.Agnelli, capretti, montoni, pecore, ca-strati, ma anche altre carni veniva-no in genere bollite prima della cot-tura sulla griglia o allo spiedo, usorimasto ancora in alcune tradizioniregionali italiane soprattutto persgrassare e togliere l’odore di selva-tico; odori utilizzati per insaporire lecarni erano prezzemolo, finocchio,aglio, alloro, rosmarino e timo serpillo. Gli Etruschi apprezzavano assai an-che gli animali da cortile, di cui uti-lizzavano anche le uova: galli, galli-ne, faraone, oche, colombi; e ancorpiù la cacciagione – cinghiali, lepri,cervi, caprioli, uccelli di palude, ana-tre, fagiani e pernici – tutte carni al-la cui cottura, presentazione e dis-tribuzione in tavola erano addette an-che le donne, che in Grecia poteva-no al massimo preparare il pane. Molto praticata l’attività venatoria,in particolare la caccia al cinghia-le, di ottima qualità ma anche mol-to pericoloso tanto che veniva tenutoin vaste “riserve” e catturato con lereti, soprattutto dai nobili. L’impor-tanza della caccia e la frequenza del-

le “riserve” in questo ambito terri-toriale sono elementi testimoniatidalla stessa loro permanenza fino anoi ma già da Virgilio e da Plinio,oltre che dalla iconografia degli af-freschi di varie tombe tarquiniesi: la“scrofa nera”, la “querciaiola” e quel-la della “caccia e pesca”, quest’ul-tima importante per la caccia ai vo-latili oltre che per la pesca di pescidi lago e di mare che si fossero abi-tuati all’acqua dolce, come scriveColumella a proposito dei laghi diBolsena e Bracciano14, informa-zione senz’altro applicabile anche al-l’umbro Trasimeno: avanotti o lat-terini o bianchetti (neonati di pesce),rombi, lucci, spigole, orate, ostrichecon salse a base di menta, ruta, se-nape, miele e melograno15.Sembra che gli Etruschi già prepa-rassero bolliti, speziati con erbe, eavessero una propria versione del-

14 Arieti, s.d.15 Pezzella, 1989, p. 108.

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la “zuppa nera” di carne siciliana eateniese del V secolo a.C.16. Forsepossiamo ritrovarne un’eco nelletante zuppe e spezzatini di carni mi-ste o specialmente di cinghiale, so-prattutto dell’Amerino, dell’Orvieta-no e della Maremma?

Tracce, ormai ignorate, dellacucina etrusca sono passate– attraverso la mediazione pri-

ma di quella romana e poi di quel-la medievale e rinascimentale – nel-la nostra cultura gastronomica, co-m’è dettagliatamente dimostrato daClotilde Vesco, autrice di un volumesignificativamente intitolato Cucinaetrusca. 2685 anni dopo e curatri-ce di un’edizione dell’Arte coquina-ria di Apicio. Tra i tanti usi e prepa-razioni ereditate: il consiglio di scot-tare cervelli e fegatini e di frollare lacarne prima della cottura e la ricet-ta della lepre farcita con le ghiande.Gli Etruschi furono i primi importa-tori, intorno all’VIII secolo, di spezie

e raffinati condimenti, tra cui il pe-pe, seguiti poi dai Greci che im-piantarono dopo poco le prime co-lonie greche nel Sud d’Italia. Il pe-pe sostituì, o si accompagnò, allebacche di mirto nell’insaporire le car-ni; fu presto seguito dalla cannella– nelle sue qualità di cinnamomo ecassia – già citata nella Bibbia nelVI secolo a.C. e che furoreggiò al-meno fino a tutto il Medioevo. Co-noscevano bene anche il cumino ocomino – pianta dalle molte varie-tà, originaria del Medio Oriente mausatissima anche dai Romani comesostituto del più costoso pepe –; ilcoriandolo, dal forte sapore aroma-tico – che è tuttora usato nella pre-parazione dei salumi e in genere co-me condimento delle carni, ma an-che sotto forma di confettini rivesti-ti di zucchero – e il nardo dall’odo-re intenso, cioè l’erba citronella, equello selvatico o asaro, da usare ne-gli arrosti, specialmente di capretto,uso ripreso poi da Apicio. Già co-nosciuti anche i semi di sesamo, im-portato dall’Oriente, in seguito usa-ti assai anche nella cucina romana,tostati, sugli arrosti o su pani e dol-ci: uso quest’ultimo diffusissimo intutta l’area mediterranea e anche nel-la gastronomia del nostro meridio-ne e in quella ebraica. Tante le insalate condite con fogliearomatiche – come quelle dellapimpinella o salvastrella – o con er-

16 Pezzella, 1989, ibidem.

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be come il silfio o assafetida, erbadal sapore acre aglioso, originariadel Medio Oriente, usata frequen-temente dai Romani17. Conferiva-no un sapore inconfondibile già al-le pietanze etrusche i tartufi, di mol-te varietà tra cui quelle di Norcia edi Libia, e per la cui cottura Apicioci ha lasciato ben 6 ricette18.Nutrimento base, specialmente del-le popolazioni rurali, il farro o spel-ta, che coltivavano già dal V secoloa.C. nella regione Tirrena in quattroqualità e trasformavano in farina, se-molino grosso, ecc., con cui prepa-ravano un pane basso tipo focacciae polente. Coltivavano anche l’orzocomune e l’orzo bianco, il panico omiglio, graminacea originaria del-l’India ma già in territorio italico inepoca preistorica, con cui pure si pre-paravano pane, focacce e polente,con latte e formaggio di capra, maanche zuppe, misti a legumi, la cuicoltivazione pare avessero appresodai Greci19. Polenta di farina di far-

ro o di alica, un semolino grosso, maanche di semi di lino, focacce di fa-rina, impastate anche con formaggiofresco, pani bassi e ben cotti trovia-mo anche nella gastronomia roma-na. E anche torte rustiche come lascriblita, fatta di una sfoglia esternae strati di sfoglia sottile alternata a ri-cotta. Con la sfoglia sottile si facevaanche una sorta di lasagne che, unavolta seccata e spezzata, si utilizza-va come pasta secca. Anche gli Etru-schi conoscevano la sfoglia come te-stimoniano spianatoia, matterello esacchetto di farina raffigurati nellaTomba Bella di Cerveteri20.Gli Etruschi bonificarono molti ter-reni paludosi e trasformarono zonegià allora tristemente note per la ma-laria in <fattorie dove crescevanofrutta e verdure di ogni genere> scri-ve Santini21: prima fra tutti la cipolla,diffusa in tutto il Mediterraneo mapare originaria dell’Asia centrale, chetroviamo chiaramente affrescatanella Tomba degli Stucchi a Cerve-teri. I contadini della Maremma to-

17 di Corato, 1978, p. 47.18 Apicio (aut.) - Vesco (cur.), 1994.

Quanto ad Apicio, si tratta, come è noto, di

un nome-simbolo assai discusso che ripor-

ta a personaggi diversi e lontani nel tempo:

il ricettario dovrebbe essere di un Celio (no-

me etrusco) o Claudio (nome romano) cuo-

co, detto perciò Apicio (che era passato a si-

gnificare tale professione) che lo avrebbe

compilato nel 230 d.C. rifacendosi a una

prima edizione di Marco Gavio Apicio, vis-

suto sotto Augusto e Tiberio nel I secolo d.C. 19 Pezzella, 1989, pp. 104-105 e di Co-

rato, 1979, p. 174 e p. 227.20 Vesco, 1985, pp. 153-154.21 Santini, 1991, p. 148.

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scana di un tempo solevano dire chele zuppe si mangiano con il cuc-chiaio in una mano e la cipolla nel-l’altra22 e comunissime sono le pre-parazioni con la cipolla in tutto il ter-ritorio umbro-toscano-laziale: fa-mosa la cipolla di Certaldo e quel-la di Cannara, entrambe note so-prattutto nella variante rossa, piùdolce e digeribile, e perciò consu-mabile cruda. Ingrediente fonda-mentale perché conferisce un sa-pore inconfondibile a zuppe e frit-tate, ma anche alla “panzanella” chesi vuol far risalire alle offerte sacri-ficali sulle antiche are cui allude-rebbero anche le “Tavole eugubine”:la patenata fatta con pane bagna-to con olio, aceto e menta23.

Note agli Etruschi anche na-vone e rape (famose quel-le di Norcia), due radici del-

le Crocifere – come il ben più diffu-so cavolo, già coltivato 2000 anniprima di Cristo – utilizzate poi mol-

to anche dai Romani. E ancora: ca-rote selvatiche, zucche a fiasca, bie-tola, porri italici, cetrioli, carciofi sel-vatici o cardi, di cui in alcune zoneancora oggi si consuma il cuore les-so con olio e aceto: verdure ed or-taggi che si mescolavano anche al-le polente di cereali, uso di cui ri-mane traccia sia nella cucina to-scana24 che in quella umbra, cheprevede diverse varianti di polente digrano duro o di mais mescolate a va-ri tipi di leguminose già usate in Etru-ria e, secondo Pezzella, autoctone25:la fava (una delle piante alimentaripiù importanti dell’antichità, origi-

22 Santini, 1988, p. 159 e 1991, pp. 59-60.23 Fabbi, 1971, p. 81.24 Petroni, 1989, pp. 140, 145 e 192. 25 Pezzella, 1989, p. 105; non tutti gli au-

tori sono d’accordo su questa origine locale:

Di Corato, per esempio, sostiene la provenienza

del lupino dal Medio Oriente anche se ne con-

ferma una presenza precocissima in suolo ita-

lico: cfr. Di Corato, 1979, p. 171.

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naria del bacino del Mediterraneo,già coltivata nell’età del bronzo e par-ticolarmente diffusa presso Egizi eGreci, almeno dal 2500 a.C.) cheveniva consumata lessa, tostata ocotta nel lardo, sia come cibo quo-tidiano che come offerta sacrificaleai defunti da placare; la lenticchia,originaria dell’Asia centrale e già col-tivata 2000 anni prima di Cristo; iceci, il cui seme gli Etruschi aveva-no importato da Cartagine – ma chesi dice originario dell’Himalaya – econ cui preparavano polentine se-midolci, il cui uso permane tra Li-guria e Toscana; la veccia, piantaspontanea, i cui semi rotondi, scu-ri o chiari, sono stati oggetto di rac-colta alimentare sin dalla preistoriaed utilizzati anche recentemente perla panificazione in tempi di magra:“in tempo di carestia è buono il pandi vecce”; il lupino (ottimo per i buoida lavoro, se cotto e macerato) cheera il cibo dei poveri, commerciatoper strada e distribuito nelle feste; ildolico o fagiolino dall’occhio, co-nosciuto in Umbria come fagiolinao risina, originario delle regioni tro-picali dell’Asia e dell’Africa, arrivatoin suolo italico dalla Grecia e moltousato anche dai Romani26; infine, ilpisello, legume autoctono, sicura-mente pre-romano, alimento tipicodei ceti romani popolari che sembralo consumassero solo secco. Cristina Bindi, in un bel volume che

presenta anche alcuni testi di auto-ri classici latini, scrive che gli Etru-schi spesso consumavano le verdurebollite e condite con solo olio e chepasto assai diffuso era un minestronepreparato con orzo bollito, pinoli, uvapassa, semi di melograno, conditocon vino e miele, chiamato satura27,denominazione che a noi ricordapiuttosto il noto genere poetico lati-no di cui fu maestro Orazio, protet-to dall’etrusco Mecenate28.

L’olio d’oliva era conosciutocome condimento, ma so-prattutto come unguento

per lenire e profumare corpo e ca-pelli e come combustibile per lelampade delle are e delle tombe:

26 Il fagiolo più diffuso oggi è originario, in-

vece, dell’America tropicale e arriva in Eu-

ropa nel Cinquecento: cfr. di Corato, 1979,

pp. 121-124.27 Bindi, 1993, p. 90: l’autrice cita la ri-

cetta da Varrone Diomede.28 Salza Prina Ricotti, 1993, p. 104 e più in

generale: Orazio ed i suoi tempi, pp. 90-116.

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era una varietà molto dolce, ini-zialmente ottenuta solo dalla va-rietà murta, simile alla mortella.Cura speciale ebbero anche per leapi il cui miele usavano in cucinae nella farmacopea29.Sembra che nella nostra penisolagli Etruschi siano stati i primi a pro-durre vino – la stessa parola vinumsarebbe etrusca – e ad importarloanche in Grecia, secondo Ateneo,sin dal tempo di Alessandro Ma-gno30, mentre la coltivazione del-la vite si dovrebbe ai Greci delle co-lonie meridionali: ma in Sicilia so-no stati trovati vasi da vino già del2000 a.C. e si sa che i Romani ap-presero le tecniche vitivinicole daisacerdoti etruschi. Comunque, ècerto che gli Etruschi producevanoottimo vino e ne usavano in gran-di quantità sia nei conviti allietatida musiche e danze che in cuci-na, per esempio irrorando la carnearrostita allo spiedo, ad imitazionedella cucina omerica31, uno dei tan-

ti usi rimasti nella tradizione ga-stronomica dell’Italia centrale.Intorno all’VIII secolo a.C. in Etru-ria si cominciano anche a produr-re contenitori per vino derivati damodelli greci: tazze, brocche e bic-chieri, segno di una coltura inten-siva della vite e di un largo consu-mo di vino che veniva impiegatomiscelato ad acqua, come bevan-da ben oltre i pasti. Nel corso deisimposi si praticavano molti giochi,tra cui il kottabos in cui si <ga-reggiava sdraiati e con un lancio divino contenuto nella coppa si do-veva colpire un piattello posto in ci-ma ad un asta metallica. (...) I kot-taboi non sono molto attestati, masono stati rinvenuti quasi esclusi-vamente in tombe perugine>32.

29 Pezzella, 1989, pp. 107-108.30 Arieti, s.d.31 Pezzella, 1989, p. 108.32 Cenciaioli, 2002, pp. 20-22 e pp. 26-27.

17 Crostoni all’etrusca 17 Crostini alle fave17 Animelle e fave17 Minestrone di castagne18 Zuppa di ceci e castagne

alla piegarese18 “Acqua cotta” coi “lupari” 19 Minestra d’orzo perlato

e funghi porcini19 Minestra di farro e fagioli borlotti 19 Macco coi dolici21 Ciriole di Passignano21 Umbrichelli con i “maghetti”

alla pievese21 Fegato di vitello alla pasta d’olive22 Agnello arrosto alla casciana22 Castrato allesso23 Anatra arrosto alla perugina24 “Oca delle feste” alla nursina24 Vitello perugino alla ghiotta25 Cinghiale in salsa di Guardea 25 Colombo “accompagnato”

alla perugina25 Fagiano “sorpresa” alla tiberina26 Faraona al ginepro26 Brustico26 Pane alle olive27 Pagnottelle al farro27 Brustengolo d’Amelia28 Torta di castagne

INDICE DELLE RICETTE

Crostoni all’etrusca pane integrale; olive neredenocciolate; aglio; prezzemolo;pinoli; formaggio; gherigli di noci

Dorare le fette di pane in forno e divi-derle in due gruppi: sulle prime, strofi-nare appena con uno spicchio d’aglio;coprire quindi prima con un trito d’oli-ve nere, poi di prezzemolo ed infine dipinoli; sulle altre, spalmare il raveggio-lo e cospargere con i gherigli interi. � Queste ricette costituiscono due del-le tante interessanti e gustose reinter-pretazioni della cucina storica (in que-sto caso etrusca ma anche medievalee rinascimentale) ideate e realizzate daSalvatore Pezzella33.

Crostini alle fave fave secche g 300; 1/2 cipolla; 1carota; 1 costola di sedano; unpizzico di semi di finocchio; 1spicchio d’aglio; olio d’oliva difrantoio; sale; pepe; pane raffermoaffettato

Selezionate le fave e mettetele a bagnoin acqua fresca tenendole una notte.Lessatele in acqua salata con mezzacipolla, una costola di sedano, una ca-rota ed un pizzico di semi di finocchio.Abbrustolite le fette di pane e struscia-tevi uno spicchio d’aglio: mettetele sulfondo del piatto e versatevi sopra le fa-ve con poca acqua di cottura ed ab-bondante olio di frantoio; sale e pepea piacere. � Ricetta di Giulio Pinco di Narni, re-gistrata da Bonacina34.

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Animelle e fave400 g di fave secche; animelledi maiale; 1 cipolla; olio d’oliva; sale;pepe

Lessate le fave precedentemente am-mollate con l’aggiunta di solo sale; po-co prima di servirle, togliete loro labuccia e tenetele in caldo; fate rosola-re la cipolla tritata in olio ed aggiunge-te le animelle; una volta cotte, servite-le con le fave, condendo con olio, salee pepe.� Ricetta di Orazio Falchi di Giano del-l’Umbria raccolta da Bonacina35 checommenta: <È la colazione tradizio-nale che segue l’uccisione del maia-le>, ma eravamo ancora nella secon-da metà degli anni Settanta; dosi e ste-sura sono mie.

Minestrone di castagne 400 g di castagne fresche; 200 g dipasta corta da minestrone; 1 ramettodi rosmarino; 1 spicchio d’aglio; oliod’oliva; sale

Ponete nella pentola l’acqua necessa-ria alla minestra e fatevi bollire il ro-smarino (tritato o contenuto in un sac-chetto di garza, se vorrete poi levarlo),l’aglio, un poco d’olio, il sale: il saporedel brodo non dovrà risultare troppomarcato. Nel frattempo incidete labuccia delle castagne e fatele arrostirenell’apposita padella forata; sbucciate-le ancora calde, tagliatene alcune apezzetti e, lasciando le altre intere, get-tatele nella pentola della minestra.Cuocete infine la pasta e servite inscodelle di terraglia.

RICETTE

Avvertenza alle Ricette: le dosi, salvo

indicazione contraria, s’intendono

da 4 a 6 persone.

33 Pezzella, 1999, pp. 35-36.34 Bonacina, 1978, p. 147.35 Bonacina, 1978, pp. 163-164.

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� Ricetta di Agostino Tabarrini, unodei collaboratori di Bonacina nella ste-sura di una guida enogastronomicadell’Umbria di circa 30 anni fa, sem-pre interessante: ho volutamenteomesso l’uso di un cucchiaio di con-centrato di pomodoro nella preparazio-ne del brodo per motivi di coerenzastorica, essendo arrivato in Europa ilpomodoro solo dopo la scoperta del-l’America e quindi ben dopo la scom-parsa della civiltà etrusca36.

Zuppa di ceci e castagnealla piegaresequalche cucchiaio d’olio; 2 spicchid’aglio; 1 rametto di rosmarino;300 g di ceci lessati; 150 g dicastagne arrostite; crostini di pane;sale

Fate soffriggere l’aglio con un ramettodi rosmarino (legato perché non perdale foglie), sale, pepe o peperoncino;unite i ceci lessati ed infine acqua cal-da. Dopo qualche minuto, aggiungetele castagne arrostite e sbucciate e la-sciate bollire il tutto per circa 30-40minuti. A cottura ultimata, versate inpiatti dove siano stati preparati crostinidi pane casareccio abbrustolito. � Questa zuppa, sostanziosa e sapori-ta, è della tradizione gastronomica diPiegaro ma preparazioni a base di ca-stagne, fagioli e ceci si possono repe-rire anche in altre località dell’area tra-simenica; a Preggio, sulle colline tra ilLago e l’Alta Valle del Tevere, si posso-no gustare alcune varianti, tra cui uncontorno di fagioli, freschi o secchi,con castagne e frittelle di farina di ca-

stagne, arricchite da gherigli di noce,uva passa e buccia di limone grattu-giata37.

“Acqua cotta” coi “lupari” 4/6 fette di pane casereccio; 150 gdi germogli di luppolo; 1 cipollamedia; 1 spicchio d’aglio; 2 cucchiaidi pecorino grattugiato; olio d’oliva;sale; pepe

Fate soffriggere aglio e cipolla tritatinell’olio ed unitevi le cime di luppolo,dopo averle fatte sbollentare per qual-che minuto in acqua salata; dopo cir-ca 10 minuti aggiungete l’acqua e fa-te cuocere per una mezz’oretta, a te-game coperto. Disponete le fette di pa-ne sul fondo delle scodelle, cosparge-tele col pecorino e versate l’“acqua cot-ta” ben calda. � Ricetta della tradizione di Schegginonella Valnerina spoletina38: dosi e ste-sura sono mie. Si tratta della variantepiù semplice di questo piatto, in que-sto caso caratterizzato dal gusto incon-fondibile dei “lupari”, sorta di asparagiselvatici, con cui si preparano anchesquisite frittate. In tutte le altre versio-ni, l’acqua insaporita anche da grassodi prosciutto, pomodori o bietole, vie-ne versata su fette di pane abbrustoli-te e solo dopo cosparsa di pecorinograttugiato e condita con una spolve-rata di pepe nero macinato al momen-to39. Alcune delle infinite varianti pos-sibili, diffuse in tutta l’Italia centrale ederivate dalla cultura agro-pastorale:braccianti agricoli e guardiani di man-drie e greggi portavano con sé, nel “ta-scapane” di pelle o di stoffa, l’essen-

36 Bonacina, 1978, p. 124.37 Coppini, 1983, p. 132 e p. 185.38 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 221.39 Cardillo Violati - Majnardi, 1990, pp.

45-46.

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ziale “cibo quotidiano” che utilizzava-no diversamente in relazione alla lun-ghezza del periodo di assenza da casa.“Acqua cotta”, “pan cotto”, varie “pap-pe”, soprattutto toscane, tutte prepara-zioni a base di pane bagnato con ac-qua calda semplicemente insaporitada erbe locali e condita (quando anda-va bene…) con un pugno di pecorinoo di ricotta salata affumicata, oppure“ribollito” e condito anche con uvapassa e prugne secche. Clotilde Vesco,studiosa di gastronomia etrusca, ricol-lega la diffusione dell’“acqua cotta” neiterritori di Umbria, Lazio e Toscana, untempo Etruria, all’importanza e alla sa-cralità che l’acqua aveva per gli Etru-schi, famosi per le opere d’ingegneriaidraulica e che si autodefinivano Ra-senna: “coloro che abitano vicino allerive dei corsi d’acqua”40.

Minestra d’orzo perlatoe funghi porcini300 g d’orzo perlato; 1/2 litro dibrodo vegetale (o anche 3/4 di litro,per una minestra più brodosa); 300g di porcini freschi (o 100 g di quellisecchi); 1 cipolla; 1/2 cucchiaio ditimo; olio d’oliva; sale; pepe

Rosolate in olio la cipolla affettata fine-mente ed unite i funghi tritati grossola-namente; versate il brodo e conditecon timo, sale e pepe; a metà cotturaunite l’orzo perlato messo a bagno lasera precedente e fate cuocere ancorauna mezz’oretta.� Ricetta di Pezzella41: dosi, stesura esuggerimento dell’alternativa dei porci-ni secchi sono miei.

Minestra di farro e fagioliborlotti 300 g di farro; 150 g di fagioliborlotti; 1 osso di prosciutto;1 gambo di sedano; 1 carota;1 cipolla piccola; sale; pepe

Tenete a bagno in acqua tiepida l’ossodi prosciutto dopo averlo ben lavato;seguite lo stesso procedimento perfarro e fagioli borlotti, ma in acquafredda e in contenitori separati. Fatebollire per 15 minuti l’osso in acquache poi getterete; rimettete sul fuococon 2 litri circa d’acqua bollente, ag-giungete odori, fagioli, sale e pepe efate bollire per circa 1 ora e mezza(ma nella ricetta tradizionale di unclassico della cucina umbra la Corsisuggerisce 3 ore): alla fine della cottu-ra dovrà risultare circa 1 litro e mezzodi brodo. Rimettetelo sul fuoco e, ap-pena staccherà il bollore, versatevi apioggia il farro e dopo 20 minuti sco-dellatelo servendolo con pecorinograttugiato.� Questa ricetta è una reinterpretazio-ne della cucina etrusca di Pezzellache ho integrato, quanto al procedi-mento di cottura, con indicazioni del-la Corsi42; dosi e stesura sono mie.

Macco coi dolici300 g di farina di granturco; 200 gdi fagioli dall’occhio; 1 litro e mezzod’acqua; olio d’oliva; sale; pepe

Mettete in una pentola capace l’acqualeggermente salata; appena ha alzatoil bollore, buttate “a sparpaglio” la fa-rina – che dev’essere di produzione

40 Vesco, 1985, p. 125.41 Pezzella, 1999, p. 36.42 Pezzella, 1999, p. 36 e Corsi, 1976,

p. 60.

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recente – e mescolate continuamentecon un mestolo di legno: la polentaverrà tanto più fina e senza grumi,quanto più lentamente verrà gettata lafarina. Fate bollire a fuoco non ecces-sivo, sempre rimaneggiando, per circa40 minuti. Intanto, fate bollire i fagio-li – tenuti a bagno dalla sera prece-dente – in acqua fredda, “sbrodateli”,quindi rimetteteli al fuoco con acquatiepida, ripetete l’operazione e rimette-teli al fuoco, in altra acqua tiepida, fi-no a cottura ultimata. Preparate unsoffritto di olio e cipolla tagliata fine-mente, versatelo, insieme ai fagioli,nella pentola della polenta, mescolan-do lentamente. � <Piatto tipicamente eugubino, mol-to nutriente, gradevole (…). Può esse-re servito caldo, su di un piatto o sul-la “spianatoia” cosa raccomandabilis-sima. Ottimo anche freddo. Molti usa-no rimetterlo al forno per gustare quel-la saporita crosta che si forma con ilcalore intenso del forno> scrivonoPierluigi e Luciana Menichetti, ma il“macco” – la cui ricetta-base consistenel versare pian piano in acqua bol-lente salata farina di grano o di gran-turco, condita poi con solo olio d’oliva– è diffuso anche in tutto il territorioperugino che ne contende la primoge-nitura, come risulta anche da un testoclassico sugli usi e la cucina peruginadi Cerasa Mariotti che, per dimostrarequanto fosse apprezzata a Perugiaquesta pietanza, riporta il detto locale<è bono come ‘l macco!>. L’autriceregistra anche altre varianti arricchitecon fagioli, ceci, fave e una particola-re versione col sugo di battuto (lardo)

e conserva, allungato con acqua eversato a pioggia nella farina di gran-turco43. Nessuno degli autori precisala qualità dei fagioli usati: ho perciòindicato l’uso dei dolici, meglio cono-sciuti come fagioli dall’occhio, alla cuifamiglia appartiene anche la “fagioli-na” o “risina” del lago Trasimeno. IMenichetti propongono anche unaversione del “macco” con 200 g di co-tiche di maiale fresche, ben sgrassate,soffritte in tegame, con lardo battuto,rosmarino, aglietto, sale e pepe, a cuisi aggiungono 200 g di fave, già les-sate, per poi mescolare il tutto alla po-lenta, ancora in fase di cottura. Sem-pre attribuita a Gubbio è una ricettaantichissima di polenta con farina digrano cotta lentamente nel latte, chesi condisce con olio d’oliva e un pizzi-co di sale, conosciuta come “mazza-picchio”44, che nel perugino si prepa-rava semplicemente con acqua bol-lente salata e si credeva favorisse la“scesa del latte” alle puerpere45. Sitratta comunque di pietanze che ricor-dano la puls fabacia o fabata, polen-tina fatta con farina di fave largamen-te utilizzata da Etruschi e Romani, o lasemplice puls, pappa di frumento rin-venuto nell’acqua, che era il cibo or-dinario dei poveri e di cui rimane il ri-cordo nel “Grano bollito”, minestradelle campagne perugine preparatatenendo a bagno il grano per circa 6ore nell’acqua in cui verrà cotto per10 minuti, quindi versato in acquanuova salata e condito solo con oliod’oliva crudo46.

43 Cerasa Mariotti, s.d., pp. 21-22.44 Menichetti – Menichetti Panfili, 1976,

pp. 28-29.45 Cerasa Mariotti, s.d., p. 22.46 (Nonna cosa mangiavi?, dattiloscritto,

Scuola Media Inferiore Petrignano).

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Ciriole di Passignanog 600 di farina 0; 1/2 bicchiered’olio; g 100 di pecorino; basilico;aglio; maggiorana; olio d’oliva; sale

Impastate la farina soltanto con acquae sale e spianatela in una sfoglia lisciadello spessore di circa 2 mm; tagliate-la a striscioline sottili di dieci centime-tri di lunghezza che farete cuocere inabbondante acqua salata. Fate soffrig-gere in olio d’oliva un battuto di basili-co, aglio e maggiorana: condite conquesto sugo la pasta cui avrete ag-giunto, appena scolata, abbondantimanciate di pecorino grattugiato. � Ricetta raccolta a Passignano sulTrasimeno da Bonacina47.

Umbrichelli con i “maghetti”alla pievesePer la pasta: 500 g di farina bianca;1 uovo; sale; acqua; per il sugo: 500g circa di “maghetti” (duroni) di oca,pollo, tacchino ecc.; 200 g di polpadi vitello; olio; burro; pepe; sale;funghi freschi o secchi; 1 cipollapiccola

Impastate la farina con il sale, l’uovo el’acqua necessaria a tirare una sfogliaspessa mezzo millimetro. Fatela asciu-gare un poco e ricavatene dei tagliolinisottilissimi, simili a fili. Il sugo è un ra-gù tradizionale all’umbra: su un soffrit-to di poca cipolla tritata fate rosolare imaghetti e la carne a pezzettini consale e pepe: cottura lenta e tegame co-perto per almeno due ore, in relazionealla durezza dei “maghetti”; aggiunge-te quindi i funghi a pezzetti e termina-

te la cottura, bagnando se necessariocon brodo. Fate cuocere la pasta in ac-qua moderatamente salata, scolatelaal dente e conditela rimescolando ripe-tutamente.� Ricetta registrata a Città della Pie-ve48, la Salapia dell’Etruria: ho elimi-nato dal sugo l’uso dei pomodori pe-lati (2 o 3 che si mettono a cuocereinsieme alla carne) per motivi di co-erenza storica – anche se i sughi dicarne della cucina popolare tradizio-nale sono quasi sempre “rossi” – poi-ché, come è noto, il pomodoro è arri-vato in Europa dal Nuovo Mondo traCinque e Seicento ed è stato utilizza-to in medicina prima ancora che inculinaria49. Si può genericamente af-fermare, comunque, che tutte le pre-parazioni culinarie in cui il pomodo-ro, a pezzi o in forma di salsa, vieneaggiunto alla fine, hanno origini anti-che, naturalmente nella versione “inbianco”.

Fegato di vitelloalla pasta d’olive 4 fettine di fegato di vitello; 50 gd’olive nere o 1 cucchiaino e mezzodi pasta d’olive; salvia; odore di aglio;4 fettine di limone; olio d’oliva; burro;sale; 1/2 bicchiere di vino bianco

Snocciolate le olive e frullatele con 2cucchiai d’olio; spalmate le fette di fe-gato con la pasta ottenuta e fatele cuo-cere in padella con olio, burro e gli odo-ri: a metà cottura ponete su ciascunafetta una rondella di limone e spruzzatedi vino, abbassate il fuoco e fate evapo-rare. Salate e servite immediatamente.

47 Bonacina, 1978, p. 139.48 Bonacina, 1978, pp. 101-102.49 Buseghin, s.d. (1994).

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� Ricetta pubblicata da Bonacina nel-la sua guida sistematica alle attivitàenogastronomiche e alimentari dellaregione umbra realizzata a cavallo tragli anni Settanta ed Ottanta del Nove-cento50: l’autore propone nella ricettaprecisamente la “polpoliva”, definizio-ne di marketing con cui si indicava giàallora la pasta di olive che è stato unodei primi cavalli di battaglia nella pro-mozione e commercializzazione dellagastronomia umbra.

Agnello arrosto alla casciana 1200 g circa di coscio o lombod’agnello; aglio; limone; vino bianco;aceto bianco; 1 limone; olio d’oliva;pepe nero in grani e/o bacche dipeperoncino

Fate insaporire la carne per almenomezz’ora in una marinata di aceto, vi-no, sale, pepe, peperoncino, aglioschiacciato, succo di limone. Prepara-te la brace, appoggiatevi la griglia edisponevi la carne, rigirandola di tantoin tanto e bagnandola con il liquidodella marinata. � Ricetta di Poggiodomo nella Valneri-na casciana51; dosi e stesura sonomie. La cottura più antica e tradizio-nale dell’agnello è allo spiedo, uno deiprimi strumenti di caccia e di cucina:l’animale intero, o parti consistenti diesso, vengono incise e steccate con unbattuto di lardo, rosmarino, aglio, salee pepe, infilate sullo spiedo girevole ecotte, per circa 1 ora e mezza, conl’aiuto di olio d’oliva o un tempo piut-tosto il “pilotto” <un pezzetto di lardoavvolto in carta-paglia ed infilato sulla

punta di uno spiedino> che si sciogliequando si dà fuoco alla carta52.

Castrato allessoanca e coscio di castrato con la coda(circa 2 kg); acqua; sale; pepe ingrani; 1/2 bicchiere di vino bianco;1 pizzico di zafferano; 1 ciuffetto diprezzemolo con le radici o 1 cipolla(facoltative)

Prendete il tocco di carne già frollato elasciatelo a bagno un’ora; quindi, lava-telo stropicciandolo sotto l’acqua fred-da, rilavate con acqua calda e metteteil pezzo in una pignatta con acqua giàtiepida, aggiungendo il sale. Quandoavrà raggiunto l’ebollizione e sarà statoschiumato, togliete il coscio dal brodo emettetelo sulla brace, condendo conpepe acciaccato, vino bianco e zaffera-no per dare colore e lasciate cuocerelentamente. Desiderando insieme delleradici di prezzemolo o della cipolla èquesto il momento per metterle, ma sevolete solo le foglie del prezzemolo, es-se si metteranno quando la carne saràquasi giunta a cottura. � <È questo è il vero modo di cuoce-re il castrato> scrive l’estensore dellaricetta, trascritta da Giuseppe MariaNardelli in un interessante volume de-dicato alla tavola del monaco53: si trat-ta di una preparazione registrata da unanonimo autore piemontese che risaleal Settecento ma la ritengo significati-va anche in relazione alla gastronomiaetrusca poiché indica una modalità di

50 Bonacina, 1978, p. 96.51 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 203.52 Cardillo Violati - Majnardi, 1990, p. 107.53 Nardelli, 1998, pp. 183-184: l’autore

mi ha confermato in un recente colloquio

che la ricetta è tratta da un ricettario di

anonimo: Il cuoco piemontese perfeziona-

to a Parigi, edito a Venezia nel 1789.

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cottura documentata per la cucina ro-mana e medievale – e quindi quasicertamente praticata anche dagli Etru-schi – legata allo stato coriaceo dellecarni di animali generalmente vecchi,perché usati per i lavori agricoli o perla produzione di lana e formaggio. An-cora oggi in Barbagia, la terra simbolodella pastorizia sarda, si usa lessare lapecora in acqua con odori, prima dicuocerla a stufato, servendosi dellostesso brodo – piatto tradizionale pre-parato soprattutto in occasione di ma-trimoni – e in Abruzzo la pecora “allacottora” è lessata in acqua e vino54.

Anatra arrosto alla peruginaanatra di circa 1,500 g; finocchioselvatico; 1 spicchio d’aglio;rosmarino; salvia; sale; pepe; oliod’oliva o lardo

Pulite e fiammeggiate l’anatra, primadi lavarla ed asciugarla con cura; fateun battuto con lardo, abbondante fi-nocchio selvatico, aglio, rosmarino,salvia, sale, pepe e spalmatevi l’inter-no dell’anatra, oltre a farcirvi piccoli ta-gli che farete sul petto e nella zona tracoscia e sopracoscia dell’animale.Quindi, mettetela a cuocere sulla gri-glia appoggiata su brace di legno diquercia, per circa 1 ora e mezza; sa-larla solo a fine cottura e tagliarla ini-ziando dalle cosce, per poi passare alpetto, che va tagliato a fette paralleleorizzontali ed infine le ali. � Ricetta presentata da Clotilde Vescocome tipica della zona di Perugia55;anatra od oca arrosto costituiscono ilpiatto forte di tante occasioni festive le-

gate al “ciclo della vita” o a quello ca-lendariale: battesimi, comunioni e ma-trimoni ma anche feste della trebbiatu-ra o della vendemmia, in tutta l’Um-bria, ed in particolare del territorio untempo sottoposto alla giurisdizione diPerugia, nel IV e III secolo una deimembri più forti della dodecapoli etru-sca, confederazione politico-religiosache riuniva 12 città-stato, tra cui ancheCortona e Chiusi. L’influenza di Perugiasi estendeva anche alla zona del LagoTrasimeno, in particolare a Salapia,l’attuale Città della Pieve, dove era for-temente contrastata da Chiusi56: nonpoche tracce di tale competizione han-no attraversato indenni secoli di storiaed affiorano anche nella culinaria,spesso evidentemente affine a quelladella vicina Toscana, circostanza verifi-cabile anche per l’orvietano, altra im-portante zona etrusca. Anatre ed ochearrosto speziate si cucinano in diverselocalità del territorio dell’antica Volsinii:da Parrano – noto per il profondo can-yon di Fosso del Bagno, ma anche peril suo sugo d’oca – a Porano, sito resofamoso dal ritrovamento, in localitàSettecamini, delle Tombe Golini con illoro straordinario ciclo di affreschi57. Iltrattamento dell’anatra col battuto dilardo mi è stato indicato da MarcellaTosi Chiacchella, di Panicarola sulle ri-ve del Trasimeno: si tratta di un meto-do utilizzato per insaporire anche altrecarni ma particolarmente adatto perquella dell’oca che tende ad esserepiuttosto dura e stopposa e che così ac-quista sapore e tenerezza.

54 Molinari Pradelli, 2003, p. 191 e 2003,

p. 265.55 Vesco, 1985, p. 132.56 Terre d’Etruria, 2003, p. 10. 57 Umbria. Sapori e saperi, 1999, pp. 182-

183; pp. 90-191 e pp. 206-207.

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“Oca delle feste” alla nursina1 oca grossa ed il suo fegato; 4/5fegatini di pollo; 2 salsicce fresche;500 g di marroni lessati; 1 bicchieredi vino bianco; 2 tartufi; sale; pepe

Fate marinare per una nottata intera imarroni lessati, il fegato dell’oca, i fe-gatini di pollo e i tartufi in un bicchieredi vino bianco. Il giorno dopo scaldateil vino col suo contenuto e tritare fega-tini, tartufi e fegato d’oca; unitevi le sal-sicce e riempite con l’impasto l’oca. Suuna gratella fate rosolare l’animale sulfuoco; poi, infornate e lasciatela cuoce-re per un paio d’ore sempre sulla gra-tella in modo che il grasso coli. Duratela cottura pungete l’animale con la for-chetta e spennellatelo spesso con il vi-no bianco della marinata avanzata. � Ricetta dell’<Oca delle feste (zonadi Norcia, nel territorio etrusco di Pe-rugia)> scrive la Vesco precisando chegli Etruschi la consumavano spessoanche <arrostita o cosparsa di salseraffinate e di spezie saporite>. Quan-to alla conservazione, il suo grasso simanteneva a lungo e la carne venivasalata e affumicata come quella delmaiale58. Sulle rive del Lago Trasime-no (ma non solo), l’“oco arrosto” veni-va cotto in teglia, nel forno a legna, far-cito con un misto di orecchio di maia-le, interiora, “busicchio” (stomaco) efegato, collo e punta delle ali dell’oca,rosolati in olio e conditi con un battu-to di lardo, finocchio selvatico, salvia,rosmarino, aglio (ricetta di MarcellaTosi Chiacchella di Panicarola). Quan-to all’“etruschità” di Norcia, si tratta diquestione assai discussa in relazione

sia alla provenienza che all’epoca del-l’arrivo in suolo italico, e specificata-mente umbro-sabino, delle popolazio-ni identificate come Tirreni o proto-Etruschi dagli studiosi otto-novecente-schi, tra i quali alcuni fanno appello aTito Livio per sostenere la derivazionedel nome della città di San Benedettoda Norsa, dea della Fortuna, adoratain Etruria59.

Vitello perugino alla ghiotta 800 g di fettine di vitello; 500 g difegatini ed interiora di pollo; 50 gcirca di prosciutto tagliato in una solafetta; 25 g di funghi secchi; 1/2cipolla; 1 spicchio d’aglio; il sugo di1/2 limone; un quarto di carotamedia; 8/10 foglie di salvia; sale epepe; circa 1/2 litro di vino bianco;olio d’oliva; crostini di pane integraleo nero

Mettete le interiora del pollo in un te-game di terraglia con olio, prosciutto apezzetti, cipolla tritata, aglio schiaccia-to, carota e salvia; fate rosolare ed ag-giungete sale, pepe, 1/2 bicchiere divino e i funghi precedentemente am-mollati. Macinate tutto grossolana-mente e rimettete nel tegame con oliocrudo e un bel bicchiere di vino: fatebollire dolcemente per almeno trequarti d’ora a pentola scoperta, ag-giungendo man mano che la salsa sirestringe altro olio e vino. A cottura ul-timata, bagnate con il sugo di mezzolimone. Tostate il pane tagliato a cro-stini; passate in tegame la carne affet-tata sottile. Scaldate una fiammingaed accomodateci la carne che avrete

58 Vesco, 1985, pp. 172-173.59 Falzetti, 1963, pp. 66-70.

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passato nella salsa, decorate con i cro-stini caldi e versate su tutto il rima-nente della salsa.� Ricetta registrata da Bonacina a Pe-rugia nella seconda metà degli anniSettanta60.

Cinghiale in salsa di Guardea 1 kg di cinghiale; olio d’oliva; sale;peperoncino; 2/3 spicchi di aglio;1 rametto di rosmarino; 1 cipolla;4/5 bacche di ginepro; 1 cucchiaiodi capperi; 1 cucchiaio di pasta salsadi olive verdi o nere; vino nero; aceto

Tritate finemente aglio, rosmarino ecapperi e metteteli in una tazza riem-pita con metà vino e metà aceto, la-sciandoli a macerare un po’ di tempo.Tagliate il cinghiale in tanti pezzi piut-tosto piccoli e mettetelo a bagno peralmeno dodici ore in una marinatad’acqua, aceto, vino, rosmarino e sal-via. Quindi, scolate lo spezzatino emettetelo in padella a cuocere moltolentamente, eliminando l’acqua che siforma via via: una volta tolta tutta l’ac-qua, unite al cinghiale abbondanteolio, bacche di ginepro, salvia, sale epeperoncino. Quasi a fine cottura, ag-giungete la pasta di olive. � Ricetta tradizionale del territorio diGuardea, area di antichissime originitestimoniate da tracce di presenzaumana del Paleolitico e da famose mu-ra megalitiche: dei suoi boschi il cin-ghiale è storico frequentatore, fatto cheha avuto come logica conseguenzauna consistente pratica di caccia e unagastronomia specializzata61. Ho volu-tamente tolto da questa ricetta l’indica-

zione, peraltro facoltativa, d’aggiungereun cucchiaio di passata di pomodoroverso fine cottura, per motivi di coeren-za storica, già più sopra accennati.

Colombo “accompagnato”alla perugina1 colombo con il suo fegato e“cipolla”; 50 g di carne macinata dimanzo; fettine di tartufo; sale; oliod’oliva

Condire la carne col sale e il tartufo eriempirvi il colombo, ben lavato e pu-lito; quindi, metterlo a cuocere nel te-game coll’olio, insieme al fegato ed al-la “cipolla” che, una volta cotti, do-vranno essere tritati e spalmati su cro-stini di pane: l’“accompagnamento”del colombo.� Ricetta registrata dalla Vesco nellazona di Perugia62; dosi e stesura sonomie. La “cipolla” non è altro che il ven-triglio o stomaco trituratore degli ani-mali da cortile che, essendo granivori,è molto sviluppato: utilizzato, come ifegatini e le altre interiora, in molte ri-cette della tradizione popolare contadi-na soprattutto nella preparazione disughi “rossi”.

Fagiano “sorpresa”alla tiberina1 fagiano; olio d’oliva; 1 rametto didragoncello; 1/4 di cipolla; 6 mele;1/2 litro di vino bianco secco; brodo;sale

Fate rosolare nell’olio il fagiano dopoavergli messo all’interno il dragoncelloe qualche fetta di cipolla e averlo sala-

60 Bonacina, 1978, p. 133.61 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 143.62 Vesco, 1985, pp. 148-149.

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to; prendete le mele tagliate a tocchet-ti e marinate dalla sera precedente nelvino ed adagiatele sul fondo del tega-me. Mettetevi sopra il fagiano e ba-gnate col vino rimasto unito a pocobrodo. Fate cuocere per un’orettasempre girando. � Ricetta attribuita alla zona di Castellodalla Vesco63; dosi e stesura sono mie.

Faraona al ginepro 1 faraona; 1/2 litro circa di vinobianco; salvia; 5 bacche di ginepro;mollica di pane; brodo; sale

Fin dalla sera prima mettete la farao-na, pulita e lavata, nel vino bianco eabbondante salvia. La mattina, schiac-ciate le bacche di ginepro e mescola-tele a poca mollica di pane e bagnateil tutto con una piccola parte del vinodella marinata. Riempite con questoimpasto la faraona, copritela con il vi-no rimanente ed infornate per circacinquanta minuti: ogni tanto spennel-latela con un ramoscello di salvia im-bevuto d’olio. Quando è cotta, togliete-la dalla teglia e mettete il tegame sulfuoco con un poco di brodo per scio-gliere “l’attaccaticcio”: quindi, versateil saporito fondo di cottura sulla gallinacon qualche bacca di ginepro tritato. � Ricetta registrata dalla Vesco nella zo-na di Sansepolcro64; dosi e stesura mie.

Brustico 800 g di filetti di persico o di luccio;aglio; olio; aceto; sale; pepe;finocchio selvatico

Abbrustolite il pesce sulla fiamma, pre-

feribilmente del focolare, spellandolocon l’aiuto di uno straccio, liberate i fi-letti e adagiateli sulle fette di pane leg-germente tostate e strofinate con l’a-glio. Condite con sale, pepe, olio, ace-to e una spolverata di finocchio selvati-co. Se gradito, le fette di pane possonoessere velocemente intinte in vino ros-so o bianco (e l’aceto, ovviamente, do-vrà essere della stessa qualità). � La ricetta è una mia interpretazionedel “brustico”, piatto tipico popolaretradizionale delle rive dei laghi di Chiu-si e del Trasimeno, probabilmenteun’eredità di una modalità di cotturadel pesce antichissima, che possiamoagevolmente attribuire anche alla na-zione etrusca dell’area trasimenica.Anche in epoca medieval-rinascimen-tale, il pesce, arrosto o bollito, venivacondito con una salsa a base di liqui-do acido (vino e/o aceto) e/o “sapa” (o“saba”), condito con sale65: il pesce,pescato e cotto per 3/4 minuti per par-te su un fuoco in riva al lago, venivacondito con olio e acetello, vino an-nacquato con acqua che serviva comebevanda leggera e dissetante anchedurante lo svolgimento dei lavori neicampi66.

Pane alle olive500 g di farina n. 2; 350 ccd’acqua; 200 g di olive; 20 g dilievito di birra; 1 panetto di lievitomadre: per cui sono necessari 1mela, poca farina ed acqua

Per ottenere il lievito madre, mettete amacerare una mela acerba grattugiataper tre giorni (dopo 48 ore deve co-

63 Vesco, 1985, p. 160.64 Vesco, 1985, p. 158.65 Redon - Sabban - Serventi, 1995, pp.

154-156; Toaff, 2000, pp. 80-82.66 Pesce del lago Trasimeno, 1994, p. 21.

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minciare a inacidire), mescolatela conun po’ di farina, fatene un panetto e la-sciatela riposare tutta una notte, co-perta con un telo e in luogo riparato.Impastate farina e pasta acida, ag-giungendo il lievito di birra e l’acqua;spianate un poco la pasta, mettetevisopra le olive ed impastate come perfare un rotolo; lasciate lievitare 1ora/1ora e 15 minuti e infornate per35/40 minuti a 220°, eventualmenteabbassando la temperatura del forno a190-200° a metà cottura: la cottura èuna fase delicata perché dipende daltipo di forno e dall’esperienza del cuo-co che giudica anche dal colore dellasuperficie del pane.� La ricetta è dei Fratelli Cruciani,fornai dell’Antico Molino di Azzanopresso Campello sul Clitunno, il cuipane ha un gusto particolare e simantiene anche per una settimana,perché preparato con farina macinatada loro, di grano coltivato nelle loroterre e cotto nel forno a legna tradi-zionale. La cottura nel forno a legnaprevede una procedura, ovviamente,del tutto diversa da quella più sopraindicata: il pane viene infornato dopoche il forno è stato infuocato con lefascine e ripulito dalla brace; in que-sta fase la temperatura all’interno delforno è di circa 400° ma cala rapida-mente proprio a causa dell’introdu-zione dei pani (da 100 a 120 per in-fornata), si mantiene sui 300° per leprime ore e poi comunque a un calo-re tale da permettere la cottura di dol-ci e biscotti durante il giorno, opera-zione, quest’ultima, che compete alledonne.

Pagnottelle al farro300 g di farina di farro; 150 g difarina 0; 100 di farina integrale;30 g di lievito di birra; 100 ml di olioextravergine d’oliva; acqua; 3 presedi sale

Versate sulla spianatoia le farine edamalgamatele col lievito sciolto in unatazza d’acqua tiepida e tutti gli altri in-gredienti; lavorate a lungo ed energica-mente, coprite e fate riposare per circa2 ore. Formate delle pagnottelle e fatelelievitare ancora una mezz’oretta; infor-natele a 190° per circa 40/50 minuti.� Ricetta di Tina Pulcinelli di Città diCastello. Il farro, da cui deriva la stes-sa parola farina, pare fosse già coltiva-to in Medio Oriente ed Egitto intorno al7000 a.C. e dal 3000 circa anche daiGreci, cui si deve, secondo alcuni stu-diosi, l’introduzione nella nostra peni-sola, attraverso la mediazione degliEtruschi, che lo utilizzarono per polen-te e focacce azzime, mentre i Romanine fecero anche pani lievitati. Secondoaltri – tra cui Salvatore Pezzella – gliEtruschi non hanno importato questocereale né dalla Grecia né dall’Asia Mi-nore e neppure dalla Sicilia perché au-toctono in ben quattro qualità67.

Brustengolo di Amelia 400 g di farina di granoturco; 100 gdi zucchero; 1 pizzico di sale; 100 gdi fichi secchi; 1/2 bicchiere di oliod’oliva; 150 g di uvetta sultanina;2 mele

Portate ad ebollizione una pentola d’ac-qua salata e versatevi la farina come

67 Pezzella, 1989, pp. 104-105.

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per fare una polenta; unite l’olio e fatecuocere per una ventina di minuti,mescolando di tanto in tanto: quindi,aggiungete le mele tagliate a spicchipiccoli, l’uvetta sultanina, i fichi secchitagliuzzati a pezzi e lo zucchero. To-gliete dal fuoco e stendete l’impasto,che deve risultare piuttosto rustico, du-ro e di altezza non superiore a 2 cm;disponetelo sulla placca del forno pre-ventivamente unta con una noce diburro ed infornate a 180° per circa 1ora.� Di questa ricetta dell’amerino68,che è l’unica ad incorporare i fichi,esistono varianti documentate in varieparti dell’Umbria, generalmente arric-chite da pinoli, gherigli di noce, buc-cia grattugiata di limone, come a Bet-tona o a Piegaro: in particolare, ad At-tigliano, cittadina di origine etruscache ospitò le prime popolazioni, si ag-giunge 1 cucchiaio di semi d’anice69

che nell’etrusca Perugia diventano 3cucchiai di “mistrà”, liquore all’ani-ce70. L’uso di questa spezia caratteriz-za pani e biscotti rituali devozionaliumbri (e non solo, poiché di “anicini”è costellata la pasticceria tradizionaleregionale italiana). Ma non abbiamoelementi per ipotizzare una derivazio-ne dalla cucina etrusca, benché fossegià usato da Greci, Egizi e Romani,come testimoniano il ricettario di Api-cio e i testi di Teofrasto e di Plinio cheprecisa il suo impiego in sostituzionedel levistico o sedano di montagna71.Di certo, invece, gli Etruschi conosce-vano l’abbinamento cereali-frutta sec-ca che Pezzella fa risalire agli Ebreidei tempi biblici che preparavano fo-

cacce addolcite con fichi secchi, mie-le ed uva passa72. Gli ultimi due in-gredienti hanno insaporito anche i“nastri panes” degli antichi romani73

e, avendo attraversato Medioevo e Ri-nascimento con qualche perdita (poi-ché il miele è stato talvolta rimpiazza-to dallo zucchero, prima di canna epoi bianco), hanno lasciato consisten-ti tracce nella cucina regionale. NellaMedia Valle del Tevere, per esempio,ancora è in uso la pizza di granturcocotta sul testo e condita con uva pas-sa e zucchero. E forse possiamo al-meno ipotizzare che queste prepara-zioni costituiscano l’eredità, decerimo-nializzata e ormai senza più l’anticosenso, delle offerte rituali di focacce –libum/liba – a base di farina, miele edolio, condite con semi, noci e spezie,comuni in tutte le antiche culture me-diterranee74.

Torta di castagne 400 g di castagne sbucciate;un pizzico di sale; 1 foglia di alloro;100 g di burro ammorbidito;200 g di zucchero; 4 uova; bucciagrattugiata di un limone;100 g di mandorle dolci

Lessate le castagne con alloro e sale,scolatele, togliete la pellicola e passa-tele, ancora calde, col passaverdure.Spellate le mandorle dopo averle tenu-te in acqua bollente e tritatele. In unaterrina lavorate il burro con lo zucche-

68 Rangoni, 2001, pp. 68-69.69 Umbria. Sapori e saperi, 1999, pp. 79,

87, 197, 199.70 Grassetti - Breschi, s.d., p. 67.71 di Corato, 1978, p. 43.72 Pezzella, 1989, p. 105.73 Arieti, 1999, p. 73. 74 Marinoni (aut.) - Contini (cur.), 1988,

p. 55-56.

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ro, aggiungete i tuorli, uno alla volta, labuccia del limone e mescolate; unitele mandorle, le castagne e gli albumimontati a neve. Versate in una tortieraimburrata e infornate a 210° per circa40 minuti. � Questa ricetta pone un quesito or-mai di difficile soluzione: in un testoedito nel 1999 a cura dell’AssessoratoAgricoltura e Foreste, Caccia e Pescadella Regione dell’Umbria, viene attri-buita a Piegaro, cittadina d’area etru-sca prossima all’antica Salapia (Cittàdella Pieve), mentre Grassetti e Bre-schi, circa 20 anni fa, l’attribuirono aSpoleto75. Del resto, castagne arrostostufate con vino, sale, pepe, chiodi digarofano ed acqua di rose – e servitecalde cosparse di zucchero – costitui-scono una delle ricette più intriganti diSuor Maria Vittoria della Verde(1555?-1622), nata Porzia figlia diFieravante, priore del Comune dell’e-trusca Perugia nell’ultimo quarto delCinquecento. Fattasi monaca domeni-cana nel 1576 – prima “pannucciaia”e poi “camerlenga” del Monastero diSan Tommaso, sulle mura medievalidella città – redasse un libro delle Ri-cordanze e due taccuini-quaderni dicui uno – compilato tra il 1583 e il1607 – con 170 ricette di cucina chedocumentano ingredienti e tecniche dipreparazione e cottura tipiche dellacultura alimentare dell’epoca, puradattate alle esigenze della comunitàmonastica: tra queste, minestra di fa-gioli e castagne e ceci e castagne76

ma anche una quantità e varietà di ri-cette con lo zafferano veramentestraordinaria: piccioni stufati, gallina

ripiena al forno, taglierini gialli alle no-ci, frittate per convento e frittatine ar-rotolate, uova strapazzate, tortella dizucca, mostarda di mele cotogne o<mele appiole zafferanate>, fegatellidi capretto e per convento, cervello,gelatina di maiale, funghi soffritti, tin-ca e luccio cucinati in vari modi, mi-nestra di fagioli e castagne, ceci e ca-stagne, ecc.77. Significativa questa ab-bondanza di ricette insaporite dallozafferano per una città etrusca comePerugia se si accetta la tesi di ClotildeVesco, secondo cui questa solare spe-zia, importata dalla Frigia, fu larga-mente usata, appunto, nella cucinaetrusca78.

75 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 199;

Grassetti - Breschi, s.d., p. 101.76 Casagrande, 1988, pp. 256-257, 297-

297, 316-317. 77 Cfr. Giacchè (cur.), 2001, per l’attenta

selezione delle ricette con lo zafferano nel

taccuino di Suor Maria Vittoria della Verde.78 Vesco, 1985, p. 123.

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Referenze fotografiche:Le immagini sono state gentilmente con-cesse dalla Soprintendenza Archeologicaper l’Umbria

e sono tratte da:Anna Eugenia Feruglio, Porano. Gli Etruschi

Luana Cenciaioli e Marco Saioni, Ipogeo deiVolumni e necropoli del Palazzone di PonteSan Giovanni. Il banchetto degli Etruschi

Finito di stampare nel mese di novembre 2008

presso la tipolitografia Petruzzi (Città di Castello)

Progetto cofinanziato con i fondi della L135/01

Soprintendenzaper i Beni Archeologicidell’Umbria