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Moreno MoraniLineamenti di linguistica indeuropea

Seconda edizione

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I edizione: luglio 2007II edizione: luglio 2011

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INDICE

Abbreviazioni pag. 6

PARTE PRIMA. LINGUISTICA INDEUROPEA

1. Profilo storico della disciplina pag. 9 2. Le lingue indeuropee. Notizie storiche pag. 32 3. Dall’indeuropeo alla lingue storiche pag. 52

PARTE SECONDA. LETTURA E COMMENTO DI TESTI

1. Indo-iranico pag. 119 I. Indiano pag. 121 II. Iranico pag. 137 2. Armeno pag. 153 3. Ittita pag. 168 4. Greco pag. 174 I. Miceneo pag. 181 II. Greco del primo millennio pag. 184 5. Latino pag. 197 6. Osco-umbro pag. 209 7. Celtico pag. 218 Gallico pag. 218 Antico irlandese pag. 222 8. Germanico pag. 238 9. Baltico pag. 255 10. Slavo pag. 269 11. Tocario pag. 284

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ABBREVIAZIONI

aated. = antico alto tedesco abl. = ablativo acc. = accusativo aind. = antico indiano airl. = antico irlandese alb. = albanese anord. = antico nordico ant. = antico aor. = aoristo apers. = antico persiano apruss. = antico prussiano arc. = arcaico arcad. = arcadico arc.-cipr. = arcadico-ciprio arm. = armeno aruss. = antico russo asass. = antico sassone asl. = antico slavo att. = attivo av. = avestico balt. = baltico beot. = beotico bsl. = balto-slavo bulg. = bulgaro celt. = celtico cipr. = ciprio cong. = congiuntivo cret. = cretese dat. = dativo dor. = dorico du. = duale eol. = eolico etr. = etrusco f. = femminile fal. = falisco fr. = francese fut. = futuro gall. = gallico. gen. = genitivo germ. = germanico got. = gotico gr. = greco

hom. = greco omerico ie. = indeuropeo IEW = J. Pokorny, Indogerma-

nisches etymologisches Wörterbuch, Bern-München 1958

i.-ir. = indo-iranico imp. = imperativo ind. = indicativo inf. = infinito intr. = intransitivo impf. = imperfetto ion. = ionico ingl. = inglese irl. = irlandese it. = italiano itt. = ittita lat. = latino lesb. = lesbio lett. = lettone lit. = lituano LIV = H. Rix-M. Kummel,

Lexikon der indogermanischen Verben, Wiesbaden 20012

loc. = locativo luv. = luvio m. = maschile mac. = macedone mat. = medio alto tedesco med. = medio mess. = messapico mic. = miceneo mod. = moderno m.-p. = medio-passivo n. = neutro nom. = nominativo ngr. = neogreco npers. = persiano mod. o. = osco ott. = ottativo o.-u. = osco-umbro part. = participio pass. = passato

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pers. = persiano pf. = perfetto pl., plur. = plurale ppf. = piuccheperfetto pres. = presente pron. = pronome sing. = singolare strum. = strumentale sanscr. = sanscrito s.-cr. = serbo-croato

sp. = spagnolo strum. = strumentale sir. = siriaco ted. = tedesco toc. = tocario u. = umbro ved. = vedico ven. = venetico voc. = vocativo volg. = volgare

Altri simboli

[...] trascrizione fonetica /.../ interpretazione fonematica <...> interpretazione grafematica > diviene < procede da ~ in rapporto o in opposizione a * forma ricostruita (non attestata nei documenti) # limite di parola

In citazioni di forme osco-umbre: abcd forme scritte originariamente in alfabeti locali abcd forme scritte originariamente in alfabeto latino

Nelle forme indeuropee è segnata costantemente la lunghezza della vocale: pertanto le vocali che non portano il segno diacritico della lunghezza (� � �) si devono di norma considerare brevi (il segno di breve � � � ecc. è indicato solamente dove esigenze di chiarezza rendono opportuno l’uso del diacritico). Lo stesso criterio viene adottato nelle citazioni di parole latine di cui è proposta l’analisi linguistica: la lunghezza non è però indicata nelle citazioni di testi. Nella traslitterazione del greco si è seguita la grafia tradizionale (e quindi p.es. ���� ���sono sempre traslitterati <ei>, <ou> anche quando sono utilizzati per rappresentare vocali lunghe chiuse <e:>, <o:>): si noti solamente che ��viene traslitterato con y o con u in relazione al suo presumibile valore. Per le trascrizioni degli altri alfabeti non latini si sono utilizzate le norme generalmente in uso: più ampie informazioni vengono però offerte nelle premesse ai testi della seconda parte.

In alcuni casi nell’analisi e nella trascrizione delle forme studiate sono stati utilizzati, se necessario od opportuno, con qualche lieve ritocco e semplificazione di cui si dirà a suo luogo, i simboli dell’IPA (Alfabeto fonetico internazionale).

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PARTE PRIMA. Linguistica indeuropea

1. Profilo storico della disciplina

Verso la fine del XVIII secolo appariva chiaro che tra molte lingue d’Europa e alcune lingue dell’Asia intercorreva un rapporto di parentela genealogica. Tra di esse esisteva cioè, sia pure a un livello più elevato, un rapporto analogo a quello che lega tra di loro le lingue romanze o le lingue germaniche o le lingue slave. Alle lingue legate da tale rapporto di parentela si diede il nome di lingue indeuropee,1

perché collocate in un’area che fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche andava dai confini occidentali dell’Europa fino ai confini orientali dell’India.

Col termine parentela genealogica s’intende il fatto che alcune lingue sono collegate fra loro in quanto derivano tutte da un unico ceppo originario: più precisamente, il corso dell’evoluzione linguistica ha portato a una differenziazione di quella che in origine era una comunità linguistica unitaria, con lo sviluppo di varietà locali sempre più indipendenti; così ad esempio l’italiano, il francese, lo spagnolo, il rumeno ecc. (lingue neolatine o romanze) sono le varietà assunte dal latino volgare nelle varie regioni in cui esso era parlato. Mentre le lingue romanze rimandano a una fase comune (il latino, nella sua varietà parlata) che ci è nota in modo diretto attraverso una ricca documentazione, in altri casi l’esistenza di un rapporto di parentela tra diverse lingue è chiaro, ma la fase comune non è documentata: questo avviene, p.es., con le lingue germaniche o le lingue slave o le lingue celtiche e così via, la cui parentela è possibile stabilire sulla base di indizi o di prove assolutamente certe, ma non abbiamo una documentazione diretta della fase comune. Si parla di affinità linguistica, e non di parentela, quando tra due o più lingue esistono legami evidenti, che sono però il frutto di avvicinamenti

1 O indo-europee o, come ancora si preferisce dire in ambienti di lingua tedesca, indogermaniche.

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(convergenze) prodottisi nel corso dell’evoluzione linguistica e determinati da ragioni storiche contingenti (prossimità geografica, rapporti culturali ed economici, conquiste): ad es. tra l’inglese moderno e le lingue romanze esiste un forte rapporto di affinità (molte parole latine o neolatine sono entrate in inglese, la struttura morfologica e la sintassi hanno dei tratti in parte comuni), che non intacca però il carattere di lingua germanica dell’inglese. Quando diverse lingue si trovano in un’area geografica contigua e si determina tra esse una intensa circolazione di scambi, cosicché alla fine, pur senza perdere la loro identità originaria, mostrano una serie di tratti caratteristici comuni, si ha quella che si usa chiamare una lega linguistica (dal ted. Sprachbund). P.es. nella penisola balcanica si è venuta a formare una lega linguistica di cui fanno parte lingue slave come il macedone e il bulgaro, una lingua romanza come il rumeno, lingue appartenenti a ceppi ancora diversi come il greco e l’albanese.

Alla scoperta del nesso genealogico che legava fra di loro le lingue indeuropee si giunse molto lentamente. Poca o nessuna percezione del problema si ebbe nel mondo greco-romano, che pure coltivò in misura notevole gli studi di grammatica e di filologia: questo avveniva perché l’interesse era concentrato sulle sole lingue del mondo classico (greco e latino, studiati quasi unicamente nelle loro varietà letterarie e scritte), e per di più sostenuto da finalità essenzialmente normative, cosa che lasciava poco spazio alla comparazione linguistica, e inoltre era praticamente assente la nozione del divenire linguistico: anche le ipotesi etimologiche lasciate dagli antichi (canis a non canendo, bellum quia res bella non sit) sono costruite sulla base di semplici somiglianze formali o di assonanze, senza considerazione degli aspetti semantici. Nel medioevo un approfondimento del problema era reso difficile dal pregiudizio diffuso che assegnava una priorità all’ebraico e si affidava al racconto biblico della torre di Babele (Gen. 11, 1 ss.) per spiegare la presenza di più lingue nel mondo. Ad esempio Dante nel De vulgari eloquentia (I 6) considera l’ebraico come la lingua di Adamo, rimasta poi appannaggio dei soli figli di Heber (Gen. 10, 25 ss.), perché divenisse la lingua di Gesù, «di modo che il nostro Redentore, che secondo umanità doveva avere origine da loro, usasse una lingua di grazia, e non di confusione»2. Tuttavia, nonostante il persistere di questo pregiudizio, la conoscenza

2 «dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse. Dico autem ‘formam’ et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad constructionis prolationem: qua quidem forma omnis lingua loquentium uteretur, nisi culpa presumptionis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur. Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que ‘turris confu-sionis’ interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie

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di un maggior numero di lingue permetteva di stabilire qualche maggiore correlazione. Storici ed eruditi locali cominciano a cogliere che alcune delle lingue europee sono più somiglianti tra di loro rispetto ad altre e che in tutte vi sono parole che hanno qualche corrispondenza con termini latini o greci. Ad esempio Giraldo Cambrense (1146-1223) in un trattato geografico sul Galles (Descriptio Cambriae I, 15) rileva che «praticamente tutte le parole della lingua britannica somigliano alla corrispondente parola greca o latina» e propone quattordici confronti (p.es. gr.���pénte ~ gall. pump ‘cinque’; gr. �� hýd�r ~ gall. dwr ‘acqua’; gr. ���háls ~ gall. halen ‘sale’). Il cronista basco Roderigo Ximénez de Roda (1175-1247) nella sua opera De rebus Hispaniae individua la relazione tra le lingue germaniche («hanno un’unica lingua») e tra le lingue celtiche («Galles e la Britannia hanno ricevuto in eredità una loro propria lingua»). Dante nel De vulgari eloquentia stabilisce (I, 8-9) l’esistenza di tre idiomi neolatini, che definisce come lingua dell’oc, dell’oïl e del sì sulla base della particella affermativa e avverte che questo idioma che ora appare tripartito era in origine unitario.

Ma è solamente col XVI secolo che il tentativo di mettere ordine tra le diverse lingue d’Europa e di iniziarne una classificazione organica impegna gli studiosi europei. Tra i vari tentativi allora operati merita di essere segnalato soprattutto quello dell’umanista Giuseppe Giusto Scaligero (1540-1609), che scrisse nel 1599 un’opera (pubblicata però postuma nel 1610) intitolata Diatriba de Europaeorum linguis, in cui stabiliva l’esistenza in Europa di quattro lingue matrici (latino, greco, germanico, slavo, definite sulla base della parola usata per indicare Dio, rispettiva-mente Deus Theós Godt Bog) e di sette lingue minori (albanese, tartaro, ungherese, finnico, irlandese, cimrico, basco) e poneva alcuni interessanti principi per stabilire la parentela linguistica. Ma gli orizzonti della ricerca sono destinati ad ampliarsi in misura considerevole nel giro di pochi decenni. La ripresa di contatti con l’oriente europeo ed extraeuropeo e l’epoca delle scoperte geografiche permettono di conoscere popolazioni, lingue, culture completamente nuove; l’invenzione della stampa consente di diffondere una quantità di notizie con una rapidità e una precisione fin allora impensabile. I primi europei che percorrono i nuovi paesi (soprattutto missionari e mercanti) riportano notizie di inattese somiglianze tra le lingue di quelle genti lontane e le lingue europee. Il fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588) scriveva in una lettera dall’India all’amico Baccio Valori di avere scoperto singolari concordanze lessicali tra le lingue indiane e l’italiano: «sono molti de’ nostri nomi, e particolarmente de’ numeri il sei, sette, otto e nove, Dio, serpe et altri assai». Altre numerose coincidenze lessicali con le lingue dell’India e dei paesi iranici venivano alla luce nei decenni seguenti. Nel frattempo iniziavano poderosi lavori di raccolta del materiale: si pubblicavano vocabolari plurilingui, cataloghi di lingue sempre più ampi, raccolte di testi (il modello fu dato dal naturalista ed erudito svizzero Konrad von Gesner, che nel 1555 pubblicava a Zurigo un’opera intitolata

frueretur. Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt.» (Dante, de vulg. eloq. I 6, 4-fine).

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Mithridates de differentiis linguarum, che proponeva osservazioni linguistiche su 130 lingue, corredando il tutto con 22 versioni del Padre nostro; in séguito il Padre Nostro continuò ad essere il testo di riferimento, e si pubblicarono raccolte anche di diverse centinaia di versioni di questa preghiera). Vennero pubblicate le prime storie delle lingue (p.es. nel 1669 le Origini della lingua italiana del francese Gilles Ménage) e i primi vocabolari etimologici (nel 1664 usciva a Leida l’Etymologicon Latinae Linguae di Gerardus Joannes Vossius, nel 1694 il Dictionnaire étymologique du français del già nominato Ménage), opere ancora incerte nel metodo e con numerosi fraintendimenti o ipotesi avventurose, ma importanti per l’impulso che davano al progresso della ricerca.

Sono soprattutto le somiglianze tra le lingue europee e le lingue dell’area iranica e dell’India ad attirare l’attenzione degli studiosi. Si dà per certo che queste somiglianze non possono essere fortuite, e anzi si spera che uno studio più appro-fondito di queste lingue possa permettere di vedere sotto una prospettiva migliore i problemi dell’origine e della formazione delle lingue europee (cosa che si usa esprimere sinteticamente nella ripetuta formula Ex oriente lux, come se dall’oriente potesse venire l’illuminazione per capire meglio l’origine e la dinamica di forma-zione delle nostre lingue): tuttavia per il momento, al di là dell’entusiasmo per la ricerca, una spiegazione soddisfacente di questi rapporti tra lingue di culture lontane che non hanno mai avuto contatti profondi e duraturi è di là da venire. Un impor-tante passo verso la soluzione della questione fu dato dal letterato olandese Marcus Zuerius van Boxhorn (1612-1653), che intravide per varie lingue dell’Europa, il persiano e il sanscrito un’origine comune a cui dava il nome di Scitico, ma la sua ipotesi rimase senza eco e non fu mai più ripresa. Un contributo assai più decisivo in questo senso fu dato dal linguista, letterato, filologo e politico inglese William Jones (1746-1794), esperto conoscitore della cultura dell’India (dove anche soggiornò a lungo) che in un volume sulla lingua sanscrita scritto nel 1786 (ma pubblicato nel 1788) presupponeva la derivazione di greco, latino e sanscrito da una fonte comune che probabilmente non esiste più e additava la possibilità di allargare la comparazione al persiano e ad altre lingue europee quali il gotico e il celtico3.

Tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, una notevole accelerazione al progresso degli studi linguistici fu data anche dall’entusiasmo che contagiò gli studiosi europei, soprattutto inglesi e tedeschi, per la cultura indiana. La cultura europea si trovava di fronte 3 «The Sanscrit language, whatever be its antiquity, is of a wonderful structure; more perfect than the Greek, more copious than the Latin, and more exquisitely refined than either, yet bearing to both of them a stronger affinity, both in the roots of verbs and the forms of grammar, than could possibly have been produced by accident; so strong indeed, that no philologer could examine them all three, without believing them to have sprung from some co mmon source, which, perhaps, no longer exist s».

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in modo inatteso una tradizione letteraria di grandissimo valore nata e sviluppatasi al di fuori della tradizione classica che era stata fin allora l’unico o principale punto di riferimento: è noto l’epigramma con cui Goethe salutava la prima traduzione occidentale (opera del già citato William Jones) del dramma akuntal� riconosciuta del poeta indiano K�lid�sa: «Vuoi comprendere i fiori della primavera, i frutti dell’au-tunno, ciò che affascina e incanta, ciò che rallegra e nutre, vuoi abbracciare in una sola parola il cielo e la terra? Io ti dico Sakuntala ed è tutto detto». Questa scoperta si inseriva anche nel clima di rinnovamento letterario che aveva la sua fucina nel movimento dello Sturm und Drang e del Romanticismo. Apertasi a Parigi la prima grande scuola di lingue orientali, molti letterati affluirono nella capitale francese per apprendere il sanscrito. Il carattere insieme letterario, filosofico e linguistico di questo studio è rivelato già dal titolo del libro, pubblicato nel 1808, del filosofo e letterato tedesco Fr. Schlegel: Sulla lingua e la saggezza degli Indiani (Über die Sprache und Weisheit der Indier), che ebbe tra l’altro il merito di sottolineare l’importanza dello studio della struttura grammaticale (e non solo delle somiglianze lessicali).

Ma al progresso delle conoscenze di linguistica indeuropea contribuirono più di ogni altro due studiosi pressoché contemporanei, Franz Bopp (1791-1867) e Rasmus Rask (1787-1832). Grande studioso di sanscrito, il linguista tedesco F. Bopp pubblicava nel 1816 a Berlino una memoria dedicata allo studio comparativo del sistema verbale di sanscrito, greco, latino, persiano e lingue germaniche (Über das Conjugationsystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprachen), che viene considerata spesso come l’atto di nascita della linguistica indeuropea nel senso scientifico del termine. Questa memoria comportava un salto di qualità rispetto alle ricerche precedenti: per la prima volta l’indagine linguistica investiva in modo organico la struttura morfologica di più lingue (vale a dire, non ci si limitava a osservare le somiglianze lessicali, ma si esaminava il sistema stesso della lingua, nella convinzione, giusta, che il sistema morfologico fosse meno esposto a cambiamenti dovuti a influssi esterni) e si introduceva il concetto di “comparazione”. Questa parola ricompare e contraddistingue la successiva e fondamentale opera del

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Bopp, la Grammatica comparata delle lingue indeuropee, uscita a partire dal 1832 col titolo Vergleichende Grammatik des Sanskrit, Zend, Griechischen, Lateinischen, Litthauischen, Gothischen und Deutschen: a partire dal secondo fascicolo, uscito nel 1835, il titolo veniva modificato con l’introduzione dell’antico slavo (Altslavischen), e la pubblicazione dell’opera terminava l’anno 1852; quasi immedia-tamente dopo la pubblicazione dell’ultimo fascicolo le numerose e importanti acquisizioni della linguistica comparata intervenute nel frattempo consigliavano l’autore a predisporre una seconda edizione, che vedeva la luce tra il 1857 e il 1861.

Minore risonanza tra i contemporanei, per motivi del tutto contin-genti, ebbero gli studi del filologo e linguista danese Rasmus Christian Rask. L’occasione per la redazione della sua opera principale fu offer-ta nel 1811 dal premio che l’Accademia Danese delle Scienze aveva messo in palio per il migliore lavoro sull’origine della lingua danese. Rask presentò una densa monografia intitolata Ricerche sulle origini dell’antica lingua nordica o islandese (Undersøgelse om det gamle Nordiske eller Islandske Sprogs Oprindelse) che gli consentì di otte-nere il premio, ma purtroppo mancavano allora i fondi per la pubbli-cazione del testo, e si dovette aspettare fino al 1818 perché il lavoro di Rask vedesse la luce. La sua monografia, il cui unico limite è di avere preso in considerazione solamente lingue europee (solo più tardi Rask poté soggiornare a lungo in India e apprendere il sanscrito), precorreva i tempi per le numerose intuizioni e la spiegazione spesso innovativa e coerente di vari fenomeni linguistici: purtroppo il testo ebbe scarsa diffusione, anche per il fatto di essere stato scritto in danese, e sola-mente dopo molti anni la figura di Rask venne rivalutata e si notò la sua primogenitura nell’avere formulato in maniera chiara leggi linguistiche che sarebbero state poi definitivamente ricordate sotto il nome di altri studiosi (tanto per fare un esempio, la legge di Grimm, che riguarda il consonantismo delle lingue germaniche).

Il progresso della scienza linguistica ha nella prima metà del XIX secolo un andamento tumultuoso, e non riguarda solamente la linguistica indeuropea, perché investe anche la linguistica generale e lo studio di lingue e famiglie linguistiche non indeuropee. Anche la decifrazione di varie lingue, la scoperta e la pubblicazione di un grandissimo numero di testi di svariate aree geografiche, i progressi

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degli studi filologici sono tutti elementi che contribuiscono ad allargare gli orizzonti della linguistica. Per rimanere nell’ambito dell’indeuropeo, vanno ricordati gli studi spesso importanti che toccano singole aree del mondo indeuropeo e che non di rado hanno carattere di grande rilievo, sia perché l’avanzamento delle conoscenze in un singolo settore permetteva di riconsiderare sotto nuova luce vari problemi anche nella più ampia prospettiva dell’indeuropeo, sia perché spesso portavano a un affinamento del metodo d’indagine che poteva avere ricadute decisive anche nello studio di altre lingue: sono tutt’altro che irrilevanti per i progressi dell’indeuropeistica i contributi dati allo studio delle lingue germaniche dai fratelli Jakob e Wilhelm Grimm (oltre che essere una pietra miliare nell’ambito della lingui-stica comparate delle lingue germaniche le loro opere mostrano come lo studio linguistico si debba saldare allo studio della filologia, della letteratura, della storia, del folklore), gli studi di lingue romanze del tedesco Friedrich Diez (1794-1876), di lingue slave dello sloveno Franz von Miklósich (Mikloši�, 1813-1891), di lingue celtiche del tedesco Johann Kaspar Zeuss (1806-1856), e molti altri contributi che non si ha qui lo spazio di ricordare.

La figura di maggiore rilevanza nei decenni immediatamente successivi è quella di August Schleicher (1821-1868). Nel clima instauratosi col prevalere della filosofia hegeliana e del positivismo, anche la linguistica è alla ricerca di un metodo d’indagine che fissi delle leggi precise e obiettive del divenire linguistico. Le lingue vengono considerate come degli organismi naturali, del tutto indipendenti dalle esigenze comunicative degli individui e delle comunità che se ne avvalgono, e pertanto la metodologia dello studio linguistico è in sostanza equiparata alla metodologia dello studio delle scienze naturali e della fisica. Secondo tale visione delle cose, i mutamenti fonetici sono provocati dalla conformazione e dal modificarsi degli organi fonatori (a loro volta risultati di tra-sformazioni genetiche o razziali) e le lingue si evolvono secondo procedimenti precisi in un divenire ciclico: in origine si hanno lingue isolanti, che poi passano al tipo più perfetto di lingue agglutinanti, per poi passare al tipo di massima perfezione, quello di lingue flessive: a questo punto inizia la decadenza, che le riporta prima al tipo agglutinante e poi isolante.

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Con questa terminologia ci si rifà a un criterio di classificazione delle lingue che si basa su alcuni caratteri linguistici che si scelgono come particolarmente rappresentativi (classificazione tipologica): nel caso specifico, prendendo in esame l’espressione di alcune funzioni grammaticali e semantiche, le lingue sono divise in isolanti (le parole sono invariabili e tutte di una sola sillaba, e la funzione svolta nella frase è indicata essenzialmente dal contesto: ad es. il cinese), agglutinanti (per indicare la funzione si aggiungono alla parola dei morfemi, ciascuno dei quali veicola un’unica informazione: ad es. il turco o l’ungherese), flessive (ogni morfema può servire a indicare più funzioni, come avviene usualmente nelle lingue indeuropee: ad es. nel lat. pulchrarum la desinenza -arum individua contempora-neamente il caso genitivo, il numero plurale e il genere femminile; la flessione può anche essere interna, con modificazioni dei morfemi come si ha p.es. nel ted. trank ‘io bevvi’ rispetto a trink ‘bevi!’: sono flessive ad es. le lingue indeuropee e le semitiche). In realtà praticamente in ogni lingua sono presenti tratti flessivi accanto a tratti isolanti o agglutinanti. Inoltre nel corso della storia una lingua può passare da un tipo all’altro (ad es. nell’armeno antico la flessione del sostantivo è basata sul tipo flessivo, mentre nell’armeno moderno si ha il tipo agglutinante, con l’aggiunta, come in turco, di un morfema per l’individuazione del plurale a cui segue il morfema del caso, invariabile tra i due numeri). Il caso dell’inglese moderno da questo punto di vista è sintomatico: pur continuando ad essere una lingua flessiva (con la presenza di morfemi flessioniali, p.es. houses ‘case’ rispetto a house ‘casa’, o writes ‘scrive’ rispetto a write ‘scrivo, scriviamo, scrivono, scrivere, ecc.’) presenta molti aspetti tipici delle lingue isolanti: ad es. nelle frasi inglesi I play chess e I like this play la stessa parola play, monosillabica, compare una volta in funzione di verbo e una volta in funzione di sostantivo, ed è solamente il contesto che permette di stabilire il valore del termine: la coniugazione del verbo si ottiene, come in cinese, per mezzo di forme esterne che indicano la persona (I play, we play, ecc.) o tempi e modi (will play, would play, to play, ecc.): in I shall go il senso di ‘io andrò’ è espresso sostanzialmente con gli stessi mezzi del cinese w� jiàng qù.

Circa la pretesa superiorità delle lingue flessive rispetto alle lingue isolanti o agglutinanti, non si deve dimenticare che, per quanto concetti del genere oggi sembrino privi di senso, si trattava di idee condivise del quadro culturale dell’epoca: il padre fondatore della semantica storica, Émile Bréal, dedica un capitoletto del suo fondamentale Essai de sémantique (Paris 1897) a precisare “in che cosa risieda la superiorità delle lingue indeuropee”.

Schleicher nelle Ricerche di grammatica comparata del 1848 (Sprachvergleichende Untersuchungen) e poi nel Compendio di grammatica comparata delle lingue indeuropee del 1861 (Compendium der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen) elabora la teoria dell’albero genealogico: essa presume una progressiva frammentazione linguistica che dall’indeuropeo rico-

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struito porta fino alle lingue storiche attraverso delle unità intermedie (le protolingue o Ursprachen); tocca allo studioso mettere a confronto le lingue storiche e ricostruire le unità intermedie più basse, per poi risalire attraverso le successive ramificazioni fino ad arrivare all’indeuropeo primitivo. Così p.es. confrontando le varie lingue germaniche si costruisce il protogermanico (Urgermanisch), o confrontando i vari dialetti greci si ricostruisce il protogreco (Urgriechisch): siccome nella visione di Schleicher si richiede una esattezza matematica nelle ricostruzioni, questi protogermanico e protogreco, benché non attestati, sono considerati alla stessa stregua delle lingue storiche e messe sullo stesso piano di queste ultime: pertanto sarà possibile mettere a confronto p.es. il protogermanico col protobaltoslavo, che nel frattempo è stato ricostruito grazie al confronto del protobaltico e del protoslavo (che a loro volta procedono dal confronto delle lingue baltiche e slave storicamente attestate), e ottenere così il protogermanico-baltoslavo, che ci avvicina di un ulteriore gradino all’indeuropeo primitivo. Come si vede, questo modo di procedere ha il rigore delle scienze esatte (oltre che linguista Schleicher fu anche studioso di botanica), ma non considera il fatto che l’evoluzione di un prodotto dello spirito umano come la lingua segue uno svolgimento diverso: nella visione di Schleicher si procede sempre nel senso di una frammentazione progressiva di unità più ampie, e non si tiene conto della possibile esistenza di processi di convergenza che portano a un avvicinamento di lingue originaria-mente distanti fra di loro, quando, per esempio, tra due o più lingue si stabilisce una vicinanza in territori contigui o un intenso commercio. Inoltre con Schleicher l’attenzione dello studioso è catturata soprat-tutto dalle esigenze della ricostruzione: non ci si accontenta più di riconoscere e giustificare la relazione tra le forme storiche, ma buona parte del lavoro è centrato sull’impegno a ricostruire le fasi precedenti delle lingue studiate: eloquente a questo riguardo il tentativo di Schleicher di scrivere una favola in indeuropeo.

Nell’ultimo quarto del secolo XIX la scena è occupata principalmente dalla cosiddetta scuola dei neogrammatici (in tedesco Junggrammatiker, ma si usa spesso la denominazione italiana neogrammatici anche all’estero). Con questo termine si designa una linea di indagine che si afferma soprattutto in Germania per opera di

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alcuni studiosi i quali espressamente si presentano come innovatori rispetto alla grammatica tradizionale. Il principio fondamentale da cui essi muovono è la ineccepibilità delle leggi fonetiche: le leggi fonetiche agiscono allo stesso modo delle leggi chimiche e fisiche, con la sola differenza che le leggi della chimica o della fisica hanno esiti prevedibili (vale a dire che si può determinare il moto e la velocità di un corpo che cade, oppure il risultato di una reazione chimica), mentre le leggi fonetiche possono essere riconosciute solamente dopo che si sono realizzate. Inoltre le leggi fonetiche non hanno né validità a priori né carattere universale: esse si realizzano in modo cieco e hanno un limite nel tempo e nello spazio: la constata-zione che in una determinata tradizione linguistica il fonema x passa a y non implica di necessità che anche in altre lingue si debba verificare questo stesso passaggio. Secondo questa scuola, il fatto che le leggi fonetiche agiscano senza eccezioni è la condizione indispensabile perché lo studio della lingua possa essere attuato col desiderato rigore scientifico: ammettere delle eccezioni equivale a dire che l’oggetto della ricerca, cioè la lingua, è inaccessibile alla scienza. Apparenti eccezioni sono dovute o al fatto che sono in gioco altre leggi fonetiche o alla carenza delle nostre conoscenze, che non sono ancora in grado di riconoscere il perché di un determinato passaggio.

Ad esempio, se consideriamo le parole latine fer�re, form�ca, facere, ferrum, f�lius, far�na, f�mina, f�lum e le loro continuazioni in spagnolo herir, hormiga, hacer, hierro, hijo, harina, hiembra, hilo notiamo che a f iniziale seguita da vocale del latino corrisponde in spagnolo h. Possiamo quindi porre la legge fonetica f- > h- davanti a vocale (fV- > hV-). Se troviamo forme come fuente < fontem (acc. sing.), fuerte < fortis, fuego < focus, non siamo davanti a eccezioni, ma ad una legge fonetica secondaria, per cui f- permane davanti al dittongo ue (a sua volta prosecuzione di lat. �). La presenza di forme come figura, fumar, ferrocarril ‘ferrovia’ ecc. si spiega col fatto che queste parole sono entrate nella lingua dal latino o da altre lingue quando l’evoluzione f- > h- si era ormai conclusa.

L’osservazione delle leggi fonetiche consente di trarre conclusioni importanti sulla storia della lingua e di fissare spesso la cronologia (quanto meno relativa) dell’evoluzione linguistica. P.es. in ant. francese ca si palatalizza diventando cha(pronunziato antecedentemente /t�a/, poi nella lingua moderna /�a/): lat. cantare > fr. chanter, carmen > charme, campo > champ, ecc.); ora in francese una vocale a accentata in sillaba aperta4 diviene e: lat. mare > mer, am�rum > amer, pr�tum >

4 Si dice che una sillaba è aperta o libera quando termina per vocale.

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pré, sale > sel, ecc. Quando la c precede una a che si trova in tale posizione si ha regolarmente l’evoluzione in che /t�e/ (lat. carum > cher, casa > chez, caput > chef, ecc.). Il che significa che il passaggio ca > cha è avvenuto quando la vocale aveva ancora la sua pronunzia originaria, dal momento che l’evoluzione di c davanti a e originaria è diversa, cioè /ts/ e poi /s/ (p.es. cervo > cerf, centum > cent).

Altro esempio. Nella fase più antica del tedesco si ha, nel quadro di un generale processo di modifica del consonantismo (la seconda mutazione consonantica, v. pag. 240), il passaggio di p- iniziale a pf-: a questo passaggio andarono soggette anche le parole latine che erano già state assunte nella lingua: p.es. Pfahl ‘palo’ < p�lus (ingl. pole), Pfeffer ‘pepe’ < piper (ingl. pepper), Pfund ‘libbra’ < pondus (ingl. pound), Pfirsich ‘pesca’ < persica (fructus), Pfister ‘fornaio’ < pistor; invece le parole giunte al tedesco dal latino o da altre lingue in epoca successiva hanno mantenuto la loro p-: Pulver ‘polvere’, Pass ‘passo’, Poet ‘poeta’, Pol ‘polo’, paar ‘paio’. Se mettiamo a confronto l’esito della consonante iniziale in Pflanze ‘pianta’ < planta (ingl. plant) e in Platz ‘posto, piazza’ < platea (ingl. place), possiamo stabilire con certezza che Pflanz ha fatto il suo ingresso in tedesco prima di Platz.

Il criterio della ineccepibilità delle leggi fonetiche viene temperato dai neogrammatici col ricorso al concorrente criterio dell’analogia: poiché la lingua è un prodotto sociale la regolarità delle leggi fonetiche viene infranta quando il parlante stabilisce delle relazioni tra diverse forme linguistiche e crea nuove forme sulla base delle forme esistenti; l’analogia non rappresenta né un’eccezione alle leggi fonetiche né un arbitrio, ma l’intervento del parlante che modifica la lingua per farne uno strumento più adatto ai suoi bisogni comunica-tivi. In sostanza l’avere posto un coefficiente psicologico che attenua il rigore delle leggi fonetiche sottrae l’indagine linguistica a quella visione deterministica in cui l’aveva ingabbiata l’epoca precedente: la lingua non è più un organismo vivente che si evolve secondo leggi proprie, ma un sistema che la comunità dei parlanti trasforma e adatta sulla base di esigenze dello spirito.

Abbiamo detto prima che in francese una a tonica del latino in sillaba libera diviene e. Questo non avviene quando la vocale a non è sotto accento e si trova nella sillaba iniziale della parola (posizione pretonica): in questo caso l’esito è a: am�rum > amer, n�t�vum > naïf, parietem > paroi, am�cus > ami. Ora, se noi consideriamo un paradigma di un verbo come lavare, notiamo che nel corso del paradigma la prima a è talora tonica (la indichiamo in neretto), talora pretonica (la indichiamo in carattere normale): lavo ‘lavo’, lavas ‘lavi’, lavat ‘lava’, lavamus ‘laviamo’, lavatis ‘lavate’, lavant ‘lavano’. Ci aspetteremmo pertanto, sulla base dell’evoluzione fonetica, un’evoluzione che porta a leve, leves, levet, lavons, lavez, levent, e di fatto alcune di queste forme sono regolarmente attestate nei testi francesi antichi. La

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scomodità di avere paradigmi in cui il vocalismo varia a seconda della posizione della vocale ha indotto il parlante a estendere a tutte le voci un solo timbro, nel caso specifico del verbo laver il timbro della vocale in posizione pretonica: abbiamo così in francese moderno je lave, tu laves, il lave, nous lavons, vous lavez, ils lavent, sempre con vocalismo -a-.

Consideriamo gli esiti della radice ie. *seku- ‘seguire’: essa termina con un fonema che prende il nome di labiovelare; l’indicativo presente nelle lingue storiche ha una formazione di tipo tematico, vale a dire che fra la radice e la desinenza si interpone una vocale che può essere -o- (p.es. nella prima persona singolare) oppure -e- (p.es. nella terza persona singolare): quindi in alcuni casi *seku-o- e in altri *seku-e-. Nell’evoluzione del greco l’esito della labiovelare è condizionato dalla vocale che la segue, e precisamente abbiamo p o t se la vocale seguente è rispettivamente ooppure e (kuo- > po-, kue- > te-: v. pag. 179): ci aspetteremmo quindi, sulla base di una applicazione “cieca” delle leggi fonetiche, una prima persona ������ hépomai‘seguo’ a fronte di una terza persona *������ *hétetai ‘segue’: in realtà troviamo nel corso di tutto il paradigma le sole forme con -p-: �������hépetai ‘segue’.

Al di là di certe rigidezze di metodo che sono state sottolineate dagli studiosi successivi, il contributo che la scuola neogrammatica diede allo sviluppo degli studi linguistici fu notevole. Tra i suoi esponenti vi sono alcuni dei più grandi linguisti del secolo, come Hermann Paul (1846-1921, fu il teorico della scuola e si occupò in prevalenza di semantica), Berthold Delbrück (1842-1922), Karl Brugmann (1849-1919), Hermann Osthoff (1847-1909), August Leskien (1840-1916). Tra i meriti della scuola vanno segnalati l’impressionante accrescersi della documentazione raccolta e studiata, l’avere preso in considerazione non più solamente le lingue letterarie, ma anche le varietà locali e il parlato (con un conseguente sviluppo degli studi di dialettologia), la finezza e il rigore nello studio delle forme, sottoposte a un’analisi meticolosa attraverso una segmenta-zione che procede fino ai particolari più minuti. Questa scuola consegnò alle generazioni successive i frutti migliori del proprio lavoro attraverso una serie di manuali. Tra questi va ricordato il Grundriss, vera e propria summa del sapere indeuropeistico dell’epo-ca, la cui prima edizione uscì tra il 1886 e il 1900 (due volumi, curati da Brugmann, dedicati a fonetica e morfologia e tre volumi, curati da Delbrück, dedicati alla sintassi). Mentre ancora l’opera era in corso di stampa, il Brugmann da solo procedette a una rielaborazione e a un ampliamento del materiale, fondendo gli elementi di sintassi

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all’interno della morfologia e dando vita a una grande sintesi in due volumi per complessivi sei tomi, uscita tra il 1897 e il 1916. Il titolo esatto dell’opera è Grundriss der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen (Trattato di grammatica comparata delle lingue indeuropee) e per valutare l’importanza di quest’opera basterà dire che ancora oggi, benché sia passato un secolo e non vi siano rappresentate lingue o fasi linguistiche scoperte o decifrate solamente in epoca successiva (ad esempio manca del tutto la documentazione delle lingue anatoliche, il tocario è appena sfiorato in qualche passaggio, la storia del greco comincia col greco alfabetico e non col miceneo, e via dicendo), per quanto su numerosi singoli punti si possano o si debbano operare correzioni e aggiornamenti, il Grundriss rappresenta ancora oggi per generale consenso degli studiosi la più autorevole grammatica comparata delle lingue indeuropee, il testo di riferimento primario dell’indeuropeistica. Dell’opera esiste anche un’edizione ridotta in volume unico (Kurze vergleichende Grammatikder indogermanischen Sprachen, Breve grammatica comparata delle lingue indeuropee, 1904), che, nonostante il carattere molto più rapido dell’esposizione, presenta in qualche punto ammodernamenti e correzioni rispetto alla dottrina esposta nel Grundriss (se ne hanno anche traduzioni in inglese e francese).

Tra gli oppositori della scuola dei neogrammatici va annoverato Graziadio Isaia Ascoli (Gorizia 1829-Milano 1907), il padre fondatore della linguistica italiana, grande studioso di linguistica indeuropea e romanza (a lui si deve fra l’altro l’individuazione di alcune varietà romanze come il ladino o i dialetti franco-provenzali). L’Ascoli, criticando in particolare il principio del “coefficiente psico-logico” – o meglio, per usare le sue parole, la gazzarra psicologica – introdotta dai neogrammatici col principio dell’analogia, richiamava gli studiosi a un metodo di lavoro in cui la concretezza della storia prevalesse sulle esigenze della teoria: in questo senso il ricorso alle leggi fonetiche può essere un criterio importante di affronto del materiale, purché non sia né esclusivo né condotto in modo schematico, e soprattutto non deve fare abbandonare etimologie evidenti per il solo pretesto che queste non sembrano coerenti con le

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leggi fonetiche note. Questo richiamo alla concretezza dei fatti in opposizione all’astrattezza dei principi, e questo richiamo a fare della linguistica storica una disciplina che continuamente si misura con la storia e si mette a servizio di questa, sarà uno dei tratti distintivi e qualificanti della scuola linguistica italiana per tutto il XX secolo.

Da una opposizione al metodo dei neogrammatici muove anche un altro grande linguista che operò tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, l’austriaco Hugo Schuchardt (1842-1927), autore nel 1885 di una memoria dal titolo significativo Über die Lautgesetze. Gegen die Junggrammatiker (Sulle leggi fonetiche. Contro i neogrammatici). Ribadendo il carattere di scienza spirituale (Geisteswissenschaft) della linguistica, per cui la lingua è un prodotto dello spirito che si incarna nella società e nella storia, e non un organismo naturale, Schuchardt si batte contro la teoria schleicheriana dell’albero genealogico e contro alcune forzature del metodo dei neogrammatici. Nell’elaborazione della sua critica Schuchardt poteva fare appello alla sua competenza in tema di lingue creole, cioè di lingue nate in vari paesi coloniali dalla sovrapposizione di una lingua europea su una lingua indigena: l’esame delle lingue creole mostra che le lingue sono strutture molto complesse che si formano e si modificano nella concretezza degli eventi storici.

Ma un modo realmente diverso di affrontare molti problemi della linguistica indeuropea (soprattutto i problemi relativi alla parentela e alla classificazione linguistica all’interno dell’area indeuropea) fu proposto nel 1872 da un discepolo di Schleicher, Johannes Schmidt (1843-1901), con la pubblicazione di una monografia intitolata Die Verwantschaftverhältnisse der indogermanischen Sprachen (I rappor-ti di parentela delle lingue indeuropee). Lo Schmidt proponeva un modello d’interpretazione diverso del divenire linguistico, a cui viene dato il nome di teoria delle onde. Secondo questa teoria le innovazioni linguistiche si diffondono in un territorio irradiandosi da un centro e procedendo in modo sempre meno vigoroso man mano che ci si allontana da tale centro, come i cerchi che si formano nell’acqua quando vi si getta un sasso. Naturalmente il propagarsi delle onde può non essere stato omogeneo in tutte le direzioni, e il vigore o la rapidità con cui una determinata trasformazione si irradiava nel territorio potrebbe essere stata rallentata o addirittura impedita da situazioni

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contingenti (per esempio la difficoltà delle comunicazioni, se ostacoli di ordine naturale come catene montuose o fiumi particolarmente ampi si interponevano fra i vari centri del territorio): la teoria delle onde presume sempre che vi sia circolazione linguistica nel territorio, altrimenti le onde non possono propagarsi nelle zone circostanti.

Per mostrare quanto il modo di vedere introdotto da Schmidt sia più plausibile, da un punto di vista storico, rispetto alla teoria dell’albero genealogico, basterà pensare alla situazione delle lingue germaniche. Fatti linguistici importanti collegano le lingue germaniche col latino e con le lingue celtiche, sia nel lessico sia nella morfologia (rechiamo solo pochi esempi: serie lessicali come quella di lat. mentum, gall. mant, got. munþs ‘bocca’; lat. v�tes, airl. faith ‘poeta’, got. w�þ-bora ‘profeta’; lat. v�rus, airl. f�r, aated. w�r ‘vero’, ecc.; in germanico e in latino la formazione dei numeri ordinali mediante il suffisso -no: lat. b�n�, anord. tvennr < *d�isno-; i perfetti a vocale lunga del tipo s�dimus, got. s�tum ‘sedemmo’, ecc.); d’altronde molti altri fatti altrettanto rilevanti collegano il germanico con le lingue baltiche e slave (p.es. desinenze nominali inizianti per m- in luogo del bh-presupposto dalle altre lingue indeuropee; flessione determinata e indeterminata degli aggettivi; in germanico e baltico la formazione simile dei numeri 11 e 12 come ‘uno più di dieci, due più di dieci’, ecc.). Alla luce della teoria dell’albero genealogico si avrebbe una palese e inspiegabile contraddizione: si deve ammettere che in circostanze diverse il territorio germanico è stato toccato da trasformazioni linguistiche che si irradiavano da territori diversi.

Da quanto detto ora emerge un’importante criterio metodologico: per ipotizzare l’esistenza di rapporti speciali tra lingue i tratti innovativi sono molto più importanti dei tratti conservativi. Infatti il mantenimento di fatti antichi in diverse parti di un territorio linguistico non comporta di necessità l’esistenza di particolari legami tra quei punti, mentre un’innovazione comune è indizio di un rapporto preciso. Ad es. il fatto che in inizio di parola davanti vocale una s- indeuropea diventi h- (che poi eventualmente cade) in greco, armeno e iranico (ie. *seno- ‘vecchio’ > gr. �����hénos, arm. hin, av. hana-, rispetto a aind. sana-, lat. senex, irl. sen, lit. s�nas, ecc.) potrebbe indicare che tra queste lingue in un certo momento si è creata una intensa corrente di scambi e rapporti linguistici. Naturalmente si dovrà verificare, sulla base di varie considerazioni linguistiche e storiche, se l’isoglossa5 è effettivamente frutto di un’evoluzione comune o non risulta invece da uno sviluppo parallelo o casuale

5 Propriamente il termine isoglossa indica una linea che, su una carta geografica, racchiude tutti i punti di un territorio che condividono un tratto linguistico comune (come le isoipse uniscono i punti che si trovano alla stessa altitudine). Per estensione si usa chiamare isoglossa anche il tratto linguistico caratteristico del territorio così delimitato.

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che ha condotto agli stessi risultati oppure ha altre motivazioni (per esempio una reazione di sostrato6).

Il grande lavoro dei neogrammatici, e la massa di dati da loro raccolta e messa a disposizione degli studiosi, attendeva di essere vagliato e verificato. Con l’inizio del nuovo secolo questo avvenne soprattutto in due direzioni. La prima fu l’accrescersi dell’interesse per la linguistica generale, il cui fondatore è considerato lo studioso ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913). Muovendo dall’in-deuropeistica “militante”, in cui ebbe un ruolo di primaria importanza, con studi di notevole rilievo sul vocalismo indeuropeo (Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes, 1879) e su molte altre tematiche, Saussure dedicò l’ultima parte della sua attività di studioso e di docente universitario alla definizione di concetti fondamentali che presiedono al funzionamento delle lingue (distinzione tra linguaggio e lingua, distinzione tra sincronia e diacronia, distinzione tra significante e significato, distinzione tra “lingua” e “parola”, carattere arbitrario del segno linguistico e via dicendo). Il suo Corso di linguistica generale (Cours de linguistique générale), pubblicato postumo nel 1916, è una rielaborazione dei suoi corsi universitari curata dai suoi allievi, alcuni dei quali sarebbero divenuti a loro volta linguisti di valore. Il carattere sistematico del Cours e la sua grande chiarezza espositiva fecero di questo lavoro una base fondamentale per l’ulteriore elaborazione del pensiero linguistico. Affermando la superiorità dello studio sincronico della lingua, Saussure sottolineava l’importanza di un affronto delle lingue come sistema coerente in cui tutti gli elementi sono collegati fra di

6 Si ha una reazione di sostrato quando in un dato territorio si ha una sostituzione di lingua, ma la lingua preesistente esercita un influsso sulla nuova lingua, perché i parlanti adattano quest’ultima alle proprie abitudini fonetiche o mantengono alcuni tratti (soprattutto lessicali) della lingua precedente. Ad es. il fatto che in molti dialetti dell’Italia meridionale una -nd- del latino si sia evoluta in -nn- (quand� > quanno; mundus > monno) è da considerare una reazione di sostrato, perché nelle preesistenti parlate osche di quelle zone si aveva la stessa evoluzione (osco úpsannam < *opesandam rispetto a lat. operandam). Oppure, nel francese moderno la presenza di parole che non si riscontrano in nessun’altra lingua romanza può essere dovuta alla presenza del sostrato celtico (p.es. briser ‘rompere’: cfr. irl. brissim; quai ‘molo, chiusura’: cfr. irl. cai ‘casa’).

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loro: si trattava di un richiamo essenziale in una fase in cui la linguistica era essenzialmente una linguistica diacronica che si preoccupava delle varie trasformazioni studiandole isolatamente e talora in modo disarticolato dal sistema. Gli ulteriori sviluppi della linguistica generale ebbero molti effetti benefici anche per l’indeuro-peistica: ad esempio l’accresciuto interesse per la fonologia, special-mente da parte della cosiddetta scuola di Praga (in cui operarono studiosi quali Roman Jakobson e Nikolaj Trubeckoj), consentì di affrontare su nuove basi anche molti problemi di fonetica indeuropea.

Una seconda possibilità di approfondimento fu offerta dai grandi sviluppi della dialettologia moderna, anche per merito della scuola di geografia linguistica di cui massimo esponente fu il linguista svizzero (ma in realtà cittadino francese, e professore di dialettologia a Parigi) Jules-Louis Gilliéron (1864-1926). La sua esperienza a contatto con le varietà dialettali vive (studiò a lungo i patois della Svizzera francofona) lo portò alla conclusione che l’affronto della realtà linguistica alla luce della teoria dell’albero genealogico e delle leggi fonetiche non fosse soddisfacente: i motivi della trasformazione linguistica andavano esaminati caso per caso e non sempre potevano essere invocate le ragioni fonetiche. Celebre è stato il suo studio delle parole che designano l’ape nel territorio di lingua francese: solamente in poche aree si hanno le continuazioni della parola latina apes, che dovrebbe ridursi, secondo le leggi fonetiche, a ep, ef, e al plurale es, é: queste forme sono rifiutate nella maggior parte del territorio, anche perché sottoposte a un’erosione fonetica troppo forte, e il parlante preferisce forme più espressive e foneticamente più corpose: abbiamo così in luogo di queste forme p.es. il diminutivo essette, sostituito in qualche zona, per evidente associazione di idee, da essaim ‘sciame’, oppure delle formazioni con mouche ‘mosca’, utilizzato nel significato generico di ‘insetto’, come mouche-ep (poi alterato nel diminutivo mouchette) o mouche-à-miel ‘insetto da miele’; infine assumendo la forma di provenienza meridionale abeille (dal diminutivo apicula), attraverso la sostituzione di mouche-à-miel con mouche-abeille si ebbe abeille, che è anche la forma del francese letterario.

In molti casi il cambiamento è dovuto all’etimologia popolare, cioè al fatto che il parlante crede di riconoscere l’origine di un determinato vocabolo sulla base di assonanze o somiglianze puramente superficiali

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e crea legami tra parole che hanno origine diversa: così l’ant. franc. femier ‘letame, letamaio’, dal latino tardo femarium, diventa fumier, perché il parlante ha istituito un falso collegamento con le continua-zioni di f�mus. Come si vede, ragioni diverse, in parte scaturite motivi fonetici in parte nate da associazioni di idee o da motivazioni espressive, s’incrociano in modo vario e talora imprevedibile nella formazione delle varie voci.

Il merito più importante di questa corrente di studi è quello di avere dato impulso alla compilazione degli atlanti linguistici. Nell’atlante linguistico vengono riportate le designazioni con cui una determinata realtà od oggetto viene chiamata nelle diverse località di un territorio. In sostanza, vengono scelti alcuni punti di inchiesta (la larghezza della rete sarà determinata in relazione alla vastità dell’area presa in esame) e in questi i redattori del dizionario interrogano i parlanti locali sulla base di un questionario omogeneo e predeterminato. I risultati dell’inchiesta vengono poi visualizzati sulla carta. Naturalmente questo pone delicati problemi in ordine sia alla scelta dei punti sia alla scelta delle fonti (che devono avere una competenza metalinguistica buona, ma non eccessiva, perché rischierebbero di sovrapporre proprie considerazioni alla semplice e genuina risposta al quesito loro proposto) sia alla scelta di chi conduce l’inchiesta (che deve avere buona competenza della lingua e dei dialetti per registrare in modo affidabile le risposte). La compilazione dell’atlante linguistico francese (Atlas linguistique de la France, ALF), realizzato da Gilliéron in collaborazione col collega Edmond Edmont, dopo un impegno di ricerca sul terreno durato anni, costituì il primo modello di strumenti del genere: si tratta di una raccolta monumentale di 1421 carte complete (e altre diverse centinaia di carte parziali) che prende in esame una quantità di dati veramente impressionante. A questa prima opera seguirono poi negli anni diversi altri atlanti linguistici, che coprivano aree più o meno ampie.

Per l’Italia e la Svizzera italiana esiste l’AIS o Atlante italo-svizzero (il titolo esatto è Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz) curato da due studiosi provenienti dalla Svizzera tedesca, Jakob Jud e Karl Jaberg, ai quali si aggiunse, per la parte relativa all’Italia meridionale, il linguista tedesco Gerhard Rohlfs (1892-1986): a quest’ultimo si deve anche la più importante grammatica storica dell’italia-no (redazione originaria in tedesco Berna 1949, edizione italiana Torino 1966).

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Basato su criteri e scelte in buona parte diverse è l’Atlante linguistico italiano (ALI), la cui Redazione ha sede nell’Università di Torino: promosso da M.G. Bartoli (vedi sotto), l’ALI ebbe una serie di vicende assai travagliate, che ne ritardarono la pubblicazione: le inchieste vennero realizzate a più riprese tra il 1925 e il 1965 e solo in anni recenti è iniziata la pubblicazione dei volumi.

Come ulteriore approfondimento dell’indirizzo di studi introdotto da Gilliéron (non a caso le sue teorie nascono da un’attenta conside-razione delle carte dell’ALF) deve essere ricordata la corrente di studi glottologici a cui si dà il nome di neolinguistica, introdotta dal lingui-sta istriano Matteo Giulio Bartoli (1873-1946). Sulla maturazione delle teorie del Bartoli influirono tanto le idee del suo maestro, il grande studioso di linguistica romanza W. Meyer-Lübke (1861-1936), quanto il pensiero di Benedetto Croce. I suoi studi di dialettologia romanza, centrati in particolare su alcune varietà di frontiera come le parlate istriane o il dalmatico, lo portarono a formulare una serie di criteri il cui scopo era quello di discernere tra le zone conservative e le zone innovative di un determinato territorio linguistico e di fissare la cronologia dei fenomeni. Queste teorie di linguistica areale, esposte in forma più sintetica nella seconda parte del volumetto Breviario di neolinguistica (Modena 1925: la prima parte, contenente alcuni principi generali, era opera del filologo romanzo Giulio Bertoni), saranno riprese in forma più ampia e definitiva nei Saggi di linguistica generale del 1945. Vale come principio fondamentale di tutta la teoria l’affermazione che le aree laterali conservano una fase anteriore, in quanto indenni da innova-zioni che si irradiano dal centro del territorio.

Un tentativo sistematico di applicare in ambito indeuropeo la teoria di Bartoli fu perseguito dal linguista italiano Giuliano Bonfante (1904-2005) in tutto il corso del suo lunghissimo magistero scientifico.

In sostanza il Bartoli pone cinque criteri fondamentali per il riconoscimento dell’area innovativa rispetto all’area conservativa.

1. Le aree isolate conservano in genere una forma linguistica anteriore. Le isole costituiscono l’area isolata per eccellenza. P.es. in tutto il mondo romanzo una c davanti a vocale palatale (e, i) si palatalizza con esiti svariati (p.es. it. /t�/ scritto <c>: centum > cento; c�na > cena), mentre in Sardegna (non toccata dalle innovazioni