737 - Aracne · esser stato trattato in àmbito ebraico da falso profeta o ridicoliz zato, come è...
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A10737
Daniela FabrizioIl profeta della discordia
Maometto e la polemisticaislamo–cristiana medioevale
Copyright © MMXIARACNE editrice S.r.l.
via Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978–88–578–4055–3
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Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: maggio 2011 I ristampa aggiornata: dicembre 2011
All’uomo miglioreche abbia mai conosciuto:
mio padre
7
Indice
11 Prefazione
19 Premessa
37 Avvertenze di lettura
41 Capitolo 1 Le relazioni islamo–cristiane nell’età delle crociate: realtà e mito
storiografico
55 Capitolo 2 L’eredità delle crociate: il dato storico e il dato immaginifico
87 Capitolo 3 Il nodo della controversia islamo–cristiana: trinità o treismo?
109 Capitolo 4 Il profetismo islamo–cristiano: dogma di fede o inattendibilità storica?
133 Capitolo 5 La teologia dell’assolutezza
145 Capitolo 6 La dissacrazione della figura umana di Maometto
8 Il profeta della discordia
173 Capitolo 7 La dissacrazione della figura proferica di Maometto
191 Capitolo 8 I caratteri della polemistica islamo–cristiana delle origini
227 Capitolo 9 Maometto e la saga dell’asceta Waraqah
245 Capitolo 10 La leggenda di Baĥīrā nelle fonti cristiane orientali
259 Capitolo 11 La leggenda di Baĥīrā nelle fonti latino medioevali
289 Capitolo 12 Maometto e la saga di Nicolò
299 Capitolo 13 Maometto ed il mi’rāj
Appendici di fonti storiche
329 Appendice 1 Le fonti bizantine dei secoli VIII–IX
1.1. Giovanni Damasceno: Sulle eresie, 339 – 1.2. Bartolomeo di Edessa: Contro Maometto, 346 – 1.3. Teofane il confessore: Chronographia, 359 – 1.4. Niceta di Bisanzio detto il filosofo: Confutatio falsi libri quem scripsit Mohamedes, 369 – 1.5. Niceta Coniata: I tesori della fede ortodossa, 376
373 Appendice 2 Le fonti latine dei secoli IX–XI
2.1. Anastasio il bibliotecario: Chronographia tripartita, 385 – 2.2. Eulogio da Toledo: Liber apologeticus martyrum, 394 – 2.3. Eulogio da Toledo: Memorialis sanctorum, 400 – 2.4. Alvaro di Cordoba: Indiculus luminosus, 403 – 2.5. Al–Kindī: Risālah, 409 – 2.6. Guiberto di Nogent: Historia Dei gesta per Francos, 421 – 2.7. Pietro Alfonso: Dialogus contra Iudaeos, 428 – 2.8. Pietro da Cluny: Adversus nefandam sectam Sarace
Indice 9
norum, 449 – 2.9. Jacques de Vitry: Historia orientalis, 461 – 2.10. Il libro della scala di Maometto, 486
477 Appendice 3 Le fonti latine dei secoli XII–XIII
3.1. Jacopo da Varrazze: Legenda aurea, 495 – 3.2. Guglielmo da Tiro: Historia rerum in partibus transmarinis, 503 – 3.3. Vincenzo Bellovacense: Speculum historiale, 509 – 3.4. Guglielmo da Tripoli: Notitia Machometi, 528 – 3.5. Guglielmo da Tripoli: De statu Sarracenorum, 535 – 3.6. Ricoldo da Montecroce: Contra legem Sarracenorum, 539
531 Postfazione di Paolo Branca
535 Bibliografia
559 Sitografia
561 Indice dei nomi
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Prefazione
Sarebbe divertente, se non avesse risvolti drammatici e non desse luogo a ulteriori forme di incomprensione e di equivoco in una materia che ha fin troppo dell’una e dell’altra cosa, indugiare qualche istante — accingendosi alla lettura di questo bel libro — sulla “reciprocità asimmetrica” che sovrintende ai rapporti fra le tre religioni scaturite dal ceppo della Rivelazione abramitica.
L’ebraica, la primigenia, per esser compresa non ha alcun bisogno delle altre due. Se Gesù e Muhammad non fossero mai nati, la fede d’Israele resterebbe sostanzialmente la medesima: e la storia del popolo d’Israele sarebbe, in cambio, infinitamente meno travagliata e dolorosa. Il Cristianesimo nasce invece dall’Ebraismo, si collega in modo strettissimo al profetismo ebraico e a quella stessa Torah che pur accoglie profondamente modificata: tutti i profeti d’Israele sono profeti “cristiani”; il riconoscimento di Gesù di Nazareth come Messia si diffonde anzitutto tra circoncisi che, per lunghi decenni, hanno resistito all’idea di abbandonare la Casa del Padre per fondare una nuova fede aperta ai “gentili”1 e universale.
1. Nell’Antico testamento, il vocabolo “gentile” indica il non–ebreo. Il nome, infatti, è una corruzione dall’ebraico goyim ovvero gli estranei al popolo ebraico. Nei Vangeli, indica gli Ebrei destinatari della predicazione di Cristo. San Paolo, elevando la predicazione di Cristo ad universale, identificò il gentile con il non–cristiano da convertire. Nel Corano, il termine gentili ('ummiyyīn) ricorre cinque volte, identificando sia gli illetterati ovvero coloro che non posseggono una Scrittura rivelata (sura III,20,75; sura LXII,2) sia gli Ebrei che falsificarono la Bibbia.
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L’Islam non si può concepire senza i due precedenti ebraico e cristiano: proponendosi come “sigillo dei profeti”2, Muhammad eredita e rivendica una linea ininterrotta che lo conduce al profeta che, del resto in modo tanto profondo — tipologicamente parlando — gli somiglia, a Mosè: e la “variabile ismailita”3 non intacca il collegamento al Patto tra Dio e Abramo.
Se d’altronde questa “continuità interrotta” presuppone un diritto d’anzianità dell’ebraismo, il Fratello Maggiore dal quale nessun credente nel Dio d’Abramo può prescindere, essa afferma nondimeno il fatto che Muhammad sia colui al quale — o ad ‘Alī, secondo lo sciismo — Dio si rivolge per concludere la serie dei profeti e per affidare la Sua diretta parola.
Ne deriva che nessun credente può toccare Mosè, padre comune e primo dei profeti del Dio di Abramo. Gesù ha invece potuto esser stato trattato in àmbito ebraico da falso profeta o ridicolizzato, come è successo con le Toledot Jašu4 che un suo eccellente studioso e traduttore, il gran rabbino di Roma Riccardo Di Segni, ha significativamente definito “il Vangelo del Ghetto”5 (ma non di
2. Cfr. sura XXX, 40. 3. Lo storico greco Eusebio, vissuto fra III–IV secolo, fu il primo a chiamare i beduini della provincia romana d’Arabia come Ismaeliti, in quanto discendenti di Ismaele, il figlio di Abramo. Nel lessico medioevale, il termine indicò gli Arabi tout cour, ritenuti congenitamente nomadi e razziatori. A tale valenza semantica, se ne soprappose una seconda che faceva riferimento alla setta sciita degli Ismaeliti. Costoro sono i seguaci del settimo ‘imām sciita, Ismail. L’originalità della loro fede è l’esoterismo ovvero la persuasione che il Corano e gli scritti dei profeti anteriori a Maometto siano allegorici. Per questo, gli Ismaeliti sono inclini al misticismo. Una loro frangia estremisitica — i Nizari — fu nota per i massacri di presunti apostati. 4. Il Sefer toledot Jašu (libro della genealogia di Gesù) è un insieme di antichi racconti ebraici sulla vita di Gesù e del primo Cristianesimo. Risalenti all’epoca delle prime polemiche fra Giudaismo e Cristianesimo, furono trasmessi inizialmente in forma all’orale ma poi furono posti per iscritto, a partire dal IV–VI secolo. Si diffusero in tutta l’Europa e Medio Oriente ma in versioni differenziate, non solo a livello linguistico. La maggioranza dei manoscritti giuntici sono in ebraico ma esistono redazioni anche in arabo, giudeo–persiano, giudeo–tedesco (yiddish) e giudeo–spagnolo (ladino). 5. Cfr. Di Segni R., Il vangelo del ghetto, Newton Compton, Roma 1985.
Prefazione 13
mentichiamo che oggi esiste il movimento degli “Ebrei per Gesù”, che intende recuperarlo integralmente alla tradizione ebraica).
A loro volta i cristiani hanno potuto calunniare e ridicolizzare Muhammad facendone un falso profeta, un apostata e un mago, com’è stato studiato a più riprese a partire dal famoso saggio La leggenda di Maometto di Alessandro D’Ancona6. Ma, sulla scia del suo maestro Louis Massignon, il francescano Giulio Basetti Sani ha proposto di rivendicargli il ruolo di “profeta del Cristo Venturo”7 anche per i cristiani, e non sono ormai pochi quelli che si potrebbero definire, in analogia col movimento ebraico del quale parlavamo or ora, “cristiani per Muhammad”. Anzi, nella tradizione cristiana, anche in quella controversistica, non si è esitato a riconoscere la positività del messaggio islamico in sé e per sé, ma si sono concentrate le critiche (e le calunnie) sul suo fondatore.
L’Islam, accogliendo l’eredità sia ebraica sia cristiana che pur rielabora, ha invece concentrato la sua forza polemica sugli argomenti storici e teologici: ma non ha ovviamente potuto ripagare i “fratelli in Abramo” con analoga moneta ricambiando gli attacchi ebraici e soprattutto cristiani contro il suo fondatore, in quanto Mosè e Gesù sono per esso grandi profeti. Questa asimmetria non può essere dimenticata.
Ma la shoah, nel suo immenso orrore, ha provocato un netto arrestarsi dell’antigiudaismo cristiano. Addirittura accompagnato a posteriori da seguenti riletture antistoriche. Può darsi che ciò abbia in qualche modo facilitato purtroppo, per una sorta di bizzarro contraccolpo indiretto, una ripresa e un aggravarsi di quell’islamofobia — e in particolare, diciamo così, “maomettofobia” — che già faceva parte del bagaglio tradizionale cristiano e che riscontriamo in una lunga linea di autori, da Giovanni Damasceno a Dante attraverso anche alcuni convertiti, come Pietro Alfonso.
6. Cfr. Borruso A. (a cura di), Alessandro D’Ancona: la leggenda di Maometto in Occidente, Salerno Editrice, Roma 1994. 7. Cfr. Basetti Sani G., Muhammad, il profeta, Jouvence, Roma 2000.
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Non pochissimi anni fa, nel 1986, Biancamaria Scarcia Amoretti pubblicò nella rivista “Bozze” un esemplare saggio, destinato a restare un classico del suo genere, dal titolo L’arabo come nemico8. Esso seguiva il costruirsi dell’icona dell’arabo — e del musulmano: con una sintomatica confusione tra le due categorie — in quanto non solo “altro”, ma addirittura nemico per eccellenza della civiltà dell’Occidente.
Da allora, le cose si sono terribilmente aggravate: l’avanzata del radicalismo islamistico — quello che di solito si definisce il “fondamentalismo” — ha conferito all’intero problema un colore di fanatismo religioso che, quando la Scarcia Amoretti redigeva il saggio cui ho or ora alluso, ancora non era così evidente. Quel ch’è da allora è stato detto e scritto sull’Islam e sul suo fondatore, anche da parte di personaggi illustri o comunque influenti, è stato sovente di una gravità indescrivibile.
Specie dopo l’11 settembre 2001, si è fatto di tutto per accreditare la calunnia secondo la quale ogni musulmano, se è davvero tale, è in quanto tale un nemico dell’Occidente e della Modernità; quindi, un potenziale fondamentalista; e ogni fondamentalista un potenziale terrorista. Sono duri, e conseguono risultati molto modesti, i benemeriti sforzi tesi a sottolineare come la realtà sia molto complessa e le generalizzazioni sconsigliabili. Il sottobosco semicolto o pseudocolto e divulgativo di questa letteratura islamofoba, nella quale non si riesce a capire se prevalgano la malafede, il fanatismo o l’incompetenza, è diventato immenso e intricato: e ha prodotto perfino “carriere eccellenti” d’imbonitori assurti arrampicati fino a ruoli d’un certo rilievo nel mondo politico o in quello mediatico.
Ma — chiediamoci — le offese e le calunnie sono tutte cose nuove, provengono tutte dall’isterica situazione degli ultimi anni, sono tutte frutto dell’impatto duro, sulle società islamiche, di questioni
8. Cfr. Scarcia Amoretti B., L’arabo come nemico: dal feroce Saladino a Gheddafi, in Bozze, LX(1986), pp. 79–89.
Prefazione 15
che vanno dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi all’impiantarsi dello Stato d’Israele nella realtà geostorica vicino–orientale e che trovano la sua ragione ultima nella difficoltà di “modernizzare l’Islam”; o c’è qualcosa di più antico, di più profondo?
Al riguardo, i fautori dell’inconciliabilità e della non–convivenza citano Poitiers9, le crociate, la battaglia di Lepanto10, i due assedi ottomani di Vienna11. Si tratta di eventi storici differenti tra loro e comunque richiamati secondo un tanto rozzo quanto a modo suo preciso disegno: quello dell’uso strumentale e demagogico della storia.
Eppure, Dante — che pur s’ispirava a un testo musulmano — il Kitāb al–mi'rāj — ha senza dubbio collocato Muhammad all’inferno, come è stato poi ricordato dall’affrescatore della basilica bolognese di san Petronio; e io ricordo bene come un mio catechista all’inizio degli anni Cinquanta (ch’era un colto e raffinatissimo sacerdote) raccontasse con naturalezza — ritenendola una cosa vera — la leggenda appresa in seminario secondo la quale la tomba di Maometto, “alla Mecca” (sic), starebbe sospesa in aria perché di ferro e fosse attratta da otto magneti, posti agli angoli della stanza cubica nella quale è collocata. E allora, non è tanto sul survival della “leggenda di Maometto”, quanto su molti confusi ma inquietanti aspetti del suo revival che qui conviene riflettere.
Per uscire dall’impasse della disinformazione e della calunnia, molti confidano nei valori di pace e di tolleranza, retaggio di tutti gli uomini e le donne che il Vangelo di Luca definisce bonae voluntatis. Personalmente, forse per la “deformazione professionale”
9. La battaglia di Poiters (732) fu vinta dall’esercito franco, guidato dal re Carlo Martello, contro l’esercito dei musulmani di Spagna. 10. Nella battaglia di Lepanto (1571), la flotta ottomana fu sconfitta dalle flotte congiunte della Repubblica di Venezia, del Regno di Napoli, dello Stato pontificio, della Repubblica di Genova e del Granducato di Toscana, sostenute finanziariamente anche da altri regni e principati cattolici. 11. Il primo assedio di Vienna (1529) fu guidato dal sultano Solimano il magnifico. Il secondo assedio di Vienna (1683) fu guidato dal visir Kara Mustafa, per conto del sultano ottomano Mehmet IV.
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dell’insegnante e del ricercatore che mi trascino dietro da quasi mezzo secolo, io diffido dei valori che nascono dai buoni sentimenti e dall’emozione quando non siano sostenuti da una chiara e pacata, soprattutto documentata consapevolezza.
Se davvero vogliamo comprender meglio gli “altri”, e rendersi conto che tali in realtà non sono, bisogna anzitutto conoscerli. La conoscenza genera curiosità ulteriore, quindi simpatìa, e poi affetto, ed infine amore: un sentimento, quest’ultimo, che se conquistato razionalmente e sistematicamente magari non travolge, ma si rivela più solido, profondo e duraturo.
La storia ci aiuta: essa non sarà magistra vitae, ma fornisce modelli e suggerimenti. Ai cristiani, ai musulmani, agli ebrei, agli adepti di qualunque culto, agli agnostici e agli atei legati tutti comunque tra loro dalla bona voluntas, essa propone l’esempio dei tempi e delle società in cui la convivenza era non solo possibile, ma franca e cordiale: dall’impero maurya12 di Ašoka (304–232 a.C.) a quello tartaro fra XIII e XIV secolo alla Spagna due–quattrocentesca al sultanato moghul di Al–'Akbar (1556–1605)13 in India. Ma i modelli storici restano lettera morta, se non si afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che essi hanno piantato affinché fruttificasse nel futuro.
L’Islam è un enigma storico. E lo ha di nuovo dimostrato: alimentando nel suo seno la violenza più buia e in apparenza ancestrale (in realtà fin troppo moderna), ma al tempo stesso riconducendo misteriosamente il Nome di Dio al centro della realtà contemporanea, che la società occidentale si era illusa di poter gestire vivendo etsi Deus non daretur.
Il modello occidentale sembrava sul punto di giungere davvero
12. L’impero maurya (321–185 a.C.) fu il più grande ed importante nella storia antica del sub–continente indiano (India, Pākistān, 'Afğānistān, Bangladesh, Nepāl, Buthan). 13. La dinastia musulmana dei Moğūl dominò il sub–continente indiano (India, Pākistān, 'Afğānistān, Bangladesh) dal 1526 al 1858.
Prefazione 17
a una società autonoma nel vero e profondo senso del termine, che cioè riuscisse a trarre esclusivamente da se stessa l’energia autolegittimatrice delle norme sulle quali si regge: una società dove il punto centrale non fosse la prova o meno dell’esistenza di Dio, bensì l’affermarsi di una vita individuale e collettiva nella quale ci si potesse comportare come se Dio non fosse. Da una trentina di anni ad oggi, il sempre più frequente scandire dello Allah 'akbar (Allah è grande) in differenti contesti — dalla gioia al ringraziamento alla minaccia alla guerra — ci ha riportati all’antica realtà: che di Dio non ci si dimentica; e, quando sembriamo o rischiamo di farlo, Egli ci richiama alla realtà della Sua presenza viva nell’universo e nella storia.
La ricerca di Daniela Fabrizio ci aiuta a ricostruire le tappe e le effemeridi dell’odio e del pregiudizio religioso; ma al tempo stesso ci mostra, con rigore e dottrina, quanto profonde siano le radici comuni, che fanno delle tre grandi religioni abramitiche, cresciute insieme fino dalla comune culla asio–mediterranea, altrettante facies di una sola grande famiglia, di una sola grande cultura.
La memoria comune e condivisa delle lotte e delle colpe trascorse può aiutarci, se correttamente suscitata, intesa e condivisa, a fondare un futuro migliore e più consapevole. Libri come questo aiutano a costruire nuove sintesi culturali e a conseguire nuovi orizzonti etici, le une e gli altri fondati sulla conoscenza e la consapevolezza.
Franco Cardini
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Premessa
L’Inviato di Dio... aveva detto: “ la differenza fra me e gli altri profeti è quella di un uomo che costruisce una casa, la perfeziona e l’abbellisce, sennonché è vuoto il posto di un mattone angolare. La gente entra, circola, ammira e dice: ah, se non mancasse quel mattone!”1.
Grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio... mettendo in atto tutta la vostra diligenza, aggiungete alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno e all’amore fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro, Gesù Cristo. Chi invece non ha queste cose è cieco e miope, dimentico di essere stato purificato dai suoi antichi peccati2.
Il corpus letterario cristiano di polemistica antislamica è imponente. Sarebbe improbo il tentativo di un’analisi esaustiva, tanto più se da racchiudere nelle pagine di un unico volume; pretenzioso il ten
1. Cfr. Vacca V., Noja S., Vallaro M. (a cura di), Al–Buhāri: detti e fatti del profeta dell’Islam, Utet, Torino 1982, p. 435. 2. Cfr. Seconda lettera di san Pietro I,2–8.
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tativo di sviscerarne l’iter storico al fine di evidenziare luci ed ombre del confronto islamo–cristiano, addentrandosi nelle sue pieghe.
Velleità simili non sono mancate. Per lo più, si sono risolte in excursus divulgativi tanto ampi quanto generici oppure in ricostruzioni parziali, talora ideologizzate, che non aiutano le opinioni pubbliche a destreggiarsi nel ginepraio delle questioni religiose, culturali e storiografiche.
Di contro, la saggistica scientifica è atomizzata in studi che, per il loro eccesso di specializzazione, rasentano la pedanteria accademica. Al pubblico comune risulta poco fruibile e poco accessibile, giacché spesso circola in lingua straniera oppure in edizioni di nicchia.
Quali sono, allora, le ragioni del presente volume?La prima è un bisogno di chiarezza, a fronte del dedalo di infor
mazioni, più o meno corrette, ma anche di controinformazioni, più o meno tendenziose. Barcamenarsene è faticoso. La sovreccitazione — non solo mediatica — prodottasi dall’incalzare degli eventi, non aiuta. Essa, anzi, ha accresciuto il senso di incertezza individuale e collettivo.
Paradossalmente, nell’epoca delle breaking news ovvero dell’informazione costante, immediata e continua nell’arco delle ventiquattro ore giornaliere, ci sentiamo piuttosto disinformati su quanto attiene all’Islam, ai musulmani, agli Stati con popolazioni largamente islamiche.
Per buona parte degli Italiani, l’Islam è sinonimo di interrogativi senza risposta e di timori crescenti, di inveterati preconcetti e di false persuasioni. Talora sono assurte a pretese cognizioni, spacciate per “scienza”. Di fatto, la conoscenza media degli Italiani sull’Islam risulta più presunta che effettiva. Per accertarsene, basta chiedersi se abbiamo mai trovato tempo e pazienza per leggere il Corano o le opere del pensiero e della scienza araba che sono capisaldi nel progresso dell’umanità intera. D’altra parte, quanti di noi si sono dilettati con romanzi o con raccolte di poesie di autori arabi e musulmani, seppure best–sellers insigniti di premi letterari importanti?
Premessa 21
Come attenuante, va riconosciuto che gli islamologi non sempre sono riusciti a raggiungere il grande pubblico, facendo divulgazione di alto contenuto scientifico ma in un linguaggio semplice. Indubbiamente, in questi ultimi anni, le iniziative sono state numerose e sono andate moltiplicandosi nei più svariati contesti. Ciò stante, la maggioranza degli Italiani fatica ad orientarsi nella mole della pubblicistica attinente all’Islam, a raccapezzarsi fra i dibattiti televisivi e giornalistici, a muoversi con agio nella rete web scansando insidie pericolose.
Dunque, alle tare di appropriata conoscenza si oppongono le difficoltà a trovarne soddisfazione in forme semplici e con tempistiche ragionevoli. Questa constatazione ha mosso al presente volume. Esso non è un compendio sulla civiltà o sulla religione islamica e neanche sulla storia delle relazioni islamo–cristiane. Non è neppure esaustivo circa le argomentazioni di cui tratta, qualora si considerino i nessi ed i rimandi concettuali che attraversano la storia del pensiero e delle religioni. Ha altri intenti.
Uno è di puntualizzare gli aspetti salienti della polemistica islamo–cristiana, evidenziando le tematiche che si sono rincorse nella tradizione letteraria antimusulmana dal medioevo ad oggi, sottoforma di cliché. In un linguaggio fluido, ricostruisce le ragioni dei fraintendimenti reciproci fra Cristianesimo ed Islam medioevale, le dinamiche ideologiche cui quei fraintendimenti hanno dato adito nel corso del tempo, le ricadute che produssero sul momento e nelle epoche successive in echi di lungo termine.
In particolare, ripercorre l’iter di genesi e di successiva filiazione letteraria delle narrazioni e delle contronarrazioni cui i polemisti cristiani e musulmani si lasciarono andare ma in vista di un identico fine: esaltare la propria fede come la “più vera” denigrando le similari pretese altrui.
A tale scopo, essi non disdegnarono di confondere fatti, luoghi e persone con il risultato di una distorsione del vero storico. Inventarono ex novo contronarrazioni del Vangelo e del Corano, prendendo talora spunto da testi apocrifi; dilatarono fuori misura
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gli accadimenti e la loro portata storica, annullando la dimensione spazio–temporale onde dissolvere la storia nel mito.
Valga la leggenda del martirio di san Placido (515–541), uno dei primi discepoli di san Benedetto da Norcia. Stando all’agiografo Pietro il Diacono, monaco a Montecassino nei primi del XII secolo, san Benedetto inviò il confratello Placido a Messina, quale abate del locale monastero. Giunto in Sicilia, Placido fu catturato, torturato ed ucciso dai Saraceni3 che stavano occupando l’isola. Erano guidati da un certo Mamucha, alias Maometto4.
Il racconto ebbe gran successo nel medioevo e lunga eco, fin quando non si attestò la sua infondatezza storica: nel 541, anno di morte di Placido, Maometto non era ancora nato sicché gli aguzzini del santo non potevano essere musulmani!
Di fatto, Pietro il Diacono confuse la storia del religioso benedettino con quella dell’omonimo martire cristiano, ucciso sotto l’imperatore romano Diocleziano. Conseguentemente, egli confuse gli incursori arabi che, nel VI secolo, assalirono le coste sicule con i conquistatori musulmani che espugnarono la Sicilia due secoli dopo.
3. Con il termine saraceno, il medioevo cristiano indicò genericamente i musulmani. Il vocabolo è sconosciuto alla tradizione storiografica e letteraria musulmana. Fu usato per la prima volta da Tolomeo e con lui dagli autori ellenisti per indicare una popolazione stanziata lungo le coste del golfo di 'Aqabah nel Sinai. Più tardi, i Siriaci lo adottarono per indicare i beduini arabi. Per alcuni studiosi, il termine deriverebbe dall’arabo šarqī (gli orientali), parola con cui i beduini delle regioni desertiche interne alla Penisola araba indicavano i predoni che, dalle regioni settentrionali della medesima penisola, si inoltravano nel deserto. Per altri studiosi, invece, il termine deriverebbe dall’arabo saraqa (rubare), in riferimento alle razzie dei beduini. Altri pensano ad un epiteto tribale in riferimento ai figli di Sara, moglie di Abramo. 4. La storia del martirio di san Placido è riportata nelle pagine della Cronaca dell’abbazia benedettina di Montecassino (cfr. Petrus Diaconus, Liber de ortu et obitu justorum cœnobii casinensis: vita et obitus sancti Placidi martyris, in MPL, vol. 173, col. 1067A–1070B). L’edizione offerta dalla patrologia latina, curata dal Migne, presenta alcuni errori di trascrizione rispetto ai manoscritti originali, custoditi presso l’archivio dell’abbazia di Montecassino. Tra loro vi è il codice contenente il Registrum sancti Placidi ovvero la narrazione della leggenda di Placido (cfr. Dell’Omo M. (a cura di), Il Registrum di Pietro Diacono, Archivio Storico dell’Abbazia di Montecassino, Montecassino 2000).
Premessa 23
Nessuno dei lettori di Pietro il Diacono parve rendersi conto dell’anacronismo poiché, nella cognizione comune europea del tempo, i Saraceni erano — per antonomasia — bruti musulmani invasori e guerrafondai.
D’altra parte, le cronache rinascimentali dipingono Maometto ora come il re degli Arabi ora come un papa mancato. Talvolta lo fanno ghibellino e talvolta al soldo di signorie guelfe. Eppure, Maometto morì nel 632, quando guelfi e ghibellini non esistevano. È dubbio che egli sapesse dell’esistenza di un papa a Roma.
Come rapportarsi a tali pagine del nostro passato, non solo letterario? È possibile commentarle, andando oltre lo stupore e l’incredulità ma senza ripiegare in frettolose prese di distanze ed in recriminazioni a posteriori oppure in facili perdonismi da quieto vivere?
Banalmente, si potrebbe dire che le animosità culturali e religiose, se esasperate, indeboliscono lo spirito critico ed accorciano le vie del confronto sereno, per quanto serrato e vivace. D’altra parte, la distanza temporale non sempre aiuta ad una percezione più disincantata della realtà. Talora, infatti, il filtro del tempo distorce l’esatta percezione degli avvenimenti passati e rimanda molti fatti e i loro protagonisti nel dimenticatoio della memoria comune.
Valga il caso della parodia del Corano e di Maometto come profeta dell’Islam. Essa viene imputata quasi esclusivamente ai circoli cristiani, sia del presente sia del passato. L’addebito è parziale giacché le opinioni pubbliche odierne, al di qua e al di là del Mediterraneo, dimenticano che le caricature di Maometto e del Corano sono presenti nella letteratura islamica sin dai primordi.
Purtroppo, dei testi più antichi non ci sono giunte le versioni originali. Disponiamo soltanto di citazioni indirette. Stando ad esse, quattro falsi–profeti arabi avversarono l’Islam ai tempi di Maometto e lo combatterono con le armi e con la parola della denigrazione e del sarcasmo: Musaylimah ibn Habīb, al–'Aswad al–‘Ansī, Tulayha ibn Khuwaylid, Sajāh bint al–Hārith.
Per certi aspetti, l’opposizione di costoro all’Islam e a Maometto fa sorridere bonariamente, dati i lazzi del folclore popolare e le
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tresche da cronaca rosa. Si consideri, per esempio, le nozze “profetiche” tra Musaylimah e Sajāh.
Musaylimah ibn Habīb al–Hanafī, tuttora ricordato dai musulmani con l’epiteto di al–kadhdhāb (il bugiardo), apparteneva ad una potente tribù cristiana dell’Arabia centrale. Si dice che fosse un prestigiatore in grado di infilare un uovo in una bottiglia e di far volare gli uccelli che aveva spennato. Parodiando il Corano, si fece soprannominare rahmān (il misericordioso), l’epiteto coranico più ricorrente per Allah. Compose alcune controsure5, abolendo il precetto musulmano delle preghiere quotidiane, sollecitando la fornicazione e l’assunzione di bevande alcoliche6.
Sposò Sajāh bint al–Hārith, la donna che si era proclamata a sua volta profetessa, poco dopo la morte di Maometto. Anche Sajāh apparteneva ad una tribù cristiana araba che ella indusse a marciare contro i musulmani. A tal fine, Sajāh cercò il sostegno di altre tribù arabe e lo trovò nei Banū Hanīfah, la tribù cui apparteneva Musaylimah. Il loro matrimonio cementò un sodalizio non solo politico e militare ma anche religioso. Tuttavia, quando Musayli
5. L’origine del termine sura è discusso tra i glottologi. Per alcuni studiosi, il termine deriverebbe dall’ebraico šūrā (serie), in riferimento alle sezioni in cui è divisa la Mišnah. Per altri studiosi, deriverebbe dal siriaco, lingua in cui indicava un testo scritto e, per traslato, una parte della Scrittura. Con l’avvento dell’Islam, il termine passò ad indicare l’unità di una rivelazione coranica. Per questo, una sura poteva corrispondere ad un solo versetto oppure a più versetti. In epoca successiva, quando il testo del Corano fu sigillato per iscritto, il termine sura passò ad indicarne i capitoli. Esso compare, tuttavia, solo nove volte nel Corano in forma singolare ed un’unica volta in plurale. Generalmente, le sure sono intitolate o con un nome desunto dall’argomento principale oppure con un termine che vi ricorre. Sono disposte in ordine di lunghezza decrescente. Perciò, ad eccezione della prima, procedono dalla sura più lunga alla più breve. Tale progressione non rispecchia i diversi momenti della rivelazione giacché le sure medinesi — le più giovanili nella vita di Maometto — sono le più brevi mentre le sure meccane — le più senili — sono le più lunghe. Va precisato che, all’interno di ciascuna sura, è possibile trovare versetti di diversa datazione storica. 6. Cfr. Guillaume A. (a cura di), The life of Muhammad: a translation of Ibn Ishaq’s sirat rasul Allah, Oxford university press 1996, pp. 636–637, 648–649; Poonawala Ismail K. (a cura di), The history of al–Tabarī: the last years of the Prophet, Suni press, New York 1990, p. 107.
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mah rimase ucciso in una battaglia contro i musulmani medinesi (632), Sajāh si convertì all’Islam. Probabilmente, intese così sfuggire alla condanna a morte.
Quanto ad al–'Aswad al–‘Ansī (uomo nero di ‘Ans), il suo vero nome era ‘Athalah ibn Ka‘b ibn ‘Awf ma è ricordato nelle cronache arabe con vari epiteti: al–kāĥin (il prestigiatore) per la corona che faceva sparire con un gioco di prestigio; al–'aswad (il nero) per la pelle scura, date le origini yemenite; dhū–al–khimār (il velato) per il velo dietro cui nascondeva le deformità del viso; dhū–al–himār (quello dell’asino) per un asino ammaestrato ad inginocchiarsi davanti alla sua persona, in segno di omaggio. Affermò che due angeli, chiamati Šāhib (il pallido) e Šārik (lo sgargiante), gli rivelarono messaggi divini tra cui l’ingiunzione di bere alcolici. Pare che morì assassinato per ordine di Maometto7.
Quanto infine a Tulayha ibn Khuwaylid al–'Asadī, egli apparteneva ad una delle tribù arabe che più osteggiò Maometto. Convertitosi all’Islam, Tulayha abiurò, coalizzando varie tribù contro i musulmani. All’invito a ri–abbracciare l’Islam, rispose di aver ricevuto rivelazioni divine per mezzo di un angelo di nome dhū an–nūn (quello della balena). La risposta era evidente motteggio di Maometto, dell’arcangelo Gabriele, ritenuto dai musulmani il latore del Corano, e del medesimo testo coranico. Nel Corano, infatti, l’epiteto di dhū an–nūn è riservato al profeta biblico Giona8.
Sconfitto in battaglia, Tulayha ritornò pellegrino a Mecca e si ri–convertì. Secondo altre fonti, emigrò in Siria e, quando Damasco fu conquistata dai musulmani, si ri–convertì morendo da martire dell’Islam. Nei decenni successivi alla morte di Maometto e nel corso dei primi secoli dell’Islam, le caricature satiriche continuarono. Alcuni autori sono rimasti celebri per le imitazioni beffarde e canzonatorie. Tra essi ricordiamo 'Abū Muhammad ‘Abd Allah Rūzbaĥ ibn Dādūyaĥ (720–756) e soprattutto 'Abū at–Tayyib
7. Cfr. Guillaume A. (a cura di), The life…, cit., p. 648. 8. Cfr. sura XXI,87.
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'Ahmad ibn al–Husayn al–Ju‘fī (915–965). L’uno discendeva da una nobile famiglia persiana e fu il primo traduttore in lingua araba di opere letterarie della tradizione persiana ed indiana. È noto con l’appellativo di Ibn al–Muqaffa‘ (figlio del monco) in quanto suo padre, esattore delle tasse, fu accusato di furto e condannato all’amputazione della mano. Anche Ibn al–Muqaffa‘ cadde in disgrazia, allorché fu sospettato di manicheismo, religione praticata da non pochi suoi amici. Fu, infatti, ritenuto autore di una parodia manichea del Corano, giuntaci in frammenti. Invischiato in un complotto di palazzo, fu fatto arrestare e torturare dal califfo abbaside 'Abū Ja‘far al–Mansūr che lo condannò a morte.
L’altro, figlio di un semplice portatore d’acqua, fu il più celebre poeta dell’età abbaside ma anche il più controverso, dati i suoi oscuri legami con la setta dei qarmati. Costoro erano degli sciiti eterodossi, perché inclini al messianismo. Per quasi un quarantennio, misero a ferro e fuoco l’impero abbaside, con scorribande dallo Yemen, alla Persia, all’Africa del nord. Nel 930 giunsero ad occupare Mecca, massacrando i pellegrini musulmani che si trovavano in città e profanando la Ka‘bah da cui trafugarono la Pietra nera. Solo sul finire del secolo, i califfi abbassidi riuscirono a domarli, espellendoli al di là dei confini orientali dell’impero. Nei torbidi rimase coinvolto anche il celebre poeta, incarcerato con l’accusa di aver partecipato ad un tentativo di rivolta qarmata e di essersi proclamato profeta. Dimostrata l’innocenza, fu liberato ma l’episodio gli valse l’epiteto di al–mutanabbī (lo pseudoprofeta) con cui è tuttora ricordato.
Dal medioevo ad oggi, le scimmiottature del Corano e le parodie su Maometto sono proseguite in ogni dove. Le ultime, in ordine di tempo, sono le vignette satiriche pubblicate su un giornale danese nel 2005. I musulmani se ne sono risentiti, giudicando le vignette come blasfeme. Di qui, le loro vivaci rimostranze ma anche la ri–pubblicazione delle vignette in questione sui giornali di tutto il mondo e la pletora delle imitazioni sopratutto nelle pagine web.
Un secondo intento di questo volume è richiamare alla memoria le antiche lingue della tradizione religiosa cristiana ed islamica: l’ebrai
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co, l’arabo, il greco ed il latino. Esse utilizzarono vocaboli identici o affini ma in accezioni differenti di cui non è facile avere consapevolezza e prendere dimestichezza. La padronanza di tante lingue diverse non fu cosa comune tra i polemisti medioevali. I più conoscevano solo il dialetto natio e la lingua letteraria della propria tradizione religiosa: per i bizantini era il greco, per i cattolici era il latino, per i musulmani era l’arabo. Pochi ebbero una maggiore versatilità. Tra costoro vanno ricordati i siriaci9 ovvero i cristiani d’Oriente che erano arabofoni per lingua ma greci per cultura. Non di meno, i mozarabi di Spagna10 che,
9. I Siriaci sono oggi identificati nei cristiani orientali arabofoni. In realtà, i Siriaci professano varie forme di Cristianesimo ma adottano tutti il siriaco come lingua liturgica. Il siriaco è una variante dell’aramaico, la lingua da cui sono derivati sia l’ebraico sia l’arabo. In età medioevale, i Siriaci appartenevano o alla Chiesa siro–ortodossa oppure alla Chiesa assira. La Chiesa siro–ortodossa è erroneamente indicata come monofisita. Essa segue, infatti, il miafisismo ovvero la dottrina secondo cui in Cristo esiste un’unica persona ed un’unica natura, contemporaneamente umana e divina. I siro–ortodossi di Siria sono denominati giacobiti, in onore di Giacomo Baradeo (490–578) il vescovo che guidò e riorganizzò la comunità, dopo lo scisma di Calcedonia. La Chiesa Assira è nota come Chiesa nestoriana perché professa il duofisismo ovvero la dottrina secondo cui in Cristo vi sono due essenze — l’umana e la divina — unite in un’unica persona ma non mescolate fra loro. È detta anche Chiesa ortodossa assira, Chiesa apostolica d’Oriente, Chiesa siro–orientale o più comunemente “la Chiesa dei martiri” poiché nessuna altra comunità cristiana annovera un numero maggiore di vittime. Si fa presente che, nel corso del XVII secolo, si verificarono scismi all’interno di ciascuna delle antiche Chiese orientali, in quanto taluni fedeli accettarono la comunione con Roma ma mantenendo il rito e la lingua liturgica originaria. Per questo, da allora ad oggi, ogni Chiesa orientale ha un suo corrispettivo cattolico. Nello specifico: gli assiri, unitisi a Roma, costituiscono la Chiesa cattolico–caldea, guidata dal Patriarca di Babilonia dei Caldei residente a Bağdād; i siro–ortodossi, passati all’unione con Roma, costituiscono la Chiesa siro–cattolica, guidata dal Patriarca di Antiochia dei Siri residente a Beirut. 10. Mozarabo è un termine del lessico storiografico d’età medioevale–moderna. Indica il cristiano arabizzato — non necessariamente islamizzato — della Spagna musulmana ovvero l’indigeno ispanico in grado di parlare e d’intendere la lingua araba. L’origine etimologica è incerta: per alcuni studiosi, il termine è una corruzione dal latino mixti arabes (meticci); per altri studiosi, è una corruzione dall’arabo must‘arib (arabizzato). Di certo, la prima citazione del vocabolo si trova in un documento spagnolo del Regno del Leon (1024) che recita “muzaraves de rex tiraceros”. Stando a questa fonte, il termine mozarabo parrebbe un dispregiativo, coniato dai cristiani della Spagna settentrionale, non soggetti alla dominazione islamica, per
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d’abitudine, usavano l’ebraico, l’arabo ed il latino. Ma il caso dei siriaci e dei mozarabi fu unico perché, in larga maggioranza, i polemisti medioevali ebbero scarsa familiarità con le lingue delle tradizioni religiose altrui. Ciò fu di ostacolo ad una chiara intesa reciproca fra cristiani e musulmani. Ne derivarono incomprensioni terminologiche ed equivoci concettuali che alimentarono la polemistica, talora sostanziandola. Le pagine del presente volume ne offrono vari esempi.
Nel contempo, esse delucidano la valenza semantica di ogni parola nelle singole tradizioni religiose, segnalando i malintesi, i travisamenti e gli usi linguistici arbitrari. Taluni permangono ancora oggi nel linguaggio sia verbale quotidiano sia letterario. Valgano facili riscontri: impropriamente, il lessico cristiano medioevale ricorreva ai termini di saraceno e di agareno per indicare il musulmano ed usava il termine beduino come sinonimo di arabo. Non meno impropriamente, oggi consideriamo sinonimi i vocaboli di arabo e di musulmano, dimenticando che non tutti gli Arabi sono musulmani così come non tutti i musulmani sono Arabi per lingua ed etnia.
Allo stesso modo, citiamo con disinvoltura l’espressione Medio Oriente, pur non avendo chiari quali siano i confini geografici, geopolitici e geoculturali del Medio Oriente. Riteniamo che il Medio Oriente corrisponda al Vicino Oriente o al Levante, persuasi — a torto — che questi termini siano sinonimi e che come tali vennero usati dagli autori d’età medioevale–moderna.
Altro intento del volume è di delucidare le fasi cronologiche ed i relativi contesti storici entro i quali venne elaborandosi la pole
indicare i correligionari andalusi i quali preferivano rimanere sotto la dominazione musulmana piuttosto di emigrare altrove o di favorire in loco la Reconquista. Si specifica che il termine mozarabo non compare in alcun testo musulmano ove i cristiani spagnoli sono appellati secondo il lessico classico islamico: ‘ajam (straniero), nasrānī (nazareni), dhimmi (protetti), ma‘āĥid (alleato), mušrik (triteista) rumī (romani). I nativi spagnoli, passati dal Cristianesimo all’Islam, furono detti musallam (gli ammessi) mentre i musulmani, nati in Spagna ma da matrimoni misti, furono chiamati muwalladūn (gli affiliati).
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mistica cristiana antislamica. Per l’età medioevale, gli studiosi ravvisano tre momenti diversi:
– un primo periodo corre dal secolo VIII al secolo IX e fu animato dai polemisti siriaci e greco–bizantini, i quali presentarono l’Islam come un’eresia cristiana;
– un secondo periodo corre dal secolo IX al secolo XI e fu animato dai mozarabi di Spagna, i quali fecero della propaganda religiosa uno strumento di riscossa politica e culturale, fornendo le basi ideologiche alla Reconquista e alle crociate;
– un terzo periodo corre dal secolo XII al secolo XIV e fu animato dai cronachisti francesi e tedeschi, i quali affiancarono al tradizionale odio teologico verso l’Islam un nuovo odio culturale. Essi, infatti, presentarono l’Islam come civiltà barbara e selvaggia ossia congenitamente avversa al Cristianesimo, inteso come religione e civiltà per antonomasia.
La scansione cronologica, or ora accennata, non va intesa rigidamente perché risponde ad esigenze di studio più che riflettere l’esatto corso degli accadimenti passati. Come tutte le periodizzazioni di tipo storico, essa si compone di blocchi e di cesure temporali determinati da convenzioni di comodo, stabilite dagli studiosi, piuttosto che da effettive rotture del percorso storico in sé e per sé.
L’iter storico della polemistica islamo–cristiana in età medioevale fu, infatti, abbastanza fluido. Ne sono prova sia i rimandi, talora espliciti e talora indiretti, fra un autore ed un altro sia le citazioni testuali di un’opera in un’altra, seppure con chiavi di lettura differenti. L’appendice di fonti storico–letterarie, annessa al presente volume, consente un riscontro immediato.
Scorrendone le pagine, risulta evidente come i polemisti di generazione successiva si richiamarono ai predecessori, rinnovandone gli asserti ma ingigantendo la portata delle argomentazioni in senso deteriore: i biasimi divennero volgarità, le critiche divennero sarcasmo scurrile.
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Passando di bocca in bocca, qualunque notizia viene alterata nel suo contenuto. Talvolta, giunge ad essere del tutto distorta. Se la notizia in questione è di per sé una maldicenza, la sua alterazione non può che avvenire in senso peggiorativo. Basti considerare gli epiteti che furono attribuiti a Maometto, in un crescendo di turpitudini e di oscenità.
Quanto avviene nella comunicazione verbale, si verifica pure nella comunicazione scritta giacché il processo di imitatio/contaminatio letteraria è speculare alle ali del cicaleccio quotidiano ai crocicchi delle strade. Valga la cosiddetta leggenda di Maometto in Occidente.
Essa è un mix di narrazioni e di contronarrazioni le quali, una volta fuse tra loro, originarono racconti nuovi rispetto agli archetipi e differenti sia nella trama sia nella struttura letteraria. Ma questi novelli racconti diedero l’estro per la stesura di altri racconti, in un processo inesauribile di filiazione letteraria.
L’originalità di ogni nuovo racconto fu nel grado crescente di lascivia che veniva tributata ai musulmani con raccapriccio e con riprovazione ma secondo un processo di proiezione psicologica e culturale.
La concupiscenza era bollata di satanismo dalla morale pubblica cristiana ma non per questo i cristiani ne erano immuni. Non potendo discuterne apertamente, essi proiettavano il proprio hortus voluptatis nell’onirico e nell’immaginario, figurandosi mondi lontani ed esotici a mo’ di imperi dei sensi. Nella narrativa e nell’immaginario comune collettivo, l’Oriente musulmano fu lussuria, ingordigia, iracondia, malizia, frode e, ovviamente, eresia. In breve, la figurazione dei vizi capitali.
I racconti che sostanziano la leggenda di Maometto in Occidente non sono mai stati raccolti in un’unica silloge. Essa sarebbe voluminosa quanto un’enciclopedia e, per gioco forza, risulterebbe lacunosa giacché non è mai stato compilato un elenco esaustivo delle narrazioni medioevali che ebbero Maometto per protagonista. Non abbiamo neppure una lista esauriente dei codici mano
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scritti esistenti. La maggior parte degli archivi e delle biblioteche regionali e locali in Europa rimane inesplorata, giacché l’attenzione degli studiosi si è rivolta ad archivi e biblioteche di rilevanza mondiale. Tra tutte, è d’obbligo ricordare la Biblioteca nazionale di Francia e la Biblioteca dell’Arsenale a Parigi, la Biblioteca vaticana a Roma, le Biblioteche universitarie di Oxford e di Cambridge.
Gran parte dei manoscritti d’età medioevale e moderna giace in anonimi archivi di provincia, alle prese con difficoltà quotidiane di conservazione, catalogazione e riordino. Talora, con difficoltà di sopravvivenza giacché, alle vicissitudini del tempo, si unisce l’incuria degli uomini e la mancanza di risorse economiche all’uopo.
Di contro, la tecnologia digitale ha consentito l’immissione di interi patrimoni letterari nella rete web, permettendo la consultazione on–line a chiunque lo desideri. La ricerca scientifica se ne è grandemente avvantaggiata, risultando più facile rispetto al passato. Basti pensare alla collazione fra le fonti che internet rende oggi istantanea. Fino a ieri, invece, gli studiosi erano obbligati a viaggi in aereo ed in treno onde raggiungere biblioteche sparse per il mondo, nella speranza di poter rinvenire e visionare quanto loro occorreva.
Nell’ambito degli studi umanistici, l’accesso web ai testi greci e latini è senza dubbio di importanza capitale perché, per la prima volta, chiunque può liberamente leggere ed usufruire del corpus letterario che sostanzia la civiltà cristiana, a matrice greco–latina. Purtroppo, manca un’analoga possibilità per i corpus letterari di altre civiltà e religioni. Nello specifico, i testi arabi del passato, più o meno lontano, non sono ancora consultabili tramite internet.
A depotenziare l’importanza del web è l’ostacolo linguistico, giacché la digitalizzazione dei testi originali non è accompagnata da traduzioni in lingue correnti. A ben guardare, mancano edizioni a stampa fruibili e, talora, studi scientifici di supporto alla comprensione e alla critica testuale.
Valga il caso della polemistica religiosa d’età medievale–moderna. Essa fu scritta in arabo, ebraico, greco e latino coevi ovvero
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in lingue del passato di cui si è persa dimestichezza ai nostri giorni. Cadrebbe nell’oblio collettivo, qualora non si procedesse a traduzioni in lingua corrente e a pubblicazioni a portata di mano.
Purtroppo, le traduzioni finora eseguite non coprono la produzione letteraria degli autori cosiddetti maggiori né — e tanto meno — degli autori minori, senza contare la pletora di autori anonimi. In aggravio, tali traduzioni circolano per monografie in francese, tedesco e spagnolo ma di tipo accademico. Sono, perciò, di lettura non agevole per il largo pubblico. Quello italiano è oltremodo penalizzato, data la sua limitata padronanza delle lingue straniere e la ancora più limitata distribuzione libraria in lingua straniera.
Di qui, l’ambizione maggiore del presente volume. Esso offre al pubblico italiano la prima raccolta di fonti bizantine e latine di polemistica antislamica d’età medioevale. Sono poste in appendice per stralci significativi e non nella loro integrità testuale.
Per facilitare la comprensione, ogni stralcio è preceduto da un preambolo introduttivo che sintetizza la biografia dell’autore e sunteggia l’opera da cui è stato tratto il brano sottostante. Quest’ultimo è proposto in traduzione italiana, secondo la lingua corrente. Lì dove è stato possibile, si è seguita l’edizione critica più aggiornata. Nei restanti casi, si è proceduto a prima traduzione. Essa è stata eseguita sulla base dei testi greci e latini editi in varie collezioni di fonti, di volta in volta indicate con gli opportuni rimandi scientifici del caso.
Tra le collezioni prese di riferimento vi è la patrologia greca e latina curata dal bibliografo ed editore francese Jacques Paul Migne (1800–1875). Nonostante gli errori di trascrizione dai codici manoscritti ed i refusi di stampa, lamentati dagli studiosi e giustamente rilevati nelle edizioni critiche, la patrologia del Migne rimane la “piattaforma” di comune riferimento sia per gli specialisti ed i cultori sia per i lettori interessati.
Essa è stata digitalizzata ed inserita nella rete web. È dunque liberamente consultabile da chiunque lo desideri. Chi voglia proseguire nella lettura dei testi originali in lingua greca e latina, an
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dando oltre i singoli brani proposti in appendice a questo volume, può con facilità usufruire di internet11.
Un nutrito corpus di fonti medioevali, rivedute e corrette rispetto all’edizione ottocentesca del Migne oppure offerte in versioni testuali differenti dalla bizantina e dalla latina medioevale, sono state a loro volta pubblicate in collezioni specifiche. Anche esse sono state prese di riferimento nella traduzione in italiano corrente delle fonti coeve, poste in appendice a questo volume. In particolare: il Corpus Christianorum Continuatio Medievalis, il Corpus Fontium Historiae Byzantinae, il Corpus Islamo–Christianum.
Utili riscontri testuali sono ugualmente offerti da altre raccolte di fonti medioevali. Tra esse ricordiamo: Bibliotheca Scriptores Graecorum et Romanorum Teubneriana, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Les classiques de l’histoire de France au Moyen Âge, Monumenta Germaniae historica, Patrologia orientalis, Recueil des historiens de croisades.
Talune di queste raccolte di fonti sono disponibili on–line. Se ne rimanda per le opportune collazioni.
Chiunque possa o voglia usufruirne, potrà cogliere quelle peculiarità filologiche e testuali non sempre rendibili in una traduzione in lingua corrente.
Le fonti storico–letterarie, poste in appendice a questo volume, sono glossate mediante note di lettura che segnalano le citazioni scritturali dalla Bibbia e dal Corano, i rimandi letterari ad altri autori e testi, le allusioni polemiche più o meno velate. Le note delucidano, inoltre, i riferimenti storici connessi ai fatti e alle persone citate.
11. La quasi totalità dei testi della patrologia latina e buona parte di quelli della patrologia greca, curati dal Migne, sono gratuitamente consultabili on–line (www.documentacatholicaomnia.eu). I siti delle principali università e biblioteche europee e statunitensi permettono gratuitamente una consultazione guidata offrendo la possibilità di una ricerca per parole chiavi oppure per soggetto e per titolo. L’utente deve, però, rispettare alcuni vincoli. Altri siti agevolano ulteriormente la consultazione on–line ma il loro accesso non è gratuito.
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Ad ulteriore supporto di lettura e di comprensione testuale, il volume offre un’appendice biografica che annovera tutti i personaggi arabi menzionati, fornendo di ciascuno le essenziali indicazioni biografiche.
Di eventuali omissioni, sviste ed abbagli sono l’unica responsabile e chiedo sinceramente venia a quanti possano intenderli come torti verso chicchessia. Assicuro che la mia intenzione non è di mancare verso alcuno.
Esprimo un ringraziamento sentito a tutti coloro che, negli anni di studio e di stesura di questo volume, mi hanno resa partecipe dei loro saperi arricchendomi di cognizioni metodologiche, di consigli di lettura, di indicazioni interpretative, di spunti di ricerca. Nominarli singolarmente sarebbe davvero troppo lungo. Sono altresì grata a quanti si sono sobbarcati l’onere della revisione del testo che ha richiesto non solo pazienza e meticolosità ma soprattutto tempo sottratto a sé stessi e agli affetti.
Sono in debito di molto più della semplice riconoscenza verso tutti coloro che si sono presi cura di me nei momenti di sconforto e di cattiva salute, coccolandomi, incoraggiandomi, sostenendomi e soprattutto stemperando la stanchezza e lo stress con il buonumore.
Daniela Fabrizio