5.3 UN APPROCCIO PER FASI 5.3.1 Produzione e...

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ATLANTE del CIBO 1 5.3 UN APPROCCIO PER FASI Al fine di capire come il rapporto fra cibo e città risponda a obiettivi di salute abbiamo deciso di procedere attraverso una sua analisi per fasi della filiera. Ben consci di quanto questa visione possa avere dei limiti, ci sembra tuttavia che un approccio di questo tipo si presti a una prima lettura a livello “macro”, in termini di discorsi, politiche e pratiche non sanitarie, ma in grado di contribuire alle azioni sui bisogni, sui determinanti e sui fattori di rischio. Fig. 10 - la filiera agroalimentare Fonte: icone tratte da flaticon, freepik. 5.3.1 Produzione e salute In generale, l’incrocio fra la fase produttiva e la salute si sostanzia in diverse questioni, che agganciano scale territoriali differenti. La prima e più immediata riguarda le modalità di produzione e l’impatto che esse hanno in termini di salute (delle persone e dell’ambiente). Il rapporto fra metodi di produzione - tradizionali, integrati o biologici - e la salute è un tema estremamente complesso, che abbiamo deciso di non affrontare in questa sede. Tuttavia, ci sembra importante introdurlo, anche solo brevemente, attraverso alcuni documenti ufficiali del Parlamento Europeo come quello dal titolo “ Human Health Implication of Organic food and Organic agriculture” e dati provenienti da studi internazionali e nazionali. In prima battuta, il documento sopracitato presenta un’ampia e accurata rassegna della recente letteratura scientifica sugli effetti diretti dei metodi di produzione convenzionale e biologica sulla salute dell’uomo, sul benessere degli animali, sulla sicurezza alimentare e sulla qualità ambientale. In particolare, per quanto concerne la salute delle persone il documento sottolinea come allo stato attuale siano poche le ricerche che indagano in maniera diretta le conseguenze di un’alimentazione biologica. Le indicazioni che ne derivano associano il consumo di alimenti biologici con determinati benefici, come un minor rischio di allergie infantili e una minor probabilità a incorrere in problemi legati al sovrappeso e all’obesità. Tuttavia, occorre sottolineare come non sia possibile definire con chiarezza questi contributi, sia perché non sono disponibili studi longitudinali specifici, sia perché risulta molto difficile separare il consumo di alimenti biologici con altri fattori (generalmente associati a particolari stili di vita che contemplano questo tipo di consumo) che possono effettivamente influire sullo stato di salute delle persone. Inoltre, sempre per quanto concerne il rapporto fra produzione e salute, i dati FAO indicano 153 miliardi di euro/anno come costi legati agli effetti negativi sulla salute umana dovuti all’esposizione ai pesticidi utilizzati in agricoltura (FAO, 2011). Per quanto concerne nello specifico l’Italia, secondo uno studio del 2016 dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è il secondo paese europeo per quantità di antibiotici somministrati agli animali da allevamento, dietro alla Spagna.

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Page 1: 5.3 UN APPROCCIO PER FASI 5.3.1 Produzione e saluteatlantedelcibo.it/wp-content/uploads/2019/06/5_CIBO-CITTA-SALUTE_2-PARTE.pdfcampioni irregolari (1,2% nel 2015, erano lo 0,7% del

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5.3 UN APPROCCIO PER FASI Al fine di capire come il rapporto fra cibo e città risponda a obiettivi di salute abbiamo deciso di procedere attraverso una sua analisi per fasi della filiera. Ben consci di quanto questa visione possa avere dei limiti, ci sembra tuttavia che un approccio di questo tipo si presti a una prima lettura a livello “macro”, in termini di discorsi, politiche e pratiche non sanitarie, ma in grado di contribuire alle azioni sui bisogni, sui determinanti e sui fattori di rischio.

Fig. 10 - la filiera agroalimentare

Fonte: icone tratte da flaticon, freepik.

5.3.1 Produzione e salute In generale, l’incrocio fra la fase produttiva e la salute si sostanzia in diverse questioni, che agganciano scale territoriali differenti. La prima e più immediata riguarda le modalità di produzione e l’impatto che esse hanno in termini di salute (delle persone e dell’ambiente). Il rapporto fra metodi di produzione - tradizionali, integrati o biologici - e la salute è un tema estremamente complesso, che abbiamo deciso di non affrontare in questa sede. Tuttavia, ci sembra importante introdurlo, anche solo brevemente, attraverso alcuni documenti ufficiali del Parlamento

Europeo come quello dal titolo “Human Health Implication of Organic food and Organic agriculture” e dati provenienti da studi internazionali e nazionali. In prima battuta, il documento sopracitato presenta un’ampia e accurata rassegna della recente letteratura scientifica sugli effetti diretti dei metodi di produzione convenzionale e biologica sulla salute dell’uomo, sul benessere degli animali, sulla sicurezza alimentare e sulla qualità ambientale. In particolare, per quanto concerne la salute delle persone il documento sottolinea come allo stato attuale siano poche le ricerche che indagano in maniera diretta le conseguenze di un’alimentazione biologica. Le indicazioni che ne derivano associano il consumo di alimenti biologici con determinati benefici, come un minor rischio di allergie infantili e una minor probabilità a incorrere in problemi legati al sovrappeso e all’obesità. Tuttavia, occorre sottolineare come non sia possibile definire con chiarezza questi contributi, sia perché non sono disponibili studi longitudinali specifici, sia perché risulta molto difficile separare il consumo di alimenti biologici con altri fattori (generalmente associati a particolari stili di vita che contemplano questo tipo di consumo) che possono effettivamente influire sullo stato di salute delle persone. Inoltre, sempre per quanto concerne il rapporto fra produzione e salute, i dati FAO indicano 153 miliardi di euro/anno come costi legati agli effetti negativi sulla salute umana dovuti all’esposizione ai pesticidi utilizzati in agricoltura (FAO, 2011). Per quanto concerne nello specifico l’Italia, secondo uno studio del 2016 dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è il secondo paese europeo per quantità di antibiotici somministrati agli animali da allevamento, dietro alla Spagna.

Page 2: 5.3 UN APPROCCIO PER FASI 5.3.1 Produzione e saluteatlantedelcibo.it/wp-content/uploads/2019/06/5_CIBO-CITTA-SALUTE_2-PARTE.pdfcampioni irregolari (1,2% nel 2015, erano lo 0,7% del

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Secondo il rapporto 2017 “Controllo ufficiale dei residui di fitofarmaci negli alimenti” del Ministero della Salute, invece, la contaminazione degli alimenti da uno o più residui di pesticidi coinvolge più di un terzo dei prodotti analizzati (36,4%) mentre nei prodotti biologici questa percentuale scende drasticamente al 3,5% circa. Il rapporto raccoglie ed elabora i risultati delle analisi sulla contaminazione da fitofarmaci nei prodotti ortofrutticoli e trasformati, realizzati dalle Agenzie per la Protezione Ambientale, Istituti Zooprofilattici Sperimentali e Asl. Dalle rilevazioni condotte nel 2015 è emersa la presenza di pesticidi nel 66,1% della frutta e nel 30,9% degli ortaggi. I campioni di cereali risultati irregolari per un contenuto fuori legge di pesticidi sono pari allo 0,8% nel caso di cereali stranieri mentre la percentuale scende allo 0,3% nel caso di quelli di produzione italiana. Si evidenzia la problematica del multiresiduo che permette di definire regolari i prodotti se con concentrazioni entro i limiti di legge, senza tenere conto dei possibili effetti sinergici tra le sostanze chimiche presenti nello stesso campione sulla salute delle persone e sull’ambiente. Salgono leggermente i campioni irregolari (1,2% nel 2015, erano lo 0,7% del 2014); la frutta è il comparto dove si registrano le percentuali più elevate di multiresiduo e le principali irregolarità. Va infatti segnalato come i quantitativi di pesticidi, fertilizzanti e fitofarmaci impiegati in agricoltura in Italia siano tra i più alti d’Europa, così come le quantità rilevate nelle acque dolci. Le ultime rilevazioni (ISPRA, 2016a) indicano che sono in aumentano i pesticidi anche nei punti di monitoraggio delle acque italiane, sia in quelle superficiali (più 20% tra il 2003 e il 2014) sia in quelle sotterranee (più 10%) (ISPRA, 20XX). Consapevoli dell’importanza che studi come questi hanno al fine di sostenere da un punto di vista scientifico la spinta alla riconversione biologica condivisa da molte politiche del cibo, in questa sede – come anticipato – ci concentriamo su un'altra accezione del rapporto cibo, produzione e salute, quello dell’agricoltura urbana. Alla scala più propriamente urbana, l’incrocio fra i temi della salute, del cibo e del territorio dal punto di vista della produzione si sostanzia con il fenomeno dell’agricoltura urbana1.

1 Senza entrare nel dettaglio del dibattito sulle dimensioni urbane e periurbane dell’agricoltura, in questa sede ci riferiamo sia a quelle forme che si sviluppano

Il dibattito nazionale e internazionale (per una rassegna si veda, fra gli altri, Tornaghi 2017) definisce questo tipo di agricoltura come un fenomeno complesso, esteso ed eterogeneo, dove l’intensità e la forma assunta variano a seconda del contesto e possono mutare in relazione a elementi come la posizione geografica, le condizioni socio-economiche e politiche, la morfologia del territorio e altri fattori locali

che possono accentuarne o meno le specificità (Bhatt et al., 2005). Il termine agricoltura urbana ha origini nel dibattito francofono sviluppatosi a partire dagli anni ’80 (Mougeot, 2000), relativo in particolare ai paesi del Sud del Mondo e alle pratiche urbane di piccola agricoltura di sussistenza da parte dei nuovi inurbati (per guerre, povertà estrema delle zone rurali, ecc.), per i quali era l’accesso fisico ed economico al mercato dei prodotti alimentari non era sempre possibile. Una prima definizione di agricoltura urbana è quella proposta Smit (1992) secondo cui essa può essere definita come un’attività che produce, processa e commercializza alimenti, combustibile e altri prodotti, in gran misura come risposta alla domanda diaria degli abitanti di una città o metropoli in molti tipi di terreni e margini fluviali di proprietà pubblica o privata, in aree intra o peri-urbane. In generale possiamo dire che la sua caratteristica principale, che rappresenta anche l’elemento di differenziazione rispetto a quella rurale, è l’integrazione nel sistema economico ed ecologico urbano (Mougeot, 2000) da un punto di vista di utilizzo delle risorse, ma anche e soprattutto di impatti, in termini di usi del suolo, creazione di relazioni sociali, trasformazione degli ecosistemi, etc. (Lopez Izquierdo, 2013). Sintetizzando, è possibile affermare come esistano due categorie principali di agricoltura urbana: un’agricoltura produttiva di tipo commerciale, rappresentata dalle

aziende agricole e/o zootecniche che praticano agricoltura e allevamento in città o nelle sue immediate vicinanze;

l’orticoltura urbana di piccola scala, formale o informale, legata al consumo familiare o a progetti specifici di educazione ambientale e alimentare, inclusione sociale, etc.

all’interno del tessuto denso della città compatta, sia a quelle che prendono forma nelle aree e negli spazi della città diffusa, per le quali sarebbe più opportuna una caratterizzazione metropolitana.

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La prima categoria è diffusa nelle aree non edificate che circondano la città e, nonostante le numerose pressioni subite (legate all’urbanizzazione, all’inquinamento e a strategie di sviluppo urbano che per decenni hanno considerato la produzione agricola nelle aree metropolitane come residuo di dinamiche territoriali appartenenti al passato), costituisce ancora oggi un fenomeno economico e una modalità di uso del suolo di importante rilevanza. I dati recenti mostrano come in alcune delle principali città italiane (tra cui Roma, Milano, Bologna e anche Torino) la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) occupi una porzione rilevante del territorio comunale e, ancor più, di

quello metropolitano (Branduini et al., 2016). In questo senso, per esempio, nonostante Torino sia spesso rappresentata come la città industriale per eccellenza in Italia, il suo territorio comunale è tuttora caratterizzato dall’importante presenza di aree verdi naturali e di aree agricole: sul territorio sono infatti attive 75 aziende agricole (dati del Censimento dell’Agricoltura 2010) le cui coltivazioni si estendono su una SAU di oltre 500 ettari.

La presenza di attività agricole nelle aree non urbanizzate della città è molto importante anche per quanto riguarda i servizi ambientali ed eco-sistemici che le aziende forniscono all’ambiente urbano e periurbano. Inoltre esse sono generalmente caratterizzate da un alto grado di multifunzionalità (es. agriturismi, fattorie didattiche, servizi ambientali) e rappresentano uno strumento fondamentale di ripensamento dei rapporti tra città e campagna2. Per quanto concerne invece l’agricoltura urbana di piccola scala, il panorama delle pratiche che ad essa fanno capo è vasto ed eterogeneo: si spazia dagli orti urbani (legali o abusivi, privati, comuni, sociali, scolastici, etc) fino a quell’insieme multiforme di orticoltura residuale

2 In quest’ottica, in alcuni territori l’agricoltura urbana è oggetto di politiche

specifiche di sostegno e valorizzazione, come nell’importante caso del Parco

Agricolo Sud Milano, che si estende su 147.000 ettari distribuiti su 61 comuni

intorno al capoluogo lombardo (compreso), dove sono attive 1400 aziende agricole,

molte delle quali portatrici di innovativi progetti di filiera corta, di fruizione del

paesaggio rurale periurbano e in generale di attivazione di nuove relazioni tra città e

campagna.

praticata in spazi pubblici e privati, che va dai terrazzi, ai tetti, ai giardini, alle aiuole, ai rilevati fluviali, alle serre. Stimare il fenomeno è molto complesso, anche considerato come gran parte delle pratiche qui elencate presentino un elevato grado di informalità (basti pensare agli orti abusivi negli spazi residuali di molte

città o alle iniziative di guerrilla gardening). Tuttavia, vi sono alcuni tentativi di quantificazione: per esempio, per quanto concerne l’Italia, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) all’interno del Rapporto Qualità dell’Ambiente Urbano 2017 riporta alcuni dati sugli orti urbani che rivelano un trend in crescita (+51% dal 2011), ma anche una forte differenziazione nella distribuzione spaziale, con una presenza molto più marcata al Nord e una quasi totale assenza (fatta eccezione per città come Napoli e Palermo) al Sud. In valori assoluti, la città con più metri quadri destinati a orti urbani è Bologna, con 165.000 metri quadri, seguita da Parma, con 140.900 metri quadri. I valori percentuali più elevati si registrano invece a Forlì (3,0%), Fermo (2,3%), Aosta (2,2%), Parma e Pesaro (2,1%)3. Inoltre, in molte realtà stanno nascendo reti e associazioni per la gestione condivisa di questi spazi: a Torino, per esempio, è stata istituita la Rete Metropolitana degli Orti Urbani – OrMe che, ad oggi, conta 15 realtà per un totale di circa 30.000 metri quadri di superficie verde, di cui oltre 22.000 coltivata ad orto.

In questi contesti, all’agricoltura urbana si riconosce un ruolo importante in termini paesaggistici e ambientali (per esempio attraverso il recupero e la rinaturalizzazione di aree abbandonate), ma anche di inclusione sociale, di relazione e coesione territoriale, di apprendimento individuale e collettivo. Inoltre, l’agricoltura urbana si presenta come modalità di gestione condivisa di beni comuni e consente un risparmio sui costi pubblici di manutenzione e che può accrescere il valore degli immobili, oltre ad porsi come strumento di sostegno economico e di stimolo per la nascita di un nuovo mercato di prodotti locali.

3 Per un approfondimento si vedano i rapporti ISPRA (arrivati nel 2017 alla tredicesima edizione) sul sito http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/stato-dellambiente

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Oltre a questo, l’agricoltura urbana può essere letta e interpretata come uno strumento per raggiungere obiettivi di salute sotto diversi punti di vista. Il più immediato è forse quello legato alla sicurezza alimentare, garantita attraverso un migliore accesso al cibo e una migliore alimentazione (Patel, 1991; Irvine et al., 1999; Dickinson et al., 2003). In questi termini l’agricoltura urbana può garantire un’integrazione all’approvvigionamento alimentare, soprattutto per le persone in condizioni di marginalità socio-economica e in particolare per quanto concerne prodotti freschi e sani, come frutta e verdura. I prodotti dell’orto consentono anche di liberare risorse economiche che possono essere destinate all’acquisto, per esempio, di altri alimenti, come le proteine (sul cui consumo, peraltro, si basano le misurazioni della povertà alimentare). Ovviamente, l’impatto degli orti urbani in termini di sicurezza alimentare dipende dalla quantità e qualità di prodotti ottenuti: i rendimenti variano a seconda della disponibilità e delle condizioni del suolo, della tipologia delle piante, delle condizioni meteorologiche, della presenza di fonti d'acqua e, non ultimo, dell'abilità di chi coltiva. Nonostante questi vincoli, i ricercatori hanno osservato come gli orti urbani producano generalmente rendimenti significativi anche da piccoli appezzamenti di terreno. Uno studio americano degli anni ‘90, per esempio, ha calcolato come in condizioni di crescita media, un appezzamento di 10 x 10 metri può coprire il fabbisogno vegetale annuale di una famiglia, compresa la maggior parte del fabbisogno nutrizionale per il complesso di vitamine A, C e B e ferro (Sommers and Smit, 1994). Indicazioni simili ci sono state fornite per quanto concerne gli orti urbani a Torino. Un secondo aspetto concerne la possibilità di svolgere attività fisica all’aria aperta (Armstrong, 2000; Dickinson et al., 2003) in particolare per quanto concerne alcuni gruppi sociali, come quello degli anziani, per cui può rappresentare una valida alternativa ad altre attività più dispendiose e meno accoglienti. Un beneficio diretto che viene attribuito all’orticoltura urbana è una generale riduzione dello stress e il miglioramento della salute mentale (Armstrong, 2000) attraverso l’attività all’aria aperta e a contatto con la natura. Per esempio, diversi articoli sottolineano il ruolo dell’ortoterapia

in relazione a specifici problemi, come i disturbi da stress (che, giusto per dare un’indicazione, negli anni ’90 erano la prima causa di congedo per malattia in Svezia, Adevi e Mårtensson, 2013). Diversi partecipanti a programmi di recupero dei disordini da stress attraverso la pratica agricola ne hanno descritto i benefici in termini di esperienze sensoriali positive in grado di agire sul benessere fisico e psicologico; altri hanno evidenziato il ruolo della natura nella creazione di interazioni sociali con altri partecipanti e con gli operatori sanitari. Una certa importanza è stata anche attribuita al simbolismo della natura associato alla propria crescita e al passare del tempo. In questo modo, i partecipanti concettualizzavano il processo di recupero legandolo a forme iniziali di terapia più convenzionale, rafforzato e consolidato dall’attività all’aria aperta e dal contatto con la natura. Un altro elemento che può essere letto in chiave di salute è connesso alle possibilità di sviluppo della comunità attraverso l'istruzione/formazione professionale (Fusco, 2001; Schmelzkopf, 2002; Olanda, 2004) o l’inserimento/reinserimento lavorativo di particolari gruppi sociali, come i carcerati o le persone con disabilità. Nel primo caso, per esempio, i programmi di agricoltura urbana nelle carceri sono caratterizzati da una doppia natura: riabilitativa, da un lato, e di costruzione di capacità, dall’altro. In questa logica, la prima accezione ripropone l’idea della natura come elemento benefico per il benessere e l’equilibrio psico-fisico. La seconda attiene invece alla formazione professionale legata a determinate competenze utili per un futuro reinserimento lavorativo, anche connesse alla capacità di operare in gruppo. L’elemento più importante nella valutazione dell’impatto di queste attività è legato alla diminuzione del tasso di recidive. Il tasso di successo dei programmi di agricoltura urbana nei luoghi di detenzione non è del tutto inaspettato: essi offrono infatti un'opportunità di relax e sollievo da ambienti sociali particolarmente difficili (Lindemuth, 2007). Sebbene i risultati delle indagini disponibili siano promettenti, va tuttavia osservato come l'efficacia a lungo termine di questi progetti non sia ancora stata valutata in maniera sistemica, o su campioni estesi, o con un confronto con gruppi di controllo. Per quanto concerne invece le persone con disabilità, così come persone in condizioni di marginalità socio-economica, le pratiche di orticoltura urbana possono rappresentare opportunità di integrazione lavorativa

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protetta, in ambienti non connotati dalla necessità di risultati e performance. L’aumento di capitale sociale, attraverso lo sviluppo di relazioni, soprattutto nei casi di disaffiliazione legata alla povertà e all’esclusione sociale (Hancock, 2001; Doyle e Krasny, 2003). Infine, un ulteriore aspetto miglioramento delle condizioni ecologiche dei luoghi, contenimento dell’uso dei suoli, delle temperature, ripristino di un certo tipo di biodiversità , aumento generale della sostenibilità urbana, (Hancock, 2001; Schmelzkopf, 2002).

5.3.1.1 Agricoltura urbana e salute a Torino Per quanto concerne l’attività agricola in senso commerciale, secondo il Censimento dell’Agricoltura del 2010, sul territorio comunale di Torino sono attive circa 75 aziende agricole le cui coltivazioni si estendono su una superfice superiore ai 500 ettari4 Per quanto attiene invece l’orticoltura, nella sola città di Torino si possono individuare più di 40 aree coinvolte da questa attività. Di queste, 15 sono destinate ad orti regolamentati, per una superficie complessiva di oltre 64 mila mq (fonte: Comune d Torino). 22 sono invece caratterizzate dalla presenza di orti associativi e 7 sono orti spontanei. A queste, come si vede dalla carta che segue, vanno aggiunte 3 aree in preparazione. Si tratta di progetti molto diversi per natura e obiettivi, ma che testimoniano la vitalità della città in termini di pratiche finalizzate a incidere sul sistema locale del cibo (Bottiglieri et al., 2016). Per quanto concerne la prima tipologia, l'amministrazione comunale ha elaborato un regolamento per l'assegnazione e la gestione degli orti5. Secondo la normativa, un orto urbano medio ha una superficie che varia dai 50 ai 100 metri quadrati; l’assegnazione degli appezzamenti viene fatta attraverso un bando circoscrizionale, con un canone di 50/200 euro annui, generalmente per un periodo di 5 anni rinnovabili. Una parte degli orti regolamentati - definiti “orti sociali” - viene assegnata in merito a una combinazione di criteri di natura economica (un ISEE del richiedente inferiore ai 15mila euro) e anagrafica (la maggiore anzianità del richiedente). Inoltre, a parità di altre condizioni, viene data precedenza alla maggiore vicinanza dell'abitazione o del luogo di lavoro all'orto e, ovviamente, ai richiedenti che nel precedente bando non avessero ottenuto l'assegnazione, ancorché provvisti dei requisiti utili al loro inserimento in graduatoria.

4. Le coltivazioni principali sono i seminativi (277 ettari), seguiti da prati e pascoli (209 ettari) e, a distanza, boschi (85 ettari) e arboricoltura da legno (50 ettari). Circa la metà delle aziende agricole con sede a Torino effettua vendita diretta ai consumatori. 5 http://www.comune.torino.it/regolamenti/363/363.htm

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I bandi emanati dalle Circoscrizioni devono comunque riservare almeno il 20% delle assegnazioni per: - orti con finalità educative, terapeutiche, pedagogiche e culturali; - orti di prossimità rivolti a cittadini, anche in forma collettiva, che

contribuiranno con canoni di concessione più elevati di quelli previsti per gli "orti sociali”.

All’interno del bando, sono espresse in maniera esplicita le ricadute attese dalla pratica di orticoltura, fra cui quelle legate alla salute: - ricadute fisico-ambientali: la valorizzazione degli spazi, il

contrasto al degrado e alla marginalità, il contenimento del consumo di suolo, la tutela dell’ambiente e il miglioramento della qualità urbanistica dei luoghi; il sostegno alla ala produzione alimentare biologica e all’essenze ortive tradizionali locali;

- ricadute sociali: il sostegno alla socialità e alla partecipazione dei cittadini, all’aggregazione, in ottica di coesione e presidio sociale;

- ricadute in termini di competenze ed educazione: l’insegnamento e diffusione di tecniche di coltivazione; la promozione di attività didattiche;

- ricadute in termine di salute: la promozione terapeutiche di supporto a processi di riabilitazione fisica e psichica.

In realtà, come abbiamo avuto modo di apprendere direttamente dalle organizzazioni e le associazioni coinvolte nelle progettualità associative, il contributo in termini di salute è molto più ampio, denso e articolato, al punto che contribuisce a ridefinire e rinegoziare l’idea stessa di salute e benessere. Per questo tipo di indagine è stata fondamentale la presenza di OrMe, la rete metropolitana degli orti urbani nata nel 2017, che raccoglie molte delle esperienze attive sul territorio con l'obiettivo di aumentarne la visibilità, favorire il confronto e la condivisione di saperi e progetti, fornire un supporto attraverso servizi e attività informative. Una prima e più generale rassegna, a partire dal sito della rete, ci aiuta a declinare il tema della salute in relazione alle esperienze torinesi.

Tabella x – Progetti di orticoltura urbana a Torino Orto Sup. (mq) Metodo di

produzione Attività

Officine in terrazza

80 biologico ricreativa, didattica, ortoterapica

St’orto urbano 50 sinergico Ricreativa, didattia

Ortobello al centro

20 biologico ricreativa, didattica, ortoterapica, artistica

Orti urbani del Bunker

1500 Biologico/sinergico ricreativa, didattica, ortoterapica, sociale

Orti del centro diurno

600 tradizionale ricreativa, didattica, ortoterapica

Boschetto Progetto AgriBarriera

2000 Biologico/sinergico ricreativa, didattica, ortoterapica

Orto di SCiA131 2000 biologico ricreativa

Orto Mannaro 900 Biologico/sinergico Ricreativa, didattica

Orti Dora in Poi biologico Ricreativa, didattica

Orto Collettivo Massari

2000 Biologico/sinergico Ricreativa, didattica, ortoterapica

Orti Generali 2000 biologico Ricreativa, didattica, ortoterapica

Officine Verdi Tonolli

500 Biologico/sinergico Ricreativa, didattica, ortoterapica

Cascina La Luna 6000 biologico non certificato, sinergico

idattica, orto terapeutica, produzione ortaggi per vendita

Fonte: nostra rielaborazione da www.orme.it Dalle interviste effettuate emerge come gli orti si riconoscano e descrivano come pratiche concrete di salute e benessere in relazione a diverse dimensioni.

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Fig. 11 - Orti urbani a Torino

Fonte: Comune di Torino

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La prima, trasversale ai progetti analizzati, attiene ai più generali benefici prodotti dal praticare attività fisica all’aria aperta. Si tratta di un elemento in qualche modo intrinseco al fenomeno stesso, ritenuto valido per tutte le

persone in generale, e particolarmente significativo per alcuni gruppi sociali come quello degli anziani e dei bambini. Non a caso, le strutture si attrezzano per poter essere accessibili in sicurezza soprattutto da parte di queste due categorie, per esempio con cassoni rialzati (che rendono meno faticosa l’attività) o con aree poste in sicurezza. I benefici riconosciuti sono di natura diversa e comprendono: - la dimensione fisica, coinvolta in attività onerose, che prevedono

sforzi, movimento, consumo di calorie; - la dimensione relazionale, legata all’uscire di casa, al costruire o

ricostruire legami e relazioni sociali; - la dimensione cognitiva, legata all’apprendimento delle tecniche

di coltivazione, della stagionalità, delle dinamiche naturali; ma anche alla responsabilizzazione e all’educazione (all’alimentazione, all’ambiente, etc) che, per esempio nel caso dei bambini, può facilmente raggiungere anche le famiglie.

La seconda dimensione di salute è connessa al miglioramento della qualità di vita di alcuni particolari gruppi sociali, caratterizzati da forme variabili di disabilità. In quest’ottica, l’orticoltura presenta alcune caratteristiche (una relativa semplicità e ripetitività dei gesti, per esempio la semina – cfr fig 12 - l’articolazione in “fasi”, la possibilità di lavorare soli o in gruppo e, soprattutto, di poter apprezzare il risultato delle proprie azioni) che la rendono particolarmente adatta come attività, anche quotidiana, per le persone con disabilità fisiche o cognitive. La Fattoria sociale La Luna (box x), per esempio, pratica l’orticoltura urbana come lavoro protetto per gli utenti del proprio Centro di Attività Diurna. In questo senso, infatti, l’orticoltura si caratterizza attività occupazionali (a cui si possono affiancare quelle artigianali ed espressive) con finalità socio-pedagogiche, socio-riabilitative, socio-educative al fine di potenziare e/o mantenere le attitudini delle persone inserite. Un altro esempio interessante di beneficio in termine di salute, con risvolti sociali, è legato ad attività pensate per le persone con disabilità (per esempio i percorsi sensoriali per i non vedenti) aperte

anche al resto della popolazione, in un’ottica di inclusione e maggior integrazione. La terza dimensione di salute riguarda invece la possibilità di intervenire su problematiche connesse alla marginalità socio-economica determinata da una molteplicità di fattori, che vanno da carriere di povertà più o meno croniche (i cosiddetti nuovi poveri, ma anche le persone senza fissa dimora), a problemi di natura psichica, agli esiti di dipendenze varie. In questi casi l’orticoltura può rappresentare una parte complementare di terapie più ampie, per il recupero o il mantenimento del benessere psico-fisico ed emotivo; una possibilità di reinserimento sociale (attraverso l’acquisizione di competenze anche in chiave lavorativa, per esempio mediante l’utilizzo di borse lavoro).

Fig. 12 - La semina alla Fattoria Sociale La Luna

Fonte: Alessia Toldo La terza dimensione di salute riguarda invece la possibilità di intervenire su problematiche connesse alla marginalità socio-economica determinata da una molteplicità di fattori, che vanno da carriere di povertà più o meno croniche (i cosiddetti nuovi poveri, ma anche le

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persone senza fissa dimora), a problemi di natura psichica, agli esiti di dipendenze varie. In questi casi l’orticoltura può rappresentare una parte complementare di terapie più ampie, per il recupero o il mantenimento del benessere psico-fisico ed emotivo; una possibilità di reinserimento sociale (attraverso l’acquisizione di competenze anche in chiave lavorativa, per esempio mediante l’utilizzo di borse lavoro).

Box 4 – L’approccio di salute della Fattoria Sociale La Luna Cascina La Luna (anche detta Fattoria Sociale) si trova nella zona di Basse di Dora, nei pressi del Parco della Pallerina, a Torino. L’orticoltura a scopi sociali rappresenta una delle attività tradizionali della Cooperativa Frassati, che gestisce l’area di proprietà del Comune. La Fattoria Sociale, però, nasce nel 2008 dalla volontà di avviare un progetto di potenziamento dell’attività agricola con una maggiore apertura al territorio e un maggiore coinvolgimento delle persone in situazione di svantaggio, finalizzata alla costruzione di un tessuto sociale attivo e partecipato. Sotto la supervisione di un agronomo, prende quindi vita il Progetto Fattoria Sociale che prevede – oltre alla coltivazione – la vendita degli ortaggi sia in loco, sia con la partecipazione occasionale a mercati ed eventi. Fig. 13 - Lo spazio per la vendita

Fonte: Alessia Toldo

Parallelamente, con l’aiuto degli operatori del CAD, sono stati sviluppati percorsi di ortoterapia rivolti agli utenti del territorio, che comprendono sia i partecipanti al CAD, sia persone in condizione di marginalità socio-economica di diversa natura: persone con carriere di povertà più o meno croniche, persone con problemi di natura psichica o connessi a dipendenze. In questo caso gli utenti sono segnalati attraverso canali interni o tramite i servizi sociali di zona, il Servizio Adulti in difficoltà del Comune di Torino, i SER.D delle ASL, altre associazioni.

Fig. 14 - Le serre

Fonte: Alessia Toldo Per quanto riguarda le persone con disabilità, la Cascina, con le sue attività, diventa uno spazio quotidiano che alcuni utenti frequentano da più di quindici anni. Al contrario, per le persone in una condizione temporanea di marginalità

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socio-economica, le attività di salute attraverso l’orticoltura prevedono la costruzione di percorsi molto personalizzati (a seconda dei problemi e delle difficoltà specifiche dell’utente) della durata di circa 6/12 mesi. Trascorso questo primo periodo, soprattutto se la risposta è buona, le persone vengono indirizzate verso nuove opportunità, spesso più sfidanti, in modo da agevolare il reinserimento attivo nella società. Infine, la Fattoria è attiva in attività ricreative ed educative per i bambini delle scuole di Torino, dai nidi alle medie, che possono essere lette come pratiche di salute connesse all’insegnamento di abitudini alimentari corrette, attraverso l’educazione (alimentare, ambientale, alla stagionalità, all’esercizio fisico, etc).

Fig. 15 - Lo spazio per i più piccoli

Fonte: Alessia Toldo

Box 5 – Officine Verdi Tonolli L’Officina Verde Tonolli è un’area verde di circa 8.000 mq, nel territorio della Circoscrizione 4, aperta al pubblico dal 2002 per la libera fruizione da parte dei cittadini. Non solo un giardino, ma anche piantagioni floreali, serre, orti e un frutteto (meli, nespoli, albicocchi, ciliegi, peri…), curati nel corso delle attività botaniche condotte dalle associazioni che gestiscono l’area. Vengono periodicamente realizzati laboratori creativi botanici, di manipolazione della terra e laboratori sensoriali per conoscere le piante attraverso i sensi. Un percorso didattico a pannelli illustra l’area e la sua storia, mentre all’interno dell’area lettura sono a disposizione dei cittadini testi da consultare liberamente. Una delle attività più interessanti che l’orto svolge in termini di salute è il percorso sensoriale per persone non vedenti e ipovedenti, con una segnaletica apposita in relazione a specifiche specie di piante che, per profumo o consistenza, sono facilmente riconoscibili. Fig. 16 – La segnaletica del percorso sensoriale

Fonte: Alessia Toldo

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Fig. 17 – Gli orti in cassoni

Fonte: Alessia Toldo

La parte di orto in cassoni non è pensata per attività specifiche di ortoterapia, ma è attrezzata per essere utilizzata anche da persone con disabilità.

Box 6– Orto collettivo di Via Massari – Associazione Case Matte L’orto collettivo di via Massari nasce nel 2011, quando l’associazione Casematte ha in concessione dalla circoscrizione 5 un terreno senza dotazione alcuna per realizzare un progetto di orticoltura collettiva, all’interno di un’iniziativa denominata Orti Aperti e portata avanti insieme all’associazione Ciclobus e la cooperativa Mondoerre. Il progetto è il frutto di un percorso di incontri organizzati con vari soggetti locali (cittadini attivi, enti e associazioni) e di condivisione con un gruppo di abitanti del quartiere ERP di via Sospello, ubicato a due isolati di distanza. Insieme ai cittadini coinvolti, sono state create attività finalizzate a promuovere la fruizione dell’area, a favorire l’inclusione di nuovi abitanti nel gruppo di lavoro attraverso aperture al pubblico in occasioni particolari come ad esempio la Settimana Europea di riduzione dei rifiuti. Per quanto concerne la salute, Casematte è stata contattata dal servizio di neuropsichiatria infantile di zona (ASL TO2 di via Sospeso 139/3) al fine di avviare progettare iniziative espressamente tese al coinvolgimento di persone con patologie o disabilità, con l’obiettivo di ricostruire legami sociali e contrastare la condizione di isolamento. Inoltre, nel corso del 2013, nell’ambito delle terapie occupazionali in cui rientra la terapia orticolturale per la cura del disagio e della disabilità, si è avviata una collaborazione con il Centro diurno del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL TO2 di Via Sostegno 33 con l’inserimento nell’attività dell’orto di alcuni pazienti del Centro. Attualmente l’orto coinvolge una quindicina di partecipanti fissi, più altre 5-10 persone coinvolte in maniera più saltuaria. L’intervista con una delle responsabili del progetto ha fatto emergere, analogamente ad altre pratiche, una visione complessa e sfaccettata di salute, caratterizzata da un forte consapevolezza. Questa pratica si pensa e si struttura come un’azione di salute (di natura non sanitaria) in diversi modi, coerentemente ai percorsi proposti e al tipo di partecipante. Un primo livello di base ha un forte impatto sulla salute del gruppo sociale più rappresentato, quello delle persone anziane, connesso all’opportunità di fare attività fisica all’aria aperta, piacevole e sicuro. Si tratta di una possibilità che molti non avrebbero, per una pluralità di ragioni (fra cui, evidentemente, anche quelle economiche). Questo garantisce un contributo in termini di salute e benessere fisico ma anche psichico ed emotivo, che si connette direttamente ai benefici del contatto con la natura, ma anche e soprattutto alla ricostruzione di legami sociali. Si tratta ovviamente di elementi immateriali che sono difficili da quantificare, ma un buon indicatore dei risultati ottenuti in questi termini è dato dalle relazioni che si sono

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sviluppate anche all’esterno dell’orto e che sono andate a ricostruire quella rete sociale di aiuto e solidarietà che le persone anziane o in condizioni di marginalità socio-economica spesso non hanno. Un secondo livello più articolato è invece quello connesso alle attività di ortoterapia con le persone in carico al Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL. Infine, alla nostra domanda legata al coinvolgimento di persone con problematiche direttamente connesse al cibo e all’alimentazione, la responsabile ci ha raccontato che questo non avviene in forma strutturata, ma in passato ci sono state esperienze di coltivazione di piante come la stevia (utilizzata dalle persone con problematiche metaboliche). Si tratta tuttavia di attività che sono nate i maniera spontanea dai partecipanti, in questa logica di cura reciproca, e che non fanno parte di progettualità strutturate. Fig. 18 – I partecipanti dell’Orto di Via Massari

Fonte: Or.Me torinesi

5.3.2 Trasformazione e salute

Il settore della trasformazione alimentare è l’insieme dei processi tecnologici ed economici che crea un valore aggiunto a un prodotto agricolo o zootecnico, consentendone l'utilizzazione in forma e condizioni differenti rispetto a quelle originarie. Si tratta di un settore economicamente molto importante, sebbene la catena del valore tenda a contrarsi a valle della filiera, ossia nella logistica e nella distribuzione (Ismea, 2018). La questione più immediata in termini di salute, che tuttavia non prenderemo in considerazione in questo contributo, è legata alla sicurezza alimentare intesa come food safety, in merito a cui esiste una legislazione europea e nazionale6 estremamente stringente a tutela del consumatore finale. In questa sede ci concentriamo invece sul ruolo della trasformazione in relazione ai comportamenti alimentari. È ormai generalmente riconosciuto che i livelli crescenti e allarmanti di obesità e malattie croniche correlate hanno fra le cause principali l'aumento del consumo di cibi altamente processati (WHO, 2003; World Cancer Research Fund/American Institute for Cancer Research, 2009). Tuttavia, il problema della trasformazione degli alimenti è largamente ignorato o minimizzato nell'educazione e nelle informazioni su cibo, nutrizione e salute, e anche nelle politiche di sanità pubblica (Monteiro, 2009). Senza suggerire un utopico e non realizzabile completo ritorno alla natura, diversi autori sottolineano la grande importanza per la salute umana delle differenze risultanti dal tipo, dall'intensità e dallo scopo di trasformazione dei prodotti alimentari (ibidem). Seguendo questo approccio è possibile distinguere tre stati di trasformazione7: il primo comprende i prodotti lavorati al minimo, senza alterazione sostanziale delle proprietà nutrizionali del cibi originali - che rimangono riconoscibili come tali – ma sono in qualche modo preservati, resi più accessibili, convenienti, sicuri e appetibili. Si tratta, per esempio, dei processi che includono la pulizia, la rimozione delle frazioni non commestibili, la porzionatura, la refrigerazione, il congelamento, la pastorizzazione, la

6 La food safety a livello internazionale è di competenza dell’ European Food Safety Authority (EFSA, http://www.efsa.europa.eu/). 7 Il paragrafo che segue è tratto da Monteiro, 2009.

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fermentazione, la pre-cottura, l’essiccazione, l’imbottigliamento e il confezionamento. Il secondo gruppo è costituito da sostanze estratte da alimenti integrali, come gli olii, i grassi, le farine, la pasta, gli amidi e gli zuccheri. Si tratta di alimenti tradizionalmente utilizzati come ingredienti nella preparazione domestica e nella cottura di piatti poco lavorati. Questi alimenti sono progressivamente diventati la base delle materie prime del terzo gruppo, costituito da prodotti iper-processati: cioè gli alimenti del secondo gruppo più piccole quantità del primo e, oltre al sale, conservanti, aromi, additivi, alcol e coloranti. Questo terzo gruppo comprende pane, biscotti, gelati, cioccolatini, dolciumi (caramelle, dolci), cereali per colazione, barrette di cereali, patatine, snack dolci e salati, bevande zuccherate e di altro tipo. Ma anche prodotti a base di carne come pepite, hot dog, hamburger e salsicce ricavate da lavorati o estrusi. Questi alimenti non hanno una reale somiglianza con quelli del primo gruppo, sebbene sovente siano modellati, etichettati e commercializzati in modo da sembrare sani e "freschi". Generalmente sono pronti per essere consumati, tipicamente di marca, distribuiti a livello internazionale e globale, fortemente pubblicizzati e commercializzati e – soprattutto - molto redditizi. Il loro consumo è cresciuto esponenzialmente sia nei paesi del nord che del sud del mondo. Per esempio, nell’economia delle calorie di una famiglia brasiliana, la quota di biscotti e bevande analcoliche è aumentata rispettivamente del 200% e del 400% tra il 1974 e il 2003 (Levy Costa et al., 2005). Negli Stati Uniti, gli adolescenti hanno raddoppiato il consumo di bevande analcoliche tra il 1965 e il 1996, mentre il consumo di latte è diminuito di quasi il 50% (Cavadini et al., 2000). Questi dati devono essere letti all’interno di una tendenza crescente che vede aumentare all’interno delle diete gli alimenti del terzo gruppo, rendendole intrinsecamente sbilanciate da un punto di vista nutrizionale e nocive per la salute. Le azioni per contrastare queste tendenze sono, potenzialmente, molteplici, perché attengono alle diverse variabili che costituiscono i food environment. Generalmente le proposte esistenti si articolano su 4 elementi: - la tassazione sui prodotti non salutari (per esempio le sugar tax

applicate in molti paesi o la fat tax, introdotta dal governo danese nel 2011 e abrogata dal parlamento poco più di un anno dopo, cfr. box xx) per incentivare le industrie a riformulare i prodotti

riducendo la quantità di zucchero, grassi e sale e scoraggiare l’acquisto da parte dei consumatori;

- vietare la pubblicità di prodotti (soprattutto destinati ai bambini) con un quantitativo eccessivo di zuccheri, sale e grassi;

- adottare etichette a semaforo per informare meglio i consumatori sulla salubrità dei prodotti e favorire decisioni più salutari;

- promuovere corsi di educazione all’alimentazione che incentivino un consumo maggiore del primo gruppo di alimenti a fronte del terzo, soprattutto per specifici gruppi sociali (come i bambini nel contesto scolastico).

Box 7 – Le tassazioni sui prodotti non salutari La Danimarca è stato il primo paese a introdurre una “fat tax” nel 2011, abrogata dal parlamento danese poco più di un anno dopo. La tassa era stata imposta su tutti i cibi con un contenuto superiore al 2,3% di grassi (compresi alimenti come latte, burro, formaggio, olio, carni e atri prodotti trasformati) e prevedeva l’aggiunta di 16 corone danesi (equivalenti all’incirca a 2,10 euro) per chilogrammo di grassi saturi. Il provvedimento, pensato per tutelare la salute della popolazione, è stato particolarmente osteggiato dai produttori, dalle azienda alimentari e anche dai consumatori, che lo hanno etichettato come una politica di finanziamento piuttosto che di salute pubblica. Per quanto concerne invece lo zucchero, esistono diverse esperienze di “sugar tax”. Nel 2018, per esempio, è entrata in vigore nel Regno Unito la Soft drinks industry levy8 (Sdil) sulle bevande analcoliche o poco alcoliche, pronte da bere o solubili, che superano una certa soglia di zuccheri aggiunti. I succhi di frutta naturali e le bevande a base di latte sono esenti. Il provvedimento ha coinvolto 326 produttori. La tassa è di 18 pence/litro (0,20 €) per bibite con un contenuto variabile da 5 a 8 grammi di zuccheri per 100 ml, mentre se il contenuto supera gli 8 grammi per 100 ml l’importo sale a 24 pence/l (0,27 €). Rispetto ad altre esperienze9 (per esempio in Francia, Messico e Ungheria, Cornelsen e Carreido, 2015) questo provvedimento non ha solo l’obiettivo di diminuire il consumo di zucchero, rendendo meno vantaggioso l’acquisto di

8 https://www.gov.uk/government/news/soft-drinks-industry-levy-comes-into-effect. Ultimo accesso 6 giugno 2019. 9 Un elenco di esperienze di tassazione sulle bibite zuccherate è presente a questo indirizzo https://ilfattoalimentare.it/sugar-tax-tassa-zucchero-bevande.html, ultimo accesso 6 giugno 2019.

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alcuni prodotti, ma spinge i produttori a ridurre il contenuto di zucchero. Nei due anni trascorsi dall’approvazione della legge all’entrata in vigore, oltre il 50% dei produttori ha modificato la ricetta, determinando una riduzione dello zucchero pari a circa 45 milioni di chili per anno (https://www.gov.uk/government/news/soft-drinks-industry-levy-comes-into-effect, ultimo accesso 6 giugno 2019) Un altro tipo di esperienza che coinvolge direttamente i settore della trasformazione in un’ottica proattiva e senza tassazioni, concerne la riduzione della quantità di sale nel pane. Per esempio, la Regione Emilia-Romagna ha concluso un accordo con le associazioni regionali dei panificatori per la produzione di pane con un contenuto massimo di sale pari all'1,7% del peso della farina. Rispetto al pane abitualmente in commercio la riduzione di sale è di circa il 15%. La riduzione di sale rientra nella politiche regionali per promuovere stili di vita corretti (il consumo eccessivo di sale, insieme ad altri fattori di rischio legati all'alimentazione e alla scarsa attività fisica, è all'origine delle malattie cardiovascolari e dell'ipertensione). Oltre al “pane meno sale”, in Emilia Romagna viene promosso il pane “Qualità Controllata”, prodotto anch'esso con poco sale (l’1,5% del peso in farina), con farine emiliano-romagnole poco raffinate, olio extravergine d’oliva, totale assenza di additivi e di agenti chimici per la lievitazione. Il pane fresco “Qualità Controllata” aggiunge ai benefici per la salute anche i vantaggi per l’ambiente, perché proviene da coltivazioni che rispettano precisi disciplinari per un uso ridotto di prodotti chimici e di fitofarmaci e tecniche colturali più sostenibili, incluso un uso più razionale dell’acqua. Sul sito della Regione si legge che in merito all'accordo, le associazioni di panificatori si impegnano a: - promuovere presso i forni associati la produzione del pane meno

sale e “Qualità Controllata” attraverso interventi di comunicazione che informino sulla loro disponibilità e sui vantaggi per la salute derivanti dal loro consumo;

- aderire a specifiche iniziative di formazione sui benefici da un ridotto apporto di sale nel pane e nella dieta in generale;

- non aumentare il prezzo di vendita.

La Regione Emilia-Romagna, invece, si impegna a:

- supportare l’iniziativa a livello locale attraverso i Servizi igiene alimenti e nutrizione delle Aziende Usl che attiveranno interventi mirati rivolti ai panificatori;

- informare i cittadini mediante iniziative specifiche; - informare dell’iniziativa i soggetti deputati alla stesura dei

capitolati d’acquisto di generi alimentari nell’ambito della ristorazione collettiva (sanitaria, sociosanitaria e scolastica);

- effettuare il monitoraggio dell’iniziativa.

https://www.regione.emilia-romagna.it/urp/notizie/il-pane-qc ultimo accesso 15 giugno 2019).

5.3.2.1 Trasformazione e salute a Torino

La città di Torino è coinvolta in un’intesa tesa alla riduzione del sale nel pane: dal titolo “con meno sale la salute sale” fra La Regione Piemonte – Assessorato alla Sanità, Livelli essenziali di assistenza, Edilizia sanitaria E L’Associazione Regionale dei Panificatori del Piemonte. L’intesa richiama espressamente le direttive internazionale e nazionali sulla salute in tutte le politiche (Guadagnare Salute, La Salute in Tutte le Politiche, Salute 21, Agenda 21 e Città Sane); il programma nazionale “Guadagnare Salute: rendere facili le scelte salutari”;i protocolli d’intesa siglati nel 2009 dal Ministero della Salute e Federazione Italiana Panificatori, Assipan Confcommercio, Assopanificatori Fiesa Confesercenti, Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari per la riduzione del quantitativo di sale nel pane; il Piano Nazionale e Regionale della Prevenzione 2014-2018 che promuove interventi di comunità come gli accordi quadro interistituzionali e indirizzi normativi/sistemi incentivanti per l’attuazione di progetti intersettoriali volti a favorire l’accesso a prodotti alimentari nutrizionalmente corretti e programmi di informazione e sensibilizzazione per i titolari pubblici e privati degli esercizi di ristorazione e mense aziendali a offrire scelte alimentari compatibili con una alimentazione sana. Contestualmente, l’intesa concorda compiti e obiettivi per ciascun ente. l’Associazione Panificatori si impegna a:

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1. promuovere l’iniziativa presso i panificatori associati, sensibilizzandoli sull’effettuazione della produzione e vendita, stabilmente e senza differenza di prezzo, di pane con un contenuto di sale ridotto (5% di riduzione all’anno per 2 anni) e di una linea di pane senza sale o con contenuto di sale dimezzato, ma senza incremento di prezzo, almeno un giorno a settimana

2. organizzare in collaborazione con i partner dell’accordo, corsi e programmi formativi per i panificatori, raccogliere le adesioni al progetto ed aggiornare gli elenchi dei panificatori aderenti rendendoli disponibili per attività di comunicazione (presenza su siti web, ecc);

3. verificare, in collaborazione con le ASL, che i panificatori aderenti : - riducano la quantità di sale nel pane e applichino i criteri

generali del disciplinare approvato anche attraverso campionamenti conoscitivi sul contenuto di sale nel pane

- forniscano informazioni per la scelta del pane con meno sale e sui benefici della riduzione del sale al consumatore anche mediante l’apposizione di materiali informativi presso i punti vendita.

La Regione Piemonte, settore Prevenzione e Veterinaria, si impegna nell’ambito delle attività istituzionali previste dal Piano Regionale della Prevenzione 2014-2018 a: 1. fornire il supporto tecnico-scientifico; 2. predisporre in collaborazione con le asl i materiali formativi e

comunicativi; 3. collaborare alla realizzazione di corsi e programmi formativi per i

panificatori aderenti; 4. collaborare alla realizzazione di programmi informativi e di

comunicazione rivolti ai consumatori; 5. attuare, mediante le ASL, campagne/interventi di educazione

rivolte agli istituti scolastici sull’importanza della riduzione del consumo di sale;

6. sensibilizzare i medici e pediatri al sostegno dell’iniziativa, anche attraverso la diffusione di materiali comunicativi;

7. sensibilizzare gli enti pubblici all’inserimento di criteri di qualità finalizzati alla riduzione del sale nei capitolati d’appalto per la ristorazione collettiva;

8. programmare e collaborare all’attuazione di un piano di verifica dei risultati del progetto;

9. collaborare al monitoraggio e alla verifica della corretta attuazione del programma e del rispetto dei contenuti dell’accordo.

Vale la pena di osservare come l’elenco dei panettieri che aderiscono all’iniziativa, visionabile presso le ASL di zona, non sia però disponibile su internet, vanificando in parte l’esito dell’intesa, considerata la difficoltà di rintracciare gli esercizi commerciali che vi aderiscono all’infuori di percorsi specifici di cura.

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5.3.3 Distribuzione e salute La distribuzione è l’attività di servizio finalizzata al trasferimento dei prodotti alimentari dal produttore e trasformatore (agricoltura e agro-industria) al consumatore finale. È costituita da una combinazione complessa di funzioni (produzione, trasformazione, stoccaggio, trasporto, packaging, commercio all’ingrosso e al dettaglio, ecc) e relazioni che coinvolgono un’ampia varietà di soggetti economici (produttori, trasformatori, importatori, trasportatori, grossisti, rivenditori, commercianti, street vendors), ma anche fornitori di servizi (credito, trasporti, industria di supporto all’agro-alimentare, ecc), istituzioni pubbliche locali e sovralocali e associazioni private, come quelle di categoria e di consumatori (Aragrande, Argenti e Lewis; 2001). Per il suo funzionamento, necessita di infrastrutture materiali (di trasporto, logistica e stoccaggio, vendita) e immateriali (servizi, informazioni, leggi). I principali canali distributivi localizzati nelle aree urbane comprendono la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), i negozi al dettaglio, i mercati rionali e, più recentemente, gli Alternative Food Networks (vendita diretta, farmer’s markets, Gruppi di Acquisto Solidali e Collettivi – GAS e GAC, community-supported agricolture-CSA) e il commercio elettronico. A seconda del sistema di approvvigionamento e del numero di intermediari fra produttore e consumatore si parla di filiera lunga e corta (in senso spaziale e funzionale; Dansero, 2011) e diretta. In generale, la distribuzione alimentare intercetta le dinamiche urbane in termini spaziali (poiché ha ricadute sul modo in cui lo spazio viene vissuto, progettato, consumato, banalizzato o valorizzato), sociali (perché attiene alle relazioni fra attori) e ambientali (perché ciascuna delle tipologie menzionate genera impatti diversi in termini di inquinamento dell’aria, traffico e congestione, consumo di suolo, di energia, ecc). In questo affondo ci concentriamo però sull’analisi della distribuzione come possibile strumento per soddisfare obiettivi di salute. In generale, sono due le dimensioni che vengono prese in considerazione nel rapporto fra sistema distributivo e il benessere: l’accessibilità fisica e quella economica. La prima si sostanzia nella tipologia di sistema distributivo e nella sua diffusione sul territorio. La seconda, invece,

attiene ai prezzi dei prodotti e quindi alla possibilità per la popolazione di acquistarli. Il riferimento più noto in letteratura, connesso al rapporto fra filiera distributiva e salute pubblica è certamente quello dei food desert. Usata per la prima volta in Scozia negli anni ’90, l’espressione è diventata in tempi brevi molto comune tanto nei discorsi pubblici e politici, quanto nell’ambiente accademico e designa quelle aree tipicamente urbane10 e principalmente Nordamericane, caratterizzate da una popolazione in condizione di marginalità socio-economica a cui non è garantito accesso a cibo fresco, sano e nutriente (Shaw, 2006). Alcuni autori sostengono infatti che l’espressione più autentica dei food desert sia quella dei quartieri a segregazione etnica delle grandi città americane in cui la rete distributiva è costituita in maniera prevalente (se non totalmente) da fast food e minimarket che commercializzano cibo di qualità scadente. In queste condizioni, le famiglie a basso reddito dei quartieri etnicamente segregati (tendenzialmente afro-americane e latine) in assenza di mezzi per raggiungere i supermercati localizzati nelle aree abitate dalle classi medie costruiscono la loro alimentazione su prodotti altamente processati e poveri di nutrienti che rappresentano – secondo diversi autori – uno degli esiti di specifici processi di urbanizzazione e il segno di un razzismo strutturale che si manifesta anche in termini di insicurezza alimentare, con tassi elevati di sovrappeso e obesità e relativi costi sociali legati alla cura delle patologie connesse. Questo tipo di indagine incrociata con il tema della salute tende a enfatizzare il ruolo dei food desert come ambienti obesogenici in cui si enfatizza il ruolo della struttura ambientale come determinante delle abitudini alimentari e quindi delle condizioni nutrizionali e di salute. Una simile concettualizzazione ha spesso implicato interventi pubblici concentrati principalmente sul lato dell’offerta - per esempio attraverso l’apertura di nuovi punti vendita di frutta e verdura a prezzi convenienti - che in molti casi si sono rivelati fallimentari. La stessa integrazione al reddito destinata all’acquisto di prodotti nutrienti non ha portato, in alcuni contesti, a risultati soddisfacenti. In questa logica, infatti, gli

10 Vi sono tuttavia studi sui food desert in ambito rurale, soprattutto nel Nordamerica (Mcentee e Agyeman, 2010).

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approcci che prediligono la visione più complessa e completa concettualizzata attraverso l’ambiente alimentare (o food environment) sottolineano la necessità di interventi che vadano a toccare tutte le dimensioni che lo caratterizzano. Un altro riferimento alla rarefazione/desertificazione alimentare utilizzato in un ambito diverso da quello tradizionale Nordamericano, si ritrova nel lavoro dei ricercatori di Milano Bicocca sull’esclusione dai sistemi alimentari di un particolare gruppo sociale, quello della popolazione anziana. L’indagine si è posta come obiettivo principale quello di supportare la definizione di politiche urbane alimentari tese al miglioramento delle condizioni di accesso al cibo per la popolazione anziana della metropoli milanese. In questa logica, incrociando diverse prospettive e strumenti, la ricerca ha indagato i fattori che ostacolano la capacità degli anziani di raggiungere le risorse alimentari e nutrirsi in modo sano e appropriato. Lo studio ha quindi dapprima analizzato l’accessibilità spaziale potenziale dell’offerta alimentare a livello di vicinato; successivamente, il lavoro si è concentrato sula descrizione degli stili di accesso e delle abitudini alimentari di un campione non probabilistico di persone con di 75 anni e più, residenti nel comune d Milano.

5.3.3.1 Distribuzione e salute a Torino Il tema della distribuzione in relazione a obiettivi di salute attiene a due dimensioni principali, come anticipato: la disponibilità di una rete commerciale per l’approvvigionamento di cibo fresco, sano e nutriente (tipicamente frutta e verdura) e l’accessibilità economica. La prima dimensione può essere utilmente trattata attraverso la georeferenziazione dei dati (nel nostro caso, le carte che seguono sono state elaborare a partire dai dati di Camera di commercio secondo la classificazione ATECO 2007). Come emerge dalla rappresentazione cartografica - sia in dettaglio

Figura 19 – Densità delle attività commerciali per zona statistica

Fonte: nostra elaborazione su dati di CCIAA 2018 rispetto alle singole categorie analizzate (commercio al dettaglio, supermercati e ipermercati, discount, mercati) sia complessive – la diffusione della distribuzione alimentare è capillare a scala urbana.

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Sono presenti addensamenti in corrispondenza delle aree centrali (cfr. fig 19): tre di queste, peraltro, corrispondono alle zone statistiche caratterizzate dai livelli più elevati di marginalità socio-economica (rappresentata sinteticamente dal reddito al 2009, cfr. fig x), bassi livelli di istruzione, alti livelli di immigrati.

Figura 20 – Distribuzione del reddito (dati 2009) per zone statistiche.

Fonte: Rapporto Rota, 2017, p. 159

Questo primo lavoro di mappatura richiede ovviamente un più attento approfondimento, teso anche a verificare la reale presenza di questi esercizi sul territorio e, soprattutto, la tipologia di cibo distribuita (lavoro, per esempio, che è stato possibile sviluppare nell’approfondimento territoriale alla scala del quartieri di Mirafiori). Tuttavia, un primo elemento interessante per tratteggiare il quadro di riferimento è il risultato dell’applicazione di un baffer a partire da tutti i punti di georeferenziazione del sistema distributivo, al fine di

ricostruirne l’accessibilità potenziale. Come argomentato dal contributo precedente, a cura di Anna Paola Quaglia, le indicazioni in letteratura (Ispra, 2009; Maes et al., 2019) per quanto concerne l’accessibilità alle aree verdi sono: - distanza effettiva percorribile a piedi che intercorre tra un luogo

abitato e il verde pubblico, generalmente stimato entro i 300 mt; - tempo di percorrenza in minuti, generalmente 15 tra un luogo

abitato e il verde pubblico (es. WHO, 2016, p. 25-26; Pafi et al., 2016);

Mantenendo gli stessi target, abbiamo quindi applicato un buffer di 300 metri per verificare non solo l’entità, ma anche la tipologia degli spazi non ricompresi. Da un primo calcolo approssimativo la superficie compresa nel buffer è di circa 79 Kmq, mentre quella non ricompresa è di circa 51 kmq. Questa seconda superficie è costituita prevalentemente da aree non abitate (parchi, aree industriali, cimiteri, etc) a dimostrazione di un primo indizio, certamente da verificare con approcci location-based più sofisticati ed eventualmente con altre tecniche, di buoni livelli di accessibilità alimentare. Tuttavia, come dimostrato nell’analisi di Mirafiori, è essenziale uno studio di dettaglio sulla città che rilevi eventuali fenomeni di rarefazione. Con rarefazione, come abbiamo anticipato, non si intende evidentemente solo una dimensione fisica (il buffer ci dimostra che le distanze da coprire per l’approvvigionamento alimentare sono limitate), ma anche una dimensione percettiva dello stati di abbandono e di degrado di un territorio in relazione alle sue attività commerciali, comprese quelle alimentari. Inoltre, come anticipato, il tema dell’accessibilità non si esaurisce con la prossimità spaziale a un punto, in questo caso un esercizio commerciale. In prima battuta perché non necessariamente i 300 metri individuati corrispondono a una strada effettivamente praticabile. In secondo luogo perché, come abbiamo visto nella prima parte del contributo, per operativizzare utilmente questo concetto (Armstrong et al., 2009; Daconto, 2017) è utile fare riferimento anche ad altre

dimensioni come l’accessibilità economica (affordability) che risulta dal rapporto tra i prezzi delle risorse alimentari11; le capacità individuali

(awarness), ossia le conoscenze e competenze necessarie a individuare ,

11 Questo dato è disponibile, attraverso un rilevamento campionario ad opera dell’Ufficio statistica del Comune di Torino ma, almeno in questa fase, non accessibile ai nostri ricercatori.

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raggiungere, procurarsi, consumare, smaltire o riusare le risorse alimentari; e

infine l’appropriatezza (appropriateness), ovvero la capacità dell’offerta alimentare di soddisfare specifiche esigenze o preferenze (per esempio regimi alimentari vegetariani o vegani, senza glutine, etc).

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Fig. da 21 a 25 georeferenziazione delle attività commerciali, articolate per tipologia Fonte: nostra elaborazione su dati CCIAA 2018

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Fig. da 26 a 29 georeferenziazione delle attività commerciali, articolate per tipologia e buffer di accessibilità (300 metri). Fonte: nostra elaborazione su dati CCIAA 2018

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Consumo e salute La fase del consumo, come già detto in altre sedi, è probabilmente la più difficile da analizzare e mappare, perché chiama in causa una molteplicità di dimensioni, che spaziano dai luoghi in cui si consuma, alle relazioni sociali che avvengono al loro interno, alle implicazioni sociali e culturali, ai meccanismi di scelta, alle modalità e ai tempi del consumo, etc. Per quanto concerne, nello specifico, l’aspetto della salute, questa fase è probabilmente quella che ha implicazioni più dirette e profonde, poiché attiene l’ingestione degli alimenti. In questa logica possiamo osservare come ogni aspetto del consumo – il cosa, il quanto, il come, il dove, in che tempi, etc – presenti importanti ricadute in termini di salute e benessere nelle loro accezioni più ampie. Pur consapevoli della complessità di questi elementi, la necessità di affrontarli con una certa chiarezza ci impongono il ricorso a una chiave di lettura utile a rappresentare le diverse connessioni, senza banalizzarle. Dal punto di vista spaziale, che anima questo contributo, una prima classificazione concerne i luoghi in cui si consuma, secondo lo schema che segue.

CONSUMO

Domestico Collettivo Vending

PRIVATO PUBBLICO Horeca

Mense Aziendali

Mense scolastiche

Mense universitarie

Mense Ospedaliere e sanitarie

Mense carceri

Mense caserme

Mense PA

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In questa logica esiste un tipo di consumo domestico, che si svolge in forma privata, e un consumo che abbiamo definito collettivo, caratterizzato da una dimensione privata (che attiene bar, caffè, ristoranti, etc… ricompresi nell’acronimo Ho.Re.Ca) e una pubblica, legata a tutti i luoghi in cui si somministra cibo “pubblico”, ossia le mense (che possono essere scolastiche e universitarie, ospedaliere, carcerarie, connesse alle caserme e, più in generale, alle pubbliche amministrazioni). Infine, c’è una categoria che abbiamo mantenuto a parte, espressione di una forma sempre più crescente di consumo, che è quella del vending. I cosiddetti distributori automatici di cibo e bevande, infatti, rappresentano un ibrido: possono essere regolati da scelte completamente private o da capitolati pubblici (quando sono collocati, per esempio, nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nelle PA, etc); attengono a logiche di consumo privato ma sono più visibili, controllabili e orientabili di quello domestico e, tendenzialmente, veicolano prodotti altamente processati e poveri di nutrienti. Ovviamente, la fase del consumo è quella più direttamente connessa a obiettivi di salute e che quindi, se opportunamente progettata e gestita, può apportare sostanziali benefici. In questo lavoro abbiamo scelto di escludere il consumo domestico dalle nostre riflessioni: i pasti che ciascuno consuma a casa propria sono – oltre che molto difficili da analizzare – estremamente complessi da orientare, se non attraverso azioni di educazione alimentare che modificano, lentamente, le abitudini e gli stili di vita. Tuttavia, come abbiamo visto, al consumo domestico è possibile arrivare attraverso le altre fasi, come quella della produzione (in cui l’orticoltura urbana può garantire un’integrazione alimentare ed economica in gradi di liberare risorse per un approvvigionamento quantitativamente e qualitativamente corretto) della trasformazione (per esempio attraverso politiche di riduzione di particolari sostanze, come la sugar tax, il sale nel pae, etc) o quella della distribuzione (perché l’accessibilità fisica ed economica al cibo incide in maniera diretta su quello che le persone possono consumare). Il consumo collettivo, come abbiamo anticipato, può essere articolato in due dimensioni principali, privata e pubblica. Alla prima fanno capo sia

la rete dei somministratori (HoReCa), sia le mense aziendali. Nel primo caso tendono a riprodursi le medesime dinamiche del consumo domestico, solo agite in un contesto diverso, come quello dei bar, dei ristoranti, dei locali etc (tema che, analogamente al consumo domestico, abbiamo deciso di non approfondire nell’economia di questo lavoro). Per quanto riguarda invece le mense aziendali, l’evidenza del ruolo del cibo nei luoghi di lavoro (e quindi, da un’altra prospettiva, dei luoghi di lavoro come strumenti di salute) emergeva già in un rapporto del 2005

dell’International Labour Organization – ILO. Nel documento 'Food at Work Workplace. Solutions for Malnutrition, Obesity and Chronic Diseases'12, si afferma come una non adeguata alimentazione nei luoghi di lavoro nuoccia alla salute dei lavoratori e, contemporaneamente, possa provocare una perdita di produttività pari al 20%. Lo stesso rapporto indica inoltre che investire in un’alimentazione sana ed equilibrata sul luogo di lavoro incida in modo significativo sul benessere psicofisico del lavoratore e che questo, spesso, comporti la riduzione dei giorni di malattia e di infortunio. Considerato il ruolo centrale delle mense nel cosiddetto “welfare aziendale”, la promozione di un’alimentazione corretta e di abitudini sane anche sul luogo di lavoro costituisce un’azione strategica, che deve essere condotta in maniera sinergica, agendo su più fronti: sulla consapevolezza delle aziende nella scrittura dei propri capitolati d’appalto e delle soluzioni offerte (sia in mensa che nel vending); su quella dei lavoratori, che devono fare scelte salutari e sull’operato delle aziende di ristorazione (nella costruzione della propria offerta e nell’esecuzione delle proprie mansioni). Il cosiddetto “piatto pubblico”, ossia il pasto consumato all’interno di una mensa istituzionale (sia essa scolastica, universitaria, ospedaliera, carceraria, etc) è invece uno degli strumenti privilegiati attraverso cui si è cercato di raggiungere obiettivi di salute. L’ambito che abbiamo scelto di approfondire in questa sede è quello più presente tanto nel dibattito politico e pubblico, quanto in quello

12 https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---dgreports/---dcomm/---publ/documents/publication/wcms_publ_9221170152_en.pdf. Ultimo accesso, 3 giugno 2019.

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scientifico accademico, soprattutto a livello internazionale: le mense scolastiche.

5.3.4.1 Dalle mense scolastiche come strumenti di salute…

Il pasto consumato a scuola rappresenta un campo di indagine complesso e stimolante e la letteratura scientifica, negli ultimi dieci anni, ne ha indagato i diversi significati e implicazioni e le molteplici modalità di attuazione in differenti contesti: nelle grandi città pioniere del procurement creativo e sostenibile, come Londra, New York e Roma nelle aree rurali italiane e del Regno Unito (Morgan e Sonnino, 2008; Sonnino 2010); in Francia (Darly, 2012); nel Nord Europa (Mikkelsen et al., 2007; Mikkola, 2008), nel Sud del mondo (per una rassegna si veda Drake et al., 2016). In generale, se nei paesi a medio e basso reddito il servizio di refezione scolastica è inteso principalmente come strumento di contrasto alla povertà alimentare e quindi strumento diretto di salute (Bundy et al., 2009) nel Nord del mondo è chiamato a trovare una sintesi non semplice fra obiettivi talvolta discordanti (Sonnino, 2009). Alle mense si chiede infatti di soddisfare criteri di salubrità e igiene alimentare, di avere elevati standard di qualità nutrizionale e organolettica, di contribuire a uno stile di vita più sano, all’integrazione e alla multiculturalità, di orientare il mercato verso produzioni più sostenibili, di contribuire allo sviluppo economico dei sistemi alimentari e, contemporaneamente, di costare poco. Le politiche di refezione scolastica sono oggetti complessi - che variano a seconda del contesto ed evolvono nel tempo – entro cui convergono molti degli obiettivi dell’Urban Food Planning, come l’integrità ecologica e la giustizia sociale (Morgan, 2006), la riconnessione fra città e campagna (Sonnino, 2013), lo sviluppo economico locale (Sonnino, 2010), la promozione di salute e il contrasto all’insicurezza alimentare, intesa nella sua duplice natura di scarsa e scorretta nutrizione (Ashe e Sonnino, 2013 b; Sonnino et al., 2014). In termini più generali si può dire che molte politiche e pratiche innovative di ristorazione scolastica mutuino dalla più ampia

pianificazione alimentare le principali strategie di intervento “by relocalizing, greening and moralizing public sector food procurement” (Renting e Wiskerke, 2010, pag. 1909). In questo quadro, l’ambito del FPP e della ristorazione scolastica sono stati assunti come contesti privilegiati e, allo stesso tempo, uno degli strumenti più importanti per l’attuazione e il successo di politiche rilocalizzative (Morgan et al, 2006, pag. 196). Negli Stati Uniti questo

approccio si sostanzia nei cosiddetti farm-to-school programs, che fanno convergere nel pasto scolastico obiettivi di sostenibilità e sviluppo economico della produzione locale, unitamente a finalità educative e di salute legate ad abitudini alimentari più sane (Vallianatos et al. 2004, Joshi et al., 2008; Gottlieb et al., 2009; Conner et al., 2011). In alcuni paesi del sud globale, come l’Africa, le strategie di rilocalizzazione si

traducono nei programmi home-grown school feeding ritenuti potenzialmente capaci di concorrere, se opportunamente progettati e attuati, alla riduzione della povertà, a obiettivi di salute e, congiuntamente, alla promozione della crescita economica locale (Devereux et al., 2010). In Europa, invece, in luogo di progetti così strutturati, paesi come l’Italia, la Svezia, la Finlandia, la Francia e la Danimarca hanno introdotto all’interno dei propri capitolati d’appalto criteri premianti legati alla filiera corta (in senso spaziale) ancora prima che la direttiva europea del 2006 lo prevedesse. L’attenzione all’integrità ecologica, come garanzia di una mensa più sana e salutare – per le persone e per l’ambiente - ha i suoi cardini,

come anticipato, soprattutto negli strumenti del Green Public Procurement, e quindi nell’adozione di interventi per la riduzione – lungo tutta la filiera – degli impatti ambientali attraverso diversi accorgimenti (prodotti da agricoltura biologica, stovigliato riutilizzabile, cucine, mezzi, prodotti e packaging ecologici, etc). L’idea di una moralizzazione del procurement e delle mense scolastiche (Morgan e Sonnino, 2008; Renting e Wiskerke 2010), si inscrive in un più ampio moral turn delle scienze sociali (fra gli altri, Smith, 1997) che tocca anche il dibattito sul cibo e sull’alimentazione. Se Morgan e Sonnino (2008) declinano il pasto scolastico come una forma di etica della cura (Tronto, 1993) questioni legate all’impatto del FPP in termini di salute pubblica (Morgan 2015, Sonnino, 2009) e di giustizia sociale attengono a diversi

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tipi di intervento, come il ricorso a prodotti equo-solidali (Morgan, 2008), l’attenzione riservata all’appropriatezza etico-culturale dei menu proposti (Giorda e Bossi, 2016), la possibilità di recuperare e redistribuire le eccedenze. Infine, un dibattito recente e molto interessante, che trova applicazioni concrete in esperienze come quella della città di Malmö, pioniera nelle politiche di ristorazione collettiva, concerne il tema delle diete sostenibili (Lang, 2014) che contemplano un utilizzo ridotto di carne e di zuccheri, pesce esclusivamente certificato, antiche varietà e prodotti stagionali, azioni per minimizzare i rifiuti.

5.3.4.2 …alle scuole che promuovono salute

In anni recenti si assiste al passaggio della relazione scuola-salute incentrata principalmente sul ruolo della mensa scolastica, a una visione della scuola come attore capace di promuovere salute nel suo complesso. Questo passaggio è ufficializzato attraverso la creazione della rete internazionale School for Health in Europe (SHE) che riu Ma cosa si intende per “scuola che promuove salute”? Una scuola che promuove salute è “una scuola che dà attuazione a un piano strutturato e sistematico per la salute, il benessere e lo sviluppo del capitale sociale di tutti gli alunni e del personale docente e non docente”. In questa logica, la promozione della salute a scuola può essere descritta come “qualsiasi attività intrapresa per migliorare e/o proteggere la salute di ciascun individuo presente all’interno della comunità scolastica” La promozione della salute a scuola comprende sia l’educazione alla salute insegnata durante le lezioni, sia tutto l’impegno dedicato a creare un contesto, delle policy scolastiche e un curriculum didattico orientati alla promozione della salute stessa. Si tratta di un approccio integrato, orientato all’azione e alla partecipazione: tutta la comunità scolastica, inclusi gli studenti, gli insegnanti, il personale non docente e i genitori, assumono un ruolo attivo nel processo decisionale e nelle iniziative. La scuola punta al capacity building che è connesso allo sviluppo della conoscenza, delle abilità e del coinvolgimento di tutta la comunità scolastica nella promozione della salute e del benessere.

Le ragioni per cui la promozione della salute è importante nel setting scuola sono diverse. Nel documento … si legge che l’istruzione e la salute sono intimamente connesse, infatti: - i bambini sani hanno maggiori probabilità di imparare in modo

efficace; - l’educazione svolge un ruolo importante in termini di benessere

economico e di risultati di salute in una fase successiva della vita; - promuovere la salute del personale della scuola può portare ad

una maggiore soddisfazione sul lavoro e a una riduzione dell’assenteismo;

- la promozione attiva della salute nelle scuole può aiutare le scuole e i decisori a raggiungere i propri obiettivi accademici, sociali ed economici (citare).

Molte scuole torinesi partecipano alla rete piemontese delle Scuole che promuovono salute (http://www.reteshepiemonte.it/, ultimo accesso 20 giugno 2019) promossa dalla Regione Piemonte, il Miur, il Dors (Centro Regionale di Documentazione per la promozione della Salute) e Steadycam. Fig. 30– Le scuole torinesi che partecipano alla rete “Scuole che promuovono salute”

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Fonte: www.reteshepiemonte.it In questo quadro un elenco sistematico delle esperienze e delle buone pratiche che coinvolgono o hanno coinvolto le scuole torinesi risulta un’impresa non solo troppo ardua, ma già professionalmente svolta dal Dors che, oltre a censire le varie attività condotte sul territorio, raccoglie nel proprio sito internet dati, informazioni, materiali e documentazione in generale sul tema della salute e, in maniera specifica, sulla promozione della salute a scuola. In questa sede, ci limitiamo a introdurre una serie di iniziative che ci hanno visti direttamente coinvolti nelle attività di promozione della salute a scuola, a dimostrazione di quanto questo tema sia trasversale rispetto alle ricerche e alle azioni in cui siamo stati coinvolti in questi anni. Box 8– Il progetto Dal cibo si impara “Dal cibo si impara!” è un progetto di educazione alimentare promosso dal Comune di Torino, a cui l’Atlante partecipa in relazione ai temi della sostenibilità. Il progetto, parte integrante del protocollo d’intesa tra la Città di Torino, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Piemonte del M.I.U.R., l’Azienda Sanitaria Locale Città di Torino, L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale Piemonte Liguria e Valle d’Aosta e la Camera di Commercio di Torino è rivolto agli insegnanti delle scuole primarie torinesi. L’obiettivo è formare e informare i docenti tramite un percorso di educazione alimentare che affronti il cibo nelle sue varie dimensioni (salute, ambiente e territorio, cultura, …) fornendo loro gli strumenti per riprodurlo nelle proprie scuole, sia in classe – attraverso l’attività didattica – sia durante il momento del pasto. La proposta nasce dall’esigenza di supportare le conoscenze in campo alimentare degli insegnanti, che spesso si trovano ad affrontare situazioni complesse, senza possedere adeguati strumenti. Il programma affronta infatti il tema complesso del cibo da più punti di vista e, con l’apporto di competenze interdisciplinari, tratta aspetti molto diversi, che vanno dai comportamenti, gli stili di vita e il benessere – con un focus sul contenimento dell’obesità infantile, la prevenzione sanitaria, la sicurezza alimentare, l’informazione sulle esigenze nutrizionali e l’etichettatura; dalla storia e geografia raccontate attraverso il cibo, ai temi attuali della sostenibilità e del cambiamento climatico, con l’educazione al consumo, la consapevolezza del rapporto fra cibo e territorio, la conoscenza delle filiere

alimentari e il loro impatto sull’ambiente, il diritto di tutti a partecipare alle scelte alimentari e a valorizzare il proprio territorio. Il percorso si articola in incontri plenari e momenti partecipati (attraverso la tecnica del word cafè) per garantire la coproduzione della conoscenza e delle attività pratiche da avviare nelle classi. Infatti, l’output principale, oltre a una maggiore sensibilità degli insegnanti rispetto a questi temi, è una pubblicazione – distribuita dal Comune in maniera capillare – che raccoglie le attività in una sorta di vademecum a cui ciascun insegnante potrà attingere per costruire un percorso personalizzato di educazione alimentare per la propria classe. Nello specifico, il workshop “Mangiare in-salute, in-formati, in-sicurezza”, è stato dedicato alle linee guida per una sana alimentazione, alle scelte alimentari consapevoli e alla sicurezza alimentare vista a 360 gradi. In particolare sono trattati i principi di una corretta alimentazione, del consumo consapevole mediante la capacità di lettura delle etichette, di igiene e sicurezza degli alimenti. Fig. 31 – La piramide alimentare transculturale

Fonte: Comune di Torino, 2019 Le schede che propongono le attività legate alla salute riguardano nello specifico il problema del sovrappeso e dell’obesità nell’età infantile e si concentrano sulla colazione e gli spuntini (che rappresentano pasti

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fondamentali per una corretta nutrizione, non sempre opportunamente gestiti dalle famiglie). È proposta anche la piramide alimentare transculturale, ovvero uno strumento di educazione alimentare per operatori della salute, dell’infanzia e per le famiglie, nato con l’obiettivo di far incontrare i dettami e principi di salute della dieta mediterranea – patrimonio culturale immateriale dell’umanità secondo l’UNESCO – con i sapori delle altre popolazioni che vivono nel nostro Paese.

Figure 32 e 33 – l’ultimo incontro del progetto: i lavori realizzati dai bambini e la

riunione finale con gli esperti.

Foto di Silvia Prelz Inoltre, il vademecum riporta diverse schede anche sull’informazione come elemento imprescindibile dell’educazione alimentare, da praticare con gli insegnanti attraverso attività dedicate alle etichette, alla costruzione di un menù, ma anche alla creazione di una pubblicità, al fine di comprendere l’importanza dei messaggi – talvolta ingannevoli – dei media.

Box 9– Il progetto “Pasto a scuola e benessere degli allievi” Il Servizio di ristorazione scolastica del Comune di Torino ha come l’obiettivo primario il benessere delle bambine e dei bambini; il pasto rappresenta infatti un momento condiviso con i compagni di scuola, riveste un’importante azione sociale ed educativa e, in quanto tale, rientra appieno nel dialogo scolastico. In questa prospettiva, la Città di Torino ha investito molte risorse ed energie per migliorare la qualità del servizio, anche avvalendosi della collaborazione e del know how di molti attori, tra i quali le imprese aggiudicatarie del servizio, l’Università e l’Ufficio Scolastico Regionale del MIUR. E’ nel contesto descritto che la sentenza della Corte d’Appello di Torino del 21 giugno 2016, che ha riconosciuto il diritto per le famiglie di fornire il pasto domestico ai propri figli, ha aperto nuovi scenari di modalità di consumo dei pasti che dopo quasi tre anni è ormai necessario indagare, conoscere, analizzare e valutare, per elaborare proposte tese al miglioramento di entrambe le modalità di consumo dei pasti, sempre con l’obiettivo di migliorare il benessere a scuola delle alunne e degli alunni, indipendentemente dal tipo di pasto consumato. La prima ricerca sull’argomento, “La rivoluzione del panino nelle scuole del Comune di Torino: Progetto di studio sulla comunicazione all’utenza relativamente al servizio di ristorazione scolastica”13, ha posto le basi per ulteriori approfondimenti, mettendo in luce, con riferimento ai pasti veicolati, l’impatto negativo, sulla qualità del servizio, del tempo intercorso dalla cottura al consumo dei piatti nonché lo scarso gradimento associato a una bassa conoscenza delle caratteristiche principali del servizio da parte dei genitori intervistati. La conseguenza di questi aspetti è ad oggi il progressivo abbandono del servizio e il ricorso a soluzioni alternative, prima tra tutte il cosiddetto “pasto domestico”. Per condividere un’ipotesi di ricerca con le direttrici sopra descritte, la Città si è rivolta all’Università degli Studi di Torino -

13 Consolmagno D. (2018), “La rivoluzione del panino nelle scuole del Comune di Torino: Progetto di studio sulla comunicazione all’utenza relativamente al servizio di ristorazione scolastica”, Tesi magistrale, Università di Torino.

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Dipartimento di Culture, Politica e Società e Dipartimento di Veterinaria, che da tempo collaborano con la Città all’interno di progetti di miglioramento della qualità del servizio, come ad esempio il progetto per la sperimentazione per l’inserimento della cucina fresca in alcune scuole primarie. La Città ha proposto all’Università, nel cui ambito era stata condotta la ricerca sopra menzionata, di condurre il progetto di ricerca “Pasto a scuola e benessere - analisi degli impatti in termini di igiene e sicurezza, nutrizione, sostenibilità ambientale e sociale del servizio di ristorazione scolastica e dei pasti domestici nelle scuole primarie del comune di Torino”. Il progetto presenta il proprio scopo nel titolo, ovvero fornire una fotografia dell’attuale situazione relativa al servizio di ristorazione scolastica nel Comune di Torino in relazione al tema del benessere dei piccoli utenti. Nello specifico, l’obiettivo è indagare il funzionamento del servizio di ristorazione scolastica, prendendo in esame i tre soggetti centrali che ne costituiscono l’essenza: l’azienda ristoratrice, le scuole e gli utenti. La fase di rilevazione è durata sei settimane, durante il quale un gruppo di ricercatori dei Dipartimenti di Agraria e Veterinaria, di Culture, Politiche e Società e di Psicologia14, si è suddiviso il lavoro tra i centri di cottura e le scuole, seguendo il naturale percorso di un alimento, dalla sua preparazione sino alla distribuzione ai bambini. L’attività è stata così articolata in tre diverse fasi operative: Ispezioni e Audit presso tutte le aziende coinvolte, con frequenza proporzionale alla quantità di lotti gestiti, ogni lunedì della settimana prevista. Queste giornate hanno permesso di valutare l’intero iter produttivo, con arrivo in centro cottura alle 6.00. In questo modo si sono osservate tutte le fasi più importanti del servizio: il ricevimento delle derrate alimentari, la conservazione degli alimenti deperibili e non deperibili, la trasformazione della materia prima in un pasto destinato all’utenza e la movimentazione del prodotto dal centro cottura alla scuola. Attraverso la compilazione di una check-list, come guida per lo svolgimento dell’attività, sono state osservate tutte le azioni con lo scopo di valutare la loro conformità al Capitolato d’Appalto 2015-2018 (prorogato fino al termine dell’anno scolastico 2018/2019), al reg. 178/2002, 852/2004 e 2073/2005. In particolare è stato valutato l’operato del personale coinvolto nelle diverse preparazioni giornaliere e le condizioni igienico-

14 Il gruppo, coordinato da Egidio Dansero, Auxilia Grassi, Daniela Converso, Alessia Toldo è composto da: Anna Albertetti, Elisabetta Atzeni, Alessia Cambiano, Davide Consolmagno, Martina Nanotti, Eugenia Rossi, Fabio Scarnato, Dario Stabile.

strutturali del centro cottura delle diverse aziende. Dal lunedì al venerdì sono stati presi in esame i pasti destinati all’utenza tramite una valutazione sensoriale che ha permesso di confrontare il prodotto immediatamente dopo la sua preparazione, al mattino, e successivamente nelle scuole, all’ora di pranzo, all’inizio e alla fine della fase di distribuzione. Per poter svolgere in maniera sistematica e indipendente quest’analisi sono stati scelti 3 parametri: cottura, condimento e appetibilità, attribuendo ad ognuno di essi un punteggio da 1(minimo) a 5(massimo). Inoltre, ad ogni fase di assaggio è stata presa la temperatura al cuore del prodotto e il relativo orario. L’analisi è stata ripetuta per tutto l’arco della settimana, in maniera continuativa.

Fig. 34 – i ricercatori durante i controlli nelle mense

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Foto: Auxilia Grassi Oltre alla fase di assaggio, nelle scuole sono state effettuate delle interviste alle addette alla distribuzione e agli insegnanti, in modo tale da capire le dinamiche legate al momento del pranzo sia da parte di chi offre un servizio e sia da parte di chi lo riceve. In particolare alle insegnanti è stato chiesto di esprimere un’opinione sulla mensa e sulla qualità del servizio, oltre che di spiegare il proprio approccio in merito alle modalità con la quale fanno educazione alimentare nei confronti del bambino, durante il pranzo e nelle lezioni durante le ore di lezioni a scuola. Inoltre, tramite l’osservazione dello smaltimento dei pasti si è potuto capire quali sono le pietanze maggiormente apprezzate o rifiutate da parte dei bambini, e collegando questi elementi alle valutazioni sensoriali si potranno individuare le preparazioni più critiche all’interno del menù. Nel mese di luglio, inoltre, si esprimerà la Corte di Cassazione delle Sezioni Unite che deciderà in maniera definitiva se riconoscere o meno alle famiglie il diritto di poter non usufruire del servizio di ristorazione scolastica a vantaggio del cosiddetto pasto domestico. In merito a questo tema, il gruppo di ricercatori non ha raccolto dati spendibili nella ricerca, su indicazione del Comune di Torino. Questo evento e le decisioni ultime da parte dell’Amministrazione Comunale in merito all’aggiudicazione del servizio di ristorazione scolastica per il prossimo triennio, determineranno il futuro del servizio15.

Per quanto concerne invece il tema del vending, diversi studi (per esempio Lawrence et al. 2009), analizzano il ruolo dei distributori automatici, specialmente all’interno di contesti utilizzati da particolari gruppi sociali (come le scuole, gli ospedali, etc). In generale, la crescita di questo settore di mercato16 e l’aumento di distributori aperti 24h, garantisce una grande disponibilità e accessibilità a prezzi ridotti a un tipo di prodotto generalmente molto processato, ricco di grassi e zuccheri, povero in nutrienti e a elevata palatabilità.

15 Box a cura di Davide Consolmagno (Università di Torino). 16 L’Italia vanta una leadership riconosciuta nel settore della produzione delle vending machine: business generato per il 70% grazie all’export. Complessivamente il fatturato del vending in Italia nel 2016 è cresciuto del 2,13% sfiorando i 3,5 miliardi di euro con quasi 11 miliardi di consumazioni (Coop,

Per questa ragione, per esempio, l’Università di Torino, attraverso il suo progetto UnitoGo, ha promosso un appalto innovativo per i 5 lotti messi a bando (per un totale di 235 distributori) in cui l’offerta viene valutata anche in relazione a: - consumi energetici e gas refrigeranti; - gestione dei rifiuti (per esempio con il riutilizzo dei fondi di caffè o

l’erogazione di acqua in bottiglie di plastica riciclata); - impatto della mobilità sull’ambiente del servizio di rifornimento dei

prodotti; - impegno aziendale nei confronti della sostenibilità ambientale e sociale

e azioni di comunicazione interne all’Università; - Erogazione di acqua naturale e gasata; - presenza di prodotti biologici, equosolidali e prodotti freschi

(macedonia di frutta, insalata o verdure in pinzimonio). L’Università si è anche dotata di strumenti per la partecipazione e il coinvolgimento degli studenti nella definizione del nuovo sistema di vending, per esempio attraverso una survey online sulle caratteristiche che un distributore eco-compatibile dovrebbe garantire, molte delle quali strettamente connesse a questioni (dirette o indirette) di salute - la presenza di prodotti biologici, locali, equosolidali; - un minor impatto ambientale in termini di consumo di energia; - contribuire alla riduzione dei rifiuti - contenere cibi per regimi alimentari alternativi (per esempio

vegetariano o vegano) - dare informazioni sui prodotti - essere rifornito attraverso una logistica sostenibile - erogare acqua alla spina.

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Fig. 35 – I temi del sondaggio sul vending di UnitoGo

Fonte: http://www.green.unito.it/it/Survey_Vending_Machine_Ecoinnovative Un altro esempio di vending innovativo, in termini di rapporto cibo-salute, è il progetto Massimo Cento, sviluppatosi come start up dell’Università di Torino. Come si può leggere all’interno della rassegna di pratiche prodotta “La finalità del progetto è di promuovere la produzione, la distribuzione e il consumo di un paniere di prodotti sani, biologici e di qualità legati al territorio e alla stagionalità delle materie prime nel canale vending. In quest’ottica Massimo Cento, con la collaborazione di aziende produttrici e distributrici di materie prime del territorio, intende offrire una gamma di prodotti di qualità, freschi e naturali nella distribuzione automatica, in particolare nelle scuole e nelle sedi universitarie, al fine di sensibilizzare le giovani generazioni all’importanza di una sana ed equilibrata alimentazione con prodotti di stagione e di filiera corta. I distributori automatici con i prodotti Massimo Cento, che riunisce le aziende di produzione, trasformazione e distribuzione in una rete d’impresa denominata Pro.Te.Sta. (Prodotto, Territorio, Stagione), diventano strumento per veicolare un messaggio di consapevolezza alimentare e ambientale” (Botiglieri et al., 2016).

Figura 36 – I prodotti dei distributori Massimo Cento

Fonte: Botiglieri et al., 2016, pag. 100

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5.3.5 Post-consumo e salute La fase che segue il consumo è quella che definiamo, forse impropriamente, post-consumo. L’espressione, mutuata dalla letteratura (Grunert, 2005) presenta delle ambiguità, anche considerato come gran parte dei rifiuti alimentari siano l’esito di altre fasi, come quella produttiva o distributiva. Inoltre, alcune dei fenomeni che tendiamo a trattare in questa fase, per esempio la raccolta e redistribuzione di alimenti a fini di solidarietà sociale e sostenibilità ambientale, toccano più fasi della filiera, connotandosi a tutti gli effetti come un sistema nel sistema. Fatta questa prima premessa, una seconda questione riguarda i vari stati che il cibo può assumere in questa fase della filiera e il modo in cui vengono definiti, che si presta a creare fraintendimenti. Infatti, se è tutto sommato semplice distinguere il food waste (il rifiuto alimentare prodotto dalla vendita e dal consumo) dai food losses (le perdite che si verificano nelle fasi di produzione, raccolta, trasformazione e distribuzione), più complessa è la differenza fra eccedenza e scarto-

Seguendo la concettualizzazione proposta da Garrone et al. (2015) in uno studio condotto dal Politecnico di Milano, le eccedenze alimentari sono la componente commestibile che viene realizzata, trasformata, distribuita o somministrata ma che, per varie ragioni, non viene venduta o consumata. Le eccedenze comprendono il cibo realizzato nel settore primario, trasformato nella fase di trasformazione, distribuito nella fase di distribuzione, preparato e somministrato nella fase di somministrazione, che non riesce a percorrere tutta la filiera e a giungere al consumatore. Inoltre è considerata eccedenza alimentare anche quella parte di alimenti acquistati dal consumatore ma non consumati. Lo scarto alimentare, invece, è la componente non più commestibile o non destinata al consumo umano. In che modo eccedenze e scarti alimentari hanno a che fare con salute e benessere e quali sono le politiche e le pratiche che, pur non essendo di natura prettamente sanitaria, possono contribuire a obiettivi di salute da questo specifico punto di vista? La prima evidenza riguarda ovviamente l’impatto dei rifiuti sulla salute in termini di produzione di co2.

Nella fase di smaltimento dei rifiuti i principali effetti ambientali diretti dello spreco alimentare sono legati alla destinazione in discarica (emissione di metano e rilascio di percolato) e a quella in inceneritore (emissione di gas serra e di inquinanti atmosferici nocivi per l’ambiente e la salute umana). Effetti ambientali secondari sono generati inoltre dall’abbandono nell’ambiente o dallo smaltimento nel sistema fognario. Tra gli effetti ambientali dello spreco alimentare occorre inoltre considerare anche lo smaltimento o l’abbandono dei relativi imballaggi (su questo punto non sono disponibili dati) e tener conto dei rifiuti alimentari tra quelli speciali ovvero le perdite post raccolto, quelle legate alle attività di stoccaggio, conservazione, trasporto e gli scarti delle trasformazioni alimentari. Inoltre bisogna considerare che anche le operazioni di recupero alimentare e di riciclaggio delle eccedenze comportano una certa quota di effetti ambientali diretti (per consumi energetici, trasporti, occupazione di suolo e altri impatti). Tali effetti sono sicuramente molto minori rispetto a quelli indiretti associabili alle fasi precedenti la produzione di rifiuti alimentar (ISPRA, 20xx). Per avere un’idea, l’ultimo rapporto Ispra, pubblicato in occasione della Giornata nazionale per la Prevenzione dello spreco alimentare, che si celebra il 5 febbraio, dal titolo "Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali" indica come ad esso siano associate emissioni di gas-serra per circa 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% delle emissioni totali (nel 2016 pari a 51,9 miliardi di tonnellate di CO2). Se fosse una nazione, lo spreco alimentare sarebbe al terzo posto dopo Cina e Usa nella classifica degli Stati emettitori. Queste evidenze indicano come politiche di contrasto alla produzione di rifiuti alimentari o legate al loro corretto smaltimento o riutilizzo, possano rappresentare strumenti di salute. All’interno di questo gruppo troviamo diversi tipi di interventi. Si va dall’educazione ambientale e la sensibilizzazione, alle politiche legate alla raccolta differenziata, fino alla tipologia su cui ci concentreremo in questa sede, che riguarda il recupero e la redistribuzione delle eccedenze alimentari a fini di solidarietà sociale e sostenibilità ambientale. Alle origini di questo meccanismo, cioè il recupero e la valorizzazione delle eccedenze alimentari come risorsa per contrastare l’insicurezza alimentare, vi è infatti la consapevolezza di quello che viene definito il

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“paradosso della scarsità nell’abbondanza” (Campiglio e Rovati, 2009; Rovati e Pesenti, 2015) che vede coesistere livelli crescenti di povertà alimentare e di spreco di risorse ancora edibili. Tradotto in cifre, il paradosso della scarsità nell’abbondanza a livello globale si riferisce allo spreco di circa un terzo della produzione alimentare totale (1,3 miliardi di tonnellate sui 3,9 totali), cifra che rappresenta 4 volte la quantità di cibo necessaria per sfamare 795 milioni di persone in condizione di insicurezza alimentare (FAO, 2011). Nello scorso rapporto (2018), all’interno del contributo sull’analisi del sistema del cibo che nutre le persone in condizioni di marginalità socio-economico (quello che impropriamente definiamo sistema del cibo d’emergenza) abbiamo cercato di definire – non senza difficoltà – le variabili di questa relazione: la scarsità, da un lato, e l’abbondanza dall’altro. Abbiamo fatto questa operazione sia in termini più teorici, e generali, sia operativi, calando la questione sulla realtà torinese. Quello che invece cerchiamo di approfondire qui, è quale possa essere il contributo che questo sistema (costituito da una molteplicità di pratiche, istituzionali e non, formalizzate e non, più o meno strutturate) genera in termini di salute. Per fare questo ci ispiriamo a un’esperienza che riteniamo estremamente innovativa e che riguarda un territorio diverso da quelli di cui ci occupiamo di solito, ma con cui siam entrati in contatto proprio durante il proseguimento della ricerca che l’anno scorso ha trovato spazio nel secondo Rapporto. Ci riferiamo, nello specifico, a un’intersezione formale fra politiche sanitarie e politiche alimentari in relazione all’attività di recupero e redistribuzione di eccedenze condotta in Valle d’Aosta, dove l’esperienza dell’Emporio solidale è stata inserita nel Piano Regionale di Prevenzione 2016-2020. Come si legge nel Piano, “il progetto si propone di arginare lo spreco ri-convogliando le eccedenze sulle nuove situazioni di vulnerabilità e disagio, ovvero gestire efficacemente i fenomeni di vulnerabilità costruendo un sistema di informazioni e orientamento che consentano ai “nuovi vulnerabili” di venire a conoscenza delle risorse e delle opportunità già messe a disposizione. In particolare alla base del progetto sono le analisi che riguardano l’entità dello spreco alimentare da parte della grande e della piccola distribuzione e dei luoghi di distribuzione a fronte di un significativo incremento delle situazioni di

povertà e disagio. Le finalità del progetto sono quelle di un sostanziale re-indirizzamento di ciò che potrebbe divenire spreco (con tutti gli oneri del caso per lo smaltimento) in risorsa da destinare alle nuove marginalità, anche come iniziativa di ascolto e accoglienza che consenta di attivare nuove misure di sostegno globale per chi è portatore di una fragilità che spesso non è solo economica ma anche sanitaria, informativa, portatrice di una povertà culturale, prima che di risorse” L’elemento interessante è che il progetto, definito di comunità a solidarietà diffusa, è finanziato dal CSV-Onlus e dall’Assessorato regionale Sanità, salute e Politiche sociali. L’impatto in termini di salute è relativo alla natura stessa del progetto, che prevede la creazione di uno spazio di accoglienza in cui le persone vulnerabili, segnalate dai servizi sociali, possono trovare gratuitamente prodotti alimentari freschi e secchi posizionati sugli scaffali, proprio come in un supermercato. “A supporto delle persone e delle famiglie che si rivolgono all’emporio, le organizzazioni di volontariato offrono anche un servizio di consulenza, ascolto ed orientamento per venire a conoscenza delle risorse a supporto della situazioni di disagio disponibili sul territorio”. Le attività di gestione dell’emporio sono interamente svolte dai volontari delle organizzazioni coinvolte nel progetto, da giovani in servizio civile e da cittadini che, in un’ottica di restituzione, contribuiscono attivamente alla buona riuscita dell’iniziativa. La gestione dell’emporio da parte del CSV – Onlus garantisce la detraibilità fiscale delle donazioni di generi alimentari. Inoltre le donazioni di denaro confluiscono su uno specifico Fondo aperto presso la Fondazione comunitaria della Valle d’Aosta, a garanzia della destinazione d’uso delle risorse finanziarie raccolte. In questa prospettiva, l’obiettivo principale in termini di salute concerne il potenziamento dei fattori di protezione (life skill, empowerment) e l'adozione di comportamenti sani (alimentazione, attivita fisica, fumo e alcol) nella popolazione giovane e adulta. Nello specifico, le relazioni fra attività e salute sono espresse nel progetto (cfr. tabella che segue).

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L’aspetto originale di questa esperienza non risiede tanto nel progetto in sé (gli empori solidali sono realtà ormai ampiamente consolidate a livello nazionale e internazionale). L’innovazione risiede nella consapevolezza dei legami fra questa pratica, che generalmente viene inquadrata in narrazioni di solidarietà sociale e sostenibilità ambientale, e la salute. Ossia, nel leggerla, progettarla e proporla come una pratica di salute pur non rientrando nel novero delle pratiche sanitarie. Si tratta infatti di un esempio virtuoso di salute in tutte le politiche, realizzata attraverso l’auspicata integrazione di diversi soggetti e competenze. E, allo stesso tempo, si tratta anche di un esempio virtuoso e illuminante di approccio alla salute in un’ottica di disuguaglianze socialmente determinate. Per raggiungere obiettivi di salute occorre quindi passare da una società più coesa e più equa. Per questa ragione è opportuno che gli amministratori locali individuino le azioni prioritarie per quelle categorie di popolazione che presentano un maggior rischio e, giocando il ruolo di mediatori/facilitatori delle sinergie locali, mobilitare tutte le risorse presenti sul territorio al fine di: - prendere in carico bambini e giovani, perché più le famiglie sono

svantaggiate, più i bambini rischiano di nascere prematuramente, di avere ritardi nella crescita, di avere problemi oro-dentali, di soffrire d'asma, di essere sovrappeso o di essere obesi, di avere difficoltà di linguaggio e di soffrire di disturbi dell'apprendimento. In questi termini, l’Emporio accogliere i bisogni degli utenti orientandoli ai Servizi esistenti e/o alle Associazioni presenti sul territorio.

- rafforzare l'animazione e la vita sociale favorendo il sostegno solidale, rinforzando le capacità d'espressione degli individui/gruppi e promuovendo le competenze individuali. In questo senso l’Emporio cerca di creare una rete di sostegno solidale e valorizzare le competenze individuali delle persone aiutate che in tal modo possono diventare risorsa per la comunità.

La nostra opinione, in merito a questa esperienza, è che il valore aggiunto di pensarla anche come una pratica di salute risiede in un aumento della consapevolezza di quanto gli interventi sociali, quelli legati al cibo e all’alimentazione in particolare, possano incidere in termini di salute, sia nel promuoverla (agendo in complementarietà con le politiche sanitarie); sia ostacolandola perché non si prendono in

considerazione determinati aspetti. In questa logica, per esempio, le progettualità di recupero e redistribuzione di eccedenze alimentari contribuiscono a obiettivi di salute in diversi modi, a seconda del tipo di pratica: - contrastano l’insicurezza alimentare in termini di quantità e

qualità, prestando attenzione all’alimentazione di particolari gruppi sociali (per esempio i bambini);

- possono liberare risorse per acquistare altri prodotti (es proteine); - ricostruiscono i legami sociali, contrastando la disaffiliazione che

la condizione di marginalità socio-economica porta con sé.

Tuttavia, in alcuni contesti di scambio e discussione in merito a questi progetti sono emerse anche criticità in termini di salute proprio legate ai prodotti recuperati e distribuiti, fra cui: - la mancanza di attenzione a eventuali problematiche delle

persone a cui il cibo vien redistribuito, per esempio quando si tratta di prodotti altamente processati come merendine indirizzati a un’utenza in condizione di disagio, che talvolta già presenta patologie legate a una scorretta alimentazione;

- la mancanza di attenzione rispetto alla condizione di alcuni soggetti, per esempio per quanto concerne la somministrazione di pane particolarmente duro a persone con problemi oro-dentali, tipici delle lunghe carriere di povertà;