2010.06.19_Cesare Pavese_XI_Il Mestiere Di Vivere II Per Alunni

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Cesare Pavese (11) Il mestiere di vivere II 1938 – 1950 1

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Cesare Pavese (11)Il mestiere di vivere II

1938 – 1950

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Io, Biagio Carrubba, continuo a scegliere, in questa seconda parte del diario "Il Mestiere di Vivere" di Cesare Pavese i pensieri più belli e le riflessioni più interessanti che il poeta scrisse nel diario fino alla sua morte avvenuta il 27 agosto del 1950.(Tutti i brani da me riportati sono tutti tratti dall'opera "Cesare Pavese – Il mestiere di Vivere – Diario 1935 – 1950 a cura di M.G. e L.N – Einaudi ed.", seguendo l'ordine cronologico del diario) Continuo a scegliere e a spigolare i temi personali del poeta, i lacerti religiosi e quelli letterari.Il primo lacerto che ho scelto riguarda la sua profezia nella quale dice che sarebbe rimasto sempre solo per tutta la vita perché non avrebbe mai trovato una donna che lo amasse per davvero. Riporto il lacerto in cui Pavese tratta questo tema:5 genn. '38'<<Questo è definitivo: tutto potrai avere dalla vita, meno che una donna che ti chiami il suo uomo. E finora tutta la tua vita era fondata su questa speranza...>>.

In questo altro lacerto Pavese ha l'intuizione di distinguere tra la nascita della prosa e la genesi della poesia:25 febb. '38'<<Nella pausa di un tumulto passionale – oggi – l'ultimo? rinasce voglia di poesia. Nella lenta atonia di un silenzioso collasso nasce voglia di prosa...>>.

In questo scarno lacerto Pavese ritorna alla tediosa ed annosa riflessione sul suicidio:23 marzo '38'<<Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi...>>.

In questa altra riflessione Pavese ritorna a parlare di Dio e del significato della sofferenza umana. Dato che Dio ha creato la sofferenza tocca agli uomini dare un significato ad essa. Riporto parte del lacerto:17 sett. '38'<<...Le prove dell'esistenza di Dio non sono propriamente nell'armonia dell'universo, nell'equilibrio miracoloso del tutto, nei bei colori dei fiori ecc., ma nella disarmonia dell'uomo in mezzo alle cose: nella sua capacità di soffrire. Perché insomma non c'è ragione che l'uomo soffra in questo mondo, se non esiste la responsabilità morale, cioè la capacità – il dovere – di dare alla propria sofferenza un significato>>.

Nel 1939 Pavese sviluppa il concetto di simbolo e di letteratura simbolica come spiega il 10 dicembre del 1939. Riporto parte del lacerto:10 dic. '39'<<Non più simbolo allegorico, ma simb. immaginoso – un mezzo di più per esprimere la <<fantasia>> (il racconto). Di qui, il carattere dinamico di questi simboli; epiteti che ricompaiono nel racconto e ne sono persone e s'aggiungono alla piena materialità del discorso; non sostituzioni che spogliano la realtà di ogni sangue e respiro, come il simbolo statico (la Prudenza, donna con tre occhi)>>.

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Riporto quest'altro lacerto, ancora più famoso, sempre sull'argomento del simbolo in letteratura:14 dic. '39'<<Ci vuole la ricchezza d'esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo>>.

In quest'altro lacerto del 1940 Pavese ha una illuminazione intensa sul senso di cosa sia la vita:09 febb. '40'<<In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla sua vita.>>.

Il 26 luglio del 1940 Pavese segna con il nome secco Gognin, che in dialetto piemontese significa musetto, l'incontro con Fernanda Pivano:26 lugl. '40'<<Gognin>>.

Da questa data nasce un innamoramento del poeta per Fernanda Pivano e per tutto l'anno scrive sul diario riflessioni sull'amore. Una delle più interessanti è riportata nel lacerto del 30 settembre 1940 che riporto:30 sett. 1940<<La miglior difesa contro un amore è ripetersi, fino al bourrage, che questa passione è una sciocchezza, che non vale la candela, ecc. Ma la tendenza di un amore è proprio di illuderci che si tratti di un grande avvenimento, e la sua bellezza sta proprio nella continua coscienza che qualcosa di straordinario, di inaudito, ci va accadendo>>.

Sempre sull'argomento dell'amore Pavese scriva un'altra pagina illuminante ed interesssante, qualche giorno dopo. Riporto il lacerto:12 ott. '40'<<L'amore ha la virtù di denudare non i due amanti l'uno di fronte all'altro, ma ciascuno dei due davanti a sè>>.

Pavese dopo avere letto un bellissimo libro di Cesare Luporini fa una bellissima riflessione sull'attimo estatico che io condivido pienamente:17 sett. '42'<<Il capitolo Responsabilità e persona in Ces. Luporini...sistema i tuoi pensieri sull'attimo estatico e sul'unità continuata (Simbolo e Naturalità)...La novità di quest'oggi è che l'attimo estatico corrisponda al simbolo, che sarebbe quindi la pura libertà.Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere fuori del tempo, all'attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità – essi non valgono per sè, per la loro naturalità, ma c'invitano ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli. Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro.Qui sei divantato felice!..>>

Un'altra bellissima intuizione sul senso della vita è questa:6 nov. '43'<<E' insieme assodato che il senso della tua vita non può essere che la costruzione.>>.

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Nel gennaio del 1944 Pavese si rifugia a Casale Monferrato dove insegna nell'istituto Trevisio dei padri somaschi nascosto nell'istituto per non affrontare la resistenza. In questo anno il poeta è assorbito dal problema religioso e scrive parecchi lacerti, nel diario, sull'argomento. Uno dei primi è quello che riporto di seguito:1 febbr. '44'<<Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione... Si arriva ad augurarsi il dolore>>.

Un'altra riflessione dello stesso anno si riferisce alla natura della poesia:2 sett. '44'<<Poesia è, ora, lo sforzo di afferrare la superstizione – il selvaggio – il nefando – e dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo. Ecco perché l'arte vera è tragica – è uno sforzo.La poesia partecipa di ogni cosa proibita dalla coscienza – ebrezza, amore-passione, peccato – ma tutto riscatta con la sua esigenza contemplativa cioè conoscitiva.>>.

All'inizio del 1946, dopo la seconda guerra mondiale, Pavese continua a trovarsi solo per cui ripete questa riflessione sulla sua solitudine esistenziale:8 febb. '46'<<Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t'accompagna e ti fa vivere.>>.

Un'altra riflessione che apprezzo molto è del 16 settembre del 1946:16 sett. '46'<<C'è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria>>.

Un'altra riflessione riguardante Dio è quella che riporto di seguito in cui Pavese riafferma di non credere in Dio:21 nov. '47'<<Sapere che qualcuno ti attende, qualcuno ti può chiedere conto dei tuoi gesti e pensieri, qualcuno ti può seguire con gli occhi e aspettarsi una parola – tutto questo ti pesa, t'impaccia, t'offende. Ecco perché il credente è sano, anche carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe - non credi in Dio.>>.

Un'altra riflessione interessante, che condivido, è questa:19 genn. '48'<<...Niente va perduto. Il disagio, il disgusto, l'angoscia acquistano ricchezza nel ricordo. La vita è più grande e piena di quanto sappiamo>>.

All'inizio del 1949 Pavese scriva una bella riflessione sull'individuo liberato dalla terrestrità.

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Riporto parte del lacerto:8 genn. '49'<<...L'individuo liberato scopre la realtà cosmica – una corrispondenza tra le cose e lo spirito, un gioco di simboli che trasfigurano le cose quotidiane e dànno loro un valore e un significato, altrimenti il mondo sarebbe ischeletrito>>.

Nel 1950, l'anno della sua morte, Pavese, preso da tante delusioni amorose e polemiche politiche, ritorna spesso sull'argomento del suicidio come in questo lacerto del 25 marzo:25 m. '50'<<Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.>>.Questa riflessione si riferisce certamente al breve, ma intenso, flirt per l'attrice americana Constance Dowling, per la quale Pavese nutrì un profondo affetto e una breve, ma intensa, infatuazione. All'attrice Pavese dedicò il ciclo di poesie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche Leopardi aveva dedicato un ciclo di poesie, “Il ciclo di Aspasia”, alla bella ed avvenente fiorentina Fanny Targioni Tozzetti. Dopo la delusione provata per il mancato amore con l'attrice Dowling, che era ripartita per l'America, e per le astiose critiche politiche ricevute, Pavese ritorna nuovamente sull'argomento del suicidio:27 maggio '50'<<...Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio.>>

(Constance Dowling)

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Siamo nell'agosto del 1950 quando Pavese decide di suicidarsi e scrive le ultime belle riflessioni che annunciano la decisione presa:16 ag. '50'<<La mia parte pubblica l'ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti>>.

Il giorno dopo scrive, al culmine della sua disperazione e depressione, e conferma il proposito del suicidio:17 ag. '50'<<Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò.>>

Del giorno dopo sono le ultime quattro annotazioni finali che in modo implicito fanno capire la sua decisione del suicidio:18 ag. '50'<<Basta un po' di coraggio.

Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l'hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

Tutto questo fa schifo.Non parole. Un gesto. Non scriverò più.>>

Io, Biagio Carrubba, alla fine della lettura de “Il mestiere di vivere”, diario intenso e drammatico, concludo affermando che Cesare Pavese è stato certamente un grande scrittore, un buon poeta e ha cercato per tutta la vita di allontanare la morte e il suicidio. In fin dei conti Pavese è stato un giovane fragile internamente perché non ricevette mai l'amore di una donna che effettivamente è il solo sentimento che riempie quel vuoto. Allora l'idea del suicidio, che per tutta la vita lo aveva tormentato internamente, ritornò ed, accentuata dal caldo afoso di agosto, fu più forte di lui e Pavese non trovò in sé stesso il senso della vita che tanto aveva cercato e non trovò la forza di reagire. Io, Biagio Carrubba, credo che Pavese, se avesse ricordato il monito e la grande verità di Sant'Agostino che aveva affermato che in interiore homine, “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell'uomo che risiede la verità), non avrebbe considerato il proposito di suicidarsi continuando la sua vita di brillante scrittore di successo.Invece, Cesare Pavese non si ricordò del monito di Sant'Agostino per cui non trovò la verità in sé stesso ed era sicuro che non l'avrebbe trovata neanche negli altri. Per cui alla fine credo che, soggiogato dall'idea del suicidio, scoraggiato dal mancato amore di una donna e con un presagio di futuro vago, Pavese mise in atto il suicidio scegliendo di morire da solo in una camera d'albergo affittata a Torino così come il grande poeta Leopardi era morto da solo in una camera di una pensione affittata a Napoli.

Biagio Carrubba.

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Il Professore Biagio Carrubba.

19 giugno 2010.

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