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Risentimento, amore cristiano, morale borghese | p.1 Corso di Antropologia Filosofica RISENTIMENTO, AMORE CRISTANO, MORALE BORGHESE. Il confronto tra Max Scheler e Friederich Nietzsche ne“Il Risentimento nella edificazione delle morali” René Mario Micallef, 2001 Istituto filosofico “Aloisianum”, Padova

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Dopo un capitolo introduttivo che espone le principali tesi del testo nietzschiano “Genealogia della Morale” viene delineata la risposta del primo Scheler a queste tesi e la sua interpretazione e genealogia del fenomeno della modernità. Si conclude con alcune osservazioni critiche, sottolineando alcune problematiche insite nelle due opere insieme ad alcuni punti tuttora di grande attualità.

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Corso di Antropologia Filosofica

R I S E N T I M E N T O , A M O R E C R I S T A N O ,

M O R A L E B O R G H E S E .

Il confronto tra Max Scheler e Friederich Nietzsche

ne“Il Risentimento nella edificazione delle morali”

René Mario Micallef, 2001

Istituto filosofico “Aloisianum”, Padova

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RISENTIMENTO, AMORE CRISTANO, MORALE BORGHESE.

Il confronto tra Max Scheler e Friederich Nietzsche

ne“Il Risentimento nella edificazione delle morali”

di René Mario Micallef

Istituto Filosofico “Aloisianum”

Padova

SOMMARIO

Dopo un capitolo introduttivo che espone le principali tesi del testo nietzschiano “Genealogia della Mo-rale” viene delineata la risposta del primo Scheler a queste tesi e la sua interpretazione e genealogia del fenomeno della modernità. Si conclude con alcune osservazioni critiche, sottolineando alcune problematiche insite nelle due opere insieme ad alcuni punti tuttora di grande attualità.

PAROLE-CHIAVI

Risentimento, morale, spirito borghese, amore cristiano, valori

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1. INTRODUZIONE

Non mi augurerei mai di ricevere il compito, da qualche casa editrice, di dare un sottotitolo al saggio giovanile di Max Scheler, Il Risentimento nella edificazione delle morali. Avido di mostra-re la sua conoscenza enciclopedica e la sua am-pia visuale filosofica, Scheler ci parla di tutto: – psicologia, mistica, filosofia della religione, sis-temi economici, filosofia politica, fisica, biolo-gia, morale... – e mentre scorre la penna, talora si scorge sul foglio l’ombra dell’apologeta, talora dello psicologo, del fenomenologo, del filologo tedesco... Ma – ci si può chiedere – cosa aveva in mente Scheler scrivendo questo libro? A questo proposito, il curatore dell’edizione italiana, Angelo Pupi, ci dice:

Ci mancano purtroppo elementi storiografici di fat-to per potere stabilire geneticamente il senso del saggio che qui presentiamo: soltanto precisi dati biografici, testimonianze dirette, lettere, abbozzi manoscritti ecc. possono garantire positivamente la lettura di un testo che – come ogni testo filosofico – per il suo carattere generale può essere ricondotto a troppe intezioni possibili. (Pupi in Scheler, 1975, pp. 8-9)

Il saggio vide la luce nel 1912 in una rivista di psicologia (Zeitschrift für Pathopsychologie), poi subì notevoli aggiunte nel 1915. Infine, il testo si stabilì nel 1919 con l’ultima aggiunta di note.

Il saggio prende l’avvio con una serie di lunghe citazioni dalla “Genealogia della Morale” di Nie-tzsche. Il confronto con quest’autore attraversa tutto il saggio: Scheler presuppone e assume molto dall’analisi nietzschiana: – impostazione, presupposti, risultati, metodo – tuttavia rifiuta il presupposto e il risultato fondamentale (l’ateismo e la critica radicale al cristianesimo) spostando il bersaglio sul borghese (e sul social-

ista... per non essere frainteso). Perciò, è fon-damentale avere una qualche conoscenza di quest’opera di Nietzsche prima di affrontare il saggio di Scheler, appunto per poter scorgere lo sfonde sul quale il testo scheleriano si imprime.

2. LA “GENEALOGIA DELLA MORALE” DI

NIETZSCHE

Nella “Genealogia della Morale”, Nietzsche las-cia a parte le forme letterarie a lui care - la pa-rabola, la metafora, l’aforisma - e si impegna ad esporre in modo più accessible il suo pensiero in ciò che riguarda la morale, la religione, la vi-ta, il senso dell’esistenza, la sofferenza. L’opera consta di una prefazione e tre saggi.

2.1. LA PREFAZIONE

Nietzsche parte con una costatazione: “ognuno è a se stesso il più lontano” (Nietzsche, 1979, p 5) che ci ricorda l’esigenza, sentita in modo par-ticolare da Scheler, di un’indagine sull’uomo. Come punto di partenza, Nietzsche prende la morale, delineando brevemente la genealogia di codesta dento lui: già dalla giovinezza si era chiesto sull’origine del male e avendo ripudiato la moralità, onorò Dio come padre del male. Presto imparò a distinguere tra teologia e mo-rale, negando l’esistenza di un “al di là del mondo” e si domandò sull’origine e il valore dei giudizi morali. Con il tempo seppe applicare le sue conoscenze psicologiche e storiche al prob-lema. In queste righe, con grande sincerità, Nie-tzsche svela i suoi presupposti, precompren-sioni, dato che “non esiste, giudicando rigoros-amente, alcuna scienza ‘priva di presupposti’” (Nietzsche, 1979, p 131). Per Nietzsche non si dà un intuizione disinteressata, e l’obiettività e legata al numero di prospettive usate nella ri-cerca su una cosa:

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Esiste soltanto un vedere prospettico; [...] quanto più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanto più occhi, differenti occhi, sappiamo impegnare in noi per questa cosa, tanto più com-pleto sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”. (Nietzsche 1979, p 102)

Perciò, questa piccola genealogia dello sviluppo, dentro di sé, della problematica morale è anche un’esplicitazione del suo limite prospettico. ‘A priori’ esclude l’esistenza di Dio, pone questa ‘illusione’ come fonte del male, assume i pre-supposti di un’analitica storico-psicologica. Il lettore sveglio avrà già indovinato alcune delle conclusioni!

La necessità della domanda sul valore dei valori morali, che Nietzsche sente fortemente, indica il bisogno di una storia della morale “che c’è realmente stata, che è realmente vissuta” (Nie-tzsche, 1979, p 10) in contapposizione alle indagini degli psicologi inglesi, quale Paul Rée. È proprio questo ciò che intende fare in questi tre saggi.

2.2. IL PRIMO SAGGIO: “BUONO E MALVAGIO”,

“BUONO E CATTIVO”.

Per spiegare la genesi del concetto di “buono” gli psicologi inglesi si mettono nella prospettiva di costoro che, agli esordi della società, gode-vano delle azioni non egoistiche di qual-cun’altro, utili per loro, e che perciò chiamava-no l’agente “buono”. Dimenticando quest’origine, l’uomo ha preso l’abitudine di chiamare “buone” le cose che da sempre erano considerate tali: da qui l’erronea credenza che ci siano cose “buone in sé”. Nietzsche contesta questo: per lui “buo-no” è un titolo che i nobili, gli spiritualmente aristocratici riservano a sé e al proprio agire, distinguendosi dagli altri uomini: i “plebei”, i “volgari”, i “cattivi” giustificando quest’asserzione con un’analisi etimologica.

Similmente, l’aristocrazia sacerdotale, i “puri” si distinguono dagli altri, gli “impuri”1. Così nasce il concetto di “buono” per opposizione a quello di “cattivo”.

Esiste, tuttavia, una altro concetto di “buono”: quello contrapposto a “malvagio”. La ribellione degli schiavi (cattivi, plebei, volgari, deboli...), pieni di risentimento contro gli aristocratici (buoni, nobili, forti...) è iniziata quando il ris-entimento divenne creativo, producendo valori. Valori, però, che presuppongono un mondo es-traneo e avversario contro il quale re-agire. Il mondo avversario si identifica nel nobile: ques-to diviene oggetto di odio e viene etichettato “malvagio”. Di conseguenza, diventa “buono” ciò che non è nobile - il volgare, le cose basse, la debolezza. Le persone nobili e il loro agire ha sempre un che di “bestiale”, “barbaro” che rivela la loro vitalità: essi dicono sì alla vita. I valori del risentimento, invece, propongono l’addomesticamento di questi tratti da animale di rapina: questo processo, chiamato civi-lizzazione, è propriamente un contaggiare i for-ti con la malattia dei risentiti. Il risultato è la stanchezza vitale che oggigiorno si può cos-tatare nell’uomo contemporaneo e nel suo agi-re: ecco il nichilismo!

Questo processo, così come lo conosciamo noi "occidentali" odierni (e come lo conobbe l'Europa industrializzata a cavallo dei secoli XIX e XX), parte dal giudaismo - da un popolo sac-erdotale di schiavi risentiti. Nel cristianesimo, però, questa ribellione ha trovato la forza suffi-ciente per affrontare l’aristocrazia di Roma e per prevalere lentamente su questa lungo il corso di due mila anni. Una rivoluzione così

1 La distinzione tra l’aristocrazia cavalleresca e quella sacerdotale danno a Nietzsche l’occasione di fare cenno a quel che sarà sviluppato nei saggi seguenti.

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graduale che è diventata invisibile alla coscien-za dei più. Citando passi di Tommaso d’Acquino e di Tertulliano dove si descrive la beatitudine dei “redenti” nel vedere le pene dei “dannati”, Nietzsche cerca di dimostrare che il cristia-nesimo è fondato sul risentimento (1979, p 35-37). Egli nota, tuttavia, che l’aristocrazia roma-na si è risvegliata più volte tra le file cristiane lungo questi due mila anni, per essere poi di nuovo tarlata: l’aristocrazia rinascimentale dal protestantesimo, l’assolutismo francese dalla rivoluzione francese. Ciononostante, tutto ques-to non significa che è stata detta l’ultima parola: Nietzsche mostra speranza che l’antico ideale si risveglierà, scoppierà di nuovo. Da parte nostra ci si chiede di cominciare a pensare in questa direzione.

2.3. IL SECONDO SAGGIO: “COLPA”, “CATTIVA

COSCIENZA” E AFFINI

Niezsche distingue nettamente tra “coscienza” e “cattiva coscienza” perché gli sta a cuore dimostrare che la “cattiva coscienza” non è un’ulteriore foma di “coscienza”, come si è ten-tati di credere. Per questo presenta una gene-alogia diversa delle due.

2.3.1. LA GENESI DELLA COSCIENZA

L’uomo, per Nietzsche, è l’ “animale cui sia con-sentito far delle promesse” (1979, p 41). Per fare promesse, ci vogliono delle conoscenze, delle capacità le quali permettono di superare quel mondo di cose e di atti che costituisce il baratro tra l’ “io voglio... io farò” della promessa e l’atto promesso. Per poter rispondere di sé come av-venire, l’uomo dovette diventare calcolabile, regolare, necessario per se stesso. Inoltre, bi-sognava che egli acquisisse una dimenticanza attiva (inibizione) e una memoria attiva (so-spensione dell’oblio). Per tutto questo fu neces-

saria un’educazione che rendesse l’uomo un uguale tra uguali: Nietzsche la chiama “eticità dei costumi”. Questa “sociale camicia di forza”, però, non fu lo scopo del processo, bensì sola-mente il mezzo: lo scopo fu la formazione di un individuo sovrano, uguale soltanto a sé, auton-omo, riscattato dalla stessa “eticità dei costumi” e dunque capace di promettere con fermezza e gravità, onorare le promesse a prescindere dagli eventuali imprevisti, insomma, in breve, re-sponsabile, nobile. È proprio questa capacità dell'uomo ciò che Nietzsche designa come “co-scienza”.

La genesi della coscienza dunque rispecchia lo sviluppo della memoria in un “intelletto dell’attimo”: l’unica pedagogia plausibile al nos-tro autore, in questo stadio di minorità dell’uomo, è quella del dolore, crudeltà, sacrifi-ci, quali sacrifici, appunto, si manifestano nei sanguinari culti religiosi. Peraltro, questo vio-lento sradicamento di tante idee (dimenticanza attiva) allo scopo di fissare quelle poche nozioni fondamentali della convivenza sociale si rispec-chia anche - ovviamente con altre finalità - nell’ascetismo).

Al paragrafo 4 della seconda dissertazione, Nie-tzsche si accinge ad affrontare la cattiva cosci-enza con un cenno polemico ai soliti “genealo-gisti della morale” che serve a completare la sua genealogia della coscienza. Codesti partono dal contesto commerciale: il debitore (“colpevole”), almeno dal punto di vista del creditore, “meri-ta” la “pena” perché avrebbe potuto agire altri-menti. Questa concezione presuppone il con-cetto di “libertà del volere”. È certamente più plausibile rintracciare la genesi del concetto di “debito” a partire dalla collera del creditore danneggiato (un’ulteriore forma di crudeltà pedagogica?) la quale si riesce a mitigare e de-limitare solo con una promessa... quella insita

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nel riconoscersi “debitore” da parte di chi com-pie il danno. Nasce qui il contratto con pegni, e come il Shylock shakespeareiano, il pensiero di Nietzsche cade subito sulle mutilazioni. Che senso ha per un creditore stabilire come gar-anzia una libbra di carne... né più, né meno? Co-sa ci guadagna? Un detterrente contro l’insolvenza, forse? Nietzsche esclude questa giustifiacazione in favore di qualcosa di più originario: il piacere di fare violenza. È proprio questo istinto sadico a fondare il diritto si-gnorile di maltrattare un inferiore dal quale scaturisconi i concetti morali di “colpa”, “cosci-enza”, dovere”, strettamente legati, – come ab-biamo prima sottolineato – alla sofferenza e alla gioia festiva di veder soffrire qualcuno in pub-blico.

Per Nietzsche, assistere ad un autodafé fa bene – non si vergogna per niente dell’umanità di fronte a questa espressione della sua vitalità. Il vero problema che può susitare disagio in ques-to atto crudele non è la sofferenza bensì l’assurdità del soffrire. Si tocca qui il punto nodale del saggio: l’uomo si chiede “che senso possa avere la sofferenza”? La risposta offertaci – al parere di Nietzsche – dal mondo classico rieccheggia gli studi filologici dell’autore sulla tragedia: la sofferenza fa spettacolo e lo scopo del soffrire è quello di dare spettacolo. E se mancano gli spettatori ecco pronto il pantheon: una schiera di spettatori onnipresenti fatti ap-posta per dar senso alla sofferenza umana. Così anche la “virtù” acquista senso: prima che sia venuto Socrate a mettere in discussione tutto questo, la rispota di Eutifrone esprimeva l’opinione dell’autentico mondo greco: “giusto è ciò che piace agli dei”. A questo punto, l’uomo-attore si rendo conto di poter piacere o meno all’udienza e scopre la libertà del volere. Certo,

un mondo deterministico sarebbe uno spettaco-lo troppo noioso per gli dei!

A questo punto, la Comunità appare sul palc-oscenico nietzschiano, pure questa come le sue sorelle Coscienza, Colpa, e Morale, è figlia del potente Commercio. Ad alcuni dei fra noi, può sembrare che il drammaturgo abbia attinto troppo da quegli “inglesi” che intende confuta-re. Ma lo spettacolo continua: la comunità, in quanto creditore collettivo non si può evitare ed ecco la Legge, il trasgressore rischia la guerra o l’espulsione. Così la comunità cresce e il sin-golo malfattore può nuocere ben poco a questa immane collettività. Nasce qui l’esigenza di proteggere il delinquente dall’ira degli offesi più diretti ed ecco la teoria che distingue il de-linquente dalla sua azione (diritto penale). Si riscontra qui una relazione di proporzione tra il potere della comunità e la mitezza del diritto penale che Nietzsche giustifica con la sua gene-alogia della grazia: è un lusso del forte lasciare impunito l’offensore per mostrarsi sommamen-te potente. Così il gran nobile e ancor più, la comunità come ente, risulta al di là della giustizia!

2.3.2. LA GENESI DELLA CATTIVA COSCIENZA

Un’ulteriore teoria che cerca di spiegare la genesi del concetto di “giustizia” (e dunque del diritto) parte dagli impulsi di vendetta degli offesi – in questo caso, la giustizia sarebbe frut-to del risentimento (cf. Nietzche, 1979, p. 56). Nietzsche condanna subito questo “consacrare la vendetta sotto il nome di giustizia” ma prende le mosse da questa teoria per elaborare la gene-alogia della cattiva coscienza.

L’analisi parte da un’osservazione metodologi-ca: l’origine di un fenomeno come la pena non va ricercata nel senso che il fenomeno ha in questo momento storico. Il senso attribuito ad

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un tale atto è fluido, a maggior ragione quello di un’atto crudele come la pena. Perciò, se oggi si usa mandare qualcuno in carcere per destare in lui il rimorso, il “pentimento” non significa per questo che la cattiva coscienza abbia origine nella pena. Il delinquente di oggi, e ancor più quello dei tempi antichi, stenta a collegare il “mi hanno beccato” con l’“ho torto”; sarà più propenso a dire “ho calcolato male”, “ero sfor-tunato”, “mi sono ingannato nel fidarmi di quello”; morale della favola: “pazienza... più for-tuna alla prossima... più scaltrezza e diffidenza in futuro”.

Se dunque la dura pena blocca lo sviluppo del rimorso, la cattiva coscienza avrà origine nella società pacifica. In una società tale si rifiuta l’externarsi degli antichi istinti di distruzione, crudeltà: nasce da qui la frustrazione legata al mancato appagamento di queste espressioni della vita. Il sollievo si scopre dunque operando crudeltà e distruzione sottobanco: quale miglior vittima di se stessi? Ecco nata l’“anima”! In questo caso, il bisogno di uno spettatore divino si fa ancor più urgente.

A questo punto, però, Nietzsche fa una serie di passaggi poco chiari. Da una parte, la società “pacifica” e l’opera di una terribile tirannide e dunque la crudeltà e la possibilità di infliggere una dura pena c’è. Essendo riservata al tiranno, però, sono gli istinti violenti dentro la popola-zione a non trovare sbocco. Dall’altro lato la genesi della cattiva coscienza sembra derivare dalla domanda sul senso della sofferenza: ques-ta spunta mentre si vive una continua paura di patire qualche nuovo atto di crudeltà sempli-cemente per soddisfare il gusto del sadico del tiranno. Intanto Nietzsche aggiunge un’uteriore complicazione: la cattiva coscienza può nascere anche quando il rapporto contemporanei-progenitori si informa dal rapporto debitore-

creditore. In questo caso, il debito verso gli avi non si estingue mai, anzi aumenta, frustrando tutta la società. Più la stirpe diventa potente più cresce la coscienza del debito, tanto che il pro-genitore diventa Dio. La religione dei potenti passa ai popoli soggiogati. A questo punto Nie-tzsche identifica il culmine di questo processo nel cristianesimo: il Dio cristiano rappresenta un’esasperazione della coscienza di colpa. Ecco-lo introdotto ex machina nella sceneggiatura nietzschiana! A noialtri rimane oscuro come questo culmine si verifica proprio in un popolo di schiavi, di perdenti, e ancor più come suc-cede quel mirabile prodigio che gli schiavi trasmettano la loro religione ai padroni. Nie-tzsche ci darà qualche indizio nel terzo atto; in-tanto si diverte ad esporre l’ “assurdità” del cristianesimo: l’autolacerarsi ‘per amore’, che diventa atto divino per eccellenza nel Cristo. Mentre le divinità greche servivano a fare mit-igare la responsabilità del colpevole (la disgra-zia è piuttosto dovuta ad un dio) il Dio cristiano serve ad aumentare sempre più il senso di colpa dell’uomo.

2.4. IL TERZO SAGGIO: CHE COSA SIGNIFICANO

GLI IDEALI ASCETICI?

Si alza il sipario e vediamo sei personaggi: un artista, un dotto (o filosofo), una donna, un “fisiologicamente malriuscito”, un sacerdote, un santo (mistico). A ciascuno di essi, Nietzsche pone una domanda: che cosa significano gli ide-ali ascetici per te? Poi girato verso l’assemblea fa la medesima domanda, e dà egli stesso la risposta: l’ideale ascetico “esprime il fondamen-tale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta – e pre-ferisce volere il nulla, piuttosto che non volere” (1979, p. 80).

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Dopo quest’ouverture, Nietzche ci introduce ai personaggi. L’artista si chiama Wagner, per lui, in fondo, l’ideale ascetico non significa niente: gli artisti in quanto spiriti staccati dal reale, ad-ulatori dei potenti e cortiggiani degli ammirato-ri non vanno presi sul serio. Così si spiega il carattere di Parsifal, elogio della castità nell’artista che qualche anno prima elogiava la sensualità celebrando la nozze di Lutero.

Il filosofo si chiama Schopenhauer. Gli ideali ascetici servono al filosofo per soddisfare la sua tendenza al proprio maximum: per poter con-templare in pace, il filosofo è disposto a rinun-ciare a moglie e figli, e ancora, è pronto persino a travestirsi da prete, mago. Così la gente smette di considerarlo come fannullone, anzi, inizia a temerlo. Ma per rappresentare l’ideale ascetico (nella figura del prete) il filosofo finisce per credere in esso.

Nietzsche passa subito ad intervistare il prete. Per costui, l’ideale ascetico costituisce niente meno del diritto all’esistenza. In esso, la vita si ritorce contro se stessa, diventa un’errore da confutare. Errore? Qual è la verità? L’asceta risponde con Kant: “Esiste un regno della verità e dell’essere, ma proprio la ragione ne è esclusa!” Spunta qui il desiderio di verità, che costituise il fulcro della dissertazione.

La verità [...] anche se non è “vera” ma soltanto ri-tenuta tale, infonde nell’uomo un senso di sicurezza (Aurora, a.26). Il “desiderio di verità”, intesa come “giudizio universale”, sembra, ad avviso di Nie-tzsche, essere connaturato alla stessa natura uma-na, e quindi imprescindibile dall’esistenza [... . “I]l mondo ha eternamente bisogno della verità” anche se essa può essere definita come “l’esaltata follia di un dio”. [...] La verità è un pensiero inaccettabile da parte di Nietzsche convinto che l’universo segue il ritmo del divernire in cui non c’è spazio per nulla di assoluto e quindi nemmeno per una verità assoluta. [...] Il filosofo tedesco invita ad apprezzare

“verità meno appariscenti”, che pur non derivando da una miracolosa rivelazione sono dotate di pari legittimità (Umano, Troppo Umano I, a: 609). (Mazzola in Penzo, 1999, pp. 374-375)

“L’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e di salute di una vita degenerante” (Nietzsche, 1979; p. 102) e in esso si fa palese il potente desiderio di essere-in-altro-modo. Il prete ascetico invece si inganna, cercando di creare condizioni più favorevoli per il suo es-sere-qui-così. La sua volontà di potenza si es-prime nel tenere insieme un gregge di malati. Per il nostro filosofo, questa è una bella cosa... per evitare il contagio dei sani, ci vuole un ma-lato che faccia da infermiere ai malati.

Ma di quale malattia stiamo parlando? Nie-tzsche fa la diagnosi: mentre il sano prova paura dinnanzi all’uomo, qui troviamo delle persone che provano nausea di fronte all’uomo, compas-sione per l’uomo. Questi fanno scaturire il nichilismo (negattivo): la volontà del nulla. L’uomo cade nell’autodisprezzo e diventa un rimprovero vivente per gli altri, i sani: “solo io sono ‘giusto’ perché mi riengo ‘colpevole’, ‘pec-catore’”. Il prete ascetico trova in questa situa-zione la propria ragion d’essere: si preoccupa di difendere il gregge contro i sani e, impresa più ardua, contro l’invidia per i sani. Alla domanda del malato: “di chi è la colpa?” il prete risponde “tua!”. Con questa brillante trovata, il prete mu-ta la direzione del risentimento. Ci riaggancia-mo qui alla genealogia della cattiva coscienza della seconda dissertazione. È evidente in tutto ciò che questa diagnosi del prete risulta del tut-to superficiale: dal punto di vista dei sani serve semplicemente a rendere innocui i malati. Tut-tavia le cure prescritte dal prete-medico pos-sono essere a loro volta dei placebo o addirit-tura nocivi. Le cure “innocenti” includono l’attivita macchinale (“santificazione del la-

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voro”), le piccole gioie legati alla volontà di po-tenza (“carità”) e la soddisfazione della tenden-za gregaria dei deboli (incontri, liturgie pubbli-che...). “Colpevoli” invece, sono quelle cure che non solo curano la sofferenza (effetto) invece della malattia (causa) ma che lo fanno in modo tale da peggiorare la malattia. Si cerca dunque di stordire il dolore con l’affetto utilizzano le grandi passioni: ira, disperazione, crudeltà... La cattiva coscienza diventa “peccato”, e subito appare il significato della sofferenza: si soffre perché si è colpevoli. E dunque bisogna espiare: tormentare (ecco la volontà di potenza) se stessi. Così la sofferenza aumenta e ci ritrova in un circolo vizioso: più soffro, maggiore è la colpa, maggiore la colpo, più devo espiare, più soffro. Con queste tecniche “colpevoli”, la malattia si peggiora fino a diventare “la vera fa-talità nella storia sanitaria dell’uomo europeo” (Nietzsche, 1979, 124).

Con questo, Nietzsche mette in ribalta quello che l’Europa del suo tempo si rifiutava di accet-tare: la potenza del prete. Di frontre alla sua grande meta, gli altri interessi umani sembrano meschini! Il suo sistema di interpretazione pre-tende di dare senso a tutte le cose. E proprio qui, il filosofo tedesco si mette alla ricerca di possibili alternative. L’idealismo dei dotti, degli cosiddetti “spriti liberi”? È un’ulteriore creden-za, fondata sulla volontà di verità (a tutti i cos-ti)... alla fine dei conti si riduce ad un’altra for-ma dell’ideale ascetico. La scienza moderna? Non è che un ulteriore mezzo di autostordimen-to della volontà di verità, in quanto fondata sul presupposto che la verità non è suscettibile di valutazione e di critica. La storiografia? Questa non vuol dimostrare nulla bensì semplicemente “descrivere”, riducendosi così ad un ulteriore forma di ascesi metodologica.

Gli unici reali nemici dell’ideale ascetico, Nie-tzsche li vede solo all’interno dell’ideale: sono i “commedianti” dell’ideale che suscitano diffi-denza (1979, p. 138). Lo stesso ateismo “incon-dizzionato”, contiene ancora il nocciolo dell’ideale ascetico: la volontà di verità. È stata proprio l’educazione alla verità, frutto dell’ascetismo, a proibirci la menzogna della fede in Dio! Così si verifica il trionfo della mo-ralità cristiana sul Dio cristiano portando l’Europa in un nichilismo negativo che fa ri-cordare il buddismo e Schopenhauer. Tuttavia, Nietzsche sente che siamo alla fine e spera che la morale cristiana perisca ad opera di se stessa, come “tutte le cose grandi”. L’autosuperamento risulterebbe dal confrontarsi con la domanda “che cosa significa ogni volontà di verità?”. Una speranza dunque? Noi spettatori non ci fidiamo tanto... sono passati cento anni e siamo ancora nel nichilismo negativo. Sappiamo bene che non c’è tragedia a lieto fine. Eppure, chissà... neppure questo è verità assoluta!

3. LA FENOMENOLOGIA DEL

RISENTIMENTO

Veniamo dunque al saggio di Scheler, il quale, come abbiamo accenato prima, parte con una lunga citazione tratta dalla prima dissertazione della Genealogia della Morale riprendendo la descrizione del risentimento fatta da Nietzsche. Scheler pone dunque una sua definizione di ris-entimento:

Il risentimento è un autoavvalenamento dell’anima con cause e conseguenze ben determinate. È un at-teggiamento psichico permanente, che nasce da un’inibizione sistematica dello sfogo di certi moti dell’animo ed affetti, che in sé sono normali e che appartengono alla struttura di fondo della natura umana. (Scheler, 1975, p. 31)

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Come esito principale del processo di risenti-mento, Scheler indica l’impulso di vendetta (distinto dall’impulso al contrattacco) che si da in due momenti ben identificabili: il raf-frenamento (almeno temporaneo) dell’impulso (di ira, collera...) e il differimento della ritorsione (ad altro tempo, più favorevole). A sua volta, il trat-tenimento dell’impulso è dettato da un’anticipazione riflessa della disfatta nel caso di una immediata risposta all’offesa, e da un sen-timento concomitante di impotenza.

Scheler ci dà una progressione di fenomeni psichici a partire dall’impulso di vendetta at-traverso il rancore, l’invidia, la malevolenza e la perfidia verso il risentimento vero e proprio. Nella vendetta e nell’invidia si riscontra un og-getto determinato e così la realizzazione della vendetta o l’entrare in possesso dell’oggetto dell’invidia toglie il sentimento. Nella malevo-lenza, nella perfidia e nella compiacenza del danno altrui l’oggetto del sentimento va sempre più offuscandosi e il risentito “cerca oggetti e motivi su cui sfogarsi in uomini e cose” (Schel-er, 1975, p. 33). Il risentimento vero e proprio scaturisce da questi sentimenti solo se si danno due condizioni: (a) che il sentimento non venga moralmente superato (per es. con il perdono) e (b) che non sia seguito da un’azione, in partico-lare quando la mancanza di tale azione sia dovuta alla consapevolezza della propria im-potenza.2 Questo vuol dire che il risentimento è una malattia propria degli schiavi e dei peren-nemente dominati – altri tipi di persone pos-sono diventare ‘risentiti’ solo attraverso il con-tagio psichico.

2Scheler ci tiene a sottolineare che colui che consegue il bene desiderato con il lavore, il crimine, la rapina non cade nel risentimento.

3.1. I ‘SENTIMENTI’ E I ‘TIPI’ DEL

RISENTIMENTO

L’autore seguita a descrivere con grande arte i fenomeni psichici, i loro sintomi, il loro svilup-po. Sarebbe un’esercizio interessante confron-tare queste pagine con i risultati di alcuni studi psicologici fatti in questo campo nel corso dell’ultimo secolo, specialmente dalla scuola ‘umanistica’ (Karl Rogers, Victor E. Frankl) – (cfr., per es., con Cencini e Manenti, 1997). Scheler parla di meccanismi inconsci di vario genere: – rimozione, fantasie schizoidi, “uve amare”, proiezione, mania di persecuzione – nello sviluppo del sentimento di vendetta. Due fattori, in particolare, promuovono l’ulteriore deteriorarsi della condizione: (a) una parità di posizione tra l’offensore e l’offeso e (b) il sentire l’offesa come destino da parte dell’offeso3.

Dopo una descrizione della “critica del risenti-mento”, Scheler passa a parlare di invidia, gelosia e smania competitiva, mostrando come anche queste sono legate ai suddetti fattori:

L’invidia più impotente è la più terribile. L’invidia, che produce la forma più acuta di risentimento, è perciò l’invidia che si volge contro la natura e l’esistenza individuale di una persona estranea: l’invidia esistenziale. (Scheler, 1975, pp. 41-42)

Scheler giunge qui a considerare la ‘compara-zione di valore di sé con altri’ e quella che chiameremmo ‘stima di sé’4. La comparazione contribuisce al risentimento se c’è bassa stima di sé, cioè se si scopre il proprio valore nello

3Lo schiavo si ribella quando si convince che la sua posizione sociale esteriore è inadeguate. A questo proposito, si veda gli studi sociologici di de Tocqueville e di Brinton e Edwards sulle rivoluzioni (accennati nell’‘Enciclopedia Garzanti di Filosofia’, 1993, voce “Rivoluzione”).

4Scheler la chiama ‘naturale coscienza di sé’ (Scheler, 1975, nota 6).

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stessa comparazione, non quando si fa una tale comparazione già consci del proprio valore. È proprio una stima di sé positiva che permette di cogliere i valori positivi nell’altro e nel mondo:

Proprio questo ingenuo senso del valore del suo io [...] è ciò che consente alle persone elevate di accet-tare dentro di sé tranquillamente i valori positivi degli altri in tutta la ricchezza del loro contenuto [... .] Il fatto che anche l’universo contenga questi valori in misura ancora maggiore riempie di gioia l’anima “elevata” e rende a lei il mondo più ama-bile che mai. (Scheler, 1975, p. 43)

Dopo un cenno alla sua fenomenologia dei val-ori (cf. le prime edizioni de “Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori”), l’autore passa ad una critica della politica moderna come “sistema di concorrenza” che ha perso i valori dei ceti sociali. I gradini della scala so-ciale non hanno valore... c’è un’ “intrinseca mancanza di limiti dell’ambire” che rovescia la concezione antica per la quale “ciascuno detiene nel suo agire la ‘distinzione’ formale di essere insostituibile nel proprio posto” (Scheler, 1975, p. 45). I risultati: si perviene (a) ad una riduzione dei beni concreti a “merce” e (b) ad una concezione del fluire del tempo (degli indi-vidui e delle comunità) come “progresso”. Scheler si confronta con la crematistica moder-na (denaro-merce-denaro) – a questo punto sembra di risentire la polemica di Aristotele contro il mercante (Pol., Eth. Nich.) e condanna quello che noi chiameremmo ‘consumismo’. Anche le fasi della vita vengono ridotti a punti su una riga uniforme e continua e la pedagogia considera fanciullezza e giovinezza esclusiva-mente come “forme preparatorie della ma-turità” (Scheler, 1975, p. 46).

Aggiungendo l’impotenza a questo at-teggiamento relativistico nei confronti dei val-ori si giunge a gravi aberrazioni nel percepire: il

‘buono’ diventa il ‘desiderato’ e se non si desid-era più un dato valore, questo sembra perdere del tutto il suo valore! Se dunque il servo per-cepisce il suo ruolo come una scalina sulla scala mobile socale ma si sente impotente di ambire l’ascesa, ecco giungere il ‘deprezzamento dei valori’ invece di un sano ‘atto di rassegnazione’. Se non posso diventare re, allora il trono vale poco o niente. Qui, Scheler si riaggancia alla critica nietzschiana del “travisamento dei valori operato dal risentimento”.

[I] valori ci sono per [il risentito] come positivi ed alti ma nello stesso tempo sono velati dai valori travisanti, attraverso i quali, quasi fossero “trasparenti”, tralucono appena debolmente. Ques-ta “trasparenza” dei valori oggettivi veri attraver-so i valori apparenti loro opposti dall’illusione del risentimento, questa oscura coscienza di vivere in un mondo di apparenze non genuino, senza la forza di penetrarlo e vedere ciò che è [...]. (Scheler, 1975, p. 49-50).

Così Scheler ci presenta sommariamente la sua critica dell’inautenticità innestandosi sulla tronco di pensiero etico che va da Rousseau at-traverso Heidegger fino a Charles Taylor.

A questo punto, Scheler ci presenta alcuni ‘tipi’ del risentimento: la donna che travisa il vero valore del pudore (sia ella ‘prude’ o ‘prosti-tuta’); l’anziano che detrae i valori della gio-vinezza (per esempio, il “funzionario in pen-sione” nei confronti della “nuova gestione”); la suocera; il teppista. Alcuni professioni poi vengono segnati ‘ad alto rischio di risentimen-to’: Il prete, l’operaio, l’“apostata”, il nostalgico. A proposito del prete, Scheler dice che il perico-lo di risentimento è alto siccome egli (a) non si poggia su mezzi terreni di potere ma anzi rap-presenta per principio la debolezza dei medesimi e siccome (b) egli è ministro di una istituzione storica, situato nel bel mezzo delle

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lotte di parte mondane, che deve tuttavia rap-presentare il principio della pace. (Scheler, 1975, p. 57). L’autore precisa però che l’autentico martirio di fede “non contiene la pure minima traccia di risentimento”.

Alla fine di questo escursus, Scheler giunge a delineare la “struttura formale dell’espressione di risentimento”:

si approva, si sostiene, si loda A non per le sue qual-ità intrinseche bensì con l’intenzione che rimane però non detta a parole, di negare, svalutare, riprovare B. A viene “giocato” contro B. (Scheler, 1975, p. 60)

3.2. RISENTIMENTO, RIMOZIONE,

RIVOLGIMENTO CONTRO SE STESSI

Per capire meglio il processo del risentimento, bisogna indagare circa la rimozione (Verdrängung)5 la quale toglie l’oggetto al più immediato sentimento psichico6.

Le componenti principali della rimozione sono (a) “la rimozione della rappresentazione dell’oggetto a cui era rivolto l’affetto” (Scheler, 1975, p. 62) e (b) l’azione verso l’interno eser-citata dallo stesso affetto, “dal momento che gli viene inibito uno sfogo esterno” (p. 64). Un’esempio della prima componente è l’”odio di classe” in cui “ogni manifestazione, gesto, abito, maniera di parlare, di muoversi, di comportarsi, che sia sintomo di appartenenza ad una ‘classe’ basta già a mettere in moto l’impulso di vendet-ta e di odio oppure in altri casi a suscitare timore, ansia, rispetto” (Scheler, 1975, p. 62). A

5Ricordiamo in proposto le ricerche freudiane contem-poranee al saggio.

6Per distinguere tra sentimento con e senza oggetto, Scheler fa l’esempio della distingizone fenomenologica tra la ‘paura’ e l’‘ansiosità/angoscia’ che ci fa ricordare l’ampio trattamento heideggeriano in ‘Essere e Tempo’.

proposito della seconda componente, l’autore fa riferimento alla teoria nietzschiana della genesi della cattiva coscienza (cf. sopra, sez. 2.3.2). Se-condo Scheler, Nietzsche ha ignorato la prima componente nella prima tesi (autolesione come risultato dell’inibizione degli impulsi vitali nel caso di un piccolo popolo bellicoso inserito in una grande civiltà pacifica). Ma, al di là di ques-ta critica di metodo, Scheler muove in queste pagine una dura critica alla concezione nie-tzschiana di ‘moralità’.

La moralità autentica non si fonda affatto – come opina Nietzsche – sul risentimento. Essa poggia su una gerarchia di valori eterna e sulle leggi evi-denti di precedenza corrispondenti a tale gerarchia che sono oggettive e rigorosamente intelligibili quanto la verità della matematica. Si da un “ordre du coeur” ed una “logique du coeur” – come dice Pascal – che il genio etico va scoprendo rap-sodicamente nella storia e che non sono in sé sessi storici: “historica” ne è piuttosto la comprensione e la conquista (Scheler, 1975, p.66).

In contapposizione a questo, Scheler aggiunge – questa volta in sintonia con Nietzsche – che il risentimento è “una delle cause del rovesciamento di quell’ordine eterno nell’ambito della coscienza umana”.

4. LA MORALE CRISTIANA: L’AGÁPE

Da questo punto in poi, il saggio assume le veci di un’elogio della morale cristiana e una critica della morale borghese. Perciò, prima di prose-guire, ci sembra giusto riportare la definizione di ‘morale’ che Scheler dà nel secondo capitolo del saggio.

Una “morale” è un sistema di regole di preferenza tra i valori stessi, un sistema che si deve scoprire oltre le valutazioni concrete di un’epoca e di un popolo quale sua “costituzione morale” che a sua

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volta può subire un’evoluzione (Scheler, 1975, p. 74).

La tesi di fondo è (a) che il risentimento “real-izza la sua massima prestazione quando diventa il determinante di tutta una ‘morale’ al punto che le sue regole di precedenza si pervertono alla loro volta e appare ‘buono’ ciò che prima era un ‘male’” (p.75), (b) che “i valori cristiani sono esposti con straordinaria facilità a degen-erare nel loro significato in risentimento [ma tuttavia] il nocciolo dell’etica cristiana non è cresciuto sul suolo del risentimento”, e (c) che in-vece il perno della moderna morale borghese “abbia la sua radice nel risentimento” (p. 76).

4.1. EROS E AGÁPE

Per contrastare la tesi nietzschiana a proposito dell’amore cristiano (che Scheler considera “tanto profonda e degna di più seria considera-zione quanto altra mai formulata in questa direzione”, benchè “completamente falsa” (1975, p. 77)) il saggio ci offre un tuffo nell’età classica.

Per i Greci, l’amore (“eros”, “amor”) “rimane pur sempre un fatto della sfera sensibile, una forma di ‘desiderio’ e di ‘bisogno’ ecc., che non compete all’essere perfettissimo” (Scheler, 1975, p. 78). L’eros è concepito come una ten-denza dell’ ‘inferiore’ al ‘superiore’, e nasce proprio dalla scissione tra ‘amante’ e ‘amato’ nella quale questo figura come più nobile di quello. Il Dio-parádeigma di Platone e il Dio-nous di Aristotele non si rivolgono verso il bas-so, verso gli altri enti. Non essendoci un grado più alto a cui rivolgersi, il motore immobile ar-istotelico si rivolge verso se stesso, costituen-dosi cosi in ‘pensiero di pensiero’. In questa ‘ca-tena dell’essere’ gerarchicamente proiettata verso l’insù, l’amore risulta semplicemente

come “un principio dinamico immanente all’Universo, che muove questo grande ‘agone’ delle cose per la conquista della divinità” (Scheler, 1975, p. 80).

Al contrario, l’amore cristiano e una “intentio spirituale soprannaturale che spezza e dissolve ogni norma della vita naturale spontanea – ad esempio odio per i nemici, vendetta e ritorsione – e deve situare l’uomo ad un livello di vita af-fatto nuovo” (p. 78). Inteso come “moto di ri-torno”, l’amore cristiano

si deve dimostrare proprio con il fatto che il nobile si china e discende verso il non nobile, [...] il buono e il santo verso il cattivo e il volgare, il Messia verso i pubblicani e i peccatori; e ciò senza l’angoscia di perdersi e di svilirsi bensì nella convinzione auten-ticamente religiosa di ottenere – nel compimento attuale di questo “piegarsi”, “lasciarsi andare”, “perdersi” – il massimo: la somiglianza con Dio (Scheler, 1975, p. 80 – puntegg. leggermente ritoccata).

L’accento qui cade sull’atto amoroso, non sul contenuto, sull’ ‘amato’ – il valore sta proprio nell’ ‘amare’. In questa prospettiva nasce la cor-responsabilità di fronte alla malvagità: “sarebbe stato malvagio questo malvagio se tu lo avessi abbastanza amato?”; il non-amore – prima an-cora del torto vero e proprio – è già colpa. La gerarchia classica è dunque rovesciata: “oni membro si volge indietro a chi è più distante da Dio e lo aiuta e lo serve e proprio così facendo diventa simile alla Divinità, che appunto questo ha per essenza: un grande amare e servire e ab-bassarsi” (Scheler, 1975, p. 82-83).

La domada però rimane: come mai tutta questa differenza tra grecità e cristianesimo? Sarà forse opera di quel tarlo chiamato ‘risentimen-to’? Scheler si muove a contastare questa pos-sibile spiegazione contrapponendo al sano nie-tzschiano, che non vuol rischiare il contagio dal

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malato, la figura del nobile cristiano. Costui ha come forza motivante un forte senso di “essere al sicuro”, “essere nell’intimo salvato” che fa scaturire la “chiara consapevolezza di potere cedere il proprio essere ed avere”. La vita non è semplicemente “sopravvivenza”: al contrario la sua essenza è proprio il dispiegamento, lo sviluppo, la crescita a pienezza. È in questa prospettiva che si può comprendere “un sacrifi-cio della vita stessa in vista di valori più alti di quelli che la vita racchiude in sé stessa” (Schel-er, 1975, p. 84). Scheler elogia qui un’indifferenza nei confronti delle circostanze della vita, del ‘destino’ che ha caratteri cavallereschi, audaci, quasi scherzosi.

Il rivolgersi del cristiano verso il malato, il pov-ero, il malvagio, il misero non è un amore dell’essere malato, misero, basso (in sé) bensì è indirizzato a ciò che sta al di là della vita ago-nizzante, a ciò che c’è di sano, ciò che è rimasto dei valori positivi. Di fronte a questo, l’atteggiamento classico di stare lontano dalla forme inferiori di vita sembra provare contin-uamente “angoscia di fronte alla vita” (p. 88).

A proposito dell’utilità dell’amore cristiano, Scheler dice che l’agápe aiuta potentemente ma non consiste nel voler aiutare. Citando il rac-conto dell’offerta della vedova (Marco 12, 41-44; Luca 21, 1-4), l’autore sottolinea che l’utilità di un’azione può essere piccola con un amore grande: “l’incremento del valore sta quindi originariamente sempre da parrte dell’amante non da quella di chi viene aiutato” (Scheler, 1975 p. 89). Il cristiano non cerca in primo luogo il massimo del benessere per tutti, ma il ‘maxi-mum d’amore’: questo distingue nettamente tra il cristanesimo il socialismo o qualche ideologia ‘altruista’.

L’interpretazione che Scheler fornisce dell’episodio evangelico del giovane ricco (Luca 18, Matteo 19, Marco 10) è emblematica del suo modo di intendere l’agápe cristiana:

Se al giovane ricco viene comandato di fare a meno delle sue ricchezze e di donarle ai poveri ciò viene fatto invero non perché i “poveri” acquistino qualcosa o perché si pensi così ad una migliore dis-tribuzione della proprietà in vista del benessere generale, tanto meno poi perché la povertà sia in sé migliore della ricchezza, bensì perché l’atto del dare via, la libertà spirituale e la ricchezza d’amore che si manifesta in tale atto nobilita il giovane ricco e lo rende ancora “più ricco” di quanto è. (Scheler, 1975, p 90)

L’autore rifiuta la concezione dell’amore verso Dio (e verso gli altri) come amore di ricono-scenza (amo Dio perché mi ha dato questo e quell’altro) – invece dalla propettiva dell’agápe, la creazione risulta amabile proprio perché è Dio che l’ha fatta. Scheler conclude che in tutta questa visione “non troviamo traccia di ris-entimento” (Scheler, 1975, p 92).

4.2. FILANTROPIA/ALTRUISMO E AGÁPE

L’altruismo, un surrogato moderno dell’amore, è per Scheler una ‘fuga da sé’, un ‘ripudio di sé’, un ‘distrarsi da sé’ che solo in un secondo mo-mento diventa un ‘rifugiarsi in altro’. Dunque, l’ “originario fuggire via da se stesso [...] poi va cercando al di fuori allo scopo di potere, dietro l’apparenza dell’amore per gli altri, odiare il proprio soggetto stesso” (Scheler, 1975, p 92). L’altruista si induga nel guardare con com-piacenza le cose meschine, la miseria proprio per togliere lo sguardo dalle cose nobili che egli odia.

Scheler si precipita subito a sottolineare che Gesù non rientra in questa categoria: se nel vangelo Gesù loda i poveri e biasima i ricchi è

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perché egli sceglie di utilizzare questa formula-zione paradossale per proclamare “l’indipendenza dei valori supremi ed ultimi della persona dalle contrapposizioni del tipo di: ricco-povero, sano-malato” (Scheler, 1975, p. 95). Rifacendosi dunque alla sua gerarchizzazione dei valori, Scheler spiega che queste parti del vangelo non si fondano sul risentimento perché di fronte all’enorme elevatezza valori della per-sona che Gesù intende comunicare, i valori del tipo “ricco” diventano marginali e quasi insig-nificanti.

Non c’è risentimento negli insegnamenti come quello del ‘porre l’altra guancia’ a chi ti schi-affeggia: non si cerca una perversione della rea-zione naturale bensì un agire indipentente dalla condotta dell’ “altro”. Parimenti, nello stare tra i poveri di Cristo, Scheler non vede risentimen-to ma anzi coglie un’amore violento, travol-gente: “Amore e senso di solidarietà con l’intera umanità ci fanno d’un tratto apparire orribile e spaventoso il fatto che abbiamo ad essere buoni in tanta solitudine unicamente in compagnia dei buoni e ciò produce una specie di nausea nei confronti di quei buoni che riescono ad essere tali da soli” (Scheler, 1975, p 98). L’amore verso il peccatore, poi, non è il turpe eros per ciò che è cattivo: esso svela ancor più chiaramente il val-ore dell’atto di agápe.

In corrispondenza con i due modi di chinarsi verso il più debole (agápe e altruismo) Scheler distingue due tipi di ascetismo. L’ascetismo del risentimento si fonda su pseudovalori e gratifi-cazioni vicarie: ad esempio, la castità può essere elevata a ‘valore’ da una persona sessualmente impotente. Scheler critica Nietzsche di identifi-care erroneamente l’ascetismo cristano con questo ascetismo del risentimento. Per Scheler, invece, c’è un ascetismo che non deriva dal ris-entimento e la vera ascetica cristiana si fonda

su questo tipo di ascesi. Oltre l’ascetica spartana (che educa a certi scopi nazionali) l’autore parla di “un’ascetica che sgorga da pienezza, vigore ed unità di vita” (Scheler, 1975, p 102). Se la vita è intesa come un fenomeno originario rispetto alla materia organica e i suoi meccanismi essa acquista valori suoi propri che non si riducono a quelli di utilità, quelli sensibili o quelli tecnici (si veda la gerarchia dei valori ne ‘Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori’.) La vita più vigorosa sarà dunque quella che cresce e progredisce con un minimo di meccanismi fi-nalisticamente adattati all’ambiente 7 . L’ascetismo positivo di Scheler consisterebbe dunque in questa tendenza della vita vigorosa di minimizzare tali meccanismi.

A questo punto, Scheler torna al confronto con Nietzsche, chiedendosi il perché del suo giu-dizio errato sulla morale cristiana. Ne trova due motivi: (a) un errore di valutazione da parte di Nietzsche, e (b) il fatto che la morale cristiana ha effettivamente subito uno sfiguramento nel-la storia a causa della reciprocità con valori di natura diversa.

4.2.1. L’ERRORE DI NIETZSCHE

Nietzsche ha sbagliato a causa del suo “miscono-scimento della natura morale cristiana e in parti-colare dell’idea cristiana dell’amore” e perché ha usato nella sua valutazione “un criterio di valore in sé falso” (Scheler, 1975, p 103). Scheler afferma che “l’ethos cristiano è inseparabile dal-la concezione religiosa che il Cristiano ha di Dio e del mondo [... e] il punto minimo di collegamento della religione cristiana con la morale cristiana è l’ammissione di un regno

7È chiaro qui il riferimento polemico all’evoluzionismo di stampo finalistico (Herbert Spencer) che considera più evolute le forme vitali più complessi (aventi il mag-gior numero di meccanismi finalisticamente adattati all’ambiente).

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spirituale i cui oggetti, contenuti e valori ol-trepassano non soltanto ogni sfera sensibile ma l’intera sfera vitale”8. Perciò, lo sbaglio di Nie-tzsche consiste nel rifiuto i valori spirituali (che Scheler mette al vertice della sua gerarchia di valori) e quindi nel giudicare l’amore cristiano usando come metro i valori vitali (e dunque la promozione vitale massimale)9. Tuttavia, la vita, per il cristiano, non è maii un “bene sommo”: “qualora il mantenimento e l’incremento della vita contrasti con la realizzazione dei valori vi-genti e consistenti nel regno di Dio, la vita non vale nulla” (Scheler, 1975, p 104). Nietzsche, proprio perché parte dalla concezione del cris-tianesimo come una “morale” munita di una “giustificazione” religiosa (e dunque non come “religione”) è costretto a interpretare “come segno di una morale di declino già l’ipotesi di un livello di essere e di valore estendendosi ol-tre la vita e non più relativo ad essa” (Scheler, 1975, p.105).

4.2.2. LO SFIGURAMENTO DELLA MORALE

CRISTIANA

Partendo dalla sua descrizione dell’amore cris-tiano, Scheler inzia già da queste ultime pagine del terzo capitolo a denunciare i travisamenti in mostra sul mercato politico e sociale moderno. Il cristianesimo ammette tranquillamente le differenze di ceto tra signore e schiavo, ricco e povero: essendo l’agápe un rapporto spirituale, non vitale o materiale, essa non ha la pretesa di

8Scheler considera privo di senso e radicalmente fallito il tentativo di “ritrovare [nella morale cristiana] i prin-cipii di una universale morale ‘umana’ o di una morale aliena da ‘presupposti’ religiosi” (Scheler, 1975, p 103).

9Abbiamo già sottolineato come Nietzsche fa questo di proposito, esplicitandolo nella prefazione della Gene-alogia della Morale (cf. sopra, sez. 1.2). Per la giustifica-zione dei valori spirituali e della loro supremazia, Scheler rimanda a ‘Il Formalismo nell’etica e l’etica ma-teriale dei valori’.

annullare le differenze vitali (per es. i fattori naturali spontanei che rendono gli uomini re-ciprocamente ostili) o materiali (per es. l’inequa distribuzione economica della proprietà). La filantropia moderna, frutto del risentimento, promette utopie socio-politiche, un’ “universale fratellanza degli uomini”, la fine dell’inimicizia; spesso i suoi propugnatori presentano questi come se fossero principi cardini del cristia-nesimo. Invece, secondo Scheler, “nella predica dell’amore per il nemico è presupposto che c’è l’inimicizia, che ci sono nella natura umana forze costituzionali non trasformabili stori-camente che in certe circostanze producono necessariamente l’inimicizia” (Scheler, 1975, p 107). Ignorando questo, si è giunti alle ideolo-gie moderne che concepiscono l’uomo come una “moderna bestia di gregge addomesticata” (Nietzsche, cit. in Scheler, 1975, p 107). Il per-dono cristiano non si prefigge di far cessare o di ridurre gli impulsi di vendetta e sopraffazione bensì il libero sacrificio delle espressioni rela-tive a questi impulsi in favore dell’atto del “perdono”, in sé pieno di valore.

Scheler dice che le “immagini di ‘Cielo’, ‘Purga-torio’, ‘Inferno’” contraddicono la tesi che “gli uomini ‘all’occhio di Dio’ debbano risultare tutti di eguale valore” (Scheler, 1975, p.109). La co-munione dei beni nella Chiesa primitiva e nelle comunità religiose non è comunismo, espropri-azione operata forzatamente dallo Stato; è in-vece “un’espressione esteriore di quell’unità ‘del cuore e dell’anima’” e quindi si fonda su donazioni volontarie, atti liberi di amore e sac-rificio (cf. Scheler, 1975, pp. 110, 111). Inoltre, è chiaro, da quanto precede, che l’agápe e il sacri-ficio cristiano non sono quell’amore e quel sac-rificio che Herbert Spencer dice diventeranno sempre più superflui man mano che vengano

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sostituiti da un crescente riconoscimento dei diritti da parte della legge.

5. LA MORALE BORGHESE

5.1. LA FILANTROPIA

5.1.1. L’OGGETTO DELLA FILANTROPIA

La filantropia universale moderna – che Scheler chiama anche “umanitarismo” o “amore per tutto ciò che abbia il volto d’uomo” – non si rivolge al divino nell’uomo ma all’uomo in quanto uomo e perciò risulta come frutto di una protesta contro l’amore di Dio. Prescindendo dall’amore di Dio, la filantropia si distanzia su-bito dall’autentico “amore del prossimo” cris-tiano, il quale è intimamente e armoniosamente legato all’amore di Dio e al sano amore di sé. Parimenti, l’amore cristiano si estende ai morti, agli angeli, ai santi, all’intera natura di tutti i tempi, mentre la filantropia concerne solo l’ “umanità” del presente, staccata dal “regno di Dio”. Inoltre, la filantropia esclude a priori amori preferenziali per qualche parte dell’umanità, considerando questi come sot-trazioni all’intero: per essa “ciascuno conta solo per uno e nessuno per più di uno” (Principio di Bentham, cit. in Scheler, 1975, p. 115).

5.1.2. L’ASPETTO SOGGETTIVO DELLA

FILANTROPIA

L’autore chiama la filantropia un “sentimento situazionale” che sorge per “trasmissione di contagio psichico”: essa appartiene alla strut-tura psicho-fisica dell’uomo mentre l’agápe si colloca al livello spirituale. Per questo, autori come Hutcheson, Adam Smith, Hume, Bain, Rousseau descrivono la filantropia come una forma di simpatia, compassione o gioia sim-patetica fondata su una considerazione del tipo “che cosi proveresti tu se fossi al suo posto?”; in

alcuni di questi autori10, essa diventa perfino il prodotto di un’impulso fissato dalla natura per l’utilità della spece. L’amore si riduce perciò – in ultima istanza – ad “espressione soltanto più raffinata [...] di un istinto animale” (Scheler, 1975, p. 117).

5.1.3. IL VALORE DELLA FILANTROPIA

La filantropia “ha valore esclusivamente in quanto è uno dei fattori causali capaci di au-mentare il bene generale” (Scheler, 1975, p. 118); essa mira al massimo del benessere, non al massimo dell’amore. Questo vale a dire che la filantropia vale ben poco: basta ricordare le te-orie economiche (e.g. Adam Smith) e i pamphlets di Mandeville per rendersi conto che gli impulsi più ‘egoistici’ sono più efficaci a promuovere il benessere sociale. Per sottolineare ancora di più la differenza tra agápe e filantropia, Scheler ci ricorda quanto poco le istituzioni e gli usi medi-evali erano tesi verso il “bene generale”, e tut-tavia il Medioevo era un periodo altamente cris-tiano, nel quale “l’amore cristiano come forma di vita e come idea diede i fiori più puri” (Schel-er, 1975, p. 119).

5.1.4. FILANTROPIA E RISENTIMENTO

Se la filantropia è frutto del risentimento, con-tro chi protesta? Scheler risponde che essa è (a) una reazione nei confronti di Dio; (b) un odio verso la propria comunità; (c) una dedizione all’altro “in quanto altro” e basta.

Essa è risentimento nei confronti di Dio siccome essa (i) prova rancore contro l’idea di un’ “Si-gnore supremo” e (ii) si china verso l’uomo in quanto “essere di Natura”). È protesta contro la cerchia prossima della comunità siccome i suoi propugnatori sono per lo più dei risentiti nei

10E in modo particolare, anche in Darwin e in H. Spen-cer.

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confronti della propria famiglia, del proprio ambiente prossimo; alcuni poi esprimono con questo ‘amore’ una protesta contro l’amor di patria. Finalmente, l’altruismo è frutto di un rivolgersi contro se stessi, una “maldizione di sé”: mentre nell’agápe ci è richiesto di amare il prossimo come se stessi, nell’altruismo ci è richiesto di amare il prossimo più di se stessi, proprio in quanto ‘altro’.

La filantropia, in quanto “altruismo”, nasce da un “non poter guardare sé medesimo” a causa di un “perforante sentimento della [propria] nullità” (Scheler, 1975, p. 127). Da questo sca-turisce una fuga da sé che si esprime più volte in una morbosa “smania di sacrificio”, un as-cetismo nichilista segno di una vita al tramonto.

5.1.5. AGÁPE E FILANTROPIA NELLA STORIA

DEL CRISTIANESIMO

Per quanto radicalmente diverse per natura e origine, le idee dell’amore cristiano e della “filant-ropia moderna” hanno intessuto nel concreto della realtà fattuale storica legami multiformi e complessi, che, se non giustificano invero l’equiparazione delle due idee compiuta da Nie-tzsche, la rendono tuttavia comprensibile: E lo stesso vale per le forme dell’“ascesi” (Scheler, 1975, pp. 128-129).

Scheler inizia questo percorso storico con l’accostamento tra stoicismo e cristianismo: la Chiesa dei primi secoli accolse il diritto di natu-ra e la morale naturale di stampo stoico “perché erano facilmente impiegabili come armi contro la signoria degli stati” (Scheler, 1975, p.129). Secondo Scheler, questo ha fatto si che la Chiesa ripudiasse il modo con cui si intendeva lo “stato di grazia” nella Chiesa primitiva. “L’‘uomo nat-urale e carnale’, si distingue dall’animale, se-condo la visione cristiana antica, solo per grado non per essenza: solo nel ‘rinato’ viene alla luce un ordine nuovo, uno strato ontologico ed es-

senziale nuovo assoluto” (Scheler, 1975, p. 131). In altre parole, gli uomini si dividono in due, “eletti” e “ripudiati”; i ripudiati sono “animali” e basta. La distinzione ontologia uomo–animale nasce dalla prassi pedagogica di trattare ogni uomo “come se” fosse un eletto, dato che il prete/missionario non può sapere chi sia eletto e chi non. “Da ipotesi pedagogica-prammatica però la teoria della eguaglianza della natura umana si fa via via ipotesi che avanza rivendicazioni di verità metafisica” (Scheler, 1975, p. 132). In questo testo, Scheler riconosce a Lutero il merito di aver “saputo distinguere l’elemento genuino dalle aggiunte eterogenee” nella sua lotta contro la “teologia razionale” (cf. Scheler, 1975, p. 133)11. Tuttavia lo critica di aver minato alla base il principio di solidarietà, avendo subordinato l’amore per gli altri all’amore di sé:

Come potrebbe infatti sorgere l’aspirazione alla “consapevolezza di un Dio misericordioso”, alla “consapevolezza della giustificazione e del per-dono” [...] se non in quanto fondata su un atto di amore? sull’atto d’amore verso se stesso, sulla con-seguente cura per la salvezza dell’anima propria? Dal momento dunque che Lutero fonda l’amore per gli altri sulla giustificazione già ottenuta “esclu-sivamente” mediante la fede – guadagnata cioè nel solitario rapporto dell’anima con il suo Dio – [...] l’amore per gli altri viene subordinato completa-mente all’amore di sé (Scheler, 1975, pp. 133 - 134).

Come risultato di questa dottrina sulla giustifi-cazione, “‘l’amore per gli altri’ viene ridotto alla fine alla simpatia meramente impulsiva e sen-suale”, “viene negata in linea di principio la co-munità vivente di fede e di amore” e “l’ordinamento giuridico e morale della co-

11In scritti più tardivi Scheler critica Lutero proprio per ave riputiato la ragione; cf. L’eterno nell’uomo (1920/22), La posizione dell’uomo nel cosmo (1929).

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munità deve competere totalmente ed esclu-sivamente allo Stato”; infine “[Lutero] prepara in tale modo proprio l’idea positivistica moder-na dell’umanità e della filantropia nella forma più pesante” (Scheler, 1975, pp. 134-135). Il ri-sultato: un amalgama di filantropia e amore cristiano, di utilitarismo e morale cristiana che sul piano politico ha preso le forme del “social-ismo cattolico” e della “democrazia cristiana”.

5.1.6. GLI IDEALI ASCETICI

Alla fine del quarto capitolo, Scheler ritorna al discorso sugli ideali ascetici. Quale ascetica può nascere dalla morale evangelica? Dalla sua trat-tazione del cristianesimo, egli ne elenca due caratteristiche che ci aiuteranno a distinguere tra l’autentica ascetica cristiana e le ascetiche tipiche di un mondo in decadenza. L’ascesi cris-tiana mira (a) alla “liberazione della personalità spirituale” e – in secondo luogo – (b) a “svilup-pare ed esercitare in piena autonomia le funzioni vitali indipendentemente dai mecca-nismi ad esse asserviti e rendere in questo mo-do il vivente indipendente il più possibile dalla parzialità propria delle combinazioni esterne degli stimoli” (Scheler, 1975, p. 137). Dorna dunque il discorso sull’ascetismo iniziato nel terzo capitolo del saggio (cf. sopra, sez. 4.2. - introduzione).

Usando questi criteri, Scheler identifica una serie di forme ascetiche che non sono autenti-camente cristiane: ascesi fondate sull’odio e suo disprezzo del corpo, ascesi tese a superare la forma della vita “personale” e giungere ad un “essere impersonale”, ascesi che si estendono anche ai beni spirituali di cultura, ascesi in cui la “psiche deve essere sottoposta ad una ‘disci-plina arbitraria’ in cui pensieri, sentimenti, sen-sazioni sono considerati alla stregua di soldati

disponibili a piacere per qualsiasi ‘scopo’ (Scheler, 1975, p. 137).

Alcune di queste forme hanno le loro radici nel neo-platonismo e nell’essenismo, segni del dec-lino del mondo classico. Essendo contempora-nei al cristianesimo nei suoi primi secoli di vita, queste forme ascetiche sono entrate nella prassi cristiana; tuttavia la Chiesa, in netto contrasto con le filosofie su cui si fondano tali pratiche, ha sempre rifiutato il dualismo anima-corpo e ha invece sostenuto la resurrezione della carne. Concludendo:

l’ascesi cristiana [... ha] come intento non il soffo-camento degli istinti naturali o addirittura la loro eliminazione bensì potere e signoria su di essi e la loro totale permeazione di anima e spirito. [... Essa] è serena, lieta: è cavalleresca consapevolezza di forza e di potenza sul corpo! (Scheler, 1975, p. 138-139).

5.2. IL VALORE DEL “CONQUISTATO DA SÉ”

Nel quinto capitolo del saggio, Scheler analizza tre altri elementi della morale moderna sui qua-li spendiamo una parola in questa sezione e nelle due seguenti.

Una tesi di fondo della morale moderna è la se-guente:

Hanno valore morale soltanto qualità, azioni ecc. che l’uomo come individuo si è conquistato con il suo lavoro e le sue forze (Scheler, 1975, p. 142).

Scheler critica questa tesi perché nega che le cose possano avere valore in sé. Anche gli uomini diventano “eguali” quanto a valore mo-rale; conta solo il “lavoro” con il quale si giunge ad una elevazione del livello morale, a pre-scindere dai valori di partenza e di arrivo. Per l’autore, questa operazione appiattisce le differ-enze mettendo tutti al valore morale più basso; tutto questo gioco al ribasso è frutto del ris-

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entimento della natura più volgare che non riesce a sopportare questo “distacco origi-nario dalla natura superiore” (Scheler, 1975, p. 143). In contrasto con questo, il cristianesimo supera le differenze sul piano morale con l’immagine della solidarietà morale: siamo di-versi sul piano morale (alcuni sono nobili, e consapevoli del loro valore, altri miseri) ma ci sentiamo “corresponsabili” riguardo ad ogni colpa altrui e anche partecipi della santità al-trui.

Questo va contro la concezione moderna che cerca di limitare al massimo la propria re-sponsabilità e di non lasciarsi regalare nulla. Tale concezione si fonda su un’atteggiamento di diffidenza per principio tra uomo e uomo, tipica del rapporto commerciante-concorrente12.

5.3. LA SOGGETTIVAZIONE DEI VALORI

Un altro pregiudizio delle teorie moderne che Scheler contesta e quello della soggettivazione dei valori:

I valori in generale e i valori morali in particolare siano soltanto manifestazioni soggettive relative alla coscienza umana e che non abbiano né esisten-za né significato indipendentemente da essa (Scheler, 1975, p. 150).

Come risultato, si giustifica un’anarchia totale in quel che concerne il giudizio morale, oppure si ammette un surrogato dell’autentica ogget-tività del valore: la “coscienza generale”. In questo modo il debole risentito evita una auten-tica ricerca di che cosa sia bene e si chiede: Tu che pensi? Che cosa pensano tutti? L’autore no-ta che persino il formalismo etico (Kant) si rifa a questo: la ricerca dell’universalmente umano

12Scheler dice che questa diffidenza ha avuto un forte influsso sul calvinismo, e rimanda agli studi di Max Weber.

tipica dell’illuminismo ci indica valori morali accessibili a tutti e svaluta l’azione di chi si in-nalza sopra questo “universale”. Parimenti nel campo religioso, viene sottovalutata la rivelazione per il motivo che non è una forma di conoscenza a disposizione di tutti. In tutto questo è inconfondibilmente all’opera il ris-entimento.

5.4. IL VALORE DELL’UTILE

Le teorie moderne innalzano il valore dell’utilità al di là del valore del vivere in gen-erale. Rispetto alla gerarchia scheleriana dei valori, questo è un chiaro rovesciamente nell’ordine dei valori. Per mostrare ciò, l’autore addita alcuni esiti paradossali di questo travis-amento dei valori.

A proposito del rapporto utile-piacevole, Schel-er (1975, p. 160-161) sottolinea come nell’ascetismo moderno, “il godimento del piacevole, a cui è riferito ogni utile, subisce un costante differimento fino al punto che in con-clusione il piacevole resta assoggettato all’utile. [...] Viene messo in atto un meccanismo infini-tamente complicato per la produzione di cosi piacevoli, che deve essere atteso da un lavoro senza posa, senza prospettiva alcuna di godi-mento finale di queste cose piacevoli”. In con-trasto, la vecchia ascetica “si proponeva l’ideale di raggiungere il massimo di godimento con un minimo di cose gradevoli e di cose veramente utili”. A proposito degli sfarzosi divertimenti delle grandi città, Scheler osserva come a con-templare e a frequentare tali ambienti colorati, voluttuosi, rumorosi, eccitanti sono uomini es-tremamente tristi.

Scheler passa ad elencare i valori borghesi (val-ori dell’utile) e mostra come questi hanno so-stituito quelli nobili (valori vitali). Infine, at-

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traverso un lungo excursus biologico critica la concezione del vivente come somma di parti e quella del organo come utensile.

A conclusione di tutto il perscorso l’autore dà una serie di consigli alla società moderna che sembrano prevedere gli effetti dell’industrializzazione e la crisi ecologica.

Il mantenimento della salute della razza [...] è un valore in sé nei confronti delle sue prestazioni utili e merita il primato, anche se ciò comporti un rallentamento dello sviluppo industriale. L’agricoltura è una attività in sé più valida che l’industria e il commercio e merit di essere protetta e incrementata non fosse altro che per il fatto che comporta una maniera di vivere più sana [...] an-che se il progresso dell’industrializzazione da un punto di vista meramente economico desse di fatto un reddito migliore. Lo stesso dicasi per la dif-esa contro le tendenze distruttrici dell’industrialismo nei confroni delle specie animali e vegetali, dei boschi, del paesaggio. (Scheler, 1975, p 185).

6. ALCUNE CONSIDERAZIONI

CRITICHE

6.1 ACUNI PREGI DELLE DUE OPERE

In queste opere, Nietzsche e Scheler offrono una teoria della modernità che potrebbe essere qualificata come “teoria culturale” secondo la distinzione di Taylor (1999). Sono tentativi di superare quelle spiegazioni semplicistiche che prescindono dalla cultura e che tuttora sono in assoluto le più stimate e considerate. È chiaro che un tentativo di analisi culturale vuol dire evitare le soluzioni belle e facili ed affrontare con grande coraggio l’enorme complessità della cultura umana, rischiando così di inciamparsi in varie aporie.

Dobbiamo molto a questi autori per la loro indagine intorno al risentimento e alle sue rica-dute sulla nostra società. Molte delle critiche restano notevolmente attuali oggi dopo quasi un secolo – in molti campo sono stati dei veri ‘profeti’.

Entrambi autori hanno mosso forti critiche ad alcuni aspetti della modernità e del cristianesi-mo, o almeno ad un certo modo di vivere e di intendere il cristianesimo. Ogniuno, a modo suo, ha lanciato ai cristiani un invito a riscoprire l’essenza del messaggio di Gesù di Nazaret 13 , rendendosi conto degli influssi platonici e neo-platonici che ha subito. Inoltre, è molto interessante il tentativo di comprendere tutta una fetta di storia umana a partire da un fenomeno psicologico: il risentimento. Le pretese illumisitiche – che tut-tora fondano molti dei nostri atteggiamenti di sfruttamento smodato della natura – sono così minate alle loro basi.

Le critiche all’uomo moderno e alle pretese eg-emoniche della tecnica sono molto attuali. Cor-rosione dei valori vitali, antropocentrismo irre-sponsabile, filosofie politiche che cercano di appiattire con la forza le differenze, riduzione dell’uomo ad una “bestia gregaria”: le obiezioni di Nietzsche e Scheler nei confronti di questi fondamenti del nostro modo di essere e di vivere moderno scuotono fino in fondo la nos-tra comprensione dei fenomeni intorno a noi. Ci sfidano a pensare un’attimo, prima di con-dannare la pena di morte o brindare alla democrazia, perché “tutti fanno così” o perché “è ovvio che questa sia la cosa più cristiana”. Ci insegnano a non dare per scontato che i nostri

13Alcuni studiosi contemporanei ci hanno presentato un Nietzsche ammiratore di questa figura storica, per es. Massimo Cacciare (Università di Venezia).

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tempi siano i migliori sotto tutti i punti di vista e in tutti gli aspetti. Infine ci disincantano dal mito che le scienze moderne siano prive di pre-supposti e che la verità sia a portata di mano.

6.2. ALCUNI TRATTI PROBLEMATICI

NELL’ANALISI NIETZSCHIANA

Passiamo ora a sottolineare solo alcune delle aporie che saltano fuori da queste due opere.

In primo luogo osserviamo che l’autentico nie-tzschiano è colui che sa prendere ogni afferma-zione di Nietzsche con le pinze: se non esiste una verità assoluta, oppure se può darsi che non non ci sia, le qualsiasi tesi può sempre essere vera, falsa, né vera né falsa o sia vera sia falsa. Se accettiamo la sua posizione circa la verità, il valore filosofico della ‘Genealogia della Morale’ non sarà tanto diverso da quello dell’ ‘Odissea’ o del mito adamitico. Inoltre, questa imposta-zione espistemologica ci costringerebbe a troncare qui la discussione usando questa forma di espressione: un linguaggio tecnico (filosofico) con fondamenti logici rigorosi che pressuppon-gono il principio di non contraddizione (come verità assoluta).

Ma se invece dobbiamo proseguire con l’analisi filosofica, il primo problema salta fuori dalla conclusione del saggio. Cosa significa ogni vo-lontà di verità? Che senso ha il voler un senso qualsiasi invece di nessun senso? Se dovessimo cercare a tutti costi una risposta ‘vera’ a questa domanda saremmo ancora immersi completa-mente nel problema. Se dovessimo ignorarla rimarremmo nel nichilismo negativo. Non ci resta che fare ipotesi che non abbiano pretesa di verità. Ma è veramente possibile questo? E se fosse possibile, quale pensatore avrebbe la fac-cia di pubblicare tali ipotesi? Chi mai avrebbe l’interesse di prenderli in considerazione? A

questo punto non ci resta che sperare che qual-che dio ci riveli la risposta alla domanda nie-tzschiana!

Ovviamente, con un tale ragionamento non si confutata Nietzsche... è sempre un discorso logico, che presuppone la volontà di verità e il principio di non-contraddizione. Tuttavia, as-sumendo la sua impostazione epistemologica, può darsi che lo si può anche confutare così... come si può saperlo? Sicuramente (?) sarei più a mio agio se dovessi trattare questo problema scrivendo una poesia o dipingendo un quadro: non sarei così legato a queste regole logiche. Forse è proprio per questo che le opere nietzchiane che fanno uso della parabola e dell’aforisma (per es. Così parlò Zarathustra) sono le più riuscite.

Al di là di tutto questo, fa problema l’uso fre-quente dell’analogia della malattia psicologica nella sua trattazione del cristianesimo e della morale cristiana. Il matto non è in grado di ammettere di essere matto, anche se il dottore glielo dicesse di esserlo, anche se tutti glielo dicessero. Se iniziare o no la cura, non può es-sere il matto a deciderlo. Lo si costringe a farsi curare perché ci si fida dell’esperto, o dell’opinione dei più. Può sempre darsi che ad essere malati siano l’esperto o i più, e che quel tale non sia affatto matto... ma nella prassi medica, questa tesi viene esclusa a priori.

Quindi, quando salta fuori un personaggio come Nietzche che accusa tutta la società di essere malata, come facciamo a crederlo? Se ci dicesse che la malattia sia così grave da non permetter-ci di oggettivarla, allora lo ignoreremmo senz’altro: saremmo incapaci di renderci conto della malattia, e in primo luogo neppure lui po-

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trebbe esserne uscito14. Quindi ci dirà che ci è possibile avere consapevolezza della nostra malattia e che ci è possibile decidere se farsi cu-rare o no15. A questo punto chiederemmo delle prove che dimostrano che siamo noi ad essere malati, e non lui. Come ha fatto a giungere a questa conclusione? Partendo da endoxa? Non è possibile – i più non ammettono ancora di es-sere malati16. Tramite intuizione o rivelazione? Sara difficile per noi crederlo, specialmente da un Nietzsche. Presentando dati empirici? Per questo ci vorrebbe un metro di misura, una definizione dell’uomo psicologicamente sano la quale definizione dovrà pure fondarsi su qual-che visione antropologica. Se ci propone come definizione di uomo lo Zarathustra, nel quale noialtri uomini non ci identifichiamo (a mag-gior ragione se siamo veramente malati), dovrà pure giustificare questa visione dell’uomo... con un altro metro esterno, forse... e così all’infinito. Potrà forse cercare di mostrarci le nostre aporie, i nostri conflitti interni. Questo presuppone che l’uomo sano sia privo di conflit-ti interni, o quasi... ma non è detto che sia così! Forse un uomo tale non esiste! Tuttavia po-tremmo accettare in via di principio che sia una buona cosa conoscere i nostri conflitti interni e cercare di ridurli.

Dunque, se di deve escludere un metro esterno di misura e fondare l’analisi solamente su con-flitti interni, nel suo confronto con il cristia-nesimo, Nietzsche deve dare per buone i pre-

14Nietzsche stesso dichiara nei suoi scritti di essere stato malato e di essere guarito.

15Per non complicare eccessivamente, assumiamo che questo personaggio non abbia il potere di costringere tutti a farsi curare, e quindi ci sia il libero arbitrio.

16Nietzsche spesso fonda le sue tesi su etimologia (cf. GM I.5) ma altrove critica il linguaggio o le opinione che fonda alcuni espressioni/termini (cf. GM I.13).

supposti della fede cristiana (magari mostrando che si contraddicono tra loro) e fare tutta l’analisi all’interno del mondo concettuale cris-tiano. Ma abbiamo gia visto dalla prefazione del libro che i suoi presupposti non sono certo quelle di un credente. Perciò risulta che con questa impostazione non riesce a dialogare con il cristianesimo – specialmente se a sentire Nie-tzsche si impara che un’indagine atea non è per niente un’indagine “neutra”. Oggi però tro-viamo tra la plebe una scia di appassionati di Nietzsche... e molte delle critiche rivolte al cris-tianesimo dopo il crollo del comunismo si at-tingono alle tesi nietzschiane. Purtroppo chi accusa il cristianesimo di essere una forma di malattia (e si arroga il diritto di farlo perché sano – cioè non-credente) non si rende conto che in sé la sua non-credenza non lo rende me-no malato del cristiano, secondo le ultime pag-ine del saggio di Nietzsche. Persino Nietzsche si disgusterebbe di fronte ad un nietzschianesimo per le masse.

Non mi soffermo sulla genealogia. Basta in-dicare che tutto parte dal commercio tra indi-vidui: Nietzsche non considera affatto la fami-glia estesa e il clan. Ignora le faide, i debiti di sangue e assume già l’istituzione della proprietà privata agli esordi della morale e della società umana. In breve, per chi ha qualche familiarità con le discipline antropologiche, tutta la gene-alogia è fondata sull’inverosimile mentre manca il pur minimo confronto con le tesi più immedi-ate e versosimili. È chiaro che a Nietzsche im-porta poco fare un’indagine investita di rigore scientifico: tutta la genealogia è costruita su quelle conclusioni che ne vuole trarre e serve appunto come un’impalcatura letteraria per presentarci le sue idea a proposito della morale. Perciò, se dal punto di vista scientifico l’opera risulta molto discutibile, questo non vuol dire

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che essa sia senza valore filosofico, anzi, vi tro-viamo tante osservazioni e affermazioni che scaturiscono da un’indagine psicologica e socio-logica molto acuta circa l’uomo moderno. Forse non sono frutto dell’indagine genealogica; cer-tamente derivano dall’esperienza vissuta di una persona dotata di gran fiuto per ciò che è più profondo nell’uomo.17

6.3. IL CONFRONTO TRA SCHELER E NIETZSCHE

Si capisce dunque come mai Scheler avesse grande rispetto verso la profondità psicologica (in senso lato) di Nietzsche e perché prendesse sul serio le dure critiche che questo aveva ri-volto al cristianesimo. Però, la risposta scheleri-ana che cerca di operare una netta distinzione tra amore cristiano e filantropia, e dunque di deviare le freccie nietzschiane verso la borghe-sia non mi sembra tanto efficace come difesa del cristianesimo. Riportiamo qui la critica di Paul Valadier:

Quando Max Scheler, in “Il risentimento nella edif-icazione delle morali”, oppone all’amore cristiano, quale Nietzsche lo analizza, l’amore cristiano quale esso è in sé, ci si chiede se questo genere di astra-zione che parla dell’amore prescindendo dalla vo-lontà che lo vive abbia, da un lato, ben compreso l’aspetto principale della critica nietzschiana, e dall’altro, non aggravi a suo modo l’accusa avanzata da Nietzsche a una religione che si vive essenzialmente secondo i modi dello sdoppiamento. (Valadier, 1991, p. 516).

6.4. SCHELER E IL RISENTIMENTO

Certamente, ai tempi di Scheler, la Chiesa Cat-tolica era molto sospettosa di termini come ‘dignità dell’uomo’, ‘diritti civili’, ‘moderno’,

17Per una studio approfondito sulle critiche nietzschi-ane al cristianesimo, la loro efficacia, la loro attualità, i loro nodi problematici, vedi Valadier (1991).

‘socialista’, ‘communista’. Aveva poca simpatia per la democrazia. Per un cattolico, l’accusa di essere ‘modernista’ o ‘communista’ era molto grave. Scheler, che si proponeva come campi-one della causa cattolica non potè trattenersi dalla polemica nei riguardi di queste correnti di pensiero. Leggendo oggi questo saggio, uno si chiede se tutte le affermazioni ivi contenuti provengono dalle convizioni profondi di Scheler, frutto di una rigorosa problematizzazione filosofica, o se l’autore si fosse lasciato condizionare troppo dal clima religioso e dalle dottrine cattoliche del tempo. Ci sembra più verosimile la seconda tesi, perché in opere successive, e particolarmente quando abbandona la fede cattolica, Scheler si allon-tana da alcune posizioni prese in questo saggio. In questo caso però, dobbiamo ammettere – non senza un certo cordoglio – che questa eccessiva preoccupazione di tener ferma nella sua indagine l’ “ortodossia” cattolica ha fatto si che oggi – che la Chiesa si è alquanto conciliata con la modernità – il saggio stesso sembri inaccetta-bile da punto di vista della dottrina cattolica. Alcune pagine sembrano addirittura con-dannare talune affermazioni fondamentali degli ultimi documenti ufficiali di dottrina sociale della Chiesa. Nelle critiche contro il comunis-mo, il socialismo, il capitalismo, la democrazia, lo Stato moderno, l’etica del lavoro, l’industrializzazione, la scienza moderna, la tecnica, l’evoluzionismo, il formalismo, l’umanesimo, il protestantesimo, l’utilitarismo, e così via, sembra mancare una certa distanza dall’angoscia della Chiesa cattolica dell’inizio ‘900 di fronte al fenomeno della modernità, tan-to da turbare la calma e l’obiettività della ricer-ca filosofica dell’autore.

L’altro punto fermo da dove Scheler parte con la sua analisi è l’analisi nietzschiana. Per alcuni

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versi, Scheler sembra sicuro di camminare su un terreno ben consolidato: si direbbe che Nie-tzsche non abbia sbagliato che il bersaglio. Basterebbe indirizzare le freccie nietzschiane sui ‘nemici’ della Chiesa ed ecco guadagnato un nuovo apologeta cattolico, a fianco allo Stagi-rita18.

Nelle prime pagine del saggio, troviamo una squisita analisi psicologica del risentimento con delle distinzioni che mostrano una profonda consocenza dell’animo umano. Man mano che si va avanti nel testo, però, si scopre dove Scheler vuole arrivare con questa analisi. Il risentimen-to diventa la chiave di lettura di tutta una fetta di storia umana. Il mondo sembra dividersi in due: risentiti e non. Nonostante il riconosci-mento della presenza nel mondo dello spirito, questo non sembra soltanto ‘impotente’ ma ad-drittura incapace di influire sulla storia. Scheler si preoccupa di mostrare come l’autentico cris-tianesimo è cavalleresco, vitale, privo di ris-entimento, e non problematizza il presupposto della centralità assoluta di questo fattore nella sua analisi della modernità. Siamo proprio sicu-ri che fattori come l’espansionismo turco, la scoperta di nuove terre, le innovazioni tecno-logiche, la riforma protestante, il conflitto im-peratore-nobiltà, la nascita delle grandi nazioni, la invenzione della stampa, la scoperta del pol-vere da sparo, le riforme e innovazioni agrarie, la riscoperta del platonismo, l’astronomia co-pernicana e tutti gli altri fattori finora ipo-tizzate per spiegare l’inizio della modernità si riducano ad un fenomeno psichico, oppure siano irrilevanti?19

18All’inizio del ‘900, la metafisica aristotelica, da dot-trina sospetta nel medioevo diventa l’arma apologetica cattolica per eccellenza.

19Sarei più propenso ad accettare una visione della storia fatta da momenti di stasi (quando si verifica

Osserviamo poi la plasticità del concetto di ris-entimento: si presta molto facilmente per lanci-are critiche a tutto spiano. Ad esempio, il salmo 49 (“l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono“) sembra a pri-ma vista un classico esempio di risentimento ebraico. Tuttavia, mi sembra che si può anche interpretare questo testo come una riflessione profonda sull’uomo: la soddisfazione immediata delle tendenze (senza esperire la resitenza e la sofferenza) riduce l’uomo ad un mero animale; si costata che la prosperità tende a ridurre troppo le resistenze e ad anestetizzare la soffer-enza, soffocando così lo spirito (mancanza di oggettivazione e di comprensione). A questo punto il discorso si fa molto vicino ad una tesi scheleriana ne “La posizione dell’uomo nel cosmo” (1929)... ma il nostro autore non am-metterebbe facilmente che le sue tesi scatur-iscono dal risentimento ebraico!

6.5. SCHELER E L’AMORE CRISTIANO

L’indagine intorno all’amore cristiano rivela chiaramente la profonda riflessione che l’autore ha fatto su questo tema. Agápe, eros, simpatia sono temi che gli stanno molto a cuore, ad essi Scheler dedica diversi libri e conferenze. Le puntualizzazioni e il confronto con l’eros greco e la filantropia moderna ci aiutano ad avere chiaramente presente l’autentico amore cris-tiano.

Nei tempi di Scheler partono gli studi, fondati sull’accostamento alle Sacre Scritture con nuovi strumenti esegetici, che si confrontano con una

un’equilibrio tra vari fattori originari in gioco) interval-lati da rivoluzioni (quando molti piccoli cambiamenti rimasti insignificanti – perche non sintetizzabili con i fattori predominanti nella stasi – trovano tra loro una nuova sintesi che rovescia quella in vigore). Questa tesi è stata proposta in sede biologia per spiegare le grandi eoni paleontologici.

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visione del cristianesimo distorta dall’etica umanistica di stampo borghese. Una famosa opera che sosteneva questa visione era quella di Adolf von Harnack, L’essenza del cristianesimo (1900), con la quale vari studiosi si sono con-frontati fino alla celeberrima indagine sull’amore cristiano di Anders Nygren (Eros e agápe, 1930/1936)20. Uno studio approfondito del vangelo e della tradizione cristiana ci rivelano che l’amore cristiano culmina nell’agápe ma tuttavia non si esaurisce nelle manifestazioni più nobili di questa. Troviamo nel vangelo altri ‘sentimenti’ amorosi cristiani, per esempio la agathosyne (bonitas; benevolen-za/bontà benefica) che fa parte dei cosiddetti “frutti di penitenza”21. L’agathosyne si esprime anche nell’ ‘umanità’ del samaritano (cf. Ledrus, 1998, p. 194). Più volte incontriamo un Gesù turbato nel profondo, commosso, ‘mosso da compassione’ (splanchnizo), piuttosto di un sant’uomo cavalleresco, sicuro di sé di fronte alle folle ‘impersonali’, soffocanti, ma affamati, senza pastore. Perciò può darsi che alcune forme di amore meno ‘nobili’ di quella delineata da Scheler siano autenticamente cristiani. In-fine ci si deve anche confrontare con il cro-cefisso – come fa Gesù ad amare tante persone che non ha conosciuto in carne ed ossa? Come si configura l’umanità – sia pure l’umanità degli eletti – di fronte a questo Dio che si abbassa così? “Io, quando sarò innalzato da terra, attir-erò tutti a me” (Giovanni 12, 32).

Va messo in risalto anche, in queste pagine, la posizione di Scheler riguardo al legame della morale cristiana e religione cristiana e le rica-dute di questa tesi sugli sforzi della Chiesa di

20Uno studio recente sul problema, con ampie rifer-imenti bibliografici, si trova in Coda (1994).

21Vedi Luca 3, 8-14; Atti 16, 30; Matteo 3, 8-11.

trasmettere i valori cristiani in una cultura lai-ca. Ha senso dialogare con i non-credenti a proposito della morale cristiana se si accetta le affermazioni di Scheler (cf. sopra, sez. 4.2.1)?

6.6. SCHELER E LA FILANTROPIA

Molte delle critiche di Scheler partono dalla gerarchia dei valori che presenta nella sua “Ethik” – Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Non è oppurtuno confrontarsi qui con questa opera, tuttavia noto che concepire dei beni come la ricchezza, la salute, la nobiltà come aventi valore in sé non è senza problemi. Ricordiamo il discorso di Socrate con Clinia nell’Eutidemo dove Platone ci insegna che questi beni non sono di per se stessi né beni, né mali: dipende dall’uso. In un linguaggio più aristoteli-co, si potrebbe parlare di ‘beni in potenza’. Al di là di questo, anche ammesso che alcuni beni abbiano valore in sé (in termini assoluti), la modernità ci ha insegnato a misurare i cambi-amenti di valore (in un modo o nell’altro dobbi-amo sempre fare i conti con il mutamento se non vogliamo accettare un mondo parmenideo dove i valori non si distinguono). Tali cambi-amenti possono avere un’influsso notevole sul valore assoluto o relativo di un bene... perciò non vanno ignorati.

In queste pagine cogliamo anche una forte criti-ca rivolta al protestantesimo, in particolare nelle note. A proposito della teoria della giusti-ficazione mi sembra che l’argomento scheleri-ano faccia troppo leva su una priorità tempora-le della fede rispetto alle opere. Al di là di ques-to, il recente accordo tra luterani e cattolici su questa dottrina mostra che le differenze non erano così abissali come si pensava ai tempi di Scheler... fu piuttosto una tendenza di sottolin-eare ecessivamente alcuni aspetti della dottrina piuttosto che altri. Per ciò che riguarda il

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legame protestantesimo-capitalismo, Scheler basa molte delle sue critiche sulle richerche di Weber, e in particolare, di Sombart. Oggi, queste teorie sulle origini del capitalismo e del-lo spirito borghese sono molto discussi, alcuni (per esempio Cafuen, 1999) sono propensi a ricollegare il liberalismo economico con i ge-suiti. Forse questo non farebbe troppo prob-lema a Scheler dato che per lui, “il Gesuitismo si dimostra sul terreno della Chiesa cristiana figlio dell’Umanesimo moderno” (Scheler, 1975, p. 129, n. 21). Tuttavia, sostituire Ignazio di Loyola a Calvino, la Controriforma alla Riforma non è certamente cosa da poco!22

Non mi soffermo sull’interessante confronto con l’evoluzionismo (teleologico), in particolare nelle ultime pagine del saggio, e su come il neo-darwinismo abbia risolto alcuni delle obiezioni sollevate da Scheler. Inoltre, il discorso sulla distinzione organo-utensile suscita molte inter-rogative. Cosa succede quando la concezione di “utensile” si espande così tanto da includere il supercomputer, il DNA, l’organizzazione sociale, il linguaggio? Siamo ancora nella prospettiva dell’utensile o si tratta di ‘organo’?

Opera degna di un gran filosofo, Il Risentimento nella edificazione delle morali suscita tante do-mande, forse più di quanto risolve. L’accattivante stile e le provocanti frasi di

22Purtroppo, le critiche rivolte ai gesuiti fanno poco onore a Scheler – lo collocano tra i filosofi moderni i quali non potevano scrivere un’opera ‘moderna’ senza qualche critica al gesuitismo. Sulla fondatezza di queste critiche in Scheler, basta notare la fonte (le Lettre Pro-vinciali di Pascal), una critica grottesca e di parte in intesa in origine come materiale per volantini polemici. Questo non toglie che il carisma di Ignazio di Loyola abbia subito un notevole sfiguramento nella Com-pagnia di Gesù lungo i secoli e che solo a partire dalla metà del XX secolo si è cercato di ripristinare nell’Ordine il carisma originario di Ignazio attraverso lo studio dei suoi testi.

Scheler ci spronano a continuare la ricerca lun-go i numerevoli solchi aperti da questo saggio.

René Mario Micallef” 27 febbraio 2001

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Opere citate

Cencini, Amedeo e Alessando Manenti. 1997. Psicologia e Formazione. Strutture e dinamismi. Edizioni Dehoniane Bologna. Bologna. 335 pp.

Chafuen, Alejando A. 1999. Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell’economia di mercato. Liberilibri. Macerata. Italia.

Coda, Piero. 1994. L’agápe come grazia e libertà alla radice della teologia e prassi dei cristiani. Città Nuova Editrice. Roma. 191 pp.

Ledrus, Michel. 1998. I Frutti dello Spirito. Saggi di “Etica Evangelica”. Edizioni San Paolo. Cinisello Balsamo, Milano. 271 pp.

Nietzsche, Freidrich. 1979. Genealogia della morale. Scelta di Frammenti postumi (1889-1887). [versione ital-iana a cura di Colli, G. e Montinari, M.] Arnaldo Mondadori Editore. Milano. xxxviii+263 pp.

Penzo, Giorgio (a.c.d.). 1999. Nietzsche. Atlante della sua vita e del suo pensiero. Rusconi Libri. Santarcangelo (RN), Italia. 476 pp.

Redazioni Garzanti. 1993. Enciclopedia Garzanti di Filosofia. Garzanti Editore. Milano. iv + 1268 pp.

Scheler, Max. 1975. Il risentimento nella edificazione delle morali. [versione italiana a cura di Puppi, A.].Vita e Pensiero. Milano. 188 pp.

Taylor, Charles. 1999. Two Theories of Modernity. in Public Culture 11 (1). pp. 153-174.

Valadier, Paul. 1991. Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo. [versione italiana a cura di Alletti Petrucci, V.]. Edizioni Augustinus. Palermo. xvii+554 pp.