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CAPITOLO II: L'ECONOMIA DELLE SCELTE IN
CAMPO MONETARIO INTERNAZIONALE
Dopo aver analizzato il concetto di
moneta, ci soffermiamo ora a valutare, sotto
un profilo economico, il significato e la
portata dell'idea di integrazione monetaria
internazionale.
Gli avvenimenti dei primi anni settanta,
che hanno portato a quello che è stato
definito come il crollo del sistema di
Bretton Woods, e la continua sensazione di
instabilità dovuta alla fluttuazione dei
cambi hanno stimolato una riflessione attenta
da parte degli studiosi, tramutatasi poi in
una vera e propria letteratura, sul tema
della riforma del sistema monetario
internazionale.
Ci occuperemo in questa sede di due
argomenti in particolare. In primo luogo
saranno analizzate, sotto un profilo di
-59-
economia delle scelte pubbliche, le cause che
impediscono l'instaurarsi di un'area
monetaria unificata. In secondo luogo sarà
brevemente esaminato il problema, più ampio,
della liquidità internazionale.
Lo scopo è quello di verificare quanto
sia significativa l'espressione "crollo", in
riferimento al sistema di Bretton Woods, ma
soprattutto di scoprire, per quanto
possibile, quale sia il senso dei mutamenti e
delle tendenze in atto in questo settore
dell'economia internazionale.
I - È necessario anzitutto individuare
l'oggetto dell'analisi che segue. In primo
luogo bisogna dire che ci troviamo in un
ambito, in certo qual modo, costituzionale.
Lo scopo, in altre parole, è quello di
fondare un nuovo ordine monetario. La
riflessione degli studiosi si è concentrata
quindi, soprattutto in un primo momento,
-60-
sull'elaborazione di modelli astratti ed
estremi. Sulle obiezioni riguardanti la
valenza pratica di tali modelli teorici non è
il caso qui di soffermarci. Basterà dire che
il nostro obiettivo è di individuare quali
elementi facciano da ostacolo, anche nella
realtà quotidiana, all'instaurarsi di un
nuovo sistema monetario. Il prendere come
punto di partenza, per l'analisi, dei casi
estremi non fa altro che rendere più
espliciti e manifesti tali ostacoli. Nel
nostro caso dunque tale operazione si rivela
utile.
Nell'analisi che segue parleremo di
"area valutaria", in senso generico, come di
quel gruppo di paesi che abbiano adottato un
qualsiasi grado di integrazione monetaria.
Indicheremo invece con il termine "unione
monetaria" il grado ultimo di integrazione:
la presenza di una valuta comune. In effetti,
tuttavia, esiste una vera e propria scala,
-61-
con diversi livelli di integrazione, di cui
bisogna tener conto.
Il primo livello è quello delle parità
fisse, accompagnate da una banda di
oscillazione più o meno ampia, senza riserve
comuni e senza una banca centrale comune.
Rispetto a questa base minima abbiamo poi,
come ulteriori livelli, la presenza di una
coordinazione delle politiche economiche, in
particolare monetarie, per prevenire gli
squilibri della bilancia dei pagamenti; dei
meccanismi di compensazione fra le bilance
dei pagamenti con una riserva comune di
valuta (che può essere una qualunque valuta
esistente o anche una valuta - paniere di
nuova creazione); la convertibilità fra
valute per transazioni in conto capitale,
oltre che per transazioni in conto corrente;
la fiducia del pubblico nell'improbabilità di
un cambiamento delle parità, fiducia che
normalmente emerge solo dopo un dato periodo
-62-
di tempo o in seguito ad eventi di carattere
politico - istituzionale. Abbiamo infine
l'ultimo gradino, che è quello della completa
unificazione: un'unica valuta emessa da
un'unica banca centrale comune.
Molto vasta è, come abbiamo già
accennato, la letteratura sull'argomento
dell'area valutaria ottima. Prenderemo qui in
esame tre punti di vista principali a
riguardo. Il primo è quello che potremmo
definire tradizionale, tendente a definire
dei criteri il più possibile oggettivi
secondo cui valutare la composizione ottimale
dell'area valutaria. Il secondo è l'approccio
costi - benefici, che tenta invece di
risolvere il problema della scelta, a livello
sia individuale che aggregato, riguardante
l'appartenenza o la costituzione di un'area
valutaria. Il terzo, su cui ci soffermeremo,
è il vero e proprio approccio di scelte
pubbliche.
-63-
L'approccio che abbiamo chiamato
tradizionale! afferma che una area valutaria
ottima può essere individuata attraverso dei
singoli criteri, ciascuno dei quali sarebbe,
a detta dei rispettivi proponenti,
sufficiente a questo scopo.
Il primo dei criteri proposti2, e forse
uno dei più rilevanti, è quello della
mobilità dei fattori. È molto più facile,
secondo questo punto di vista, evitare una
modificazione dei tassi di cambio in caso di
squilibrio della bilancia dei pagamenti
quando vi sia una elevata mobilità
internazionale dei fattori, che non nel caso
opposto. L'argomento di per sé è evidente.
Nel caso di deficit ad esempio, la
possibilità di emigrare diminuisce il costo
in termini di disoccupazione; d'altro canto,
la possibilità di far affluire rapidamente
dei capitali, anche con interventi di
politica economica, può limitare gli effetti
-04-
negativi di una diminuzione del reddito e le
tendenze deflazionistiche in generale. Quando
la reazione si dimostri sufficientemente
efficace, è possibile evitare la
svalutazione: di conseguenza, l'area ottimale
è quella in cui più alta è la mobilità
internazionale dei fattori.
La tesi appena citata è strettamente
collegata con quella che si richiama al
criterio dell'integrazione finanziaria: in
questo caso si afferma che in particolare un
efficiente ed integrato mercato dei capitali,
privo quindi di controlli e di restrizioni,
rende non necessaria la manovra sui tassi di
cambio in quanto è sufficiente un
differenziale minimo del tasso di interesse
per far spostare i capitali nella direzione
desiderata e provocare quindi un riequilibrio
della bilancia.
Le argomentazioni riportate sembrano
condivisibili per quel che riguarda la
-65-
mobilità del lavoro, anche se, nel caso ad
esempio di un deficit non strutturale ma solo
congiunturale, può rivelarsi indesiderabile
lo spostamento di grandi masse di lavoratori.
Più controverse sembrano, invece, le
affermazioni riguardanti la mobilità dei
capitali. In particolare, secondo alcuni3,
l'efficacia riequilibratrice dei capitali
sarebbe condizionata da alcuni fattori, quali
la natura dello squilibrio, la sensibilità
degli investimenti al livello di attività
economica e il periodo di tempo che si prende
in considerazione. È possibile, e ciò sarebbe
confermato secondo Fleming da osservazioni a
medio termine, che la elevata mobilità dei
capitali porti in alcuni casi allo squilibrio
anziché al riequilibrio della bilancia. Ciò
sarebbe dovuto al comportamento "esplosivo"
dell'incentivo agli investimenti in relazione
a variazioni del reddito: se la tendenza ad
investire, come è stato rilevato in alcuni
casi, diminuisce più del risparmio in
situazioni di deficit o aumenta più del
risparmio in situazioni di surplus, la
variazione del saggio dell'interesse e dunque
lo spostamento di capitali potranno essere
addirittura di segno opposto rispetto a
quello desiderato per un riequilibrio della
bilancia dei pagamenti. A ciò si aggiunga che
l'onere derivante dal pagamento di interessi
sul debito estero viene esso stesso iscritto
nella bilancia, contribuendo perciò in questo
senso ad aggravare la situazione di
squilibrio preesistente.
La natura benefica di una elevata
mobilità dei capitali, in conclusione, non è
del tutto scontata, né si può assumere per
certo che il meccanismo riequilibratore
funzioni in maniera del tutto automatica.
Un ulteriore criterio è quello della
somiglianzà dei tassi di inflazione: un
notevole differenziale nei tassi stessi
-o/-
provoca infatti una modificazione delle
ragioni di scambio internazionali e quindi, a
lungo andare, la necessità di una
modificazione delle parità valutarie. Paesi
con tendenze inflazionistiche molto simili
possono quindi utilmente appartenere ad
un'area valutaria. È questa, tuttavia, una
condizione più restrittiva di quel che si
potrebbe immaginare a prima vista.
Somiglianzà dei tassi di inflazione
presuppone infatti una somiglianzà negli
obiettivi di impiego delle diverse nazioni,
somiglianzà nei tassi di crescita della
produttività, somiglianzà nel grado di
aggressività dei sindacati. Non sembrano
davvero moltissime le nazioni candidate a far
parte di una significativa area valutaria
secondo tale criterio.
Un altro criterio suggerito è quello
della integrazione delle politiche
economiche, che può andare dal semplice
-68-
coordinamento alla istituzione di una
autorità monetaria o anche fiscale comune.
Tale criterio presuppone dunque una qualche
forma di integrazione politica e si rivela
perciò tautologico: l'integrazione politica
contiene necessariamente anche l'integrazione
monetaria.
Altri criteri, come quello del grado di
apertura dell'economia e della
diversificazione produttiva, sembrano più
orientati a verificare le condizioni di
appartenenza per i singoli paesi, piuttosto
che ad istituire confronti fra paesi. Il
primo dei due prevede, ad esempio, che un
paese, ove il settore dei beni commerciati
intemazionalmente sia relativamente più
importante del settore dei beni non
commerciati, abbia una convenienza maggiore a
mantenere un regime di parità fisse rispetto
ad un paese che si trovi nella situazione
opposta. La proposizione si commenta da sé:
-69-
in una economia aperta una manovra sui tassi
di cambio ha ripercussioni molto forti sulla
struttura dei prezzi anche interna (oltre che
possibili effetti inflazionistici) e dunque
provoca importanti riallocazioni di risorse
da un settore all'altro, con conseguenze
spesso indesiderabili. Al contrario, in una
situazione di questo tipo una manovra di
contenimento della spesa avrebbe efficacia
molto maggiore pur rimanendo relativamente
indolore.
Per quanto riguarda il secondo dei
criteri suaccennati, l'idea è molto semplice:
una nazione con una notevole diversificazione
produttiva più facilmente potrà far fronte
alle tensioni esistenti sui singoli mercati e
presentare cosi delle esportazioni globali
stabili. In questa situazione è minore la
necessità di ricorrere alla svalutazione, e
dunque maggiori sono le possibilità di
mantenere un regime di parità fisse.
-70-
Pur essendo utile per una migliore
comprensione di aspetti singoli del problema
degli squilibri della bilancia dei pagamenti,
tale impostazione non sembra soddisfacente.
Essa è infatti parziale e incompleta. Le
singole proposizioni non sono altro, infatti,
che il frutto dell'applicazione al problema
degli squilibri della bilancia dei pagamenti
di strumenti teorici anche molto diversi fra
loro. Si passa infatti da prospettive
microeconomiche a sintesi macroeconomiche e,
in questo campo, da interpretazioni
Keynesiane ad affermazioni tipiche del
monetarismo. Mentre dunque i singoli criteri
sono molto lontani dall'esaurire una materia
cosi complessa, l'insieme che ne emerge è
quanto mai disorganico.
Inoltre, l'obiettivo finale rimane tutto
sommato abbastanza indistinto: si rimane al
generico termine "area valutaria", senza che
nessuna più precisa indicazione giunga a
-71-
delineare il concetto. Si rimane
semplicemente alla costatazione, di per sé
ovvia, che maggiore è l'integrazione e
migliori sono i risultati. Inoltre, poca
attenzione è rivolta alla situazione di chi
deve decidere l'ingresso o la costituzione di
un'area valutaria.
A questa dimensione più soggettiva si
avvicina invece l'altro approccio di cui
abbiamo parlato, detto di "costi -
benefici"-». L'obiettivo di tale impostazione
teorica è quello di mettere a confronto i
benefici ottenuti dall'adesione ad un'area
valutaria con i relativi costi, al fine di
definire uno schema orientativo per chi debba
valutare la decisione.
I benefici sono normalmente individuati
nel modo che segue. Innanzitutto la moneta
comune (intesa in senso ampio) arreca tutti i
benefici normalmente attribuiti alla moneta
in generale: primo fra tutti, come abbiamo
-72-
visto, il risparmio sui costi
dell'informazione, la diminuzione di
incertezza e il vantaggio derivante dalla
funzione di unità di conto.
In secondo luogo vi è la eliminazione
delle pressioni speculative, una volta che il
pubblico abbia acquistato fiducia nella
immutabilità dei tassi di cambio. Vi è poi il
risparmio nelle riserve, che si ottiene però
soltanto quando l'unione monetaria sia ormai
in una fase avanzata: in una prima fase può
essere infatti necessario mantenere lo stesso
livello di riserve della situazione
precedente l'unione, al fine di far fronte ad
eventuali squilibri temporanei delle bilance
dei pagamenti degli Stati membri.
Un tipo di beneficio su cui hanno molto
insistito gli studiosi in una prima faseS è
quello derivante dal risparmio sui costi di
conversione delle valute appartenenti
all'unione: tale risparmio diviene tuttavia
-/J-
apprezzabile solo quando si sia giunti alla
fase finale di un'unione monetaria, cioè alla
adozione di una moneta comune.
Vi sono, infine, dei benefici che hanno
natura strettamente politica.
Si è posto l'accento, ad esempio, sul
fatto che l'appartenenza ad un'area valutaria
costringerebbe le autorità monetarie e
fiscali ad uniformare le proprie politiche
economiche, in particolare le misure
antiinflazionistiche, a quelle del paese più
"virtuoso" dell'area. La disciplina monetaria
favorirebbe cosi indirettamente anche una
maggiore integrazione delle economie.
Non sembra che una simile argomentazione
sia pienamente condivisibile. Essa non fa
altro che rovesciare l'impostazione
tradizionale. La somiglianzà dei tassi di
inflazione e l'integrazione delle economie,
secondo questo punto di vista, non sarebbero
più delle precondizioni per l'adesione ad
-74-
un'area valutaria, ma degli effetti della
adesione stessa.
Non è difficile individuare la debolezza
di fondo di questo modo di ragionare: i
legami internazionali "costringerebbero" le
autorità nazionali ad una maggiore disciplina
interna, favorendo cosi l'ulteriore
integrazione. In realtà è lecito sospettare
che il nesso causale operi in senso inverso:
nel corso della analisi successiva
insisteremo sulla necessità di una
integrazione globale per la realizzazione di
un'unione monetaria, ma è sufficiente
comunque ascoltare le obiezioni alle proposte
di istituire organi monetari comunie per
rendersi conto di quanto abbiamo affermato.
Possiamo anzi affermare che è probabile che
la perdita di autonomia in campo monetario
sia normalmente considerata come un costo
più che come un beneficio, e questo ci
conduce fra l'altro ad una più ampia
-75-
considerazione: uno schema di analisi costi -
benefici comporta anche una operazione di
ponderazione della importanza dei singoli
argomenti, ove tuttavia i pesi attribuiti
possono variare a seconda di chi esegua tale
operazione.
L'ultimo degli elementi normalmente
compresi fra i benefici di una unione
monetaria è tipicamente politico: l'aumento
di prestigio derivante, ad esempio, da un
aumento di influenza dell'area nel suo
complesso all'interno di istituzioni quali il
FMI, nonché la maggiore soddisfazione dei
leaders politici delle nazioni partecipanti.
Passando invece al lato dei costi,
possiamo osservare che uno dei punti più
importanti è la perdita di autonomia della
politica monetaria e valutaria. Nel caso in
cui ci si limiti ad accordi valutari il
vincolo è già molto forte: totale è poi la
perdita di sovranità nel caso in cui vengano
-/ò-
raggiunti gli stadi della perfetta mobilità
dei capitali e della costituzione di organi
monetar! comuni. Queste conseguenze, unite ad
altri tipi di costi, sono spesso considerate
intollerabili da parte di chi deve decidere
la costituzione di una area valutaria.
Per quanto riguarda la politica fiscale,
si è soliti pensare che in un ambito di
parità fisse essa sia completamente libera da
vincoli esterni. Tuttavia, qualora fosse
istituita una cooperazione più ampia al fine
di raggiungere obiettivi comuni all'area (ad
esempio nei rapporti con i paesi terzi) anche
gli strumenti fiscali potrebbero esser
vincolati a tali obiettivi.
Fra i costi derivanti dalla appartenenza
ad un'area valutaria, vi è poi il possibile
deterioramento del rapporto disoccupazione /
inflazione per l'area nel suo complesso .7
Ipotizzando infatti l'esistenza di una
stabile relazione inversa di lungo termine
-77-
fra tasso di disoccupazione e tasso di
inflazione in ciascun paese, avremo una
tendenza, in caso di cambi fissi, verso il
peggioramento della relazione fra le due
grandezze in questione. Il motivo di ciò
risiede essenzialmente nella non linearità
della relazione inversa fra disoccupazione ed
inflazione, particolarmente quando la
disoccupazione sia vicina allo zero.
Infatti ammettendo che un deficit della
bilancia dei pagamenti tenda a provocare una
maggiore disoccupazione ed un rallentamento
dell'inflazione e che un surplus abbia
l'effetto opposto, ed ipotizzando che due
paesi in situazione di squilibrio reciproco
reagiscano con una variazione della
occupazione di pari entità (in modo da
lasciare l'occupazione globale invariata),
potremo osservare che la non linearità della
relazione disoccupazione/inflazione condurrà
con buone probabilità ad una accelerazione
-78-
del tasso medio di inflazione ( ponderato in
ciascun paese dalla dimensione della
forza-lavoro) per i due paesi nel loro
complesso: l'inflazione "liberata" dalla
diminuzione del tasso di disoccupazione nel
paese in surplus, è solo parzialmente
compensata dalla diminuzione del tasso di
inflazione corrispondente alla maggiore
disoccupazione nel paese in deficit.
Ciò avviene perché, in corrispondenza di
bassi tassi di disoccupazione, l'ipotesi di
non linearità prevede che diminuzioni
ulteriori del tasso di disoccupazione
provochino stimoli relativamente elevati
verso un aumento del tasso di inflazione.
In particolare, l'esito di aumento del
tasso medio di inflazione dipende dalla
posizione iniziale dei due paesi rispetto
alla relazione disoccupazione/inflazione.
Vediamo brevemente questo punto.
Consideriamo due paesi, A e B, con lo stesso
-79-
ammontare di forza lavoro. Analizziamo tre
possibili casi.
1 I due paesi hanno curve di
disoccupazione/inflazione identiche. I tassi
percentuali di aumento dei prezzi sono
misurati, nella figura 1, lungo l'asse delle
ordinate (N); i tassi percentuali di
disoccupazione si trovano lungo l'asse delle
ascisse (D).
PAESE A PAESE B
H
g o
FIGURA 1
-80-
Nella situazione iniziale (Sa, Sb) ,
illustrata nella fig. 1, la pendenza delle
curve di disoccupazione inflazione (curve S)
è la medesima per i due paesi; i tassi di
inflazione e disoccupazione sono anch'essi
uguali. Supponiamo che intervenga uno
squilibrio della bilancia dei pagamenti che
provochi uno spostamento da Sa ad Sa e da Sb
a Sb, e che questo comporti una diminuzione
della disoccupazione in A pari all'aumento
della disoccupazione in B, cioè
Sa Xa = Xb Sb .
Poiché sia in A che in B le curve S sono
concave verso l'origine e hanno la stessa
pendenza in Sa ed Sb , sarà
angolo s'a Sa Xa > angolo Sb Sb Xb
e poiché Sa Xa = Xb Sb ,
avremo che S'a Xa > Xb Sb
cioè l'aumento del tasso di inflazione in A è
maggiore del decremento dell'inflazione in B;
in altre parole il tasso medio di inflazione
-81-
(non ponderato) nei due paesi aumenta.
2 II paese B (fig. 2) ha una curva
disoccupazione/inflazione meno favorevole del
paese A. Nella posizione iniziale (cioè
quella preferita) la pendenza delle curve S è
la medesima in entrambi i paesi.
PAESI A E B
FIGURA 2
Supponiamo che, dal momento che
l'inflazione dei prezzi in B nel punto Sb è
-82-
maggiore che in A nel punto Sa, il paese B
sviluppi un deficit nei confronti di A e che,
per correggere questo squilibrio, la
disoccupazione in B aumenti in misura pari
alla sua diminuzione in A,
Sa Xa = Xb Sb
Poiché la pendenza delle curve S è la
stessa in Sa ed in Sb e le curve sono concave
all'origine, avremo che
angolo s'a Sa Xa > Sb Sb Xb
e quindi Sa Xa > Xb So ,
cioè il tasso medio di inflazione (non
ponderato) nei due paesi aumenta.
FIG. 3 - PAESI A E B
-83-
3 I due paesi hanno curve S identiche
(fig. 3), qui rappresentate da una sola
curva. Nella posizione iniziale (preferita),
il paese B (in Sb) ha un più alto tasso di
inflazione ed un più basso tasso di
disoccupazione rispetto al paese A (in Sa), a
causa di una differenza nelle preferenze
relative fra disoccupazione ed inflazione.
Poiché il suo tasso di inflazione è più
elevato, B sviluppa un deficit nei confronti
di A e deve spostarsi in Sb, mentre A si
sposta in s'a. Come nei casi precedenti,
supponiamo che Sa Xa = Xb Sb. Tuttavia,
poiché la pendenza della curva S è maggiore
in Sb che in Sa, avremo che
angolo S*b Sb Xb > s'a Sa Xa
e dunque Xb Sb > Sa Xa
In questo caso il tasso di inflazione medio
(non ponderato) nei due paesi diminuisce.
Il terzo caso, appena illustrato, è
dunque l'unico in cui si manifesta una
-84-
tendenza alla diminuzione del tasso medio di
inflazione: sembra quindi che vi siano buone
probabilità nel senso di un peggioramento del
rapporto fra disoccupazione ed inflazione per
il gruppo nel suo complesso, nel caso di
cambi fissi, a causa dei più numerosi e più
seri squilibri che tale sistema è in grado di
provocare.
Fin'ora si è trattato di questo
argomento in maniera del tutto astratta.
Bisogna tuttavia aggiungere che nel pratico
funzionamento di un'area valutaria sono
presenti altri elementi che tendono a
modificare la situazione. Se siamo in
presenza di una semplice area con tassi di
cambi fissi, senza autorità monetarie o
fiscali comuni e con limitati accordi di
assistenza finanziaria per gli squilibri di
bilancia, allora la gestione individuale
delle riserve porterà ad una ripartizione
asimmetrica dell'onere dell'aggiustamento.
-85-
I paesi in surplus, tramite il semplice
accumulo di riserve, possono aggiustarsi in
una posizione molto vicina al rapporto
disoccupazione/inflazione desiderato, mentre
i paesi in deficit, pressati dall'esaurirsi
delle riserve, possono trovarsi nella
necessità di porre in essere politiche di
contenimento della domanda.
Tenendo conto di ciò, il peggioramento
del rapporto disoccupazione/inflazione può
assumere l'aspetto di una aumentata
disoccupazione, mentre il tasso medio di
inflazione potrebbe diminuire.
Nel caso di presenza di autorità
monetarie e fiscali comuni, con una
centralizzazione delle decisioni, la
situazione potrebbe essere ancora diversa:
non sarebbe infatti irragionevole per una
autorità comune, l'espandere la domanda fino
al punto in cui i paesi tendenzialmente in
surplus soffrano per un'inflazione
-tìò-
indesiderata nella stessa misura in cui i
paesi tendenzialmente in deficit soffrono per
una eccessiva disoccupazione.
I cambi fissi possono indurre, tuttavia,
anche degli effetti positivi sulla relazione
fra disoccupazione ed inflazione.
Questi si rivelano essenzialmente come
effetti psicologici: negli imprenditori come
una maggiore consapevolezza della necessità
di tenere bassi prezzi e costi, nei sindacati
come un maggior senso di responsabilità nelle
rivendicazioni salariali, dal momento che non
possono più confidare nella svalutazione come
strumento di protezione, nei politici come
una maggiore preoccupazione verso il
contenimento della dinamica prezzi-salari.
Tali effetti si manifestano tuttavia
solo nel caso che le contrattazioni su prezzi
e salari avvengano in modo centralizzato e
coprano ampi settori della vita economica.
L'ultimo fra quelli che vengono
-87-
comunemente indicati come i costi di un'area
valutaria è il possibile aggravarsi di
squilibri regionali interni ai singoli paesi.
Ammettendo infatti che, in pratica, la
mobilità del capitale è sempre maggiore di
quella del lavoro, una delle conseguenze
della fissazione dei tassi di cambio è che i
capitali trovino impieghi più remunerativi
all'estero, aggravando cosi la situazione di
aree arretrate di ciascun paese.
L'elenco dei costi e dei benefici di
un'area valutaria, che abbiamo fin qui
presentato, ha anch'esso molte delle
caratteristiche di quella che abbiamo
chiamato la impostazione tradizionale.
Ciascuna delle proposizioni presentate
rivela infatti una particolare concezione
della realtà, senza che le diverse visioni
risultino ben amalgamate fra di loro. In
altre parole, i singoli punti rappresentano
più la definizione di campi di indagine
-88-
tuttora aperti alla riflessione ed alla
verifica empirica che non delle sintesi
organiche e decisive ai fini
dell'individuazione di una linea di condotta.
In particolare, le singole proposizioni
costituiscono altrettanti argomenti di una
ideale funzione di preferenza dell'autorità
di governo { o di chiunque altro sia
coinvolto nella valutazione della decisione )
ai quali devono essere attribuiti dei "pesi".
Tali pesi, tuttavia, possono variare a
seconda delle circostanze storiche,
istituzionali ed economiche, così da rendere
impossibile la formulazione di un giudizio in
via generale ed astratta.
Nel caso, ad esempio, del Sistema
Monetario Europeo, i costi sembrano essersi
verificati tutti, mentre sono stati
apprezzati solo i benefici di carattere
politico. Chi desse una particolare
importanza a questo ultimo tipo di benefici,
-89-
tuttavia, potrà ugualmente ritenere positiva,
fin qui, l'esperienza del S M E.
In conclusione possiamo osservare due
cose: la prima è che esiste, per così dire,
una sfasatura temporale tra la realizzazione
dei costi e la percezione dei benefici. I
costi tendono ad essere immediati, in
particolare quelli derivanti da una perdita
di autonomia nelle manovre di politica
economica. I benefici, d'altra parte,
cominciano a farsi sentire dopo un intervallo
di tempo più o meno lungo, come abbiamo
visto; inoltre la realizzazione di molti di
essi dipende dal definitivo affermarsi di una
compiuta unione monetaria.
La seconda osservazione è che i benefici
sono di natura pubblica: essi sono
internazionali e riguardano la collettività
nel suo insieme. I costi, d'altra parte,
assumono generalmente natura privata: essi
sono sopportati individualmente dalle singole
-90-
nazioni, con una distribuzione che è almeno
asimmetrica, ma che spesso viene percepita
anche come iniqua.
Queste conclusioni, che non suonano
favorevoli alla realizzazione di una unione
monetaria, ci introducono al cuore delle
argomentazioni dell'approccio di scelte
pubbliche al problema delle aree valutarie.
Date certe ipotesi, è possibile infatti
applicare alla situazione monetaria
internazionale i modelli scaturiti dalla
riflessione teorica di tale scuola. In
particolare, nel prosieguo della trattazione,
ci occuperemo delle possibilità offerte, in
questo senso, dagli approcci teorici di
Mancur Olson e di James M. Buchanan.9 Lo
scopo è di definire dei modelli che spieghino
razionalmente il comportamento delle autorità
nel settore monetario internazionale, così da
evidenziare le principale tendenze che si
scontrano in questo importantissimo campo.
-91-
Specifichiamo, innanzitutto, che
parleremo d'ora in poi delle possibilità di
realizzazione di un'unione monetaria in senso
completo. Come già accennato, ci interessa
dimostrare le tendenze in atto: queste sono
meglio palesate da modelli estremi.
Introduciamo a questo punto una importante
ipotesi, fondamentale per il discorso
successivo: l'ipotesi di razionalità. I
soggetti della nostra analisi, in altre
parole, intraprendono una qualsiasi attività
solo se, e fintantoché, i benefici derivanti
da tale attività siano superiori ai costi.
Sotto questo aspetto, quindi, non c'è nulla
di diverso rispetto all'approccio costi-
benefici .
I soggetti che consideriamo sono i
governi nazionali. Essi sono le unità di
decisione individuali; ad essi si applica il
postulato di razionalità sopra enunciato. In
questo modo possiamo prevedere che una
-92-
nazione parteciperà ad una unione monetaria
solo se i benefici da essa attesi sono
maggiori dei costi sopportati. Gli Stati, nel
contesto internazionale, agiscono come gli
individui nel contesto nazionale, secondo un
antropomorfismo della comunità internazionale
mutuato, almeno in parte, dal diritto
internazionale. Sull'opportunità di una
ipotesi così restrittiva discuteremo più
avanti.1 o
Un'altra importante ipotesi è stata già
introdotta nel capitolo I: la natura di bene
pubblico della moneta in generale e, dunque,
anche della moneta internazionale.
Incidentalmente osserviamo che i due concetti
di "ordine monetario internazionale" e di
"moneta internazionale", di per sé sono
autonomi: in altri contesti possono anche
esser considerati in maniera disgiunta. Per
la nostra analisi, tuttavia, essi non sono
altro che due aspetti della stessa realtà: in
-93-
questo capitolo in particolare, essendo più
rilevanti gli aspetti istituzionali della
realtà monetaria internazionale, ricorreranno
maggiormente le espressioni "ordine monetario
internazionale" e "unione monetaria".
Per quanto riguarda la natura di bene
pubblico della moneta internazionale, basterà
ricordare che la moneta economizza i costi di
informazione richiesti per le transazioni,
assicurando cosi il possesso di un bene a
costi minori. Come l'informazione in
generale, l'uso della moneta ha una
esternalità intrinseca. Ciascun individuo
quindi deciderà se detenere moneta ed in che
misura, ma la scelta del bene che deve
fungere da moneta è un fatto eminentemente
collettivo. Una volta che la scelta sia stata
fatta, che si sia instaurato un ordine
monetario, che sia emersa la fiducia in un
bene usato normalmente come moneta, il
beneficio di ciò è collettivo, senza
-94-
distinzione di destinatari.
In quanto bene pubblico, la moneta
internazionale, come già detto, gode delle
proprietà di indivisibilità (o di "offerta
congiunta"), di non rivalità nel consumo,
dell'impossibiltà di esclusione. Su questo
ultimo punto, controverso, torneremo più
avanti.
Un'ultima costatazione riguarda ancora
la natura dei benefici e dei costi di una
unione monetaria: i benefici sono
prevalentemente pubblici, mentre i costi,
come già detto, sono sopportati da ciascuno
Stato in maniera individuale. I costi possono
tuttavia essere pubblici nel caso, esaminato
in precedenza, di un peggioramento del
rapporto disoccupazione/inflazione per l'area
nel suo complesso. Anche su questo punto
torneremo in seguito: anticipiamo
semplicemente che, in seguito, assumeremo in
ogni caso come prevalente la natura di bene
-95-
pubblico della moneta internazionale. In
altre parole, considereremo trascurabile tale
costo pubblico.
L'approccio di scelte pubbliche parte da
una costatazione fondamentale: non esiste, da
un punto di vista strettamente economico,
ragione alcuna per cui si debba arrivare ad
un livello di produzione ottimale di un
qualsiasi bene pubblico. In altre parole, la
semplice azione individuale volontaria non
porta ad una situazione considerata ottima da
un punto di vista sociale, in quanto gli
individui, secondo il postulato di
razionalità, sono in grado di apprezzare solo
il beneficio personale ma non anche quello
sociale o aggregato.
Tale situazione, denominata di
"fallimento del mercato", può condurre
praticamente a due soluzioni: o ad un livello
di offerta del bene pubblico considerato
generalmente inadeguato, oppure al cosiddetto
-96-
"free riding", cioè ad una ripartizione dei
costi di produzione del bene pubblico
considerata iniqua. In ambedue le situazioni
ci si trova al di sotto dell'ottimo. Nei casi
estremi si potrà avere addirittura un livello
di produzione nullo o la situazione in cui il
soggetto più interessato sostiene
personalmente le spese di produzione di un
bene di cui, d'altra parte, godono anche
tutti gli altri.11
Su questo solco si innestano le
riflessioni di Olson (The Logic of Collective
Action) e di Buchanan (An Economie Theory of
Clubs).i2 Anche se in contesti abbastanza
diversi, le riflessioni di questi studiosi
sono accomunate dall'intento di osservare
come gli interessi di un membro di un gruppo
che gode di un bene pubblico saranno
influenzati da un aumento o da una
diminuzione nel numero di soggetti che
consumano il bene. Per questo stesso motivo
-97-
gli schemi teorici da essi elaborati sono
rilevanti ai fini della nostra analisi.
Per quel che riguarda Olson, egli ha un
fine ben preciso: contestare l'affermazione,
tradizionale nella scienza della politica,
che i gruppi sociali perseguono il proprio
obiettivo semplicemente perché questo
obiettivo è il medesimo dei singoli membri,
ed indipendentemente dalla dimensione del
gruppo. Ferma restando l'ipotesi di una
azione volontaria ed individuale, si giunge
ad una prima affermazione: esiste una
presunzione che il bene pubblico venga
prodotto se, quando sia
(1) d Vg/d T = 1/Fi. <d C/d T),
sia anche
(2) Vg/C > Vg/Vi
In altre parole, il bene pubblico verrà
prodotto se il suo costo, nella situazione
ottimale per qualsiasi individuo (indicata
dalla 1), è così piccolo rispetto al
-98-
beneficio del gruppo nel suo insieme, che il
beneficio totale sopravanza il costo totale
più di quanto il beneficio totale stesso
sopravanzi il beneficio per l'individuo in
questione. C è il costo totale di produzione,
che è funzione del livello di produzione del
bene T secondo la relazione: C = f (T).
Il beneficio totale dipende dallo stesso
livello di produzione T e dalla" dimensione "
del gruppo Sg, che dipende a sua volta non
solo dal numero di individui del gruppo, ma
anche dal valore di una unità del bene
collettivo per ciascun individuo nel gruppo.
Il beneficio per un individuo
dipenderebbe allora dalla frazione Fi del
beneficio collettivo che l'individuo riceve.
Se indichiamo il beneficio per il gruppo
<SgT) con Vg, e il beneficio individuale con
Vi, allora Fi = Vi / Vg ,quindi Vi = Fi Sg T.
Il vantaggio Ai per ogni individuo si
definsce come Vi - C.
-99-
Ciò che fa il gruppo dipende da quello che
fanno gli individui in quel gruppo, e questo
a sua volta dipende dai vantaggi relativi di
possibili azioni alternative.
Innanzitutto bisogna quindi massimizzare
la funzione Ai = f(T). Fatte le debite
sostituzioni otterremo
F i ( d V g / d T ) - d C / d T = 0
che è equivalente alla 1. Questo ci dice
l'ammontare di bene pubblico che risulta
ottimale per un individuo.
Lo stesso individuo deciderà di
sostenere in proprio le spese di produzione
del bene se, e solo se, in assoluto è valida
la condizione Vi > C , che, rapportata al
beneficio totale del gruppo, ci da
esattamente la condizione 2 .
E 1 da notarsi che l'esistenza di un
beneficio individuale che è la frazione di
quello totale, e che può variare da individuo
a individuo non è in contrasto con la
-100-
definizione di bene pubblico di cui ci siamo
serviti. Abbiamo detto infatti che, una volta
prodotto, il bene pubblico è disponibile in
eguai misura per tutti i componenti del
gruppo. Il livello di utilità, tuttavia, può
ben essere diverso da individuo ad individuo.
Si può fare in questo caso l'esempio del
gruppo di contadini che fa pressione per
ottenere una riduzione dell'imposta sulla
terra: il bene pubblico "riduzione della
tassa" è disponibile nella medesima misura,
ma sarà di beneficio al singolo contadino
solo in relazione alla quantità di terra da
ciascuno di essi posseduta.
Il punto è che ciascun individuo,
favorito dalla difficoltà di controlli, tende
a porre in essere comportamenti strategici,
cioè a non rivelare il livello del beneficio
derivante dal bene, mentre l'unica soluzione
possibile per ottenere un livello di ottimo
paretiano, è di addossare a ciascun individuo
-101-
1'onere di un contributo, proporzionale alla
quota di beneficio ricevuto.13
Qualche osservazione sulle condizioni 1
e 2. Esse innanzitutto rappresentano un punto
di vista strettamente individuale. Per quanto
riguarda il gruppo nel suo insieme, esse non
dicono nulla in modo diretto. L'unica
previsione che si può trarre è che, se esiste
un individuo del gruppo che si trovi nella
situazione in cui la 1 e la 2 siano
soddisfatte, allora è presumibile che il bene
in questione venga "acquistato" {e quindi
prodotto). In questo caso il costo della
produzione potrebbe essere sopportato da un
solo individuo, mentre tutti gli altri
agirebbero da "free riders", stante
l'impossibilità di esclusione che abbiamo
detto esser tipica dei beni pubblici.
Esistono moltissimi esempi storici,
anche importanti come nel caso dei canali e
delle ferrovie in Gran Bretagna, di
-102-
situazioni di questo tipo.
In realtà esiste una tendenza, sempre di
tipo strettamente economico, in favore di una
sia pur minima redistribuzione della spesa di
produzione: vi sono infatti, almeno in
teoria, degli effetti di reddito di cui si
deve tener conto.
L'effetto di reddito porta un membro del
gruppo che abbia sacrificato una parte
sproporzionata del suo reddito per procurarsi
il bene pubblico a valutare il suo reddito
più che nel caso in cui avesse ottenuto il
bene stesso senza contribuire affatto.
All'opposto, coloro che hanno sopportato
l'onere della produzione del bene, si trovano
con un reddito reale maggiore, e questo fa
rafforzare la loro domanda del bene in
questione. Questi effetti di reddito tendono
a evitare che il membro più interessato si
assuma tutte le spese di produzione.
In conclusione, tuttavia, esiste una
-103-
tendenza nel senso dello sfruttamento del
membro più grande da parte dei più piccoli:
una volta che esso abbia prodotto la quantità
di bene pubblico cui è interessato, tutti gli
altri si accontentano della situazione
esistente, dal momento che non possono
venirne esclusi. Il più grande si trova privo
di potere contrattuale: non può minacciare di
ridurre l'ammontare prodotto... perché ciò
andrebbe contro i suoi interessi, e la
minaccia non sarebbe credibile!
Qualora nel gruppo non esista un
individuo che si trovi nelle condizioni
descritte delle equazioni 1 e 2, la
previsione è che il bene pubblico non venga
prodotto. Tale situazione si verifica
allorché la frazione Fi non è significativa
(nel senso specificato dalla equazione 2)
rispetto al costo di produzione del bene, per
nessun individuo.
Ciò può avvenire essenzialmente per due
-104-
motivi: o perché i costi sono relativamente
troppo elevati, (ciò che è plausibile nel
caso , ad esempio, di grandi opere
pubbliche), o perché il gruppo è molto ampio
e la distribuzione dei benefici al suo
interno è omogenea.
Anche in un gruppo molto numeroso, una
distribuzione squilibrata dei benefici (si
pensi al caso del latifondista nell'esempio
citato sopra) può infatti rivelarsi utile: si
potrebbero in questo caso trovare uno o pochi
individui, con una frazione Fi tale da
soddisfare la condizione 2.
Al contrario, se né gli individui
singoli, né il gruppo nel suo insieme sono in
grado di percepire una differenza rilevante
fra la situazione in cui un membro
contribuisce alla spesa e la situazione
opposta, allora tale membro porrà in essere i
comportamenti strategici sopra osservati; la
possibilità estrema ( ma realistica) è che il
-105-
bene collettivo non venga prodotto.
Su questa base Olson individua tre
possibilità fondamentali. La prima è che il
gruppo sia sufficientemente piccolo, ma anche
eterogeneo in dimensioni, così da lasciare
emergere un individuo che si assuma l'onere
della produzione del bene pubblico.
In questo caso vi è la presunzione che
il bene venga prodotto. La seconda è
intermedia: emerge una frazione
significativa, che fa capo però a pochi
individui: il loro atteggiamento può portare
alla produzione del bene, ma la situazione è,
a priori indeterminata.
La terza è il caso del gruppo molto
numeroso: qui la previsione è che il bene non
venga fornito.
E' da aggiungersi che, all'aumentare
delle dimensioni del gruppo, crescono anche
le spese necessario per l'organizzazione che
deve supplire alla carenza di iniziativa
-106-
individuale: questo è di per sé un ulteriore
ostacolo alla produzione del bene.
Quanto finora esposto, ed in particolare
il fatto che il bene pubblico, se pur viene
prodotto, rimane comunque ad un livello
insoddisfacente da un punto di vista sociale,
può essere sintetizzato, nel caso di
un'unione monetaria, dal seguente schema
formale.
Supponiamo che vi siano N paesi
(j = 1,2,...,N). Poniamo che Cj e X siano il
contributo del jmo paese e l'offerta di bene
collettivo. Assumiamo che X sia prodotto
secondo la seguente funzione di produzione:
X = F < Z Cj) ; Ff> O, F" < O .4**
II livello di soddisfazione del jmo
partecipante è
UJ (X, Cj), U* > O, I/ < O; U* < O,
Ui< °'
II comportamento razionale individuale
porta a :
- ÌU/-
i i J >•(3) U,, F + U* £ O , con Cj = O se la sola
diseguaglianza è verificata.
D'altra parte, per ottenere la
configurazione paretiana ottimale dobbiamo
massimizzare:v s T r2. 3 U* (X, Cj), dove i 3 sono i«M
moltiplicatori di Lagrange che indicano il
peso della valutazione. Questo ci porta aw r r T T
(4) 3L JT UÌ F1 + 3 DÌ £ O con Cj = O}**se la sola diseguaglianza è verificata.
Moltiplicando invece la (3) per 3 e
sommando rispetto a j abbiamo
(5) 2. 0J U, F f + J" 3J U^ ^ O.JH 1 ^ ^
Dal momento che UJj, <0 e F M < O,
questo mostra che il livello di bene pubblico
X corrispondente a (4) è maggiore di quello
corrispondente a (5). Perciò possiamo
osservare che il bene pubblico X è prodotto
in misura minore di quella ottimale se
ciascun partecipante si comporta secondo il
principio di razionalità individuale.
-108-
Dalla (4) e dalla (5) risulta anche
chiaro che la minor produzione di bene
pubblico è tanto più importante quanto
maggiore è il numero di partecipanti.
Se, in più, assumiamo per ipotesi che il
saggio marginale di sostituzione fra bene
collettivo e sacrificio individuale, cioè
- U 4 / U ^ > sia minore per un paese la cui
dimensione relativa è minore 14, allora
possiamo dedurre dalla (3) che un
partecipante la cui dimensione relativa è
ampia sopporta dei costi più che
proporzionali rispetto alla propria
dimensione.
In un contesto strettamente nazionale,
dunque, il problema del raggiungimento della
situazione ottimale trova una sua soluzione,
almeno sul piano teorico, in un criterio di
tassazione dei componenti che suddivida il
costo marginale dal bene pubblico in modo
proporzionale al beneficio ricevuto.
-109-
Samuelson 15 può infatti affermare:
"II fallimento del meccanismo di mercato non
contraddice affatto la seguente verità: data
una sufficiente conoscenza, è sempre
possibile trovare decisioni ottime con un
esame attento di tutte le situazioni
raggiungibili e scegliendo quella che,
secondo la funzione etica del benessere
postulata, è la migliore".
La soluzione "esiste ", il problema è come
"trovarla".
Ovviamente qui Samuelson ha in mente un
principe onnisciente, in grado di imporre, in
maniera coercitiva, la "giusta" soluzione .
E 1 da notarsi, tuttavia, che nella
conclusione dello articolo il Samuelson
sembra voler attutire la portata della
precedente affermazione : "... c'è ancora una
fondamentale differenza tecnica che va al
cuore di tutto il problema dell'economia
sociale : ... ciascuno può sperare di
-110-
strappare qualche beneficio personale, in un
modo che è impossibile con il sistema di
autogoverno dei prezzi concorrenziali proprio
dei beni privati; e le "economie esterne" o
la "domanda congiunta" implicita al concetto
stesso di beni collettivi e di attività
pubbliche, rendono impossibile che l'insieme
delle equazioni ottimizzanti sia resolubile
in quel modo che rende la libera concorrenza
anche teoricamente possibile come un qualcosa
di analogo ad un calcolatore".
Se questi problemi sorgono già a livello
nazionale, bisogna osservare che a livello
internazionale la situazione è, se possibile,
ancora più indeterminata.
Data infatti l'assenza, a livello
internazionale, di un potere coercitivo che
assicuri la condizione sopra descritta, non
esiste, nemmeno su un piano teorico, la
soluzione di cui parla Samuelson.
L'unica possibilità per il
-111-
raggiungimento di una situazione ottimale è
che si riesca a trovare un improbabile
accordo che assicuri una divisione del costo
marginale della produzione del bene pubblico,
proporzionale al beneficio marginale goduto
dai singoli membri. La previsione è dunque,
data le ipotesi sopra enunciate, che
un'unione monetaria, se pure venga
realizzata, lo sarà comunque in maniera non
soddisfacente rispetto ai bisogni dell'intera
collettività.
In secondo luogo, in tale unione sarà
diffuso il free riding : una o poche nazioni
sopporteranno la maggior parte del costo
dell'unione, mentre le altre beneficieranno
della stabilità senza "pagarne il prezzo".
Questa tendenza aumenta con l'aumentare
delle dimensioni del gruppo.
L'accenno al variare delle dimensioni
del gruppo ci introduce al secondo e forse
più complesso aspetto della problematica che
-112-
qui trattiamo : se cioè esista o meno, e
quale sia eventualmente, la dimensione
ottimale di una unione monetaria
internazionale. E 1 stata elaborata una teoria
dei clubs, che può essere utile in questo
contesto 16.
L'obiettivo fondamentale di tale teoria
è di descrivere i fenomeni di associazionismo
spontaneo e di cooperativismo quali, ad
esempio, le associazioni sportive e le
cooperative di agricoltori.
Presupposti fondamentali sono tuttavia
non solo le possibilità di escludere qualcuno
dal godimento del bene collettivo prodotto
(ciò che già pone seriamente in discussione
la natura pubblica del bene in questione),
ma anche un limitato grado di jointness of
supply. Infatti si ipotizza che, oltre un
certo limite, l'espansione numerica imponga
ai membri già appartenenti al club una
disutilità crescente, dovuta al fastidio per
-113-
l1eccessivo "affollamento".
Questo concetto è espresso da Buchanan
considerando il numero dei membri del club X
come una caratteristica fondamentale del bene
X stesso e al limite come un ennesimo bene
rientrante nel paniere del consumatore, la
cui utilità marginale, rapportata al costo
marginale, deve essere uguale ai relativi
rapporti per gli altri beni per aversi
equilibrio a livello individuale.
Rispetto alla caratteristica di
"pubblicità" del bene, si offre dunque una
teoria meramente classificatoria. Minore è la
disutilità o costo dell'affollamento,
maggiore sarà la convenienza ad espandere la
dimensione del club.
Al limite, nel caso di bene pubblico
puro, il costo dell'affollamento è nullo
(siamo cioè nella situazione di non rivalità
nel consumo) e dunque la dimensione ottimale
è infinita.
-114-
Naturalmente, se consideriamo che
l'espansione avviene per unità discrete,
possiamo vedere che facilmente la dimensione
rimarrà subottimale.
Nel corso della nostra analisi abbiamo
considerato la moneta internazionale come un
bene ad elevato contenuto di "pubblicità".
Ciò discende principalmente dal fatto che,
della moneta, abbiamo sottolineato i vantaggi
derivanti dal risparmio sulle spese di
informazione sulle ragioni di scambio
operanti sul mercato. Questo tipo di vantaggi
sono indubbiamente collettivi e difficilmente
si potrà escludere un qualsiasi individuo dal
loro godimento.
Qualora, d'altra parte, si sottolineino
i vantaggi derivanti dalla funzione di
riserva di valore, come ad esempio il
risparmio sui costi di conversione, allora si
potrà ammettere un certo grado di
esclusività: di tali vantaggi potranno godere
-115-
solo le nazioni appartenenti all'unione
monetaria.
Se quindi lasciamo, almeno in parte,
cadere l'ipotesi di non esclusività (ma non
quella di offerta congiunta e di non rivalità
nel consumo , allora potremo mantenere l'idea
fondamentale della teoria dei clubs, tendente
a ricercare le condizioni ottimali di questi
ultimi anche rispetto alle dimensioni. Se
dunque nell'insieme di nazioni N, vi sia un
sottoinsieme che crea una unione monetaria,
potremo porre a confronto la decisione
razionale individuale, se partecipare o meno
all'unione, con la condizione ottimale per il
gruppoi7.
Sia dunque If l'indice diO
partecipazione, così che
I _ = 1 se il jmo paese è nell'unioneo= 0 se il jmo paese non è nell'unione
Definiamo anche l'insieme di j paesi già
partecipanti all'unione come J^così che
-116-
j / Ij. = 1 }
Sia / KJ ̂ ) ladimensione relativa del paese j . Assumiamo
che il beneficio collettivo sia funzione
della dimensione relativa dell'unione
monetaria. Sia C- il costo della
partecipazione all'unione per il paese j. In
questo caso la scelta razionale individuale
per il paese j al di fuori dell'unione
monetaria è data dalla regola (6) : se
allora•L *• i J*" * jj ~ , allora non partecipa.
Tuttavia, per la comunità internazionale
nel suo insieme, il criterio per la
partecipazone all'unione del paese j è
Se esistono economie esterne nell'unione
monetaria il termine che rappresenta la somma
-117-
delle parentesi è positivo.
Dal raffronto fra la 6 e la 7 possiamo
osservare che, qualora i benefici comuni di
una unione monetaria aumentino con
l'aumentare della sua dimensione, allora la
scelta individuale razionale può facilmente
portare ad una unione monetaria più piccola
di quella ottimale.
Una conclusione che sintetizzi i due
punti di vista finora esposti può essere la
seguente: ammesso che la cooperazione
monetaria internazionale sia un bene
pubblicolB con le caratteristiche di offerta
congiunta e di non rivalità nel consumo, e
data l'assenza di una autorità mondiale in
tal campo, il bene in questione verrà
prodotto in misura meno che ottimale.
La situazione, in assenza di correttivi,
tende ad aggravarsi con l'aumentare della
dimensione del gruppo.
Qualora si ammetta che il bene pubblico
-118-
in questione gode in larga misura della
proprietà di non esclusività, tale situazione
meno che ottimale si manifesterà attraverso
il fenomeno del free riding.
Qualora invece si ammetta l'opposto,
sarà possibile evitare il free riding, ma
rimarrà probabilità di una dimensione
subottimale.
A proposito del concetto di esclusività,
dobbiamo chiarire che esso, pur nella sua
autonomia, rientra a pieno titolo nella
problematica della definizione della
categoria dei beni pubblici rispetto a quelli
privati. In altre parole, sembra difficile
poter parlare di "pubblicità" di un bene
senza associare ad essa anche la non
esclusività. Anche etimologicamente, il
concetto di "privato" implica proprio la
separazione, mentre il concetto di "pubblico"
richiama l'apertura verso l'intera
popolazione.
-119-
Esclusione significa qui non tanto esclusione
fisica, ma piuttosto la possibilità di
istituire un regime di controlli e di
penalizzazioni tali che nessuno sia
invogliato alla trasgressione.
Nel caso di un bene pubblico puro tale
possibilità non esiste, se non con costi
altissimi . Sulla natura di bene pubblico
della moneta internazionale e sulla
possibilità di escludere una o più nazioni
dal godimento dei relativi benefici abbiamo
già preso posizione.
Aggiungiamo qui che, data la attuale
configurazione dei rapporti economici
mondiali, che vede il mondo non comunista
ripartito in un numero limitato di aree o
sfere di influenza, sarà più probabile che,
se esclusione si può avere, essa si verifichi
per l'intero blocco e non per il singolo
paese*! 9 .
I risultati della nostra analisi possono
-120-
essere completamente sovvertiti qualora si
riscontrasse la presenza di costi pubblici
nella formazione di un'unione monetaria.
In tal caso, il livello di offerta del
bene in questione sarebbe assai meno
facilmente sentita come subottimale. Una tale
situazione si può verificare, con riguardo ad
un'unione monetaria, nel caso esaminato in
precedenza di peggioramento del rapporto
disoccupazione / inflazione, per l'area nel
suo complesso.
Un problema simile è stato sollevato
nelle considerazioni pratiche che hanno
accompagnato l'allargamento della Comunità
Europea ai paesi dell'area mediterranea,
(osserviamo a questo proposito che ben
quattro paesi appartenenti alla CEE sono
tuttora fuori degli accordi di cambio dello
SME,e fra questi Spagna, Portogallo e
Grecia). Abbiamo assunto tuttavia che tale
effetto abbia solo un impatto iniziale, e che
-121-
siano i benefici ad avere la meglio, anche se
in un periodo più lungo.
La validità di un modello dipende dal
modo in cui sono state poste le sue ipotesi:
se le ipotesi non corrispondono alla realtà,
allora anche le conclusioni rimangono
infondate. Nel nostro caso ci sembra quanto
meno lecito dubitare che i governi nazionali
siano gli unici attori nel campo monetario
internazionale, e soprattutto che ad essi si
possa pienamente applicare il postulato di
razionalità.
Partiamo da questo ultimo punto.
L'ipotesi di base riguardante il
comportamento dei politici, in un sistema
democratico, è che essi cerchino di
massimizzare il consenso.
Per sistema democratico intendiamo un
sistema pluripartitico, in cui esistano tutte
le condizioni per una libera competizione tra
i partiti. Per consenso indichiamo, molto
-122-
pragmaticamente, il numero di elettori
disposti a votare per un gruppo politico
(nell'ipotesi, naturalmente, che i politici
dirigano i loro sforzi verso gli incarichi di
governo o almeno verso il rinnovo degli
stessi). Questa è l'unica condizione di
razionalità che si può applicare ai politici
del mondo occidentale (ammesso che il mondo
occidentale, o almeno le sue più importanti
nazioni siano democratiche).
Da ciò discendono due importanti
conseguenze. In primo luogo il fatto che
l'orizzonte temporale delle decisioni dei
politici è tipicamente ristretto.
Questo è tanto più vero quanto maggiore è il
grado di democrazia: il tratto caratteristico
dei dittatori è infatti quello di incarnare
le esigenze "reali" o" profonde" del paese
(con la libertà, quindi, di discostarsi a
proprio piacimento da quelle contingenti).
In secondo luogo è del tutto arbitrario
-123-
attribuire, nelle decisioni di politica
economica internazionale, una condizione di
razionalità ai governi, che implica una
funzione di preferenza ordinata e soprattutto
stabile nel tempo. In altre parole la
relativa incoerenza, derivante dallo sforzo
di conciliare fra loro esigenze le più
disparate e mutevoli, solo apparentemente
(vorrei dire fortuitamente), ed a determinate
condizioni, può portare ad una coerenza
decisionale pari a quella che è stata
attribuita ai governi nella precedente
analisi.
Questo ci porta direttamente all'altro
aspetto, che verrà meglio approfondito nella
prossima sezione: i governi nazionali non
sembrano affatto esser gli unici soggetti
operanti nel settore monetario
internazionale. Esistono infatti altri
soggetti, in primo luogo gli operatori
economici nei vari mercati, la cui attività
-124-
volontariamente o involontariamente finisce
per limitare l'autonomia dei governi
nazionali.
In conclusione, è vero che esiste una
tendenza ad una offerta di cooperazione
monetaria internazionale minore dell'ottimo.
E' anche vero che nella misura in cui è
impossibile escludere una nazione dal
godimento di tale bene, si può avere il
fenomeno del free riding internazionale.
Non è tuttavia necessario considerare la
situazione in maniera del tutto pessimistica:
in primo luogo tali tendenze potrebbero, alla
prova dei fatti, non prevalere nella misura
drammatica che si è descritta. In secondo
luogo, e soprattutto, esse non sono le
uniche, dal momento che possiamo osservare
l'esistenza di altre forze tendenti, in un
periodo più lungo, al riequilibrio.
-125-
II - Per concludere questo capitolo, nel
corso del quale ci siamo soffermati sugli
aspetti più propriamente economici del
comportamento delle autorità nella gestione
della moneta internazionale ( nel senso della
cooperazione monetaria }, vogliamo annotare
qualche considerazione e richiamare alcuni
fatti, indispensabili per il prosieguo della
nostra indagine.
In primo luogo bisogna riconoscere che
quando si parla di moneta e di cooperazione
monetaria internazionale, non si è di fronte
ad un concetto astratto. Si è di fronte, al
contrario, ad una realtà molto concreta: un
gigantesco interscambio di beni, servizi e
capitali a livello mondiale, che richiede un
adeguato ammontare di liquidità
internazionale per la sua stessa esistenza.
Il concetto di moneta o liquidità
internazionale non è quindi vuoto ed
astratto, ma presenta un riscontro concreto
-126-
di non lieve momento. A questa notevole
"solidità" corrisponde tuttavia una serie di
sfaccettature, sul piano teorico, che rendono
spesso difficile comprendere il reale oggetto
della discussione.
Ne individuiamo tre principali, non a
caso corrispondenti ad altrettante funzioni
riconosciute alla moneta in generale.
Nella misura in cui si operi in un
regime di compensazione reciproca delle
transazioni, la moneta internazionale ha
rilievo solo come unità di conto o
denominatore comune delle merci e servizi
commerciati. E' questa una eventualità
marginale, ma di un certo rilievo teorico,
quando si tratti di istituire delle "clearing
houses" fra le nazioni, ed anche storico,
come ad esempio nel caso delle compensazioni
di prima e seconda categoria previsto
dall'accordo di Compensazione Monetaria
Multilaterale del 1947 ( e dai successivi
-127-
Accordi Intraeuropei dei Pagamenti del 1948 e
del 1949).
In effetti sembra che gli schemi teorici
usati per la costruzione dei singoli sistemi
monetari e dei pagamenti internazionali
oscillino continuamente fra la perfetta
compensazione degli scambi reciproci,
equivalente dal punto di vista contabile
all'assenza di commercio (ciò che rende
superflua la presenza di una moneta
internazionale), e la perfetta integrazione
monetaria (ma anche economico politica: la
moneta internazionale coincide qui con ...
un'unica moneta nazionale).
Quando si ammetta una sfasatura
temporale nelle compensazioni, allora la
moneta internazionale ha rilievo come riserva
di valore. Questa particolare valenza
sembrerebbe accentuata dalla stessa
terminologia usata con riguardo alla
liquidità internazionale: il fatto, ad
-128-
esempio, che si parli di "riserve" detenute
dalle banche centrali per indicare tale
liquidità.
Non tutte le attività finanziarie sono
detenute, tuttavia, a riserva. Vi è anzi una
continua selezione di tali attività : ciò può
essere interpretato correttamente solo dal
modello teorico che abbiamo esposto nel
capitolo I.
Questa considerazione ci consente di
ribadire quanto contenuto nella conclusione
dello stesso capitolo I, riguardo la moneta
(internazionale) come veicolo di informazione
e di fiducia nel processo di ricerca delle
più favorevoli ragioni di scambio sul mercato
(internazionale).
Ci consente anche, tuttavia, di osservare
che, oltre alla definizione del contenuto
concreto di liquidità, è anche importante il
fatto che tale contenuto è alquanto mutevole.
Storicamente, infatti, il ruolo di moneta
-129-
internazionale è stato svolto dai metalli
preziosi , in particolare l'oro, affiancati
di volta in volta da strumenti cartacei
diversi: la sterlina, il dollaro, il marco e
lo Yen.
Questa mutevolezza riflette la continua
ricerca che gli operatori hanno sempre
compiuto nel senso di una attività
finanziaria affidabile e disponibile nella
giusta misura.
Proprio questa continua ricerca di un
mezzo di scambio efficiente ed affidabile è
la chiave di volta di quella transizione (o
evoluzione) del sistema monetario
internazionale che è stata definita come il
crollo del sistema di Bretton Woods.
Tale sistema vedeva gli Stati Uniti come i
principali fornitori di liquidità, in una
relazione con le altre nazioni di cui si è
più volte sottolineata l'asimmetria.
- i ,>U~
Mentre infatti gli Stati Uniti erano gli
unici ad aver fissato una parità della
propria valuta con l'oro, che si impegnavano
a fornire contro dollari a richiesta delle
banche centrali, tutti gli altri paesi
avevano fissato le proprie parità nei
confronti del dollaro.
Questa situazione aveva una conseguenza
principale: da una parte il mondo aveva
bisogno di liquidità, dall'altra
un'espansione della liquidità, cioè un
aumento dell'offerta di dollari, minava il
sistema alla base in quanto faceva
diminuire la fiducia nella successiva
conversione dei dollari in oro20.
Il sistema, che vedeva l'offerta di oro in
crescita troppo lenta rispetto alla domanda
di liquidità e l'offerta di dollari
dipendente dalla bilancia dei pagamenti
statunitense, era basato in definitiva su una
sorta di scommessa: che gli squilibri delle
-131-
bilance dei pagamenti fossero solo temporanei
e non strutturali.
L'inarrestabile deflusso di capitali che
durò per tutti gli anni sessanta e che, in
particolare fra il '68 e il '71, portò quasi
costantemente in rosso i conti con l'estero
degli Stati Uniti, fecero invece esplodere
tutte le contraddizioni del sistema.
La dichiarazione di inconvertibilità del
dollaro in oro del 15 agosto 1971 da parte
degli Stati Uniti portò, in buona sostanza,
ad una svalutazione del dollaro nei confronti
delle altre valute restìe fino ad allora a
rivalutarsi (secondo un meccanismo di
riallineamento che era pur previsto dagli
accordi)21 .
Il fatto che alcuni sottolineino le
responsabilità dei paesi europei non fa che
spostare la visuale senza modificare la
sostanza dei fatti .
Dobbiamo a questo punto osservare come
-132-
10 svolgimento dei fatti possa essere
agevolmente interpretato alla luce di quanto
esposto nella prima parte di questo capitolo.
11 sistema era trainato infatti
principalmente dagli Stati Uniti, che
attraverso l'impegno alla conversione in oro
ne mantenevano la stabilità di fondo.
Gli altri paesi, particolarmente nei
periodi di surplus, sopportavano un costo,
indubbiamente meno che proporzionale rispetto
al proprio peso.
Gli Stati Uniti hanno posto fine a
questo sistema non appena esso si è
manifestato come eccessivamente oneroso
rispetto ai benefici che esso garantiva.
Tali benefici consistevano essenzialmente
nella minore preoccupazione per il vincolo
esterno: il fatto che il dollaro fosse una
moneta internazionale universalmente
accettata, permetteva di finanziare ampi
squilibri di bilancia, senza prendere misure
-133-
concrete contro di essi.
Alcuni autori hanno riconosciuto in
questo aspetto la estrazione di un autentico
signoraggio da parte della potenza
dominante.I costi erano rappresentati dal
continuo drenaggio di riserve auree e dagli
effetti destabilizzanti sull'intera economia
che il prolungato deficit provocò.
La sostanziale svalutazione del dollaro
nel 1971 - '72 ed il passaggio al regime di
fluttuazione non sembrarono alterare la
struttura di fondo del sistema. Gli Stati
Uniti rimanevano la maggiore potenza
economica: il dollaro, una volta
riconquistata la fiducia dei mercati,
riprese il proprio ruolo centrale nel sistema
dei pagamenti internazionali.
La forza di questa moneta (come di
qualsiasi moneta chiave: la sterlina ne fu un
altro esempio) era infatti legata non tanto
al suo legame con l'oro, quanto alla quantità
-134-
e qualità di merci e servizi che essa
permetteva, in qualsiasi momento, di
acquistare.
Il nuovo sistema non portò le
conseguenze negative che i suoi detrattori
avevano previsto22. Il commercio
internazionale continuò a crescere a ritmi
sostenuti, anche se non è possibile dire come
sarebbe cresciuto altrimenti.
Gli episodi speculativi furono molto
simili a quelli già avvenuti nel precedente
sistema.
Non si manifestarono , tuttavia, nemmeno
le conseguenze positive previste da coloro
che erano favorevoli al nuovo sistema.
L'evidenza empirica23 mostra che la domanda
di riserve internazionali rimase stabile
durante il periodo 1963 - 1972 e 1973 - 1979.
Rispetto ai notevoli cambiamenti
monetari, i cambiamenti strutturali
(specialmente nei paesi industrializzati) non
-135-
sono stati cosi drammatici come ci si poteva
aspettare. In particolare, la necessità di
detenere riserve è stata costante e non è
stata ridotta dal passaggio al sistema di
tassi fluttuanti.
Le autorità monetarie, in altre parole,
hanno continuato ad intervenire sul mercato,
mostrando cosi che continuava a rientrare tra
i loro principali obiettivi quello di
assicurare una sostanziale stabilità nei
rapporti tra le valute.
Questo ci conduce direttamente ad una
seconda osservazione: il passaggio ad un
sistema di cambi fluttuanti non assicurò
affatto quella indipendenza che era auspicata
dai suoi sostenitori.24
Una crescente letteratura analitica ed
empirica ha sottolineato i canali di
trasmissione dei cicli economici attraverso
le nazioni e posto in evidenza la presenza di
un ciclo economico mondiale indipendente dal
-136-
regime di cambio. In realtà può essere
necessario, per un corretto funzionamento di
un regime fluttuante, un grado di
coordinazione politico - economica pari o
addirittura superiore a quella necessaria in
un regime di cambi fissi.
La conclusione sembra essere che in
qualsiasi tipo di regime di cambi è
necessaria una regola prestabilita cui le
autorità monetarie siano vincolate nel loro
operare. Solo la presenza di una tale regola
può assicurare fiducia agli operatori e
stabilità del sistema: la sua eventuale
trasgressione porta automaticamente alla
destabilizzazione del sistema.
Tale destabilizzazione, a causa della
stretta interdipendenza fra le nazioni
sviluppate, si ripercuote necessariamente
anche sulla nazione che ha operato la
trasgressione, senza che l'uno o l'altro dei
vari sistemi di cambio riesca ad isolare
-137-
completamente da tali ripercussioni.
E' stato a questo proposito osservato
che negli anni delle parità fisse, i paesi
erano vincolati fra loro per evitare
eccessive oscillazioni dei saldi delle
bilance dei pagamenti, mentre negli anni dei
tassi fluttuanti essi sono stati vincolati
per evitare eccessive oscillazioni dei tassi
di cambio25.
Questa considerazione rende quasi inutile
l'acceso dibattito fra sostenitori dei cambi
flessibili e sostenitori dei cambi fissi.
L'unica cosa importante rimane il fatto che
le autorità monetarie abbiano la sensibilità
necessaria per porre in essere una
cooperazione che assicuri una crescita
stabile e controllata della liquidità e
garantisca l'affidabilità complessiva del
sistema.
A proposito di interdipendenza,
osserviamo che sono disponibili in proposito
-138-
alcune evidenze empiriche immediate, che
riguardano sia l'interscambio di beni e
servizi, sia il mercato internazionale dei
capitali.26
Dalla tabella 1, che pur sottovaluta la
consistenza dell'interscambio in quanto non
comprende i servizi, risulta chiaramente che
la crescita dell'interdipendenza economica,
misurata dalla incidenza dell'interscambio di
merci sul reddito nazionale, è un fatto
caratteristico non soltanto del nostro
secolo. Bisogna tuttavia notare che nel
periodo compreso fra il 1860 e la II guerra
mondiale, tale tendenza sembra arrestarsi in
coincidenza con l'ondata di protezionismo e
di generale nazionalismo economico che la
caratterizzò.
Tale processo ha subito inoltre battute
di arresto là dove il decollo
dell'industrializzazione è stato favorito da
politiche protezionistiche, come in USA e in
-139-
TABELLA 1. Incidenza percentuale dell'interscambio di merci(import -i- export) sul reddito nazionale, 1800 - 1971
Periodofra le due
Sec.XIX
In.
USA 15
Regno Unito 20
Giappone -
Francia 16
Germania 28
Italia
Danimarca -
Norvegia -
Svezia -
Argentina -
Australia -
Canada -
Fine
14
56
16
33
35
22
55
44
35
-
40
28
guerremondiali
AnniVenti
11
42
37
51
34
26
57
43
32
-
35
36
AnniTrenta
8
34
36
24
20
28
49
36
25
36
-
26
SecondoDopoguerra
1955
8
44
25
24
37
26
60
63
46
30
38
28
1963
7
33
20
22
32
28
55
58
41
18
29
34
1971
9
37
22
28
38
33
52
59
44
14
26
41
FONTE: Deutsch - Eckstein, Kuznets e GNU, da R.A.Batchelor, R.L. Major e A.D. Morgan, Industrialization andthè basis for trade, Niesr, Cambridge (Mass.), CambridgeUniversity Press, 1980, tab. 6.5, p. 168
-140-
Australia nel periodo prima della guerra
1914-18. Dopo la seconda guerra mondiale tale
processo ha subito invece un notevole
rilancio a causa soprattutto del progressivo
abbattimento delle tariffe.
La tabella 2 mostra invece come
l'elasticità rispetto alla produzione
industriale dell'import—export di merci a
prezzi costanti sia sensibilmente aumentata
nel decennio 1973-1982: ciò è da
interpretarsi come una pronta risposta dei
paesi sviluppati alle crisi petrolifere, che
hanno condotto ad un più intenso sforzo verso
l'incremento delle esportazioni e ad una
maggiore complementarietà fra importazioni di
semilavorati a basso costo ed esportazione di
prodotti finiti.
La tabella 3 , forse la più
interessante, mostra l'andamento del grado di
apertura a prezzi correnti per i maggiori
paesi o gruppi di paesi negli ultimi tre
-141-
TABELLA 2. Produzione industriale e scambi di merci dialcuni paesi industriali: tassi di crescita media annua edelasticità 1963 - 1982, a prezzi costanti
Produz.industr.
Paesi industr.
USA
Giappone
Francia
Germania
Italia
Regno Unito
Svezia
Belgio
Olanda
1 963-1 9731973-1982
1 963-1 9731973-1982
1963-19731973-1982
1963-19731973-1982
1963-19731973-1982
1963-19731973-1982
1963-19731973-1982
1 963-1 9731973-1982
1 963-1 9731973-1982
1963-19731973-1982
6,1,
5,0,
12,2,
5,1,
5,0,
5,0,
3,-o,
5,0,
4,0,
7,1,
00
55
00
50
05
55
55
00
55
50
Exp
9,4,
7,2,
16,8,
10,4,
9,4,
11,5,
6,3,
8,2,
11,2,
12,3,
00
55
05
50
0O
50
00
00
55
00
Imp
9,2,
9,2,
14,0,
11,4,
10,3,
8,1,
7,1,
6,2,
11,2,
10,1,
O0
50
55
05
55
00
00
55
05
00
Expproduz.
1,4,
1,5,
1,4,
1,4,
1,8,
2,10,
1,—
1,—
2,5,
1,3,
5000
3600
3325
9100
8000
1000
71
60
5500
6000
Impproduz
12
14
10
24
27
12
2—
1
—
25
11
,50,00
,73,00
,29,25
,00,50
,10,00
,45,00
,00
,30
,44,00
,33,00
FONTE: GATT, International Trade 1982-1983, Genove, 1983,tab. A13.
-142-
TABELLA 3. Grado di apertura: export e import di beni eservizi rapportati al PIL (a prezzi correnti), 1952-1981
1952-1953 1960-1961 1970-1971 1980-1981
Export di benie servizi
CEE-10
USA
Giappone
Import di benie servizi
CEE-10
USA
Giappone
20,1 22,7 29,3
5,3 5,1 5,6 9,9
11,0 10,1 11,3 14,7
19,4 21,8 29,9
4,4 4,3 5,6 10,7
11,8 10,8 9,2 14,8
FONTE: OECD, National Accounts.
-143-
decenni. E 1 interessante notare che tale
indice di interdipendenza ha subito, nel caso
degli Stati Uniti, un incremento vicino al
raddoppio nel decennio 1971 - 1981.
A questo proposito, nel 1983 Jacob A.
Frenkel osservava che27 "gli Stati Uniti sono
sempre stati una economia aperta. La misura
appropriata di apertura al commercio
internazionale in beni e servizi non è
infatti la quota del commercio effettivo
rispetto al PIL, ma piuttosto la quota di
beni commerciabili (cioè di commercio
potenziale) rispetto al PIL, la quale è molto
maggiore...Inoltre, uno dei principali legami
degli Stati Uniti con l'economia mondiale
opera attraverso i mercati mondiali del
capitale con cui gli Stati Uniti sono
chiaramente ben integrati ".
Queste osservazioni non possono non
avere precise conseguenze prescrittive
rispetto alla politica monetaria dei singoli
-144-
paesi, ed in particolare degli Stati Uniti.
Tali conseguenze verranno esaminate nel
prossimo capitolo.
Per concludere, osserviamo che l'ultima
considerazione del Frenkel riporta la nostra
attenzione su un ulteriore aspetto
dell'interdipendenza: quella provocata dalla
crescente integrazione del mercato dei
capitali che ha caratterizzato gli ultimi
decenni. Nella tabella 4 è riportato
l'esempio forse più eclatante di questo
fenomeno: la espansione del cosiddetto
"euromereato".
Al di là delle numerose questioni e
polemiche che si sono accese in questo
settore28, ci interessa qui notare alcuni
punti essenziali.
In primo luogo l'euromereato ha favorito
in più occasioni il "riciclaggio" di dollari
in eccesso che costituivano una mina vagante
nel sistema monetario internazionale. Questo
-145-
TABELLA 4. Dimensioni stimate dell'euromereato (consistenzefine anno, in miliardi di dollari) e tassi di crescita.
Dimensione lorda
Anni
196419651966196719681969197019711972197319741975197619771978197919801981198219831984
Tassi
totaleeuromerc.
19202532466586150210315395485595740949124515741950216422802383
di crescita
di cuieurodoll.%
n.d.n.d.n.d.n.d.7981797678747678807674727679808182
Dimens .nettatotale
14172125345065851101602202553143794785847971034119112481274
media annui
Tassi di crescita %
dimens.lorda
5,325,028,043,841 ,332,374,440,050,025,422,822,724,428,231 ,226,423,911,05,44,5
27,3
dimens.netta
21,423,519,036,047,130,030,829,445,537,515,923,12O,726,122,236,529,715,24,82,1
25,3
FONTE: G. GANDOLFO, Economia Internazionale, II, Torino,1986, Tab. 19.1 (elaborazione su dati: Morgan Guaranty TrustCo., World Financial Markets, anni vari).
-146-
è avvenuto in particolare nel 1968 - 69
(unici anni di surplus nella bilancia dei
pagamenti americana fra il '60 e il '73,
escluso il 1966) ed in coincidenza con le
crisi petrolifere del 1973 - 74 e del 1979 -
80. Nel primo caso il mercato
dell'eurodollaro, attraverso l'indebitamento
che le banche americane effettuarono su di
esso per la scarsità di liquidità interna,
contribuì a migliorare la bilancia e così ad
alleviare la situazione di sopravvalutazione
del dollaro stesso. I dollari così
rastrellati dalle banche americane sarebbero
finiti altrimenti tra le riserve , già
eccedenti, dei paesi in surplus.
Nel caso dei cosiddetti "petrodollari",
il loro riaffluire in gran parte
sull'euromereato contribuì in misura
determinante al finanziamento di un deficit
dei paesi importatori di petrolio che aveva
assunto proporzioni gigantesche.
-147-
Le tracce di questi avvenimenti sono
chiaramente rinvenibili nella tabella 4.
L'altra considerazione a proposito di
euromereato (o xenomercato) è che esso
costituisce una tipica espressione di
spontaneità delle forze economiche in un
libero mercato. Il fatto che, come molti
hanno osservato, la sua presenza limiti le
possibilità di controllo delle banche
centrali sugli aggregati monetari può essere
visto come un bene o, più probabilmente, come
un male. In ogni caso questo stesso fatto
rafforza, a maggior ragione, la tesi che la
gestione degli aggregati monetari debba
avvenire, oramai, in maniera coordinata.
-148-
NOTE
Chi fosse interessato ad approfondire l'origine ditale approccio può consultare i lavori di:ISHIYAMA Y., The Theory of Optimum Currency Areas:A Survey, "IMF Staff Papers", 1975, pp. 344 - 383;TOWER E. e WILLET T.D., The Theory of OptimumOurrency Areas and Exchange Rate Flexibility,Special Papers in International Economics No. 11,International Finance Section, PrincetonUniversity, 1976;ALLEN P.R. e KENEN P.B., Asset Markets, ExchangeRates and Economie Integration, CambridgeUniversity Press, Part V, 1980.
V. MUNDELL R.A., "A Theory of Optimum CurrencyAreas", American Economie Review, 1961.In relazione ai problemi di equilibrio in un'areadi libero scambio v. ancheMEADE J.E., "The Balance of Payments Problems of aEuropean Free-Trade Area", Economie Journal, 1957.
V. FLEMING J.M., "On Exchange Rate Unification",The Economie Journal, 1971, pp. 467 - 488.Vedi anche G. GANDOLFO, Economia Internazionale,II, Torino, 1986, pgf. 15.4.3 .
Per una panoramica sull'analisi costi — beneficicfr. le opere già citate di ISHYIAMA, TOWER eWILLET, ALLEN e KENEN.
Per una rassegna di tali opinioni V. GUGGENHEIMT.,"Some Early Views on Monetary Integration", inJohnson and Swoboda (eds), The Economics of GommonCurrencies, London, 1973.
-149-
Valga, per tutti, un esempio: a proposito delcoordinamento delle politiche monetarie nella CEEe della proposta francese di creare una bancacentrale europea "è prevalsa alla riunione diTravemùnde l'opinione, condivisa dal governoitaliano, che debba trattarsi di un processonaturale, che prenderà necessariamente del tempo:non si può anteporre lo sbocco finale a quelliche sono i passi necessari per raggiungerlo. Il
problema della Banca europea continuerà perciò adessere esaminato e se ne parlerà certamente alprossimo vertice comunitario di fine giugno adHannover; ma sono da escludersi decisioni a brevetermine." (dal "CORRIERE DELLA SERA", 15 maggio1988, p. 13. Nostra sottolineatura). Secondo iministri finanziari della CEE, quindi, lacostituzione di una Banca centrale europearappresenta lo sbocco finale, non l'inizio di unprocesso.
Per una analisi di questo punto v. FLEMINGJ.M., op. cit.; v. anche ARCHIBALD G.C., "ThePhillips Curve and thè Distribution ofUnemployment", American Economie Review, 1969;LIPSEY R.G., "The Relation between Unemploymentand thè Rate of Change of Money Wage Rates in thèUnited Kingdom, 1862-1957: A Further Analysis",Economica, 1960.
8Per una valutazione dello SME alla luce dei
criteri fin qui enunciati v. GANDOLFO, op. cit.,pgf. 18.7.3.
V. in particolare M. OLSON Jr, The Logic ofCollective Action: Public Goods and Theory ofGroups, Cambridge, 1965;J.M. BUCHANAN, "An Economie Theory of Clubs",Economica, 1965, pp. 1 - 14.
-150-
10Per questo punto v., oltre ai già citati FREY,Economia Politica Internazionale; OLSON eZECKHAUSER, 'An Economie Theory of Alliances",anche K. HAMADA, On thè Politicai Econony ofMonetary Integration: A Public Economics Approach,in R.Z. ALIBER, The Politicai Econony of MonetaryReform, London, 1977.
11La situazione del free rider è descritta in modocalzante dall'immagine dei "portoghesi" sui mezzidi trasporto pubblici. Essi sentono infatti comemolto remota sia 1'incidenza negativa del propriocomportamento sul bilancio della azienda (e quindisullo stato del servizio pubblico), sia lapossibilità di un controllo. Per un esempio dibeni in buona misura pubblici, ma forniti daprivati, si veda la costruzione della rete dicanali e della rete ferroviaria in Gran Bretagna.Cfr. PHYLLIS DEANE, The First IndustriaiRevolution, London, 1967.
12 V. nota 9.
13P.A. SAMUELSON, "Diagrammatic Exposition of aTheory of Public Expenditure", in Review ofEonomics and Statistics, 1955, pp. 350 - 356:sembra esser questo, infatti, il sensofondamentale dell'articolo. Per un diversoapproccio, conducente però a risultati analoghi,cfr.: E. LINDAHL, "Just Taxation - A Positivesolution", ad es. in MUSGRAVE e PEACOCK (eds.),Classics in thè Theory of Public Finance, NewYork, 1967, pp. 167 - 176.
14Questa può essere una logica conseguenza del modoin cui si strutturano le preferenze quando ledifferenze di reddito fra le nazioni consideratesono sostanzialmente ampie; cfr. OLSON e
-151-
ZECKHAUSER, An Economie Theory of Alliances, op.cit.
15P.A. SAMUELSON, 'The Pure Theory of PublicExpenditure", in Review of Economics andStatistics, 1954, pp. 387-39O.
16V. nota 9. Cfr. anche Y.K. NG, "The EconomieTheory of Clubs: Pareto Optimality Conditions",Economica, 1973, pp. 291-298.
17V. K. HAMADA, op. cit..
18Nella nostra analisi trascuriamo i costi di"affollamento" che si manifestano come costiorganizzativi e decisionali. Questi ultimi,indubbiamente crescenti con la dimensione delgruppo, si rivelano importanti in determinatesituazioni. Cfr. Olson, The Logic of CollectiveAction, op. cit. e J.M. BUCHANAN e G. TULLOCK, TheCalcolus of Consenti Logicai Foundations ofConstitutional Democracy (Ann Arbor: University ofMichigan Press, 1962)
19Questa opinione sembra condivisa da M. FRATIANNI -J.C. PATTISON, Le Organizzazioni EconomicheInternazionali, Franco Angeli, 1977, p. 14.
20Questo è il c.d. dilemma di Triffin. Cfr. R.TRIFFIN, Gold and thè Do1lar Crisis: The Future ofConvertibility, New Haven, Connecticut, 1960.
21Cfr. B. TEW, The Evolution of thè InternationalMonetary System, London, 1982.
-152-
22V. GANDOLFO, op. cit., cap. 18, anche per labibliografia relativa a questo punto.
23V. J.A. FRENKEL, International Liquidity andMonetary Control, in G.M. von FURSTENBERG,International Money and Credit: The Policy Roles,Washington, 1983.
24Su questo punto v. A.K. SWOBODA, "Exchange RateRegimes and U.S. - European PolicyInterdependence", International Monetary Fund,Staff Papers, 1983, pp. 75-102, nonché R.DORNBUSCH, "Flexible Exchange Rates andInterdependence", IBIDEM, pp. 3-3O.
25Questo vale in particolare per i paesi europei neiconfronti degli Stati Uniti. Le variazioni delcambio possono avere effetti sia sullatrasmissione dell'inflazione sia nella forma dicosti sociali derivanti da notevoliredistribuzioni di risorse fra settori dei beninon commerciati e settori dei beni commerciati.
26V; F. ONIDA, Economia degli Scambi Internazionali,Bologna, 1984, specialmente cap. I.
27J.A. FRENKEL, International Liquidity and MonetaryControl, in G.M. von FURSTENBERQ, op. cit., p. 96.
28Per una bibliografia a riguardo v. GANDOLFO, op;cit., cap. 19.