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1 XII Concorso Internazionale di Poesia e Prosa Giuseppe Longhi edizione CITTÀ DI ROMANO DI LOMBARDIA ASSESSORATO ALLA CULTURA

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XIIConcorso Internazionale

di Poesia e Prosa Giuseppe Longhi

edizione

CITTÀ DI ROMANO

DI LOMBARDIA

ASSESSORATO

ALLA CULTURA

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XIIConcorso Internazionale

di Poesia e Prosa Giuseppe Longhi

edizione

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Il Concorso di poesia Giuseppe Longhi giunge alla sua dodicesima stagione. Nel panorama dei concorsi di poesia ha ormai assunto una sua importante collocazione e identità.Nato nel 2003 come Concorso Nazionale di Poesia intitolato alla fi gura romanese di Giuseppe Longhi, Sindaco di Romano di Lombardia dal 1975 al 2003, insegnante e scrittore, il concorso già dalla terza edizione assume un profi lo internazionale espandendo oltre i confi ni nazionali la raccolta di componimenti. Nel 2010 viene introdotta la sezione dialettale bergamasca, coinvolgendo poeti che scrivendo in vernacolo, esprimono in modo particolare voci ed emozioni peculiari di un territorio. Nel 2011 infi ne un ulteriore tassello completa il quadro attuale, con la volontà di raggiungere in modo strutturato i più giovani introducendo categorie a loro dedicate: bambini e ragazzi trovano spazio per cimentarsi e confrontarsi con la produzione letteraria. Una novità che vuole essere al tempo stesso un invito a coltivare una passione e un’opportunità di espressione e confronto. Con queste fi nalità, nello stesso anno, si introduce anche la sezione PROSA riservandola proprio ai più giovani cui si intende off rire uno spazio ulteriore per coltivare la propria creatività e passione per la letteratura. Un percorso quindi mai statico ed in continua evoluzione, in cui individualità e generazioni diverse anno per anno si confrontano ed esprimono su un tema comune, che vuole essere spunto e stimolo intellettuale e di emozione. La tematica scelta per l’edizione 2015 è:

MEMORIA DI INCONTRI

Fermarsi a osservare e cercare un senso, un signifi cato, a ciò che attraversa le nostre storie.Eventi attesi o improvvise sterzate della vita verso panorami del tutto nuovi.

Prospettive chiare di gioia, scure di dolore, cariche di attese, stupore, ammirazione, rimpianti, tenerezza... ricordi. E per non dimenticare, raccontarsi e raccontare.

Visto il respiro sempre più ampio che vogliamo dare a questo evento, da quest’anno la data della serata fi nale di premiazione del concorso sarà coincidente o vicina al 21 marzo che, oltre ad essere il primo giorno di primavera, coincide infatti con la Giornata Mondiale della Poesia, istituita nel 1999 dalla Conferenza Generale dell’Unesco. La data per noi italiani assume una valenza ancora più signifi cativa essendo coincidente con il compleanno di Alda Merini (nata a Milano il 21 marzo 1931 e morta sempre a Milano il 1° novembre 2009). Il Concorso Longhi, voluto e sostenuto dall’Amministrazione comunale, trova la sua collocazione naturale nel sito web del Comune così come nella app “Smartcity Romano di Lombardia”. Perché proprio tutti possano essere protagonisti di questo evento con un semplice click. Ringrazio personalmente ogni singolo Autore per aver preso parte alla dodicesima edizione del concorso. Auspico che oltre all’appassionata partecipazione degli scrittori adulti, il concorso possa sempre più entusiasmare le giovani generazioni sia quale occasione di valorizzazione personale, sia come opportunità di arricchimento sociale.

Il Sindaco Sebastian Nicoli

12 ANNI IN POESIA.

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Ritorno sempre sulla prima stradadella mia vitaassolata, piena di polvere, poveraEppure la campagna mi è rimasta campagnail verde dell’erba non ha mutato coloreLe timide viole mi appartengono ieri come oggiL’aratura è solo mutata da fi ato dei buoisostituito dal rombo del trattoreSolo il fascino del grano è impalliditocome i colori delle mie guanceMa ritorno sempre sulla prima stradadella mia vitaCosì continuo a sognare

8-5-1997

Giuseppe Longhi

LA MEMORIA

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12 anni in poesia.Poesia Giuseppe Longhi

Dietro il muro dei capperiE sogna di meIl donoQuando la luna incontra il mareSedici ottobreAccenno d’intesaL’Assunta o la felicitàRitorno a casaMemoria di un Re poetaQuesti specchi di cielo

Col panino raff ermoCol michèt istantìt

IncontriL’incontroUn incontro per sempreUna giornata specialeEmma…

La melodia dei ricordiMemoria d’incontriTi vidi e mi fermai…Francesca Per ogni incontro una grande emozione

Ode per il mare all’albaLa forma delle tue ditaDolore pungente Sfi orami senza riguardi. Un nome

poesia Senior

Dialettale

StudentiScuola

Primaria

Scuola

Secondaria

Inferiore

Scuola

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Lettera del Sindaco

Nicoletta ManettiVincenzo D’AmbrosioMatilde BufanoMaurizio Bacconi

Pietro CatalanoLaura MichelottiIvan FedeliAnna Maria BonavogliaFrancesca TorresaniDomenico Bertoncello

Marino Ranghetti

Alessandro ZaniRoberto NavaMatilde AielloAndrea LorentiIrene Biondi

Mirko CaforioValentina SergiMarigona KabashiSara BertocchiValentina Grigis

Shannon MagriAlessia MerisiJacopo SozziSara MuçaNatasha Vagnarelli

INDICE

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poesiaSezione Senior

Come è dura la vita!Ancora con leiUn incontro insolitoMemoria di incontriSogno di un incontro

La leggenda di NormL’inverno di JamesL’incontro sotto la pioggiaImprevisti di generazioniQuasi Aladdin

Onde di gennaioMemorie di un incontroAnna e AgneseIl professore di fi losofi aC’era una svolta

raccontoStudentiScuola

Primaria

Scuola

Secondaria

Inferiore

Scuola

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Matteo DamianiAnna LorenziMarco BorelliSofi a SassiGiulia Pezzoli

Alice DehòGiulia BracchiIsmaele MondiniAisha Beatrice Th iamAurora Mirto

Francesca VenezianiArtiom NotoFiammetta FioriSara BoccassiAngela Guarnieri

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Resta così, gli smeraldi incustoditi,per una volta alla mia essenza dedicati.Così. Nel tintinnare delle tue parole

che piovono nella luce dorata dell’ultimo sole.

Perditi ancora un po’ nei miei rari sorrisinel taglio straniero dei nostri visi.…e sogna di me. Sogna cose belle

di me, vagabondo nelle notti povere di stelle.

Sogna di me mentre riposi il cuore,sogna una carezza, un gentile desiore.

Frema il tuo collo sottile d’un bacio non dato,così perfetto schiavo, mai liberato.

Conservami nel cuore, come goccia rubinosulle tue labbra posata, rugiada di vino.

E sogna anche un solo respiro da spartire,seduta con me sulla riva del mare.

E SOGNA DI ME

Vincenzo D’AmbrosioSecondo Classifi cato

DIETRO IL MURO DEI CAPPERI

Dietro il muro dei capperidi corsa su per la salita al leccioNon tornare a piangere! mi gridi dalla soglia di cucina.Sempre croste sulle mie ginocchia,rosse di ortiche le mani dal cercare. Dire fare baciare sulla schienalettera e testamento e noi si sperache ci tocchi sempre di baciare. Allora Guido a un tratto si fa cupoballano le buccole a Mariadai ci si nasconde, te alla base,e mi ritrovo sola poi a cercaredove si son cacciati, il fi ato grosso mi assorda forte adesso nel silenzio.Nino schizza fuori dal capannobomba libero tutti contro il pino!Ma la mano di Guido mi trascinaa perdifi ato giù tra le ginestrein una corsa di salvia polverosaa ruzzolare il viottolo di sassi.Ci fermiamo in fondo ad assaggiareil succo nero aspro delle more.

Nicoletta ManettiPrima Classifi cata

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Quando la Luna incontra il maredisegna sentieri danzanti di ondecongiunge la luce di stelle diverse

speranze che affi oranonon vanno perse

quando la Luna si specchia nell’acquaincunea la storia dell’oscurità

carezze lievi che oscillano al ventovoci sbiadite

inghiottite dal tempo

quando la Luna si vede rifl essaaccende un pensiero di cui si compiace

è sola, è unica al tempo stessochi la anela

la porterà appresso

Lunache ancora e sempre incidi la notte

Mareche sei propaggine dei nostri limiti

Siete lì ancora fusi insiemee vi incontrate muti in ogni istantefatto soltanto di umana emozione

dove il vostro tutto risvegliail nostro quasi niente…

QUANDO LA LUNA INCONTRA IL MARE

Maurizio BacconiQuarto Classifi cato

Solo gli strati d’aria alti sopra la terraerano la mia casa dove nacqui ridendoalle uve brunite e al carrubo denso nella magnifi cenza di una carrozza d’orocolma di semi rari e rose, di upupe regalie gatti di bambagia e seta, affi late le unghie di cristallo, come le tue nelle mie carni.Brividi di gioia fra grida impudiche di gabbiani in volo furibondo intorno a me sul trono di spine ghiacci e miele - strazio e dolcezze -sovrastante il mondo di piaghe e incongruenzee creature ferite da amare a perdifi ato.Là in alto mi cercasti spiandomi goloso di gioielli e galoppi sfrenati nelle impervie contrade di pensieri in fi amme. Pensavo di scacciarti, o mio cipresso oscuro, ma decisi: una vita da re ti avrei donato nelle rugiade del mio antico giardino dove solo per te avrei intonato rime e cantiche devote.Per me fu il volo felice di un’era gigantescaa mani tese succhiavo i tuoi pensierili ornavo di sangue bollente di uvaspina e gighema tu smarrito nel tuo recinto coi sigilli gli occhi tristi cercavi bellezze e pace altrove.Muto partisti - e io non saprò mai se quel mio dono ti diede vita o morte.

IL DONO

Matilde BufanoTerza Classifi cata

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Fuori la nebbia equorea sostanza impalpabile vela e rivela gli oggetti i nostri profi li confonde confonde me stessa. Immerso la vedi lontana vicino la senti soltanto: ti sfi ora ti avvolge.

Stillanti solleva pensieri sfuma i contorni che ieri impedivano a me di sognare: riconosco il tuo viso, la voce che trema orgogliosa di me.

Sfuggente indefi nibile l’attimo: mancato il controllo i versi schiudono il cuore. Si avvicinano i due s’incontrano e scontrano: un attimo lega quel noi,scintilla nell’iride tuo una nuova conferma.

Istantaneo chiarore riavvolge la nebbia: a battere continua il mio cuore, basso lo sguardo fi sso le mani e tremo.

Stuzzicante presente sfi orato incidente di un futuro accennato.

ACCENNO D’INTESA

Laura MichelottiSesta Classifi cata

Eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto volgerà nuovamente al bene. Anna Frank.

C’è una morte più tragica di questanotte, nero come la pece il ricordo?Milleventiquattro rastrellati come l’erbanei campi, bianchi gigli strappatialla madre terra, urlo strazianteche penetra dentro i muri delle case,a memoria futura il tremore dell’aria.Si sente ancora l’odore acredegli stivali tirati a lucidoe il rumore sordo delle porteaperte a grida di bimbi, madriorfane di latte ora che la vitaè un binario morto nel campobianco di neve. C’è silenzio nei vicoli,nello shabbat riposa l’animadelle vergini e il canto dei bambini,vuota la piazza dell’inganno, sul selciatoun berretto di lana perduto nella corsa.

SEDICI OTTOBRE

Pietro CatalanoQuinto Classifi cato

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E poi si era spenta la fi amma.Per non soff rire dissi ‘non t’amo più’.Cancellati i bagliori di immagini, dalla memoriae i profumi di salsedine e ragùe i colori di balocchi poveri e il sole goloso su quel vecchio balcone, al mattinoche per me bimba era stato ponte verso ogni eternità.Basta, le lacrime senza redenzionesono un fardello troppo pesante per un cuore stanco.“Nell’oblio: non sei più mia.”Dissi.Ho amato quindicon imposizione assoluta e fedele alla consegna come un soldatino impauritogli ampi viali squadrati dipinti di nebbia elegantee i platani detti del Re.Si deve passeggiare con grazia e leggerezza.Le mie scarpette umili sulle pietre che videro più degni calzari.Comportamento acconcio e rigoree scivolare silente sotto i portici memori di dame e cavalieri.Ma un giorno,mentre il grande, placido fi ume cercava invano di riempire il mio malgrado vuoto mi giunse un richiamo potente e imponentecui nessuno poteva opporsio dire no.E scesi verso il sole che mi attendevae il mare che mi richiamava solenne e sbrigativoche al suo ordine si può solo obbedire e tornare.E ti vidi e conobbi, per la prima volta al di fuori del mitomia amata terra.L’occhio adulto accarezzò le tue strade piene di vita traboccantee di me bambina.Stupita accarezzai le pietre e ritrovai le ombre lasciate dai miei genitoriquando ragazzi si raccontavano il futuro sotto la luna inquieta.“E tu mare, tu signore assoluto, come hai potuto farmi andare via?”Mi chiedevo, piangendo e rimpiangendo il tempo perduto.Ma lui mi rispose, abbracciandomi con i suoi spruzzi,

RITORNO A CASA

L’Assunta sa di buono la mattinaquando pensa il mondo come un pezzodi cielo. Poi spunta lo sguardo cometutto fosse lì, nel caff è del barpreso in tazza larga quasi ogni sorsonascondesse un senso in sé. E s’accarezzaimmaginando gli alberi d’estate.Così è la purezza dice arrossendopiano tra un saluto veloce e il giornoche va tra una strada e l’altra. Si dà alla vita allora, cercando il rossodelle fragole laddove il grigio hasapore di cemento e non è favolache tenga a dire ecco siamo qui. E aspettala sera quando sarà sorridendocome fanno un po’ in giro, con l’occhiosornione e l’idea che forse qui o altrove anche la felicità arrivabasta in fondo riconoscerla un po’.

L’ASSUNTA O LA FELICITÀ

Ivan FedeliSettimo Classifi cato

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Ho visto la forza di un poeta,nei suoi passi incerti

e nella sicurezzadelle sue parole.

È salito a fatica su un palco,come un anziano re,

da molti eventireduce.

È oscillato nel baratrodi qualche gradino,

ma caparbio si è strettoa corrimano d’anima fi era,

e giunto in cimaha brillato di sommessa grandezza,

sorretto da un bastonedi dignitàe parole.

Il maniero silenziosodel pubblico

si è sciolto in ovazione,mentre splendeva, quel poeta,

radioso di un foglio,narratore di racconti.

Curva e tremula in inchinoè brillata la corona:

intelletto vivace,a dispetto di un corpo stanco

e traditor.La forza del re

si è accesa in una lacrima,potenza dei miti,

fragilità dei superbi.E per lui,

il dono di un applauso:rimedio d’amor,

e d’eternitàmedicamento.

È fi nale perfettotra le pagine di una storia,favola di sapienza e umiltà,

in cuor di poeta.Alla Memoria, quel re,si consegna immortale,

brillando in versi diamanti...incontri di poesia.

MEMORIA DI UN RE POETA

Francesca TorresaniNona Classifi cata

non sei mai partita, io ho custodito la tua anima, qui, tra le mie onde.Sei pianta, e le tue radici assorbono l’essenza dei tuoi avi, nella terra.Tu sei vento prigioniero, e per quanto tu possa fuggire, qui sei nata, qui tornerai.Da quando ti ho incontrato di nuovo e per sempre, mia amataogni giorno io vivo in quell’istante.Le luci nelle fontane, i discorsi della mia gente, la bimba che ero e che è rinata in me.Sei la mia fi amma, Taranto.E mi brucerai in eterno d’eterno amore.

Anna Maria BonavogliaOttava Classifi cata

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Sezione Dialettale

Il cielo disegnava un orizzontesul mare nero, porto della notte,con l’alfabeto di alberi e cespuglied il mondo era come una tascadove nascondere tutti i pensieri.

C’era un gelso piantato davanti casadove gli occhi azzurri di mia madre

aspettavano il fi orire dei geranie noi gustavamo di nascosto le fragole

dalle guance appena rosee.

Sfogliare i rumori del cortileera la nostra voglia di passare il tempo

perché i giochi fermi all’angoloaspettavano solo la nostra carezza

per un sorriso dolce d’aprile.

Era dentro questi specchi di cieloche le ombre sottili passavano

spinte da lunghe mani invisibilie disegnavano sui solchi della terrale righe del tempo di mio padre.

Ormai questa mia giovinezzaè consumata come le scarpe vecchie

ed ho sentito dopo quei giornispinta dal soffi o leggero del vento

aprirsi la porta dell’estate.

Nelle foglie gialle d’autunnoche ora corrono sui sentieri d’asfaltoleggo ancora certe parole nascoste,

rimaste sulle labbra della campagna,che vagano tra cento stagioni

in attesa di un mio sguardo d’attenzione.

QUESTI SPECCHI DI CIELO

Domenico BertoncelloDecimo Classifi cato

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Sö l’éra spandìccnóter is-cècca m’zöga al balù- öna braca de strassligàcc a la mèi -quando scüra öna sàgomala vé ’n za de luntà.Ed ècola chéchèla bici issé stranade l’òm di padèleinsèma al sò bòciagrand öna spanae màgher impich.I se fèrma a l’ombréa,i scarga i sò fère i spèta la zét.Pò ’l fi öl a sò pàdersót’ùs a l’ghe fà:- Tarunòm le burgnache?- Eh gnifèl,musachi de ruscàr,sto baldi, tèchi...

- Varda chèl òme pò anche ’l sò s-cèt,a l’me dis ol mé nóno,i vé tat de luntài vé ’nfi na de Cóm...E amò ach adèssla regórde gran béchèla céra d’ü s-cètche vegnìt de luntàcol michèt istantìtsota ùs a l’disìa:- Tarunòm le burgnache?

COL MICHÈT ISTANTÌT

Premessa: i versi in corsivo nel testo in bergamasco, sono espressioni del gergo rungìn, antica parlata dei magnani della Val Cavargna (Como), ora purtroppo scomparso come tutti gli altri antichi gerghi di mestiere, ma ancora in uso fi no a qualche decennio fa. Il presente storico della composizione si riferisce agli anni cinquanta del secolo scorso.

Marino RanghettiPrimo Classifi cato

Sparsi sull’aianoi ragazzinigiochiamo al pallone- una manciata di straccilegati alla meglio -quando scura una sagomas’avvicina da lontano.Ed eccola quiquella bici stranissimadell’uomo delle padelleinsieme a suo fi glioalto una spannae magro stecchito.Si fermano all’ombra,scaricano gli arnesied aspettano la gente.Poi il fi glio a suo padresottovoce sussurra:- Rattoppiamo le pentole?- Eh fi gliolo,c’è poco lavoro,oggi, da queste parti...

- Guarda quell’uomoed anche suo fi glio,mi dice mio nonno,vengono molto da lontanovengono fi no da Como...E ancora adessolo ricordo benissimoquel volto di bimboche venuto da lontanocol panino raff ermosottovoce diceva:- Rattoppiamo le pentole?

COL PANINO RAFFERMO

Traduzione in italiano

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Sezione Studenti

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Un giorno un vecchio amico ho incontrato:era passato talmente tanto tempo che il suo viso me l’ero scordato.

Aveva l’aspetto di uno malato e pareva trasandato.Lui il mio nome non se lo ricordava,

ma appena ci siamo salutati è stato come se non ci fossimo mai lasciati.Ha incominciato a raccontarmi la sua vita,

dal momento che mi ha incontrato, a raffi ca ha parlato.Mi feci coraggio e gli chiesi il suo nome,me la pronunciò veloce come un tifone.

Perciò nulla ho capito…Lui era impegnato nel suo discorso concitato…

Nella mia mente pensavo quando l’avessi perso di vista,era stata solo una svista?

Sì, ma durata un tempo illimitatoE quel poveretto com’era fi nito così trasandato?

Quando riprese fi atoAvevo deciso: l’avrei invitato.

Lui accettò emozionatoCome nulla dall’infanzia fosse cambiato.

Avevo ritrovato un amico!Era fi nito, grazie all’amicizia ora è guarito.

L’INCONTRO

Roberto NavaClasse 5^ A – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Secondo Classifi cato ~ Scuola Primaria

Un incontro: il sole con il mare. Ed è tramonto.Un incontro: il seme con la terra. Ed è germoglio.Un incontro: il musicista con lo strumento. Ed è melodia.Un incontro: il pane con il forno. Ed è profumo.Un incontro: il fuoco con il legno. Ed è cenere.Un incontro: lo sguardo con le labbra. Ed è bacio.Un incontro: il fi ume con il vuoto. Ed è cascata.Un incontro: la pioggia con l’asfalto. Ed è temporale.Un incontro: la penna con il foglio. Ed è fantasia.Un incontro: la primavera con il mondo. Ed è fi oritura.Un incontro: l’uguale con il diverso. Ed è amicizia.Un incontro: la mente con il cuore. Ed è poesia.

INCONTRI

Alessandro ZaniClasse 5^ A – Scuola Primaria Stadio (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Primo Classifi cato ~ Scuola Primaria

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Era una calda seratae mio padre arrivòalla fi ne di una lunga giornatauna sorpresa portò.

“È una cesta di fi ori,vieni ad aiutarmi, hanno mille colori.”Scesi le scale in un battibalenovoglio vedere questo arcobaleno!

Nella cesta non c’erano fi ori ma qualcosa di piùmolto più bella dei fi ori blu.C’era un piccolo cagnettoCon un grazioso musetto.

Che stupore!Fu subito amore.

UNA GIORNATA SPECIALE

Andrea LorentiClasse 5^ C – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Quarto Classifi cato ~ Scuola Primaria

Nemmeno tutte le ricchezze del mondo,potrebbero valere ancora un giorno con te.

Non scoprirò mai i tuoi Sogni,ma se tu fossi con me sarebbero al sicuro

quanto tu lo saresti tra le mie braccia.L’incontro delle anime eterno

si apre in uno spiraglio terreno.Se fortuna avremo anche in un’altra vita c’incontreremo

Ma se così non fosse, so che nel mio cuore tu ci sarai sempre.L’ultimo abbraccio desidero da te

Perché so che mi riempirai il cuore per l’eternità.

UN INCONTRO PER SEMPRE

Matilde AielloClasse 5^ A – Scuola Primaria Stadio (I.C. Rubini), Romano di L.dia BGSeconda Classifi cata ex-aequo ~ Scuola Primaria

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È solo un vecchio al pianoforteche attende la sua sorte, pigiando i tasti con amorecompone una musica che nasce dal cuore.Nei suoi ricordi all’improvviso,una lacrima gli segna il viso.Si fa strada nella sua menteun pensiero non più recente.È un ricordo assai lontanoquando suo padre gli teneva la mano,quando ancora bambinogiocava sereno in giardino.Ventenne partì per la guerrapiangendo l’amico caduto a terra.La paura e il dolorefurono sconfi tti dall’amoredella donna madre di sua fi gliapurtroppo scomparsa in un battito di ciglia.L’uomo suona il piano tristementee i tanti ricordi riaffi orano alla mente,prima bambino e poi soldatomarito, padre e ora abbandonato.Non conosce il futuro ormai alle porteè solo un vecchio al pianoforte.

LA MELODIA DEI RICORDI

Mirko CaforioClasse 1^ B – Scuola Secondaria di I Grado E. Fermi (I.C. Fermi), Romano di L.dia BG

Primo Classifi cato ~ Scuola Secondaria Inferiore

Cara Emma quando tu eri in panciala mamma era rotonda come un’arancia

Quando tu sei arrivataio sono rimasta abbagliata

dalla tua piccola testa pelata,dagli occhi vispi e piccolini

e da quella boccuccia senza dentini.Tu eri così piccolina…

così carina che sembravi una bambolina.Mi batteva forte il cuore,

veloce come un treno a vapore,quando ho accarezzato la tua mano vellutata,

ho capito che non ti avrei mai lasciata.Eri morbida e profumata

e da quel primo incontro ti ho sempre amata.

EMMA…

Irene BiondiClasse 5^ A – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Quinta Classifi cata ~ Scuola Primaria

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Ricordo quando ci incontrammo per puro caso sull’asfalto da quel giorno non ti ho più dimenticato e forse, per te io sono il passato i tuoi occhi sono sempre nella mia mente e non solo, non ho dimenticato niente. Ti vidi e mi fermai mi vedesti e ti voltasti è come se attorno a noi girassero universi negli occhi l’un dell’altro eravamo già persi. Mi ricordo tante cose, tante cose meravigliose la maggior parte sono esperienze ricordi pieni di soff erenze, ricordi mai vissuti veramente ma uno lo conservo avidamente: quando apparisti tu e io di sognare non fi nii più.

TI VIDI E MI FERMAI…

Marigona KabashiClasse 3^ B – Scuola Secondaria di I Grado Martiri della Resistenza, Calcio BG

Terza Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

L’infanzia è quel luogo lontano,dove la gente si da la mano.Dove i dettagli sono preziosisassi e giochi grandi tesori.Dove un cielo limpido e un profumato pratolasciano sempre senza fi ato.Dove ogni cosa può essere una sorpresae trepidamente ne è l’attesa.È un luogo così importanteche rispecchia come un bimbo sarà da grande...Dove il passato sarà futuroe il suo pensiero più maturo.

MEMORIA D’INCONTRI

Valentina SergiClasse 2^ G – Scuola Secondaria di I Grado A. Biffi , Cividate al Piano BG

Seconda Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

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OGGI HO GUARDATO UNA GIOSTRA COLORATAE NE SONO RIMASTA ESTASIATA,ERA IL GIOCO CHE DA PICCINAGUARDAVO ADAGIATA NELLA MIA CULLINA.

TREDIC’ANNI SON PASSATIE TANTA GIOIA LI HA BACIATI;HO PRESO TREDICI FOGLIETTIE HO MESSO I NUMERETTI.

COSÌ HO TRACCIATO CON LA MATITACIASCUN ANNO DELLA MIA VITA,È NATO UN ALBUM MOLTO GIOIOSOCHE CUSTODISCO ASSAI GELOSO.

DEI PRIMI ANNI DELLA MIA VITACONSERVO UNA FOTO TUTTA FIORITA:I VOLTI RAGGIANTI DEI MIEI GENITORIIN UN BEL PRATO CON TANTI COLORI.

SFOGLIANDO L’ALBUM IN CUI ERO BAMBINAMI RIVEDO DA PICCOLINA…CHE BELLO IL VISO DI MIA ZIAMENTRE PASSEGGIO CON LEI LUNGO LA VIA!

A TRE ANNI IN ARRIVO LA SCUOLA MATERNA…MERAVIGLIOSA LA FESTA MAGICA CON LA LANTERNA!POI A CARNEVALE UNA DONNA TRAVESTITA,AFFIORA IN ME IL RICORDO DELLA MAESTRA PREFERITA…

I COMPAGNI FINO AD ALLORA SCONOSCIUTIORA DIVENTATI BENVENUTI!L’AMICA DEL CUORE IN ME SEMPRE RESTERÀE IL SUO VOLTO SORRIDENTE MAI SI CANCELLERÀ.

EVVIVA L’INGRESSO ALLE ELEMENTARI!PER IMPARARE LE NOZIONI BASILARI…MA SOPRATTUTTO TANTE MAESTRECHE M’ HANNO APERTO NUOVE FINESTRE…

PER OGNI INCONTRO UNA GRANDE EMOZIONE

Ricordo ancora di te, Francesca,sulla spiaggia ad aspettare l’aria fresca;vicino alle onde con il libro in mano,il cappello di paglia in tutto quel baccano.Ricordo il tuo sguardo da ragazza felice,mentre parlavi con tua sorella Alice;ricordo il tuo viso così contento,mentre dimostravi di essere un portento.Ricordo il nostro bizzarro gioco,che visto ora vale ben poco:tuo fratello che stappava la bottiglia,mentre tua nonna prendeva la pastiglia.Tutto sulla spiaggia in riva al mare,dove il destino ci ha fatto incontrare,tra le onde della Ligurianuotando come per andare in Puglia.Spero ancora che i nostri sguardiSi rincontrino tra altri miliardi,tra salviettone, paletta e secchielloper rivivere tutto il più bello!Penso proprio che su quella spiaggia,il ricordo di noi ancora viaggia...grazie di avermi fatto divertire,in una vacanza che vorrò sempre ricordare!!!

FRANCESCA

Sara BertocchiClasse 2^ B – Scuola Secondaria di I Grado Martiri della Resistenza, Calcio BG

Quarta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

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Oltre la duna di sabbia che tanto aveva reso il mio spirito schiavo dell’attesa,vidi, alla fi ne, il mare:parmi, a prima vista,d’esser di preziosi diamanti ornato,che brillavano come stelle,cadute sol per adorarlo.

Un poco mi avvicinai,per omaggio a rendergli,e alle mie riverenze, egli si gonfi ò il petto di onde,facendo di queste il suo verbogettato sulla spiaggia.

Poscia ch’io ebbi recato i gentili saluti al mare,e mentr’egli a parlar continuava,vidi il ciel illuminarsi d’oroe dei colori del dolce sentimento.Il sole così sovvenne dove l’occhio prende cielo per mare,ed i suoi raggi subito coprirono l’acqua e le ondedel loro fuoco dorato.

A tale visione,rapito mi fu ciò che reco nel pettotanto fu l’incontro ricolmo d’ogni gioia.E a donar memoria a questo,non posso che veder chiaro nella menteil cuore mio fuggitodanzare lieto sullo specchio infi nitodel mare all’alba.

ODE PER IL MARE ALL’ALBA

Shannon MagriClasse 4^ B – Scuola Secondaria di II Grado Don L. Milani, Romano di L.dia BG

Prima Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

DI LORO RICORDO TANTA PAZIENZAE UN SACCO DI BENEVOLENZA;PENSARE A LORO MI FA TENEREZZAVORREI DIRE GRAZIE CON UNA CAREZZA.

POI IN ARRIVO LE CATECHISTECHE CI HANNO PORTATO DELLE RIVISTE,IL CAMMINO DI GESU’ HO CONTINUATOCON UN METODO ILLUSTRATO.

PASSATO IL TEMPO IN CUI ERO BAMBINAÈ ARRIVATA L’ETÀ DI RAGAZZINA,COSÌ ALLE MEDIE HO FATTO INGRESSOPER NOI RAGAZZI È STATO UN PROGRESSO.

NUOVI COMPAGNI E NUOVI AMICIQUALCUNO A SCUOLA VIENE ANCHE IN BICI,QUANTI RICORDI E SENSAZIONI,SPERIAMO TUTTI LE PROMOZIONI!

NELLO SPORT UN MARE DI MAESTRI E AMICI:INSIEME CON LORO PERCORSI FELICI!FINALMENTE LE VACANZE!RICORDO DI COMPAGNI CON STRAVAGANZE.

IN ATTESA DELLE SUPERIORI,NOI RAGAZZI DIVENTEREMO SEMPRE MIGLIORI!È PIÙ BELLA L’ISTRUZIONESE PER OGNI VOLTO SERBO IN CUORE UN’ EMOZIONE.

Valentina GrigisClasse 3^ B – Scuola Secondaria di I Grado Giovanni XXIII, Zogno BG

Quinta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

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Alessia MerisiClasse 2^ A.S.U. – Scuola Secondaria di II Grado Don L. Milani, Romano di L.dia BG

Seconda Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

Le lacrime scendono...Non ho più il controllo...Vorrei essere composta di porcellana per potermi distruggere con te.Sei stata la mia motivazione,Fiducia, sprono...Mi hai fornito l’armatura per combattere contro questa cruenta guerra chiamata vita.Abbiamo combattuto tra trincee di fi ori,Soff ocando il dolore tra le pagine del libro celeste.Il mio unico rancore...Non averti salutata...E aver sentito la forma delle tue dita... per l’ultima volta... .

Pioggia.Dentro di me la sento scorrere con tutta la sua violenza, rabbia.Rabbia, tristezza ancora non ho trovato una risposta al dolore che provo.Uno sguardo,Un contatto,Un sussulto,Attimi di vita che non riavrò mai più...Cercare il nemico è la morale,Anche se questo oramai non ha più alcun senso...Il senso della vita,Petali ormai privi della linfa vitale cadono al suolo.Suolo che ospiterà marmo freddo, come diventerà il mio cuore.Correre per salvarti...Un sospiro e poi... silenzio.Il mondo non si ferma,Siamo solo pedine sopra una scacchiera.Bianco... vita,Nero... morte.Restiamo eternamente a rifl ettere per azionare la mossa giusta: la salvezza.Cogli l’attimo, vivi, fai vedere chi sei.E la partita è persa, senza vincitori.Quando sei partita c’era il sole,Perché è questo ciò che volevi.Desideravi il sole,La vita, ma l’arciere del dolore ha scelto te... .“Addio” mi suggerivano di dirti, ma ciò che pronunciavo era un semplice: “mi manchi”.Un angelo già prima di morire...Privo di ali, se non per patire.Dolore è sbocciato e il suo profumo si è espanso.Non lo percepisce l’udito, il gusto o il tatto ma solo il supplizio.Il mio cuore e la mia mente lottano affi nché non prevalga alcun sentimento.

LA FORMA DELLE TUE DITA

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Jacopo SozziScuola Secondaria di II Grado A. Calamo, Ostuni BR

Secondo Classifi cato ex-aequo ~ Scuola Secondaria Superiore

Aspetto alcuni secondi Sono incredulo del risultato Ho sentito una breve fi tta E poi tutto è fi nito Sono ancora impaurito Ho gli occhi chiusi Ma ce l’ho fatta fi nalmente Ti ho tolto per sempre dal mio cuore Non ho sentito troppo dolore E ormai sei solo un triste ricordo. Schiudo le palpebre Stringo forte la spina Ma con mio sgomento Scopro la sua natura Non è una spina, è un ago Porta con sé un fi lo rosso Che parte dal mio cuore Pulsando all’unisono

Gli occhi sbarrati L’incredulità, la rabbia La paura, la delusione E versando lacrime capisco Che non mi libererò di te Né del tuo spettro o immagine Per quanto tu pungente Sei parte del mio cuore Ormai devo accettarlo C’è un fi lo rosso che ci unisce

Continua A pulsare il cuore Nasconde Al suo interno Un passato pungente Che continua a ferire Poggio La mano sul mio petto Sento I battiti alterati accelerare E crescere il dolore Ancora più denso Sgorga Il sangue ad ogni battito Chiudo gli occhi Vedo il mio cuore V’è una spina confi ccata Avvicino le mie dita La sfi orano Volto a strapparla via Ho paura Scatta indietro il mio braccio Ho paura di soff rire ancora Ho paura di farmi del male Togliendo la spina Pur liberandomi di un peso

Ma Un giorno Immerso nei miei pensieri Ho più coraggio che mai E mentre, incessantemente, Il patire è parte di me Esso mi sprona ad agire E a non aver timore Di ciò che ci fa del male

Assorbo L’energia del sole La fermezza della terra La destrezza della brezza La tenacia di una gocciaDi sudore freddo coraggioso Che traccia nuovi sentieri

Conto i secondi Volto lo sguardo al cielo Chiudo gli occhi Stringo il pugno Sospiro profondamente Digrigno i denti E in un lampo Strappo via quella spina

DOLORE PUNGENTE

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Non chiedo troppo da questa crudelevita, se non riavere il mio nome.Non ho più dignità, come carnesvanita dalle mie ossa, al freddolasciate, stanche, distrutte.

Vorrei solo riavere il mio nome,una parola, secca e veloce,che alla mente porti memoriadi giorni un tempo felici,quando ancora credevo in qualcosa.

Perché ormai la fede è svanita;come hai potuto, tu Dio,creare l’Inferno in Terra, guardandociogni giorno morire?

Il soldato pronuncia sei cifre,che nella mente e sul braccio ho scolpite,ma non è il mio nome, non lo è!

La fi ne per me oggi è giunta,la doccia mi chiama suadente,e io avanzo, silente.

Il gas off usca la mente,ma con l’ultima scintilladi forza, un nome pronuncio.

“Esisto!”

Chiudo gli occhi. E il tempo è fi nito.

(Per la Giornata della Memoria)

UN NOME

Natasha VagnarelliScuola Secondaria di II Grado San Raff aele, Milano

Quinta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

...E ho ancora il segno delle tue mani.Tu che mi sfi ori,creando opere d’arte.E siamo passati dall’amarci, al devastarci.

SFIORAMI SENZA RIGUARDI.

Sara MuçaClasse 2^ A – Scuola Secondaria di II Grado Don L. Milani, Romano di L.dia BG

Quarta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

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raccontoSezione Studenti

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Ero da sola in un posto triste, buio, abbandonato dove la fantasia non esisteva, dove tutto era grigio e monotono e dove regnava il silenzio. Il silenzio a volte può servire per pensare o per rifl ettere, ma quel silenzio non era “rifl essivo”, quello era un silenzio vuoto, come se fossi io l’unica a poter emettere un suono. Allora mi guardai intorno, feci qualche passo, mi allontanai e mi riavvicinai a quella roccia sulla quale ero arrivata. All’orizzonte non si vedeva altro che il nulla, la desolazione e la tristezza. In quel momento una specie di rabbia mista a paura mi prese e mi misi a correre, correre e correre come per scappare da quel posto; purtroppo l’orizzonte era sempre lo stesso e, ovunque andassi, c’era sempre la stessa roccia. Mi misi a piangere e a urlare per la disperazione. Proprio allora, un po’ più lontano da me, vidi una fi gura, una fi gura familiare che si avvicinava sempre di più. Molto elegante, con collane, orecchini e braccialetti e la sua solita pettinatura: allora capii chi era. Era mia zia, la zia Maria. Le corsi incontro e l’abbracciai e lei ricambiò con tanto aff etto il mio abbraccio e mi sembrò incredibile che una persona potesse abbracciare con tanto amore; ci sedemmo tutte e due sulla stessa pietra diventata molto grande e la zia, per tirarmi su di morale, cominciò a raccontarmi tutte le sue fantastiche storie, che da sempre so a memoria, ma che in quel momento mi apparvero nuove e belle come non erano mai state. Finite le storie, la zia mi chiese se volevo tornare a casa e io le risposi di sì. Lei allora mi diede la mano e insieme volammo e superammo tutta la disperazione di quel posto triste e malinconico e volammo, volammo fi nalmente fi no a casa mia. Qui trovai tutti addolorati e sconsolati, anche se io non capivo il perché. Ad un certo punto mi guardai intorno e capii ciò che era successo: la zia Maria era volata via e non l’avrei più rivista.

ANCORA CON LEI

Anna LorenziClasse 5^ B – Scuola Primaria Mottini (I.C. Fermi), Romano di L.dia BG

Seconda Classifi cata ~ Scuola Primaria

Stava lì, sdraiata immobile con una leggera coperta che la teneva calda nella sua piccola casa rettangolare fatta di cartone con la sua fi nestra circolare. Con lei c’era anche sua sorella gemella uguale spiaccicata a lei: sua sorella aveva più caldo, perciò era scoperta, tra loro solo quella sorta di copertina… leggera che frusciava ad ogni loro movimento.Se ne stette lì sdraiata a guardare sua sorella fi no a quando la sua casa venne scossa come da un terremoto, era un frastuono esterno che mise in allarme le due gemelle.Si rintanò sotto la coperta fi no a quando il tetto della loro casa non venne scoperchiato, solo allora si sentì persa, sebbene fosse scoperta, ebbe la sensazione di essere in trappola. Vide strani tentacoli alieni giganteschi che la estraevano dalla sua casa e la separavano da sua sorella. Le sembrò di volteggiare nell’aria per poi ricadere al suolo, era freddo e liscio, l’impatto le fece provare uno strano tremolio.A quel punto venne sottoposta ai tremendi supplizi degli alieni: tirata, strattonata, schiacciata e soff ocata ma il più grande sacrifi cio fu l’incontro con quella puzzolentissima parte dell’alieno, bianca e azzurra, prima la off uscò quasi a coprirla poi si infi lò dentro di lei, a stretto contatto: impossibile sentirsi libera. Lanciò uno sguardo fugace attorno in cerca di aiuto, vide che anche la sua gemella veniva sottoposta alle stesse prove che lei aveva aff rontato poco prima: non era stata più fortunata. Quindi sentì un suono vibrante proveniente dall’alieno che la scosse, diceva: “Mamma, mi stanno strette! Ne devo provare un altro paio!!”.Tutte e due le gemelle vennero liberate da quell’orrida parte puzzolente aliena e furono rimesse dentro la casetta di cartone, coperte e chiuse di fretta. La copertina era stropicciata, ma lì nel buio le due ritornarono a guardarsi, esauste dopo questa lunga tortura, dopo quell’incontro traumatizzante che aveva rivelato la loro vera natura… Ah, come è dura la vita di una scarpa!

COME È DURA LA VITA!Strani incontri

Matteo DamianiClasse 5^ A – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Primo Classifi cato ~ Scuola Primaria

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ci mettemmo all’opera per ricreare il nostro mondo. Le abitazioni vennero costruite con pezzi di bolle, alghe e sabbia. Per l’illuminazione prendemmo dei pesci elettrici e li legammo alle case: così ogni casa era illuminata. Per le piste di atterraggio facemmo delle piattaforme in sabbia. Infi ne per il cibo mangiavamo alghe e pochissimi pesci. Non erano come il cibo a cui eravamo abituati ma erano ugualmente saporiti e nutrienti.Purtroppo i terrestri avvistarono una navetta parcheggiata sulla spiaggia, nonostante fosse stata ben mimetizzata, e si stupirono dello strano mezzo. Allora chiamarono alcuni scienziati che iniziarono a preparare mezzi per venire in fondo al mare alla ricerca dei nostri insediamenti.Ci trovammo improvvisamente di fronte un sottomarino, pieno di gente che ci osservava. Noi li salutammo allegramente ma la maggior parte di loro voleva scappare. Solo uno fra tutti, il più giovane e inesperto, decise di entrare nella nostra base e noi lo accontentammo. Era basso e magro, con i capelli arancioni e un paio di occhiali. Mentre lui si trovava presso di noi i suoi colleghi ne approfi ttarono per scappare con il sottomarino: erano terrorizzati! Lui voleva conoscerci e comunicare ma non riusciva: non parlavamo la stessa lingua. Allora gli consegnammo un casco che permetteva a tutti di parlare e comprendersi. Lo scienziato, come prima domanda, ci chiese se fossimo venuti in pace e noi gli raccontammo la nostra storia. Una volta fi nito il racconto il terrestre, tranquillizzato, decise di aiutarci. Parlò con i suoi colleghi, spiegando la nostra situazione e loro decisero di aiutarci a tornare su Aolino. Ci incontrammo molte volte e facemmo scambio delle nostre conoscenze così potevamo trovare il modo per riconquistare Aolino. Era ormai il 3002 quando partimmo alla volta del nostro pianeta dopo aver ringraziato i terrestri per i preziosissimi suggerimenti grazie ai quali, anche se primitivi, potemmo scacciare gli stoyani. Lo scienziato che per primo aveva preso contatto con noi diventò una celebrità e noi ne fummo felici. Qualche anno dopo venne a trovarci sul nostro pianeta nuovamente fertile e in pace.

Marco BorelliClasse 5^ C – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Terzo Classifi cato ~ Scuola Primaria

Grazie a quell’incontro io riuscì a portare innovazioni nel mondo. Ricordo ancora le sue prime parole.Salve a tutti! Io sono Graff e vi scrivo da pianeta Aolino e vi vorrei raccontare la mia storia. Io sono uno di quelli che voi defi nite “alieni” e il mio aspetto fi sico è molto diverso dal vostro: rassomiglio a quegli animali terrestri che voi chiamate “giraff a”, però ho il collo molto più corto e ho sei zampe, quattro le utilizzo per muovermi e due hanno la funzione delle vostre braccia.Tutto iniziò nell’anno 3000 sul mio pianeta: invasori provenienti dal vicino pianeta Stoy avevano deciso di conquistarlo. Prima era molto fertile, verde e vivevamo in pace. Successivamente, quando gli stoyani conquistarono il nostro pianeta, questo diventò tutto grigio, improduttivo, la tristezza e la desolazione regnavano ovunque. Si decise allora di fare una spedizione segreta per trovare un altro pianeta dove rifugiarci. Una notte iniziammo a costruire un’astronave: avevamo pochissimi pezzi ma, nonostante la scarsità di materiale, riuscimmo nel nostro intento. L’astronave era gialla, di forma cilindrica, molto veloce e ben armata. Appena terminata la costruzione del velivolo dovemmo decidere chi sarebbe partito e chi avrebbe guidato la spedizione alla ricerca di un nuovo mondo e io fui scelto come pilota. Un po’ emozionato e spaventato partii insieme agli altri.Purtroppo gli stoyani si erano accorti della nostra partenza. Mandarono le due astronavi migliori e più veloci per inseguirci e ucciderci ma, fortunatamente, grazie ad un missile, riuscimmo a distruggere una navetta nemica e l’altra cadde in un buco nero. Durante l’inseguimento avevamo sbagliato la rotta, ma fu solo una fortuna: avevamo trovato un pianeta di nome Terra.La Terra, vista da lontano, era tutta blu: sembrava fatta solo di acqua. Una volta che ci fummo avvicinati ci accorgemmo che c’erano delle enormi distese di acqua inframezzate da terre emerse. L’ambiente ideale per l’atterraggio era l’acqua e scendemmo dolcemente sul fondale marino: era pieno di alghe e animali strani. Iniziammo ad esplorarlo e ci rendemmo conto che, sebbene molto diverso da Aolino, poteva essere un ambiente ideale dove trasferirci. Ripartimmo allora alla volta del nostro pianeta per comunicare la scoperta. Descrivemmo la Terra ai nostri amici rimasti su Aolino: le grandi distese di acqua, la fi tta vegetazione che si celava sotto di questa, gli animali alquanto strani che avevamo incontrato e infi ne raccontammo degli umani. Non ci avevano scoperti ma noi li avevamo osservati: sembravano pacifi ci e piuttosto arretrati.Purtroppo le astronavi non bastavano per far fuggire tutta la popolazione da Aolino e quindi ne costruimmo altre rubando i pezzi dalle astronavi degli stoyani.Una volta terminate partimmo senza lasciare nessuna traccia della nostra fuga e facemmo rotta verso la Terra.Finalmente arrivammo però il fondo del mare era molto spoglio: non c’erano i lampioni, non c’erano le abitazioni, piste di atterraggio… avremmo dovuto costruire tutto!Quella notte dormimmo sulle astronavi, ma il giorno seguente, pieni di energia,

UN INCONTRO INSOLITO

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Era una bella giornata di fi ne autunno, il cielo era azzurro, solo un lieve vento faceva volteggiare le prime foglie gialle. Passeggiavo lungo le cerchie, quando ho incontrato un signore. Mi ha salutato e come se ci conoscessimo da sempre ci siamo seduti su una panchina e abbiamo iniziato a chiacchierare.Mi parlava della sua vita da bambino, una vita fatta di cose semplici, dei giochi in cascina con i suoi fratelli, le marachelle e i rimproveri di suo padre quando all’ora di cena tardava nel cortile.Mi ha raccontato che aveva avuto un bravo maestro che gli aveva fatto amare lo studio e la lettura.Il suo sogno da bambino era diventare uno scrittore, scrivere racconti, descrivere paesaggi, la natura, le città lontane, la sua vita, i suoi sogni e storie di personaggi fantastici. Mentre lui parlava a me veniva voglia di scrivere tutto quello che diceva e di fargli tante domande.Mi ha raccontato che nella sua vita aveva incontrato tante persone, dalle più umili alle più importanti e da tutti aveva imparato qualcosa.Il tempo con lui scorreva velocemente, fi nché ad un tratto ho sentito la voce della mamma che mi chiamava, vidi la sagoma del signore che si allontanava e io aprii gli occhi.Capii solo allora che era stato solo un sogno, ma le sue parole mi risuonavano nella testa: “Studia Giulia, leggi tanto!”Capii che quel sogno mi aveva insegnato una cosa importante: che bisogna leggere e studiare tanto così da scoprire altri mondi, altre persone per diventare una persona migliore.Ancora adesso quando passo davanti a quella panchina mi sembra di rivedere quel signore e di sentire la sua voce…

SOGNO DI UN INCONTRO

Giulia PezzoliClasse 4^ A – Scuola Primaria De Amicis (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Quinta Classifi cata ~ Scuola Primaria

Scavando nella mia memoria ho trovato proprio il ricordo di un incontro importante. Questo incontro è legato a un evento che ha cambiato la mia vita e quella della mia famiglia.Curiosi?Il mio incontro speciale è stato con il mio fratellino Jacopo.Questo incontro è avvenuto il 05/03/10, dopo una lunga attesa, ci siamo conosciuti.Vi parlo un po’ di lui.Jacopo è nato il 02/03/10 ma noi sapevamo già di lui, perché la mamma ha scoperto di aspettare un bambino proprio il giorno del mio 3° compleanno.Nei mesi successivi ci siamo preparati al suo arrivo.Dopo aver scoperto che sarebbe stato un maschietto abbiamo scelto il suo nome.Ed ecco arrivare il grande giorno.La mattina del 02/03 la mamma e il papà sono andati all’ospedale e mi hanno spiegato che presto sarebbe arrivato il momento tanto atteso.Io però quella mattina non ero molto in forma, avevo infatti una forte febbre.La sera stessa il papà ha telefonato:“E’ nato Jacopo! Tutto bene! Pesa 3,870 kg!”Meno male non vedevo l’ora di conoscerlo!Essendo un po’ infl uenzata non mi hanno portato all’ospedale a vederlo e ho aspettato il 05/03, giorno in cui l’hanno dimesso.Il nostro primo incontro è stato un po’ strano.Lui era piccolo, un po’ cicciottino, con tanti capelli e piangeva molto.Io in realtà ero un po’ gelosa, volevo la mamma e il papà solo per me.Col passare del tempo ho imparato a giocare con lui e a conoscerlo.Riempie d’allegria le mie giornate e, anche se a volte litighiamo, non posso immaginare un mondo senza lui.Ora ha quasi sei anni e per la sua età è abbastanza alto e magro con i capelli corti e castani.Lui ha occhi tra il verde e il grigio. È allegro e simpatico, anche se a volte è un po’ dispettoso.Una curiosità: il giorno in cui l’ho incontrato è accaduta una cosa davvero strana. C’era un bel cielo che improvvisamente si oscurò facendosi ventoso e freddo: un’improvvisa e breve gradinata si è riversata su Romano.I chicchi di grandine erano così piccoli e bianchi da sembrare palline di polistirolo e avevano ricoperto le strade rendendole scivolose e divertenti.Quasi a sottolineare l’arrivo di quel “pazzo” di mio fratello col suo bizzarro carattere.Grazie Jacopo è stato davvero bello incontrarti!Sei e sarai per sempre il mio fratello! E ti sarò sempre vicina!

MEMORIA DI INCONTRI

Sofi a SassiClasse 4^ A – Scuola Primaria Stadio (I.C. Rubini), Romano di L.dia BG

Quarta Classifi cata ~ Scuola Primaria

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-Capisco che tu non voglia accettare la sfi da, ragazzino. D’altronde, sarebbe più conveniente per te che il re prenda in mano la situazione. Lui possiede tanti uomini che impugnano un’arma meglio di te. La battaglia si farebbe in questo modo più interessante, ci metterei più tempo ad ucciderli- era vero, mio fratello era completamente diverso da me. Io ero gracile e debole, lui era forte e reale. Io non ero altro che un ragazzino, e questo lo sapevo: presi in considerazione l’idea di lasciare il posto e arrendermi, ma poi ci ripensai. Mio fratello non sarebbe morto a causa mia. -Ben, non farlo. Non devi accettare la sfi da per forza. Scommetto che io e Corin, William, Utgard… noi, potremmo batterlo in pochissimo tempo- Edward intervenne nella conversazione, sfoderando la sua spada scintillante e puntandola verso il drago; quest’ultimo rise di gusto, avvicinandosi al giovane ragazzo coraggioso. -Oh, Edward. Non mi uccidereste nemmeno se foste i più grandi guerrieri di Tilm, lo sai. Ma se proprio ci tieni, combatterò con te- Uno strano senso di colpa mi avvolse. Mio fratello sarebbe stato capace di sfi dare la morte in questo modo, così come il resto dei suoi uomini: il Popolo era un ammasso di gente amante della guerra e dell’adrenalina che si prova quando si è faccia a faccia con la morte. E io… io non ero altro che un codardo. Ero la delusione di mio padre Freji e del popolo, che avrebbe preferito un principe o una principessa amante della guerra. Sì, io la pecora nera del Popolo. -No- la mia voce suonò intrepida e forte: il brusio che si era formato qualche secondo prima tra i guerrieri si spense e Norm voltò il suo sguardo, incastrandolo nel mio. Brandivo la spada, il mio cuore batteva irregolarmente. -Allora sarà un gioco da ragazzi- il drago si avvicinò a me, io indietreggiai. Mi guardava divertito e sembrava rilassato. Dopo una lunga battaglia con gli uomini del re nemico, era tempo della battaglia fi nale, Norm contro Benedict Victor. Se dovevo morire, lo avrei fatto eroicamente: tutti mi avrebbero ricordato come “colui che sfi dò il terribile Norm”.Il campo era sgombero, nessuno fi atava. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, per prendere coraggio: -Che la battaglia inizi, allora- Il drago si fi ondò su di me, riuscii a spostarmi in tempo. Continuavo a stringere la spada e a puntarla contro Norm. Tutto si era fatto più freddo e cupo. -Patetico- mormorò il drago, avvicinandosi nuovamente a me. Osservavo i suoi affi latissimi artigli, capaci di squartarmi con un solo movimento. Mi spostai ancora una volta, sfuggendo miracolosamente dalle fauci di Norm. Non eravamo molto distanti, un solo balzo e mi avrebbe ucciso. Di nuovo provò a colpirmi, stavolta sfi orandomi il braccio sinistro. L’armatura cadde e il mio braccio pallido rimase scoperto, tremai. Dovevo cercare di attaccare, non sarei durato molto in difesa. Dovevo pensare: cosa sapevo della mitologia? Il sangue di unicorno guarisce le ferite, il canto delle sirene stordisce i marinai, le fenici sono ottime creature da viaggio… i draghi? Dove si può colpire un drago? Mi spostai prima che riuscisse a colpire, salendo sulla scala delle rovine del castello alla mia destra. Pensa, Benedict, pensa… Norm era un drago immortale, non sarebbe mai morto di cause naturali. Il drago allungò la testa e sputò fi amme dalle

Si narra che un tempo, in questa umile terra, ci fu una battaglia. Un tempo molto remoto, tanto lontano che gli abitanti della terra di Tilm si chiedono ancora oggi se sia mai veramente avvenuta o se si tratti di una leggenda, benché la testimonianza di chi vide la guerra tra i due mondi nemici sia conservata nell’Oracolo D’oro, il libro custodito nel castello dei Reali. Successe al tempo della rivalità tra il Popolo e i Magicanti della Terra del nord, durante il regno di re Edward, dei maghi e dei saggi. Due popoli divergenti, dove la magia traboccava in uno e si assentava nell’altro; dove la produzione di armi era eccezionale da parte del Popolo e il re Edward era spietato e sanguinario, mentre la Terra del nord era vasta e protetta dalla creatura più mostruosa e spietata della terra di Tilm: il drago, il terribile Norm. Ma come potrete pensare, protagonista di questa violenta battaglia non fu il re, bensì il fratello minore del reale: Benedict Victor Frejison II.

Soffi ava un leggero venticello, lo avvertivo sulla pelle sudata del mio viso martoriato. Il silenzio regnava sul campo e mi avvolgeva come le coperte di un caldo letto. L’unico rumore che poteva essere udito era il mio respiro aff annato, che echeggiava per la valle. Dietro di me c’era il mio popolo, incredulo a quello che stava vedendo: un semplice ragazzino davanti a una bestia tanto enorme e possente. Era morte assicurata. -Vuoi davvero sapere perché ho scelto te, sciocco popolano? – rise il drago, prendendosi gioco di me. La sua voce era profonda e spaventosa, poteva far tremare anche il più coraggioso dei cavalieri. A quell’epoca non ero altro che un giovane uomo, che ancora non aveva scoperto il mondo: ero indifeso, ovviamente. Non trovavo la forza di rispondere; mi voltai lentamente verso mio fratello e lo guardai, sul punto di crollare. Lui non pareva aff atto tranquillo, sembrava voler uccidere il Norm con la sola spada che impugnava. Guardai la creatura e sussurrai: -Sì- Il drago avanzò e mi avvolse con il suo squamoso collo, l’aria mi colpì scostandomi i capelli mori dalla fronte incrostata. La sua testa era così vicina da poterla toccare con la mano, i suoi occhi gialli mi scrutavano beff ardi. Tremavo di terrore e di freddo, sarei tornato al castello volentieri. Non ero un amante della guerra e non lo sono tuttora, ma a quell’epoca sapevo a mala pena impugnare l’elsa di una spada. Era mio fratello Edward il grande guerriero, colui che guidava il Popolo alla vittoria. Eppure, quella volta, lo stava trascinando in basso, tanto che i soldati potevano guardare in faccia Hel, colei che sorveglia i morti. -Perché non c’è un cavaliere più debole e semplice in questo campo, e sappiamo entrambi, Benedict, che i deboli sono i più facili da eliminare- mi ritrovai a stringere l’elsa della spada tanto forte che le nocche della mia mano divennero bianche. Ero innervosito, Norm mi stava provocando. Era come ogni Magicante: senza cuore e senza scrupoli.

LA LEGGENDA DI NORM

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tutti, il gracile guerriero codardo che osò sfi dare un temuto drago? Sarei morto senza neanche provare a salvarmi? Mi sarei consegnato alla morte in questo modo? No, non oggi. Sarei diventato una leggenda, gli dei avrebbero parlato di me e persino Th iassi e Tyr, signore e dio della guerra, avrebbero tremato al mio cospetto. Scivolai solo un po’ sotto, rendendomi più vicino alla creatura: mi trovavo abbastanza vicino da poter sfi orare la sua pelle con le dita. Era squamosa e fredda, come quella di ogni rettile. -Benedict, lo sciocco popolano che… - E mentre le sue unghie si catapultavano su di me, brandii la spada e la lama si confi ccò nel suo petto, mozzandogli il fi ato. Per qualche secondo non ci fu rumore, solo il vento che soffi ava gelido. Norm pareva una statua di marmo: era immobile, davanti a me. Poi lanciò le sue ultime fi amme, deboli e fredde anch’esse; dopo qualche secondo, cadde a terra, sfi orandomi appena. Continuai la frase della creatura, lasciata a mezz’aria non molto tempo prima: -sconfi sse Norm, il più terribile drago della terra di Tilm.Il drago mi lanciò un’ultima occhiata con i suoi occhi dorati, le iridi ridotte ad un fi lo corvino: -Credi di aver vinto, ragazzino? Questo non è altro che l’inizio di una grande guerra- ringhiò, per poi lanciare un urlo che echeggiò nella valle.E fu allora che morì. Io ansimavo a terra, sporco e sudato, pronto a svenire da un momento all’altro. -Benedict ha ucciso Norm, sentinella della Terra del nord- Corin parlò, avvicinandosi a mio fratello –che sia uno scherzo del dio del fuoco, Loki il Burlone? -Non è uno scherzo di Loki; Benedict ha ucciso il drago davvero- Tutti esultarono. Io sorrisi guardando Edward e poi il drago: sì, avevo dimostrato a tutti di saper stupire.

Fu grande festa dal Popolo: Edward che si sentì in debito con il fratello, cedette la corona e Benedict divenne re. Un re saggio e tranquillo, che non cercava guerra come il precedente. Quando egli morì, venne ricordato come Benedict l’Onesto; durante gli anni del suo regno, egli divenne un re popolare, anche sulla bocca degli dei di Asgard.I fi gli di Ivaldi costruirono per lui una delle migliori spade mai costruite a Svartalfheim e il Popolo visse felice fi no all’arrivo di Ragnaròk, la fi ne. Per quanto riguarda la Terra del nord, giurò vendetta al Popolo. E quale miglior modo di attaccare se non durante la fi ne, quando il caos regna sovrano?

Alice DehòClasse 3^ C – Scuola Secondaria di I Grado E. Fermi (I.C.Fermi), Romano di L.dia BG

Prima Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

narici, era arrabbiato: dovevo sbrigarmi. Potevo tagliargli la testa, come ogni cavaliere avrebbe fatto; alzai lo sguardo e diedi un’occhiata veloce al punto più alto della scalinata in pietra grigia, a quell’altezza avrei potuto uccidere Norm. Sì, lo avrei ucciso. Dovevo solo pregare negli dei e nella mia astuzia. Che Odino mi aiuti. Cominciai a salire la scalinata, un lampo catturò la mia attenzione: il cielo si era fatto nuvolo.Il mio respiro si faceva più pesante, il sudore scendeva dalla mia fronte e si mischiava al sangue fresco sul mio viso: sentivo il cuore in gola e un peso alla bocca dello stomaco. Ma non potevo permettermi di avere paura, dovevo continuare quell’assurdo gioco; come poteva tanto piacere al Popolo? Per quanto riguardava me, quella era la mia prima battaglia. Mi dissi che se fossi sopravvissuto, non avrei più toccato un’arma in vita mia e mi sarei tenuto lontano dalla guerra. La cima sembrava sempre più vicina, i lampi si facevano sempre più frequenti. Di lì a poco avrebbe piovuto. Poi, improvvisamente il nero mi avvolse. Caddi a terra, dolorante. Sentii un dolore lancinante alla spalla destra e un forte bruciore alla sinistra. Ci misi poco a riconoscere il dolore: alla mia destra era una botta, mentre dall’altro lato il drago mi aveva graffi ato. Era la fi ne. -Devo dire che non ti sei battuto male, Benedict. Non illuderti ad ogni modo, non sarai mai un grande guerriero. Oh, non preoccuparti: il dolore passerà, una volta che sarai da Hel- l’immagine di Norm era sfocata, una volta che riaprii gli occhi. Torreggiava su di me, pronto a scattare al più piccolo movimento. Pronto a fi nirmi. Eppure c’erano tante di quelle cose che avrei voluto vedere nella vita: visitare i regni vicini, trovare qualcuno da amare. Sì, mi dispiaceva fi nirla così. Sarei morto a terra, sconfi tto da una creatura mistica, ancora impugnante l’elsa preziosa della spada di mio padre, Freji. Era di Edward, sporca di sangue e di crimini. Mio padre gliel’aveva regalata promettendogli il regno, sapendo che io non mi sarei mai interessato alla guerra come importava a mio fratello maggiore. E in quel momento la impugnavo io.Ma sappiamo tutti che un vero re non cerca guerra, come era solito fare Edward. Se solo non avesse sfi dato un popolo tanto vendicativo e pericoloso… Norm sputò fi amme e brandì gli artigli, affi lati e pronti a sfi orare la mia carne. Solo allora capii che tagliare la testa ad un drago era come privare una lucertola della sua coda. Sì, avrei dovuto colpirlo al cuore, che solo quando esso avrebbe smesso di battere, la battaglia si sarebbe conclusa. Il cuore dei draghi non è a sinistra, bensì a destra: in quella posizione, Norm rendeva scoperto e vulnerabile il suo punto debole, avrei potuto fi nirlo. Osservai il punto interessato qualche secondo, per poi calcolare quante possibilità avevo di colpirlo con la spada. Eravamo vicini, ma le chance rimanevano ad ogni modo pochissime. E poi non avevo la forza di ucciderlo. Era così che sarei morto. Era così che sarei morto? Il giovane Benedict Victor Frejison II, la delusione di

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talmente colorata che spiccava tra il bianco della neve ed il grigio della città come se fosse stata un fuoco d’artifi cio.Sapeva, sapeva cosa avrebbe trovato dentro la scatola. Si aff rettò ad aprirla e ad aff errare con entrambe le mani le suole lucide e la pelle morbida, e improvvisamente tutto si fece luminoso, come se fosse stato di nuovo Natale.Le strinse contro il petto quelle scarpe, come fossero state il regalo più bello che avesse mai ricevuto, e forse lo erano.Le mise ai piedi, le allacciò con cura, poi rialzò il viso e con sguardo meravigliato mormorò: “Grazie.”L’uomo non fece nemmeno in tempo a rispondere che James gli si gettò addosso, e quasi soff ocandolo, lo abbracciò con foga.Era uno di quegli abbracci ruvidi, irruenti ed eccessivamente calorosi che ti facevano stringere il cuore. Sentiva James piangere sulla sua spalla destra, singhiozzando e continuando a mormorare tanti piccoli “Grazie” sussurrati al vento.“No, grazie a te.” Voleva rispondergli. Grazie per avermi abbracciato, grazie per avermi fatto capire che non servono davvero tutte quelle scarpe di marca e quei vestiti fi rmati, grazie per aver condiviso il freddo di questa giornata, grazie per aver accettato il mio dono, grazie per avermi reso felice.Poi il ragazzo si staccò, tremante, non più per il freddo ma per l’emozione.Mise la mano in tasca e, sotto gli occhi stupefatti dell’uomo, tirò fuori quel che rimaneva della sua pagnotta.La spezzò a metà e la off rì all’uomo che gli aveva donato le scarpe.Fu di nuovo silenzio. Il mondo sembrava essersi fermato.Quel ragazzo continuava a stupirlo, e non sapeva come reagire davanti a tanta umiltà e gentilezza, nessuno l’aveva mai trattato così.Allungò la mano e aff errò il pezzo di pane con gli occhi lucidi, il petto che sembrava scoppiare e la bocca che voleva dire mille parole, ma stette zitto. Sorrise.Forse era esattamente questo il signifi cato della misericordia.Condividere per creare sorrisi.Se ne andò da quel parco, consapevole di avere una storia da raccontare, semplice, buona, proprio come il pane.

Giulia BracchiClasse 3^ A – Scuola Secondaria di I Grado E. Fermi (I.C. Fermi), Romano di L.dia BG

Seconda Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

Erano le tre del pomeriggio del quindici Gennaio e James camminava tranquillo per le strade sdrucciolevoli di Londra nell’inverno inoltrato.Il fumo dai camini usciva lieve e grigiastro e andava via via a confondersi tra le nuvole scure gonfi e di neve.Dopo un’intera mattinata passata a racimolare qualche spicciolo gentilmente concesso da lavoratori aff annati e frettolosi, fi nalmente era riuscito a permettersi una pagnotta calda per rifocillarsi ed iniziare daccapo la sua ricerca che pareva essere infi nita e senza scopo alcuno.La gente ignorava la sua esistenza, si sentiva poco più di una formica in mezzo a quella metropoli che non aveva tempo per occuparsi dei più sfortunati, perché doveva lavorare, e lavorare, e lavorare. Forse anche gli altri erano formiche, ligi lavoratori che non si fermavano mai ad osservare quanto bello fosse il cielo rispecchiato dai vetri dei palazzi.Seduto su un muretto di pietra, in un qualche parco dei quartieri a sud, solo con i suoi pensieri, se ne stava a dividere la fatica e la fame di una giornata con gli uccellini che passavano nei dintorni.Curioso no? Non avere nulla se non un mezzo sorriso e un pezzo di pane, e dividere quel poco che si ha con dei piccioni.Nello stesso momento, ad una ventina di metri di distanza, usciva da un negozio sportivo un uomo sulla quarantina.Usciva, e si fermava ad osservare James.Scarno, con le guance rosse scavate dal gelo dell’inverno inglese, i capelli mossi dal vento e i piedi scalzi.Il caso volle che, l’uomo avesse giusto appena comprato un paio di scarpe, comode, bellissime e beh… anche costose.Ponderò un po’ tra se e se, perdendosi un attimo nella sua mente, pensando che forse in fondo, ma proprio in fondo, quelle scarpe sarebbero servite molto di più al ragazzo che a lui.Insomma, quelle labbra screpolate davano più brividi della brezza, i giorni passati a stomaco vuoto erano scritti sulla sua pelle, e aveva quello strano luccichio negli occhi, quel luccichio che si trova solo nello sguardo di chi ne ha passate tante, ma nonostante tutto va avanti a testa alta.Le scarpe non gli servivano. Servivano a quel ragazzo, erano sue, ci avrebbe corso, camminato, saltato e giocato assieme, e forse avrebbe anche smesso di tremare avendo fi nalmente qualcosa ai piedi.Quindi, armato di coraggio, compassione e un paio di sneakers, andò da lui e gli poggiò in grembo la scatola.Per una manciata di secondi nessuno dei due proferì parola, e James si limitò a fi ssare lo sconosciuto nel profondo degli occhi, come se stesse cercando di intuire le sue reali intenzioni. L’unica cosa che gli passava per la mente al momento era che fosse uno scherzo, o magari un’allucinazione causata dal freddo.Poi tastò la scatola, era vera, di cartone, odorava di nuovo ed era sgargiante,

L’INVERNO DI JAMES

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Ismaele MondiniClasse 2^ D – Scuola Secondaria di I Grado I.C. Rubini, Romano di L.dia BG

Terzo Classifi cato ~ Scuola Secondaria Inferiore

Misi sul fuoco due bei pezzi di carne uno per me e l’altro per il mio compagno che regolarmente lo rifi utò, infatti, il lupo con un morso staccò un pezzo di carne dal corpo dell’animale che giaceva in terra ormai squartato. Mi allontanai di scatto per paura; vedere quel gesto mi aveva impressionato molto.Il lupo, come se avesse capito il mio stato d’animo, lasciò la preda ed iniziò ad assaggiare la carne cotta. Tutto ciò mi lasciò sbalordito, era la prima volta che mangiavo in compagnia di un animale selvatico e mai come in quel momento mi sentivo compreso.Dovevo tornare a casa e mi incamminai sulla strada del ritorno. Salutai il mio nuovo amico, che dopo la morte prematura della vostra nonna mi aveva fatto sentire meno solo; per meglio riuscire nel mio saluto mi chinai e lui a modo suo mi abbracciò leccandomi. Io lo accarezzai e lui mi lasciò fare.Ci lasciammo, ognuno prese la sua strada, il cuore si fece pesante a vederlo andarsene via quando fece un altro gesto che mi riempì gli occhi di lacrime: si mise sopra una rupe e si mise ad ululare guardandomi negli occhi, perché aveva capito che non ci saremmo visti mai più.Feci dietro front e mi incamminai a passo spedito verso casa.“Ora andate a letto, amori miei, è tardi.”“Ma la storia che ci hai raccontato è vera nonno?”“Può essere, bambini miei.”Però adesso io mi chiedo che fi ne abbia fatto il mio compagno a quattro zampe ma, cosa più importante, potrò più rivederlo? Guardo la luna e penso a lui, all’amico più sincero che abbia mai avuto e mi scendono ancora le lacrime dagli occhi come l’ultima volta che l’ho visto.

Tutto è successo perché ero un alpinista. Da sempre ho amato trascorrere il mio tempo libero in mezzo alla natura perché mi era più facile sopportare i problemi di tutti i giorni; la montagna con le sue belle pinete mi ha sempre fatto sentire a casa.Mi sono sposato con una bella ragazza, avevo ventiquattro anni; il ventisette marzo del 1960, me lo ricordo come se fosse ieri. E’ stato il giorno più bello della mia vita, quando ad un tratto la mia gioia si è trasformata in tristezza, solitudine e fi umi e fi umi di lacrime.Ora non voglio rattristarvi per la mia perdita e infatti, non vi racconterò come successe, ma vi narrerò di un incontro particolare.Come ho già detto prima quegli anni furono devastanti, per me forse i peggiori tant’è che spesso mi rifugiavo in montagna.Un giorno nel bel mezzo di una passeggiata iniziò all’improvviso a piovere. Non avevo portato nulla per ripararmi dalla pioggia, avevo solo della carne secca e una borraccia piena di acqua e perciò cercai riparo in una grotta; in verità era una rientranza su una parete rocciosa.Adesso ragazzi tenetevi forti, non indovinereste mai cosa trovai all’interno del mio riparo; un bellissimo lupo dal pelo bianco e dagli occhi azzurri, molto intensi, mi guardava come se volesse parlarmi. Aveva fame, lo capii poiché arricciò il naso ero, umido e lo infi lò nella tasca della mia giacca, dopo essersi avvicinato lentamente facendo il minimo rumore con le zampe soffi ci ma munite di unghie forti, dove avevo riposto la carne secca.Provai ad accarezzarlo ma lui ringhiò a causa della sua paura innata verso l’uomo perché era un animale selvatico abituato a diffi dare.Si fece sera e non cessò di piovere, anzi iniziò anche a tuonare. Io ero spaventato ma sicuramente il mio coinquilino lo era di più. Alla fi ne mi addormentai ma, ad un certo punto, percepii vicino a me il lupo che si era accovacciato vicino a me con il muso sotto il mio braccio destro.Avevamo entrambi sete, presi la borraccia bevvi un sorso di acqua e con l’aiuto del palmo della mia mano feci bere il lupo; subito la terminò e per ringraziarmi leccò la mia guancia. La sua lingua era calda e ruvida.Rimasi stupito perché la sera prima sembrava aggressivo, o forse aveva solo paura di un estraneo, ma la notte si era avvicinato a me come un cagnolino con il suo padrone.Questo mi rassicurò molto, così mi riaddormentai. La mattina successiva non trovai più il lupo, mi guardai intorno e dopo un po’ non vedendolo mi allontanai. Più mi allontanavo dal rifugio della notte e meno mi sentivo tranquillo. Ad un certo punto, per non so quale ragione mi voltai e vidi il maestoso lupo seduto su una roccia, sotto di sé c’era un cerbiatto morto.Quel bell’esemplare di lupo era solito cibarsi di selvaggina appena cacciata. Consultando il mio orologio mi resi conto che erano le prime ore del pomeriggio. Accesi un fuoco, presi il coltellino svizzero che avevo sempre con me e, mi arrangia a tagliare il povero cerbiatto come meglio potevo.

L’INCONTRO SOTTO LA PIOGGIA

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pensando che sarebbe stata felice come me. Al contrario di quel che pensavo, invece, i miei genitori mi vietarono di vedere un qualsiasi ragazzo di quella compagnia, compreso George, il bellissimo ragazzo che ballò con me quella sera - è strano sentir parlare di mia nonna e della sua gioventù, non l’ha mai fatto con nessuna delle nipoti. La lascio continuare, in fondo questo è uno dei pochi momenti intimi tra me e lei. - Il bel principe mi invitò ad uscire più volte, ma io dovevo sempre rifi utare per non disubbidire ai miei genitori, fi nché un giorno… mi raccomando, questo non raccontarlo a tua madre! Beh, un giorno accettai. Nel pomeriggio ci saremmo dovuti trovare nella piazza della chiesa. Io aspettai e aspettai, ma lui non arrivò, proprio come è successo a te oggi. A quel tempo non avevo nemmeno il cellulare per poterlo contattare e chiedergli dove fosse o perché stesse ritardando. Una volta tornata a casa, non si sa come, i miei genitori erano già venuti a sapere tutto e naturalmente non ne erano aff atto contenti. L’antipatia tra me e tuo nonno andò avanti per un po’ di tempo. Una delle mie più care amiche si era fi danzata, e successivamente sposata, con un ragazzo del suo gruppo, così ogni volta che uscivamo anche solo per fare una passeggiata, la sera, me lo ritrovavo tra i piedi. Pensa che un anno dopo eravamo fi danzati e dopo poco tempo ci siamo sposati. Quello che ti deve insegnare questa storia, tesoro è che può succedere qualunque cosa nella tua vita. Magari in questo momento odi quel ragazzo… Come hai detto che si chiama? - chiede confusa – Alex! - sorrido. – Ecco, Alex! Magari ora non vorrai più vederlo, perché la cosa che ha fatto ti sembra spregevole- “Infatti” penso. – Ma, fi dati, che è meglio avere una spiegazione subito piuttosto che tra qualche settimana o mese – Io sospiro. In fondo mia nonna ha ragione. Magari ha avuto qualche imprevisto oppure si è dimenticato. Mi alzo dalla sedia. Ho deciso! Chiamerò Alex e gli chiederò cos’è successo! – Aspetta un attimo, nonna, perché il nonno non era venuto all’appuntamento? - chiedo io. – Era in ritardo, lo avevano trattenuto al lavoro- ride lei – In quel momento avrei proprio avuto bisogno di quello -, dice indicando il cellulare nella mia mano e io sorrido di rimando – Allora perché vi stavate così antipatici? - chiedo di nuovo – Beh, io pensavo che lui mi avesse dato buca e lui pensava che fossi stata io dato che, quando arrivò, io non c’ero più. Abbiamo avuto il coraggio di parlarne soltanto molti mesi dopo- mi risponde. Mi allontano pensando al racconto di mia nonna. Non sapevo che lei e nonno George avessero vissuto tutto ciò da giovani, pensavo che la loro fosse stata una storia tranquilla. Evidentemente non è stato così. Accendo soprappensiero il mio cellulare e sulla schermata compare una chiamata. È Alex… allora forse non si è dimenticato di me!

Aisha Beatrice Th iamClasse 3^ C – Scuola Secondaria di I Grado E. Fermi (I.C. Fermi), Romano di L.dia BG

Quarta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

Mi siedo ordinatamente sul gradino che precede l’armoniosa villetta a schiera di mia nonna. Sbuff o sonoramente tirando fuori il cellulare dalla tasca della mia giacca di pelle nera. Controllo per l’ennesima volta i messaggi e non trovo niente. Nessun messaggio in nessuna chat. Appoggio la testa sulle ginocchia sospirando e sento lo scricchiolio della porta principale dietro di me. Una volta chiusa, dei passi lenti e trascinati si avvicinano a me scendendo un gradino. – Nonna – esclamo, alzando la testa e guardandola con un sorriso forzato. Mi tiro su velocemente passando le mani sui jeans e spolverandoli. L’abbraccio forte. – Sierra cara, che ci fai già qui? Tua madre aveva detto che saresti arrivata poco prima della cena- chiede ingenuamente – non dovevi uscire con quel tuo amico? -, speravo non mi chiedesse del mio “appuntamento” fi nito male. – Già, Alex… beh, mi ha dato buca! - sussurro io in risposta. Lei mi guarda con un’espressione confusa – dato buca? Che intendi piccola? - chiede di rimando. – Non si è presentato. Penso che fosse tutto uno stupido scherzo -, dico abbassando lo sguardo in modo da evitare i suoi occhi indagatori. – Oh tesoro, mi dispiace… ma non preoccuparti, a tutti è successo almeno una volta- dice mia nonna in modo da confortarmi. Non penso molto alle sue parole. Lei e mio nonno George si sono conosciuti quando erano molto giovani e il loro è stato uno di quei veri amori a prima vista che si raccontano nei libri. Almeno così mi ha detto mia madre. Non dubito del fatto che abbiano avuto qualche lite, ma di sicuro niente di importante. – Nonna, non dire così… a te non è mai capitato di sicuro! - dico io sedendomi alla sedia che affi anca il tavolino di legno sotto il portico. Lei si siede sulla sedia a dondolo in parte. – Oh tesoro, questa volta non posso darti ragione, mi dispiace, anche io e tuo nonno abbiamo vissuto momenti del genere. Avrò pure vissuto la mia gioventù in anni diversi dai tuoi, ma non sono poi così lontani - Ridacchio alla sua aff ermazione. – Mi dai il permesso di raccontanti una storia cara? -. Scuoto energicamente la testa in segno di assenso – Certo, nonna -. Lei raddrizza gli occhiali sul naso e chiude gli occhi sospirando. – Ricordo il giorno in cui conobbi tuo nonno come se fosse ieri. Avevo appena compiuto i 18 anni e i miei mi permisero di andare a ballare alla festa di paese con le amiche, come se tu oggi andassi in discoteca. Fecero soltanto una raccomandazione prima di farmi uscire: non parlare con i ragazzi. Naturalmente non potevo ascoltarli. La serata iniziò bene, devo dire. Ci divertimmo moltissimo, era un’esperienza nuova per noi. Dopo un’oretta arrivò un gruppo di ragazzi. Erano un po’più grandi di noi, ma erano veramente bellissimi. In paese li conoscevano tutti, si potevano defi nire dei veri rubacuori. Ci invitarono a ballare e noi non potemmo che accettare. Una volta tornata a casa, raccontai tutto a mia madre

IMPREVISTI DI GENERAZIONI

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lo conosceva, sudava e tremava, era terrorizzato, in panico, perché proprio lui doveva trovarsi in una situazione del genere? - Ciao Ozzy- l’ombra parlava (?), era una voce cupa, tenebrosa, faceva venire i brividi. - C-c-c-chi s-s-s-sei? - domandò con timore Ozzy. - Sono frutto della tua immaginazione, caro Ozzy. - La mia i-i-i-mmaginazione? - Sì, sono la tua immaginazione, la tua strana e bizzarra immaginazione - Quindi io sto parlando con la mia mente? – - Esattamente, caro Ozzy, sono io la tua mente e sono qui per farti ragionare! - Ragionare su cosa? – - Ovvio, no? Il FUTURO, gli disse la sua “mente”, calcando sull’ultima parola. - Cosa devo scegliere sul mio futuro? So già cosa voglio fare, andrò al liceo, poi verrò accettato in un prestigioso college, diventerò un medico, mi sposerò con Emily Anderson e…- L’ombra lo interruppe. La paura era svanita, ma c’era ancora un’aria tesa. Ozzy pensò alle due possibili conclusioni: o stava sognano o… stava sognando. Provò a darsi dei pizzicotti sul braccio ma niente, non era la prima volta che gli capitava di fare sogni di questo tipo e che, nonostante tentasse di svegliarsi non si svegliava. - Allora devo spiegartelo meglio, caro. Non decidi tu cosa vuoi fare, lo decido io – L’immaginazione di Oz continuò a parlare con un tono compiaciuto e di potere. - Beh, te l’ho detto… Voglio frequentare il liceo, poi un prestigioso college e diventare… –La rabbia dell’ombra aumentava: - No Oz, non funziona così, devi guadagnartele queste cose, ti sto dando la possibilità di programmare il tuo futuro in una serata, non sprecare questa opportunità come tutti gli altri, pensa e rifl etti, ragiona su quello che desideri veramente e non sulle cose superfi ciali della vita. La mente di Oz dettagliò ad Ozzy la procedura del caso, sperando che al contrario dei suoi “clienti” precedenti, lui potesse dare una risposta semplice ed effi cace. Non era la prima volta che andava nella mente delle persone, l’ombra era abituata, Ozzy no. - Beh, sono queste le cose che voglio veramente - disse Oz, stufo di questa specie di “quiz” sulla vita. Aveva altri pensieri per la testa come i suoi fumetti, abbandonati sul tavolino a casa sua e non in questo stupido bosco. - Sei sicuro Ozzy? Tutto qui? – - Sì, sono sicuro, anzi no, un’altra cosa, voglio che mi tiri fuori da “foglia rossa”, non mi piace stare qui - - Bene, lo hai voluto – I lineamenti del viso di Ozzy assunsero un’espressione disorientata, non aveva chiesto proprio niente adesso, aveva chiesto ciò che desiderava dopo. L’ombra stava andando via, lo lasciava così? In mezzo a bosco? Oz ricordò che tutto era frutto della sua immaginazione, quindi non era lei a decidere ma lui. Lui avrebbe comandato sia in quell’istante e sia nel futuro. Tutto ciò gli ricordo

- Hey, chi c’è là? – L’aria era fredda, per quale assurdo motivo era entrato in un bosco, per lo più in pieno dicembre? Ozzy era stato così stupido, nella sua mente rimbombava la voce di sua madre, mi raccomando Oz, non entrare lì, non è sicuro per un bambino fragile come te, ma questo era solo un piccolo sussurro, quello che più aveva in testa erano le voci petulanti e insistenti di Henry e Victor, oh, il piccolo bastoncino ha paura della “foglia rossa”. Era così che chiamavano il bosco. Esisteva una leggenda, molto stupida a parere della mamma di Ozzy, ma lui rimaneva comunque terrorizzato da questo racconto. Narrava di un anziano signore che, raccogliendo la legna per costruire una piccola casetta per gli uccelli o piccoli animali volanti, come li chiamava lui, aveva sentito strani rumori provenire, ogni volta che faceva tre passi, alle sue spalle. Inizialmente non ci aveva fatto caso ma in seguito, incuriosito e spaventato, ruotò il capo ma non fece in tempo a vedere cosa ci fosse dietro di lui. Nessuno sa di preciso cosa gli successe, non si sa perché successe o come, semplicemente successe. L’unica cosa che fu ritrovata fu una piccola foglia con poche gocce di sangue sopra e da allora il nuovo nome del bosco fu appunto, “foglia rossa”. Oggi, Ozzy era andato a scuola, come ogni normale mattinata e dopo la tradizionale canzoncina dei “Tanti auguri”, cantatagli dai compagni di classe, Henry e Mark si erano avvicinati due volte, la prima per chiedere una doppia porzione di cioccolatini, portati a scuola proprio per il suo compleanno e la seconda per invitarlo ad uscire. In quell’istante, la faccia paff uta e paonazza di Ozzy aveva assunto un’espressione di stupore: mai in tutti i suoi 13 anni appena compiuti, vissuti nel Minnesota, Henry e Mark, i due bulli della scuola, avevano avuto con il bastoncino Ozzy altro tipo di conversazioni che giudizi e insulti. Alla fi ne Oz accettò l’invito, ignaro di quello che sarebbe successo, e con i pantaloni della tuta rossi e le sue gambe troppo magre, si diresse verso il luogo d’incontro. “Il corvo nero” era un piccolo bar in mezzo alla città, proprio vicino alla “foglia rossa”, ma questo pensiero inizialmente non lo aveva turbato. Insomma, dopo tanti anni di stare chiusi in casa a leggere i fumetti della Marvel, Ozzy aveva fi nalmente una buona ragione per uscire e mollare sul tavolo del salotto i suoi amati fumetti. Non avrebbe dovuto affi darsi al destino, o meglio, non avrebbe dovuto fi darsi di Henry e Mark. Era stato un enorme sbaglio, non avrebbe dovuto tradire così i suoi fumetti, loro erano stati sempre fedeli e lui no. Adesso, si trovava in mezzo al bosco, al freddo, al buio e girava e girava. Si guardò attorno. Non sapeva più dove andare. Decise di appoggiarsi al tronco di un albero e di aspettare qualche ancora di salvezza. Un rumore lo fece sobbalzare, uno scricchiolio proveniente da sinistra. Poi un’ombra. Di solito un’ombra viene da un qualcosa di materiale, di fi sico, ma questa volta no, l’ombra era sola, almeno così lui credeva. Subito dopo, comparve dalla macchia nera una fi gura, imprecisa, senza dei veri lineamenti e, pur tra la nebbia che iniziava ad alzarsi, l’immagine era sempre presente e adesso ancora più precisa, era un uomo? Ma chi? Ozzy non

QUASI ALADDIN

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C’è un ragazzo seduto su un muretto impregnato del sale che depositano le onde, dopo che il mare le sbatte con violenza sulla banchina del porto. C’è un ragazzo che è seduto lì e guarda l’oceano, quel blu liquido che urla silenzioso la sua rabbia, e il vento, che prende a schiaffi le gote rosse delle coppie che passeggiano sul lungomare.Si dice che se ci si ferma si riescono a sentire i loro sussurri. Bastano cinque minuti, solo cinque, e sia il mare che il vento iniziano a parlarti. C’è chi li ha sentiti piangere, e chi invece dice che gridano echi lontani, portati dalle correnti da una parte all’altra del mondo. Ci sono venti che parlano il francese, altri che fanno gli spavaldi con un accento inglese e qualcuno che riporta parole arabe, che sanno di sabbia e caff è. Ci sono poi dei marinai che dicono di aver sentito il vento cantare, e ripetere la loro ninna nanna per notti intere, fi no a quando le palpebre non reggevano più e si chiudevano piano, all’avanzare lento delle onde che baciano il legno delle barche levigandolo con la delicatezza e la passione di amanti nella notte.E ci sono poi uomini e donne a cui il mare porta solo parole d’odio, e il vento porta solo brividi di freddo. Sono coloro che hanno paura delle onde e della forza del vento, coloro che non hanno mai avuto il coraggio di immergersi completamente in quella massa liquida che è così sfuggente, così astratta e misteriosa. Allora il mare li reclama, grida loro contro invitandoli a perdersi in un mondo che non ha nulla a che vedere con la terraferma e che fa così tanta paura all’uomo. Ma loro non lo capiscono, il linguaggio dell’oceano, e ogni sussurro arriva loro come un urlo minaccioso.Ma c’è anche chi il mare lo ha amato, e lo ha guardato ogni giorno della sua vita, accogliendo i suoi capricci e il suo carattere lunatico. C’è chi lo ha amato fi no a quando il sole non gli ha bruciato gli occhi e la vecchiaia non gli ha scavato rughe profonde. E anche lì il mare c’è stato, nei ricordi di una mente con l’Alzheimer che inizia a dimenticare tutto, nel vento che sussurra all’orecchio storie che viaggiano dentro bottiglie di vetro con i segreti del mondo intero.E poi c’era quel ragazzo, seduto sulla banchina, tra i nodi delle reti dei pescatori. Lui il mare lo guardava fi no a perdersi tra le onde, a confondere le voci degli uomini con quelle dei venti. Libeccio, Maestrale, Scirocco. Ognuno portava gli occhi di una persona diversa, portava le loro speranze, i loro pianti, le loro grida. A quel ragazzo avevano detto di guardare l’oceano e di lasciarsi sferzare il viso dalla brezza che correva leggera ogni giorno tra le reti, che cullava piano gli scafi e che faceva sbattere le porte delle botteghe che davano sul porto. Gli avevano detto che il mare era un messaggero fedele, che se lo osservavi bene e lo stavi ad ascoltare per il tempo che ti chiedeva di concedergli, allora lui ti avrebbe raccontato le gioie, le paure, e le speranze degli uomini, non importa se quelle parole avrebbero dovuto attraversare chilometri. Lui le portava, anche prima delle voci registrate dei telegiornali. Con il freddo di gennaio le onde portarono a riva i corpi martoriati della guerra dall’altra parte del Mediterraneo, che riempiva il terreno di sangue e restituiva

ONDE DI GENNAIOdei fi lm che aveva visto e che parlavano della possibilità di esprimere tre desideri, richiesti da un genio che sbucava fuori da una lampada magica. A diff erenza di quei fi lm, lui aveva un solo desiderio, l’ombra non era uscita da una lampada magica e tutto ciò era una sua immaginazione, di conseguenza poteva controllare lui. La macchia nera stava ritornando, aveva in mano una foglia? Oh meglio la foglia rossa, Ozzy aveva capito, l’anziano signore c’era stato, diverse persone c’erano state, ma nessuno aveva capito che poteva controllare la situazione da se stesso. - Ti avevo avvisato - interruppe i pensieri di Oz. - Sì, l’hai fatto e anche bene, tu sei solo frutto della mia immaginazione, non esisti, non sei reale e ti ringrazio per avermi avvisato- contrattaccò Oz con aria soddisfatta. Oz non capì se l’ombra si spaventò o meno, era solo una macchia nera che girava nella sua mente per confonderlo, ma di sicuro l’aria attorno cambiò ed essa non si trovò più in una situazione di vantaggio ma di totale svantaggio, la nebbia stava sparendo e la macchia nera rimase solo un ricordo sfocato e vago nella sua testa. Iniziò a correre e correre, voleva solo uscire da lì, era reale o no? Non lo sapeva, ma di una cosa era sicuro, tutto ciò era bizzarro e molto strano… Molti anni dopo… …Oz non aveva capito se la cosa fosse successa realmente e cosa gli fosse accaduto. Tante volte era ricorso al supporto di specialisti. La sua prima psicologa, un’anziana signora vicina alla pensione, si era addormentata al suo racconto e lui, in imbarazzo e non sapendo veramente che cosa fare, se n’era andato e cercare un altro psichiatra, che non si addormentasse e rimanesse sveglio. Adesso, si ritrovava a casa sua, davanti al suo camino, e pensava a come tutto fosse diverso. Dopo il liceo, la voglia di studiare era andata chissà dove, non si era iscritto all’università, non era diventato medico, non si era trasferito nel Massachussets e non si era sposato con Emily Anderson. Emily aveva sposato Henry, il bullo della scuola che aveva pure smesso di esserlo. Ozzy invece non si era sposato, troppo impegnato a risolvere i suoi problemi e a ripensare all’ombra che aveva incontrato molto tempo prima. Lo scoppiettare del fuoco del camino lo risvegliò lentamente dai suoi profondi pensieri e Ozzy si accorse che mancava la legna. Sarebbe dovuto andare nella “foglia rossa” per prenderne dell’altra…

Aurora MirtoClasse 3^ C – Scuola Secondaria di I Grado E. Fermi (I.C. Fermi), Romano di L.dia BG

Quinta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Inferiore

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Lo ricordo, un po’ confuso come nella nebbia del mattino quando la rugiada ed freddo della notte si poggiano delicatamente sulle foglie e sui profi li della città ancora assonnata. Lo ricordo, sfocato nei mille altri miei ricordi e pensieri di una vita che deve ancora defi nirsi vissuta. Delle volte ci penso e sorrido inconsapevolmente, tentando di estrapolare dalla frenesia delle mie giornate, un attimo, una parentesi di tranquillità. Osservo le mie foto da bambino e lo vedo lì, nitido ed immobile. È un momento della mia vita dove nel tirare la mia moneta non ho pensato a cosa succedesse, da quale lato cadesse o se seguissi veramente le leggi del fato, ho solo ignorato dinamiche dettate dalla paura o dall’incertezza per camminare passo dopo passo verso un buio che non mi spaventava. Ero abituato al buio e al freddo di una parte della mia vita, passata a camminare sul bordo di un grattacielo bendato e con gelido vento a falciarmi le guance. Non è presunzione la mia ma mi defi nisco un animale coraggioso fi n dalla nascita: ho sempre amato sfi dare me stesso, sfi dare le strane leggi che inventavo ed evolvevo nella mente, ritrovandomi a rischiare per vedere fi no a che punto potessi arrivare. Ho rischiato il tutto per tutto anche quel giorno, quell’attimo che ora sfi oro con le mani in una foto, seduto sulla poltrona. Sono le sette di mattina e dormo con intorno una decina di peluche tutti impolverati ed il calore del respiro della mia vicina. La luce fi ltra leggera tra le persiane color verdastro e arrugginite agli angoli inferiori. Lo ricordo perché delle volte mi graffi avo strusciando i gomiti mentre provavo a scavalcare e fi ngere di guidare una moto dondolandomi sul bordo della fi nestra. Lei si muove e la osservo succhiando ancor più forte il mio dito preferito, il mio compagno di viaggi nei sogni. La temperatura della stanza è tiepida e respiro tranquillamente pensando, in una lingua tutta mia, a cosa fare durante la giornata. Leggere i libricini delle storie nel bosco e ridere nel guardare buff e sagome parlare con strani segni? Correre facendo innervosire quella lei che mi ha cresciuto dopo che sono uscito dall’ospedale per poi ritrovarmi a stare chiuso nella stanza delle punizioni con altri ragazzini della mia età agitati ed in fermento? Avevo pensato anche allo star fermo e fi ssare l’armadio immaginando di essere baciato dalla brezza di un monte ad ammirare una parete da scalare e da superare. In un giornata cosi avrei potuto fare mille cose ma fu il tempo a bloccare il mio parlare da solo in silenzio e la porta della stanza si spalancò gettandomi contro una ventata di confusione, fermento e aria nuova. Mi alzai di scatto correndo intorno al letto ed iniziando ad agitare la lei che dormiva da un anno e mezzo affi anco a me. Non si voleva alzare, serrava gli occhi con insistenza provando a sfi dare la mia irruenza ed il fuoco della luce proveniente dalla fi nestra oramai spalancata. La donna mi prese in braccio, mi sorrise, mi diede un bacio e mi lasciò andare via. Ricordo quelle labbra con un misto di oppressione e di impazienza. I suoi occhi erano lì che mi dicevano di star fermo, di comportarmi bene, di seguire le regole e poi osservavo il cuore che in silenzio mi diceva che sarebbe arrivato il mio momento prima poi, che sarei diventato uno di loro, uno di quelli che ha varcato l’uscita prima della domenica senza mai tornare. Delle volte confondo il colore dei suoi capelli con quelli del sole. Associo mentalmente il

MEMORIE DI UN INCONTROal mare la disperazione di chi era sopravvissuto e vedeva la vita morire. Portò gli sguardi chiusi di chi aveva un foro nel petto, e le labbra schiuse di chi aveva sognato dell’acqua e un po’ di pane prima di morire, rimettendo il proprio respiro a quella distesa di acqua salata, sperando che il gommone un domani si fosse incagliato tra le rocce dell’Europa. Portò i pugni chiusi di chi aveva cercato di lottare, le preghiere di chi si appellava alla bontà di un dio, e le braccia vuote delle madri che avevano sperato fi no all’ultimo di abbracciare i propri fi gli e sentire i cuori pulsare veloci, come i cuori dei giovani, che vanno sempre di fretta. Portò le parole belle delle persone che avevano incontrato e avevano reso la loro vita migliore. Il vento le ripeté ogni giorno, e ogni giorno soff ocò quelle che parlavano di odio, perché di quei volti si possano ricordare solo i sorrisi.I telegiornali di febbraio fecero arrivare anche le storie di quegli uomini e di quelle donne, perché non fossero solo carne, ma fossero esistenze che facessero svegliare l’Europa, e diventassero testimoni silenziosi per chi non vedrà le onde che li portarono. Uomini in giacca e cravatta da ogni paese attraversarono il Mediterraneo per incontrare altri volti che narrarono le stesse storie di chi il mare aveva risparmiato. E tutto l’Occidente si impegnò a ricordare, perché la Storia ha senso fi n quando ci sarà anche una sola anima che ricorda e che serba la memoria. Ogni uomo vive solo quando ha memoria degli incontri che fa, quando si lascia scalfi re dagli occhi di altri, quando li lascia entrare nel proprio vissuto e quando trasmette le loro storie ai propri fi gli, perché quei volti non vengano mai dimenticati e non si perdano tra la sabbia del tempo, che confonde i ricordi degli uomini tra i suoi granelli minuscoli, fi no a quando un giorno qualcuno non decide che quelle storie sono solo parole inventate dal vento e non cancella la memoria del passato. Ogni giorno il ragazzo pianse e il mare urlò il suo dolore. Il vento asciugò le lacrime del ragazzo e soff ocò il grido del mare. Anche lui avrebbe voluto unirsi a loro, ma si sa che a volte i vecchi devono essere forti anche per i giovani, e che devono asciugare il loro pianto. E il vento era forte, e impregnato di gocce salate.

Francesca VenezianiClasse 2^ H – Scuola Secondaria di II Grado Socrate, Bari

Prima Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

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semplice suono diventando veri signifi cati: “sei pronto…bello… fuori…vita.” Non le dimenticherò mai quelle parole, oramai sono scritte nei miei muscoli ed ogni movimento, ogni parola da quel momento in poi fu diversa, parte di me e di tutto quel che è mio. Si alza dalla sedia e apre la fi nestra sospirando rumorosamente e portandosi alla bocca una stecca bianca. Alle mie spalle una giovane ragazza mi fa segno di seguirla, quasi fossi uno di quelli altissimi che camminano da soli senza essere presi in braccio. Oramai l’essere preso in braccio era diventata un’abitudine, un passatempo durante le giornate noiose senza giochi da scoprire e da distruggere con la mia irruenza. Seguo la donna ma pian piano mi rendo conto che mi sta portando verso la mia camera. Corro velocissimo verso il mio letto ed istintivamente abbraccio il mio cuscino immergendomi completamente nel suo calore. Lei apre la parete delle arrampicate e ne fa nascere un vestito blu. Lo chiama salopette ed io, convito da quel suono saltellante, indosso il nuovo abito senza problemi. Dopo avermi vestito, si siede accanto a me e mi fa vedere delle piccole scarpe tutti luccicanti con lo strappo che fa tanto rumore. Senza fare domande, come un militare prima della parata, indosso la mia uniforme di rappresentanza. Il cuore oramai lo aveva capito e pian piano, sempre con delicatezza estrema, lo stava comunicando alla mia mente indaff arata a strappare le fi bbie delle scarpe per sentirne il rumore. Dei bambini passano davanti la mia stanza e si fermano ad osservare i miei vestiti nuovi. Hanno gli occhi luminescenti e tremano. Solo ora mi accorgo che la mia compagna non c’è, il letto è vuoto ed è da stamattina che non la vedo gironzolare con le altre sue amichette intorno ai tavoli. È strano che il suo animale peloso non stia dormendo come il mio sul cuscino. Il mio invece è lì che dorme tranquillo e con occhioni giganteschi sogna di accompagnarmi ovunque perché lui senza di me non è nessuno ed io senza di lui non sono niente. Aspetto per un po’ di tempo seduto sul letto qualche reazione da parte della donna che mi aveva vestito ma lei, indiff erente parla al telefono buttando, di tanto in tanto, gli occhi su di me. Solo dopo il ventesimo dondolio delle gambe lei si avvicina e con una carezza e le guance umide mi fa segno di alzarmi e seguirla tenendole la mano. La sua stretta è più avida e possessiva del solito, mi arrossa tutta la pelle. Il corridoio sulla destra non lo conoscevo, avevo quasi paura di percorrerlo da solo ma per fortuna lei era accanto a me. Dopo un po’ ci fermiamo. L’aria è off uscata, come il mio pensiero che sta svanendo nelle ultime parole di un passato quasi rinnegato perché diffi cile fi no a quell’attimo di perfetta sinfonia. Una coppia, due profi li e per la prima volta non vedo solo una lei ma al suo fi anco vedo un lui, uno come me, ma più alto e scuro. Cammino titubante e quella lei trema visibilmente con la mano stretta a quel suo lui. Il mio istinto mi dice di camminare e la distanza tra me e quei due si assottiglia, come la lama d’acciaio di un coltello. Lei muove un passo, mi fermo. Io ne muovo uno e lei, come in una danza si ferma. Chiudo gli occhi e per un attimo ricostruisco la mia vita fi no a quel punto, riavvolgendo il corto ed esile nastro della mia esistenza, confondendo il tutto con fantasia e realtà. Nasco, ospedale, tanto tempo ad osservare il soffi tto, istituto per un po’ di tempo, ed infi ne mi ritrovo a ballare questo strano ballo con questa donna a me sconosciuta. Riapro gli occhi ed in un attimo corro verso di lei e salto cercando un abbraccio. Per un attimo lo stomaco è in subbuglio e mi ritrovo a volare davanti ai suoi occhi. Noto un luccichio che sfavilla tra il nero dei suoi capelli. Mi stringe a se e l’umido delle guance tocca il mio collo. Io sorrido, rido e

sole del mattino con il suo buongiorno e con il suo capo mentre apre la fi nestra e fa entrare una folla di fotoni nella mia stanza. La mattina è sempre la stessa storia, lo stesso valzer ballato con le abitudini radicate nei miei muscoli giovani e fulgidi di vita. Corro verso la porta, svolto a sinistra e corro verso uno stanzone enorme da dove si sentono voci di tutti i tipi. Non perdo tempo a salutare tutte le donne che scontro e che sorpasso, semplicemente corro verso la cosa che più amavo: il cibo. Era una stanza enorme, la ricordo o per lo meno la mia mente così fotografa il bianco delle pareti intorno a me. In un angolo vedo raccolti dei ragazzi altissimi che mi sorridono e con uno sguardo malinconico sfi orano con le labbra il bordo di un bicchiere pieno di acqua fredda. Io preferisco il latte, mi piace di più ed è più dolce dell’acqua. Riempie lo stomaco e pian piano pervade il palato dell’odore della vita, dell’odore delle madri giovani che vengono ogni settimana a portarci dei giochi nuovi, è profumato e mi fa sentire forte, fortissimo ed invincibile. Ci sono degli enormi tavoli con panche lunghissime e stracolme di bambini della mia età. Mi siedo e aspetto, senza parlare con nessuno, la mia porzione. Lo sento dall’odore, ne sono sicuro, le mie papille lo sanno. Avevo ragione, è proprio lui! Pane e marmellata con latte caldo! È buonissimo con lo zucchero della marmellata che mi manda in fi brillazione tutta la bocca ed il pane che pian piano, come un muratore, si costruisce uno spazietto nello stomaco e rimane lì fi no alla sera. Mangio con avidità senza accorgermi che dietro di me tutti mi guardavano in maniera strana, come fossi un essere al di fuori della situazione. La ricordo ancora oggi quella scena con tutti gli occhi puntati addosso ed una delle donne che mi prende in braccio e mi porta fuori dallo stanzone parlandomi in una strana lingua di cui conoscevo solo i suoi più comuni e utili a me per mangiare e star bene. Percorriamo un’ala dell’istituto e dalle fi nestre si intravede la neve scendere delicatamente sul mondo, ho sempre sognato toccarla, accarezzare quei batuff oli bianchi e tuff armi nei cumuli di cristalli lucenti per assaporare la morbidezza e la delicatezza del freddo che mi hanno sempre raccontato prima di andare a dormire. La donna continua a parlarmi a io sono altrove, in un mondo tutto mio e con persone tutte mie da non condividere con nessuno. Questo mio atteggiamento di ossessivo possesso, solo in questo periodo della mia vita dove ho delle vere certezze, sto cercando di limarlo e di farlo diventare un mattone della mia crescita. Avevo paura, ne ho sempre avuta e nelle mie vene, nel mio sangue, scorrerà sempre una goccia di sangue nero e macchiato di timore e di domande che nessuno potrà esaudire. Da piccolo la paura la immaginavo di colore nero, la associavo al mio chiudere gli occhi e parlare con me stesso nei momenti di spavento. Mentre osservo la foto sorrido e mi chiedo come sarei se non avessi percorso con quella donna quel lungo corridoio con la neve fuori e le mie mille domande a rimbalzare contro i muri per poi sbattermi in faccia come palline da ping-pong impazzite. Un pallina mi urta il cuore ed è lui a rispondere con delicatezza senza fretta: “Forse è il nostro momento Solishcka e fi nalmente potrai buttarti nella neve come hai sempre sognato. Tempo al tempo.” Un porta si apre e una donnona con un seno enorme mi prende dall’abbraccio dell’altra donna dal profumo di caramelle al limone e mi fa sedere su una sedia. Sul tavolo vedo dei documenti tutti pieni di parole che non riesco a leggere e tanto meno a capire. Quella donna si siede sollevando una folata di vento e facendo smuovere tutti i fogli sul tavolo. Mi guarda, sorride e si volta verso una fonte luminosa. Incomincia a parlare e delle confuse parole oltrepassano il limite del

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Artiom NotoClasse 3^ C – Scuola Secondaria di II Grado G. Bruno, Perugia

Secondo Classifi cato ~ Scuola Secondaria Superiore

E ti vengo a cercare anche solo per vederti o parlare

perché ho bisogno della tua presenza per capire meglio la mia essenza.

Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine

un rapimento mistico e sensuale mi imprigiona a te.

Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri non accontentarmi di piccole gioie quotidiane

E ti vengo a cercare – F. Battiato

allungo le mani verso quel lui che intanto mi guardava mostrando meraviglia e gioia. Le sue mani sono ruvide ma calde e mi accarezzano il volto con delicatezza chirurgica. Lei mi fa scendere per terra e rimane imbambolata a guardami per un po’ di tempo intanto che io gioco con le bretelle della mia salopette blu. Lui viene verso di me e mi accarezza il capo.“Mami e papi”Due parole che sto toccando in silenzio seduto sulla poltrona del salotto pensando a quanto coraggio e quanta determinazione hanno portato mia madre e mio padre fi no al mio istituto nel freddo di febbraio. Ci penso ogni giorno, quando osservo in questo mondo la forza dell’amore che pian piano, come la neve di febbraio, si scioglie a causa di una rabbia e di un’apatia che scotta agli occhi di chi sa amare e vive d’ amore. In questo mondo ho imparato a sopravvivere e a ripartire da zero imparando poi a vivere. Inconsciamente so di essere un vinto ed un vincitore di una vita che, in quel lancio di moneta, non è stata così veloce e mi ha dato il tempo di seguire il mio istinto e le mie piccole leggi per difendermi da tutto. Ora non mi difendo più da nessuno, anzi ho imparato a difendere, perché forte, chi è più debole. Incontreremo persone che ci cambieranno la vita come una canzone ci cambia la giornata. Incontreremo persone che la vita ce la renderanno diffi cile provando più volte a far ribaltare un carro con delle ruote troppo grandi e robuste per rompersi. Combatteremo per noi stessi ed in ogni incontro, in ogni attimo dove la vita ci farà vedere che è lei a combattere, saremo ancor più forti perché perseverando e aspettando il momento giusto, il nostro istinto ci dirà di camminare a testa alta e di mangiare velocemente del pane caldo con la marmellata, perché qualcosa di inaspettato ci ha fatto sobbalzare il cuore inaspettatamente. La neve è soffi ce e mi piace, solo che dopo un po’ mi bagna la schiena e i brividi di freddo mi immobilizzano i muscoli. Lei mi prende in braccio e mi fa volare come nei miei sogni, dove con il mio animale peloso andavo in giro per il mio mondo a salvare tutti dai cattivi. L’aria è fredda ma ho caldo, il cuore palpita e le mie vene pulsano sangue con incredibile velocità. Mi sdraio sulla neve e loro seguono la mia iniziativa. Siamo in tre. Stesi in silenzio a tenersi per mano e a presentarci con la forza dell’anima. I nostri cuori si incontrano e stringono un patto di pregiata ed indissolubile fattura ed io seguo le presentazioni da fuori, godendomi lo spettacolo più bello della mia esistenza: la realizzazione di un sogno. Perché dopotutto, dopo i supereroi con animali come amici, dopo montagne da scalare che fanno nascere salopette e dopo i viaggi in moto sul davanzale, il mio unico sogno era sentirmi vero e appartenente ad una famiglia, con una lei ed un lui che pensavano solo ad un me, con la stessa mia ossessività.

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risposta: “Lasciami in pace, non sono aff ari tuoi!”. “Vuoi qualcosa per merenda?” “No grazie, sto bene così mamma.”La mamma richiuse la porta mentre usciva, un po’ ferita. Faceva ancora male vedere la sua bambina così cambiata, chiusa a riccio su se stessa. Non sapeva più capirla con uno sguardo, non era più partecipe delle sue avventure, aveva addirittura spesso e volentieri l’impressione di essere considerata una nemica. Nella stanza, la fi glia, ignara, ripescò il libro da sotto i vestiti. Con il movimento vorace di chi vuole saperne di più cercò la pagina giusta. Il conte inglese fi nalmente arrivava, era proprio come Anna, e lei di conseguenza, se l’era immaginato. Bene ecco fatto. Poteva anche chiudere ora. Però… “Cosa cosa cosa?? Lui è davvero fi danzato?? Si sta per sposare?? Ma non scherziamo!! È perfetto per Anna, sta sbagliando tutto! E poi questa chi è? Da dove salta fuori?” Era a dir poco indignata. Ma ormai aveva deciso. Lasciò che il tomo si richiudesse con un tonfo. Anna era sulla prima di copertina. Credette di scorgere un’espressione off esa tra i lineamenti di lei, quasi come se la stesse tradendo, abbandonandola nel momento del bisogno. Girò il libro a testa in giù. Ora Anna era schiacciata contro la scrivania. Cercò le sue pantofole sotto il letto. Rialzò lo sguardo. “E dai Anna, non farmi sentire in colpa…”. Si rese conto che parlava con un libro. Rise tra sé e sé promettendosi di non dirlo a nessuno. Sua sorellina Ginevra entrò in camera. “Vieni a giocare con me?”Spia pagata dalla mamma in caramelle, non riuscì a cogliere la maggiore sul fatto. “Certo Gin, eccomi! Cosa vuoi fare?”La piccola Gin riuscì a farle dimenticare tutto il resto. E ottenne comunque le caramelle. Quella sera, tra le coperte, nel buio della notte, non faceva che tenere gli occhi spalancati sul soffi tto e pensare a quest’altra donna, chi fosse, se sarebbe stata buona o cattiva. Quando, dopo mezz’ora, si accorse di non avere per niente sonno, accese l’abat-jour e prese il libro. Anna sorrideva con un accenno di sicurezza. “Sapevo che l’avresti fatto”. “Ora non montarti la testa, voglio solo sapere chi è la tua avversaria”.Lesse tutta la notte, pagina dopo pagina, cadendo nel vortice delle parole, camminando affi anco ad Anna, piangendo con lei, maledicendo la fi danzata cattiva e guardando da lontano il bel conte. Quando arrivò all’orribile malinteso tra i suoi due beniamini non poté fare a meno di scuotere la testa disperata e arrabbiata con Rupert. E non appena Anna chiarì l’equivoco e lui la prese tra le braccia si alzò e improvvisò una danza di gioia, scatenandosi in quelle chiare cinque del mattino.E sempre nel chiarore dell’alba la mamma vide la luce accesa e sbirciò nella camera della fi glia, vedendola ballare scatenata con un libro, soff ocò una risata e tornò a letto. Quella notte restò impressa nella memoria di entrambe.Si potrebbe pensare che divenne un’accanita lettrice, ma non è la verità. Quel libro l’aveva viziata tanto era coinvolgente, e anche i personaggi, così vividi tra le pagine, erano diffi cili da rincontrare. Ci furono pochi libri importanti abbastanza da avere un numero nella sua vita.A quattordici anni c’è la scuola nuova e le nuove amicizie. Tra queste c’è l’Amica

A otto anni sono i giochi, i cartoni animati e gli album delle fi gurine. Le cose importanti vengono giorno per giorno. Di certo non c’è tempo per guardare le foto delle sconosciute nelle vetrine. Si passa oltre, si corre verso la vita. Anna, dalla vetrina, la guardò sorridendo. A dodici anni è la ribellione, il cambiamento. Si odia la scuola, i compiti in generale e quelli estivi in particolare. Lei perlomeno era convinta che fosse così per tutti. E quella professoressa di italiano, chissà cosa si era messa in testa… Lei non avrebbe letto nessun libro. A quanto pare invece il mondo complottava contro di lei. Sua madre, senza perdere le speranze, aveva comprato quel plico infi nito e glielo aveva messo sotto il naso. Duecentocinquanta pagine, povera illusa. Non lo degnò neanche di uno sguardo. Così incontrò il Libro Numero Uno. E Anna. Quando una settimana dopo riordinò la scrivania si ritrovò a fi ssare la foto in copertina con un senso di dejà vu. Anche Anna la fi ssava, l’aveva riconosciuta. Ci rimase imbambolata per almeno dieci minuti. Quella straniera dal viso bellissimo la tirava a sé, la incoraggiava ad aprire il romanzo e leggere la sua storia. Aveva folti capelli neri, lentiggini chiare su tutto il viso, una bocca morbida, si vedeva perfi no dalla foto, e occhi sorridenti e ammiccanti e seri e invitanti. Si sorprese a pensare: “Mi fi do di te o no?”.Poi decise che una decina di pagine non erano tante e avrebbe potuto interrompere la lettura in qualsiasi momento. La sconosciuta era solo una foto, non poteva obbligarla a fare niente. Nelle prime dieci pagine scoprì che la ragazza si chiamava Anna ed era una giovane contessa russa scampata alla Rivoluzione d’Ottobre e alla Prima Guerra Mondiale. In eff etti erano un po’ descrittive, ma aveva paura di chiudere il libro. Per quanto fosse irrazionale e non volesse ammetterlo con se stessa, era convinta che Anna avrebbe avuto un’espressione terribilmente delusa. Allora decise di proseguire solo per poco. Poco si rivelò altri due capitoli, in cui conobbe il luogo dove Anna avrebbe lavorato in incognito come cameriera e quelli che sarebbero stati i suoi colleghi. E a un certo punto sentì una risata cristallina nella stanza. Alzò lo sguardo di scatto e vide la porta chiusa e la stanza vuota. E capì con un moto di stupore che era stata lei e non se n’era neanche accorta. Questo la fece ridere ancora di più e la sua risata convinse la mamma ad aprire la porta. Si stava preoccupando, non sentiva venire un suono da lì dietro da ormai un’ora. Fulminea, lei spinse il libro sotto una pila di vestiti piegati e si girò a fronteggiare l’intrusione. Non voleva che sua madre pensasse che l’aveva spuntata ed era riuscita fi nalmente a farle leggere qualcosa. Non aveva alcuna intenzione di fi nire davvero quella storia, tra l’altro… Aveva deciso che avrebbe solo aspettato di conoscere Rupert, il padrone del palazzo dove Anna lavorava, e poi avrebbe defi nitivamente chiuso con tutto ciò. Le aveva già fatto perdere troppo tempo. “Va tutto bene?”, domanda vaga, ma lei sapeva benissimo che voleva dire “Perché ridevi così?” “Tutto bene, mamma.”, ma anche la mamma sapeva bene cosa voleva dire quella

ANNA E AGNESE

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Entró in classe sbattendo la porta e la serratura, fulminea, scattò. Il silenzio riempì per qualche secondo la piccola aula, e gli occhi di tutti noi si posarono sull’uomo che si era appena seduto sulla cattedra. Il supplente di fi losofi a si schiarì la voce. “Buongiorno ragazzi.” – “Buongiorno prof.” Stava per dire qualcosa, quando il brusio degli ultimi banchi invase i penultimi, toccò i secondi e sfi orò i primi, sfumando del tutto il nostro interesse per il professore. “Fareste un po’ di silenzio, per favore?” Chiese puntando gli occhi su un mio compagno. Lui lo guardò con una smorfi a, sbuff ò e riprese a ridere con il suo amico. Il professore saltò in piedi, si avvicinò alla lavagna, prese un gessetto e graffi ò la lavagna, il taglio bianco sulla superfi cie nera stridette nelle nostre orecchie. “Bene, ora che ho avuto la vostra attenzione, possiamo iniziare la lezione. Tanto per cominciare, cos’ho appena fatto io?” Ci guardammo perplessi, chiedendoci chi fosse quell’uomo che si divertiva a far scricchiolare la lavagna con un gesso per attirare la nostra attenzione. “Ho creato un suono, un rumore per l’esattezza, per avere silenzio. Il rumore ha appena generato il silenzio. Non vi sembra un po’ strano che il tutto possa generare il nulla, l’essere il non essere? Ebbene, cos’è per voi il silenzio?” Nessuno di noi rispose, il professore aveva probabilmente voglia di scherzare. “Tu, tu che ti divertivi fi no a un attimo fa. Dimmi cos’è il silenzio, se lo sai.” Disse lui a Luca. “Certo che so cos’è il silenzio. Quando non si sente niente e nessuno parla o, che ne so, quando si sta zitti.” – “Sbagliato.” Rispose compiaciuto il professore. “Quando non c’è nessun suono.” – “Ecco, sbagliato. È proprio questo il punto, il suono. Come fa il silenzio ad essere un suono, se il suono lo si sente e il silenzio non lo si può sentire?” – “Sì che si sente il silenzio, se non si sente niente, beh, quello è il silenzio.” Rispose una mia compagna. “Quando davvero puoi dire di aver sentito il più assoluto silenzio?” – “Beh… mi è capitato.” – “Sbagliato, sbagliato!” Rispose muovendosi di scatto il professore. “La verità è questa, nessuno di voi sa cos’è il silenzio.”Saltò nuovamente a sedere sulla cattedra, si inumidì le labbra e riprese il suo discorso. “Dicevo, nessuno di voi può sapere cos’è il silenzio, perché nessuno di voi ha mai avuto a che fare con esso. Nessuno di voi l’ha mai visto, né incontrato per strada, né tanto meno ascoltato. È un’innocua e marcia defi nizione, sputata fuori dall’essere umano tanto per delineare un concetto, ma il silenzio non esiste. Si tratta di fi ato dato alla bocca, tanto per avere la speranza di qualche certezza almeno dal linguaggio, si sa, si danno determinazioni per credere di avere la conoscenza di qualcosa. È qui l’inganno, l’errore: presumere di poter avere la conoscenza di tutto, presumere che l’idea del silenzio corrisponda a qualcosa che esiste, quando il silenzio non può esistere. Credetemi tutto è rumore, tutto!” Ci guardammo incuriositi, il professore iniziava ad essere intrigante. Osservai il suo completo grigio, i suoi occhiali dalla montatura argentata e le scarpe arancioni che stonavano decisamente sul pantalone scuro. Davvero una persona singolare. “Non mi credete, eh? Ma provate a stare zitti, provate a fi ccare sopra la testa un cuscino, a tapparvi le orecchie e continuerete a sentire. Il battito del vostro cuore.

IL PROFESSORE DI FILOSOFIAcon cui condividere tutto, anche il Libro Numero Uno, il primo degno di nota. Ma l’Amica, per quanto speciale, non vide in quel libro la stessa scintilla di magia. A quindici anni c’è il bisogno di capire chi si diventa. Lei cominciò a scrivere un diario, parlava ad Anna di tutto quello che succedeva. Anna dal posto d’onore che le era riservato sorrideva ammiccante.A sedici anni ci sono nuovi gusti e nuovi libri, bisogna fare spazio sulle mensole. Anna però non venne rinnegata, né lei né tutti i suoi amici. Nella nuova collocazione Anna vedeva solo nero, perché nella copertina a fi anco i colori erano molto cupi. E anche nella copertina dopo. E in quella dopo ancora. Il Libro Numero Uno era l’unico colorato dei suoi sedici anni. Riordinando lei lo guardò a lungo e lesse degli stralci. Riconobbe quanto era stato importante per la sua crescita. Decise di aprire il computer e scrivere una e-mail di ringraziamento alla tanto odiata professoressa di italiano. La sorpresa per quella donna fu grande, e si accorse di aver appena ricevuto l’unica ricompensa che un’insegnante, in fondo, brama. A diciotto anni sei grande, sei adulta. Le chiesero a chi volesse assomigliare e lei rispose qualcosa che dimenticò l’istante successivo. Il suo pensiero corse ad Anna. E si rese conto che quella grande amica, che le era sempre sembrata così reale, dal carattere così speciale, e alla quale voleva assomigliare, non sapeva neanche il suo nome. Non aveva mai fi rmato il diario, in quei mesi nei quali ci si era dedicata con tanto fervore. Sorrise al Libro Numero Uno e sussurrò ‘Agnese’. Anna aveva scritto in faccia che aveva capito.

Fiammetta FioriClasse 4^ G – Scuola Secondaria di II Grado G. Ferraris, Torino

Terza Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

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per la stanza, dandoci modo di intervenire, ma tutti noi rimanemmo immobili, muti. Si fermò davanti a Laura, le piantò gli occhi sulla fronte e le domandò “Lei sogna la notte?” Risatine, borbottii. “Eh, si.” – “E sai nel sogno di star sognando?” – “Beh no, ma lo so quando mi sveglio.” – “E quando sei sveglia come sai che non è ancora tutto un sogno?” – “Ma lo vedo, prof, lo vedo benissimo!”Il professore tirò un lungo sospiro, scuotendo la testa, quasi ad allontanare tutte le risposte che avevamo provato a dargli ma che non lo avevano minimamente soddisfatto. “Vedete, é questo il punto. Vi state affi dando ai sensi, a ció che vedete con i vostri occhi. Li aprite, ve li stropicciate, incontrate per sbaglio una qualche forma o immagine e la prendete per vera. Voi siete qui, è vero, come io ero in H ad insegnare qualche anno fa, voi siete qui seduti su sedie di legno, a guardare dei muri pieni di scritte, a sentire il sole che trapassa le tende e scalda i banchi. Voi siete qui e lo date per certo, questo vi basta, ma allo stesso modo quando state in un sogno siete certi che quel sogno sia reale. Così come nel sogno se siete inseguiti, scappate, se siete in ritardo, correte. Nei sogni non avete modo di accorgervi che è tutta un’illusione, non c’è una voce fuori campo che vi grida “ehi, tu, sei un sogno, puoi stare tranquillo, non farai tardi all’appuntamento!”Tutti scoppiamo a ridere, provando simpatia per quell’allegro e stravagante professore dalle scarpe da ginnastica arancioni. Eravamo talmente coinvolti dal suo discorso e talmente desiderosi di dove ci avrebbe portati il fi lo delle sue parole, da aver creato tra di noi il silenzio, quello vero, quello che il professore dava per inesistente. “Ragazzi miei, ipotizzate questo: se per caso, per noia, la realtà, questa scatoletta in movimento dove siete sballottolati dalla mattina alla sera fosse un’illusione? Cartesio, fondatore del razionalismo, ce lo disse. Proprio così. E sapete cosa fece? Non si diede una risposta, cambiò discorso. Ma io, oggi, voglio riprendere il suo discorso, aggrapparmi alle radici e far fi orire quei suoi stessi dubbi. Dubbi, sì, dubbi, sono queste le fondamenta della conoscenza. Provate a dubitare per un attimo dei vostri stessi sensi, dei colori che pure vedete, dei suoni che pur sentite, della vostra stessa mano che pur aff erra la matita, perché nessuno vi assicura che non vi stiate per svegliare tra cinque minuti e scoprire che era tutto fi nto. Magari una visione ingannevole progettata da qualcuno, con tanto di colonna sonora, sottotitoli, desideri e paure. Un bel sogno, non c’è che dire, potrebbe esserlo.” – “Prof, mi scusi, ma io continuo a non crederle. Io nella realtà so che non sto sognando.” Rispose Laura grattandosi una guancia. “No, mi dispiace, ma tu non puoi saperlo. Tu pensi di saperlo. Lo immagini e basta. Ma ciò che immagini non puoi essere sicuro che esista. Questa corrispondenza, vedi, tra le due linee, ontologia e pensiero, è frammentata, velenosa, instabile. Tu puoi solo credere che tutto questo, questa vita e queste stagioni, questi giorni e questo momento, non siano una favola, ma puoi davvero essere sicuro che ci sia solo una verità, che la vita sia questa e basta? Che non ci sia un’altra via, un qualcos’altro da qualche altra parte che inverte il sogno con la vita, dove la luce è il buio e il buio la luce, dove la linea del tempo fa avanti e indietro a suo piacimento? Qualcosa che a noi essere umani è impedito sapere, forse. Davvero ritenete, ragazzi, che sia tutto qui? Siamo atomi riciclati noi, alla fi n fi ne, siamo nati da polvere di stelle e dall’evoluzione di cellule incredibilmente microscopiche, siamo fratture scomposte e nozioni, siamo sentimenti! Siamo tutto, siamo tantissimo e siamo meravigliosi, ma allo stesso

Gli spiff eri dell’aria. Gli atomi che si scontrano e cadono, si capovolgono, si attaccano, rotolano e bum. Fanno un rumore. I capelli che svolazzano, le ciglia che sbattono, una mano che accarezza l’altra. Rumore, gente, rumore. Tutto è rumore, tutto è suono, non silenzio. Il silenzio non esiste. E non si può defi nire ciò che non esiste, perché il non essere, di fatto, non è e non può essere, come dice Parmenide. Ebbene il silenzio, il silenzio, il silenzio...” Ripete volteggiando la mano nell’aria come un conduttore d’orchestra. “Ma scusi prof, e il silenzio imbarazzante che si crea tra due che parlano, il silenzio che si crea quando hanno fi nito le parole?” Chiesi io. “E la voce nervosa che nella tua mente cerca in ogni angolo qualcosa da dire? Non fa forse quella un rumore terribile? Non lo senti forte e chiaro il ‘Oddio, non so davvero più che cosa dirgli, cosa faccio’?” Mi rispose sorridendo.Già. Non bisogna discutere con i professori di fi losofi a, in qualche modo arriveranno a dimostrarti che hanno ragione, che sei nel torto, ma che i tuoi errori potrebbero addirittura essere giusti, se lui volesse. Giulio colse l’occasione al volo, diede una gomitata al suo compagno di banco e mormorò lui “Guarda come lo stendo.”“Prof, ma quindi possiamo parlare se non esiste il silenzio?” Chiese sfacciatamente. Il professore sorrise e si passò una mano sulla barba sottile. “Di cosa vorresti parlare, dimmi pure, sono pronto ad accogliere qualsiasi argomento.” Il mio compagno rimase sbigottito e i baffi del professore sorrisero, aspettando una risposta.Chiara si girò verso di me e coprendosi la bocca con la mano mi sussurrò “Questo è completamente andato. Era il professore di storia e fi losofi a di mia sorella, lei mi ha raccontato che un giorno ha basato la lezione interamente sul colore bianco, un’altra si è divertito ad associare equazioni alle parole e un’altra volta è letteralmente impazzito. Ha iniziato a capovolgere tutti i mobili della stanza, tutto, dalle sedie al computer, all’appendiabiti. Ha chiesto ai ragazzi di descrivere cosa vedevano, solo per insegnargli che le cose potevano essere completamente diverse guardate da un’altra prospettiva e che era giusto avere sempre una visione globale del mondo.” – “Lei! Signorina che parla! Ci dica, di cosa parla con la sua compagna? Il nome, prego.” – “Ehm, Chiara.” – “Chiara, illuminaci, di cosa trattavi?” – “Stavo solo dicendo…sì…che forse una volta l’ho vista in classe di mia sorella…insegnava in H qualche anno fa?” – “Lei è sicura di aver visto me?” Chiese il professore, ignorando la sua domanda e, subito dopo, ignorando anche una possibile risposta da parte di Chiara, riprese a parlare.“Ah...la vista ragazza, la vista. E il tatto, il mondo sensibile, la vita che vi sfreccia davanti e voi zac! La cogliete. Zac! Un professore: lo osservate in tutto il suo grottesco aspetto mentre fa, magari, una noiosa lezione sulla fi losofi a scolastica e lo vedete lì, con i vostri occhi, sì! Siete certi che sia lì, con la sua voce sonnolenta e il suo viso impenetrabile, ma vi siete mai chiesti se davvero esiste, se davvero voi lo vedete così com’è?” Ci guardammo assenti, rasentavamo la follia con la punta dello sguardo. Il professore riprese a camminare per la stanza, si levò la giacca, la lanciò in aria e la aff errò al volo. “Ecco! Anche questo movimento, l’avete visto tutti no? Ed è già un ricordo. E cos’è un ricordo, qualcosa che avete o che non avete più? Che vivete o che non rivivrete mai più? Perché forse, già la seconda volta che ricordate, quella memoria è più lieve, sabbiosa e più sdrucciolevole.” Cominciò a camminare

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C’ERA UNA SVOLTA

Cado nel vuoto. Un boato di silenzio invade il mio cervello.Spalanco gli occhi impietrito. Se non fosse per la goccia di sudore che mi scosta il ciuff o cadendo e per il rumore della fi nestra quasi soff erente nel respingere il vento impetuoso, direi che sono morto e rinvenuto in una qualche dimensione iperuranica. Confuso e barcollante, faccio per alzarmi. Avrei preferito la versione in cui mia sorella si strugge per infastidirmi e Gianluca mi fi ssa con fare insolito e nervoso.Invece no. Era un sogno, e questa è la realtà. Ma paradossalmente, nonostante fossero irreali, le presenze assillanti di mia madre e di mia sorella, la routine monotona del bagno e la passeggiata glaciale fi no alla fermata, quindi fi no all’insensata conversazione mattutina con Gianluca, mi erano molto più familiari di quanto lo è tutto questo. La casa è vuota, così come lo sono io. 24 ore fa ero io, ero vivo. Ora, invece, lotto con me stesso per far tornare il battito del cuore e la contrazione dei polmoni azioni involontarie. Gli incubi della notte passata e il fl usso di scene della sera precedente hanno creato un miscuglio perfetto, di cui l’omogeneità è rotta solo da bolle d’aria, vuoti di memoria. Devo capire. Carta e penna alla mano.

Ore 16:30 - Finisco di lavorare e ripenso a tutti gli impegni dei giorni passati e futuri, alla diffi coltà della situazione economica, alla mancanza di persone signifi cative accanto a me, alla mia attuale ostilità verso la scuola e verso tutti, allo sgretolarsi quotidiano della mia famiglia e a quanto in realtà, a diff erenza di cosa voglio autodimostrarmi, sto male. L’idea di altri dieci minuti in questo mondo mi consuma.

Ore 17:00 - Ennesima lite con mia madre. Mi vuole fuori casa entro domattina. Mia sorella è un’ipocrita ingenua, non riesce a dirle la verità, forse non l’ha capita neanche lei, tanto è presa dalla sua malattia. Ma mia madre sì, lei sa ma non vuole ammetterlo. Le rinfaccio le soff erenze causatemi negli scorsi diciotto anni dalla sua instabilità mentale, le impongo di cambiare psicofarmaci sottolineando brutalmente quanto si sia meritata l’abbandono di mio padre e di tutti i suoi cari e, con l’odio nel cuore e l’adrenalina nelle vene, prendo la giacca e le sbatto la porta in faccia. Facendomi trasportare dal mio inconscio, mentre raff reddo la rabbia nata da tutta la negatività di questa giornata, o meglio di questa vita, riconosco nel buio del tardo pomeriggio di febbraio le siepi della mia scuola.

Ore 18:00 - Gianluca è seduto su un lato dell’ultima fi la di sedie nell’atrio con gli altri membri del consiglio d’istituto e i vari rappresentanti. Osservo questa situazione e tutti coloro che ne fanno parte e mi disgusto di quanto sono convenzionalmente e falsamente calmi. Vorrei urlare. Mi fermo ad ascoltare per qualche minuto le inutili lamentele burocratiche sull’organizzazione delle ore scolastiche e poi, preso da un istinto innato, vado in bagno. La scuola di sera è

tempo siamo niente, siamo cenere. Sappiamo quasi nulla dell’universo e nulla di noi stessi, non può essere tutto qui! Non possiamo ritenere che sia univoca la direzione in cui andare, avere la certezza che l’equilibrio che ci fa stare in piedi non cessi improvvisamente. È Kant, Kant che grida e ci dice che noi non sappiamo nulla, che ci è preclusa la conoscenza assoluta. Noi conosciamo le idee, i simulacri delle cose che si creano nella nostra mente, ci infl uenzano e ci fanno credere di essere reali, che il cielo sia uno e sia azzurro e che la terra sia marrone e sia friabile, ma se non fosse proprio così? Perché badate bene, il mondo è un posto strano e la vita è piena zeppa di controsensi, per esempio l’assenza. Il sentimento dell’assenza di una persona, il vuoto di qualcosa che se ne va e lascia un buco di nostalgia e quel buco, quel qualcosa, è dolore. E il dolore morale si sente ed è atroce, altro che mal di denti. E quelli sono sentimenti, sono assurdi, sono impalpabili ed esistono solo dentro di noi, eppure anche se non hanno una vera e propria forma, feriscono. Così come il peso delle parole, che dentro di noi tirano giù macigni e fi niscono sullo stomaco, così come le lacrime che pungono le guance ed ogni singhiozzo è un tuono dentro la gola. Non ritenete tutto ciò straordinario? Che tutto questo possa esistere e potrebbe non esistere, essere solo un sogno? Io sì, e sapete cos’altro vi dico? Se è un sogno, la vita, questa vita, vi prego non svegliatemi.”La campanella suonò dopo qualche minuto, gli sguardi di tutti noi erano rimasti appesi alle labbra di quel professore di fi losofi a, ma lui aveva terminato la sua lezione. Doveva andarsene in un’altra classe, accumulare i suoi fogli e riprendere i suoi libri, doveva imboccare la porta e scendere le scale, scomparire in mezzo a tutti quelli che camminavano nei corridoi. Noi invece dovevamo rimanere lì, su quelle sedie, per ancora qualche ora. Guardavamo storditi e con occhi diversi tutto ciò che i suoi discorsi avevano illuminato, a goderci le tremule onde portate dal fi ume travolgente del suo pensiero.

Sara BoccassiClasse 2^ G – Scuola Secondaria di II Grado Giulio Cesare, Roma

Quarta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

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Angela GuarnieriScuola Secondaria di II Grado Corradino D’Ascanio, Montesilvano PE

Quinta Classifi cata ~ Scuola Secondaria Superiore

Ed eccoci qui. Non andrò a scuola oggi, mi limiterò a fi ssare il nulla o a riempire il tempo con attività che mi distraggono dall’oblio. Non voglio morire. Non voglio vivere. Per ora, voglio solo fl uttuare nell’infi nità della mia esistenza.

Angitch 1423

strana, è vuota, è buia; forse è per questo che fra i tanti posti mi trovo qui.

Ore 20:00 - A causa di un sussulto apro gli occhi. Dove sono? A scuola. Che ore sono? Batteria scarica. Le 20:02. Tre chiamate perse da Gianluca e una da mia sorella. Perso nella mia ansia crescente esco dal bagno cercando l’uscita. Non la trovo. È maledettamente buio e ogni mio passo rimbomba nell’intercapedine di ogni superfi cie. Sto per svenire di nuovo e per assurdo ripenso al Dante e ai suoi mancamenti tra un canto ed un altro. Sorrido, sto impazzendo? Forse ho solo bisogno di fermarmi a pensare. Qui davanti c’è una farmacia, da cui entrano ed escono continuamente madri e padri, presi dalle loro preoccupazioni da genitori; poco più avanti c’è una pizzeria colma di ragazzi, presi da risate e discorsi sconclusionati su cose a caso; al di sopra mi sembra ci sia uno studio di un noto commercialista o avvocato, o forse dentista, e provo ad immaginarmi tra dieci anni, sperando di non diventare mai così adulto da entrare in quell’uffi cio maleodorante. Continuo con la perlustrazione mentale di tutto il quartiere per un tempo indefi nito fi nché non realizzo che per quanto io stia soff rendo lì da solo nell’angolo più desolato del corridoio più buio di una scuola qualsiasi, il mondo va avanti ignorandomi.

Ore 21:47 - Il telefono vibra e si spegne. Scoppio in un pianto trattenuto, quello da dolore alle tempie e da nodo alla gola, che pian piano diventa sempre più rumoroso. Intollerante dei miei stessi singhiozzi, improvvisamente l’odio per il mondo si traduce in odio per me stesso. Lo spessore del vetro delle fi nestre permette di rifl ettermi. Sono orribile. Rappresento fi sicamente e moralmente tutto ciò che rifi uto. Piango e non respiro. Chissà dov’è mio padre, o mia madre o il mio migliore amico. Chissà se qualcuno nel mondo mi sta pensando. Chissà se esisto davvero.

Ore 22:00 - Soff oco. Ho bisogno di aria. Concentro tutta la forza del mio corpo per spingermi, alzarmi e dirigermi verso un uscita. Le porte sono serrate, stesso per le fi nestre. All’ultimo piano c’è un balcone che dà sul retro della scuola, mi aff retto a raggiungerlo. Insisto, apro ed esco. Aria. Aria fredda e corporea, quasi tangibile, potente e vitale. Mi sento fl uttuare nell’aria, nel nulla. D’un tratto, trascinato dalla forza dell’esistenza, non sento più contatto con la vita terrena.Inizialmente credo di averla persa, poi eccola qui, la sento tutta. La gravità. Precipito.

Ore 01:00 - Voci indefi nite e colori fuori fuoco. Sono vivo? Gianluca spiega l’accaduto a mia madre tramite telefono, mi sembra di distinguere i volti di alcuni compagni di classe e professori, sento la preside discutere con dei dottori, credo.Metabolizzo la situazione, devo intervenire. Dopo un tempo infi nito riesco a fi rmare le pratiche di dimissione e mi faccio accompagnare a casa. Congedo Gianluca, senza concedergli alcuna possibilità di proferir parola, ed, entrando in casa, leggo il bigliettino d’addio di mia madre lasciatomi nel cestello vuoto della frutta, davanti all’ingresso. Non capisco. Sono confuso, stanco e stremato.

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In copertina:Mario Pozzoni – Dalle Tenerbre alla Luce1998 tecnica mista su carta

www.concorsolonghi.itwww.comune.romano.bg.it

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