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Università degli Studi di Bergamo
Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2014-2015
Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B
a cura di Evelina Scaglia
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Sommario
JOHN DEWEY (1859-1952) .................................................................................................................................5
ROSA AGAZZI (1866-1951) ................................................................................................................................9
MARIA MONTESSORI (1870-1952) ................................................................................................................ 13
GIOVANNI GENTILE (1875-1944)................................................................................................................... 15
GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938) ............................................................................................ 16
ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960) ................................................................................................................ 22
MARIA BOSCHETTI ALBERTI (1879-1951) .................................................................................................. 27
CÉLESTIN FREINET (1896-1966)................................................................................................................... 30
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JOHN DEWEY (1859-1952)
J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Id., Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti
sull’educazione, [1897], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 3-31.
Articolo I- Cos’è l’educazione, pp. 3-9
«Io credo che
- ogni educazione deriva dalla partecipazione dell‟individuo alla coscienza sociale della specie. Questo
processo s‟inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà
dell‟individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i
suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l‟individuo giunge
gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l‟umanità è riuscita ad accumulare. Egli
diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. L‟educazione più formale e tecnica che esista al
mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o
trasformarlo in qualche direzione particolare.
- La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle
esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come
membro di un‟unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso
dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue
attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il
valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all‟istintivo balbettare del fanciullo
questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato
e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e
consolidate nel linguaggio.
- Il processo educativo ha due aspetti, l‟uno psicologico e l‟altro sociologico, e che nessuno dei due può
venire subordinato all‟altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti
quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e
danno l‟avvio a tutta l‟educazione. Se gli sforzi dell‟educatore non si riallacciano a qualche attività che
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il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall‟educatore stesso, l‟educazione si
riduce a una pressione dall‟esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veracemente
chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell‟individuo il
processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll‟attività del
fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di
arresto della natura del fanciullo.
- La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere
interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne
ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere
capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l‟eredità di precedenti attività della specie.
Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro
fine. Riferendoci all‟esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la
promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto
conto quell‟istinto.
- L‟aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l‟educazione non
può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell‟uno
sull‟altro. Si afferma che la definizione psicologica dell‟educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto
l‟idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D‟altra
parte si insiste che la definizione sociale dell‟educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un
processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell‟individuo a una situazione sociale e
politica presupposta.
- Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato
dall‟altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l‟impiego o la
funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l‟individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma
d‟altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è
quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll‟avvento della democrazia e
delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà da qui a
venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla
vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a
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conseguire l‟impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua
mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare
le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire
economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto
di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell‟individuo, cioè se l‟educazione non è
costantemente convertita in termini psicologici.
Riassumendo, io credo che l‟individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è
un‟unione organica di individui. Se eliminiamo il fatto sociale dal fanciullo si resta solo con
un‟astrazione; se eliminiamo il fatto individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza
vita. Perciò l‟educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo,
dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a
queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente
interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro
equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale».
J. Dewey, Democrazia e educazione, [1916], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2000.
Cap. XXIII, L’educazione professionale, pp. 393-395
1. Il significato di professione
«Attualmente il conflitto delle teorie filosofiche è concentrato sulla discussione circa il posto e la
funzione che hanno i fattori professionali nell‟educazione. L‟affermazione nuda e cruda che le
differenze significative nelle concezioni filosofiche fondamentali hanno in questo argomento il loro
punto focale può risvegliare l‟incredulità; sembra che vi sia una separazione troppo grande fra i termini
astratti e generali in cui sono formulate le idee filosofiche, e i dettagli pratici e concreti dell‟educazione
professionale. Ma un esame mentale dei presupposti intellettuali che stanno alla base dell‟opposizione
nel campo educativo fra lavoro e svago, fra la teoria e la pratica, fra il corpo e la mente, mostrerà che
essi culminano nell‟antitesi fra l‟educazione professionale e la culturale. Tradizionalmente, la cultura
liberale è stata congiunta con le idee di otium, di conoscenza puramente contemplativa, e di un‟attività
spirituale che non implicava l‟uso attivo degli organi del corpo. La cultura ha anche teso, ultimamente,
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ad essere associata a un raffinamento puramente privato, la coltivazione di certi stati ed atteggiamenti
di coscienza, separati tanto dall‟interesse che dalla funzione sociale. È stata un‟evasione dal primo e un
conforto all‟ineluttabilità del secondo.
Questi dualismi filosofici sono così profondamente intrecciati con tutto l‟argomento dell‟educazione
professionale, che si rende necessario definire il significato di professione in modo abbastanza
completo da poter evitare l‟impressione che un‟educazione che si concentri su di essa sia ristrettamente
pratica, se non puramente pecuniaria. Professione non significa altro che direzione delle attività della
vita in un senso che le renda percepibilmente significative per chi le pratica in virtù delle loro
conseguenze, ed anche utili ai suoi associati. Il contrario di attività professionale non è né l‟ozio né la
cultura, ma la mancanza di scopo, il capriccio, l‟assenza di acquisizioni cumulative nell‟esperienza, dal
lato personale, e, dal lato sociale, il lusso vano, la dipendenza parassitaria dagli altri. Occupazione è un
termine concreto per continuità. Include tanto lo sviluppo della capacità artistica di ogni genere,
dell‟abilità scientifica specializzata, dell‟interesse politico attivo, quanto le professioni e gli affari, per
non parlare del lavoro meccanico o delle occupazioni lucrative.
Dobbiamo evitare non solo che per occupazione s‟intenda qualcosa di limitato alle occupazioni che
producono cose utili immediatamente tangibili, ma occorre evitare anche l‟idea che le professioni siano
distribuite in modo esclusivo, di guisa che una persona non possa averne che una sola. Uno specialismo
così ristretto è impossibile; niente potrebbe essere più assurdo che cercare di educare gli individui ad un
unico genere di attività. In primo luogo, ogni individuo ha necessariamente una varietà di aspirazioni
cui può dare opera intelligente; e in secondo luogo qualsiasi occupazione perde il suo valore e diventa
una routine che asservisce a una data cosa, nella misura in cui è isolata dagli altri interessi.
1) Nessuno è solamente artista e niente altro, e quanto più uno si avvicina a questa condizione, tanto
più lo fa a detrimento della sua umanità; è una specie di mostro. In qualche periodo della sua vita egli
deve essere membro di una famiglia, deve avere amici e compagni; deve essere o finanziariamente
indipendente o dipendente da altri, e perciò occuparsi di affari. Egli è membro di qualche unità politica
organizzata, e così via. Naturalmente noi lo qualifichiamo professionalmente in base a quella delle sue
occupazioni che lo distingue, piuttosto che in base a quelle che ha in comune con tutti gli altri. Ma non
dovremmo lasciarci talmente legare dalle parole, da ignorare e virtualmente negare le altre sue
occupazioni, quando si tratta di considerare gli aspetti professionali dell‟educazione.
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2) Come l‟attività di un artista professionista rappresenta il momento specialistico di una gamma di
attività professionali, così la validità della sua arte sul piano umano è determinata dalla sua connessione
con altri interessi. Uno deve avere esperienze, deve vivere, se la sua arte deve essere qualcosa di più di
un risultato tecnico. Egli non può trovare l‟argomento della sua attività artistica nella sua arte; questa
deve essere un‟espressione di quel che egli soffre e gode in altre relazioni, e questo dipende a sua volta
dalla prontezza e dalla vivezza dei suoi interessi. Ciò che è vero per un artista è vero anche per
qualsiasi altra forma speciale di attività. Senza dubbio ogni professione distintiva tende (conforme alla
legge dell‟abitudine) a divenire troppo predominante, troppo esclusiva e troppo assorbente nel suo
aspetto specializzato. Il che significa che viene accentuata specialmente la prassi, l‟aspetto tecnico, a
scapito del significato. Perciò compito dell‟educazione non è già di incoraggiare questa tendenza, ma
piuttosto di mettere in guardia contro di essa, di modo che ricercatore scientifico non sia semplicemente
lo scienziato, maestro semplicemente il pedagogo, sacerdote chi indossa la tonaca e così via».
ROSA AGAZZI (1866-1951)
R. Agazzi, Guida per le educatrici dell'infanzia (dalla rivista "Pro Infantia", annata 1929-1930),
[1932], II ristampa, La Scuola, Brescia 1959.
L'assistenza dei maggiori ai minori, pp. 42-43
«Quando noi mettiamo un bambino di cinque anni nella condizione di osservare un altro bambino
inferiore a lui per età e per intelligenza, e gli diciamo: vedi, egli qui in alto non può arrivare, perché è
basso di statura; vuoi tu aiutarlo? Egli non sa quello che tu sai; vuoi insegnargli qualche bella cosa?
Egli è debole e tu sei forte; vuoi tu proteggerlo?
Quando noi facciamo questo, applichiamo un principio della morale cristiana - l'amore per il prossimo -
mettiamo cioè le basi del sentimento della fratellanza. Chi non vede tutta la bellezza spirituale che in sé
racchiude l'incontro di due minuscole esistenze, di cui una prova l'impressione della propria pochezza,
l'altra la gioia nell'intuire che, avendo già superato quello stato di debolezza, si sente in grado di
insegnare ad altri a superarlo? Il maggiore dei due guidato dall'educatrice a ricordare il cammino
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percorso. "E' vero", pensa: "Io pure un giorno ero piccolo di corpo e di mente, io pure ebbi chi mi aiutò
a intendere; poi appresi a fare da me solo; ora posso anche insegnare a chi non sa".
Ecco che il bambino si accorge di percorrere una via che lo conduce verso un progressivo
miglioramento della propria individualità; ogni giorno che passa egli vede dietro di sé un altro se stesso
in proporzioni ridotte. Questo fatto può risolversi per l'educando in salutare compiacimento, quando
l'educatrice sappia farlo rivivere nei rapporti di benevolenza fra il maggiore e il suo pupillo.
"Vedi? Questo lavoro che tu hai fatto, ieri non lo sapevi fare; ma oggi la tua mano, un poco meno
ignorante di ieri, ha imparato a muoversi con destrezza; gli occhi, più attenti, hanno veduto meglio; e
sei stato tu a comandare alla mano e agli occhi di essere un po‟ più bravini, perché oggi anche tu hai un
pò più di giudizio di ieri... Il tuo piccolo nel vedere questo lavoretto penserà: 'Oh, guarda, il mio grande
cosa sa fare!... Lui sì, io no!...'.
Si inizia, per tal modo, la virtù della longanimità.
Come avviene di ogni esercizio che più si ripete e più lascia traccia di sé, la frequente vicinanza del
maggiore al minore alimenta in ambedue il vincolo di una fraterna simpatia. Nulla di più bello del
vedere i bambini di tre anni intenti ad ammirare, nelle pose più varie, i loro tutori in faccende a
preparare un giocattolo proprio per loro uso. Guardano in silenzio, compresi delle azioni che vedon
succedersi nella fabbricazione del modesto oggetto, compresi anzitutto della bravura di chi lo compie.
Nulla di più grazioso di un maggiore che insegna al piccolo a innaffiare, senza bagnarsi, una
pianticella; a sollevarlo, perché possa con più agio osservare un disegno sulla lavagna; a rimboccargli
le maniche prima della lavatura; a insegnargli a pronunciare il nome di un fiore, ad allacciargli il
bavaglino, a spezzargli il pane; a vestirlo, a condurlo in guardaroba a riporre cose con ordine; a
segnargli il tempo mentre gli insegna un passo ritmico.
L'educatrice, anziché cercare di ridurre le occasioni di codesti avvicinamenti, dovrebbe proporsi di
moltiplicarle: ridurle, significa rinunciare a innumerevoli occasioni di aiutare la sensibilità affettiva de'
suoi alunni, mentre è specialmente dallo svolgersi di questa convivenza che ella dovrebbe far scaturire
il programma di una morale in azione. Con fine accorgimento ella porterebbe alla ribalta, senza darsi
l'aria di colpire, difetti e pregi della sua coorte, guidata sempre dall'intento di sottrarre i piccoli cuori
alle scorie dell'istinto, per renderli atti a intendere la gioia che ogni anima nobile prova volendo bene e
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giovando al proprio simile».
Ordine, libertà e intraprendenza negli esercizi di vita pratica. (Ricordando l'asilo di Mompiano), pp.
265-268
«Quell'insigne educatore e didatta che era il Prof. Pietro Pasquali (di cui fortunatamente potei essere
discepola), lasciò scritto: "Tutti siamo convinti che l'ordine materiale influisce potentemente sull'ordine
morale, perché agisce direttamente sulla intelligenza, sull'igiene, sui costumi, sulla condotta, sul
carattere. Il disordine è causa di deplorevoli conseguenze; la vita disordinata sparge intorno miserie,
guai, dolori. Lo sappiamo tutti, ma non tutti sappiamo quali mezzi si devono mettere in opera.
Partiamo da un principio pedagogico: per far acquistare delle abitudini all'educando, bisogna farlo
agire: per farlo agire, occorrono cose e condizioni favorevoli. Questa è norma di scuola nuova, in
sostituzione del vecchio sistema, tutto precetti e massime.
L'esercizio dell'ordine è possibile solo dove persone, cose e azioni rendono probabile il disordine.
"Quali cose dobbiamo porre intorno al bambino della scuola materna per educarlo al senso dell'ordine?
Naturalmente le cose che gli occorrono nella vita domestica, poi nella vita collettiva; sono le cose che
rispondono ai suoi bisogni; egli ha bisogno di tenersi pulito, di nutrirsi, d'imparare a vestirsi e
spogliarsi, di giocare e lavorare; ha bisogno d'apprendere il rispetto alla roba altrui; ed ecco la necessità
d'un corredo abbondante di indumenti, d'un materiale ad uso di pulizia ed arredi da refettorio, e
giocattoli e strumenti da lavoro. Quante saranno le cose? Fatene voi l'inventario, dividendole in due
categorie: cose permanenti, di cui si rende necessaria l'opera di manutenzione; e cose di consumo, che
richiedono la continua rinnovazione. Avute le cose, bisogna fissare a ciascuna il suo posto: ed ecco gli
esercizi d'ordine: uso, manutenzione, movimento, collocamento, e via"1.
Provveduto un numero considerevole di cose attinenti alla vita, stabilito nell'ambiente un ordine
inappuntabile, organizzate le azioni dei bambini a base rigorosamente logica e naturale, viene bandito
ogni convenzionalismo per far posto alla libertà di parola e d'azione, condizione indispensabile per
1 Cfr. P. Pasquali, Il nuovo spirito dell'Asilo, ed. Vallardi, La Voce delle maestre d‟asilo Unione Tipografica, Milano 1910.
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mettere il bambino in rapporto diretto coll'educatrice e manifestarle tutto l'essere suo.
In un ambiente educativo dove il moto è libero e la libertà è diretta dalla responsabilità personale,
l'intelligenza ha parte attivissima. Osservazioni di mezzo e di fine, di causa e di effetto, di principio e di
conseguenza, confronti, impulsi d'iniziativa nascono ad ogni momento, promuovendo nei bambini
l'azione, la riflessione, il linguaggio.
Nell'opera citata, il Prof. Pasquali dice ancora: "Si nota, ed è naturale, che i bambini sono
intraprendenti dove maggiore è la libertà che loro concede di sperimentare l'uso delle cose. Per
esempio, chi è bene esercitato ad empire, vuotare e trasportare vasche, è pure addestrato a maneggiare
tali recipienti in modo da non versare l'acqua sui piedi; e dove sarà necessario l'aiuto di forza e
destrezza, sarà quello stesso il primo ad accorrere; chi è solito tuffare e sciacquare catinelle, ha
imparato l'arte di tuffarle meglio e presto, felice quando in tale faccenda occorrerà la prontezza
dell'opera sua. Anche nei piccoli atti il bimbo dà a scorgere le acquistate abilità; a veder con quale
accorgimento le sue manine si prestano a staccar fiori col gambo lungo, a non pungersi dove ci sono
spine, a non rovinare bottoncini, a entrare fra i cespi con grazia, si dice subito: questo bimbo è stato
esercitato, ha imparato ed è solito coglier fiori, anche da solo.
Le prime lezioni d'iniziativa e d'intraprendenza, a base di abilità, non sono pane per tutti i denti e non
s'imparano sui libri; bisogna che l'educatrice faccia a proposito uno studio speciale".
Tra gli esercizi di vita pratica che maggiormente rispondono ai suesposti concetti, hanno il primato le
lavature con arredi di mobili e la preparazione delle mense. E' veramente meraviglioso questo andare e
venire disciplinato e gaio di bambini che stanno preparando un refettorio per il pranzo e una sala per le
lavature.
Io credo che il più apatico degli individui dovrebbe sentirsi scosso davanti a quel succedersi di azioni
dove l'intelligenza, la spontaneità, la grazia, il buon senso si danno la mano nell'addestrare una società
infantile e conciliare la libertà coll'ordine.
Una educatrice che sa raggiungere questa finalità non può che avere ben chiaro il concetto della propria
missione, e se il profano che vede non è in grado di capire quanto ognuna di quelle azioni che il
bambino compie sia il risultato di intelligente ricerca e di pazienti prove da parte dell'educatrice, chi
non ignora l'arte di educare dovrebbe nonché approvare, gustare e ammirare. Talvolta invece è
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accaduto che questo miracolo dell'educazione venisse da presunti educatori accolto col sorriso dello
scherno. Ma oggi chi non sa quale importanza hanno assunto nella scuola materna gli esercizi di vita
pratica? [...]».
MARIA MONTESSORI (1870-1952)
M. Montessori, L’autoeducazione nelle scuole elementari, [1916], Garzanti, Milano 1950.
[Il fenomeno della polarizzazione dell’attenzione è uno degli aspetti costanti dei fatti per la formazione
interiore], pp. 61-63
«Il mio lavoro sperimentale sui piccoli bambini da tre a sei anni è stato appunto un contributo pratico
alla ricerca delle cure di cui ha bisogno l‟anima del bambino: cure analoghe a quelle che l‟igiene trovò
per il suo corpo.
Credo però necessario di far rilevare il fatto fondamentale che mi condusse a determinare questo
metodo.
Io stavo facendo le mie prime prove nell‟applicare i principî e parte del materiale che mi erano serviti
molti anni prima all‟educazione dei bambini deficienti, sopra i piccoli bambini normali di S. Lorenzo,
quando mi accadde di osservare una bambina di circa tre anni, che rimaneva profondamente assorta
sopra un incastro solido, sfilando e infilando i cilindretti di legno nei loro posti rispettivi. L‟espressione
della bambina era di una sì intensa attenzione che mi sembrò quella una manifestazione straordinaria: i
bambini fino allora non avevano mai mostrato una tale fissità sopra un oggetto: e la mia convinzione
sulla instabilità caratteristica dell‟attenzione nel piccolo bambino, che passa senza posa da cosa a cosa,
mi rendeva ancor più sensibile al fenomeno.
Io osservai intensamente la piccina senza disturbarla in principio e cominciai a contare quante volte
ripeteva l‟esercizio: ma poi, vedendo che continuava molto a lungo, presi la poltroncina su cui era
seduta, e posi poltroncina e bambina sulla tavola; la piccolina raccolse in fretta il suo incastro, poi lo
posò attraverso i braccioli della poltroncina, e mettendosi in grembo i cilindretti, continuò il suo lavoro.
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Allora invitai tutti i bambini a cantare: essi cantarono, ma la bambina continuò imperturbata a ripetere
il suo esercizio anche dopo che il breve canto fu cessato. Io avevo contato quarantaquattro esercizi; e
quando finalmente cessò, cessò in modo affatto indipendente dagli stimoli dell‟ambiente che potevano
disturbarla: e la bambina si guardò intorno soddisfatta, quasi svegliandosi da un sonno riposante.
La mia impressione indimenticabile credo che somigliasse a quella provata da chi ha fatto una scoperta.
Quel fenomeno divenne poi comune nei bambini: esso poté dunque essere stabilito come una reazione
costante che si presenta in rapporto a certe condizioni esterne, le quali possono determinarsi. E ogni
volta che avveniva una simile polarizzazione dell‟attenzione, cominciava il bambino a trasformarsi
completamente, a farsi più calmo, quasi più intelligente e più espansivo: egli mostrava qualità interiori
straordinarie, che ricordavano i fenomeni di coscienza più alti, come quelli della conversione.
Sembrava come se, in una soluzione satura, si fosse formato un punto di cristallizzazione, intorno al
quale poi tutta la massa caotica e fluttuante andava a riunirsi in un cristallo di forma meravigliosa.
Analogamente, avvenuto il fenomeno di polarizzazione dell‟attenzione, tutto quanto di disordinato e
fluttuante esisteva nella coscienza del bambino, sembrava andasse organizzandosi in una creazione
interiore, i cui caratteri sorprendenti si riproducevano in ogni individuo.
Ciò faceva pensare alla vita dell’uomo che può restare dispersa tra cosa e cosa, in uno stato inferiore di
caos, fin che una cosa speciale intensamente l‟attrae, la fissa, e allora l‟uomo ha la rivelazione di se
stesso, sente di cominciare a vivere.
Questo fenomeno spirituale che può coinvolgere tutta la coscienza dell‟adulto, non è dunque uno degli
aspetti costanti dei fatti di “formazione interiore”. Esso si riscontra come inizio normale della vita
interiore dei bambini; e ne accompagna lo svolgimento, in modo da divenire accessibile alle ricerche,
come un fatto sperimentale.
Fu così che l‟anima del bambino dette le sue rivelazioni, e, sulla guida di queste, sorse un metodo ove
libertà spirituale venne illustrata.
Il racconto di questa storia iniziale si è sparso rapidamente per tutto il mondo; e sembrò al suo primo
apparire come la storia di un miracolo. Poi a poco a poco, moltiplicandosi gli esperimenti tra le razze
più diverse, si sono venuti rischiarando i principî semplici ed evidenti di questo “trattamento”
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spirituale».
GIOVANNI GENTILE (1875-1944)
G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. 1 Pedagogia generale, [1913], V ediz.
riveduta, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 135-136.
«5. Necessità di entrare nell’anima dell’educando
Per intendere la vera indole, i bisogni, la vita del suo scolaro, il maestro non deve fermarsi alla astratta
idea che egli sia, poniamo, uno scolaro di una certa classe, in cui si suppone l‟attitudine a seguire uno
svolgimento d‟un certo programma: questo è uno scolaro astratto, che non ha vita, e non può seguire
nessun programma; è una cosa, creata dal pensiero inconsapevole della propria natura; non è una
persona. Né basta che lo guardi in faccia, in cui pur lampeggia in una luce ad ogni istante nuova
l‟interno del fanciullo; ma deve entrare a studiarlo pacatamente nel suo animo, dove si raccoglie e
concentra la vita di quel fanciullo. E per entrare bisogna che lo segua nel suo processo spirituale,
perché quell‟animo non è appunto se non un processo. Seguirlo, tenergli dietro, senza stancarsi, senza
dir mai: – Ho capito, ormai, te ti conosco – Che sarebbe certo un sacrifizio troppo grave pel maestro:
ridursi spia fida, continua, instancabile di ogni individualità commessa alla sua opera educativa,
rinunziando del tutto a ogni slancio spontaneo e indipendente del suo proprio essere. Ma cessa il
sacrifizio e la rinuncia, se si considera che questo entrare dell‟educatore nel processo spirituale
dell‟educando non è punto un uscire da se medesimo, non è come un distaccarsi da sé, per aderire a un
processo estraneo, ma è né più né meno che realizzare il proprio processo. Realizzarlo, s‟intende
sempre, nella determinatezza della propria soggettività.
6. Farsi, non essere maestro.
E qui è la chiave così della vita dell‟educatore, come dell‟intelligenza di essa. Se tutto è spirito, tutto è
spirito in quanto si fa spirito. Educatore ed educando sono spiriti, ma in quanto si fanno, nel loro farsi.
Rispetto a un momento ulteriore ogni farsi è qualche cosa di fatto, non è unità ancora, ma dualità; e in
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generale, molteplicità. Maestro e scolaro, nel loro primo incontrarsi, possono, di certo, dissentire e
sentire ciascuno l‟altro fuori di sé, repellente, chiuso, impenetrabile: non quale spirito, che, come
sappiamo, è assoluta permeabilità e trasparenza intima, ma quale materia: una cosa e magari un coso.
Ma ancora non sono veri maestro e scolaro, devono farsi; e il loro essere, nella loro correlazione
educativa, è farsi.
7. Processo indefinito della formazione del maestro.
Ho detto che ancora non sono veri maestro e scolaro. Ma il vero maestro, si badi, non è un termine
fisso; né il vero scolaro. Non è possibile additare un punto, oltre il quale si abbia il vero maestro o il
vero scolaro. Il maestro vien diventando sempre più vero maestro; e così lo scolaro. Empiricamente, si
può dire che il primo incontro sia già l‟inizio dell‟educazione. Perché, sebbene allora lo scolaro non
abbia se non una prima incerta e vaga immagine o conoscenza dell‟aspetto esteriore di chi poi gli verrà
aprendo sempre di più l‟anima sua, quell‟aspetto già conosciuto è esteriore in paragone di ciò che ne
conoscerà più tardi con la consuetudine della scuola, ma è già il principio di quello stesso processo
spirituale, in cui si verrà attuando tutto il suo profitto.
Ma c‟è veramente un primo incontro dello scolaro col maestro? Ciò apparirà meglio appresso, quando
approfondiremo il concetto dell‟educatore. Qui ci basti conchiudere, che un atto educativo non è
concepibile se non ad un patto: che cioè attraverso di esso si realizzi l‟unità degli spiriti che vi
concorrono; e che perciò vero maestro è solo colui che si sente solo nella sua scuola, risolvendo nella
propria l‟individualità degli scolari».
GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938)
G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, [1913], XXIX ediz.,
Sandron, Firenze 1952, pp. 11-25.
«L'educando vero è quello che sente nel maestro se stesso, ciò che egli guardando dentro di sé e
scontento di sé, vuol divenire. Se non ci fosse nello scolaro la scontentezza di sé, che lo spinge a
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guardare il maestro, come al suo io migliore che vuol sorgere, ma trova difficoltà e angustie da cui gli
convien districarsi; se non ci fosse nello scolaro la lotta contro se stesso, come elemento essenziale di
vita, lo scolaro stesso non ci sarebbe se non come un quid estraneo, ciecamente, immutabilmente
ribelle, anzi sordo come questo foglio di carta, che non capisce e non capirà mai in eterno le parole che
vi sono vergate, cioè lo spirito di chi le scrive.
Ma lo scolaro come un quid estraneo al maestro non esiste, perché non esiste l'uomo estraneo all'Uomo
[...]
Si può ora definire la disciplina come un interiore conformarsi dell'alunno alla legge che sente viva e
operosa nel maestro, o meglio; la formazione di una legge di vita, che si genera nella coscienza del
maestro e dell'alunno, nell'atto della loro comunione spirituale che è l'educazione.
[...]
Ma l'alunno di tenera età, cioè l'alunno che ha quasi solo una coscienza immediata, il bambino che si
lascia vivere nel mondo delle sue sensazioni, tutto riempiendosene, ed avverte solo, con crepuscolare
coscienza, che quel suo mondo non è tutto - e cerca fuori di sé, negli adulti, la regola di cui ha
oscuramente bisogno - se non sente la coerenza dell'adulto che dovrebbe dirigerlo, si smarrisce e si
attarda nell'infantilità sua, prendendo come norma la stessa assenza di norma; amando e odiando a
seconda che il suo bisogno sia secondato o contrariato.
[...]
Il bambino non è quello che si dice imitatore, quasi ripetitore passivo degli altri; egli invece cerca negli
adulti se stesso, quel sé migliore e superiore al suo essere presente, verso il quale aspira oscuramente
(se l'aspirazione fosse chiara, pienamente cosciente, egli non avrebbe bisogno di maestro!); e quel
copiare gli altri non è che sviluppare se stesso: un cattivo maestro gli fa perdere, in parte almeno, il
dominio di sé, o meglio, non gli fa trovare la norma che egli cerca; si oblierà, perciò e sarà quello che
solo potrà essere: indisciplinato, cattivo.
Si può dunque ripetere qui quella che è la più pregnante delle sentenze didattiche: il metodo è il
maestro; la disciplina è il maestro; la sua anima che domina, nella quale gli alunni obliano il loro
piccolo mondo chiuso, individuale, dimenticando quasi di essere quello che sono, nel sentirsi quello
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che è per tutti loro il maestro.
[...]
La disciplina in genere si riduce perciò ad autoeducazione (integrazione nell'animo del discente degli
esempi e della regola; dei castighi, dei premii, etc. etc., e del concetto del dovere). Ma quando si dice
autoeducazione si intende sempre parlare dello spirito umano, non dello spirito individuale, isolato.
Giacché l'individuo è l'umanità stessa: l'insieme delle influenze che egli ha organizzato per modo da
farne la sua coscienza. Nell'autoeducazione dell'alunno c'è anche il maestro, anzi tutti i maestri che egli
ha fatto suoi, organizzandoli in un solo maestro: l'animo suo. La formula che si conviene
all'autoeducatore (all'uomo) è: discepolo di tutti, maestro di sé».
G. Lombardo Radice, Athena fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena, [1925], Bemporad,
Firenze 1926.
I fanciulli di Alice Franchetti, pp. 44-72
«Il contadinello de La Montesca è uno scolaro che sa prendere appunti di tutto ciò che lo interessa, a
scuola e fuori. E' ristretto, perché la vita del podere tosco-umbro isola gli uomini in piccolissimi gruppi,
lontani l'uno dall'altro. Per anni ed anni si può dire, come mi scrive la Marchetti: 'la sua esistenza si
svolge fra la casa e i campi dove conduce al pascolo pecore o maiali, in mezzo alla natura, sì, ma con
occhi che senza la scuola non vedrebbero, cioè non saprebbero ammirare'.
La Montesca gli presenta ogni cosa come un miracolo gentile, che bisogna comprendere ed amare; lo
collega col mondo sociale, lo trasforma in un piccolo conversatore, in pittore del suo mondo.
Il risultato, a scuola finita, è documentato da questi passi di lettere scrittemi da varie serene
osservatrici, maestre. C'è un profondo buon senso. Scrivendo, Dio ci liberi, a un 'pedagogista' quelle
brave figliole non parlano di scuola, di esami e di promossi. Oh no, e si vede proprio da ciò che sono
maestre de La Montesca.
1. - In genere i nostri alunni rimasti a casa, dopo aver compiuto la sesta, si dimostrano attenti al loro
lavoro e pronti ad accettare di provare cose nuove. Le ragazze disimpegnano bene i lavori di massaia. -
19
2. - Gli uni e gli altri acquistano un tratto gentile, che li distingue dagli altri piccoli contadini. -
3. - I ragazzi che hanno seguito la nostra scuola sono più pronti a seguire consigli (in materia agricola)
e a tentare migliorie al podere. -
4. - Quando venni qui non avevo fatto mai scuola... Rimasi commossa nel vedere questi bambini così
affettuosi e franchi. -
5. - I bambini insegnano anche a me molte cose. E' una gran gioia a sentirli discutere con me degli
esperimenti che fanno. -
6. - Dopo aver terminato il corso elementare le bambine vengono sovente a trovare le insegnanti (il
giovedì spesso vengono alla sera); fanno loro gran festa incontrandole; sono felici che la maestra visita
le loro case; ricorrono alla maestra in ogni bisogno; continuano a leggere i libri della biblioteca. I
ragazzi frequentano per diversi anni la scuola serale; se vanno soldati scrivono di tanto in tanto, e in
questo momento diversi sono quelli che ci scrivono dal fronte con gratitudine ed esprimendo nobili
sensi circa il loro dovere. -
7. - I bambini che provengono da altre scuole diventano ben presto i più entusiasti ammiratori della
scuola e della maestra, e si interessano molto al disegno, anche se, rispetto ai compagni già sveltiti,
incontrano difficoltà. Si dimostrano più espansivi. Dicono che questa è una vera scuola. -
- Le famiglie si dimostrano più deferenti di quelle i cui figli vengono nelle nostre scuole fin dall'inizio
dell'insegnamento.
Vien da ridere a pensare come tanta gente attribuisce la bontà della scuola alla ricchezza del materiale
didattico! Come se i sussidi didattici non fossero sempre in funzione dell'anima di chi li adopera! Ma
per molti anni "il giudizio fatto" era quello. Me lo conferma questa lettera di una insegnante de La
Montesca:
- Molti maestri e visitatori hanno attribuito al materiale didattico il merito delle nostre scuole e molto
leggermente hanno esclamato: Eh! Con questo materiale, sfido che si possono fare tante cose! Eh! Non
tutti possono avere scuole fornite come quella del barone Franchetti. Noi, anche volendo, non
potremmo far nulla. -
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Ma, ammettiamo che "il materiale" abbia giovato a facilitare la buona maturazione del frutto didattico;
il vantaggio era tolto da un danno: l'orario.
- A La Montesca ogni classe rimane affidata all'insegnante per tre ore; a Rovigliano da due ore a due
ore e mezzo. In quelle ore, ogni momento ha la sua occupazione e guai se l'insegnante non ha ben
chiaro nella mente quel che farà!
Insegnanti ed alunni hanno le ore contate. -
Del resto né la bella sede, né il ricco (e pressoché inutile, dico io) materiale didattico giovarono a
trattenere tutte le insegnanti: ed alcune di esse si allontanarono per accettare sedi incomparabilmente
inferiori. Perché?
Non resistevano alla fiamma di Alice Franchetti. Alice Franchetti era una santa della attività, non una
protettrice della pigrizia! Una persona autorevole mi comunicava che "dopo un anno di lavoro, si
stancarono di dover rifare la propria cultura, specialmente scientifica e si cercarono una delle solite
scuole, dove basta leggere e scrivere".
Povere creature, sperdute nella scuola, senza preparazione e vocazione! Quante, purtroppo, ve ne sono
ancora, per cui la scuola è un mezzo per campare e null'altro! Quel che importa è il senso di
responsabilità che assume il bambino con questi esercizi. Egli formula i pensieri, egli ha da dettarli ai
compagni, dopo il buon lavoro di pulitura stilistica e grammaticale, cui viene sottoposto (quasi senza
parere), nella conversazione scolastica, tutto ciò che egli dice.
Non scompare affatto l'individualità del bambino, ma è più che altro la sua logica che viene esercitata.
Tutta la carità di Alice Franchetti mira a formare questo spirito logico. Il sentimento non è soffocato
(tutt'altro), ma non trova un posto negli scritti, se non quando vien da sé, ed è contenuto entro limiti,
togliendo le parole inutili. La gran virtù del contadino è il parlar poco, quasi il rispetto della parola,
come cosa che non è da sprecare. Il bambino con questo suo pensare e dettare per i compagni e ai
compagni cerca, da sé, ciò che può essere pensiero di tutti, sentimento di tutti, in una circostanza
ipotetica, ma già verificatasi. Quindi quella obiettività del suo spirito, che si attacca alle cose precise,
controllate da tutti i compagni, accertate molte volte in comune. L'importante per lui diventa di non
dimenticar nulla di essenziale, che anche un altro bambino dovrebbe dire e di non far nulla di
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superfluo. Il suo scritto piglia sapore di "formula", ma la formula è trovata dal bambino; l'espressione
del sentimento assume il carattere "rituale", ma la ritualità è sentita davvero come la manifestazione
dell'anima di tutti, e il rito non è imparato, manierato, meccanico; ma anche esso trovato, come cosa
necessaria a tutti.
Tutto questo è veramente rurale: nobilmente rurale. E' propria del contadino dell'Italia centrale la
serietà e la sobrietà del discorrere che esso chiama sempre "ragionare". ("Si ragionava della stagione
che fa quest'anno"). E del resto il contadino, di tutti i paesi, è conciso e sentenzioso; il cittadino è
chiacchierone. Il contadino saluta e ringrazia e prega, sempre con le stesse parole, che paiono "frasi
fatte" e sono invece sentitissime, comecché rituali; il cittadino invece va cercando le parole e le varia, e
bene spesso le diluisce.
Il contadino ha uno spirito ordinativo, nonostante tutte le sue superstizioni; ha bisogno di esser munito
di qualche cosa da credere per ogni caso della vita; non ha dubbi; ma quando li ha e chiede è per lo più
credulo verso chi ne sa più di lui, mentre quando ha la sua idea, è incredulo verso chiunque lo
contraddica. Perché ha bisogno di camminare sul sodo e per sentirsi tranquillo rifugge dal rifare le sue
idee.
Ciò denota non pigrizia mentale, ma prudenza del suo intelletto. E' una certa forma mentale-morale che
si dice posatezza; e tutti intendiamo subito che cosa sia. Questa non va scombussolata, ma aiutata.
L'educazione rurale de La Montesca è perciò essenzialmente scientifico-pratica. La pietosa creatura
francescana che fu Alice Franchetti non voleva la limitatezza del contadino, ma non voleva rovinare il
valore morale che è in quella apparente limitatezza. L'educazione scientifica (osservazione personale;
osservazione continuata dello stesso oggetto della natura, per settimane e settimane; voler toccar con
mano la verità; chiarirla dimostrandola, rendersi conto dei fenomeni più comuni che ci lasciano per
solito indifferenti e incuriosi) ha la sua parte di valore come educazione estetica (lucidus ordo della
esposizione; disegno accurato che accompagna via via le osservazioni).
Esaminando questi compiti fanciulleschi, che valgono sempre come collettivi, sebbene siano
genuinamente individuali, sorprende però una certa uniformità, che a lungo andare diventa anche un
poco freddezza. Si sente che qui è il pregio massimo, ma anche il difetto de La Montesca.
La Montesca, difatti, ispirata da Alice Franchetti e tecnicamente in buona parte da Lucia Latter, mentre
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dà un grande valore alla regione, come vita agricola, non arriva a sentire il valore del dialetto, della
tradizione popolare, dei proverbi, della poesia di popolo. E lo stesso disegno è sempre da un pò troppo
regolato e riproduce, in cicli di osservazioni, presso a poco gli stessi fenomeni, di anno in anno. Non
diventa mai disegno-giuoco (scopritore della personalità del bambino), ma è sempre disegno-
composizione dello studio elementare della scienza fatto sul vero. E perciò ogni disegnatore somiglia
molto agli altri.
Arriva, specie nelle bambine, ad una sua perfezione di coloritura, ma limita la scelta. Ed è strano che
mentre il bambino d'ordinario si prova a disegnar tutto, il contadinello de La Montesca non disegna che
piante, o "particolari" illustrativi delle piante studiate. Quando sorpassa questi limiti, il disegnatore è di
carattere geometrico (la casetta, la porta, il ponte, la bandiera, ecc.) o geografico.
Lo spirito Franchetti-Latter rimane in questo un po‟ troppo anglosassone. Dà risultati mirabili, ma non
ha germinazioni nuove né prosecuzioni.
E non dico che sia stato torto di alcuno, perché con quelle poche ore e con i programmi vecchi da
rispettare non c'era da fare molto di più; anzi non dico che sia stato un male, perché era bellissimo
acquisto quella stessa vigorosa limitazione della spontaneità, senza uso di artifici».
ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960)
A. Ferrière, La scuola attiva, [1920], tr. it., V ediz., Marzocco, Firenze 1950.
Cap. 1- Le fondamenta psicologiche su ci si edifica la scuola attiva, pp. 24-26
[…]
II
«Lo slancio vitale dello spirito sta alla radice della vita, è la sorgente di ogni attività degna di questo
nome; senza di esso trionfa il meccanismo; in lui tutto è splendore, calore, amore e luce. Vi è forse un
tesoro più prezioso in tutti gli esseri viventi? Rispettiamolo, adunque, nell‟uomo! Maxima debetur
23
puero reverentia! Questo impulso alla vita, questa forza che dirige la vita dello spirito è già, per noi,
non soltanto un fenomeno conosciuto e studiato, ma è ormai l‟oggetto d‟ogni nostra cura in educazione;
il suo sviluppo è un fine da raggiungersi e, al tempo stesso, rappresenta il solo mezzo che l‟uomo
possegga per avvicinarsi sempre di più alla meta suprema: l‟arricchimento delle proprie energie
spirituali, il potenziamento di se stesso. Nelle pagine seguenti noi vedremo quanto sia importante per
l‟educazione conservare ed accrescere questa sorgente di vita che è in noi, ma non potremmo
accingerci a questa ricerca senza prima porci un altro problema, tentando di risolverlo: come si
manifesta questo potentissimo impulso? Per quali vie, con quali mezzi esso opera e si fa palese? In
fondo, rispondere a queste domande, posto che per noi il “progresso” è questo cammino in avanti verso
l‟arricchimento delle proprie energie spirituali, non significa rispondere all‟altra, quale sia la legge del
progresso? Non esaminerò, qui, il problema dal punto di vista biologico e fisiologico come ho già fatto
lungamente nell‟opera già citata. Ivi il lettore troverà descritto come l‟esperienza, che è, poi, il contatto
tra l‟individuo ed il mondo esteriore, operi, per mezzo del piacere o del dolore che essa porta con sé,
una scelta tra le reazioni; come la reazione, incerta dapprima sulla direzione da prendere, divenga poi
appropriata, tale, cioè, da contribuire all‟adattamento dell‟individuo all‟ambiente; in quale modo la
nostra reazione si fissi, si meccanizzi, si imprima nell‟incosciente così da liberare la forza vitale
consentendole nuovi adattamenti; per che vie lo slancio vitale discerna sempre meglio e sempre meglio
impieghi a suo profitto quello che di costante si nasconde sotto l‟apparente molteplicità dei fenomeni.
Fare questa conoscenza empirica, appropriarsela, arricchendosi per suo mezzo sempre di più; crearsi
delle possibilità d‟azione sempre più svariate; guardarsi e difendersi sempre meglio dalle cause di
distruzione; ecco quello che si vuol significare con l‟espressione legge del progresso. Essa, dunque,
vuol compendiare due elementi complementari: 1°) la divisione del lavoro che si stabilisce tra le varie
attività, siano esse di percezione, di discriminazione o d‟azione; 2°) quel potere di unificazione sempre
crescente che riunisce in un sol fascio tutte le forze dell‟organismo altrimenti divergenti.
Per chiarire il processo con una immagine, si può dire che la differenziazione, o divisione del lavoro, va
dal centro alla periferia, mentre la concentrazione, od unificazione, va dalla periferia al centro. Così si
forma lentamente, ma con un progresso continuo, il nostro spirito; le varie funzioni al suo servizio
formano una gerarchia che potremmo dire a piramide e così pure potremmo raffigurarci la gerarchia dei
valori nel seno stesso dello spirito. Io non posso ripetere qui tutto quello che ho già scritto; basti aver
ricordato, poiché parliamo di educazione, che la legge del progresso, vale a dire l‟equilibrarsi della
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differenziazione e della concentrazione, vige anche in psicologia».
[…]
Cap. 3- L’attività manuale nella scuola attiva, pp. 96-99
«Fondamenti basilari della Scuola attiva sono dunque lo slancio vitale del fanciullo e la sua attività
spontanea; la meta a cui mira la Scuola nuova è l‟infinito accrescimento di questa energia spirituale,
accrescimento non di sola quantità, ma soprattutto di qualità nel contatto sempre più stretto coi valori
universali e permanenti dello spirito. L‟educazione si svolge tra quel punto di partenza e questo punto
di arrivo. Essa prende, dunque, le mosse dal fanciullo vivo, cioè non da quello concepito in abstracto, o
visto attraverso le statistiche della psicologia sperimentale. Questa non voglio negarlo, è una
ammirabile scienza ma come ogni scienza stabilisce delle leggi, ed una legge è proprio quanto si può
concepire di più lontano da una individualità concreta: la legge è sempre ed ovunque uguale o non è più
legge, mentre l‟individuo è sé stesso, originale, unico; fra milioni di individui abitanti la Terra non se
ne troverebbe un altro che gli fosse identico. Ogni energia che si manifesta nell‟individuo obbedisce
certamente a delle leggi, ma egli, come punto di convergenza di milioni di forze, è un “complesso” che
si modifica continuamente, si trasforma, progredisce o regredisce, progredisce in un certo campo e
regredisce in un altro, che concentra sino all‟esaurimento le sue energie sotto l‟egida del suo io, o che
al contrario assiste alla dissociazione, alla dissoluzione dei suoi centri d‟energia. Tale è l‟essere in
apparenza molto semplice ma di fatto assai complesso, che l‟educatore ha innanzi a sé, l‟essere ch‟egli
deve conoscere, deve guidare. Sotto lo sguardo diritto, franco, semplice, gioviale del fanciullino che
giuoca al sole, si nasconde ai nostri occhi una personalità così ricca, un sistema gerarchico di forze e di
tendenza subcoscienti così complicato che nessuno può sperare di coglierne il meccanismo
sconosciuto. Trascinato talvolta da una forza interiore che gli fa compiere, con suo grande stupore,
delle prodezze di cui egli non si sarebbe mai creduto capace, oppure posto di fronte alle tendenze
distruttive, scaturite dalle profondità oscure del suo essere, che, attraverso mille lotte di cui le sorti sono
alterne, tendono a condurlo al dolore e alla disperazione, egli sarà come il capitano d‟una nave che sia
soltanto di nome capo del suo naviglio e del suo equipaggio e che per poterli dirigere è costretto a
conoscerli a fondo, ad accettare l‟inevitabile e, talvolta, a tendere in uno sforzo supremo tutto il suo
essere per far valere la sua volontà.
Se questo è il fanciullo, che cosa dovrà fare il maestro? Egli deve, l‟ho già detto, prender le mosse dalla
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realtà, vedere l‟essere che gli sta innanzi quale esso è, non quale esso potrebbe essere e, meno ancora,
quale dovrebbe essere secondo il suo giudizio; il maestro che si lamenta dell‟alunno accusa se stesso.
Se il fanciullo è affetto da incoordinazione mentale, compiangetelo, non lamentatevi; osservatelo,
cercate, e quasi certamente finirete per scoprire in lui almeno un punto attorno a cui egli coordina le sue
forze per agire spontaneamente, ove un vivo interesse lo spinga. Avete scoperto questa sorgente
nascosta? Siete solo per questo sicuri della riuscita; non cercate più lontano, od almeno non cercate
altro per il momento, giacché con la sorgente avete scoperta la forza motrice che metterà in moto il
molino, a condizione che voi non le chiediate più di quanto può dare; voi avete raggiunta la possibilità
di coordinare e concentrare sempre meglio quest‟attività spontanea ed altresì di arricchirla o di
differenziarla sempre più.
Riassumendo. Punto di partenza d‟ogni azione educativa sia l‟attività spontanea dei fanciulli: occorre
partire dalle loro attività manuali e costruttive, da quelle intellettuali, dai loro interessi, dalle loro
preferenze, dalle loro tendenze dominanti; bisogna prendere le mosse dalle loro manifestazioni morali e
sociali quali si presentano nella vita libera e naturale d‟ogni giorno, secondo le circostanze, compresi
gli avvenimenti previsti o imprevisti che sopravvengono.
Educare significa rispettare la natura dell‟educando per condurla (ex-ducere) a mete più alte e quindi è
necessario che l‟adulto abbia una sicura conoscenza del fine a cui tende, che questa consapevolezza si
faccia gradualmente più profonda nel fanciullo stesso, perché, come abbiamo detto, l‟adulto non sta
accanto al fanciullo per imporre il suo volere, per usufruire di un‟arbitraria autorità, ma gli è accanto
per sostenere la buona volontà del fanciullo, in nome dei valori spirituali, amore, ragione, verità, bene.
[…]
Due sono i poli tra cui corre la Vita, lo slancio della vita spirituale e la “Ragione divina”, e due sono i
poli tra cui corre l‟educazione: le attività spontanee del fanciullo e la sua preparazione alla vita, alla
vita quale è realmente ed alla vita quale potrebbe essere se tutti gli individui sapessero, potessero, e
volessero renderla socialmente e moralmente migliore.
Noi abbiamo, sino ad ora, visto le attività spontanee dei giovani sboccianti alla vita rivelarsi sotto il
triplice aspetto di attività manuali, sociali ed intellettuali. Ci occuperemo partitamente di ciascuna nelle
pagine seguenti, ma vogliamo fissare qui, alle soglie di questa trattazione, una norma generale
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d‟educazione dalla quale non potremo derogare che a condizione di smarrire il senso della vita, di
turbare l‟equilibrio della nostra opera. Vogliamo, cioè, affermare che la nostra azione educativa dovrà
innestare sulle attività spontanee altre che potranno e dovranno condurre l‟essere all‟adattamento alla
vita quale gli si presenterà. Con la parola adattamento non intendo affatto significare una passiva
sottomissione; tutt‟altro. Vivere non è sinonimo di subire ma, piuttosto, di conquistare. Facciamo che la
volontà di vivere sbocchi nella volontà di meglio vivere come un fiume sbocca in un lago in cui la sua
forza energetica sarà centuplicata.
Teniamo presente che l‟adattamento, per se stesso, non implica un progresso: lo si è dimostrato
all‟evidenza, un essere potrà, sì, adattarsi a condizioni che gli siano meno favorevoli delle sue abituali,
ma, anziché progredire, come avverrebbe in condizioni normali di sviluppo, egli regredirà.
D‟altra parte non va dimenticato che non è possibile il progresso senza l‟adattamento. Essere padroni di
se stessi: che altro significa se non sottomettersi alle leggi che reggono l‟organismo fisico e psichico?
Questo è, però, un adattamento che vuole sboccare nel dominio, è, cioè, un adattarsi in un primo tempo
perché queste leggi si pieghino a lor volta in un tempo ulteriore ad un più alto ideale di vita, è, infine,
un piegarsi alle leggi inevitabili, necessarie della natura vivente per vincere, con la loro alleanza, tutti
gli ostacoli superabili ch‟essa ci oppone.
Nella stessa conquista del mondo fisico (che è l‟opera della scienza) assistiamo ai due atti del dramma:
il conoscere che implica, dapprima, un adattamento è, poi, il mezzo d‟asservimento delle forze cieche.
Nel mondo sociale altresì (sarei tentato di scrivere: nel mondo sociale soprattutto) si potranno
rintracciare facilmente le vicende d‟un reciproco adattamento fra azioni e reazioni, in ogni individuo,
tendenti ad un equilibrio che è incessantemente perduto, ritrovato e ristabilito sempre meglio».
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MARIA BOSCHETTI ALBERTI (1879-1951)
M. Boschetti Alberti, Il diario di Muzzano, [ediz. it. 1951], La Scuola, Brescia IX ediz. 1963, pp. 23-
27.
Lo zio Pep
«Fu certamente lo zio Pep a indirizzarmi verso le “scuole nuove”. Lo zio Pep era fratello di mia madre
(ora son morti entrambi) ed era un grande lavoratore, uomo pieno di buon senso. Amava istruirsi, e la
sua conversazione era assai interessante. Ma quando aveva un po‟ bevuto (per bere trovava il tempo
anche in mezzo ai suoi gran lavori), allora, se lo incontravo, eran guai.
“La maestra! Eccola „la maestra‟! (E che disprezzo metteva in questa parola!). Una volta che uno si
dice „maestro‟, crede di conoscere già tutto lo scibile umano; non pensa più a studiare, a leggere: è
„maestro‟! Hanno ragione i Francesi che dicono: „Bête comme un maȋtre d’école…‟. I maestri moderni,
poi, con tutte le loro pretese!... Hanno più criterio gli allievi dei maestri. Almeno, hanno più criterio
prima di andare a scuola: perché quando sono a scuola, i maestri li incretiniscono. Provate ad entrare in
una scuola: si alzano tutti in piedi come burattini ai quali sia stato tirato il filo; belano tutti insieme il
medesimo saluto; poi restano lì tutti, in piedi come babbei. Hanno tutti l‟impressione chiusa e ristretta
del loro maestro…”.
[…]
Al pensiero del nonno, si chetava il risentimento per le parole dello zio Pep.
Ma al mattino, quand‟entravo nella scuola, non potevo fare a meno di riflettere: “Eppure lo zio Pep ha
ragione: questi ragazzi si alzano tutti come burattini ai quali si tiri lo spago dietro: belano tutti il
medesimo saluto; hanno precisamente facce tutte eguali, sguardi senza espressione, occhi di vetro”.
E li osservavo. Fuori, sul piazzaletto (era il piazzaletto del villaggio ticinese di Muzzano) erano pieni di
brio, esuberanti di vitalità. Ma appena suonava l‟ora delle lezioni salivano le scale levandosi il berretto,
e prendevano un‟espressione di rassegnata passività: quando poi varcavano la soglia della classe, erano
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altri ragazzi: voci senza colorito (fin la voce cambiavano!), occhi senza espressione, maschere
senz‟anima…
“Ma perché – mi domandavo – ma perché cambiano così? Siamo veramente noi maestri che li
incretiniamo?”.
In cerca di novità
Allora mi venne volontà di sapere se in tutte le scuole gli alunni subivano questa trasformazione. E
quando lessi che la Società Demopedeutica prometteva un sussidio al maestro che avesse voluto andare
all‟estero a studiare i nuovi metodi d‟insegnamento per i deficienti, con grande ansietà scrissi al
Presidente della Demopedeutica, prof. Tamburini. Fui felicissima quando egli mi rispose
concedendomi il sussidio: felicissima perché pensavo: “Studierò per gli anormali; ma nel medesimo
tempo visiterò molte scuole di normali, e forse troverò la soluzione del problema che mi preoccupa”.
Domandai dunque al mio papà il permesso di recarmi in Italia per seguire quel corso di studi.
Egli mi rispose: “Vedremo”.
Quella risposta così vaga mi fece male. Ma sapevo per esperienza che col papà (son tutti morti ora, tutti
morti!) dovevo sempre attendere le risposte. Difatti mi chiamò due o tre giorni dopo e mi disse: “Ho
parlato col tuo Ispettore. Dice che tu fai benissimo scuola: ch‟egli non ti domanda né crede che tu possa
far meglio. Dunque anch‟io, come lui, credo che non sia il caso che tu vada in Italia a far corsi e altre
novità”.
Tentai di spiegargli che non ero contenta dei risultati che ottenevo. Ma non m‟arrischiai a dirgli che
quel che più m‟interessava era sapere perché gli alunni fossero fuori di scuola vivi, e dentro morti.
Ripeté: “La mia risposta te l‟ho data. Se vuoi andare a far corsi inutili, va pure. Io non te lo proibisco:
ma non ti do neanche un centesimo”.
[…]
Ma qui voglio fermarmi, e fare alcune osservazioni.
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In quei tempi, non avevo amore per i miei scolari. Eravamo anzi nemici. Io, da una parte, sulla cattedra,
ritta, severa, come una divinità antica: loro dall‟altra, separati da me da un muro di ghiaccio. Io, sola,
con la mia forza che consisteva tutta nei castighi: essi, tutti uniti in una segreta società, tutti uniti contro
di me. Nemici.
Non potendo amare i miei alunni, non amavo neanche la scuola. Ogni giorno aspettavo con impazienza
l‟ora dell‟uscita: aspettavo con impazienza i giorni di vacanza. Non amando i miei alunni, non amando
la scuola, si può figurarsi che lezioni io facessi! L‟onorario mensile era il mio „solo‟ ideale. E confesso
(e nel confessarlo, arrossisco) che quando il romanzo che stavo leggendo era proprio interessante, lo
portavo in iscuola e finivo di leggerlo nascondendolo nel cassetto semiaperto della cattedra.
Dio mi perdoni tutto il male fatto a quelle anime di ragazzi, in quegli anni!
Ebbene: il signor Ispettore trovava che io facevo scuola benissimo: la Demopedeutica mi largiva
sussidi: il Dipartimento “Educazione” mi dava lettere di raccomandazione.
Oggi, che sento di fare la scuola con vera passione, che amo i fanciulli, che prendo la più minuziosa
cura della loro educazione ed istruzione, credete che l‟ispettore direbbe ch‟io faccio benissimo la
scuola? Che le Società pedagogiche mi largirebbero ancora sussidi? Che otterrei ancora dal lod.
Dipartimento “Educazione” lettere così lusinghiere?
Io credo di no.
E perché?
Forse per questo: quando uno sa di non compiere il suo dovere, se si trova davanti ai suoi superiori, si
industria il più possibile per convincerli, per ingannarli; mentre quando uno è persuaso di fare del suo
meglio, sdegna ogni falsità. E la verità sola, nuda, non appoggiata da alcunché di „morbido‟, forse non
serve a convincere.
O forse anche per questo: che una faccia giovane, con qualche dote esteriore, convince meglio di una
faccia già segnata dal marchio del tempo».
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CÉLESTIN FREINET (1896-1966)
C. Freinet, Le mie tecniche, [1967], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 11-16.
«All‟origine delle mie ricerche vi è dunque la necessità in cui mi trovai di migliorare le mie condizioni
di lavoro per una possibile maggiore efficacia. E vi fu anche una insensata ostinazione a fare onore a un
mestiere che amavo e che avevo scelto.
Mi spinse fuori dei soliti sentieri anche un‟altra caratteristica del mio spirito e delle mie tendenze: un
bisogno quasi fisiologico e morale di aderire a una classe sociale e più ancora alla corporazione
insegnante in cui si rispecchiavano massicciamente i dati di un ambiente del quale ero parte integrante.
Il mio problema si poneva da sé: trovare il mezzo di lavorare meglio senza isolarmi dai miei colleghi.
Quando scoprii la tipografia scolastica avrei ben potuto, come si procede volentieri oggi, far brevettare
la mia innovazione e, in seguito, come Maria Montessori, far brevettare un materiale che sarebbe stato
alla base del nuovo metodo. Ma, ciò facendo, mi sarei allontanato fin dal principio dalla massa degli
educatori, di cui non avrei più potuto rappresentare l‟espressione, altro che eccezionalmente.
Presi immediatamente un‟altra direzione; invece di conservare il segreto sulla mia scoperta,
deliberatamente lo versai nel crogiolo cooperativo. Non eravamo ancora che pochi pionieri, fra i quali
Ad. Ferrière, quando già davo vita a una cooperativa con circolari, bollettino, una rassegna di testi di
ragazzi: la Gerbe, scambi di documenti, organizzazione di corrispondenze interscolastiche, prime
riunioni in occasione dei Congressi della efficiente Federazione dello Insegnamento. Avevamo già
infranto il cerchio dello sterile individualismo. Avevamo gettato le basi del nostro movimento
pedagogico cooperativo.
Ma ritorniamo agli inizi della mia vita di insegnante: bisognava dunque che mi ponessi in cerca, fuori
della routine scolastica di cui si contentavano più o meno tutti i miei colleghi di una soluzione nuova,
una tecnica di lavoro che si adeguasse alla misura delle mie ridotte facoltà.
Procedei allora come tutti i ricercatori. Adottai quello stesso procedimento per tentativo sperimentale
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che in seguito diverrà il centro del nostro comportamento pedagogico e delle nostre tecniche di vita.
Lessi Montaigne e Rousseau, e più tardi Pestalozzi, al quale mi sentivo legato da una stupefacente
parentela. Ferrière orientò i miei tentativi con la sua École active e la Pratique de l’École active. Visitai
le scuole comunitarie di Altona e di Amburgo. Un viaggio nell‟URSS, nel 1925, mi pose al centro di un
fermento di esperienze e di realizzazioni per qualche verso allucinante. Nel 1923 partecipai al
Congresso di Montreux, indetto dalla Lega internazionale per la nuova educazione, dove si trovavano
fianco a fianco i grandi maestri dell‟epoca, da Ferrière a Pierre Bovet, da Claparède a Cousinet e a
Coué.
Ma quando mi ritrovai solo nella mia classe, nell‟ottobre successivo, senza sostegno e senza l‟appoggio
morale dei pensatori che ammiravo, mi sentii disperato: nessuna delle teorie lette e capite poteva venir
trasposta nella mia scuola di villaggio. […] Fui dunque costretto a ritornare bene o male agli strumenti
e alle tecniche tradizionali, fare lezioni che nessuno comprendeva, dare in lettura testi che, se anche
semplici, non avevano nessun significato per lo sviluppo educativo dei ragazzi. […]
In tale logorante atmosfera ero costretto ad arrabattarmi, come un pagliaccio privo di risorse, per
intrattenere un momento, artificialmente, la labile attenzione dei miei scolari. […]
La stampa a scuola
Una schiarita di natura pratica e tecnica in questo disperante cielo scolastico: i maestri militanti nella
Federazione dell‟Insegnamento cercavano allora, in avanguardia, di far penetrare un po‟ di vita nel loro
insegnamento. Si erano sperimentate le “lezioni-passeggiate”. Vocabolo evidentemente male scelto,
infatti i genitori obbiettavano che i ragazzi non sono mandati a scuola per passeggiare, né l‟Ispettore
aveva nessuna voglia di partire in battuta attraverso i campi per ritrovare il suo gregge.
La lezione-passeggiata fu la mia tavola di salvezza. Invece di sonnecchiare davanti a un cartellone di
lettura, alla ripresa della lezione nel pomeriggio, partivamo per i campi circostanti il villaggio. Lungo le
strade ci fermavamo ad ammirare il fabbro, il falegname o il tessitore, i cui gesti metodici e sicuri ci
facevano venire voglia di imitarli […]. Al ritorno in classe, scrivevamo alla lavagna il resoconto della
“passeggiata”.
Ma si trattava ancora di un angolo luminoso, scavato provvisoriamente nel muro della scolastica. La
vita si arrestava a questa prima tappa. In mancanza di nuovi strumenti e tecniche adeguate, le mie sole
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risorse, per insegnare la lettura di un testo stampato, consistevano nel dire in tono rassegnato: - E ora,
prendete il vostro libro di lettura, a pagina 38: La Golosa (o qualunque altra pagina, parimente
estranea all‟interesse del maestro e degli scolari). E mentre leggevamo La Golosa, avevamo ancora in
testa, vive e parlanti, le immagini della passeggiata. Le parole stesse si rivestivano in funzione dei
momenti esaltanti che avevamo vissuto. Vi era divorzio totale, e inevitabile, fra la vita e la scuola. Il
lavoro al quale eravamo così costretti perdeva quindi tutti i vantaggi del lavoro vivo, per divenire un
compito fastidioso e senza significato.
Finalmente uno strumento che cambia i dati pedagogici della lezione: la stampa.
Andavo dicendomi allora: “Se potessi, con un‟attrezzatura tipografica adatta alla mia classe, tradurre il
testo vivente, espressione della „passeggiata‟, in una pagina scolastica che sostituisse quelle del libro di
testo, saremmo in grado di riprovare, per la lettura a stampa, lo stesso interesse profondo e funzionale
che sentivamo nel preparare il testo medesimo. Nulla di più semplice e logico, tanto semplice che mi
meravigliai perfino che nessuno ci avesse pensato prima di me.
Mi detti allora da fare per realizzare il mio sogno. Trovai per fortuna, presso un vecchio artigiano
stampatore, un piccolo materiale di tipografia, con compositoi speciali e pressa in legno che doveva
permetterci, in teoria almeno, la stampa dei nostri testi. […]
Non mi aspettavo certo, in quei frangenti, che gli alunni potessero appassionarsi un po‟ durevolmente a
un lavoro di cui potevo misurare a un tempo la complessità e la minuziosità. Ero talmente abituato al
lavoro da imporre e che esige lo sforzo, che non immaginavo neanche potesse esistere effettivamente
un‟altra forma di attività più leggera e più gradevole.
Mi ingannavo. Gli scolari si appassionarono alla composizione e alla stampa, faccenda, comunque, per
niente semplice col nostro materiale ancora rudimentale. Vi si appassionarono non soltanto perché
ordinare i caratteri nei compositoi poteva risultare un gioco attraente, ma perché avevamo ritrovato un
processo normale e naturale della cultura: l‟osservazione, il pensiero, l‟espressione naturale
diventavano un testo perfetto. Questo testo lo si era fuso nel metallo, poi stampato. E tutti gli spettatori,
cominciando dall‟autore, si sentivano quasi emozionati all‟apparire della pagina impressa, di fronte allo
spettacolo del testo magnificato, che ormai assumeva valore di testimonianza.
Questa fu la prima scoperta fondamentale che doveva condurci a considerare progressivamente tutto il
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nostro insegnamento. Avevamo ristabilito un circuito naturale, prima ostruito dalla scolastica. Il
pensiero e la vita del fanciullo potevano ormai divenire elementi massimi della cultura».