Post on 17-Feb-2019
HERMES, il Messaggero del Govone Numero 3, Giugno
HERMES TIRIAMO LE SOMME!
Ciao a tutti!
Mi sono brutalmente impossessato della prima pagina di ”HERMES, il Messaggero del Govone” a scapito del PARLIAMONE usuale per tirare un po’ le somme di quello che è stato questo anno.
Rispetto a quelli precedenti, infatti, per me è stato più speciale e credo che lo ricorderò per sempre come un’esperienza entusiasmante. Essere rappresentanti d’Istituto non è certo facile ed è un compito dispendioso di tempo e di energie, bisogna dirlo, ma se è fatto con passione e con impegno, credo possa essere una delle esperienze più formative che ci siano.
Non voglio entrare nel merito di cosa è stato fatto e di come è stato fatto, ma vorrei fare una considerazione sul ruolo di rappresentante d’Istituto di per sè.
Credo infatti che due rappresentanti da soli servano a poco, se non a niente; deve esserci dietro un gruppo di ragazzi che abbia voglia di fare, di mettersi in gioco, che con i rappresentanti si impegni per fare qualcosa di bello e interessante al tempo stesso per questa scuola. Ed è stata questa la mia fortuna: infatti, oltre a Camilla – che ovviamente è la prima in ordine di importanza da ringraziare per questa esperienza - anche altri ragazzi mi hanno aiutato e colgo quindi l’occasione per ringraziarli: inizialmente Leonardo Forotan e Alberto Tortoroglio con cui ho trascorso anche nottate fino alle due per preparare assemblee d’Istituto e assieme ai quali abbiamo dato vita a momenti culturali credo anche molto interessanti, poi Giulia Rosa che ha aiutato me e Camilla con l’organizzazione delle felpe e Umberto Gatto che ci ha dato una mano nella preparazione del ballo di fine anno e infine Leonardo Balla, Lorenzo Germano e Ginevra Gatti assieme ai quali siamo riusciti a rilanciare il giornalino studentesco.
Vorrei ringraziare anche il preside Marengo che è sempre stato disponibile a darci consigli e soprattutto a sentire il parere di noi studenti praticamente su qualsiasi tema e a tutti voi che mi avete sopportato, spero.
Al prossimo anno,
Alessandro Collo
LA SQUADRA DI HERMES 2015
REDAZIONE:
Ginevra Gatti (IB) Leonardo Balla (IIC)
Lorenzo Germano (IIC) Alessandro Collo (IC)
IMPAGINAZIONE:
Alessandro Collo (IC)
LE PENNE:
Ginevra Gatti (IB) Leonardo Balla (IIC)
Lorenzo Germano (IIC) Francesco Filosa (VD) Letizia Lasciarrea (ID) Ilaria Lorenzetti (VB)
Leonardo Forotan (IC) Federico Ruatasio (IIIB) Andrea Lanzetti (IVD)
Laura Zotaj (VD) Paola Cassinelli (IIC) Noemi Ascone (IC)
Alberto Tortoroglio (IIB) Edoardo Taricco (IB)
Susanna Coarezza (IIB) Giulia Graziano (IIIB) Andrea Apicella (IIIB)
HERMES, il Messaggero del Govone Numero 3, Giugno
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Armeni: un genocidio
dimenticato
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Al centenario del genocidio del 1915, gli Armeni di tutto il mondo sono ancora persi nel baratro dell’oblio e della negazione. Al centenario da uno dei peggiori stermini del ‘900, la comunità mondiale continua a chiudere gli occhi di fronte alla negazionismo illogico della Turchia e, anzi, sembra spalleggiarlo silenziosamente destinando al dimenticatoio un pezzo di storia e le memorie di morte e disperazione di un genocidio considerato di serie B. Il genocidio armeno inizia nel 1915 sotto le spinte nazionaliste del partito dei Giovani Turchi in particolare dei leader politici Talaat, Enver e Djemal. Un altro politico, Mustafa Kemal ha poi avvallato il loro operato con nuovi massacri e con la negazione della premeditazione di uno sterminio di massa. Nel 1915 il popolo armeno vive in territorio turco ormai da 1500 anni, fin dal VII secolo, ma nonostante ciò costituisce un nucleo fortemente indipendente, di religione cattolica e stampo occidentale all’interno di un contesto fortemente islamista. La ricerca di un’unità politica, etnica e religiosa porta nel 1915 a quello che gli Armeni chiamano “Medz yeghern”, il grande crimine. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile incominciano le retate con l’incarcerazione dell’élite armena di Costantinopoli; nel mese successivo più di mille intellettuali armeni tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari vengono imprigionati e deportati verso l’interno dell’Anatolia. Il resto della popolazione subisce la stessa sorte non molto dopo in una marcia della morte verso Deir ez Zor in Siria in cui periscono di fame, stenti,
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malattia, sfinimento e massacri due milioni di persone. negli anni successivi molti pretesti sono stati addotti come giustificazione tra i quali la manovra difensiva contro le spinte insurrezionali armene e la vendetta per le sconfitte subite all’inizio della Grande Guerra, ma in realtà con il genocidio degli Armeni assistiamo nella storia del XX secolo al primo sterminio di un popolo, non per le sue idee politiche o il suo orientamento religioso ma semplicemente per la loro identità etnica. E questo centenario non è l’occasione di ricordare e dare dignità a un popolo massacrato, ma anzi è stato il luogo per ribadire l’indifferenza di Paesi che pur riconoscendo formalmente il genocidio non ne parlano e di altri, addirittura Israele che ha subito una sorte simile e che, forse, per questo dovrebbe sentirsi particolarmente coinvolto, che girano la testa e preferiscono alla verità storica, alla giustizia, alla dignità umana la tranquillità politica con una nazione che non si assume le sue responsabilità e non riconosce le sue colpe, come persino la Germania ha fatto. La polemica che si è scatenata in seguito alle parole del papa, che ha esplicitamente definito la deportazione degli Armeni un genocidio, è la lampante dimostrazione di un atteggiamento diffuso che si può riassumere alla perfezione con le parole di Adolf Hitler alla vigilia dell’olocausto: “Chi si ricorda oggi dello sterminio armeno?”. Vogliamo dargli ragione?
Ginevra Gatti, IB
HERMES, il Messaggero del Govone Numero 3, Giugno
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«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il ventiquattro maggio…» questi sono i celebri versi con cui inizia la Leggenda del Piave, una delle più note canzoni patriottiche italiane, composta nel 1918 dal napoletano E.A. Mario per esaltare la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale, o, come fu chiamata allora, la Grande Guerra. Si dice che il conflitto scoppiò a causa dell’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, ma in verità le ragioni dell’«inutile strage» (così la guerra fu definita da papa Benedetto xv) vanno ricercate nel clima di nazionalismo che aleggiava in quasi tutti i paesi d’Europa, divisa nei due blocchi contrapposti della Triplice Alleanza (Austria-‐Ungheria, Germania e Italia) e della Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia): molti stati rivendicavano territori considerati parte integrante della loro nazione, come l’Alsazia e la Lorena (tolte alla Francia dall’Impero Tedesco nl 1870) o le Terre Irredente che l’Italia reclamava all’Austria (Trentino-‐Alto Adige, Friuli ed Istria, Dalmazia). La guerra non poteva non scoppiare: scoppiò, e fu combattuta nel fango delle trincee sotto i fuochi delle mitragliatrici, le nuvole di gas tossici e i primi bombardamenti aerei della storia. La realtà era sicuramente ben più cruda di quella di placido eroismo celebrata da Mario. Finita la guerra nel 1918, si assistette alla “caduta dei giganti”: crollarono i millenari e multietnici imperi tedesco, austriaco, ottomano e russo (quest’ultimo a causa della rivoluzione bolscevica). La Germania, umiliata e distrutta sia moralmente che economicamente, fu facile preda nel nazismo di Hitler, mentre in Italia il clima di scontento per la “vittoria mutilata” (non furono confermate le pretese italiane sulla Dalmazia, sul giacimento carbonifero di Adalya in Turchia e sulle colonie tedesche in Africa) portò all’impresa di Fiume prima, alla Marcia su Roma poi. E tutto ricominciò da capo: morti, stragi, sangue. Tra pochi giorni, il 24 maggio 2015, saranno celebrati i cento anni dall’entrata in guerra dell’Italia nella Grande Guerra (l’anno scorso si è commemorato lo scoppio del conflitto, in cui il nostro Paese non entrò subito, diviso com’era tra pacifisti e interventisti): cento anni sono passati da quel fatale 24 maggio, e nell’Europa di oggi non c’è più posto per reticolati e
Cento anni dalla “inutile strage” Ricordiamo chi è morto per il nostro Paese
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trincee, ma per il nostro continente vediamo iniziata una nuova era di pace e coesione nelle comuni istituzioni dell’UE. È giusto dunque ricordare oggi il conflitto che più di tutti fece nascere odio tra i popoli europei? A parer mio, è doveroso: primo per mostrare alle forze antieuropeiste dove porta la rivalità tra nazioni, fino a che punto l’uomo può arrivare ad odiare un altro uomo. Ma anche per onorare la memoria di quei milioni di soldati, tra i quali c’erano eroi e disertori, che hanno insanguinato i campi d’Europa andando all’assalto sotto la sferza della mitragliatrice: per amore della loro Patria o perché costretti, ci andarono, e qui in milioni trovarono la morte. Ecco perché non si può, non si può sentire chi, come gli altoatesini, vogliono la secessione dall’Italia: tanti giovani hanno dato il loro sangue per unirli ai loro fratelli italiani, e con tali insulsi e insultanti discorsi essi infangano la loro memoria. Onoriamoli, onoriamo i nostri morti, e amiamo la nostra grande Nazione, grande perché in milioni sono morti per essa, grande perché voce potente nel coro d’Europa, grande per la sua storia, la sua cultura, la sua tradizione gastronomica, grande perché unica e amata da tutti nel mondo. Amiamola anche noi, pur con tutte le ferite che quotidianamente vediamo nel suo bel corpo, in questa commemorazione storica, crediamo in essa e lottiamo per darle un futuro luminoso, ricordando anche il suo grande passato. Edoardo Taricco, IB
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Il 18 giugno 1917 apparve sulla scena del teatro Olimpia di Milano l’opera teatrale “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello. A quasi cent’anni di distanza dalla sua prima rappresentazione, il dramma è stato nuovamente proposto in tutta la sua provocatoria modernità dagli attori e attrici del laboratorio teatrale dei licei Classico e Artistico. Il titolo dell’opera suggerisce già quanto l’autore siciliano voglia liberarsi delle regole, operando per una più alta originalità rivoluzionaria, capace di destare tanto stupore quanto disprezzo presso i suoi contemporanei. L’eccezionale finezza di pensiero, che traina l’intera rappresentazione, nei primi anni del XX secolo non fu affatto compresa, bensì sottoposta a pesanti critiche. Pirandello, effettivamente, contribuì all’abbattimento di granitiche certezze, obbligando così il pubblico a mettere in discussione l’esistenza di un'unica verità. Rappresentare tale autore di teatro non è facile, per ammissione degli stessi attori. Il linguaggio, infatti, ormai desueto e complesso, costringe ad uno sforzo mnemonico non indifferente, mentre la staticità delle scene, prevalentemente dialogiche, impone agli attori una cura costante dell’espressività linguistica e gestuale; il copione,
Così è (se vi pare)
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infine, richiedendo una presenza continua dei personaggi sulla scena, sottopone questi ultimi ad una forte tensione. Tuttavia, l’abilità degli interpreti ha permesso loro di superare tali difficoltà, restituendo al pubblico una rappresentazione alquanto fresca e intrigante. Il dramma si sviluppa tra le pareti di un tipico salotto ottocentesco, in cui l’autore non si risparmia di mostrare con sottile ironia un infimo campionario di difetti propri della classe dirigente, che gli attori hanno saputo efficacemente impersonare. Immediatamente, infatti, i borghesi danno prova della curiosità, inopportuna, ma in un certo qual modo comprensibile, che li caratterizza: l’arrivo in paese di tre forestieri stuzzica fortemente la loro attenzione, soprattutto quella delle donne, tanto da fare dei nuovi arrivati, circondati da un’aura di mistero, l’oggetto delle loro chiacchiere. Il signor Sirelli, inoltre, con la sua tendenza al ridicolo e al goffo, è la prova palese ed emblematica anche di quanto l’ottusità impregni
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l’animo borghese, proprio perché si rivela una semplice marionetta succube delle decisioni altrui, capace solamente di vagare da una parte all’altra del palco per seguire gli ordini della moglie e degli altri componenti del salotto. Il pubblico moderno non può che sorridere di fronte a tali comportamenti, in particolare davanti all’impegno con il quale i personaggi, scioccamente, cercano di fare la conoscenza del signor Ponza e di sua suocera, la signora Frola, desiderosi di scoprirne l’identità e attribuire loro una maschera. Tuttavia, quest’ultima impresa si rivela più ardua del previsto e costringe i borghesi ad assumere atteggiamenti non del tutto onorevoli. La signora Amalia e sua figlia Dina, infatti, raccontano con disinvoltura di aver seguito e spiato i loro movimenti fin sotto casa, di essersi presentate addirittura alla porta, da benevole vicine quali sono, per dare loro una consona accoglienza. Tuttavia, gli ambigui comportamenti della signora Frola, che più volte al giorno si reca dalla figlia, senza mai salire in casa, e del signor Ponza, suo genero, non fanno che accrescere vertiginosamente l’indiscrezione del salotto. Lo spettatore, allora, si ritrova ben presto catapultato in un’aula di tribunale, dove genero e suocera, vittime indifese, finiscono per andare in pasto a famelici lupi in giacca e cravatta: tra concitate conversazioni, che prendono le sembianze di veri e propri interrogatori processuali, pare che la verità possa finalmente venire a galla. Nondimeno, l’accusa reciproca di pazzia da parte di Frola e Ponza getta i personaggi in confusione. La spasmodica ricerca, pertanto, continua: i distinti borghesi si arrovellano cercando di trovare documenti, partoriscono ipotesi, ne confutano altre, molto spesso sfociando nel sadismo e nella freddezza più assoluta. Molti, infatti, una volta scoperta la terribile sciagura che ha costretto la misteriosa “famiglia” a traslocare, (ovvero il terremoto che ha provocato la morte di tutti i loro parenti e amici), paiono goduti e soddisfatti per quanto accaduto, proprio perché credono di essersi finalmente avvicinati alla risoluzione del mistero che coinvolge i nuovi arrivati. Ma essi si dimostrano capaci di una cattiveria che sembra non avere limiti. Con la progressiva scoperta di nuovi dettagli, infatti, i borghesi, assettati di risposte, mostrano tutta la loro più estrema insensibilità, abbattendo quella facciata di apparente umanità che avevano abilmente costruito. Alla fine della rappresentazione, risultano, infatti, ciechi e sordi di fronte al terribile dramma che inizia a soffocare con le sue spire velenose genero e suocera. Tra questi ultimi, poi, la tensione accumulata lungo tutto il corso
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dell’opera sfocia nella scena culminante del loro incontro, in cui il signor Ponza tenta di riportare tutto all’ordine: un’intensa drammaticità si impossessa del palco, trainata tanto dalle suppliche strazianti di Frola, quanto dalle grida ammonitrici e minacciose di Ponza. Tale scena, così ricca di sofferenza, non distoglie, tuttavia, i ricchi borghesi dal loro proposito. Ostentando, infatti, uno sfrontato egoismo, pur di soddisfare la propria curiosità, essi appaiono disposti a soverchiare definitivamente già i precari equilibri tra genero e suocera, mandando a chiamare la moglie del signor Ponza. Solo lei, effettivamente, è in grado di rivelare la propria identità e porre fine alle tribolazioni borghesi. Ma l’arrivo della donna produce l’effetto contrario, lasciando sospese in eterno le fantasticherie dei personaggi e del pubblico. Con un velo che le cela il viso, pronuncia parole dalla forte ambiguità che rivelano, presumibilmente, il suo carattere oracolare: “Io sono colei che mi si crede”. La moglie può, pertanto, assumere tutte le maschere possibili che le si vogliono attribuire, dal momento che un’unica verità non esiste. Un finale così aperto non può, dunque, che proiettare il pubblico di ieri e di oggi verso mille altre alternative, dal momento che tutto è possibile, nulla è veramente certo. Ci complimentiamo, infine, con tutti gli attori, che hanno saputo abilmente tener testa ad un copione impervio e non sempre fluido, tanto più trasmettere un messaggio disarmante qual è quello di “Così è (se vi pare)”; inoltre, enfatizzare i vari vizi borghesi ha permesso al pubblico di cogliere al meglio la velata ironia pirandelliana. Il loro merito e la loro bravura sono stati riconosciuti anche dalla critica, che ha gratificato il laboratorio teatrale con il premio “Dino Lavagna”, nella sezione scuole superiori, all’interno della rassegna “Il teatro dei ragazzi” 2015, organizzata dal Comune di Alba e dal Teatro Sociale “Giorgio Busca”, in collaborazione con la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus. Andrea Apicella, III B Susanna Coarezza, III B
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23 maggio 2015, sabato pomeriggio. Nel cuore del risveglio primaverile che ci scuote dal gelido torpore invernale, anche la nostra anima sembra più propensa a fresche, vibranti emozioni. Paradossalmente, questa occasione ci è stata offerta dalla poesia, arte ormai relegata, nell’immaginario comune, all’apprendimento nozionistico e antiquato di una scuola di stampo ottocentesco; eppure, i ragazzi del Liceo Classico di Alba, abilmente diretti dal professore Luca Franchelli, hanno saputo accendere, nell’ingente pubblico (secondo i registri più di trecento persone), un nuovo interesse per questo genere letterario tanto trascurato in tempi moderni.
Il progetto, intitolato “Poesie di Poesie”, prevedeva un breve ma significativo percorso itinerante in diversi ambienti scolastici: scendendo dalle aule ai sotterranei, per poi risalire e assistere alla recitazione dell’ultimo componimento nel cortile esterno, gli spettatori si sono mossi in una sorta di νεκύια che si è aperta con la granitica perentorietà dei Sepolcri foscoliani e si è conclusa con A Dio di Vittorio Gassman, grande inno alle più profonde incertezze umane.
Per questo emozionante cammino letterario, il regista e professore Franchelli ha accuratamente selezionato le poesie più emblematiche di Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Saba e Montale; nonostante la decisione consapevolmente rischiosa di presentare le opere “senza alcun filtro didattico, nella loro purezza e autenticità”, la bravura degli attori e alcune acute scelte registiche hanno permesso al pubblico eterogeneo di sfondare la complessità dei testi e accedere alla loro più profonda essenza comunicativa. Ad esempio, la recitazione spiccatamente teatrale dell’impegnativa Digitale purpurea di Pascoli, con due ragazze nei panni di Maria e Rachele di cui è stato riproposto il dialogo, ha travolto gli spettatori con un pathos pregno della sessualità problematica e repressa del poeta.
Nella rappresentazione dell’Amica di nonna Speranza di Gozzano, invece, l’estetica dal basso dell’autore è stata rievocata tramite una fotografia incorniciata, buona cosa di pessimo gusto che ha permesso di esemplificare la sottile ironia gozzaniana.
A metà circa del percorso, è stato inserito un piacevolissimo intermezzo musicale in cui due studenti hanno, con una coinvolgente complicità di sguardi e cenni, unito i suoni classici di un violoncello e un pianoforte ai ritmi rock di November Rain (Guns’n’Roses), Yesterday (Beatles) e
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Follow you, follow me (Genesis). Con questi brani che hanno fatto la storia della musica, il regista ha voluto creare un singolare contrasto con la poesia italiana di cui il pubblico era ebbro, ma anche instaurare un contatto generazionale fra ragazzi e genitori.
A questo momento è seguita l’epifanica recitazione dei testi di Montale: la delicatezza con cui essi sono stati interpretati e la location – gli antichi sotterranei del liceo, illuminati da una luce soffusa – hanno instillato in tutti la dolcissima illusione di veder spuntare veramente, da dietro una colonna scalcinata, un angelo nero spazzacamino.
Infine, tornati alla luce dopo un viaggio nelle disilluse speranze montaliane, siamo stati sorpresi dall’interpretazione del professor Franchelli stesso, il quale ha voluto concludere questo percorso con una breve ma intensa poesia di Vittorio Gassman, A Dio, che ci ha elevato ad una riflessione sul punto di incontro fra la nostra quotidianità e l’assoluto.
Montale avrebbe probabilmente annoverato questo intenso pomeriggio fra i suoi pochissimi barlumi, quei rari momenti in cui veramente viviamo; io desidero concludere la mia riflessione con una frase del professor Franchelli: “a scuola facciamo tanto, ma fuori rimane un mondo intero da scoprire”, perché il Liceo ci fornisce gli strumenti per cercarli, ma poi spetta a noi cogliere i barlumi della nostra esistenza.
Giulia Graziano, IIIB
POESIE DI POESIE
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Cinque giorni all’insegna dello studio per i ragazzi della seconda liceo sezione internazionale del Liceo Classico Govone di Alba. Ben 17 le ore passate in classe nel prestigioso Centro Internazionale di Valbonne dall’1 al 5 giugno in compagnia di professori del Lycée International per approfondire la conoscenza della lingua attraverso corsi di storia e di letteratura francese, accompagnati dalle loro professoresse Marie Huot e Marie-‐France Bousquet. Gli studenti hanno avuto la possibilità di compiere uno splendido viaggio nella poesia con la professoressa Ndouma tramite autori francesi di epoche diverse, dal XVI al XX secolo, come Ronsard, Lamartine, Rimbaud, Vian, Aragon. Inoltre hanno assistito agli interessanti corsi del professore di storia Cazaux sulle tematiche della Seconda Rivoluzione Industriale e sulla Colonizzazione. Lavoro utile non solo per scoprire l’importanza e il ruolo della poesia, espressione dei sentimenti ma anche impegno politico e sociale, o per approfondire alcuni periodi storici di estrema rilevanza, ma anche per prepararsi all’Esabac, ovvero alla maturità in francese che gli allievi del Govone dovranno affrontare il prossimo anno, dato che durante la loro permanenza a Valbonne hanno avuto di modo di svolgere prove molto simili a quelle a cui saranno sottoposti il prossimo giugno. Ma c’è di più, oltre al faticoso ma stimolante lavoro con professori madrelingua, i ragazzi hanno sperimentato a 360 gradi la vita di uno studente francese dormendo in una sorta di college, forse non proprio munito di tutti i comfort ma che ha
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comunque permesso loro di misurarsi con una realtà molto vicina a quella universitaria, visto che i bagni erano in comune e non sempre era facile organizzare i turni per la doccia, e mangiando con gli altri studenti a mensa, dove peraltro il cibo non era niente male. Non bisogna però dimenticare che i ragazzi si sono divertiti molto visitando nei pomeriggi liberi le bellissime città della Costa Azzurra come Antibes, Cagnes-‐sur-‐mer e Nizza, facendo shopping, giocando sulla spiaggia, facendo lunghi bagni nel mare cristallino, organizzando partite serali di calcio o assaporando i prodotti tipici, come successo l’ultima sera quando la compagnia ha cenato in una crêperie di Cagnes gustando le sfiziose crêpes e assaggiando il sidro di mela. Si dichiarano infatti tutti molto soddisfatti per questa settimana di scuola “alternativa” e di vacanza, in primis gli studenti e le professoresse per il lavoro fatto e per il bel tempo passato insieme, ma anche gli stessi professori di Valbonne, tra cui la simpaticissima professoressa Ndouma, che alla fine del corso ha richiesto una foto della classe per poterla mettere insieme a quelle dei suoi alunni. E se è vero che <<nulla sviluppa l’intelligenza più del viaggio>> come diceva Emile Zola, quest’esperienza è stata sicuramente utile per migliorare la propria conoscenza del francese, ma anche le proprie capacità di sapersi adattare ad un tipo di scuola differente dal nostro, senza dimenticare l’aspetto del divertimento, che non è mai mancato.
Lorenzo Germano, IIC
STUDENTI FRANCESI PER UNA
“SEMAINE”