Post on 15-Feb-2017
Università degli studi di Napoli “Federico II” Dipartimento di Farmacia
Corso di laurea specialistica in
FARMACIA
TESI DI LAUREA SPERIMENTALE IN TECNOLOGIA FARMACEUTICA
Preparazione ed ottimizzazione di nanocapsule biostabili per applicazioni di smart delivery
-
Preparation and optimisation of biostable nanocapsules for smart drug delivery applications
Relatore Candidato Prof. Antonio Calignano Luigi Angelillo Matr. 511004916 Correlatore Dr. Raffaele Vecchione
Anno accademico
2014/2015
Indice
1. Introduzione
1.1 Introduzione ai Drug Delivery Systems (DDSs)
1.2 Drug Delivery Nano Systems ( DDnSs)
1.3 La tecnica Layer-by-Layer
1.4 Biostabilità in ambiente fisiologico e citotossicità dei sistemi LbL
1.5 Applicazioni in medicina
1.6 Scopo del lavoro
2. Materiali e Metodi
2.1 Materiali
2.2 Depolimerizzazione del chitosano
2.3 Sintesi del chitosano-iminotiolano
2.4 Sintesi di eparina-allilamina
2.5 Preparazione delle nanocapsule con tecnica LbL
2.6 Ellman’s test per tioli liberi
2.7 Risonanza magnetica nucleare
2.8 Spettroscopia UV-Vis
2.9 Irradiazione UV delle nanocapsule
3. Risultati e Discussione
3.1 Funzionalizzazione con 2-iminotiolano
3.2 Funzionalizzazione dell’eparina
3.3 Preparazione delle nanocapsule
3.4 PEGilazione delle nanocapsule
3.5 Cross-linking delle nanocapsule
3.6 Studi di biostabilità
4. Conclusioni
5. Appendice: strumentazione e principi di funzionamento
5.1 Dynamic Light Scattering (DLS)
5.2 Spettrofotometrometro
5.3 Nuclear Magnetic Resonance (NMR)
5.4 Viscosimetro Ubbelohde
Bibliografia
1. Introduzione
1.1 Introduzione ai Drug Delivery Systems (DDSs)
Il drug delivery (rilascio del farmaco) riguarda lo sviluppo di sistemi
alternativi per “indirizzare” i farmaci nell’organismo ed ha come obiettivo
quello di circoscrivere l’effetto biologico su una determinata tipologia di
popolazione cellulare, migliorando l’efficacia e riducendo la tossicità della
terapia. 1
L’idea di base si fonda sulla possibilità di somministrare al paziente il
farmaco in maniera predeterminata.
I sistemi di drug-delivery possono avere dimensioni macro (>1mm), micro
(100-0.1μm) o nano (100-1nm) e possono alterare la distribuzione dei
farmaci così come la cinetica; in alcuni casi inoltre consentono di avere una
riserva di molecole attive nel tessuto target per sostenere l’effetto
farmacologico nel corso del tempo.
Negli ultimi anni, la ricerca in questo campo ha conseguito enormi progressi,
grazie anche alla rapida crescita tecnologica che ha permesso lo sviluppo di
metodi alternativi di rilascio del farmaco, basati sulla nanotecnologia. La
somministrazione di agenti antitumorali, ormoni e vaccini ad esempio è stata
resa più sicura ed efficace, specie se comparata alle modalità convenzionali.
Negli anni, molti agenti terapeutici promettenti non hanno avuto successo a
causa della loro limitata abilità di raggiungere specificamente il tessuto
bersaglio. Ad esempio, nella chemioterapia antitumorale, i farmaci citostatici
danneggiano sia le cellule maligne sia quelle sane in fase di replicazione. Si
evince quindi la necessità di rilasciare in maniera mirata il farmaco solo nella
zona d’interesse. L’obiettivo dei drug delivery systems (DDSs) è di superare i
limiti associati alla terapia biomacromolecolare, che includono una breve
emivita plasmatica (a causa della clearance renale e del metabolismo
epatico), una bassa stabilità ed una potenziale immunogenicità, oltre a
mirare a massimizzare l’attività terapeutica e minimizzare gli effetti
collaterali. Quindi, il drug targeting verso una zona specifica è di 2
fondamentale importanza per migliorare l’efficienza dei trattamenti
antitumorali e può essere conseguita dai nuovissimi sistemi DDSs,
sfruttando la dimensione nanometrica del farmaco incapsulato e/o le
caratteristiche delle cellule bersaglio.
Esistono due tipi di targeting: il targeting attivo e quello passivo. Il targeting
passivo non altera la farmacocinetica del farmaco e sfrutta principalmente
l’effetto EPR (Enhanced Permeability and Retention): i tessuti tumorali sono
caratterizzati da un basso drenaggio linfatico e da un’ampia fenestrazione tra
le cellule endoteliali, così che l’alta permeabilità dei vasi sanguigni nel tessuto
malato consente al farmaco nano-incapsulato di passare, mentre la bassa
permeabilità dei vasi sanguigni nei tessuti sani ne previene il passaggio,
riducendo così la tossicità e gli effetti collaterali del farmaco.
Il targeting attivo invece, può essere raggiunto modificando il carrier: i
cambiamenti possono essere legati alla funzionalizzazione di superficie, per
esempio con anticorpi monoclonali, ligandi specifici (glicoproteine, polimeri
idrofilici) o folati, che sono stati spesso legati covalentemente ad un’ampia
gamma di carriers per il drug delivery (come liposomi, polimeri coniugati e
nanoparticelle) con l’obiettivo di incrementare l’uptake cellulare. In 3 4 5 6
effetti è stato appurato che i recettori per i folati, così come quelli della
transferrina, della biotina e dell’integrina, sono ampiamente espressi in
molte tipologie di tumore: così i ligandi possono essere coniugati ai copolimeri
anfifilici che possono essere usati come carriers. 7
Ulteriori strategie di “design” si basano sulla possibilità di allungare la breve
emivita sfruttando un coating di polimeri come il PEG (polietilen-glicole) che
ha proprietà anti-fouling; è così possibile evitare una rapida clearance e/o
l’opsonizzazione, che consiste nella deposizione di macromolecole chiamate
opsonine (macromolecole che, se rivestono un microrganismo, aumentano
enormemente l'efficienza della fagocitosi in quanto esse sono riconosciute da
recettori espressi sulla membrana dei fagociti) sul corpo estraneo, grazie alla
struttura ad ombrello che crea un carrier “stealth” (invisibile).
Si può inoltre progettare un carrier che degrada, rilasciando il composto
attivo, in seguito a cambiamenti di pH o di temperatura, e parleremo in
questo caso di un targeting fisico.
Nanosistemi promettenti e versatili per il drug delivery (DDnSs) includono
nanoparticelle, nanocapsule, nanotubi, nanogels e dendrimeri che vengono
sintetizzati con composizione, forma, dimensione e morfologia controllate,
così da incrementare la solubilità, l’immunocompatibilità e l’uptake cellulare
di un determinato farmaco. 8
L’esempio più lampante riguardo l’efficacia della riduzione delle dimensioni
riguarda la doxorubicina, antracicilina usata da sola o insieme ad altri agenti
chemioterapici per il trattamento di alcune forme di cancro e di metastasi al
seno. Il suo uso clinico è limitato dalla tossicità che può precludere un
adeguato dosaggio o portare a resistenza. L’accumulo di alti dosaggi aumenta
la probabilità di cardiotossicità, mentre dosi singole sono spesso limitate
dalla mielosoppressione. Alopecia, forte nausea e vomito sono alcuni degli
effetti collaterali che possono limitare la terapia con doxorubicina. Una
formulazione di questa molecola con un'efficacia comparabile e di maggiore
sicurezza ne aumenterebbe l’indice terapeutico e migliorerebbe il suo
beneficio clinico complessivo.
Recenti studi hanno dimostrato che la doxorubicina liposomiale PEGilata
(PLD, prodotto da Alza Corp. con il nome commerciale di DOXIL®) fornisce
un'efficacia comparabile alla doxorubicina, con significativa riduzione di
cardiotossicità, mielosoppressione, vomito ed alopecia. PLD è una 9
formulazione di doxorubicina in liposomi PEGilati a lunga emivita che cambia
drasticamente la farmacocinetica del farmaco e la biodistribuzione: sembra
che Doxil si accumuli preferenzialmente nei tessuti con maggiore
permeabilità microvascolare, che è il caso della maggior parte dei tumori con
neoangiogenesi attiva. 10 11 12
La doxorubicina è presente anche in altre formulazioni innovative: sono state
preparate micelle autoassemblanti a partire da un copolimero di PLGA
(copolimero dell’acido lattice e glicolico) e PEG coniugati con il farmaco ed il
folato, dove le frazioni di folato sono esposte sulla superficie micellare,
mentre il farmaco è fisicamente e chimicamente intrappolato nel nucleo delle
micelle. Le micelle di doxorubicina mostrano assorbimento cellulare
superiore rispetto alla DOX come tale, per via di un processo di endocitosi
mediato da un recettore per il folato che avviene in modo sito-specifico. 13
Queste scoperte suggeriscono che le tecnologie di somministrazione dei
farmaci innovativi rappresentano per i pazienti nuove aspettative di vita.
1.2 Drug Delivery Nano Systems (DDnSs)
Figura 1.1: gamma di nanodispositivi in scala. Il range dei nanodispositivi varia tra 10 e 100 nm. Nella figura le dimensioni di alcuni nanodispositivi vengono confrontate con oggetti di dimensioni diverse.
I sistemi di drug delivery mostrano contestualmente ad una riduzione delle
dimensioni (vedi Figura 1.1), caratteristiche diverse. Inoltre, possono essere
opportunamente trattati in superficie per ottenere determinate proprietà. In
sintesi:
•La variazione delle dimensioni influenza la biodisponibilità e l’emivita
plasmatica: somministrate a livello sistemico, particelle con diametro
variabile tra 70 e 200 nm dimostrano tempi di circolazione lunghi. Al
contrario, particelle con diametro inferiore a 70 nm possono penetrare
anche capillari molto piccoli; se poi sono inferiori a 10 nm sono per lo più
rimosse per stravaso e drenaggio renale. Particelle, invece, con diametro
superiore a 200 nm di solito sono sequestrate dalla milza e poi rimosse dai
fagociti.
•Le particelle piccole hanno rapporti superficie-volume elevati, il che
aumenta la velocità di dissoluzione delle particelle, superando problemi di
solubilità e di biodisponibilità limitata (se rivestite appropriatamente).
•La dimensione nano permette di attraversare le membrane cellulari.
•I DDS possono essere coniugati per il targeting di frazioni cellulari con lo
scopo di migliorare il rilascio mediato da recettori e possono anche essere
modificati per ottenere un targeting intracellulare efficace verso organelli
specifici, come particelle anioniche e cationiche che vengono trattenute, a
loro volta, nei lisosomi o nei mitocondri.
•E’ possibile decorare i DDS al fine di migliorarne emivita e biocompatibilità:
il metodo più consolidato è la PEGilazione, che nasconde l'agente al sistema
immunitario dell'ospite, aumentandone la dimensione idrodinamica,
prolungandone l’emivita plasmatica e riducendone la clearance renale.
•Molte proprietà dei DDnSs, tra cui dimensioni, peso molecolare, carica
superficiale, forma, tecniche di preparazione e di incapsulamento, possono
essere personalizzate per applicazioni specifiche.
•I DDS possono essere concepiti per regolare la cinetica di rilascio e/o la
biodistribuzione e minimizzare gli effetti collaterali tossici, migliorando così
l'indice terapeutico di un daterminato farmaco.
Segue una breve descrizione sui DDnSs più utilizzati (Figura 1.2):
Figura 1.2: esempi di DDnSs. a) Fullerene b) Nanotubi di carbonio c) Micelle d) Liposomi e) Dendrimeri f) Nanoparticelle g) Nanocapsule h) Polimero funzionale.
I dendrimeri sono macromolecole altamente ramificate con un’architettura
tridimensionale controllata, vicina al monodisperso; la crescita della
macromolecola parte da un nucleo centrale e procede verso l'esterno con una
serie di reazioni sequenziali, con dimensioni che variano da pochi nanometri
(10 nm) fino a 100 nm, a seconda dello stadio, da 0 al sesto. Variazioni nelle 14
proprietà chimico-fisiche, come la viscosità, la solubilità, la rigidità, la
densità, ecc, si verificano attraverso l’aumento del peso molecolare nel corso
delle varie generazioni. Agenti terapeutici e diagnostici possono essere 15
caricati sia all'interno dei dendrimeri come pure legati alla superficie, come
nel caso di frazioni di acido α-sialinico, formando composti che sono
altamente attivi nell'inibire l’emoagglutinazione di eritrociti umani da virus
dell’influenza. I dendrimeri sono stati testati come agenti nella boron 16
neutron capture therapy, che rappresenta un metodo per il trattamento delle
forme attualmente incurabili di cancro, e sono stati applicati anche in terapia
genica. Essi possono rilasciare farmaci in siti specifici, proteggendoli 17 18 19
dall'ambiente esterno e riducendo gli effetti collaterali avversi: per esempio il
5-fluorouracile (5-FU) è noto per avere notevole attività anti-tumorale, ma ha
effetti collaterali tossici elevati. Dendrimeri PAMAM, dopo acetilazione,
possono formare coniugati dendrimero-5FU che, per idrolisi, rilasciano 5FU
libera, riducendo così al minimo la tossicità. VivaGelTM, è un prodotto della 20
nanotecnologia attualmente in commercio: il principio attivo è SPL7013, un
dendrimero che è stato progettato specificamente per avere attività
antivirale per HIV e HSV, ma che al tempo stesso non fosse risultato dannoso
per la salute umana.
Le micelle sono formate in soluzione come aggregati in cui le molecole
componenti (ad esempio di tipo anfifilico AB o tipo copolimeri a blocchi ABA,
dove A e B sono componenti idrofobici e idrofili, rispettivamente) sono
generalmente disposte in una struttura sferoidale con il nucleo idrofobico al
riparo dall'acqua grazie ad un manto di gruppi idrofilici. Questi sistemi
dinamici, generalmente inferiori a 50 nm di diametro, sono utilizzati per il
rilascio sistemico di farmaci insolubili in acqua. Farmaci o mezzi di contrasto
possono essere intrappolati fisicamente nei nuclei idrofobici o possono essere
legati covalentemente a molecole che compongono le micelle. Le micelle si 21
formano quando la concentrazione di tensioattivo raggiunge un certo livello
critico, chiamato concentrazione micellare critica (CMC) ad un valore di
temperatura specifico (CMT): quando il tensioattivo supera la CMC, agisce
come un emulsionante. L'efficacia di rilascio del farmaco da micelle
polimeriche può essere migliorata coniugando ligandi di targeting, tra cui gli
anticorpi, sulla superficie micellare: a questo proposito, Torchilin et al. hanno
formulato micelle polimeriche anticorpo-coniugato ad azione antitumorale
(immunomicelle), incapsulando il Taxolo, insolubile in acqua, all'interno del
nucleo idrofobico delle micelle, che vengono efficacemente riconosciute e
legate dalle cellule tumorali in vitro, cedendo loro alte concentrazioni di
farmaco. Nonostante la loro semplicità, questa caratteristica rappresenta 22 23
anche il principale limite nell’essere realmente efficaci contro il tumore, che
richiede lo sviluppo di sistemi più complessi e multifunzionali.
Ritratto di Luca Pacioli (1495)
Fullereni e nanotubi di carbonio sono allotropi sintetici del carbonio con
proprietà che li rendono potenzialmente utili in un ampio campo di
applicazioni. I fullereni sono composti interamente da carbonio assemblati 24
in forma di sfera cava o di ellissoide, la cui parete è costituita da un foglio
dello spessore di un atomo di carbonio, e possono essere impiegati nella
somministrazione di farmaci, dopo aver legato sulla superficie il composto
attivo. I nanotubi di carbonio sono costituiti da fogli di grafite arrotolati in
una forma tubolare, e possono essere ottenuti sia a singolo foglio
(caratterizzati dalla presenza di un unico foglio di grafene) che multi-strato
(formati da diversi fogli di grafene concentrici). Il diametro e la lunghezza dei
nanotubi a parete singola possono variare tra gli 0,5-3,0 nm ed i 20-1000 nm,
rispettivamente. Le dimensioni corrispondenti per i nanotubi a parete
multipla sono 1,5-100 nm e 1-50 micron, rispettivamente. I nanotubi di
carbonio possono essere resi solubili in acqua tramite funzionalizzazione
superficiale. Essi possono apparentemente attraversare la membrana
cellulare come “nanoaghi” senza sconvolgere o disgregare la membrana e
localizzarsi nel citosol e mitocondri mediante un meccanismo scarsamente
compreso. Inizialmente i nanotubi di carbonio si sono rivelati potenzialmente
tossici per la salute umana, tuttavia ricerche successive hanno mostrato
come ancora molto debba essere compreso su questi sistemi: studi in vitro su
cellule del Kupffer in colture 2D e 3D (colture cellulari tessuto-mimetiche)
non hanno mostrato alcuna citotossicità dopo 24h sui modelli 3D, al
contrario dei modelli 2D, dove grosse tracce di nanotubi erano riscontrabili
all’interno delle cellule.
I liposomi sono vescicole create sulla base di molecole fosfolipidiche
organizzate in bilayer, le stesse molecole che compongono le membrane
cellulari. I fosfolipidi sono anfipatici, cioè parte della loro struttura è idrofila e
parte è lipofila. Pertanto, quando aggiunti all'acqua, la parte idrosolubile dei
fosfolipidi interagisce con l'acqua e quella lipofila la evita, formando così un
bilayer. Questo si estende in acqua per formare un foglio che poi si ripiega in
un liposoma. I SUVs (small unilamellar vescicles) sono caratterizzati da un
unico doppio strato intrappolato nello spazio acquoso che lo circonda, così
come i LUVs (large unilamellar vescicles), che differiscono solo per le
dimensioni: il diametro dei SUVs è inferiore a 100 nm, mentre quello dei
LUVs è più grande di 100 nm. I liposomi possono anche contenere strati
concentrici di lipidi, detti liposomi multilamellari, o più liposomi possono
essere formati all'interno di grandi liposomi. Una proprietà importante dei
liposomi è che le molecole non idrosolubili, come i farmaci lipofili, possono
essere intrappolate nella porzione lipidica del doppio strato, mentre quelle
solubili in acqua possono essere intrappolate nello spazio acquoso. Di
conseguenza, essi possono essere utilizzati come vettori per tutti i tipi di
molecole, o anche per una loro combinazione. Aspetto importante dei
liposomi è la loro stabilità nel tempo: essa dipende dal composto bioattivo, dai
fosfolipidi componenti (questi vanno incontro ad idrolisi e/o auto-ossidazione,
che possono, tuttavia, essere rallentate utilizzando agenti chelanti,
antiossidanti o tocoferoli), da variazioni di dimensioni e dalla capacità di
ritenzione del farmaco incapsulato. La loro superficie può essere decorata
anche al fine di migliorare ulteriormente le prestazioni, ad esempio
PEGilandoli (liposomi stealth). I liposomi consentono un drug-targeting verso
siti specifici evitando effetti collaterali avversi, proteggendo il farmaco
dall'ambiente esterno, fornendo un aumento dell’attività e diminuendo la
frequenza delle somministrazioni. Il vantaggio del loro utilizzo è legato alla
loro biocompatibilità, alla biodegradabilità ed alla possibilità di diverse
formulazioni che estendono la versatilità delle applicazioni. Ci sono molti
esempi di farmaci già disponibili sul mercato preparati in forme liposomiali,
come il già citato Doxil®, ma anche AmBisome® (Amfotericina B liposomiale,
utilizzata per infezioni fungine) e Lacrisex® (collirio a spray liposomiale con
Vitamina A ed E). Uno dei principali problemi dei liposomi è l’instabilità in
vivo ed il rapido riconoscimento da parte del sistema immunitario. Le
principali limitazioni nel loro uso comprendono l’elevato costo di produzione
(PEGilazione, ottimizzazione dei processi di incapsulamento del farmaco
ecc.), la rapida ossidazione di alcuni fosfolipidi ed effetti collaterali, come nel
caso della sindrome mano-piede causata da uno stravaso incontrollato.
Le nanoparticelle polimeriche sono vettori colloidali generalmente di forma
sferica per il rilascio di farmaco in siti specifici, con diametro da 10 nm a 300
nm, e possono essere idrofili o idrofobi. Il composto bioattivo può essere
incapsulato al loro interno per evitare l’eventuale degradazione enzimatica o
chimica, o può essere adsorbito sulla superficie, anche se svantaggioso per la
mancanza di protezione del farmaco dall'ambiente esterno. I polimeri come i
poli-alchilcianoacrilati, i poli-esteri (acido polilattico e derivati), le poli-
anidridi, l’albumina e gli alginati possono essere impiegati per costruire
nanoparticelle e, a seconda delle loro proprietà e delle caratteristiche
chimico-fisiche del farmaco, è possibile scegliere il metodo di preparazione
più appropriato. Il meccanismo di rilascio, che può avvenire per
desorbimento dalla superficie, per diffusione dalla matrice polimerica, per
diffusione o erosione della matrice, insieme al coefficiente di diffusione del
farmaco e la velocità di degradazione della matrice, sono i principali fattori
che regolano la velocità di rilascio. E’ possibile, come per altri DDnSs, fissare
sulla loro superficie ulteriori funzionalità per sintetizzare nanoparticelle
biomimetiche: frazioni del target (folato, transferrina, sequenze peptidiche),
anticorpi (trastuzumab, antigene prostatico specifico), peptidi carrier o PEG
(nanoparticelle stealth). Alcuni tipi di nanoparticelle, note come SLN (solid
lipid nanoparticles), sono realizzate a partire da lipidi solidi a temperatura
ambiente, tensioattivi ed acqua; un potenziale vantaggio è l'uso di lipidi
fisiologici che hanno bassa citotossicità con un ampio spettro di potenziali
applicazioni (cutanea, orale, endovenosa). Inoltre, un ulteriore vantaggio è di
evitare di utilizzare solventi organici durante la loro preparazione, che viene
effettuata attraverso un metodo di omogeneizzazione ad alta pressione.
Conseguentemente, ci sono alcuni esempi di nanoparticelle polimeriche che
mostrano una distribuzione di dimensioni molto stretta.
Recentemente, le nanocapsule si sono dimostrate come una delle forme di
DDnSs più innovative e di potenziale grande successo: esse sono costituite da
un nucleo interno, che agisce come un "reservoir" per il composto attivo, ed
un involucro esterno. La composizione del rivestimento esterno in
particolare, è decisiva nel decretare la loro stabilità e la risposta fisiologica
primaria. La preparazione delle nanocapsule può essere ottenuta mediante 25
deposizione interfacciale, polimerizzazione interfacciale, precipitazione
interfacciale, strato-deposizione layer-by-layer e procedure di auto-
assemblaggio. Strati polielettrolitici, creati tramite deposizione layer-by-
layer, offrono diversi vantaggi, tra cui il controllo delle proprietà di
superficie, lo spessore della membrana e le cinetiche di rilascio. Poiché 26
questi strati possono assumere sia lo stato aperto che quello chiuso, in
risposta a condizioni ambientali come la temperatura ed il pH, vari materiali
possono essere facilmente caricati e rilasciati. Esempi comprendono 27
farmaci, enzimi, acidi nucleici e coloranti. 28
Nanosistemi chimerici di drug delivery avanzato (chi-aDDnSs) possono
essere definiti come nanosistemi misti dovuti alla combinazione di
bionanomateriali che possono offrire vantaggi nel trasportare farmaci.
Dendrimeri e liposomi, per esempio, hanno le caratteristiche per essere
utilizzati assieme per produrre un unico nanocarrier chiamato liposomal
locked-in dendrimer (LLD). Tali nanovettori sono stati classificati come
sistemi chimerici avanzati grazie all'unione di due tecnologie indipendenti
per la produzione di un sistema unico con proprietà impareggiabili che
potrebbero avere vantaggi rispetto ai vettori liposomiali convenzionali.
Importanti vantaggi di tali formulazioni sono l'aumento della quantità di
farmaco incapsulabile nel sistema, importante per i costi di preparazione e
anche per gli effetti collaterali legati al carrier, e la modifica del rilascio del
farmaco dal chi-aDDnS rispetto a quello della formulazione liposomiale che
porta ad un più elevato indice terapeutico. Così come il dendrimero agisce da
modulatore per la velocità di rilascio del farmaco incapsulato (come la Dox), i
chi-aDDnSs appartengono alla categoria dei nanosistemi modulatori a
rilascio controllato (MCRnSs). 29
1.3. La tecnica Layer by Layer
Come evidenziato nel paragrafo precedente, tra i sistemi per il drug-delivery
risultano essere molto interessanti le nanocapsule, soprattutto per la
possibilità di sfruttare un sistema “reservoir”. Uno dei metodi per ottenere
questo tipo di sistemi, è il metodo Layer by Layer (LbL). Questo metodo è
stato utilizzato in una vasta gamma di applicazioni per formare film
multilayer su superfici planari, cellule biologiche e particelle colloidali; ha
aperto la strada a molte applicazioni, compresa la produzione di nanocapsule.
Nella tecnica di deposizione elettrostatica LbL (Figura 1.3) uno strato
polielettrolitico è adeso su una superficie carica per via della forte attrazione
elettrostatica tra la superficie ed il templante di carica opposta.
A seconda della loro natura, è possibile classificare nanocapsule cave, cioè
preparate con un modello colloidale sacrificale, e nanocapsule a core liquido,
costruite su goccioline di emulsione. Il diametro delle nanocapsule cave varia
da 200 nm a pochi micron e sono costituite da due diversi compartimenti:
l’involucro multilayer e la cavità. L'involucro è costruito attraverso
l’adsorbimento consecutivo di specie di carica opposta attorno ad un modello
sferico carico ed è tenuto insieme dalle forti forze elettrostatiche che
avvengono tra ogni strato componente. La cavità, che si ottiene dopo la
rimozione del templante sacrificale, rappresenta il volume principale delle
capsule in cui possono essere incapsulati una serie di materiali, dalle
micromolecole alle macromolecole, proteggendo così il contenuto instabile
dall'ambiente circostante ostile, aumentando anche la biodistribuzione e la
solubilità. Possono essere scelti modelli organici, come il polistirene, la
melammina formaldeide ed il diossido di silicio, come pure modelli inorganici
quali MnCO3, CaCO3 e CdCO3: i nuclei vengono successivamente rimossi per
dissoluzione con una soluzione acida o acquosa, rispettivamente. 30 31
Figura 1.3: rappresentazione della tecnica LbL. 32
La scelta del nucleo iniziale influenza significativamente le proprietà delle
capsule così come la loro distribuzione dimensionale e la strategia utilizzata
per caricare le molecole attive, come coloranti e farmaci, all'interno delle
cavità. Per esempio, capsule basate su nuclei organici sono tipicamente
caratterizzate da una buona monodispersità e le loro cavità possono essere
riempite dopo la dissoluzione del nucleo cambiando la permeabilità del
multilayer attraverso variazioni di pH, polarità del solvente, forza ionica o
temperatura (metodo post-caricamento). Invece, capsule basate su nuclei
inorganici porosi, come i cristalli di carbonato, possono essere caricate
direttamente miscelando le molecole cargo con i templanti porosi, ed in
seguito rivestendole con il metodo LbL con coppie di polielettroliti (metodo
pre-caricamento). Poichè dopo il processo di dissoluzione alcuni oligomeri del
nucleo originale possono rimanere parzialmente adsorbiti all’involucro,
capsule basate su templanti biocompatibili, come la CaCO3 porosa, la silice
mesoporosa o le microparticelle di polilattidi (PLGA, PLA, ecc), sono
tipicamente preferiti, specialmente per applicazioni biologiche.
Accanto alla scelta del nucleo, anche la scelta dei componenti degli strati è di
fondamentale importanza nell'assemblaggio con metodo LbL poiché influenza
direttamente la biocompatibilità e la biodegradabilità delle capsule all'interno
degli organismi viventi. Da un lato, capsule realizzate con componenti
dell’involucro biodegradabili intracellularmente, come poli-aminoacidi (ad
esempio poli-L-arginina), polimeri sintetici o chitosano sono molto utili per
applicazioni biomediche correlate al rilascio di composti attivi come geni,
proteine o farmaci all'interno di organismi viventi. D'altra parte,
polielettroliti biocompatibili ma non “facilmente” degradabili sono necessari
per altre applicazioni come il rilevamento intracellulare, vale a dire la
determinazione della concentrazione ionica intracellulare di diversi
organelli. Per tali applicazioni i polielettroliti sintetici biocompatibili come il
sodio polistirene solfonato (PSS), la poli-allilamina cloridrato (PAH) ed il poli-
diallil-dimetil-ammonio cloridrato (PDADMAC) sono stati ampiamente
utilizzati fino ad oggi. 33
Nanocapsule a nucleo liquido sono assemblate attraverso l’adsorbimento di
specie con carica opposta su un modello liquido, generalmente un’emulsione
O/W, stabilizzata con tensioattivi. Rispetto alle nanocapsule cave, il nucleo
liquido non viene rimosso, ma può essere utilizzato per solubilizzare farmaci
lipofili. L'uso di goccioline di emulsione come nucleo liquido dà la possibilità di
controllare la dimensione e le proprietà dell’involucro del componente
solubile in olio, aprendo la strada per molte applicazioni, specie nell’ambito
della farmaceutica e della medicina. La scelta del nucleo liquido dipende dalla
solubilità del farmaco e, generalmente, è composto da trigliceridi a catena
media o anche da solventi organici immiscibili con soluzioni acquose. Anche
la scelta del tensioattivo è importante, soprattutto per la stabilità e l'ulteriore
deposizione di strati, così come la scelta del polimero che compone lo stesso
involucro. Per la promettente applicazione nel campo del drug delivery,
polielettroliti biocompatibili e non tossici rappresentano la condizione
fondamentale. Quindi, i biopolimeri, come l'eparina, il chitosano, l’alginato di
sodio, il solfato di destrano ed il DNA, sono i candidati più promettenti.
Inoltre, sia nelle nanocapsule cave che in quelle a nucleo liquido, l’involucro
multilayer può essere modificato caricando simultaneamente nanoparticelle
inorganiche cariche per rendere le capsule sensibili a particolari stimoli
esterni; infine la superficie delle capsule può essere decorata per renderle
low-fouling, tramite l'adsorbimento di uno strato a base di PEG, o per renderle
ad azione mirata, legandoci elementi di riconoscimento specifici. 34
1.4. Biostabilità in ambiente fisiologico e citotossicità dei sistemi LbL
Uno dei principali problemi dei sistemi carichi è che sono facilmente eliminati
dall'organismo per mezzo dell’adsorbimento di proteine sieriche
(opsonizzazione) e successiva fagocitosi. Il legame covalente di PEG (poli-
etilenglicole) o altri polimeri idrofili sulla superficie di vari sistemi carrier ha
mostrato una riduzione del loro assorbimento non specifico dalle cellule
(comprese le cellule del sistema dei fagociti mononucleati) grazie alle loro
incrementate proprietà di low-fouling. 35 36 37 38
Poiché le principali forze stabilizzanti le capsule di polielettroliti sono le
interazioni elettrostatiche, il legame di una corona di PEG alla superficie della
capsula deve essere effettuato partendo da un precedente legame di PEG a
sostanze altamente caricate come polielettroliti. In questo modo, i PEG
modificati possono essere fortemente e stabilmente legati a superfici cariche
tramite interazioni elettrostatiche.
Modificare la superficie di capsule formate da strati di polielettroliti
aggiungendo un polielettrolita, poli-L-Lisina-graft-PEG, è stata una strategia
di successo per resistere all’adsorbimento di proteine e quindi
all’opsonizzazione. Come già accennato, le forze principali che 39 40 41 42
stabilizzano sistemi assemblati via LbL sono le interazioni elettrostatiche. Ciò
rende tali sistemi molto sensibili alle condizioni ambientali come variazioni
della forza ionica del mezzo o di temperatura e pertanto suscettibili al
disassemblaggio. Anche se i sistemi assemblati in questo modo possono
essere adattati per sfruttare queste proprietà, per alcune applicazioni
biomediche questa può essere una limitazione importante.
Approcci recenti hanno sviluppato capsule la cui sintesi unisce
l’assemblaggio attraverso forze elettrostatiche via LbL ed il cross-linking
covalente tramite click-chemistry. Questo approccio versatile ha diversi 43
vantaggi: 1) i polielettroliti a bassa carica possono essere ora incorporati al
sistema LbL; 2) gruppi legati che non hanno reagito possono essere
facilmente post-reticolati; 3) grazie alle condizioni miti e non nocive della
click-chemistry, anche sostanze sensibili (molecole attive facilmente
denaturalizabili come proteine ed acidi nucleici) possono essere veicolate. 44
Tuttavia, la post-reticolazione della superficie delle capsule è ancora un
importante caratteristica sotto investigazione.
La maggioranza delle reazioni di click-chemistry riportate in letteratura sono
catalizzate dal rame, che determina gli effetti citotossici, anche se di recente
è stato sviluppato un approccio senza catalizzatore metallico per introdurre
gruppi funzionali al multilayer delle capsule. 45
Per quanto riguarda la citotossicità delle capsule, anche se non ancora ben
studiata, le principali fonti di tossicità sono costituite ovviamente dai
polielettroliti che compongono la parete nonché dal tipo di funzionalizzazione
incorporata nella cavità e/o nella parete. L’effetto citotossico delle capsule è 46
principalmente legato alla concentrazione ed è tempo-dipendente. 47 48
Inoltre, le proprietà chimiche intrinseche del polielettrolita carico
positivamente (policatione) si sono rivelate efficaci nell’attivare la morte
cellulare mitocondriale-mediata (apoptosi/necrosi). Grazie alla loro 49 50
carica positiva, i policationi causano danni alla membrana cellulare con
conseguente attivazione di una segnalazione che termina in depolarizzazione
mitocondriale e generazione di specie reattive dell'ossigeno (radicali) che
portano a morte cellulare. A questo proposito, peso molecolare e densità di
carica cationica dei policationi sono altri parametri fondamentali per
l'interazione con la membrana cellulare e la citotossicità. Inoltre, i 51 52
policationi contenenti funzionalità poli-aminiche possono comportare un
aumento delle interazioni con componenti anioniche intracellulari,
condizione che pure conduce a morte cellulare. A questo proposito, una 53
riduzione della citotossicità potrebbe essere ottenuta utilizzando materiali
che sono già presenti nelle cellule come lipidi e proteine (poli-anioni
naturali).
A causa del loro carattere anfifilico, i lipidi cellulari possono aggregare in
soluzione acquosa in strutture sferiche chiuse a doppio strato a causa delle
interazioni idrofobiche. Quando la soluzione acquosa contiene una proteina
carica, un processo di auto-assemblaggio che combina interazioni
elettrostatiche e forze idrofobiche avviene all'interfaccia immiscibile. Il
risultato è l'adsorbimento di proteine e lipidi sull'interfaccia di goccioline di
emulsione e la formazione di un involucro multilayer elastico. Nonostante 54
la compatibilità di queste capsule biomimetiche ed il potenziale di
incorporare funzioni molecolari di canali o recettori, l'approccio principale di
questa tecnica rimane il controllo della dimensione delle capsule e la
degradazione indesiderata del sistema.
1.5 Applicazioni in medicina
Uno dei possibili contributi alla medicina delle capsule multilayer via LbL è il
loro uso come sistemi carrier multifunzionali biocompatibili, sensibili alla
guida a distanza ed all'attivazione per il rilascio locale di molecole
trasportate all'interno del bersaglio (cellule/tessuti). Grazie all'elevata 55
versatilità della tecnica LbL, non solo possono essere caricate le molecole
idrofile, ma anche quelle idrofobiche (come molti farmaci), superando così gli
ostacoli di idrofobicità. 56
Ad oggi è un dato di fatto che le capsule multilayer polielettrolitiche di varie
dimensioni (dai nanometri ai micrometri) sono internalizzate dalle cellule. 57
L’incorporazione delle capsule avviene spontaneamente ed è cellula-58
aspecifico. Pertanto, è necessaria l'aggiunta di polimeri low-fouling con
proprietà proteina-repellente, oltre a funzioni di targeting specifiche, per
progettare nuovi veicoli per la somministrazione mirata di farmaci in vivo.
Ad esempio, microcapsule rivestite con uno strato di polielettrolita PEGilato
hanno dimostrato di sfuggire alla clearance del sistema fagocitico
mononucleato. 59 60 61
Come precedentemente descritto, il rilascio del carico da parte delle molecole
può verificarsi per esposizione a stimoli esterni (ad esempio, trattamento con
luce o ultrasuoni) o, più difficilmente, in base alle condizioni dell'ambiente
locale (cioè intracellulare). Farmaci antitumorali come la doxorubicina 62 63
hanno dimostrato di essere rilasciati dopo variazioni del pH di una
soluzione. Poiché la posizione delle capsule sembra essere in compartimenti 64
acidi, scegliendo i giusti materiali che forniscono un buon compromesso tra
rigonfiamento e rigidità, i farmaci possono essere liberati dalle capsule nel
tempo in un modo controllato auto-regolato dalle condizioni intracellulari. 65
Il basso pH delle vescicole acide dove le capsule vengono trasportate causa
rigonfiamento del multilayer con un rapido rilascio iniziale di farmaco a
causa delle elevate differenze nella concentrazione del farmaco fra la massa e
la cavità della capsula, seguito da un plateau. Il rilascio può continuare per 66
un certo periodo di tempo fino alla degradazione della capsula o fino a che
l'intera quantità di farmaco è stata rilasciata. Studi in vivo hanno dimostrato
che ciò potrebbe essere possibile utilizzando polielettroliti biodegradabili
DOX-caricati legati ad intervalli a templanti di cellulosa “doped” CaCO3-
carbossimetilata (CMS). Dopo la rimozione chimica del CaCO3, CMS forma un
complesso con DOX e viene stabilizzata nella cavità della capsula. L’iniezione
diretta delle capsule caricate nella sede di tumore in un topo, ha portato ad
un rilascio prolungato di DOX per 4 settimane, probabilmente a causa di un
processo termodinamico non favorevole a pH basso, e ha comportato una
riduzione del tumore. 67
L’approccio LbL sembra essere una tecnica utile non solo per la terapia
antitumorale, ma anche per la vaccinazione. Una delle principali sfide della
vaccinazione è l'erogazione efficiente di dosi efficaci e la co-fornitura di
coadiuvanti con l'antigene al fine di generare la sufficiente risposta
immunitaria. Microcapsule auto-distruggenti costituite da un multilayer di
un polielettrolita semi-permeabile attorno ad un nucleo di microgel idrofilo a
base zuccherina (dimensioni di circa 10 micron) si sono rivelate un sistema
che con una singola iniezione è in grado di rilasciare ad intervalli multipli gli
antigeni contenuti al loro interno. A causa delle grandi dimensioni del 68
nucleo, vettori di dimensioni minori possono essere incorporati nel gel.
Considerando le condizioni di semi-permeabilità della parete, l'acqua può
penetrare provocando un forte rigonfiamento del gel che conduce infine alla
rottura del microcontainer seguita dallo “shooting” di vettori più piccoli che
sono in grado di propagare in acqua più velocemente che se fossero in
soluzione. Questo è particolarmente importante quando la specie deve essere
rilasciata in mezzo viscoso. Regolando la densità del microgel, la resistenza
alla rottura può essere modulata ed i microcontainers sono in grado di
rilasciare il carico (ad esempio vaccini) in tempi diversi.
1.6 Scopo del lavoro
Lo scopo di questo progetto di ricerca, condotto presso l'Istituto Italiano di
Tecnologia di Napoli (IIT@CRIB), è la sintesi di nanocapsule PEGilate a nucleo
liquido stabili in diverse condizioni di pH, preparate con la tecnica LbL.
Questi sistemi sono completamente biocompatibili, in quanto si utilizzano olio
di soia e lecitina come emulsione templante (O/W) e biopolimeri, quali
chitosano ed eparina, come materiali di costruzione per l’involucro. Il low-
fouling è reso possibile grazie all’utilizzo di PEG.
Il vettore con queste caratteristiche è stato ritenuto un candidato ideale
soprattutto per la somministrazione a rilascio mirato di farmaci ad attività
antitumorale, nel tentativo di superare gli attuali limiti della terapia
“convenzionale”.
Poichè i sistemi tal quali non sono stabili in condizioni di stress ambientale
(come ad esempio in presenza di pH fisiologico o di variazioni della
concentrazione salina, oncotica, ecc), il primo passo è stato funzionalizzare i
polimeri: il chitosano è stato funzionalizzato con 2-imminotiolano (2-IT) per
ottenere porzioni sulfidriliche e l’eparina con allilammina per ottenere
porzioni olefiniche. In questo modo è stato possibile utilizzarle per creare
legami covalenti tra i layer attraverso una reazione di click-chemistry.
Inoltre, lo stesso tipo di reazione è stato sfruttato anche per il legame di PEG-
acrilato al chitosano tiolato.
Il grado di tiolazione del chitosano (sia quello LMW che quello
depolimerizzato) è stato determinato mediante Ellman test, mentre sono
stati condotti studi NMR per la determinazione del grado di
funzionalizzazione dell’eparina. Poi, è stata ottimizzata la deposizione di
polimeri sul templante liquido per formare il multilayer; la cui formazione e
stabilità è stata valutata con misure di dimensione, indice di poli-dispersità
(PDI) e di potenziale Z attravero la tecnica del Dynamic Light Scattering
(DLS). L’introduzione di tioli e frazioni di polimeri olefinici offre l'ulteriore
possibilità di preparare capsule che sono stabili in una gamma di condizioni,
come la variazione di pH e di forza ionica, grazie alla stabilizzazione
covalente. Infatti, dopo la preparazione di capsule nanometriche sul modello
a nucleo liquido, è possibile reticolare il polimero che forma lo strato
utilizzando una reazione di foto-attivazione di click-chemistry tra porzioni
alliliche su eparina e gruppi sulfidrilici su chitosano. Questa attivazione è
semplicemente ottenuta con irradiazione a 254 nm da una lampada UV,
senza utilizzare alcun altro reagente, e si verifica in condizioni molto blande.
La stabilità delle nanocapsule è stata valutata a pH fisiologico da misure di
light scattering. Sono stati condotti studi di stabilità su entrambi i campioni
irradiati e non irradiati per confrontarli nel tempo in diversi tipi di soluzione
per verificare la risposta allo stress ambientale. Per quanto riguarda la
PEGilazione sono stati svolti studi NMR per valutarne l’efficacia.
2. Materiali e Metodi
2.1 Materiali
Olio di soia (olio MCT; d=0,922 g/ml a 20°C) e lecitina d’uovo arricchita con
fosfatidi lcol ina t ipo Lipoid E80 (80% fosfatidi lcol ina e 7,8%
fosfatidiletanolammina i componenti principali) sono stati acquistati da
Lipoid®. Lipoid E80 è stato conservato ad una temperatura di circa -20°C,
sotto vuoto ed in atmosfera di azoto prima del suo utilizzo. Per la fase
acquosa è stata utilizzata acqua MilliQ®. Tutti i reagenti sono stati utilizzati
senza ulteriore purificazione.
Chitosano LMW (50-190 KDa, viscosità 20-300 cP, 1% in acido acetico 0,1 M,
pKa ~ 6,6 e grado di deacetilazione 84% misurato con NMR 600 MHz), acido
acetico (MW=60.05 g/mol), sodio nitrito (MW=69.00 g/mol), 1-
idrossibenzotriazolo idrato (HOBt, MW=135.12 g/mol), acido 2,2’-dinitro-5,5’-
ditiodibenzoico (reagente di Ellman, MW=396,35 g/mol), 2-iminotiolano
cloridrato (MW=137.63 g/mol), sodio boroidruro (PM=37.83), eparina sale
sodico (da mucosa intestinale suina), allilamina (MW=57.09 g/mol; d=0,761
g/mol a 25°C), poli-etilenglicole metil-etere-acrilato (Mn 2,000, Tm 49-54°C,
d=1.09 g/ml a 25°C) e sali sodici di Na2PO3 e NaHPO3 sono stati acquistati
dalla Sigma Aldrich. 1-etil-3-dimetilaminopropil-carbodiimide cloridrato
(EDC · HCl, MW=191.70 g/mol) è stato acquistato da Thermo scientific.
Dimetilsolfossido (DMSO, MW=78.13 g/mol, FP 18,5°C, BP 189°C d = 1,10) è
stato acquistato da Romil LTD. Soluzione DMEM (4.5 g/L glucosio, 10% Siero
bovino fetale, 3.7 g/L bicarbonato di sodio e 4 mM glutammina, 1%
aminoacidi non essenziali, 100 U/ml penicillina e 0.1 mg/ml Streptomicina).
Membrane per dialisi sono state acquistate da Spectrum Laboratories Inc.
L’acqua utilizzata era di purezza di tipo I, ottenuta da un Millipore MilliQ
Ultra-Pure Water System.
2.2 Depolimerizzazione del chitosano
La dimensione molecolare del chitosano può essere modificata per
depolimerizzazione con acido nitroso, come proposto da Allan e Peyron. 69
Questo metodo risulta essere selettivo, rapido e facilmente controllabile, e
può essere condotto in soluzione acida (pH 1), a temperature non troppo
elevate. 500 mg di CT-LMW sono gradualmente sciolti in 25 ml di una
soluzione di acido acetico 0,1M a pH 1 sotto agitazione magnetica ed a
temperatura ambiente. Poi, la temperatura viene portata a 50°C in un bagno
d'acqua e si aggiungono 4,3 mg di NaNO2. La reazione di depolimerizzazione
viene quindi lasciata procedere per 45 minuti, poi si rimuove dal bagno caldo
e si lascia raffreddare a temperatura ambiente. Lentamente si aggiunge
NaOH [1M] alla soluzione di chitosano: durante l'aggiunta, il pH della
soluzione raggiunge valori elevati (circa 10) e si osserva la precipitazione del
chitosano. Il precipitato risultante viene lavato mediante cicli di
ultracentrifuga a 15.000 rpm per 15 minuti fino a neutralità, poi viene
raccolto e disciolto in soluzione di acido acetico [0,1 M]. Si filtra di nuovo con
carta da filtro per eliminare le più piccole impurità, quindi viene dializzato
con tubo da dialisi (8 kDa cut-off) in una soluzione acquosa di NaCl 1% a pH 3
per 4 cicli e poi in una soluzione acquosa a pH 3 per altri 4 cicli, ed infine
liofilizzato. La viscosità intrinseca del chitosano depolimerizzato è stata
misurata usando un viscosimetro capillare Ubbelohde (comprato dalla SI
Analytics GmbH, tipo 536) a temperatura ambiente; cinque diverse
concentrazioni sono state testate e valutate. Il peso molecolare medio
viscosimetrico (Mv) è stato determinato utilizzando l'equazione di Mark-
Houwink ed è di 10,5 KDa (come riportato più approfonditamente in
appendice).
2.3 Sintesi del chitosano-iminotiolano
Una soluzione di chitosano 1% è stata preparata sciogliendo 200 mg di
chitosano (CT-LMW o CT-B) in 20 ml di soluzione di HAc 0,1 M. Dopo
completa dissoluzione, NaOH [5M] è stato aggiunto lentamente fino a
raggiungere un pH di circa 6; poi, 80 mg di 2-IT sono stati aggiunti in
atmosfera d’azoto, monitorando il pH della soluzione che rimane costante a
circa 6. Quindi, la reazione viene lasciata procedere sotto agitazione
magnetica a temperatura ambiente per 20 ore circa a pH 6,5 mediante
aggiunta di poche gocce di NaOH [1M], monitorandola nel tempo. Dopo la
reazione, il pH è ancora 6 ed è stato portato a 3 con l’aggiunta di HCl [5M]; un
tubo da dialisi (cut-off 6-8 KDa per CT-B e 12-14 KDa per CT-LMW) è stato
preparato e la soluzione è stata trasferita in esso. Otto cicli di dialisi sono
stati eseguiti: 4 cicli con una soluzione acquosa di NaCl 1% a pH 3 e 4 cicli con
soluzione acquosa a pH 3. Successivamente, il campione è stato liofilizzato e
conservato in frigorifero a -20°C. Successivamente è stato effettuato l’Ellman
test per stabilire il grado di funzionalizzazione dei polimeri risultanti.
2.4 Sintesi di eparina-allilammina
Una soluzione di eparina al 2% è stata preparata sciogliendo 50 mg di eparina
in 2,5 ml di acqua MilliQ. Dopo completa dissoluzione, 58 microlitri (0,773
mmoli) di allilamina sono stati aggiunti alla fase liquida ed il pH della
soluzione portato a 6,8. 40,61 mg di HOBt (0,300 mmol) e 57,62 mg di EDC
(0,300 mmoli) sono stati aggiunti alla soluzione e, dopo la loro completa
dissoluzione, il pH è stato portato nuovamente a 6,8 e la reazione lasciata
procedere a temperatura ambiente durante la notte. Il giorno dopo, la
soluzione si mostrava limpida, senza precipitati: è stata trasferita in un tubo
da dialisi (Cut Off 3.5 KDa) e sono stati eseguiti 8 cicli di dialisi (4 cicli con
soluzione acquosa di NaCl 1% e 4 cicli con soluzione acquosa semplice).
Successivamente il campione è stato liofilizzato e conservato in frigorifero a
-20°C. E’ stata effettuata un’analisi NMR per stabilire il grado di
funzionalizzazione del polimero risultante.
2.5 Preparazione delle nanocapsule con tecnica LbL
Una soluzione di chitosano all’1% è stata preparata sciogliendo il polimero in
acido acetico [0,1 M] a pH 4. Diverse quantità di soluzione di chitosano sono
state diluite a 1 ml con una soluzione di acido acetico [0,1 M] pH 4 in un
becker, e poi sono stati aggiunti 3 ml di acqua MilliQ. Quindi, 1 ml di
emulsione diluita al 5% di fase olio è stato aggiunto rapidamente sotto
vigorosa agitazione e mantenuto sotto agitazione per 15 minuti per
consentire la deposizione uniforme del chitosano. L'emulsione viene diluita
1: 5 con la soluzione di chitosano, quindi la sua concentrazione finale è 1%,
mentre la concentrazione finale di chitosano è 4/5 di quella iniziale.
Per la deposizione del secondo strato, una sospensione di monolayer è stata
diluita 1:2 con una soluzione di eparina disciolta in acqua MilliQ. In
particolare, la soluzione di eparina è stata aggiunta sotto agitazione vigorosa
in una concentrazione tale che il numero molare dei gruppi funzionali era 1:1
rispetto al numero molare dei gruppi di chitosano carichi già presenti in
soluzione. La stessa procedura è stata adottata per il terzo strato di
deposizione di chitosano e dei polimeri funzionalizzati. Sono stati sciolti
infine 1,25 mg di PEG-monoacrilato (5 kDa) in 0,50 ml di trilayer e la
soluzione lasciata sotto agitazione per 15 minuti. Successivamente è stata
effettuata una reticolazione con lampada UV a 254 nm ad una distanza tra
campione e sorgente di 2cm. Infine è stata effettuata una dialisi con tubo da
dialisi (cut-off 12-14 kDa) per rimuovere impurità ed il PEG in eccesso.
Dimensione, PDI e potenziale Z delle nanocapsule durante i vari stadi della
preparazione sono stati misurati utilizzando uno Zetasizer Nanoseries della
Malvern Instruments (Dynamic Light Scattering, DLS, descritto in appendice
più avanti). I campioni sono stati misurati in una soluzione diluita 1:40. Le
misure dimensionali sono state eseguite in triplicato, mediando ogni misura
su 5 corse da 100 secondi. Anche le misure di potenziale Z sono state eseguite
in triplicato, impostando in automatico la durata delle corse.
2.6 Ellman’s test per tioli liberi
0,50 mg di ciascun campione di chitosano funzionalizzato sono stati pesati e
sciolti in 0.5 ml di una soluzione HAc/Ac a pH 3. Dopo dissoluzione completa
per sonicazione, sono stati aggiunti 3,5 ml di una soluzione di DTNB
(reagente di Ellman) in una soluzione tampone fosfato a pH 8.03 (0,2 mg/ml)
e la reazione è stata lasciata procedere al buio a temperatura ambiente per
2h sotto agitazione magnetica. Il pH finale della soluzione è stato 7,4, con un
caratteristico colore giallo intenso.
I valori di assorbanza di TNB sono stati registrati a 412 nm. Il TNB e quindi la
concentrazione di gruppi sulfidrilici sono stati determinati attraverso una
linea di calibrazione costruita nelle stesse condizioni, consentendo la
reazione tra quantità standard di 2-iminotiolano libero con DTNB.
2.7 Risonanza magnetica nucleare
Strutture con chitosano modificato, eparina e/o PEG legato, sono state
studiate con la tecnica NMR utilizzando uno spettrometro NMR a 600 MHz
Bruker. Tutti gli esperimenti sono stati eseguiti a 298 K in D2O. In
particolare nei campioni contenenti chitosano è stata aggiunto TFA (1%).
2.8 Spettroscopia UV-Vis
L’analisi UV-Vis su chitosano funzionalizzato (2-iminotiolano) è stata
eseguita utilizzando lo spettrofotometro Jasco V-560. Tutte le scansioni sono
state eseguite a 200 nm/min a temperatura ambiente.
2.9 Irradiazione UV delle nanocapsule
Ciascun campione è stato trasferito in un becker da 5 ml ed irradiato con una
lampada UV per 2 ore, sotto blanda agitazione, a temperatura ambiente.
L'irradiazione è stata eseguita a 254 nm con una distanza tra sorgente e
campione di 2 cm.
3. Risultati e discussione
3.1 Funzionalizzazione con 2-iminotiolano
Conosciuto anche come reagente di Traut, il 2-iminotiolano (2-IT) è un
composto tioimidato ciclico ampiamente utilizzato per inserire sul chitosano
un gruppo tiolico. Come ampiamente mostrato in letteratura, grazie 70 71 72
alla sua struttura eterociclica, 2-IT mostra angolo, tensione torsionale e
tensione sterica che lo rendono più reattivo rispetto ad altri composti (come
ad esempio la NAC, N-acetilcisteina) utilizzabili allo stesso scopo.
Il composto finale presenta un braccetto sulla struttura (che riduce
l’ingombro sterico), chiuso da un gruppo sulfidrilico libero. La reattività è
aumentata in soluzione neutra o basica (da pH 7 a 10) perché il gruppo
amminico risulta non protonato ed il carbonio dell’imminogruppo risulta un
miglior centro elettrofilo ed è, inoltre, incline ad essere attaccato dal gruppo
amminico del chitosano (Figura 3.1):
Figura 3.1: reazione tra chitosano e 2-iminotiolano.
La reazione di coniugazione viene eseguita generalmente a pH 7 perché porta
a rese più elevate: a questo pH, il chitosano è quasi completamente dissolto
nel tampone acetato fornendo un buon accesso ai gruppi amminici ed il
reagente ha già un’elevata reattività. D’altro canto, procedendo con la
reazione a pH 5, il chitosano sarebbe completamente disciolto, ma vi sarebbe
una minore quantità di gruppi tiolici disponibili a causa dell'accesso limitato
ai gruppi amminici primari e la bassa reattività del reagente a pH 5. Il pH
della soluzione può anche compromettere la stabilità del risultante chitosano
tiolato: in particolare, maggiore è il pH e più rapidamente i gruppi tiolici del
polimero si ossidano. Quest’osservazione può essere spiegata dalla
diminuzione della concentrazione di protoni a valori di pH crescenti che
porta a sua volta ad una maggiore quantità di anioni tiolici negativi S-, che
rappresentano la forma attiva per l'ossidazione. L'ossidazione di chitosano
tiolato porta alla formazione di legami disolfuro inter- ed intra-struttura, che
possono essere fortemente ridotti se la reazione viene condotta in condizioni
inerti con azoto.
Diversi studi riguardanti la modifica del chitosano con 2-IT si concentrano
non solo sul pH di reazione, ma anche sul rapporto molare tra il polimero ed il
reagente. I migliori risultati si ottengono con un rapporto molare di 1 : 0,4 (in
grammi) tra chitosano e 2-IT ad un valore di pH 7 per la reazione
complessiva. Rispetto a ciò, la procedura è stata modificata al fine di
raggiungere più alti gradi di funzionalizzazione. Sono stati condotti studi di
stabilità sul tiomero di chitosano, che hanno mostrato una diminuzione di
frazioni di tioli liberi a causa di una reazione collaterale che comporta la
perdita di ammoniaca e porta a prodotti N-sostituiti del 2-IT. Questa è una
limitazione della funzionalizzazione perché conduce inevitabilmente al
degrado del prodotto finale, riducendo la resa globale della reazione. Quindi,
devono essere prese in considerazione alcune precauzioni per ridurre questa
reazione secondaria ed ottenere, in questo modo, una maggiore quantità di
polimero modificato. Abbiamo utilizzato tutte le considerazioni di cui prima
per trovare le condizioni ottimali per la reazione di tiolazione del chitosano.
E’ stata studiata la stessa reazione di funzionalizzazione con 2-IT sia su
chitosano a basso peso molecolare (CT-LMW) sia su quello depolimerizzato
(CT-B). Più studi riguardanti la modifica del chitosano con 2-IT si
concentrano non solo sul pH di reazione, ma anche sul rapporto molare tra
chitosano e reagente di coniugazione: essi dimostrano che più reagente viene
aggiunto alla soluzione, più alta sarà la resa ottenuta. Quindi, per i nostri
esperimenti, abbiamo scelto di iniziare dalla procedura riportata in
letteratura dove vengono utilizzati rapporti di CT : 2-IT di 1 : 0,4 (espresso in
grammi) e un pH di 6,5-7. Inoltre, al fine di evitare il più possibile ogni
processo di ossidazione durante la reazione di coniugazione, la sintesi è stata
eseguita in condizioni inerti sotto azoto.
Come spiegato in precedenza, il polimero tiolato risultante può essere
soggetto a reazioni collaterali che portano ad una forte diminuzione dei
gruppi tiolici liberi. Queste reazioni collaterali si verificano soprattutto
quando la reazione è completa e vengono promosse da un pH alcalino poiché,
in queste condizioni, i gruppi sulfidrilici sono nella loro forma ossidata. Per
questo motivo, il pH della soluzione è stato ridotto da 7 a 3,5. Questo pH è
stato impostato sia prima di trasferire la soluzione nel tubo da dialisi sia per i
cicli di dialisi successivi. Tale metodo, oltre a limitare reazioni collaterali,
rende il chitosano più solubile che nelle soluzioni di partenza.
Il chitosano funzionalizzato è stata studiato sia con analisi NMR che con
Ellman test (descritto nella sezione successiva).
� Figura 3.2: spettri NMR di chitosano funzionalizzato (blu) e non funzionalizzato (nero) con 2-IT.
La modifica della struttura al momento della funzionalizzazione può essere
evidenziata dal confronto degli spettri tra chitosano funzionalizzato e non
(Figura 3.2) in quanto è possibile osservare la comparsa di nuovi picchi
associati al nuovo sostituente, in particolare a 1,75 ppm, 2,25 ppm e 3,25
ppm. Tuttavia, anche in questo caso, come si vede dagli spettri, non è
possibile determinare il grado di funzionalizzazione perché è difficile
decidere la giusta assegnazione dei nuovi picchi e, quindi, non è possibile
stabilire il numero dei gruppi tiolici liberi e totali, rispettivamente. Per questo
motivo, il grado di funzionalizzazione è stato valutato attraverso l’Ellman’s
test.
3.1.2 Ellman’s test
L’Ellman’s test consiste, come precedentemente già discusso, nel far reagire
un disolfuro simmetrico, come l’acido 2,2'-dinitro-5,5'-ditiodibenzoico (DTNB
o reagente di Ellman) con tioli liberi in una soluzione leggermente basica, in
quella che è una reazione di interscambio tiolo-disolfuro. Ciò porta alla
formazione di un disolfuro misto (nel nostro caso attaccato al chitosano), ed
un anione libero, il TNB (2-nitro-5-tiobenzoato), color giallo, che assorbe
nell'intervallo UV-Vis, ad un massimo di 412 nm, presentando un’assorbanza
relativamente intensa rispetto al disolfuro misto ed al DTNB, che presentano
entrambi un massimo di assorbimento a 324 nm e sono di colore giallo
pallido.
Poiché la stechiometria del chitosano tiolato rispetto al TNB formatosi è 1:1,
la formazione di TNB può essere utilizzata per valutare il numero di tioli
presenti. L’Ellman’s test è sensibile al pH della soluzione sia durante la
reazione sia durante la registrazione dello spettro di assorbanza. Il saggio
deve essere condotto in pH leggermente basico e non può essere effettuato in
ambiente acido poiché il legame disolfuro del DTNB si potrebbe rompere
prima di reagire con i tioli liberi, mentre non può essere condotto in
condizioni alcaline forti perché -OH competerebbe con -S.
Il primo passo da eseguire in questa prova colorimetrica è quello di ottenere
una linea di calibrazione per TNB. La procedura per l’Ellman’s test sul
chitosano è la seguente: il chitosano viene sciolto in una soluzione tampone di
acido acetico a pH 3 e poi viene aggiunto un eccesso di DTNB, prima sciolto in
un buffer fosfato [0,5 M] a pH 8.03. L'aggiunta del reagente di Ellman ha
portato ad un pH elevato (7.4 circa), necessario per il saggio. Allo stesso
tempo, garantisce che tutti i tioli liberi del chitosano reagiscano con il
reagente di Ellman. L’Ellman’s test è utile per determinare i tioli liberi, ma
non è in grado di controllare i gruppi tiolici che hanno funzionalizzato
comunque il chitosano, ma che sono stati poi ossidati (durante, per esempio, i
passaggi di reazione o di purificazione) formando ponti disolfuro. I risultati
della funzionalizzazione sono riportati di seguito (Tabella 3-1):
Tabella 3-1: grado di funzionalizzazione dei coniugati del chitosano 2-IT.
CT-IT sintetizzato pH Gruppi tiolici liberi (μmol/g) Funzionalizzazione (%)
CT-LMW-IT 6.8 465,99 9,54%
CT-B-IT 6.8 392,06 7,98%
In accordo con i risultati riportati in letteratura, dove la resa massima
ottenuta di gruppi tiolici liberi è di 408,9 micromol/g, i gradi di
funzionalizzazione ottenuti sono comparabili, anche se leggermente
aumentati per il CT-LMW (465,99 mmol/g) confermando i risultati sviluppati
in una precedente tesi (455,17 mmol/g): ciò può essere spiegato dalla scelta
di abbassare il pH della soluzione di reazione da 6,8 a 3,5 prima dei cicli di
dialisi, procedimento che non è riportato in letteratura. In questo modo,
abbiamo limitato il processo di ossidazione dei gruppi tiolici liberi, nonché le
reazioni collaterali. 73
Inoltre, la tiolazione è stata eseguita anche su chitosano depolimerizzato,
ottenendo gradi di funzionalizzazione simili, in quanto la lunghezza della
catena influenza la sua tendenza ad aderire alle superfici durante la
deposizione con tecnica LbL. La funzionalizzazione del chitosano con 2-IT è 74
stato confermato essere il modo migliore per ottenere il polimero tiolato
desiderato. Questo reagente mostra diversi vantaggi (tranne il suo prezzo di
mercato) quali una migliore reattività per via della tensione sterica e
l'inclusione di gruppi tiolici nella struttura ciclica (che li protegge dal
processo di ossidazione).
La conversione di ammine in sulfidrili è una reazione one-step che non
comporta spese per altri reagenti come EDC o HOBt e, inoltre, si verifica in
percorsi selettivi e spontanei con rese più elevate. Il risultante chitosano
tiolato è flessibile perché incorpora un braccio spaziatore a cinque atomi (che
riduce l’impedimento sterico) e mantiene la carica positiva originale su N,
che è conveniente anche per conservare la sua solubilità e per la deposizione
LbL. Quest’ultima osservazione può anche giustificare perché, in questo caso,
non è stata registrata molta differenza tra CT-LMW e CT-B funzionalizzati..
Quindi è ragionevole ipotizzare che si verifichino interazioni con sub-
strutture anioniche: in questo contesto, il chitosano funzionalizzato è stato
utilizzato per deposizioni applicando la tecnica LbL.
3.2 Funzionalizzazione dell’eparina
L’eparina è un glicosaminoglicano altamente solfatato, ampiamente utilizzato
come farmaco anticoagulante iniettabile. Questo polielettrolita ha la più alta
densità di carica negativa tra tutte le biomolecole conosciute. 75
L'eparina ad uso farmaceutico viene ricavata generalmente dalla mucosa di
intestino suino o di polmone bovino. La molecola possiede un peso molecolare
compreso tra i 3 e i 40 kDa anche se la media dei pesi molecolari della
maggior parte delle eparine commerciali si aggira tra i 12 e i 15 KDa. È, come
il chitosano, solubile in acqua, ma la presenza nella struttura di gruppi
carbossilici la rende carica negativamente alle giuste condizioni di pH, anche
a bassi valori, per la presenza contemporanea di gruppi solfato. Allo stesso 76
tempo, i gruppi carbossilici possono essere facilmente funzionalizzati per
inserire gruppi olefinici: questa reazione si basa sulla formazione di un
legame ammidico mediata da EDC e catalizzata da HOBt ed è stata effettuata
adattando una procedura già riportata in letteratura. 77 78
Il grado di funzionalizzazione è stato studiato mediante analisi NMR. Un
confronto tra gli spettri di eparina funzionalizzata (con gruppi allilici) e non
funzionalizzata è riportato in Figura 3.3. Confrontando gli spettri NMR, si
può notare che due picchi corrispondenti all’allilammina appaiono a 5.84 e
5.02 ppm e sono attribuiti, rispettivamente ai protoni di CH e CH2 dell’olefina
terminale. Gli ultimi protoni del CH2 allilico si sovrappongono con i segnali
provenienti dai 10 protoni degli acidi iduronico e glucuronico dell’eparina che
corrispondono ai picchi nell'intervallo tra 2,8 e 4,4 ppm.
�
Figura 3.3: spettri NMR di eparina funzionalizzata (rosso) e non funzionalizzata (blu).
Pertanto, è stato possibile stabilire il grado di funzionalizzazione dell’eparina applicando la seguente formula:
Il grado di funzionalizzazione risultante è dell’80%.
3.3 Preparazione delle nanocapsule
3.3.1 Preparazione di una nanoemulsione
Per ottenere nanocapsule a nucleo liquido stabili, è necessario partire da una
nanoemulsione stabile che costituisce il nucleo delle nanocapsule su cui
possono essere costruiti i layer mediante tecnica LbL.
Nanoemulsioni O/W (fase oleosa dispersa e fase acquosa mezzo disperdente)
posseggono diverse proprietà interessanti come biodegradabilità,
biocompatibilità, stabilità fisica e facilità di produzione e sono già diffuse
nell'industria cosmetica e farmaceutica. In particolare, sono già ampiamente
utilizzate per somministrazione orale e topica, e solo di recente è stata
introdotta la somministrazione endovenosa di nanoemulsioni per drug-
delivery e parental nourishment. 79
Le nanoemulsioni (10-100 nm) sono cineticamente più stabili e sono
caratterizzate da una superficie superiore (fino a 200 m²/g) rispetto alle
macroemulsioni (fino a 15 m²/g). Per migliorare la stabilità cinetica delle
nanoemulsioni, deve essere usato un surfattante ionico (tensioattivo).
Tipicamente si impiegano molecole anfifiliche, costituite da coda idrofobica e
testa idrofilica, si stabiliscono all'interfaccia tra le due fasi immiscibili
durante la preparazione dell'emulsione e la stabilizzano. La giusta scelta del
surfattante permette di progettare emulsioni la cui emivita varia da pochi
secondi ad anni, influenzando anche le dimensioni ed il PDI.
Esperimenti preliminari sono stati condotti dal team di ricerca e, per il
nostro scopo, è stata scelta come surfattante la lecitina anionica (composta
da fosfolipidi presenti nelle membrane biologiche, quindi biodegradabili)
poiché è richiesta una forte carica sulle gocce per consentire la successiva
deposizione di polielettroliti. Infatti, i suoi acidi grassi sono carichi
negativamente e si è visto che conferiscono alle goccioline un potenziale Z
negativo. Inoltre, la presenza di una carica sulle goccioline di emulsione
consente una migliore stabilità a causa della repulsione che ne consegue tra
le stesse, riducendo la probabilità di coalescenza.
Sono stati esaminati due differenti tensioattivi (lecitina di soia e lecitina
d'uovo, quest'ultima arricchita con fosfatilcolina) e due tipi di olio (olio di
semi di cotone e olio di soia): è stato stabilito dal team di ricerca che la
migliore emulsione, in termini di dimensioni e PDI, può essere ottenuta
usando lecitina d'uovo (LipoidE80) con olio di soia, per la presenza di
fosfatilcolina. Come riportato in letteratura, la fosfatilcolina (PC) può
conferire stabilità a lungo termine alle nanoemulsioni. 80
Innanzitutto è stata preparata una pre-emulsione: la metodologia adottata
non si basa sulla semplice miscelazione dei composti, ma sull'utilizzazione di
un sonicatore ad immersione. Dopo questo primo passaggio la pre-emulsione
risultante ha dimensioni dell’ordine dei micron e PDI elevati. Per questo
motivo, la pre-emulsione è stata fatta passare attraverso un omogeneizzatore
ad alta pressione (Microfluidazer) per 3 cicli e poi processata in modalità in
continuo (200 passaggi ad una pressione di 2000 bar).
Aumentando il contenuto di lecitina, è possibile ridurre la dimensione delle
gocce di olio e ciò può essere spiegato facilmente se si considera che
goccioline più piccole equivalgono ad aree di interfaccia più elevate tra olio ed
acqua, che quindi richiedono una maggiore quantità di tensioattivo per essere
stabilizzate. Inoltre, le emulsioni sono state conservate a 4°C perchè più
stabili rispetto a quelle conservate a temperatura ambiente, in quanto la
temperatura ridotta riduce la probabilità di coalescenza.
Per ottenere un’emulsione ottimale al fine di consentire un'ulteriore
deposizione di polimeri tramite tecnica LbL, è stata preparata un’emulsione
con concentrazione finale del 20% miscelando 2,88 g di Lipoid E80, 24 ml di
olio di soia e 93.12 ml di acqua MilliQ. E 'stata una delle migliori emulsioni
ottenute, con dimensioni delle gocce di circa 120 nm, PDI < 0.1 e potenziale Z
di circa -30 mV.
3.3.2 Deposizione del primo layer
Dopo la preparazione della nanoemulsione, il passo successivo è stato quello
di studiare la deposizione del chitosano sulla superficie carica negativamente
(a causa della lecitina) delle goccioline di olio. La deposizione di chitosano
tramite tecnica LbL avviene per attrazione elettrostatica tra la superficie
dell'olio e le molecole di polielettroliti di carica opposta presenti in soluzione.
Il chitosano può essere, infatti, carico positivamente in un intervallo di valori
di pH per via dei suoi gruppi amminici protonabili e quindi può essere
depositato sulla superficie delle goccioline d’olio mediante attrazione
elettrostatica e forze di Van der Waals e, se vi è sufficiente polielettrolita
presente, si verifica un’inversione di carica.
Diverse strategie di preparazione sono state sviluppate in modo da produrre
sistemi multilayer stabili senza promuovere l’aggregazione delle gocce:
1. Metodo della saturazione: consiste nell'aggiungere abbastanza
polielettrolita per rivestire completamente tutte le particelle presenti in
soluzione, in modo che ci sia poco polielettrolita libero rimanente nella
fase acquosa;
2. Metodo della centrifugazione: con questo metodo una soluzione,
contenente più polimero di quello necessario a saturare le particelle, è
aggiunta alla sospensione e l’eccesso è poi rimosso centrifugando le
particelle, risospendendole in una soluzione tampone appropriata;
3. Metodo della filtrazione: anche in questo caso una soluzione contenente
più polimero di quello richiesto è aggiunta, ma l'eccesso viene rimosso
filtrando la sospensione colloidale.
Il problema principale con gli ultimi due metodi è che promuovono
l’aggregazione delle particelle perché costrette a stare in prossimità tra loro.
Quindi per particelle liquide di una nanoemulsione O/W questi metodi
possono portare alla flocculazione o al creaming e quindi alla coalescenza. Per
questi motivi è preferibile usare il metodo della saturazione: è così necessario
aggiungere né troppo né troppo poco polielettrolita poichè sia l’eccesso sia il
deficit possono portare a flocculazione e favorire la coalescenza. Per saturare
le goccioline d’olio, la concentrazione del polimero è infatti un parametro
fondamentale: quando è zero, le particelle non aggregano per via della forte
repulsione elettrostatica tra di loro; se si aggiunge una piccola quantità, si
verifica la “flocculazione a ponte" perché il polimero può adsorbire alla
superficie di più di una gocciolina unendole tra loro; quando la
concentrazione di polielettrolita libero supera un certo valore critico, si
verifica "flocculazione per deplezione" perché le forze di deplezione attraenti
sono abbastanza forti da superare le varie forze repulsive (elettrostatiche e
steriche). Inoltre, è necessario assicurarsi che non vi sia polielettrolita libero
presente in soluzione perché interagirebbe con altri polielettroliti carichi
durante la formazione dei multilayer, portando a fenomeni di aggregazione.
Più avanti, quando si raggiunge la giusta concentrazione, si verifica una
repulsione sterica a causa delle dimensioni e dell'estensione geometrica delle
molecole: in questo modo, la sospensione è stabilizzata poichè le gocce
tendono a non avvicinarsi tra loro.
Figura 3.4: effetto dell’aggiunta di polimero in un sistema colloidale.
Tuttavia, ci sono altri diversi fattori che influenzano le proprietà dei layer,
quali il pH della soluzione, la concentrazione salina, il solvente e,
naturalmente, le caratteristiche dei polielettroliti. Il pH della soluzione
determina la ionizzazione dei gruppi superficiali e quindi la densità di carica
superficiale finale. Per la tecnica di deposizione LbL, il pH della soluzione
deve essere scelto in modo che i segni delle cariche elettriche sulla superficie
delle particelle e dei polielettroliti adsorbenti siano opposti e l’entità delle
cariche di entrambe le specie sia sufficientemente elevata. Le interazioni
elettrostatiche tra un polielettrolita ed una goccia diminuiscono con
l’aumentare della forza ionica della soluzione. Questo può essere spiegato
dall'accumulo di contro-ioni intorno alle superfici, fenomeno che di solito è
chiamato screening elettrostatico: diventa più forte come la concentrazione e
la valenza dei contro-ioni nella soluzione aumentano. Inoltre, spesso i
polielettroliti formano layer più spessi in presenza di sali perché acquisiscono
una conformazione della catena in soluzione più compatta (per via della
debole repulsione intra-molecolare). Al contrario, in assenza di sali, lo
screening elettrostatico non avviene, così che ogni carica è conservata, ed in
più i polielettroliti tendono a formare strati più sottili: in soluzione vi è una
forte repulsione elettrostatica tra i diversi segmenti della stessa catena di
polielettrolita, che porta la molecola ad essere altamente distesa. Di
conseguenza, quando all’inizio adsorbe sulla superficie di carica opposta,
tende ad essere distesa. Anche il solvente può giocare un ruolo importante,
infatti più è elevato il suo potere solubilizzante più l’interazione tra strati è
debole e lo spessore finale è elevato. Infine, la stabilità e le proprietà dei
sistemi multilayer dipendono anche dalla natura del polielettrolita utilizzato:
ad esempio lo spessore degli strati è regolato dalla loro densità di carica, che
può essere a sua volta interessata dalla concentrazione salina così come dal
pH della soluzione. Queste considerazioni sono state considerate per 81
preparare nanocapsule multilayer stabili, costituite da goccioline di
emulsione, completamente circondate da strati di polielettroliti.
In primo luogo, è stata studiata la concentrazione di saturazione del
chitosano per formare un monolayer stabile: può essere determinata
semplicemente valutando il potenziale Z, che passa da valori negativi (circa
-30 mV per la nanoemulsione prescelta) a positivi per tutti i campioni, e
aumenta gradualmente con l'aumento della concentrazione di chitosano
(Figura 3.5).
Figura 3.5: alterazione del potenziale Z quando il chitosano è aggiunto all’emulsione.
Questo fenomeno può essere spiegato considerando che solo una parte dei
gruppi carichi sul chitosano sono necessari per neutralizzare le cariche
opposte dei gruppi sulla superficie delle goccioline ed i restanti gruppi carichi
del chitosano possono sporgere nella soluzione acquosa. Comunque, lo switch
del potenziale Z da negativo a positivo conferma che molecole di chitosano
cationico adsorbono sulla superficie delle goccioline di emulsione anioniche
finché non si raggiunge un plateau. Secondo ciò, è stato possibile controllare
l'adsorbimento del polielettrolita sulla superficie delle goccioline d’olio
misurando la variazione di potenziale Z insieme alla variazione del diametro
particellare medio: a questo scopo, alcuni monolayer sono stati preparati dal
gruppo di ricerca in precedenti esperimenti, semplicemente aggiungendo la
nanoemulsione in soluzioni di chitosano a diverse concentrazioni. La
diluizione delle emulsioni con soluzioni di chitosano utilizzata per la
deposizione del primo layer precedentemente ottimizzata è di 1:5: questa
diluizione serve a diminuire la probabilità di collisione tra le nanogocce. Il pH
scelto per le deposizioni dei layer è stato 4, al fine di evitare la precipitazione
del chitosano (pKa 6,6 circa) e lasciare abbastanza cariche lungo la sua
catena, ma anche per mantenere la carica negativa sulle superfici delle gocce
di lecitina. La concentrazione finale di olio in acqua è 1% (v/v), mentre sono
state ottenute diverse concentrazioni finali di chitosano.
Esaminando l'insieme dei risultati, il potenziale Z delle nanocapsule aumenta
con l’aumentare della concentrazione di chitosano; il plateau viene raggiunto
ad un valore specifico di concentrazione del chitosano (0,0125% CT-IT) e,
inoltre, è associato alle capsule più piccole (142,1 nm) con il PDI più basso
(0,093).
Concentrazioni più elevate di chitosano non influenzano la tendenza del
potenziale Z ed, al contrario, una concentrazione di chitosano al di sotto dello
0,0125% non è sufficiente a coprire l'intera superficie dell'olio, facendone
quindi diminuire il valore; in ogni caso, abbiamo scelto di lavorare alla
concentrazione di chitosano più bassa possibile in modo da non pregiudicare
ulteriori deposizioni. Infatti, se si aggiunge un polianione, questo può
interagire non solo con il chitosano adsorbito sulle nanocapsule, ma anche
con il chitosano libero in soluzione, portando ad aggregati.
Per ottenere un ulteriore miglioramento della stabilità delle nanocapsule
monolayer, le abbiamo processate con un omogenizzatore ad alta pressione:
una grande quantità di nanocapsule con una concentrazione di saturazione
del chitosano di 0,0125% è stata preparata e fatta passare attraverso la
macchina. Le misure su dimensioni, PDI e Z-Potential nel tempo hanno
mostrato una certa stabilità fino a 2 settimane dall’inizio del processo.
3.3.3 Deposizione del secondo layer
Sono stati studiati i parametri di deposizione e di stabilità del secondo layer,
utilizzando le capsule monolayer precedentemente preparate; in questo caso,
l’eparina funzionalizzata è stata utilizzata come polianione perché grazie alla
sua alta carica negativa può essere adsorbita sulla superficie positiva di
capsule monolayer tramite forze elettrostatiche. Molti tentativi sono stati
effettuati al fine di trovare la giusta concentrazione di saturazione
dell’eparina: a questo scopo, diverse nanocapsule bilayer sono state
preparate con differenti concentrazioni finali d’eparina, che viene disciolta a
pH neutro ed aggiunta alle nanocapsule monolayer, diluendo la sospensione
1:1 per ciascun campione. Come per il chitosano, sono stati condotti
esperimenti in precedenza al fine di trovare la giusta concentrazione di
saturazione per l’eparina non funzionalizzata; abbiamo scelto di partire da
questi risultati per ottimizzare la deposizione di eparina funzionalizzata.
Secondo i risultati, il potenziale Z passa da positivo a negativo (circa -30 mV)
per tutti i campioni e gradualmente aumenta in valore assoluto con
l’aumentare della concentrazione di eparina: ciò dimostra che le molecole di
eparina anionica adsorbono sulla superficie carica positivamente delle
capsule monolayer. La nostra attenzione si è quindi spostata sulla ricerca
delle dimensioni e del PDI delle nanocapsule: anche se l'aggiunta di eparina
ha parzialmente destabilizzato il monolayer delle nanocapsule (dimensioni e
PDI maggiori), i migliori risultati si ottengono utilizzando una concentrazione
finale di eparina di 0,032% (148,7 nm, PDI 60,3 e -44,9 Z-potential). Una
concentrazione più alta di eparina non influisce tanto sulle proprietà delle
nanocapsule, mentre concentrazioni più basse portano a nanocapsule
peggiori in termini di dimensioni e PDI.
Anche in questo caso, abbiamo scelto di lavorare con la concentrazione di
eparina più bassa possibile per non pregiudicare ulteriori deposizioni poiché
un policatione che può essere eventualmente aggiunto alla sospensione
potrebbe interagire con alcune molecole di eparina in soluzione anziché
interagire solo con la superficie delle capsule.
3.3.4 Deposizione del terzo layer
La deposizione dell'ultimo layer è stata effettuata utilizzando chitosano
depolimerizzato precedentemente e funzionalizzato con 2-IT: infatti il
chitosano funzionalizzato LMW non è idoneo per questo scopo a causa del suo
alto peso molecolare che non gli consente di aderire completamente alla
superficie del bilayer, portando a trilayer molto instabili.
Studi autorevoli hanno evidenziato come con il procedere delle deposizioni è
vantaggioso ridurre il peso molecolare del polimero da depositare, affinché
esso aderisca perfettamente e non “strappi” invece il layer sottostante. La 82
concentrazione di saturazione è stato indagata preparando diversi campioni
con diverse concentrazioni finali di chitosano, monitorando l'assorbimento
del polimero con misure di potenziale Z (Figura 3.6). Le nanocapsule trilayer
sono state preparate allo stesso modo del bilayer: una soluzione contenente
chitosano disciolto in una soluzione tampone a pH 4 HAc/Ac è aggiunta in
diverse concentrazioni allo stesso volume di sospensione bilayer (diluizione
1:1). Misure di potenziale Z, dimensioni e PDI sono tracciate di seguito
(Tabella 3-2):
Figura 3.6: cambiamenti nel potenziale Z rispetto alla concentrazione di chitosano.
Tabella 3-2: dimensioni, PDI e potenziale Z di nanocapsule trilayer con differenti concentrazioni di chitosano tiolato.
CT-B-IT (%) Size (nm) PDI Z-potential
0,05 196,5 0,121 12,4
0,1 190,2 0,131 19,9
0,125 246,8 0,267 26,7
0,15 221,9 0,117 28,2
0,2 214,0 0,103 27,7
Il potenziale Z della superficie delle goccioline è inferiore con la diminuzione
della concentrazione di chitosano perché, in queste condizioni, la quantità di
chitosano non è sufficiente a saturare tutta la superficie del bilayer. E’ chiaro
che il valore del potenziale Z aumenta con l’aumentare della concentrazione
di chitosano; in questo caso, il plateau viene raggiunto ad una concentrazione
iniziale di 0.15%, che è stato quindi il valore scelto per i nostri scopi.
3.4 PEGilazione delle nanocapsule
Essendo la reazione di click-chemistry molto versatile, è stato interessante
esplorarne le potenzialità per decorare la superficie del trilayer delle
Z-Po
tent
ial (
mV)
0
7,5
15
22,5
30
CT-B-IT (%)
0 0,05 0,1 0,15 0,2
nanocapsule così ottenute con un polimero in grado di migliorare
ulteriormente le proprietà di superficie in termini di biostabilità. La scelta del
PEG è basata sulle considerazioni, espresse anche nel paragrafo 1.4, secondo
cui un rivestimento di PEG intorno al nanovettore aiuta a migliorare la
stabilità dello stesso nei fluidi biologici (proprietà low-fouling). Inoltre, la
modifica chimica del chitosano con PEG è stata vista come un modo per
dimostrare la biocompatibilità del chitosano. 83 84 85 86
Figura 3.7: confronto di grafici NMR prima e dopo irradiazione del sistema.
Per i nostri scopi abbiamo utilizzato un PEG con peso molecolare di 5 kDa, in
quanto è quello che meglio si deposita volumetricamente sulla superficie delle
capsule, e con gruppi acrilici, per formare un legame con il chitosano. La
reazione si ottiene semplicemente sciogliendo il PEG nella soluzione di
trilayer preparata precedentemente e successivamente eseguendo un cross-
linking (come verrà descritto nel paragrafo successivo) per aumentarne la
stabilità.
Dopo la PEGilazione delle capsule, sono state condotte analisi NMR per
verificare che effettivamente il polimero si fosse legato alla superficie del
trilayer. La differenza dei segnali tra 5.75 ppm e 6.30 ppm e a 3.00 ppm, che
corrispondono rispettivamente al segnale del doppio legame ed a quello del
PEG, che si può osservare in Figura 3.7 ci ha dato conferma dell’avvenuta
reazione.
3.5 Cross-linking delle nanocapsule
Come visto nei paragrafi precedenti, la tecnica LBL consiste nella costruzione
di nanocapsule attraverso la deposizione consecutiva di specie di carica
opposta attorno ad un modello sferico carico. Il multilayer così ottenuto è
tenuto insieme dalle forti forze elettrostatiche presenti tra ogni singolo layer.
Tuttavia, a causa della natura elettrostatica del legame, questi sistemi sono
molto sensibili alle condizioni ambientali, quali il pH , che possono portare a
disassemblaggio. Per applicazioni biomediche questa è una limitazione
importante.
Approcci recenti hanno sviluppato capsule in cui il legame elettrostatico tra i
layer è rafforzato tramite reticolazione covalente, realizzata con click-
chemistry. Una reticolazione chimica, utilizzando legami covalenti, può
migliorare la resistenza alle sollecitazioni ambientali delle capsule come la
fase di conservazione o durante la circolazione nel sangue per consentire al
vettore di arrivare alle cellule bersaglio. Grazie alla funzionalizzazione dei
polimeri, una reazione di reticolazione tra i gruppi sulfidrilici del chitosano e
i gruppi allilici dell’eparina può portare alla formazione del legame tioetereo
che ha il vantaggio di collegare due layer differenti, aumentando in questo
modo la stabilità complessiva delle nanocapsule. La reazione Tio-ene (Figura
3.8) non necessita di alcun reagente chimico da aggiungere alla preparazione
delle nanocapsule: questo porta a reazioni “pulite”, che sono in grado di
stabilizzare le capsule senza contaminarle; in particolare, la reazione può
essere attivata dalla radiazione a 254 nm o a 365 nm. In realtà preferiamo
utilizzare la radiazione a 254 nm in quanto essa è più efficace, al punto da
non richiedere l’utilizzo del fotoiniziatore (che è citotossico), al contrario di
quella a 365 nm per cui è invece indispensabile. Il team di ricerca ha studiato
approfonditamente la reazione, dimostrando che quella a 254 nm funziona
anche senza fotoiniziatore.
Figura 3.8: reazione click tio-ene fotoattivata.
La reazione avviene tra i tioli del chitosano e gli alcheni dell’eparina
terminale:
L’avvenuto cross-linking è stato dimostrato praticamente conducendo studi
di biostabilità come di seguito riportato.
3.6 Studi di biostabilità
Come illustrato in precedenza, lo scopo di questo lavoro consiste nella
realizzazione di nanocapsule polimeriche con aumentata stabilità in
ambiente biologico. Per verificare l’efficacia del cross-linking ai fini della
biostabilità abbiamo prima realizzato un sistema modello ottenuto a partire
da un templante solido, ovvero particelle di polistirene carbossilate di
dimensioni nanometriche (0.1 µm).
E’ stato perciò realizzato un trilayer con i seguenti polimeri: CT-LMW-IT per il
primo layer, Hep-P6 per il secondo layer e CT-B-IT per il terzo layer. La scelta
di avere come layer esterno il chitosano è stata voluta per sfruttare il sistema
più sensibile alle variazioni di pH (il chitosano perde la sua carica superficiale
a pH meno acidi) e, in questo modo, accentuare la differenza tra sistema con
cross-linking e senza.
In Tabella 3-3 sono riportati i valori di dimensioni, PDI e potenziale Z ottenuti
durante la realizzazione del trilayer.
Tabella 3-3: dimensioni, PDI e potenziale Z di nanocapsule trilayer con Polistirene come templante.
Size (nm) PDI Z-potential (mV)
Templante 120,5 0,042 -35,1
Monolayer 162,5 0,057 25,4
Bilayer 148,8 0,060 -44,9
Trilayer 196,8 0,057 23,2
Trilayer in DMEM 185,4 0,071
Trilayer in PBS 187,8 0,102
Figura 3.9: curva di distribuzione delle dimensioni delle nanocapsule durante le varie fasi.
Templante - Monolayer - Bilayer - Trilayer
Dai valori di dimensioni, PDI e potenziale Z ottenuti (vedi Tabella 3-3 e Figure
3.9 e 3.10) è evidente come le concentrazioni di ciascun polimero scelte per
le deposizioni LbL siano ottimali. Le quantità di polimero sono sufficienti ad
ottenere il cambio della carica superficiale e, d'altro canto, non eccessive da
creare problemi di instabilità nelle deposizioni successive. Infatti i valori di
PDI sono sufficientemente bassi e le dimensioni restano al di sotto dei 200
nm, sufficientemente piccole per poter sfruttare l'effetto EPR. Infine i vari
cambi di carica superficiale suggeriscono come effettivamente i polimeri
siano completamente depositati tra una fase e l’altra.
Figura 3.10: cambio di potenziale Z delle nanocapsule durante le varie fasi.
Le nanocapsule così ottenute sono state successivamente ridisperse in mezzi
a diverso pH e forza ionica o a pH e forza ionica maggiori, che simulassero le
condizioni fisiologiche. In particolare il sistema è stato disperso in PBS
(Phosphate Buffer Solution, 10 mM pH 7,2) e in DMEM (4.5 g/L glucosio, 10%
Siero bovino fetale, 3.7 g/L bicarbonato di sodio e 4 mM glutammina, 1%
aminoacidi non essenziali, 100 U/ml penicillina e 0.1 mg/ml Streptomicina) e
sono stati paragonati i campioni che hanno subito o meno la fotoreticolazione.
Dal confronto, riportato in Tabella 3-4 e 3-5 e nella Figura 3.11, si può notare
come vi sia un sensibile aumento delle dimensioni nei campioni che non
-50
-37,5
-25
-12,5
0
12,5
25
37,5
Templante Monolayer Bilayer Trilayer
Potenziale Z
hanno subito la reticolazione e che invece in soluzione acida HAc (Figura
3.11) non ci sono destabilizzazioni, come atteso.
Tabella 3-4: size, PDI e Z-Potential di nanocapsule trilayer con Polistirene come templante in DMEM
Size (nm) PDI Z-potential (mV)
UV 187,6 0,071 22,7
NO UV 274,5 0,082 23,5
Tabella 3-5: size, PDI e Z-Potential di nanocapsule trilayer con Polistirene come templante in PBS
Size (nm) PDI Z-potential (mV)
UV 185,46 0,102 23,65
NO UV 225,87 0,211 24,72
Figura 3.11: misure di dimensioni e PDI di trilayer irradiati e non di NPs di polistirene.
Una volta confermata l’efficacia della reticolazione, siamo passati ad
utilizzare il templante liquido lipofilico precedentemente descritto:
Size
(nm
)
150
192,5
235
277,5
320
Hac DMEM PBS
UV No UV
l’emulsione di lecitina ed olio di soia. Utilizzare la nanoemulsione comporta
vantaggi come la possibilità di incapsulare grandi quantità di molecole
idrofobiche, proteggendole al loro interno, oltre ad essere un sistema
completamente biocompatibile. I risultati ottenuti riproducendo il metodo sul
nuovo modello sono esposti in Tabella 3-6:
Tabella 3-6: dimensioni, PDI e potenziale Z di nanocapsule trilayer su L2 oil 1%
Size (nm) PDI Z-potential (mV)
Templante 126,5 0,049 -32,1
Monolayer 142,1 0,092 27,6
Bilayer 174,6 0,125 -32,6
Trilayer 186,7 0,092 28,2
Trilayer in DMEM 423,8 1,000
Trilayer in PBS 546,9 1,000
Dalla Tabella 3-6, si può notare come i trilayer preparati non siano stabili
nelle soluzioni PBS e DMEM. Questo probabilmente perchè lo spessore dei
layer e di conseguenza il grado di cross-linking che li tiene insieme non è
sufficiente. A questo punto, le strategie possibili per risolvere il problema
sono due: aumentare il numero dei layer o aumentare la forza ionica della
soluzione per avere layer più spessi. Sulla base di ciò, per i nostri scopi, le
deposizioni sono state fatte in un buffer contenente una quantità nota (5mM)
di cloruro di sodio. La presenza di cloruro di sodio in soluzione determina
così un aumento della forza ionica e di conseguenza le cariche dei
polielettroliti risultano maggiormente schermate, rendendo le catene
polimeriche più compatte. Ai fini della deposizione ciò si traduce in una
maggiore quantità di polimero da depositare e un maggior spessore dei layer.
La maggiore quantità di polimero si traduce anche in un maggior numero di
gruppi tiolici e cllilici disponibili al cross-linking.
Il primo risultato ottenuto con questa strategia è un aumento delle
dimensioni delle nanocapsule (confronta Tabelle 3-6 e 3-7), conseguenza
della maggior quantità di polimero depositato. Infatti è stato necessario
aggiustare le concentrazioni dei polimeri, durante le varie fasi delle
deposizioni, per i nostri scopi, nel modo seguente: CT-LMW-IT 0,015%, Hep-P6
0,035% e CT-B-IT 0,075% (rispetto alle precedenti concentrazioni di CT-
LMW-IT 0,0125%, Hep-P6 0,032% e CT-B-IT 0,015%). Il risultato di questa
modifica del protocollo di deposizione è stato valutato con le prove di
biostabilità. In particolare a differenza di quanto visto in precedenza col
sistema a minore forza ionica (Tabella 3-6), le nanocapsule risultano stabili e
di dimensioni idonee anche in presenza di DMEM e PBS (Tabella 3-7).
In Figura 3.11 sono riportati le dimensioni e il PDI del trilayer, reticolato ed
ad aumentata forza ionica, disperso in PBS e DMEM a tempo 0 e dopo una
settimana, per verificarne la stabilità nel tempo. Anche in questo caso si nota
come il cross-link renda il sistema stabile e come tale stabilità è mantenuta a
lungo.
Tabella 3-7: size, PDI e Z-Potential di nanocapsule trilayer su L2 Oil 1% con maggiore forza ionica
Size (nm) PDI Z-potential (mV)
Templante 126,5 0,049 -32,1
Monolayer 158,4 0,133 21,9
Bilayer 176,0 0,108 -43,4
Trilayer 212,6 0,106 18,6
Trilayer in DMEM 211,8 0,118
Trilayer in PBS 226,0 0,127
Figura 3.12: studi di stabilità su campioni di trilayer irradiati a tempo 0 e dopo 7 giorni in soluzioni di DMEM e PBS.
4. Conclusioni
Size
(nm
)
0
65
130
195
260
0 d 7 d
DMEM PBS
Questo progetto di ricerca si è focalizzato sulla realizzazione di nanocapsule
biocompatibili a nucleo liquido, tramite la tecnica layer-by-layer, che
risultassero stabili in ambiente fisiologico, ma che al tempo stesso
degradassero in ambiente patologico così da rilasciare il contenuto al loro
interno.
La tecnica LbL rivela grandi potenzialità in quanto i polimeri che formano i
vari layer possono essere adeguatamente scelti e, per le nostre capsule, sono
stati utilizzati chitosano ed eparina. Questi due polimeri sono completamente
biocompatibili e biodegradabili e sono già utilizzati in numerose applicazioni
farmaceutiche; è stato inoltre scelto un templante biocompatibile e
biodegradabile, cioè un'emulsione O/W costituita da componenti naturali
come la lecitina (arricchita con fosfatidilcolina) ed olio di soia. Il templante a
base d’olio garantisce la possibilità di incapsulare farmaci lipofili all'interno
dei nanocarrier, punto molto importante se si considera che circa il 65% dei
farmaci presenti sul mercato sono lipofili.
Dopo l’assemblaggio LbL del multilayer, il nostro scopo era di stabilizzare
l'involucro mediante la formazione di legami covalenti, attraverso la
reticolazione UV tra gli strati, in modo che le nanocapsule risultanti fossero
più resistenti a stimoli esterni, come il valore di pH fisiologico, e quindi idonee
per la somministrazione sistemica in organismi umani. Inoltre, la loro
dimensione ridotta garantisce buone proprietà di “targeting passivo", con
seguente minor opsonizzazione e maggiore accumulo nei tessuti bersaglio,
come i tumori, che soffrono di mancanza di drenaggio linfatico e di eccessiva
permeabilità. Infine, per migliorare ulteriormente il sistema abbiamo optato
per una decorazione del layer più esterno con un polimero, il PEG, in grado di
conferire proprietà low-fouling. Quest’ultima caratteristica permette alle
nanocapsule di avere un’emivita più lunga, poichè non vengono riconosciute
dalle immunoglobuline e quindi rimosse.
Per ottenere la desiderata stabilità in ambiente fisiologico sono stati
fondamentali due step: il cross-linking tra i vari strati, che ha aumentato
notevolmente la stabilità del sistema, e la preparazione del monolayer in un
buffer a maggiore forza ionica che ha permesso di accrescere lo spessore del
primo strato e quindi di quello complessivo, consentendo al sistema stesso di
essere ancora più stabile anche in condizioni di forte stress ambientale.
Studi farmacologici in corso presso la facoltà di Farmacia, Dipartimento di
Farmacologia (Prof. Calignano), valuteranno la tossicità generale delle
nanocapsule in colture cellulari e successivamente in modelli animali,
approfondendo inoltre le possibilità di decorare lo strato esterno (con una
tecnica simile a quella utilizzata per la PEGilazione) anche con altri materiali
(peptidi, proteine, aptameri) in grado di conferire proprietà di targeting
attivo al sistema.
5. Appendice
5.1 Dynamic Light Scattering
La dimensione media, la distribuzione delle dimensioni, l’indice di
polidispersità (PDI) ed il potenziale Z della sospensione di nanocapsule sono
stati misurati con uno Zetasizer nano series (Figura 5.1), acquistato dalla
Malvern Instruments, utilizzando la tecnica del dynamic light scattering
(DLS).
Figura 5.1: Zetasizer.
Un tipico sistema di dynamic light scattering (Figura 5.2) comprende sei
componenti principali. In primo luogo, un laser (1) fornisce una sorgente di
luce per illuminare il campione contenuto in una cella (2). Per concentrazioni
diluite, la maggior parte del fascio laser passa attraverso il campione, ma una
parte è riflessa dalle particelle nel campione in tutti gli angoli. Un rivelatore
(3) viene utilizzato per misurare la luce diffusa in uno dei diversi angoli (per
esempio 173° o 90° e così via). L'intensità della luce dispersa, deve essere
entro un intervallo specifico per essere misurata con successo dal rivelatore.
Se viene rilevata troppa luce, allora il rilevatore diventa saturo. Per ovviare a
questo problema, un attenuatore (4) viene utilizzato per ridurre l'intensità
della sorgente laser e quindi per ridurre l'intensità di dispersione. Per i
campioni che non disperdono molta luce, come particelle molto piccole o
campioni a bassa concentrazione, la quantità di luce dispersa deve essere
aumentata. In questa situazione, l'attenuatore consentirà alla luce laser di
attraversare maggiormente il campione. L’intensità del segnale di
dispersione dal rivelatore viene passato ad una scheda di elaborazione
digitale chiamata correlatore (5).
Il correlatore confronta l'intensità di dispersione ad intervalli di tempo
successivi per derivare il tasso al quale l'intensità è variabile. Questa
informazione, detta funzione di correlazione, proveniente dal correlatore
viene poi passata ad un computer (6), dove il software analizza i dati e deriva
le informazioni sulla dimensione.
Figura 5.2: configurazione di un sistema DLS.
Misurazione della dimensione delle particelle
Il dynamic light scattering è una tecnica che può essere utilizzata per
determinare il profilo di distribuzione delle dimensioni delle particelle in un
sistema colloidale. In particolare, misura il moto browniano e lo correla alla
dimensione delle particelle. Il moto browniano è il movimento casuale di
particelle dovuto al bombardamento delle molecole di solvente che le
circondano. Normalmente DLS riguarda la misurazione di particelle sospese
in un liquido. Più grande è la particella, più lento sarà il moto browniano. Le
particelle più piccole vengono "calciate" ulteriormente dalle molecole di
solvente e si muovono più rapidamente. La velocità del moto browniano è
definita da una proprietà nota come coefficiente di diffusione traslazionale
(generalmente indicato con il simbolo D).
La dimensione di una particella viene calcolata attraverso il coefficiente di
diffusione traslazionale utilizzando l'equazione di Stokes-Einstein:
dove d(H) è il diametro idrodinamico, D è il coefficiente di diffusione
traslazionale, K è la costante di Boltzmann, T è la temperatura assoluta e η è
la viscosità. Si noti che il diametro che viene misurato con il DLS è un valore
che si riferisce a come una particella diffonde all'interno di un fluido così che
è indicato come un diametro idrodinamico. Il diametro che si ottiene con
questa tecnica è il diametro di una sfera che ha lo stesso coefficiente di
diffusione traslazionale di una particella. Il coefficiente di diffusione
traslazionale dipenderà non solo dalle dimensioni della particella "core", ma
anche da qualsiasi struttura superficiale, nonché dalla concentrazione ed il
tipo di ioni nel mezzo. Qualsiasi modifica alla superficie di una particella che
influisce sulla velocità di diffusione modifica corrispondentemente la
dimensione apparente della particella. Qualsiasi sistema reale è composto da
particelle di diverse dimensioni quindi la dimensione data dal calcolo è una
dimensione media. La polidispersità del sistema può essere più o meno
ampia; un parametro che fornisce questa informazione è l'indice di
polidispersità (PDI). Sia la dimensione media che il PDI sono date da analisi
cumulanti. Se la polidispersione è molto bassa, la distribuzione può essere
considerata monodispersa; più precisamente secondo gli standard del
National Institute of Standards and Technology (NIST) “la distribuzione delle
particelle può essere considerata monodispersa se almeno il 90% della
distribuzione si trova all’interno del 5% della mediana delle dimensioni".
Inoltre, lo strumento Zetasizer utilizzato nei nostri esperimenti permette un
controllo accurato della temperatura alla quale sono condotti, poiché questa
può influenzare la viscosità ed il moto browniano delle particelle in soluzione,
e rileva la luce diffusa a 173°. Questo tecnica è noto come il rilevamento a
retrodiffusione (backscattering, Figura 5.3).
Figura 5.3: geometria di un rilevatore a retrodiffusione.
Inoltre, le ottiche non sono in contatto con il campione e quindi le ottiche di
rilevamento sono dette non invasive. Ci sono diversi vantaggi nell'utilizzo di
un rilevamento non invasivo a retrodiffusione (NIBS):
- Il laser non deve viaggiare attraverso l'intero campione. Questo riduce
l'effetto chiamato scattering multiplo, in cui la luce da una particella è essa
stessa diffusa da altre particelle.
- Contaminanti quali particelle di polvere all'interno del disperdente sono
tipicamente grandi rispetto alle dimensioni del campione e grandi
particelle diffondono principalmente in avanti. Pertanto, mediante il
rilevamento a retrodiffusione, gli effetti della polvere sono notevolmente
ridotti.
Infine, è opportuno fare alcune altre considerazioni. Innanzitutto, è
necessario che le particelle siano piccole rispetto alla lunghezza d'onda del
laser utilizzato (tipicamente meno di d = λ/10), in modo che la dispersione di
una particella illuminata da un laser polarizzato verticalmente sia
sostanzialmente isotropica, cioè uguale in tutte le direzioni. In secondo luogo,
è importante considerare l’approssimazione Rayleigh che ci dice che Ι α d6 e
anche che Ι α = ︎1/λ︎4, dove Ι è l'intensità della luce diffusa, d è il diametro della
particella e λ è la lunghezza d'onda del laser.
Pertanto una particella di 50 nm disperderà la quantità di luce come una
particella di 5 nm. Quindi c'è il rischio che la luce delle particelle più grandi
sommergerà la luce diffusa da quelle più piccole. Questo fattore significa
anche che è difficile con la tecnica DLS misurare una miscela di particelle
comprese tra i 1000 nm ed i 10nm perché il contributo alla luce diffusa totale
delle particelle più piccole sarà estremamente basso. La relazione inversa a
λ4 ︎ significa che un’intensità di dispersione maggiore è ottenuta come la
lunghezza d'onda del laser utilizzato diminuisce.
Misure di potenziale Z
Il potenziale Zeta è una proprietà fisica mostrata da una qualsiasi particella
in sospensione e che è correlata alla carica superficiale della particella stessa.
Questa carica sulla superficie della particella influenza la distribuzione degli
ioni nella regione interfacciale circostante, con un conseguente aumento
della concentrazione di contro-ioni (ioni di carica opposta a quella della
particella) vicino alla superficie. Così un doppio layer elettrico esiste attorno
a ciascuna particella.
Lo strato liquido che circonda la particella esiste come due parti; una regione
interna, chiamato strato di Stern (Figura 6.4), dove gli ioni sono fortemente
legati, ed uno esterno, diffuso, in cui sono meno legati. All'interno dello strato
diffuso è presente un riquadro nozionale all'interno del quale gli ioni e le
particelle formano un'entità stabile. Quando una particella si muove (ad
esempio a causa della gravità), ioni all'interno del confine muovono con essa,
ma eventuali ioni al di là del confine non viaggiano con la particella.
Questo limite è chiamato superficie di taglio idrodinamico o scivolamento
aereo. Il potenziale esistente in questo confine è noto come potenziale Z.
Figura 5.4: illustrazione schematica del Potenziale Z.
Lo strato liquido che circonda la particella esiste come due parti; una regione
interna, chiamato strato di Stern (Figura 5.4), dove gli ioni sono fortemente
legati, ed uno esterno, diffuso, in cui sono meno legati. All'interno dello strato
diffuso è presente un riquadro nozionale all'interno del quale gli ioni e le
particelle formano un'entità stabile. Quando una particella si muove (ad
esempio a causa della gravità), ioni all'interno del confine muovono con essa,
ma eventuali ioni al di là del confine non viaggiano con la particella. Questo
limite è chiamato superficie di taglio idrodinamico o scivolamento aereo. Il
potenziale esistente in questo confine è noto come potenziale Z.
Il potenziale Z può essere utilizzato per ottimizzare le formulazioni di
sospensioni ed emulsioni. A volte, è anche un aiuto nel predire la stabilità a
lungo termine.
Misure di potenziale Z sono a volte utilizzate per valutare la stabilità dei
sistemi colloidali. Se tutte le particelle in sospensione presentano un ampio
potenziale Z positivo o negativo, allora tenderanno a respingersi e non vi sarà
alcuna tendenza per le particelle ad aggregarsi. Tuttavia, se le particelle
hanno valori di potenziale Z bassi allora non vi sarà alcuna forza a prevenire
le particelle dall’aggregarsi e flocculare. La linea di demarcazione generale
tra sospensioni stabili e instabili è generalmente considerata essere a +30 o
-30 mV. Le particelle con potenziali Z maggiori di +30 mV o minori di -30 mV
sono normalmente considerati stabili. Tuttavia, se le particelle hanno una
densità differente dalla disperdente, potrebbero sedimentare formando una
stretta colonna a riempimento (cioè una “hard cake”). Uno dei fattori più
importanti che influenzano il potenziale Z è il pH del campione. Il valore del
potenziale Z da solo, senza definire le condizioni della soluzione è un numero
praticamente insignificante. Per esempio, se consideriamo una particella in
sospensione con un potenziale Z negativo, aggiungendo alcali a questa
sospensione le particelle tendono ad acquisire carica più negativa che
aggiungendo acido a questa sospensione, fino al punto in cui la la carica sarà
neutralizzata. Ulteriore aggiunta di acido causerà un incremento delle
cariche positive. Pertanto il potenziale Z sarà positivo a pH basso e inferiore o
negativo a pH elevato. Ci può essere un punto in cui il potenziale Z passa per
lo zero. Questo punto è chiamato punto isoelettrico ed è normalmente il punto
in cui il sistema colloidale è meno stabile. Anche gli ioni in soluzione possono
influenzare il potenziale Z. Essi possono interagire con superfici di particelle
cariche in uno dei due modi seguenti:
1. Adsorbimento ionico non specifico, che non ha alcun effetto sul punto
isoelettrico;
2. Adsorbimento ione specifico, che porterà ad una variazione del valore del
punto isoelettrico.
L’adsorbimento specifico di ioni sulla superficie di una particella può avere un
effetto drammatico sul potenziale zeta della dispersione di particelle e in
alcuni casi può portare ad un'inversione di carica della superficie.
Lo Zetasizer Nano series calcola il potenziale Z determinando la mobilità
elettroforetica e quindi applicando l'equazione di Henry. La mobilità
elettroforetica è ottenuta effettuando un esperimento di elettroforesi sul
campione e misurando la velocità delle particelle utilizzando un Laser
Doppler (LDV).
Un'importante conseguenza dell'esistenza di cariche elettriche sulla
superficie delle particelle è che esse presentano alcuni effetti sotto l'influenza
di un campo elettrico applicato. Quando un campo elettrico viene applicato
attraverso un elettrolita, particelle cariche sospese nell'elettrolita sono
attratte verso l'elettrodo di carica opposta.
Figura 5.5: cella Zetasizer, con elettrodi ad entrambe le estremità, a cui è applicato un potenziale.
Forze viscose che agiscono sulle particelle tendono a contrastare questo
movimento. Quando si raggiunge l'equilibrio tra queste due forze opposte, le
particelle si muovono con velocità costante. La velocità della particella è
dipendente dalla forza del campo elettrico o dal gradiente di tensione della
costante dielettrica del mezzo, dalla viscosità del mezzo e dal potenziale Z. La
velocità di una particella in un campo elettrico è comunemente indicata come
la sua mobilità elettroforetica. Con questa conoscenza possiamo ottenere il
potenziale Z delle particelle mediante l'applicazione dell'equazione Henry:
dove z è il potenziale zeta, Ue la mobilità elettroforetica, ε la costante
dielettrica, η la viscosità e f(Ka) la funzione di Henry. Due valori sono
generalmente usati come approssimazioni per la determinazione di f(Ka): 1.5
quando determinazioni elettroforetiche di potenziale Z sono realizzate in
mezzi acquosi con una concentrazione di elettroliti moderata e 1.0 per le
piccole particelle in mezzi con costante dielettrica bassa. La Laser Doppler
Velocimetry (LDV) è una tecnica ben consolidata per misurare la velocità
delle particelle che si muovono attraverso un fluido in un esperimento di
elettroforesi. L’ottica ricevente è focalizzata in modo da trasmettere la
dispersione di particelle nella cella. La luce diffusa con un angolo di 17° è
combinata con il fascio di riferimento. Ciò produce un segnale di intensità
fluttuante dove il tasso di variazione è proporzionale alla velocità delle
particelle. Un processore di segnale digitale viene utilizzato per estrarre le
frequenze caratteristiche nella luce diffusa.
5.2 Spettrofotometro
!
Figura 5.6: Spettrofotometro
La spettrofotometria UV/Visibile si basa sull’assorbimento selettivo da parte
di molecole, delle radiazioni con lunghezza d’onda compresa fra 10 nm e
780 nm. Tale gamma spettrale si può suddividere in tre regioni:
• UV lontano (10 - 200 nm)
• UV vicino (200 - 380 nm)
• Visibile (380 - 780 nm)
Questo tipo di assorbimento comporta l’eccitazione degli elettroni di valenza,
la quale richiede energie tanto più elevate quanto più grande è la distanza fra
il livello elettronico di partenza e di arrivo delle transizioni. Tale fenomeno lo
si può sfruttare a fini analitici, irraggiando il campione in esame con una
radiazione, a lunghezza d’onda conosciuta, di intensità fittizia (I); rilevando
poi l’intensità della radiazione emergente (I-x) si definisce trasmittanza la
grandezza: T= (I-x) / I. Ricordando che ogni singola sostanza da analizzare
assorbe ad una lunghezza d’onda specifica, la legge che descrive questo tipo
di assorbimento, è la legge di Lambert-Beer, la quale è applicabile soltanto nel
caso di radiazioni monocromatiche. La sua formulazione è: A = a · b · C, dove
A = assorbanza (log1/T), a = coefficiente di estinzione (molare se la
concentrazione viene espressa in mol/l), b = spessore della cella e C =
concentrazione della specie in esame. Lo schema dello strumento è il
seguente:
Figura 5.7: modello di spettrofotometro. 1) specchio mobile; D) sorgente; 2) elemento disperdente; W) monocromatore; 3) filtro ottico; 4) chopper; 5) campione; 6) bianco; 7) sistema riallineamento;
8) rivelatore; 9) sistema di elaborazione dati.
La sorgente è costituita da una lampada, la quale deve emettere una
radiazione quanto più possibile costante e riproducibile. Per emissioni nella
regione del visibile si usano lampade a filamento di tungsteno che coprono un
intervallo di lunghezze d’onda compreso fra 930 e 330 nm; la temperatura di
lavoro è di circa 3000° K e naturalmente l’intensità della radiazione
luminosa dipende dalla tensione applicata, secondo la relazione I = V4. Per
lavorare nella regione UV si usano invece lampade al deuterio (un isotopo
dell’idrogeno) le quali emettono in modo continuo al di sotto dei 400 nm; il
bulbo della lampada è infatti riempito di questo isotopo che viene eccitato
tramite scarica elettrica; ritornando allo stato fondamentale, l’elettrone
emette una radiazione di energia che viene poi diretta verso uno specchio
mobile che lo riflette verso il monocromatore.
Il monocromatore è costituito da due parti: un elemento disperdente e un
filtro ottico. Questo strumento riesce a scomporre la radiazione policromatica
emessa, in bande monocromatiche.
La qualità di tale strumento dipende da due parametri: l’ampiezza della
banda passante (responsabile della scelta di una particolare radiazione) ed il
potere risolvente (la capacità di separare fra di loro più lunghezze d’onda).
Come nel caso del monocromatore di cui è fornito il nostro apparecchio,
vengono spesso usati sistemi a riflessione che garantiscono un recupero
energetico di circa l’80% sulla radiazione policromatica incidente; in questi
dispositivi l’elemento disperdente è costituito da un piano caratterizzato da
solchi con un particolare angolo di taglio (angolo di Blaze), e vi sono due
tipologie di reticoli: echelle (la riflessione avviene sul lato più lungo) o
echellette (la riflessione avviene sul lato più corto). Come in tutti i
monocromatori, la radiazione policromatica viene divisa in tanti raggi i quali
possono dare un interferenza costruttiva (quando la differenza di cammino
ottico è uguale ad un numero intero di lunghezze d’onda) o distruttiva in tutti
gli altri casi.
E' importante ricordare che ogni elemento disperdente a riflessione funziona
in maniera ottimale ad una particolare lunghezza d’onda, chiamata
lunghezza di Blaze, dove cioè l’angolo di riflessione e l’angolo di diffrazione
coincidono dando luogo ad una radiazione monocromatica ad elevata
intensità.
Il comparto celle è la sezione dello spettrofotometro dove il raggio incidente
viene sdoppiato con un chopper, in due radiazioni di uguale intensità e diretto
rispettivamente verso il campione e verso il bianco. Questa modalità a doppio
raggio permette di eliminare i problemi dovuti alla non costante emissione
della lampada; infatti si riesce con tale artificio a rilevare un assorbimento in
maniera relativa facendo un rapporto bianco/campione.
Le soluzioni da analizzare vengono poste in celle (di larghezza circa uguale
ad 1 cm) di materiale diverso ed a seconda che si lavori con radiazioni di
lunghezza d’onda compresa nella regione UV o visibile, si usano
rispettivamente cuvette rettangolari di quarzo o vetro.
I più comuni rivelatori sono: celle fotovoltaiche, fotodiodi, fototubi e
fotomoltiplicatori. Nel caso dei primi due tipi si riesce a trasformare la
radiazione luminosa in segnale elettrico, grazie a caratteristiche dei
conduttori, nei quali gli elettroni sottoposti a radiazione luminosa passano
dagli orbitali di legame (banda di valenza) a quelli di antilegame (banda di
conduzione). Nei primi due modelli, abbastanza simili, la radiazione colpisce
un semiconduttore, rivestito da due lamine di metallo, e produce un segnale
di corrente misurato da un galvanometro; l’unica grossa differenza consiste
nell’applicazione, nelle celle fotoconduttive, di un generatore che permette
quindi una misura relativa della corrente (prima e dopo che la radiazione ha
colpito il semiconduttore). Nei fototubi e nei fotomoltiplicatori si sfrutta
l'effetto fotoelettrico grazie al quale un metallo è ionizzato da una radiazione
di opportuna energia. I fotomoltiplicatori hanno una elevata sensibilità e sono
in grado di ampliare il segnale prodotto dalla radiazione che colpisce la
griglia di metallo, grazie ad una disposizione in serie di anodi a potenziale
crescente dall’alto verso il basso. Si ottiene così un effetto a cascata che
amplifica il segnale di 106 rispetto a quello che si ottiene dai fototubi. Per tutti
i detector esiste una relazione di proporzionalità fra l’intensità di corrente
generata e quella della radiazione incidente.
Questa sezione dello strumento serve alla rielaborazione e alla presentazione
dei dati ottenuti. Solitamente sono presenti microprocessori in grado di dare
il risultato direttamente in assorbanza e di scegliere fra varie modalità di
gestione dello spettrofotometro, quali: il tipo di lampada, la banda passante
del monocromatore, la risoluzione, il tempo di risposta, il rapporto segnale-
rumore, etc.
5.3 Ubbelohde
Figura 5.8: viscosimetro Ubbelohde.
Il viscosimetro è uno strumento che si usa per misurare la viscosità dei fluidi.
Il metodo classico di misura è dovuto a George Gabriel Stokes e consiste nel
misurare il tempo che un fluido impiega a transitare attraverso un capillare
di vetro di lunghezza nota. Questo metodo è tuttora utilizzato per la
misurazione standard della viscosità dell'acqua e più in generale per i fluidi
newtoniani. In condizioni ideali può avere una precisione dello 0,1% circa.
Non è adatto alla misura in fluidi ad alta viscosità o contenenti particelle
solide. Inoltre non si può utilizzare con fluidi non newtoniani. La
determinazione della viscosità è basata sulla legge di Poiseuille:
in cui t è il tempo di eluizione di un volume V di fluido. Il rapporto dipende
dal valore del raggio del capillare R, dalla pressione applicata P, dalla
lunghezza del capillare L e dalla viscosità dinamica η. La differenza media di
pressione è data da:
essendo ρ la densità del liquido, g la costante di gravità e H l'altezza media del
menisco liquido.
In genere la viscosità del liquido viene confrontata con la viscosità di un altro
liquido, per cui si impiega la viscosità relativa, che è data da:
.
in cui t0 e ρ0 rappresentano il tempo di deflusso e la densità del liquido puro.
Nel caso di soluzioni molto diluite, vale la seguente relazione:
e la cosiddetta "viscosità specifica" viene calcolata come:
La viscosità intrinseca può essere determinata sperimentalmente misurando
il numero di viscosità in funzione della concentrazione in corrispondenza
dell'intercetta dell'asse delle ordinate.
Un viscosimetro di tipo Ubbelohde è uno strumento di misura che utilizza un
metodo basato misurazione della viscosità in un capillare. E’ raccomandato
per soluzioni polimeriche cellulosiche a viscosità più elevata. Il vantaggio di
questo strumento è che i valori ottenuti sono indipendenti del volume totale.
Il dispositivo è stato inventato dal chimico tedesco Leo Ubbelohde.
Il viscosimetro Ubbelohde è di vetro a forma di U con un serbatoio su un lato e
una lampadina di misura con un capillare dall’altra. Un liquido viene
introdotto nel serbatoio e poi aspirato attraverso il capillare con la lampadina
di misurazione. Rilasciata il palloncino, il liquido torna indietro attraverso il
bulbo di misura e il tempo necessario per il passaggio del liquido attraverso
due marchi calibrati è una misura della viscosità. Il dispositivo Ubbelohde ha
un terzo braccio estendentesi dall'estremità del capillare e aperto
all'atmosfera. In questo modo la testa di pressione dipende solo da un'altezza
fissa e non più dal volume totale di liquido.
5.4 NMR
Figura 5.9: NMR
La determinazione della struttura di un composto organico è utile per il
riconoscimento di composti noti, per la struttura di composti nuovi (prodotti
naturali) e per la conferma della struttura di prodotti di reazione.
Attualmente la determinazione delle strutture dei composti è effettuata quasi
esclusivamente attraverso tecniche spettroscopiche. La spettroscopia
utilizza l’interazione di una radiazione elettromagnetica con le molecole del
campione in esame per ricavare informazioni sulla loro struttura. Tra le
tecniche spettroscopiche troviamo: spettroscopia ultravioletta (UV),
spettroscopia infrarossa (IR), risonanza magnetica nucleare (NMR) e
spettrometria di massa (MS).
L’energia totale di una molecola può essere considerata come la somma
dell’energia di spin nucleare (NMR), dell’energia vibrazionale (IR),
dell’energia rotazionale (microonde), dell’energia traslazione o dell’energia
elettronica (UV).
Figura 5.10: schema di una postazione NMR
La spettroscopia di risonanza magnetica nucleare sfrutta la differenza di
energia che i vari stati di spin nucleari possono assumere in presenza di un
campo magnetico. Il nucleo atomico, poiché carico ed in movimento, genera
un campo magnetico. Perciò ogni nucleo dotato di spin si comporta come un
piccolo magnete, è cioè dotato di un momento dipolare magnetico. Il momento
magnetico è proporzionale al momento di spin e ne ha la stessa direzione. La
costante di proporzionalità tra il momento magnetico ed il momento di spin è
detta rapporto giromagnetico. Il rapporto giromagnetico è una caratteristica
intrinseca del nucleo, è diverso da nucleo a nucleo, e non può essere previsto
teoricamente, ma solo misurato.
I due stati di spin α e β di un nucleo hanno la stessa energia, a meno che il
nucleo non sia in un campo magnetico. In questo caso, lo stato α assume
un’energia minore dello stato β e diventa possibile un tipo di spettroscopia
che sfrutta il passaggio tra gli stati α e β del nucleo. Questo tipo di
spettroscopia è detta spettroscopia NMR. L’equazione che mette in relazione
la differenza di energia ΔE tra gli stati di spin α e β con il campo magnetico
(B0) ed il rapporto giromagnetico (γ) è l’equazione fondamentale per l’NMR:
ΔE= γhB0
La differenza di energia tra gli stati α e β è molto piccola, quindi il numero di
nuclei nello stato α è molto simile a quello dei nuclei nello stato β. I nuclei
nello stato A assorbono fotoni passando allo stato β, ma i nuclei nello stato B
emettono fotoni per emissione stimolata e passano allo stato α.
L’assorbimento netto di radiazione elettromagnetica è dovuta solo dal piccolo
eccesso di nuclei nello stato α rispetto a quelli nello stato β. La sensibilità
NMR è quindi bassa. La differenza di popolazione tra gli stati α e β è
direttamente proporzionale a ΔE, e quindi a B0 e γ. Quindi la sensibilità di un
esperimento NMR aumenta all’aumentare del campo magnetico applicato; i
nuclei utilizzabili per l’NMR devono avere I ≠ 0, in particolare sono utili i
nuclei con spin ½. Tutti i nuclei con numero atomico pari e massa atomica
pari hanno I ≠ 0. Il nucleo dell’idrogeno è il nucleo più utilizzato per NMR,
poiché ha il rapporto giromagnetico più alto di tutti i nuclei stabili ed ha
abbondanza isotopica del 100%. Le nubi elettroniche intorno ai nuclei sono in
grado di schermare leggermente il campo magnetico subito dal nucleo e
quest’effetto è diverso da atomo ad atomo. Quindi i nuclei chimicamente
differenti risuonano a frequenze leggermente diverse, e queste differenze di
frequenza sono dette spostamenti chimici o chemical shift. Le differenze di
frequenza sono piccole ma possono essere misurate accuratamente. E’
possibile correlare il chemical shift alla distribuzione di elettroni nella
molecola e quindi alla struttura chimica. Il campo magnetico applicato causa
un movimento degli elettroni nella nube elettronica, che produce un campo
magnetico indotto che scherma il nucleo. L’effetto schermante è tanto
maggiore quanto maggiore è la densità elettronica intono al nucleo. Perciò i
protoni circondati da un’alta densità elettronica risuonano a frequenza
inferiore di protoni circondati da una bassa densità elettronica. Quello che è
collegato alla struttura della molecola no è quindi la frequenza assoluta di
risonanza, ma il chemical shift. L’intensità di un segnale nello spettro NMR è
proporzionale al numero di protoni che lo genera. Per l’intensità si intende
non l’altezza del picco, ma l’area sottesa al picco, cioè l’integrale del picco.
I segnali degli spettri NMR hanno struttura fine (o molteplicità): ogni protone
dà luogo a più di un segnale. La causa della struttura fine è l’accoppiamento
spin-spin, ossia l’influenza degli stati di spin di un nucleo sulla frequenza di
risonanza dei nuclei che lo circondano, per via dei momenti magnetici. I
momenti magnetici nucleari possono interagire in maniera diretta o
indiretta, attraverso gli elettroni di legame. L’accoppiamento attraverso
quest’ultimo meccanismo è detto accoppiamento scalare ed è responsabile
della molteplicità dei segnali. L’accoppiamento scalare dipende dal numero di
legami chimici che separano i nuclei e non dalla loro distanza nello spazio. In
generale sono visibili accoppiamenti tra nuclei separati fino a 3 legami.
La cuvetta per NMR è una provetta di vetro con pareti molto sottili,
tipicamente di 5 mm di diametro in cui si pongono da 500 μL ad 1 ml di
soluzione di campione. Per la buona riuscita degli esperimenti è molto
importante che lo spessore del vetro sia estremamente uniforme e che la sua
forma sia esattamente cilindrica. La spettroscopia NMR ad alta risoluzione
può essere effettuata solo su campioni in soluzione, a causa dell’anisotropia
del chemical shift e degli accoppiamenti dipolari. Il solvente non deve
interferire con la misura, e per questo si usano solventi deuterati. E’
comunque possibile usare come solvente anche l’acqua, usando tecniche
particolari per la soppressione dell’enorme segnale dei protoni dell’acqua.
Anche i solventi deuterati contengono una piccola percentuale di atomi di H e
danno luogo ad un segnale residuo.
Per la spettroscopia NMR è necessario un campo magnetico il più possibile
intenso (perché aumenta la sensibilità), uniforme (perché i segnali sono
stretti) e costante nel tempo (perché gli esperimenti possono essere lunghi).
Il campo magnetico è generato da un magnete superconduttore, in cui una
corrente molto intensa circola in una bobina di materiale superconduttore
immerso in elio liquido a -268.8 C°. La cuvetta NMR è posta su un apposito
supporto ed è introdotta nel magnete dall’alto con un sistema pneumatico. La
cuvetta va a finire al centro del magnete, nella zona in cui il campo magnetico
è più intenso, all’interno di un solenoide di rame che funge da antenna
trasmittente e ricevente per la radiofrequenza. La console NMR ha il compito
di produrre la radiazione elettromagnetica che poi interagisce con le
molecole del campione all’interno del magnete. Poiché si tratta di
radiofrequenze, queste sono prodotte da circuiti elettronici, e arrivano al
campione su fili di rame. Inoltre la console riceve la debole radiofrequenza
emessa dal campione, ampliata milioni di volte, è poi elaborata dalla
workstation. Uno spettro NMR può essere ottenuto in 2 modi: per scansione
della frequenza, si varia la frequenza della radiazione elettro-magnetica e si
misura l’assorbimento ad ogni frequenza, o per scansione del campo, si varia
il campo magnetico a frequenza costante.
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