Post on 07-Aug-2020
Il punto di vista
Gli ottimi propositi dell'ennesima rivisitazione delle procedure concorsuali
di Luigi Nerli 2
Approfondimenti
Autonomia dell’obbligazione solidale per sanzioni amministrative
di Fabrizio Nativi 6
Lavoratrice madre e licenziamento per chiusura reparto
di Lucia Di Pietro 12
Le indicazioni della Corte di Giustizia su cambio di appalto e trasferimento d’impresa
di Gabriele Gamberini 20
Orario di lavoro e smart working
di Maurizio Polato 27
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
Tipizzazioni degli illeciti disciplinari nel Ccnl e contratto a tutele crescenti
di Evangelista Basile e Fabio Fontana 38
La gestione delle controversie di lavoro
Assenze ingiustificate alle visite di controllo
di Carlo Andrea Galli 46
L’osservatorio giurisprudenziale
L’osservatorio giurisprudenziale di dicembre - Rassegna della Corte di Cassazione
di Evangelista Basile 55
1 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il punto di vista
2 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Gli ottimi propositi dell'ennesima
rivisitazione delle procedure
concorsuali di Luigi Nerli - consulente del lavoro
È ormai passato più di un mese dalla pubblicazione, sulla G.U. n. 254/2017, della L. 155/2017, legge
delega per la riforma delle discipline della crisi d'impresa e d'insolvenza, entrata in vigore il 14
novembre 2017.
Nei lavori preparatori di questa "nuova" riforma (l'ultima definita tale era stata quella del 2005, ma
una lunga serie di "ritocchi", che avevano portato variazioni più o meno determinanti ed efficienti
nell'impianto della Legge Fallimentare, si sono poi comunque succeduti anche dopo quella data) è
apparso l'ambizioso obiettivo di cercare di "prevenire" il picco più alto e molte volte irrecuperabile
della crisi aziendale, che oggi è ben identificato nell'apertura della procedura concorsuale, quando la
situazione imprenditoriale è seriamente compromessa.
Il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e dell'economia, è ora chiamato a
istituire la commissione ministeriale per dare celermente corpo all'esercizio della delega prima che si
arrivi allo scioglimento delle Camere.
Da operatore del settore e frequentatore qualificato delle sezioni fallimentari dei Tribunali mi
parrebbe pretenzioso prevedere quelli che possono essere i "cambiamenti" concreti che potranno
essere raggiunti, al momento mi sembra più realistico descrivere quelli che sono gli obiettivi inseguiti
dal Legislatore e attraverso quali nuovi strumenti normativi. Anche se le aspettative paiono essere
davvero molto alte, se dovessimo prendere a misura le dichiarazioni del Ministro della giustizia
Orlando, che ha riferito di una "riforma epocale".
Cambia il lessico delle procedure in simbiosi con gli obiettivi delle nuove disposizioni, tanto da
cancellare il termine fallimento. Si cercherà di anticipare i tempi d'intervento sulla crisi, ma allo
stesso tempo di accelerare e snellire la gestione della procedura e, per quanto possibile, di preservare
il patrimonio imprenditoriale, cercando di spostare la centralità delle procedure concorsuali sul
raggiungimento della continuità aziendale.
Il punto di vista
3 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Tutto ciò avviene quando ormai si è valicata la cima della crisi economica, che, fino all'anno 2015, ha
prodotto un crescendo di fallimenti (addirittura più di 15.000 in quell'anno), con decozione di migliaia
di aziende, che hanno cancellato migliaia di posti di lavoro e tangibili realtà imprenditoriali che erano
e potevano essere patrimonio economico nazionale, il cui "de profundis" ha innegabilmente favorito
altre imprese, che non sempre sono risultate dislocate con il loro core business sul territorio Italiano.
Una vera e propria tragedia imprenditoriale, che a catena ha creato diseconomie finanziarie, che, a
loro volta, hanno procurato nuove crisi imprenditoriali.
Questi dati che freddamente rappresento sono in realtà disfatte personali e imprenditoriali che hanno
minato la qualità della vita di famiglie e inciso profondamente su interi territori, e forse hanno
segnalato, se c'era bisogno, che per tutelare al meglio i creditori di una realtà in difficoltà non si può
che "accompagnare" quella situazione di crisi a una diversa organizzazione imprenditoriale. Sempre
che non si arrivi troppo tardi.
Dopo tanta tempesta ancora non si vede il sereno, ma si studiano i rimedi di un'eventuale nuovo e
certamente non auspicato momento d'urgenza, che s'impernia sul concetto di monitoraggio dello
stato di crisi aziendale: la procedura di allerta e di composizione assistita della crisi, strumento non
giudiziale e confidenziale.
Detto provvedimento sarà applicabile alle imprese con meno di 250 dipendenti o che abbiano un
fatturato fino a 50.000.000 di euro e un attivo di bilancio non superiore a 43.000.000 di euro e, in
quanto tali, non si possano definire "grandi imprese". Insomma, la stragrande maggioranza del tessuto
produttivo e dei servizi nazionali.
Se poi davvero si riuscisse a "cogliere" la crisi nel momento in cui ancora non sia pregiudicata la
continuità aziendale si darebbe sostanza agli interessi generali, intesi quelli più vicini di salvaguardia
dei posti di lavoro, di mantenimento del know-how aziendale, della tutela dei creditori, ma soprattutto
quelli pubblici di evitare oltre al depauperamento di conoscenze che producono benessere, i costi di
procedure il più delle volte di assai poco ristoro per la massa creditizia. Un vero dispendio di risorse
insomma.
Ecco perché sono stati previsti meccanismi premiali per l'imprenditore che si rivolge con celerità alla
procedura d'allerta, e perché si prevede un revisore contabile per le imprese con almeno 10
dipendenti o 2.000.000 di euro di fatturato. La crisi, se dovesse sfociare residualmente nella procedura
di liquidazione giudiziale (che sostituirà il fallimento), sarà affrontata con un'implementazione dei
poteri della curatela anche attraverso semplificazioni procedurali per la massa creditoria.
Il punto di vista
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Con schiettezza debbo aggiungere che non è un passo da poco quello che si dovrebbe intraprendere,
che potrà essere produttivo di miglioramento quando si sarà consolidata una diversa mentalità
"sociale" negli attori delle parti in causa, in primis in quella dell'imprenditore. Per meglio intervenire
sulle filosofie che hanno ispirato l'intervento normativo si è prevista l'istituzione di un registro
nazionale dei curatori, sottraendo il registro dei curatori alle decisioni dei singoli Tribunali, così come
viene prevista la specializzazione dei giudici per la materia.
Si correggono le storture più evidenti, e il concordato preventivo viene profondamente rivisto per un
modello preventivo e preferibile di concordato in continuità, non dimenticando incentivi alla
ristrutturazione dei debiti. Il concordato preventivo oggi praticato era ormai rappresentato
nell'anticamera del fallimento.
Operativamente, vanno segnalati l'apporto e la dinamicità richiesti agli organi delle procedure, che
dovranno confrontarsi pur sempre con i meccanismi processuali e amministrativi ben conosciuti, come
ad esempio le CCIAA, dove sarà previsto uno specifico organismo che assista il debitore nella
procedura di composizione assistita della crisi. Forse anche in quelle sedi sarà conditio sine qua non un
vero e proprio "cambio di passo", che, parimenti, dovrebbe coinvolgere la professionalità e
deontologia degli organi di controllo "ordinari" societari.
Si è oltremodo previsto un rito speciale processuale uniformato per le diverse procedure.
Dunque, nella nuova riforma del fallimento s'intravedono diverse iniziative, che vorrebbero spostare
forme di controllo, oggi piuttosto "tardive", a momenti in cui la crisi possa definirsi nascente,
allargando il campo a organismi e controllori per un "pronto intervento", e definendo un’unica
procedura per i gruppi di imprese, oggi invece assoggettabili a singole procedure riconducibili alle
singole imprese.
Questa filosofia preventiva dovrà essere accompagnata da un innalzamento qualitativo degli approcci
di controllo e da una più approfondita specializzazione da parte di coloro che andranno a
impersonificare gli organi delle varie procedure. La speranza di tutti è quella di riscontrare un
miglioramento degli indicatori economici che possa precludere alla ripresa della domanda di beni e
servizi, che, insieme a una rivisitazione degli innumerevoli costi e balzelli burocratici propri del
territorio italico (che davvero minano la buona volontà degli ultimi veri imprenditori rimasti), aiutino
la gestibilità dell'impresa, oggi sempre più preda della voracità fiscale di uno Stato che zavorra lo
sviluppo con politiche miopi e controproducenti.
Per i rapporti di lavoro all'interno delle procedure non sono stati previsti cambiamenti. Senz'altro,
perché si è doverosamente rivolta l'attenzione allo stato di salute dell'impresa, nel tentativo di
Il punto di vista
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prevenire ogni forma di dissesto che possa intaccare la sua vitalità. Non sarebbe stato male, però,
poter riconsegnare ai responsabili delle procedure un'arma in più per poter preservare e difendere il
raggiungimento della continuità aziendale: l'articolo 3, L. 223/1991, ormai abrogato e "seppellito" dal
D.Lgs. 148/2015. La Cigs, se pur per periodi limitati, oggi espunta dagli strumenti a disposizione della
curatela, potrebbe essere un valido aiuto in momenti in cui l'unica alternativa a un rapporto di lavoro
senza retribuzione e accredito contributivo previdenziale per i lavoratori coinvolti, in conseguenza
delle previsioni dell'articolo 72 L.F., è la risoluzione del rapporto stesso.
Approfondimenti
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Il giurista del lavoro n. 12/2017
Autonomia dell’obbligazione solidale
per sanzioni amministrative di Fabrizio Nativi – direttore INL Genova
Con la recente nota n. 10174 del 20 novembre 2017, l’INL fornisce un importante
chiarimento in relazione all’autonomia delle posizioni del trasgressore e dell’obbligato
solidale rispetto a sanzioni amministrative irrogate con emissione di un provvedimento
ingiuntivo. Dalla recente sentenza della Cassazione a Sezione Unite n. 22082/2017 può
infatti desumersi che l’obbligazione in capo al debitore solidale non ha solo funzione di
garanzia per il pagamento della sanzione, ma soddisfa anche una funzione di deterrenza
nei confronti di soggetti giuridici e società.
L’obbligazione solidale per sanzioni amministrative
L’articolo 6, L. 689/1981, prevede che:
“Il proprietario della cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione o, in sua vece,
l'usufruttuario o, se trattasi di bene immobile, il titolare di un diritto personale di godimento, è
obbligato in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta se non
prova che la cosa è stata utilizzata contro la sua volontà.
Se la violazione è commessa da persona capace di intendere e di volere ma soggetta all'altrui
autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita dell'autorità o incaricata della direzione o della
vigilanza è obbligata in solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo
dovuta, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.
Se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica o di un
ente privo di personalità giuridica o, comunque di un imprenditore, nell'esercizio delle proprie
funzioni o incombenze, la persona giuridica o l'ente o l'imprenditore è obbligato in solido con
l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta.
Nei casi previsti dai commi precedenti chi ha pagato ha diritto di regresso per l'intero nei confronti
dell'autore della violazione”.
La P.A. può rivolgersi a propria scelta all’uno o all’altro dei propri debitori per pretendere l’intera
somma. Il debitore prescelto è tenuto ad adempiere per intero senza poter opporre patti contrari.
Approfondimenti
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La sanzione amministrativa può, quindi, essere coattivamente riscossa agendo sul patrimonio di
uno qualunque dei soggetti obbligati. Nel caso di insufficienza del patrimonio di un soggetto
obbligato, per la quota insoddisfatta si potrà avviare azione esecutiva nei confronti degli altri
condebitori.
Il soggetto che ha pagato a titolo di obbligato solidale ha diritto di regresso per l’intera somma nei
confronti del soggetto individuato come materiale trasgressore.
Non è ammessa liberazione dalla posizione di responsabile solidale, fermo restando un presupposto: è
necessario che il trasgressore abbia agito in relazione a un ruolo attribuito dall’obbligato in solido
nella propria organizzazione. Nessuna responsabilità solidale potrà configurarsi per violazioni
commesse dal trasgressore in attività proprie, estranee a quelle d’impresa.
Con particolare riferimento a quanto concretamente può verificarsi per le violazioni in materia di
lavoro, la responsabilità solidale grava:
− sull’imprenditore, per le condotte poste in essere dai propri dipendenti;
− sulle società in nome collettivo, per l’azione di ciascuno dei propri soci amministratori;
− sulle Sas o Spa, per l’azione di ciascuno dei soci accomandatari;
− sulle Srl e sulle Spa, per le azioni dei propri amministratori, siano essi soci o meno;
− sulle società cooperative, per le azioni dei propri amministratori, soci o mandatari di persone
giuridiche socie.
Autonomia delle obbligazioni
Con la nota n. 10174/2011, l’Ispettorato chiarisce i contenuti della recente sentenza SS.UU. n.
22082/2017 della Corte di Cassazione, circa l’interpretazione del suddetto articolo 6, L. 689/1981,
nonché dell’articolo 14, ultimo comma, della medesima legge, ai sensi del quale,
“l'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione si estingue per la persona nei cui
confronti è stata omessa la notificazione nel termine prescritto”.
La sentenza puntualizza che:
“in tema di sanzioni amministrative, la solidarietà prevista dall’art. 6 della l. n. 689 del 1981 non si
limita ad assolvere una funzione di garanzia, ma persegue anche uno scopo pubblicistico di
deterrenza generale nei confronti di quanti abbiano interagito con il trasgressore rendendo possibile
la violazione, sicché l’obbligazione del corresponsabile solidale è autonoma rispetto a quella
dell’obbligato in via principale e, pertanto, non viene meno nell’ipotesi in cui quest'ultima, ai sensi
Approfondimenti
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dell’art. 14, ultimo comma, della detta l. n. 689 del 1981, si estingua per mancata tempestiva
notificazione, con l’ulteriore conseguenza che l’obbligato solidale che abbia pagato la sanzione
conserva l’azione di regresso per l’intero verso l’autore della violazione, il quale non può eccepire,
all’interno di tale ultimo rapporto, che è invece di sola rilevanza privatistica, l’estinzione del suo
obbligo verso l'Amministrazione”.
Il precedente su cui fa base la recente sentenza è la sentenza Cassazione SS.UU. n. 890/1994
(preceduta dalla n. 4405/1991), con la quale si era affermato che l'identificazione del trasgressore non
è un requisito di legittimità dell'ordinanza-ingiunzione emessa nei confronti dell'obbligato solidale,
ancorché necessaria per esperire l'azione di regresso di cui all’articolo 6, L. 689/1981, ovvero ai fini
della prova della violazione nel giudizio di opposizione o della valutazione della motivazione del
provvedimento sanzionatorio o, infine, della verifica dei presupposti del nesso di solidarietà, in
relazione ai rapporti fra il trasgressore e il coobbligato. In tale occasione la Corte aveva precisato che:
“a) che l'assoggettamento a sanzione dell'obbligato solidale (sia esso una persona fisica come
l'imprenditore individuale o un soggetto collettivo) non presuppone necessariamente l'identificazione
dell'autore della violazione alla quale la sanzione stessa si riferisce;
b) che l'autonomia delle posizioni dei due obbligati si desume chiaramente dall'art.14, ultimo
comma, della legge n.689/81;
c) che dunque non vi è un legame necessario tra le due obbligazioni, l'una potendo sussistere anche
se l'altra si è estinta;
d) che, pertanto, l'identificazione dell'autore del fatto può assumere eventualmente carattere di
necessità solo per finalità di ordine probatorio;
e) che la previsione dell'azione di regresso di cui all'ultimo comma dell'art.6 della legge n.689/91 è
autonoma rispetto alla responsabilità per la sanzione amministrativa e l'eventualità che ne sia
impossibile l'esercizio non può far venire meno l'obbligazione del debitore solidale”.
A seguito della sentenza a SS.UU., possono qualificarsi come irrilevanti alcune vicende che
coinvolgono il rapporto sanzionatorio, di natura pubblicistica, con il trasgressore, rispetto al rapporto
privatistico fra obbligato solidale e trasgressore.
Il principio di personalità si collocherebbe in un sistema che contempla anche forme estese di
responsabilità aggravata, mirando a dissuadere quelle condotte (in vigilando o in eligendo) che
possano agevolare la violazione delle norme di legge. Il principio di personalità non ne risulterebbe
compromesso. L'illecito sarebbe però anche un fatto di rilevanza sociale non attinente la sola vicenda
privata del singolo. E, in effetti, aggiunge la Corte, le più recenti evoluzioni in tema di responsabilità
Approfondimenti
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trovano coinvolte direttamente le responsabilità di enti collettivi (vedi il D.Lgs. 231/2001). La
solidarietà per l’illecito amministrativo non si limita ad assolvere quindi una funzione di sola garanzia,
ma persegue anche e soprattutto uno scopo pubblicistico di deterrenza generale nei confronti di
privati, persone fisiche o enti, che abbiano ruoli di scelta o vigilanza sul trasgressore.
La sentenza, quindi, smentisce ulteriormente l’orientamento (si vedano Cassazione, n.
23871/2011 e n. 26387/2008), secondo il quale dall'estinzione dell'obbligazione del
trasgressore deriva anche l'estinzione dell'obbligazione a carico del condebitore solidale,
dovendosi riconoscere carattere principale all'obbligo incombente sul primo dei 2 soggetti.
Secondo tale teoria, oramai smentita da una sentenza uniformante, la posizione dell’obbligato
solidale si troverebbe quindi in posizione di accessorietà e dipendenza rispetto all’obbligazione
dell'autore materiale e principale della violazione, nei cui confronti l’obbligato solidale non potrebbe
esercitare il diritto di regresso previsto dallo stesso articolo 6, comma 4, una volta estintasi
l’obbligazione principale.
Viceversa, l’obbligazione del corresponsabile solidale possiede una propria autonomia e, non
dipendendo da quella principale, non si estingue con questa. La nota dell’Ispettorato esemplifica alcuni
casi in cui l’obbligazione solidale non è travolta dall’eventuale estinzione dell’obbligazione “principale”.
Difetto di notificazione del verbale unico e/o dell’ordinanza nei confronti del trasgressore
1. Se il difetto di notifica al trasgressore riguardi il verbale, l’ITL deve procedere ad adottare
l’ordinanza-ingiunzione nei confronti esclusivamente dell’obbligato solidale. L’eventuale ordinanza
emessa nei confronti del trasgressore dovrà essere annullata in autotutela e dovrà procedersi
eventualmente all’iscrizione a ruolo solamente per l’ordinanza emessa nei confronti dell’obbligato
solidale. Qualora, poi, si sia instaurato il giudizio ai sensi dell’articolo 6, D.Lgs. 150/2011, da parte di
entrambi gli obbligati, dovrà darsi corso all’annullamento dell’ordinanza nei confronti del trasgressore
anche in corso di causa. L’ufficio proseguirà l’azione di difesa chiedendo la conferma dell’atto
impugnato nei confronti dell’obbligato solidale, invocando i principi affermati dalla recente sentenza.
2. Qualora, invece, correttamente notificati i verbali a trasgressore e obbligato solidale, il difetto di
notifica riguardi l’ordinanza-ingiunzione, ugualmente dovrà procedersi ad annullamento
dell’ordinanza rivolta al trasgressore. In questo caso, però, qualora non siano decorsi i termini
prescrizionali di 5 anni, di cui all’articolo 28, L. 689/1981, dalla notifica del verbale, sarà sempre
possibile procedere a nuova notifica del provvedimento ingiuntivo al trasgressore, a meno che nel
merito e nel frattempo non sia intervenuta sentenza favorevole all’obbligato solidale.
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Mancata o erronea identificazione del trasgressore
Qualora il trasgressore risulti sconosciuto o irreperibile, l’ufficio procederà con la notifica
dell’ordinanza-ingiunzione nei confronti del solo obbligato in solido che sia stato, invece,
correttamente individuato. Così potrà procedersi anche nel caso in cui l’ordinanza sia stata emessa nei
confronti di un trasgressore rivelatosi, anche prima del giudizio nato con l’opposizione all’ordinanza o
nel corso del giudizio, privo di legittimazione passiva rispetto all’ordinanza-ingiunzione. L’ordinanza
emessa erroneamente dovrà essere annullata in autotutela. L’istruzione dettata dall’Ispettorato,
derivabile dal contenuto delle sentenze n. 22082/2017 e n. 890/1994, non significa che
l’identificazione dell’obbligato solidale possa prescindere fin dalla fase di notifica del verbale
dall’identificazione dell’autore materiale delle violazioni. Come postulato, infatti, anche dalla
richiamata sentenza n. 890/1994, l’individuazione dell’obbligato principale è rilevante ai fini della
prova della commissione dell’illecito, ai fini della motivazione nonché ai fini della rilevazione del
nesso di responsabilità dell’obbligato solidale. Evidentemente, però, qualora nelle fasi successive alla
notifica del verbale venisse meno l’identificazione del materiale autore delle violazioni, ma risultasse
confermato che la violazione è stata commessa da soggetto rispetto al quale l’obbligato in solido
conserva la propria posizione di responsabilità, quest’ultima risulterebbe comunque autonomamente
sufficiente per l’adozione del provvedimento ingiuntivo, sempre che le motivazioni già addotte non
vengano meno insieme alla svanita identificazione del trasgressore. È il caso, non infrequente,
dell’erronea identificazione come trasgressore della persona che rivesta il ruolo di presidente del
Consiglio di amministrazione, quando poi emerga che la violazione è commessa da un amministratore
delegato, ovvero da un dirigente, ma comunque da un soggetto riconducibile a un ruolo organico
interno alla persona giuridica.
Morte del trasgressore
In questo caso la Corte ribadisce (come anche già richiamato dalla nota del Ministero del lavoro e
delle politiche sociali n. 146/2004, ma si veda in tal senso anche Cassazione n. 2501/2000, Cassazione
n. 26387/2008 e n. 1193/2008) l’estinzione della responsabilità solidale, tenuto conto del principio di
intrasmissibilità dell’obbligazione per sanzioni amministrative agli eredi, fissato dall’articolo 7, L.
689/1981. L’intrasmissibilità opera quindi anche nei confronti dell’obbligato solidale, il quale non
potrebbe esercitare azione di regresso.
Approfondimenti
11 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Qualora, invece, l’obbligato solidale abbia eseguito il pagamento della sanzione prima della morte del
trasgressore, potrà proporsi azione di regresso, poiché al momento dell'apertura della successione si è
già estinta l'obbligazione verso la P.A., e nel patrimonio ereditario del trasgressore è entrata anche
l’esposizione passiva al regresso dell’obbligato solidale.
Autonomia delle impugnazioni
L’autonomia delle posizioni giuridiche del trasgressore e dell’obbligato solidale caratterizza anche la
fase difensiva, sia in sede di contenzioso amministrativo che giudiziario. Anche l’obbligato solidale ha
pertanto interesse a ricorrere in opposizione all’ordinanza. È stato in passato generalmente sostenuto
che l’eventuale annullamento dell’ordinanza emessa nei confronti del trasgressore non travolgerebbe
automaticamente l’ordinanza emessa nei confronti dell’obbligato solidale rimasto inattivo.
La nota dell’Ispettorato affronta proprio questo tema, chiarendo quale debba essere la
procedura da seguire qualora l’ordinanza-ingiunzione sia stata impugnata esclusivamente da
parte di uno degli obbligati e il ricorso sia stato accolto.
Qualora l’accoglimento del ricorso sia fondato su motivi relativi al fatto costitutivo dell’illecito (ad
esempio l’insussistenza del rapporto di lavoro e non un difetto di notifica) e la sentenza sia passata in
giudicato, l’annullamento giudiziale dell’ordinanza ingiunzione, afferendo l’esercizio del potere di
punire della P.A., comporterà anche l’annullamento in autotutela dell’ordinanza-ingiunzione emessa
nei confronti del soggetto che non ha proposto l’opposizione. Anche se le 2 obbligazioni sono
autonome, venendo meno la causa pubblicistica del rapporto sanzionatorio, risulteranno entrambe
travolte dall’annullamento dell’ordinanza riguardante una sola parte.
Insomma, non risultando fondato l’esercizio del potere sanzionatorio, la P.A. dovrà conformarsi alla
sentenza anche nei confronti del soggetto che non abbia proposto ricorso.
In tal senso si è espressa la giurisprudenza di merito nei casi di opposizione a cartella esattoriale.
Il chiarimento dell’Ispettorato evita alla parte che non abbia proposto ricorso, di dover ricorrere alla
richiesta del riconoscimento del beneficio previsto dall’articolo 1306 cod. civ., ai sensi del quale
“La sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei
creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori. Gli altri debitori
possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al condebitore; gli altri
creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a
ciascuno di essi”.
Approfondimenti
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Il giurista del lavoro n. 12/2017
Lavoratrice madre e licenziamento per
chiusura reparto di Lucia Di Pietro – avvocato
Il presente contributo prende le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n.
22720/2017. Il caso di specie riguardava il licenziamento, durante la gravidanza, di una
lavoratrice, licenziamento intimato nell’ambito di una più ampia procedura collettiva
dovuta alla chiusura di un intero reparto aziendale. La fattispecie offre lo spunto per fare
una disamina della normativa di riferimento nonché analizzare l’evoluzione
giurisprudenziale avutasi in materia.
La normativa
Il D.Lgs. 151/2001, ovvero il “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità” (d’ora in avanti, per brevità, T.U.), garantisce tutta una serie di diritti
a tutela della salute fisica e psichica della madre lavoratrice durante la gravidanza e i primi mesi di
vita del bambino, offrendo opportunità analoghe anche ai genitori adottivi o affidatari e al padre
lavoratore, al fine di consentire un’adeguata cura dei figli.
Negli anni, oltretutto, tale normativa è stata oggetto di numerose modifiche, da ultimo è intervenuto
il D.Lgs. 80/2015, che ha recato misure volte a sostenere le cure parentali, rivedendone il relativo
congedo, e a tutelare in particolare le madri lavoratrici. Detto decreto, entrato in vigore il 25 giugno
2015 all’interno delle riforme introdotte con il Jobs Act, ha riformato la materia introducendo una serie
di modifiche esplicitamente volte a estendere il diritto di astensione dal lavoro dei genitori lavoratori.
Nello specifico ha stabilito:
− l’estensione ai primi 12 anni di vita del bambino (la precedente previsione arrivava agli 8 anni) del
periodo nel quale i genitori possono astenersi dal lavoro, pur rimanendo invariata la durata
complessiva del periodo di congedo;
− l’estensione ai primi 6 anni di vita del bambino (al posto dei 3 anni prima previsti) del periodo nel
quale i genitori, allorché si astengono dal lavoro fruendo del congedo parentale, hanno diritto
all’indennità pari al 30% della retribuzione;
Approfondimenti
13 Il giurista del lavoro n. 12/2017
− la possibilità per i genitori di scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria del congedo
parentale;
− la riduzione a 5 giorni (rispetto agli originari 15) del termine entro il quale il lavoratore deve
preavvisare il datore di lavoro della volontà di fruire del congedo, in caso di congedo parentale su
base oraria, il termine è ulteriormente ridotto a 2 giorni.
Ai fini della nostra analisi, tuttavia, bisogna porre l’attenzione sull’intero Capo IX, D.Lgs. 151/2001, nel
quale vengono disciplinati il divieto di licenziamento (articolo 54), le dimissioni (articolo 55) e il
diritto al rientro e alla conservazione del posto (articolo 56), con la dovuta premessa, ancora una
volta, che le previsioni normative ivi contemplate vanno a tutelare sia le madri durante il c.d. periodo
protetto sia i padri che fruiscono del congedo di paternità sia i genitori lavoratori, adottivi o affidatari,
che si siano avvalsi del relativo congedo.
Articolo 54: il divieto di licenziamento
Il Legislatore ha predisposto una tutela cogente e, per il tramite dell’articolo 54, T.U., pone il divieto
di licenziamento, salvo le eccezioni di cui si dirà, al ricorrere delle ipotesi che ci accingiamo a
esaminare, con la conseguenza che, qualora venisse comunque intimato, tale licenziamento verrebbe
sanzionato con la nullità. La tutela, peraltro, in questo caso è piena in quanto non si rinviene alcuna
differenza in merito alle dimensioni occupazionali dell’azienda.
Viene definito periodo protetto il lasso di tempo intercorrente tra l’inizio della gestazione - la
quale, a sua volta, si presume essere avvenuta 300 giorni prima la data stimata per il parto - e il
compimento del primo anno di vita del bambino. Al suo interno si innesta, altresì, la previsione
dell’astensione obbligatoria che, a norma degli articoli 16 ss., T.U., e fatte salve le flessibilità
individuate nella medesima normativa, decorre da 2 mesi prima la data presunta del parto fino a
3 mesi dopo.
Questa doppia previsione serve anche a coprire i casi in cui il bambino nasca morto o muoia durante i
3 mesi di interdizione dal lavoro e risponde alla volontà di non turbare ulteriormente la lavoratrice
madre in un periodo così delicato dal punto di vista strettamente emotivo.
Ancora, gli articoli 28 ss., T.U., regolamentano il c.d. congedo di paternità. Analogamente alla
tutela prevista per la madre lavoratrice, il Legislatore ha infatti provveduto a elencare le
fattispecie a fronte delle quali detti diritti spettano al padre, ovvero: in caso di morte o grave
infermità della madre, abbandono del figlio o mancato riconoscimento da parte della madre e,
infine, affido esclusivo del figlio al padre. La relativa tutela, nei casi appena menzionati, si
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14 Il giurista del lavoro n. 12/2017
applica al padre lavoratore per tutta la durata del congedo ed è specularmente estesa fino al
compimento di un anno di età del bambino.
Infine, nei casi di adozione e affido, il divieto in commento si applica fino a un anno dall’ingresso da
parte del minore nel nuovo nucleo famigliare. Il Legislatore ha provveduto anche a modulare tale
divieto per i casi di adozione internazionale, prevedendone la decorrenza dal momento della
comunicazione della proposta di incontro con il minore o dalla comunicazione contenente l’invito a
recarsi all’estero al fine di ricevere la proposta di abbinamento.
Tuttavia, l’articolo 54, T.U., non disciplina un divieto assoluto, ma contempla, al comma 3, i casi in cui
il datore di lavoro può intimare comunque il licenziamento. Aanalizziamoli sinteticamente.
Colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro
In questa previsione si può rinvenire ancora una sorta di tutela, seppur attenuata, dal momento che
non è sufficiente accertare la sussistenza di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva
quale giusta causa, ma è necessario verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla
norma, ma diversa, per gravità, dai casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione
del rapporto. Sul punto ha avuto modo di intervenire, nuovamente, la Corte di Cassazione, che, nella
recente sentenza n. 475/2017, afferma:
“La nullità del licenziamento è comminata quindi ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. n. 150/2001 e la
detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo, prevedendo
una autonoma fattispecie idonea a legittimare, anche in caso di puerperio, la sanzione espulsiva,
quella, cioè, della colpa grave della lavoratrice”.
Cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta
All’interno di questa ipotesi rientra il caso che ci occupa, avremo pertanto modo, a breve, di
approfondire la fattispecie. Per ora basti solo segnalare che, sotto la vigenza della vecchia normativa
(L. 1204/1971) e, pur non essendo l’orientamento di legittimità univoco, spesso la Suprema Corte ha
ritenuto applicabile tale deroga anche nel caso in cui la cessazione dell’attività sia parziale, purché
riguardi un ramo o un reparto del tutto autonomo dell’azienda (da ultimo Cassazione n. 23684/2004,
sulla quale torneremo). Si è tuttavia precisato che è onere del datore di lavoro provare che la
lavoratrice non può essere collocata altrove all’interno dell’azienda, con ciò dimostrando che il
licenziamento è effettivamente l’unica strada possibile (tra le altre, Cassazione n. 1897/1982).
Approfondimenti
15 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Le restanti previsioni riguardano i casi di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è
stata assunta, la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine o, infine, l’esito negativo
della prova (per quel che concerne quest’ultima ipotesi, nel prossimo paragrafo daremo conto di un
importante intervento da parte della Corte Costituzionale).
Articolo 55: le dimissioni
Al fine di attuare una reale protezione del genitore lavoratore che si sia dimesso durante il
periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento, la legge gli riconosce, in primo luogo, il
diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.
Inoltre, nel caso di dimissioni avvenute in tale periodo protetto, la lavoratrice o il lavoratore non
sono tenuti al preavviso.
In secondo luogo, le dimissioni devono essere convalidate dall’ITL. La norma in commento, in
definitiva, subordina l’efficacia delle risoluzione del rapporto di lavoro a detta convalida.
Infine, viene estesa la tutela delle dimissioni fino al compimento dei 3 anni da parte del minore. In
caso di adozione e affido nazionale, i 3 anni decorrono dal giorno di ingresso del minore nel nuovo
nucleo famigliare e, per le adozioni internazionali, i 3 anni decorrono dalle comunicazioni prima
richiamate per l’articolo 54 T.U..
Articolo 56: diritto al rientro e alla conservazione del posto
Anche per le fattispecie contemplate all’articolo 56, commi 1 e 2, il diritto si conserva per tutto il
primo anno di età del bambino, anno che, in caso di adozione o affido, decorre dall’ingresso del
minore nel nucleo famigliare. Tale diritto spetta, si ribadisce, alla madre lavoratrice, al padre e al
genitore, adottivo o affidatario, che abbiano usufruito del relativo congedo.
Le tutele si sostanziano nel diritto a conservare il posto di lavoro (salvo che vi rinuncino
espressamente); nel diritto a rientrare nella medesima unità produttiva dove erano occupate
all’inizio del periodo di gravidanza, o comunque in un’unità ubicata nel medesimo Comune; nel
diritto a permanere in quella sede per tutto il primo anno di età del bambino; infine, nel diritto
a mantenere le medesime mansioni svolte precedentemente alla maternità o mansioni
equivalenti.
Il comma 3, invece, menziona i restanti casi di congedo, permesso e riposo contemplati all’interno del
T.U., con la sostanziale differenza che, al di fuori delle ipotesi appena esaminate e inserite nel Capo
IX, non viene contemplata per questi casi quella minima tutela di stabilità ravvisabile nel compimento
Approfondimenti
16 Il giurista del lavoro n. 12/2017
del primo anno di vita del minore. In definitiva, il lavoratore che sia rientrato nella stessa unità
produttiva rimarrà soggetto al normale potere gestionale del datore di lavoro.
La giurisprudenza
Si intende ora fare chiarezza su 3 aspetti che, in particolar modo sotto la vigenza della vecchia
normativa (L. 1204/1971), hanno sovente portato, da un lato, a contrasti giurisprudenziali, dall’altro,
all’intervento chiarificatore da parte del giudice delle leggi.
Interpretazione estensiva del divieto di licenziamento ad opera della Corte di Cassazione.
Viene in rilievo l’ipotesi ora disciplinata dall’articolo 54, comma 3, lettera b, T.U., all’interno del quale
si sancisce una deroga al divieto di licenziamento: è il caso di cessazione dell’attività dell’azienda cui
la lavoratrice è addetta.
Negli anni, come già accennato, la Suprema Corte ha fornito un’interpretazione estensiva di tale
deroga, finendo per ricomprendervi anche le ipotesi di chiusura di un reparto o di un ramo
dell’azienda. Infatti, nella sentenza n. 23684/2004, è ancora possibile leggere:
“In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 2
secondo comma lettera b) della legge 30 dicembre 1971 n. 1204, nella ipotesi ‘di cessazione
dell’attività dell’azienda, cui essa è addetta’, deve intendersi nel senso che il licenziamento è
possibile - … - anche nel caso di cessazione dell’attività del reparto cui essa è addetta, sempre che il
reparto abbia autonomia funzionale, ed a condizione che il datore di lavoro assolva l’onere
probatorio – a proprio carico – circa l’impossibilità di utilizzare la lavoratrice presso altri reparti
dell’azienda”.
In un secondo momento si è tornati verso un’interpretazione più rigorosa. La giurisprudenza ha avuto
modo di chiarire che, trattandosi di una norma che stabilisce un’eccezione a un principio generale, la
sua interpretazione non è suscettibile di interpretazione analogica o estensiva. La Cassazione ha,
infatti, ribadito che per poter derogare al divieto di licenziamento fino all’anno del bambino devono
ricorrere le condizioni previste ex articolo 54, comma 3, lettera b, ovvero che il datore di lavoro sia
un’azienda e che vi sia stata una cessazione dell’attività (Cassazione n. 10391/2005).
Inoltre, in un caso di trasferimento d’azienda, i giudici hanno affermato che il divieto di licenziamento
della lavoratrice madre trova applicazione anche in presenza di cessione dell’azienda, dal momento
che il rapporto continua con l’acquirente e senza che possa essere invocata la fattispecie derogativa,
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17 Il giurista del lavoro n. 12/2017
in quanto nel trasferimento non cessa l’attività dell’azienda e quest’ultima continua con una nuova e
diversa titolarità (Cassazione n. 14583/2009).
L’intervento della Corte Costituzionale del 1991
Con la pronuncia n. 61/1991, sotto la vigenza della vecchia normativa sul tema, la Consulta ha
segnato un importante passo in merito alla temporanea inefficacia del licenziamento intimato durante
il c.d. periodo protetto. Questa declaratoria di incostituzionalità è stata successivamente recepita
nell’attuale formulazione del D.Lgs 151/2001. Infatti, con la sentenza in commento, è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, L. 1204/1971, nella parte in cui veniva prevista la
temporanea inefficacia, anziché la nullità, del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel
periodo di gestazione e di puerperio indicato nel predetto articolo.
Secondo il giudice delle leggi, un divieto che comporti un mero differimento dell’efficacia del
licenziamento, intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di puerperio, anziché la
nullità radicale di esso, rappresenta una misura di tutela insufficiente per la donna lavoratrice. La
protezione cui fa riferimento la norma costituzionale (articolo 37) non si limita alla salute fisica della
donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra
madre e figlio. Secondo la Corte Costituzionale, tale rapporto deve essere protetto non solo per ciò
che attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere
relazionale e affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Nel contempo,
si afferma che il principio posto dall’articolo 37 Costituzione – collegato al principio di uguaglianza –
impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del
bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie per la lavoratrice madre, per evitare anche
che la maternità si traduca, in concreto, in un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità di
diritti della donna lavoratrice. Conseguentemente, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 2, L. 1204/1971, nella parte in cui prevede la temporanea inefficacia, anziché la nullità,
del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio.
L’intervento della Corte Costituzionale del 1996
Un altro significativo intervento della Consulta si è avuto in seguito al caso di una lavoratrice in stato
di gravidanza, che, licenziata durante il periodo di prova, ricorreva in via d'urgenza al giudice del
lavoro.
Approfondimenti
18 Il giurista del lavoro n. 12/2017
La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 172/1996, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli
articoli 1 e 2, comma 3, L. 1204/1971 (siamo sempre nell’ambito della vecchia normativa), affermando
che, se il divieto di licenziamento vigesse anche per il periodo di prova, il datore di lavoro si
troverebbe obbligato a continuare ad accettare le prestazioni di una lavoratrice dimostratasi inidonea,
con l’ulteriore condizione di dover continuare a retribuirla fino al compimento del primo anno di vita
del bambino, vanificandosi, in tal modo, la tutela che il patto di prova assicura al datore di lavoro con
violazione del principio dell’autonomia contrattuale.
Conseguentemente, il recesso risulta legittimo solo se il datore di lavoro non è a conoscenza dello
stato di gravidanza. Osserva la Consulta che, in caso contrario, per difendere la lavoratrice da
prevaricazioni, il datore di lavoro deve motivare il giudizio negativo reso all’esito del periodo di prova.
In tal modo si consente all’interessata di fornire l’eventuale prova contraria e, al contempo, al giudice
investito della questione, di valutare i reali motivi sottesi al recesso al fine, soprattutto, di escludere
che esso sia stato determinato dalla gestazione.
Il caso: Corte di Cassazione, sentenza n. 22720/2017
Veniamo ora all’analisi della fattispecie che ha offerto lo spunto per questo contributo: la sentenza di
Cassazione n. 22720/2017. La lavoratrice, all’epoca dei fatti in stato interessante, veniva licenziata
all’interno di una procedura di licenziamento collettivo, il Tribunale territorialmente competente
dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimato. La Corte d’Appello, a conferma della pronuncia di
primo grado, condannava il datore di lavoro a corrispondere, in luogo della reintegrazione, l’indennità
sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, liquidando, a titolo di risarcimento
danni, altre 5 mensilità. Nella parte motiva della sentenza d’Appello veniva chiarito che il
licenziamento era vietato, posto lo stato di gravidanza della lavoratrice alla data in cui era stato
intimato, e si ribadiva, infine, l’insussistenza del presupposto escludente il divieto, costituito dalla
cessazione dell’intera attività imprenditoriale. Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione e
la Suprema Corte lo rigettava, confermando in tal modo il provvedimento impugnato. I giudici, con
questa pronuncia, compiono un interessante excursus giuridico normativo, di seguito vediamo i passi
più significativi.
In primo luogo, viene confermato che la tecnica di intimazione del licenziamento durante la
gravidanza, con previsione di efficacia differita a epoca successiva al compimento del primo anno di
vita del bambino, non vale a modificare i tratti della fattispecie normativa - con il relativo quadro
sanzionatorio della nullità - in quanto, ad argomentare diversamente, risulterebbe comunque frustrato
Approfondimenti
19 Il giurista del lavoro n. 12/2017
lo scopo di tutelare il diritto alla serenità della gestazione, così come sancito dalla Corte
Costituzionale con la pronuncia, analizzata pocanzi, n. 61/1991.
In secondo luogo, la Cassazione afferma che, a seguito della modifica apportata all’articolo 54,
comma 4, T.U., dal D.Lgs. 115/2003, il tenore testuale della norma indica che solo in caso di
cessazione dell’intera attività aziendale è possibile collocare in mobilità la lavoratrice madre
durante il c.d. periodo protetto.
In tal modo, proseguono i giudici di legittimità, si vuole dare continuità a un principio di diritto,
secondo cui la deroga al divieto di licenziamento è insuscettibile di interpretazione estensiva e
analogica, con la conseguenza che per la non applicabilità del divieto devono ricorrere entrambe le
condizioni previste dall’articolo 54, comma 3, lettera b, ovvero che il datore di lavoro sia un’azienda e
che vi sia stata cessazione dell’attività.
Ancora, nel caso di specie, per la Suprema Corte, l’aver chiuso e cessato l’attività del solo contact
center, dove era in forze la lavoratrice, non può in alcun modo integrare in favore della società il
presupposto della cessazione dell’attività aziendale, che avrebbe reso inoperante il divieto di
licenziamento della lavoratrice madre.
Infine, la Cassazione dichiara inammissibile anche l’ultimo motivo di ricorso, riguardante la
dimostrazione, a opera del datore di lavoro, dell’effettiva cessazione dell’attività della sede aziendale
(che nel caso di specie difetta completamente). I giudici, dopo aver premesso che è onere del datore
di lavoro fornire la prova dell’impossibilità di collocare utilmente la lavoratrice in altri rami
dell’azienda diversi da quello che ha cessato l’attività, concludono con l’affermare che:
“si trattava di dare dimostrazione di un fatto negativo come quello che costituiva oggetto dell’onere
probatorio gravante sul datore di lavoro per cui lo stesso avrebbe dovuto offrire prova di fatti positivi,
come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero al tempo del
licenziamento stabilmente occupati o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di
tempo non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica”.
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20 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Le indicazioni della Corte di Giustizia su
cambio di appalto e trasferimento
d’impresa di Gabriele Gamberini – dottore di ricerca in diritto del lavoro
Il controverso tema della determinazione del perimetro in cui deve applicarsi la normativa
a tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d’impresa ai sensi della Direttiva
2001/23/CE è oggetto di copiosa giurisprudenza, nazionale ed europea, talvolta
contrastante. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza C‑200/16, è
intervenuta per chiarire la nozione di “trasferimento di impresa o di stabilimento” con
riferimento al c.d. cambio di appalto.
Premessa
La normativa a tutela dei lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore prevista dalla Direttiva
2001/23/CE, e ratificata dai vari Stati membri1, si applica ove avvenga il trasferimento di un'entità
economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di
svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria. Tale disciplina si applica ai
trasferimenti d’imprese, di stabilimenti o di parti d’imprese o di stabilimenti a un nuovo imprenditore
in seguito a cessione contrattuale o a fusione. Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, § 1, Direttiva
2001/23/CE: i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un
rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento,
trasferiti al cessionario.
Il fatto
Il porto di Ponta Delgada nell’isola di São Miguel, la più estesa dell’arcipelago delle Azzorre (regione
amministrativa del Portogallo a statuto autonomo), viene gestito dall’Autorità portuale Portos dos
Açores SA, che appalta i servizi di custodia degli impianti a società private.
1 L’ordinamento italiano ha recepito tale disciplina all’articolo 2112, comma 5, cod. civ. (così come modificato dall’articolo 32, comma 1,
D.Lgs. 276/2003).
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21 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Fino al 14 luglio 2013 tali servizi venivano svolti dalla società ICTS Portugal-Consultadoria de
Aviação Comercial SA (in prosieguo: la ICTS), società del gruppo ICTS Europe specializzata nella
fornitura di servizi di sicurezza, che, per l’esecuzione del contratto di appalto, si avvaleva di 17
lavoratori incaricati di controllare gli ingressi e le uscite di persone e merci, mediante dispositivi di
videosorveglianza. ICTS forniva ai propri lavoratori uniformi ed equipaggiamenti radio.
Il 17 gennaio 2013 la Portos dos Açores indiceva una gara d’appalto per la prestazione di servizi di
custodia e di sicurezza preventiva presso i propri impianti di Ponta Delgada, che, in data 17 aprile
2013, veniva aggiudicata alla società multinazionale Securitas-Serviços e Tecnologia de Segurança SA
(in prosieguo: la Securitas), specializzata in servizi di sicurezza.
In data 17 giugno 2013, in prossimità della scadenza del vecchio contratto di appalto, ICTS
comunicava ai propri lavoratori che, a decorrere dal 15 luglio 2013, i relativi contratti di lavoro
sarebbero stati trasferiti a Securitas, nuova società aggiudicataria del contratto con l’Autorità portuale,
secondo lo schema del trasferimento d’impresa2.
In data 14 luglio 2013 un dipendente della ICTS, su indicazione della stessa, consegnava a un
impiegato di Securitas gli equipaggiamenti radio utilizzati dalla ICTS negli impianti della Portos dos
Açores. La Securitas consegnava poi tali equipaggiamenti all’Autorità portuale.
In data 15 luglio 2013 Securitas iniziava a svolgere la prestazione di servizi di custodia e di sicurezza,
fornendo ai propri dipendenti equipaggiamenti radio di sua proprietà e uniformi con il logo della
società. Tuttavia Securitas non assumeva i lavoratori di ICTS, informandoli che i rapporti di lavoro che
gli stessi avevano con ICTS non sarebbero continuati con Securitas, ma sarebbero rimasti in capo a
ICTS.
L’iter giudiziario
I lavoratori adivano il Tribunal do Trabalho de Ponta Delgada (Tribunale del lavoro di Ponta Delgada),
che riteneva che, sussistendo il trasferimento d’impresa, i contratti di lavoro dovessero continuare con
Securitas. Quest’ultima proponeva quindi appello dinanzi al Tribunal da Relação de Lisboa (Corte
d’Appello di Lisbona), che confermava la sentenza di primo grado. La Securitas proponeva infine
ricorso per revocazione straordinaria dinanzi al Supremo Tribunal de Justiça (Corte Suprema del
Portogallo), che decideva di sospendere il procedimento per sottoporre alla Corte 3 questioni
pregiudiziali.
2 Si veda articolo 3, comma 1, § 1, Direttiva 2001/23/CE citato sopra.
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22 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Le questioni pregiudiziali
Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 1, § 1, lettera a),
Direttiva 2001/23/CE. In particolare, con le prime 2 questioni si chiede se l’articolo 1, § 1, lettera a),
Direttiva 2001/23/CE, debba essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di trasferimenti di
imprese o di stabilimenti, ai sensi di tale disposizione, la situazione in cui un committente ha risolto il
contratto di prestazione di servizi di sorveglianza e di custodia dei suoi impianti concluso con
un’impresa, e ha poi concluso, ai fini dell’esecuzione di detta prestazione, un nuovo contratto con
un’altra impresa, la quale si rifiuta di rilevare i dipendenti della prima.
Mentre con la terza questione si chiede se la clausola n. 13, § 2, Ccnl portoghese per le imprese di
sicurezza privata, che prevede che non rientri nella nozione di trasferimento d’impresa o di
stabilimento la perdita di un cliente da parte di un operatore in seguito all’aggiudicazione di un
appalto di servizi a un altro operatore, sia contraria al diritto dell’Unione.
La nozione di cessione contrattuale
Il primo aspetto valutato dalla Corte verte sull’assenza di un vincolo contrattuale tra le 2 imprese, a
cui è stata successivamente affidata la gestione della sorveglianza e della custodia di impianti
portuali.
Tuttavia, secondo una giurisprudenza consolidata – che, anche considerate le differenze tra le
versioni linguistiche di tale disposizione e le divergenze tra gli ordinamenti nazionali sulla nozione di
cessione contrattuale3, ha dato a questa nozione un’interpretazione sufficientemente elastica per
rispondere all'obiettivo della Direttiva, che è quello di tutelare i lavoratori subordinati in caso di
trasferimento della loro impresa, consentendo loro di rimanere alle dipendenze del nuovo datore di
lavoro alle stesse condizioni pattuite con il cedente – l’ambito di applicazione della Direttiva
2001/23/CE si estende a tutti i casi di cambiamento, nell’ambito di rapporti contrattuali, della persona
fisica o giuridica responsabile della gestione dell’impresa, la quale assume le obbligazioni del datore
di lavoro nei confronti dei dipendenti dell’impresa stessa4.
3 Si veda causa C-135/83, Abels, Racc. pag. 469, punti 11-13 (in cui, nell’ambito di un procedimento fallimentare, una società veniva
trasferita a un’altra società che proseguiva l'esercizio dell'impresa, con la maggior parte del personale). 4 Si vedano cause riunite C-144/87 e C-145/87, Berg e Busschers, Racc. 1988, pag. 2559, punto 12 (in cui un bar/discoteca veniva assorbito
da una società in via di costituzione, in forza di un contratto di locazione-vendita); causa C-101/87, Bork International, Racc. pag. 3057,
punto 13 (in cui in seguito alla risoluzione di un contratto di locazione, il proprietario di un’impresa ne era rientrato in possesso per poi
venderla a un terzo, che, poco tempo dopo, ne aveva continuato l'esercizio, sospeso dalla fine del contratto di locazione); causa C-29/91,
Redmond Stichting, Racc. pag. I-3189, punto 11 (in cui un'autorità pubblica aveva deciso di porre fine alla concessione di sovvenzioni a una
persona giuridica, provocando così la cessazione completa e definitiva delle attività di quest'ultima per trasferirle a un'altra persona
giuridica che perseguiva un fine analogo).
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23 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Da questa giurisprudenza deriva, che ai fini dell’applicazione della Direttiva 2001/23/CE, non è
necessaria l’esistenza di rapporti contrattuali diretti tra il cedente e il cessionario, atteso che la
cessione può essere effettuata in 2 fasi per effetto dell’intermediazione di un terzo5.
La nozione di entità economica che conserva la propria identità
Per stabilire l’applicabilità della Direttiva 2001/23/CE al caso di specie è allora necessario stabilire se,
ai sensi dell’articolo articolo 1, §1, lettera b), di tale Direttiva, il trasferimento ha ad oggetto un’entità
economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di
svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria.
Secondo la giurisprudenza della Corte, per poter stabilire se tale condizione sia effettivamente
soddisfatta, occorre prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che
caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano, in particolare:
a) il tipo d’impresa o di stabilimento in questione;
b) la cessione o meno di elementi materiali, quali gli edifici e i beni mobili;
c) il valore degli elementi immateriali al momento della cessione;
d) la riassunzione o meno della parte più rilevante del personale ad opera del nuovo imprenditore;
e) il trasferimento o meno della clientela;
f) il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo il trasferimento; e
g) la durata di un’eventuale sospensione di tali attività.
Detti elementi sono però soltanto aspetti parziali e, pertanto, vanno esaminati nell’ambito di una
valutazione d’insieme delle circostanze del caso di specie e non possono essere considerati
isolatamente6.
Tale valutazione, di competenza del giudice nazionale, deve dunque svolgersi tenendo conto
del tipo d’impresa o di stabilimento di cui trattasi. Ne consegue che l’importanza da attribuire
5 Si vedano, in particolare, causa C-324/86, Tellerup, c.d. Daddy's Dance Hall, Racc. pag. 739 (relativamente a un cambiamento di conduttore-
gestore di un ristorante); sentenze Merckx e Neuhuys, C-171/94 e C-172/94, EU:C:1996:87, punti 28 e 30 (sul termine di una concessione di
vendita di autoveicoli con una prima impresa seguita a una nuova concessione di vendita attribuita a un'altra impresa che continuava a
svolgere la stessa attività); causa C-13/95, Süzen, Racc. pag. I-1259, punto 12 (sul caso di un committente, che dopo aver affidato i lavori di
pulizia dei propri locali a un primo imprenditore, risolveva il contratto con questo stipulato e concludeva, ai fini dell'esecuzione di lavori
analoghi, un nuovo contratto con un secondo imprenditore); causa C-51/00, Temco, Racc. pag. I-969, punto 31 (anche qui in cui un
committente aveva concluso 2 contratti di pulizia successivi, il secondo dopo aver risolto il primo, con 2 imprese diverse); nonché sentenza
Abler e a., C-340/01, EU:C:2003:629, punto 39 (sulla successione di contratti per la gestione della ristorazione collettiva di un ospedale tra
società di ristorazione collettiva). 6 Si vedano, in tal senso, causa C-24/85, Spijkers, Racc. pag. 1119, punto 13 (sulla cessione di un mattatoio); Redmond Stichting (cit.), punto
24; Süzen (cit.) punto 14; Abler (cit.), punti 33 e 34; e, più recentemente, causa C 463/09, CLECE, EU:C:2011:24, punto 34 (in cui un Comune
decideva di espletare con personale proprio la pulizia dei propri locali, dopo che tale attività era stata svolta da una impresa di pulizie in
virtù di un contratto che era stato risolto); e causa C-509/14, Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios, EU:C:2015:781, punto 32
(sull’internalizzazione del servizio di movimentazione delle unità di trasporto intermodale nel terminal ferroviario di Bilbao in Spagna).
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24 Il giurista del lavoro n. 12/2017
rispettivamente ai singoli criteri attinenti alla sussistenza di un trasferimento ai sensi della
Direttiva 2001/23/CE varia necessariamente in funzione dell’attività esercitata o, addirittura, in
funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o
nella parte di stabilimento in questione7.
Ad esempio, con riferimento al criterio della riassunzione o meno della parte più rilevante del
personale a opera del nuovo imprenditore, la Corte ritiene che nei settori in cui l’attività è fondata
essenzialmente sulla mano d’opera, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un'attività
comune può corrispondere a un’entità economica e, dunque, l’identità di un’entità economica non può
essere conservata qualora la parte più rilevante del personale di tale entità non venga rilevata dal
presunto cessionario8. Invece, nei settori in cui l’attività si basa sostanzialmente sulle attrezzature, il
fatto che gli ex dipendenti di un’impresa non siano rilevati dal nuovo imprenditore per l’esercizio di
tale attività, come avviene nel caso tra ICTS e Securitas, non è sufficiente a escludere l’esistenza di un
trasferimento di un’entità economica che mantenga la sua identità, ai sensi della Direttiva
2001/23/CE9.
Nel caso in esame è dunque necessario verificare se ICTS abbia trasmesso alla Securitas, direttamente
o indirettamente, attrezzature o beni materiali o immateriali, ai fini dell’esercizio dell’attività di
custodia e di sicurezza negli impianti del porto di Ponta Delgada. Inoltre il giudice nazionale dovrà
verificare se tali elementi siano stati messi a disposizione della ICTS e della Securitas da parte della
Portos dos Açores.
È opportuno precisare, tuttavia, che la questione relativa al trasferimento della proprietà degli
elementi materiali è irrilevante ai fini dell’applicazione della Direttiva 2001/23/CE, poiché,
secondo la Corte, la circostanza che gli elementi materiali indispensabili per l’esercizio
dell’attività oggetto del contratto di appalto e rilevati dal nuovo imprenditore non
appartengano al suo predecessore, ma siano stati semplicemente messi a disposizione dal
committente non può indurre a escludere l’esistenza di un trasferimento d’impresa o di
stabilimento, ai sensi della Direttiva 2001/23/CE10.
7 Così Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios (cit.), punti 33 e 34; precedentemente si erano espresse in tal senso, sebbene con
riferimento alla Direttiva 77/187/CE, Süzen (cit.) punto 18; cause riunite C-173/96 e C-247/96, Hidalgo e a., Racc. pag. I-8237, punto 31 (su
un ente pubblico che aveva dato in concessione il proprio servizio di assistenza a domicilio delle persone disabili e aggiudicato l'appalto per
la sorveglianza di alcuni suoi locali a una prima impresa e decideva, alla scadenza e in seguito a recesso dal contratto che la vincolava a
quest'ultima, di dare in concessione tale servizio e assegnare tale appalto a una seconda impresa); e Abler (cit.), punto 35. 8 Cfr. Süzen (cit.) punto 21; Hidalgo (cit.), punto 32; CLECE (cit.), punto 41; e Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios (cit.) punto 35. 9 In tal senso, con riferimento al settore della ristorazione collettiva, si veda Abler (cit.), punto 37; e, con riferimento al settore della
movimentazione di unità di trasporto intermodale, Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios (cit.) punto 41. 10 Così, Aira Pascual e Algeposa Terminales Ferroviarios (cit.) punti 38 e 39; e, sebbene in riferimento alla Direttiva 77/187/CE, Abler (cit.), punto
41.
Approfondimenti
25 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Devono poi essere prese in considerazione solo le attrezzature che sono effettivamente utilizzate per
fornire i servizi oggetto del contratto di appalto, escludendo gli impianti che costituiscono oggetto di
tali servizi11.
La perdita di un appalto di servizi
La Corte ha inoltre precisato che la semplice perdita di un appalto di servizi a vantaggio di un
concorrente non può, di per sé, rivelare l’esistenza di un trasferimento d’impresa o di stabilimento, ai
sensi della Direttiva 2001/23/CE. Infatti, in una siffatta situazione, l'impresa di servizi
precedentemente affidataria dell'appalto, ove perda un cliente, continua a sopravvivere
integralmente, senza che si possa ritenere che uno dei suoi stabilimenti o parti di stabilimento siano
stati ceduti al nuovo appaltatore12.
La decisione della Corte
La Corte, dopo aver sentito l’Avvocato generale Evgeni Tanchev, ha deciso di giudicare la causa senza
conclusioni. In particolare, con riferimento alle prime 2 questioni, ha ritenuto che l’articolo 1, § 1,
lettera a), Direttiva 2001/23/CE, deve essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di
trasferimenti di imprese o di stabilimenti, ai sensi di tale disposizione, la situazione in cui un
committente ha risolto il contratto di prestazione di servizi di sorveglianza e di custodia dei suoi
impianti concluso con un’impresa, e ha poi stipulato, ai fini dell’esecuzione di detta prestazione, un
nuovo contratto con un’altra impresa, la quale si rifiuta di rilevare i dipendenti della prima, quando le
attrezzature indispensabili per l’esercizio di detta prestazione siano state rilevate dalla seconda
impresa.
Invece, con riguardo alla terza questione, la Corte ha ritenuto che l’articolo 1, § 1, Direttiva
2001/23/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione nazionale, come quella
del Ccnl portoghese, la quale prevede che non rientri nell’ambito di applicazione della nozione di
trasferimenti di imprese o di stabilimenti, ai sensi di detto articolo 1, § 1, la perdita di un cliente da
parte di un operatore in seguito all’aggiudicazione di un appalto di servizi a un altro operatore.
11 Si veda causa UGT-FSP, C-151/09, EU:C:2010:452, punto 31 (relativa a impianti, macchinari, e attrezzature utilizzate per fornire servizi di
custodia, pulizia e manutenzione). 12 Così anche Süzen (cit.) punto 16.
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26 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Conclusioni
Le indicazioni della Corte di Giustizia sul caso portoghese in commento appaiono particolarmente
interessanti anche per il nostro ordinamento, in cui la L. 122/2016, c.d. Legge Europea 2015-2016, ha
disposto la modifica dell’articolo 29, comma 3, D.Lgs. 276/200313, che ora prevede che l'acquisizione
del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria
struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di
clausola del contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una
specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda. Il
Legislatore italiano dunque, sulla spinta di una procedura d’infrazione UE14, ha superato
l’impostazione del testo previgente, indicando le condizioni per cui il cambio d’appalto non integrasse
gli estremi del trasferimento d’impresa. Tuttavia, dalle prime impressioni, parrebbe che il criterio
dell’autonoma struttura organizzativa e produttiva e quello degli elementi di discontinuità che
determinano una specifica identità d’impresa richiesti dalla norma italiana lascino spazio a
interpretazioni che non agevolano la corretta applicazione della norma, facendo ipotizzare il
proliferare dei contenziosi.
Le indicazioni provenienti dalla sentenza C‑200/16, oltre alla copiosa giurisprudenza della Corte
sul punto, potrebbero dunque contribuire a una migliore interpretazione e applicazione della
normativa italiana.
Sul punto, peraltro, parrebbe particolarmente auspicabile anche un intervento delle parti sociali, che
nella contrattazione collettiva potrebbero individuare i casi in cui l’entità economica conserva la
propria identità modellando i parametri individuati dalla Corte sulla base delle peculiarità del settore
di riferimento15.
13 La versione in vigore fino al 22 luglio 2016 prevedeva che l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di
un nuovo appaltatore, in forza di legge, di Ccnl o di clausola del contratto d'appalto, non costituisse trasferimento d'azienda o di parte
d'azienda. 14 Si veda il caso EU Pilot 7622/15/EMPL – acquisizione del personale a seguito di subentro di un nuovo appaltatore. Compatibilità
dell'articolo 29, comma 3, D.Lgs. 276/2003, con la Direttiva 2001/23/CE. 15 Anche il Pilastro europeo dei diritti sociali, firmato il 17 novembre 2017 a Göteborg (Svezia), prevede un maggiore coinvolgimento delle
parti sociali nei trasferimenti d’impresa.
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27 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Orario di lavoro e smart working di Maurizio Polato – consulente del lavoro
L’insieme delle riforme del lavoro succedutesi negli ultimi anni, sembra andare nella
direzione del superamento dell’impianto normativo antecedente alla c.d. riforma Biagi del
mercato del lavoro e a quello da questa definito, con particolare riguardo alla concezione
Taylorista-Fordista dell’organizzazione del lavoro sino a scalfire l’intangibilità del
paradigma sorto dal sociotipo del lavoratore alle dipendenze.
L’orario di lavoro nel 2017, alla luce delle riforme normative intervenute
L’evoluzione della storia socio-economica del nostro Paese sembra dirigersi verso un mercato del
lavoro duale, caratterizzato per un verso da un’estremizzazione del rapporto tempo-retribuzione
(lavoro intermittente, lavoro accessorio, lavoro occasionale) e, dall’altro, dal suo progressivo
affievolimento in funzione del raggiungimento del risultato o dell’obiettivo concordato tra le parti
(smart working). Entrambe le posizioni appaiono ormai caratterizzate da una crescente de-
contrattualizzazione e da un totale declino del ruolo delle organizzazioni sindacali.
Com’è noto, con il D.Lgs. 66/2003, è stata data attuazione, sulla base della delega contenuta nella L.
39/2002 (Legge Comunitaria 2001), alle Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, successivamente abrogate
e sostituite dalla Direttiva 2003/88/CE. Il Legislatore comunitario, tra le altre finalità, ha dato
espresso riconoscimento al nesso funzionale sussistente tra gli interventi sull’orario di lavoro (durata
della prestazione di lavoro e riposi) e le finalità di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore1.
Il Legislatore italiano ha optato per la riscrittura organica dell’intera disciplina dell’orario di lavoro e
la contestuale abrogazione di “… tutte le disposizioni legislative e regolamentari nella materia
disciplinata dal decreto legislativo ...2 al fine di adeguare l’ordinamento nazionale a quello comunitario.
All’articolo 1, comma 2, D.Lgs. 66/2003, vi è la definizione di orario di lavoro quale
“qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio
della sua attività o delle sue funzioni”;
1 Le predette finalità risultano bene esplicitate nella premessa della Direttiva; peraltro la sussistenza di quel nesso è stato più volte
confermato dalla Corte di Giustizia (CGE, 12 novembre 1996, causa C-88/94). 2 Articolo 19, comma 2, D.Lgs. 66/2003.
Approfondimenti
28 Il giurista del lavoro n. 12/2017
dunque, affinché sorgano a carico del datore obblighi retributivi e contributivi, devono ricorrere i 3
requisiti appena citati (al lavoro, a disposizione, nell'esercizio delle attività); in difetto di ciò, il tempo
trascorso dal dipendente presso lo stabilimento nel quale presta la propria attività non costituisce
tempo di lavoro, qualora non sia configurabile la messa a disposizione delle energie del lavoratore a
favore della parte datoriale3.
Lo smart working
La L. 81/2017 contiene, al Capo I, la disciplina per il lavoro autonomo – tanto da essere stato
ribattezzato “Statuto del lavoro autonomo” – e, al Capo II, la disciplina volta a favorire l’articolazione
flessibile del lavoro subordinato nei tempi e nei luoghi (c.d. lavoro agile o smart working). È
interessante rilevare come, nella formulazione contenuta nel DdL 2229/2016 (DdL Sacconi), proposta
alternativa di regolamentazione della fattispecie in esame, avanzata nel corso della legislatura e più
aderente ai termini della c.d. Industria 4.0, veniva esteso l’ambito applicativo del lavoro agile, non
solo ai lavoratori subordinati, ma altresì ai lavoratori autonomi con reddito superiore ai 30.000 euro
lordi. Tale indicazione è volta a sottolineare come la ratio del DdL Sacconi fosse quella di disciplinare
e articolare, riconoscendole, forme di lavoro che si diffondono nella società moderna, in ragione della
trasformazione del modo di produrre.
Dopo aver affermato all’articolo 18, L. 81/2017, che lo smart working appartiene alla categoria del
lavoro subordinato, la norma prevede, quale particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro,
la possibilità di eseguire la prestazione in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno,
senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e
settimanale derivanti dalla legge (D.Lgs. 66/2003) e dalla contrattazione collettiva. In particolare,
alcune tutele disciplinate dal D.Lgs. 66/2003 possono essere disapplicate ai sensi dell’articolo 17,
comma 5, il quale dispone che:
“nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le
disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata
dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o
predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi”.
Tale disciplina evoca indubbiamente una delle caratteristiche tipiche del lavoro agile, in quanto il
lavoratore ha la possibilità di organizzare la propria attività lavorativa, “anche con forme di
3 Trib. Savona, 17 febbraio 2011; Trib. Savona, 14 dicembre 2010.
Approfondimenti
29 Il giurista del lavoro n. 12/2017
organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario al fine di incrementare la
competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (articolo 1, comma 1, L. 81/2017).
Nonostante la legge disponga che il lavoro agile debba rispettare i limiti di durata massima dell’orario
di lavoro giornaliero e settimanale, nulla dice in merito agli istituti disciplinati dal D.Lgs. 66/2003,
quali il lavoro straordinario (articolo 5) e il lavoro notturno (articoli 12-13). Per quanto concerne
invece il diritto al riposo giornaliero (articolo 7) e alle pause (articolo 8), entrambi tutelati dal citato
D.Lgs., la normativa sul lavoro agile lascia alla parti l’onere di disciplinare “i tempi di riposo del
lavoratore” nonché il diritto alla disconnessione del lavoratore4.
Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, appare corretto estendere il campo di applicazione
dell’articolo 17, D.Lgs. 66/2003, includendo altresì il lavoro agile. Oltre ad essere connaturata nelle
modalità di organizzazione ed esecuzione della prestazione lavorativa dello smart worker, che,
quantomeno, sono determinate dai lavoratori stessi, il Ministero del lavoro, già agli albori dell’anno
2000 riconosceva
“come l'evoluzione tecnologica abbia comportato, nell'ambito dell'organizzazione aziendale,
l'ingresso di nuove figure professionali che, sebbene prive di potere gerarchico, conservano, nel
disimpegno delle loro attribuzioni, ampia possibilità di iniziativa, di discrezionalità decisionale e di
determinazione autonoma sul proprio tempo di lavoro” e che pertanto “tali figure possano essere
inserite tra il "personale direttivo"5.
A tal proposito, va evidenziato che l’esclusione sancita dall’articolo 17 non si riferisce più in via
esclusiva ai lavoratori investiti di compiti direttivi, ma riguarda anche tutti gli altri prestatori di
lavoro che, anche senza svolgere attività di direzione e coordinamento di altri lavoratori
esercitino un potere di decisione autonomo sul proprio orario di lavoro6.
La contrattazione collettiva denota un’estrema difficoltà nell’affrontare il tema della regolazione del
lavoro agile; su un campione di 915 Ccnl, solo 8 hanno provveduto a disciplinare l’istituto, ancorché
mediante progetti sperimentali.
Uno degli indubbi motivi di difficoltà nel disciplinare tale modalità di esecuzione della
prestazione, consta nell’incertezza in ordine all’applicabilità di alcuni dei profili regolati riferibili
4 Articolo 19, comma 1, L. 81/2017. 5 Ministero del lavoro, circolare, n. 10/2000. 6 Come specificato da Trib. Venezia, 30 maggio 2012, “La deroga ai limiti in materia di orario di lavoro e l’esclusione del diritto al pagamento del
lavoro straordinario per le persone “aventi potere di decisione autonomo”, di cui all’art. 17, 5° comma, d.lgs. 66/03, implica che tali soggetti abbiano
la titolarità di iniziative organizzative-gestionali in ragione del servizio o del reparto assegnato, con affidamento della relativa discrezionalità
decisionale sulla individuazione delle strategie di individuazione della prestazione, nei limiti degli obiettivi dati dall’azienda; tra queste iniziative
rientra anche la scelta dell’orario di lavoro, non predeterminato, non misurabile a priori, e che può essere determinato dal lavoratore stesso, sia in
ordine al quantum complessivo (giornaliero, settimanale, multi periodale), sia in ordine alla distribuzione nel tempo (es. giornate lavorative) della
propria prestazione lavorativa”.
Approfondimenti
30 Il giurista del lavoro n. 12/2017
alle forme di lavoro a distanza, tra cui, ad esempio, le disposizioni in materia di salute e
sicurezza. Un secondo motivo di difficoltà consiste nel fatto che i soggetti potenzialmente
interessati all’adozione di forme di lavoro agile trovano più agevole contrattare in prima
persona con i datori di lavoro forme “personalizzate” di esecuzione della prestazione lavorativa.
Oltre al dato normativo, la criticità maggiore di queste sperimentazioni sembra essere legata a una
lettura ancora parziale della trasformazione del lavoro e dei modelli organizzativi. In effetti, gli
accordi si concentrano principalmente sulla flessibilità spaziale della prestazione, mancando
l’obiettivo di creare le condizioni effettive per una maggiore autonomia e responsabilità dei lavoratori
nella gestione dei tempi di lavoro e nel raggiungimento dei risultati7.
Fattispecie giuridica e principio di indisponibilità del tipo
L’attuale rappresentazione del diritto del lavoro risulta ancora basata sulla distinzione, elaborata dalla
dottrina francese degli anni ‘20, tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato. Tale distinzione
viene costantemente impiegata nelle decisioni della giurisprudenza, anche in settori diversi da quello
delle prestazioni professionali che tradizionalmente l’hanno vista nascere8.
Come è noto, la distinzione tra le obbligazioni di mezzo e quelle di risultato si fonda sul fatto
che, soltanto per le seconde, il risultato sarebbe dedotto in obbligazione, sicché soltanto per
queste il debitore si libera con il conseguimento dell’obiettivo. Al contrario, nelle obbligazioni
di mezzi, il risultato non è dedotto in obbligazione, seppure la condotta del debitore sia rivolta
al conseguimento di un certo risultato, onde soddisfare l’interesse del datore di lavoro.
Correlata al tema in discussione, va considerata anche la questione della responsabilità dell’obbligato
per il raggiungimento del risultato dedotto nel contratto. Solo qualora quest’ultimo sia stato espresso
nell’obbligazione stessa, infatti, il prestatore d’opera sarà tenuto responsabile del risultato.
All’obbligazione di mezzi viene tradizionalmente ricondotta la fattispecie del lavoro subordinato. Il
prestatore, infatti, si obbliga a mettere a disposizione del datore di lavoro la sola disponibilità dei
mezzi/forza lavoro/tempo, benché rivolta al raggiungimento di un obiettivo fissato dal datore di
lavoro. Anche la responsabilità del prestatore per l’attività svolta, rimane limitata alla normale
diligenza, essendo il potere di controllo e di direzione in capo al datore di lavoro9.
7 M. Tiraboschi, Il “lavoro agile” nella contrattazione collettiva oggi, Adapt, WP n. 2/2016. 8 M. Franzoni, “Le obbligazioni – I. L’obbligazione in generale”, Utet, 2004. 9 In tal senso, Trib. Roma n. 6241/2017; Trib. Roma n. 363/2017; Cass. n. 18320/2016; Cass. n. 13676/2010.
Approfondimenti
31 Il giurista del lavoro n. 12/2017
All’obbligazione di risultato viene tradizionalmente ricondotta la fattispecie del lavoro autonomo, nel
quale il principio del rischio è caratteristico ed esclusivo in capo al prestatore stesso, essendo il
committente privo del potere di direzione e le modalità di esecuzione del lavoro in capo al lavoratore
nei limiti più o meno ampi individuati dal contratto10.
Dubbi qualificatori sorgono in merito alla fattispecie del c.d. lavoro agile introdotta dal Capo II, D.Lgs.
81/2017. Già nella scelta di introdurre la disciplina del lavoro agile all’interno di un provvedimento
che dichiaratamente procede al riordino del lavoro autonomo, dà la dimensione della difficoltà di
interpretare correttamente il fenomeno. All’articolo 18, comma 1, il Legislatore, nuovamente prodigo
di definizioni, stabilisce:
“il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante
accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli
di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento
dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali
e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di
lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Tale opera definitoria riconduce, almeno in prima istanza, lo smart working all’interno del genus del
lavoro subordinato.
In concreto, tuttavia, l’adesione del lavoro agile al tradizionale schema del lavoro dipendente è
tutt’altro che scontata; questa, infatti, se correttamente interpretata da aziende e lavoratori (e
non solo quale forma maggiormente accessibile e attenuata di telelavoro), dovrebbe introdurre
una nuova modalità di prestazione lavorativa ibrida, generata dalla commistione di elementi
tipici dell’obbligazione di risultato, uniti ad altri elementi tipici del modello di subordinazione
classico, quali il potere direttivo11, il trattamento retributivo ex articolo 36, Costituzione12, il
diritto alla formazione13, le tutele assistenziali e previdenziali.
10 G.Suppiej, M.De Cristofaro, C. Cester, Diritto del Lavoro, III edizione, Cedam, 2005. 11 “L'accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, e disciplina
l'esecuzione della prestazione lavorativa svolta all'esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del
datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore” (articolo 19, comma 1, L. 81/2017). 12 “Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello
complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all'articolo 51, D.L. 81/2015, nei confronti dei lavoratori che svolgono le
medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda” (articolo 20, comma 1, L. 81/2017.) 13 “Al lavoratore impiegato in forme di lavoro agile ai sensi del presente capo può essere riconosciuto, nell'ambito dell'accordo di cui all'articolo 19,
il diritto all'apprendimento permanente, in modalità formali, non formali o informali, e alla periodica certificazione delle relative competenze”
(articolo 20, comma 2, L. 81/2017).
Approfondimenti
32 Il giurista del lavoro n. 12/2017
L’evoluzione possibile di questo modello lavorativo dovrebbe portare a una maggiore accentuazione
della responsabilità del lavoratore in funzione del risultato concordato dal patto di lavoro agile,
nonché ovviamente a maggiori benefici in un’ottica di work-life balance.
Da quanto detto sopra si evince che, se per un verso il patto di lavoro agile garantisce una continuità
del rapporto nel tempo, esso si caratterizza per il marcato spostamento dai confini dell’obbligazione
di mezzi verso quelli di un’obbligazione di risultato che il lavoratore si impegna a raggiungere, con
un’autonomia sempre più piena, anche rispetto al potere di direzione e controllo svolto dal datore di
lavoro. In particolare, con riferimento al potere di controllo, la legge utilizza un’espressione poco
felice quando afferma che l’oggetto dell’accordo è “il lavoro agile”, quale modalità di esecuzione del
rapporto di lavoro subordinato, stabilito mediante atto scritto inter alias. Infatti tale potere, che
nell’ambito del lavoro subordinato è unilaterale, risulta essere affievolito in quanto viene definito
concordemente tra le parti14.
Il patto di lavoro agile, in qualche misura, assume la funzione di “preventivo” d’opera, piuttosto che di
reale sottomissione a un’etero-direzione, nella quale il datore di lavoro stabilisce mezzi, tempi e
luoghi di lavoro. Se sotto il profilo socio-economico questo corrisponde a un nuovo e più moderno
profilo di lavoratore, spesso ultra-qualificato, che sia per la tipologia del lavoro, dell’impresa
produttiva, che per personali esigenze familiari, sotto il profilo della tematica giuridica restano
scoperte parecchie questioni.
Se il lavoratore si obbliga per il raggiungimento di un risultato o per la realizzazione di un progetto,
ma il datore di lavoro non è nelle condizioni di poter esercitare (come nel lavoro subordinato classico)
un potere di controllo e di direzione sull’operato dello stesso, a chi deve essere attribuita la
responsabilità per eventuali condotte scorrette o per il mancato o inadeguato raggiungimento
dell’obiettivo?
La legge che disciplina lo smart working, all’articolo 21, tenta di dare una soluzione, ma di fatto ribalta
la stessa all’autonomia contrattuale delle parti, come di fatto potrebbe avvenire in un contratto
d’opera o in un contratto commerciale.
Un altro profilo interessante è rappresentato - poiché lo smart worker è per definizione un lavoratore
subordinato - dai limiti di applicazione di cui al D.Lgs. 66/2003, per le prestazioni di lavoro svolte al di
fuori dei locali aziendali; al lavoratore che possa autonomamente stabilire il tempo, oltreché il luogo
di lavoro, durante il quale svolgere la prestazione, sono dovute maggiorazioni per particolari fasce
orarie, o prestazioni di lavoro straordinario?
14 G. Santoro-Passarelli, “Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro”, Giuffrè, Milano, 2017.
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33 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Anche la contrattazione collettiva sembra piuttosto timida nei rari casi in cui ha tentato di regolare
l’accesso all’istituto: pur affermando il ruolo delle moderne tecnologie, solo in minima parte riconosce
piena libertà rispetto alla scelta del luogo di svolgimento della prestazione, preferendo spesso
individuare luoghi determinati (il domicilio del lavoratore, luogo idoneo rispetto alla policy aziendale,
etc.)15.
Al contrario, per quanto attiene alle tutele, il lavoro agile rientra a pieno titolo nel campo di
applicazione del lavoro subordinato. In realtà è proprio questo il nocciolo della questione sotto
il profilo socio-economico; il lavoratore “agile” è in effetti un lavoratore che, per caratteristiche
e attività svolte, è interessato a forme di organizzazione del lavoro flessibili e smart, ma che non
ha intenzione di rinunciare agli indubbi vantaggi, specialmente quelli riconosciuti nel sistema
previdenziale italiano, nonché alle forme di tutela previste dal lavoro subordinato (basti pensare
alla tutela contro gli infortuni, alla maternità e soprattutto al raggiungimento dei requisiti
pensionistici).
L’azienda, dal canto suo, può avere interesse a stipulare patti di lavoro agile al fine di ridurre la
mobilità rispetto ai tragitti casa-lavoro dei lavoratori di particolare interesse per l’azienda, ma che
sono decentrati territorialmente rispetto alle sedi aziendali, o anche di agevolare propri key-employees
nella conciliazione vita-lavoro.
Da quanto detto finora, anche alla luce del disposto sulle collaborazioni organizzate dal
committente di cui all’articolo 2, D.Lgs. 81/201516, si delinea una curiosa contro-tendenza,
laddove il lavoro subordinato, con la disciplina della modalità “lavoro agile”, diventa più
autonomo e le collaborazioni autonome, con la novella introdotta dall’articolo 2 poc’anzi citato,
vengono ricondotte, almeno negli effetti17, nell’alveo delle tutele del lavoro subordinato18.
Se il Legislatore appare prodigo nel definire istituti e situazioni che forse richiederebbero una più
attenta valutazione della dottrina, molto più rigorosa dal punto di vista giuridico è stata finora
l’impostazione assunta dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione.
Si fa riferimento, in particolare, alle sentenze della Corte Costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994 e,
ancora, a quella della Cassazione n. 18476/2014, che hanno affermato il principio dell’indisponibilità
del tipo contrattuale. La Corte Costituzionale ha più volte stabilito che:
15 M. Tiraboschi, cit. 16 Articolo 2, D.Lgs. 81/2015 “A far data dal 1º gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di
collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate
dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. 17 A. Perulli, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – n.
272/2015. 18 A. Maresca, Smart Working, subordinazione soft, “Il Sole24ore”, 26 luglio 2017.
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34 Il giurista del lavoro n. 12/2017
“non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a
rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme
inderogabili previste dall’ordinamento”
e
“a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parte ad escludere,
direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina
inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di
esecuzione propri del rapporto subordinato”.
Con il principio sopra richiamato, le Corti hanno affermato a più riprese che il Legislatore non ha la
facoltà di sovvertire le categorie giuridiche a proprio piacimento. Come noto, infatti, le Corti italiane
hanno più volte affermato che:
“Per la qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato - ai fini del quale il
"nomen iuris" attribuito dalle parti al rapporto può rilevare solo in concorso con altri validi elementi
differenziali o in caso di non concludenza degli altri elementi di valutazione - occorre accertare se
ricorra o meno il requisito tipico della subordinazione intesa come prestazione dell'attività lavorativa
alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore e perciò con l'inserimento nell'organizzazione
di questo, mentre gli altri caratteri dell'attività lavorativa, come la continuità, la rispondenza dei suoi
contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione, non assumono
rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di
lavoro autonomo parasubordinato”19.
Alle distinzioni legislative ambigue, anche con riguardo al lavoro coordinato e continuativo, si
uniscono concrete difficoltà di accertamento giudiziale della fattispecie nella qualificazione del
rapporto. In molti casi, infatti, i confini tra il lavoro agile, le cui modalità di esecuzione sono
concordate tra le parti, e le collaborazioni coordinate e continuative, anch’esse concordate tra le parti,
risultano incerti. Non resta che domandarsi come decideranno le Corti in merito a questioni inerenti ai
rapporti di smart working o di lavoro occasionale o di lavoro a chiamata. È probabile che la valutazione
del giudice si svolgerà nel concreto, lungi dall’acritica adesione al dettato normativo (in ossequio al
principio di indisponibilità del tipo contrattuale), andando a ricercare caso per caso gli elementi tipici
dell’autonomia e della subordinazione, con il risultato di una potenzialmente caleidoscopica
frantumazione delle decisioni.
19 Cass. n. 14296/2017. Sul tema vedi anche Cass. n. 23846/2017 e Trib. Genova, n. 585/2017.
Approfondimenti
35 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il nuovo mercato del lavoro verso il superamento della divisione binaria
Se quella riportata finora è la ricostruzione giuridica del fenomeno, al fine di inquadrare
correttamente le possibili soluzioni alle questioni proposte, urge ricostruire quanto più possibile lo
schema di rapporti socio economici in cui queste nuove formule contrattuali trovano origine.
Lontano dai toni trionfalisti di certi commentatori, sui magnifici futuri e progressivi, che vedranno
milioni di lavoratori agili controllare da remoto aziende interamente robotizzate20, lo schema socio-
economico che sembra delinearsi è quello di una stratificazione per competenze e per generazioni del
mondo del lavoro.
A una prima fascia appartengono i lavoratori ultra-qualificati, i quadri dirigenziali, i key-employees,
ossia tutti quei lavoratori che per capacità, qualifiche e competenze dispongono di un forte potere
contrattuale nei confronti dell’impresa e che svolgono mansioni che, alla luce dell’attuale evoluzione
tecnologica, possono essere svolte in remoto. Sotto il profilo sociale è ovvio, a maggior ragione
nell’attuale momento storico, che questi soggetti del mercato possono concordare con l’azienda
modalità organizzative “agili”, che in altri tempi sarebbero state tipiche del professionista o del
freelancer o, ancora, del dirigente, senza tuttavia rinunciare ai benefici del rapporto di lavoro
subordinato. Spesso si tratta di lavoratori che hanno già svolto periodi più o meno lunghi di
subordinazione nella propria carriera lavorativa e che non hanno intenzione di vedere vanificati o
intaccati i requisiti per il raggiungimento del trattamento pensionistico. Come noto, infatti, tali
lavoratori hanno ormai da tempo una retribuzione collegata alla professionalità e al ruolo della
prestazione, quando non anche a risultati e obiettivi, e sono di fatto slegati dal rispetto rigido
dell’orario di lavoro. Va da sé che per tale categoria socio-economica la contrattazione collettiva
assume un ruolo secondario nella regolazione del rapporto di lavoro, rimanendo al più sullo sfondo,
quale identificatrice di diritti di base, ma inadeguata a regolare nel dettaglio le modalità organizzative
della prestazione lavorativa, disciplinata piuttosto da un rapporto face to face con il datore di lavoro.
Nella seconda fascia di lavoratori finiscono per convergere tutti quelli che, per mancanza di qualifiche
o competenze specifiche, o soltanto in ragione della mancanza di esperienza lavorativa (si pensi alle
giovani generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro), non possiedono sufficiente potere
contrattuale per pretendere condizioni più tutelate di lavoro. Questi ultimi sono spesso necessitati ad
aderire a forme di organizzazione discontinua o meno tutelata di lavoro. Spesso, tale scelta risulta
obbligata per le aziende in ragione, almeno nel nostro Paese, da un cuneo fiscale e contributivo che
20 F. Seghezzi, Lavoro e relazioni industriali in Industry 4.0, Adapt, n. 1/2016.
Approfondimenti
36 Il giurista del lavoro n. 12/2017
da anni rappresenta un deficit sfavorevole per il nostro sistema produttivo. Per questi lavoratori, al
contrario dei primi, la connessione tempo-retribuzione appare sempre più stringente, benché
discontinua. Emerge spesso, nella pratica, una quantificazione estrema, quasi “minutale” della
prestazione lavorativa, obbligando talvolta il Legislatore a fissare la stessa ex ante (vedi ad esempio
D.L. 50/2017 sul lavoro accessorio) oppure a fare riferimento alla contrattazione collettiva per
determinare la misura della stessa (lavoro a chiamata). Anche in questo secondo ambito è facile
comprendere come la contrattazione collettiva incontri notevoli difficoltà a disciplinare la
retribuzione e l’orario di lavoro, nonché i diritti e i doveri del lavoratore. Questo è dovuto all’estrema
frammentazione delle prestazioni e alla debolezza del substrato sociale di riferimento, condizioni alle
quali le organizzazioni sindacali non sono per ora riuscite a individuare strumenti adatti a confrontarsi
con la controparte datoriale.
Come uscire dall’impasse determinato dalla rigidità del nostro sistema giuridico, cogliendo tuttavia le
molteplici istanze di rinnovamento del mondo del lavoro 4.0? Come vincere la moderna sfida della
graduazione nel riconoscimento delle tutele e, in ultima analisi, quella per una società più equa?
Come far sì che le nuove tecnologie rappresentino effettivamente un’opportunità per un aumento
dell’efficienza produttiva e di un miglior bilanciamento delle condizioni di vita-lavoro, senza che
queste rappresentino la fine del lavoro di Rifkiana memoria21?
Forse la soluzione può nascere dal superamento delle barriere ideologiche e concettuali che fino a qui
hanno dominato il dibattito sulle discipline dei nuovi fenomeni sociali e giuridici; d’altra parte
fenomeni come la globalizzazione e la proliferazione di forme di lavoro atipico, e i correlati fenomeni
di dumping sociale e di declino del sindacato, mettono vigorosamente in crisi la rigida dicotomia tra
subordinazione e autonomia. Il mercato del lavoro, nel suo complesso, è caratterizzato più da un
continuum di rapporti giuridici, in cui i veri fattori dominanti sono la forza contrattuale dei soggetti e il
loro interesse contingente, dove la divisione binaria fondata sull’ineguaglianza di potere tra le parti
può essere falsificata22.
Su questo tema si è già spinta la dottrina di Common law; la critica della visione tradizionale ha
portato a immaginare una nuova famiglia di contratti, con 7 tipi empirici di relazioni lavorative (lavoro
subordinato standard, lavoro pubblico, professioni liberali, freelancer, lavori atipici, trainee e
volontariato), caratterizzate da un legame personale (personality of work), concetto più esteso del
contract of employment e tale da giustificare una somministrazione selettiva di tutele anche agli
21 J. Rifkin, “The End of the work”, 1995. 22 Mark Freedland, “The Personal Employment Contract”, 2006.
Approfondimenti
37 Il giurista del lavoro n. 12/2017
indipendenti, estese alla libertà di organizzazione, associazione sindacale, astensione collettiva e al
diritto alla sicurezza e previdenza sociale23.
Anche la dottrina italiana mette in evidenza che si sta profilando una configurazione
dell’impresa diversa da quella fordista e gerarchica, accolta dal codice del 1942. E, tuttavia, di
fronte a questo diverso assetto organizzativo dell’impresa sarebbe auspicabile e preferibile,
rispetto agli interventi legislativi di dettaglio come quelli esaminati finora, la modifica e forse
anche il superamento del paradigma offerto dall’articolo 2094 cod. civ.24.
Una modifica normativa che accogliesse una tale rivoluzionaria impostazione, consentirebbe agli
operatori del diritto di concentrarsi sul vero problema rimasto fin qui irrisolto.
Come distribuire le tutele sociali e previdenziali, e le libertà sindacali tra i soggetti del rapporto di
lavoro?
Se invece di considerare i rapporti di lavoro nell’ottica dell’aut aut tra subordinazione e autonomia
potessimo pensare a un flusso continuo e ibrido di rapporti di lavoro, mediante il rafforzamento
dell’autonomia negoziale, in cui l’elemento predominante è la “personalità del lavoratore”, ovvero il
suo profilo di capacità e di disponibilità all’interno della società, allora sarebbe possibile graduare una
progressiva estensione delle tutele riconosciute dall’ordinamento, in funzione dell’utilità del
lavoratore stesso a veder riconosciute determinate esigenze, nonché in funzione della disponibilità
delle aziende stesse a riconoscerle, pur di usufruire delle competenze del lavoratore.
Non più un mondo del lavoro dominato dalla ricostruzione fordista-taylorista dell’uomo-macchina,
fattore di produzione soggetto alla macchina prima ancora che alle esigenze del datore di lavoro,
bensì un moderno e democratico dialogo tra soggetti ormai equiparati sul piano giuridico e sociale,
titolari di diritti e doveri reciproci, inseriti in un più ampio sistema di relazioni di cittadinanza
sostenibile, anche ambientale, che lavorano insieme per costruire un futuro possibile.
23 A. Perulli, Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in Lavoro e Diritto, n.2/2015. 24 G. Santoro-Passarelli, “Rivista Italiana di Diritto del Lavoro”, n. 3/2017.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
38 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Tipizzazioni degli illeciti disciplinari nel
Ccnl e contratto a tutele crescenti di Evangelista Basile – avvocato – socio Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati
e Fabio Fontana – avvocato – collaboratore Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati
Con l’introduzione del D.Lgs. 23/2015, le esemplificazioni delle condotte rilevanti a livello
disciplinare contenute nei vari Ccnl hanno perso l’incisività a loro assegnata dalla Riforma
Fornero (ai fini della scelta della tutela: reintegratoria o risarcitoria) e, nello specifico,
dall’articolo 18, comma 4, St. Lav.. Tuttavia, di fronte alla rimodulazione delle tutele
invocabili dal prestatore di lavoro in caso di illegittimità del licenziamento, non è così
remoto il rischio che la giurisprudenza possa ricollegare alla violazione delle norme
collettive da parte del datore di lavoro conseguenze di carattere risarcitorio in favore del
lavoratore ulteriori rispetto a quelle previste dal D.Lgs. 23/2015.
Le tipizzazioni degli illeciti disciplinari contenute nel Ccnl
Le condotte sanzionate con il licenziamento
Con la sentenza n. 23259/2017, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato
nella giurisprudenza di merito e di legittimità.
Le esemplificazioni contenute nel Ccnl che stabiliscono le ipotesi di giusta causa di recesso non sono
vincolanti per il datore di lavoro e per il giudice.
Per questa ragione, quand’anche una determinata condotta non sia esplicitamente sanzionata
dal Ccnl con il massimo provvedimento espulsivo, il dipendente responsabile della condotta
medesima potrà comunque essere legittimamente licenziato, se il suo comportamento è idoneo
a ledere in via definitiva il vincolo di fiducia che deve sottendere ogni rapporto di lavoro.
In termini di continuità con tale insegnamento giurisprudenziale, sovente le parti sociali hanno
previsto in modo espresso nei vari contratti collettivi che tali esemplificazioni debbono ritenersi
meramente indicative, potendo il datore di lavoro recedere in tronco dal rapporto anche al cospetto di
comportamenti gravemente inadempienti non individuati nel contratto medesimo.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
39 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Le condotte punite con una sanzione conservativa nel sistema antecedente alla Riforma Fornero
A differenza delle condotte che legittimano il datore di lavoro a licenziare il dipendente per ragioni
disciplinari, le esemplificazioni contenute nel Ccnl relative alle condotte punibili con una sanzione
conservativa hanno invece un valore decisamente più incisivo.
Queste ultime esemplificazioni, infatti, sono sempre state utilizzate dalla giurisprudenza quali criteri
per orientare la decisione in ordine alla legittimità del licenziamento. I giudici del lavoro, pur
ravvisandone talvolta la genericità e precisandone il carattere non vincolante, hanno motivato le
proprie decisioni con un attento richiamo alle pattuizioni intervenute a livello collettivo.
La giurisprudenza di legittimità, in molteplici occasioni, ha infatti statuito che
“in tema di licenziamento, le tipizzazioni degli illeciti disciplinari contenute nei contratti collettivi,
rappresentando le valutazioni che le parti sociali hanno fatto in ordine alla valutazione della gravità
di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità, non
consentono al datore di lavoro di irrogare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una
sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata
infrazione”1.
Le condotte punite con una sanzione conservativa nel sistema post Riforma Fornero
Con l’entrata in vigore della Legge Fornero, però, le disposizioni dei Ccnl hanno assunto per mano del
Legislatore un carattere estremamente vincolante, laddove stabiliscono che una determinata condotta
sia punibile solo con una sanzione conservativa.
E invero, ai sensi dell’articolo 18, comma 4, St. Lav., se il Ccnl (o il regolamento interno) dispone
che il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice non può
fare altro che dichiarare illegittimo il licenziamento e ordinare – quale sanzione imposta dalla
legge – la reintegrazione in servizio del lavoratore.
I magistrati del lavoro si sono così trovati nell’impossibilità di poter valutare l’idoneità di un
determinato fatto a legittimare un recesso in tronco ogniqualvolta le parti collettive lo avevano
inserito tra le infrazioni sanzionabili solo con un richiamo scritto, una multa o una sospensione dal
servizio e dalla retribuzione.
Una simile impostazione presenta inevitabilmente qualche problema nel momento in cui i Ccnl
elencano fattispecie tipizzate a dir poco insolite o eccessivamente lassiste.
1 Ex multis, Cass. n. 2692/2015, n. 19053/2005, n. 16260/2004.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
40 Il giurista del lavoro n. 12/2017
In questi termini, ad esempio, le aziende che applicano il Ccnl Uneba si trovano a dover punire con
una sanzione meramente conservativa colui che “assuma sul lavoro un contegno scorretto ed offensivo
verso gli utenti, i soggetti esterni ed i colleghi o compia nei loro confronti atti o molestie, anche di carattere
sessuale”.
Le stesse difficoltà, invece, non si sono poste nelle ipotesi in cui il fatto contestato al lavoratore non
fosse riconducibile a una delle fattispecie contemplate nei contratti collettivi.
In questi casi i giudici del lavoro hanno potuto continuare a utilizzare le disposizioni dei Ccnl come
meri criteri orientativi, senza essere vincolati dalle pattuizioni intervenute tra le parti collettive.
È il caso, ad esempio, affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10647/2017. I giudici di
legittimità sono stati chiamati a esprimersi su una fattispecie in cui il dipendente, assente dal lavoro
per un infortunio alla caviglia, era stato sorpreso a partecipare a 2 partite di calcio, che ne avevano
pregiudicato la guarigione.
Verificato che la fattispecie all’esame della Corte non era tra quelle elencate nel Ccnl di riferimento, i
giudici si sono correttamente concentrati sulla disposizione che dovrebbe orientare ogni pronuncia
relativa a un licenziamento per giusta causa: l’articolo 2119 cod. civ..
In particolare, la Suprema Corte – dopo aver confermato la legittimità del licenziamento – ha chiarito
un principio di diritto assolutamente condivisibile, ossia che il giudice non deve limitarsi a ricondurre
quanto addebitato alle singole fattispecie previste dalla contrattazione collettiva, ma deve valutare i
fatti nel loro insieme, onde verificare se siano tali da minare la fiducia del datore di lavoro.
Le condotte punite con una sanzione conservativa nel sistema introdotto dal D.Lgs. 23/2015
Proprio le criticità insorte nell’applicazione dell’articolo 18 St. Lav. novellato dalla c.d. Riforma
Fornero hanno indotto il nostro Legislatore – ad appena 3 anni di distanza – a intervenire
nuovamente sulla materia, dettando una disciplina diversa in materia di tutela da licenziamenti nulli o
illegittimi nei contratti a tutele crescenti (ossia quelli individuati all’articolo 1, D.Lgs. 23/20152).
Sul tema delle esemplificazioni contenute nel Ccnl, va osservato che nel D.Lgs. 23/2015 – che
regola i c.d. contratti a tutele crescenti – con riguardo ai licenziamenti disciplinari non vi è
alcun riferimento alle disposizioni collettive, che dunque perdono qualsivoglia efficacia
vincolante nella scelta da parte del giudice della sanzione – reintegratoria o risarcitoria – del
licenziamento illegittimo.
2 “Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a
decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto (7 marzo 2015), il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato
dalle disposizioni di cui al presente decreto. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva
all'entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
41 Il giurista del lavoro n. 12/2017
La riforma del 2015, infatti, non ha inciso solo sull’incisività delle clausole collettive, ma anche e
soprattutto sulla tutela invocabile dal dipendente. In proposito, occorre evidenziare che con il D.Lgs.
23/2015 il dipendente assunto con un contratto a tutele crescenti – a differenza del collega
beneficiario delle tutele previste dall’articolo 18 St. Lav. – anche se licenziato per una condotta che il
Ccnl punisce con una sanzione conservativa, non potrà invocare la tutela reintegratoria, ma solo
quella indennitaria.
E invero, con riguardo ai recessi datoriali di natura disciplinare, il D.Lgs. 23/2015 riserva la tutela
reintegratoria solo ai dipendenti illegittimamente licenziati, laddove sia “direttamente dimostrata in
giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”.
Possibile che alla violazione da parte datoriale delle norme collettive in tema di
sanzione disciplinari conseguano tutele ulteriori rispetto a quelle di legge?
L’azione risarcitoria ex articoli 1218 e 1223 cod. civ.
Al cospetto di una rimodulazione delle tutele invocabili dal lavoratore illegittimamente licenziato,
non è così remoto il rischio che il lavoratore possa ricollegare alla violazione delle norme collettive
da parte del datore di lavoro ulteriori conseguenze di carattere risarcitorio in favore dell’ex
dipendente.
È possibile che venga ipotizzato il diritto a un’autonoma azione di risarcimento del danno per
inadempimento contrattuale ai sensi dell’articolo 1218 cod. civ.. In questo senso, il dipendente
licenziato potrebbe agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro sia per ottenere la tutela
indennitaria, prevista dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015, sia per rivendicare il risarcimento
del danno ai sensi dell’articolo 1223 cod. civ., secondo i parametri del danno emergente e del
lucro cessante.
Una simile conseguenza, tuttavia, che determinerebbe una duplicazione del risarcimento del danno
patito dal lavoratore per effetto dell’illegittimità del licenziamento, si porrebbe in contrasto con gli
insegnamenti della Corte di Cassazione – elaborati nel periodo di vigenza dell’articolo 18 St. Lav.
nella formulazione antecedente alla Riforma Fornero – secondo cui “la liquidazione forfettaria ex lege
prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, copre tutti i danni collegati all'illegittimità del licenziamento ex
se, anche sotto il profilo del danno biologico”3.
3 Tra le tante, Cass. n. 23686/2015.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
42 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Pertanto, estendendo all’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015,
i principi enunciati dalla Corte di Cassazione in relazione all’articolo 18 St. Lav., si deve
pervenire alla conclusione che l’indennità forfettaria stabilita dal sistema giuslavoristico
(articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015) copre tutti i danni patiti dal lavoratore a causa
dell’illegittimità del licenziamento, non potendo in questo senso ammettersi ulteriori domande
di risarcimento del danno avanzate secondo l’impianto legislativo civilistico (articolo 1223 cod.
civ.).
Del resto, il nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. 23/2015 ha semplicemente riassegnato alle
esemplificazioni delle condotte punibili con una sanzione conservativa la funzione di criterio utile a
orientare la decisione in ordine alla legittimità o meno del licenziamento (ossia alla proporzionatezza
della sanzione), privandole invece di quel valore vincolante che la Riforma Fornero aveva attribuito
loro.
In quest’ordine di idee, un giudice del lavoro, se riterrà puntuali, specifiche e congrue le tipizzazioni
degli illeciti contrattuali meritevoli di sanzione conservativa contenute in un determinato Ccnl, dovrà
pervenire a una pronuncia di illegittimità del licenziamento, laddove intimato in ragione di una
condotta che secondo le parti sociali avrebbe dovuto essere sanzionata con un richiamo scritto, una
multa o una sospensione.
Si pensi, ad esempio, al caso di un datore di lavoro che – al cospetto di un’assenza ingiustificata dal
posto di lavoro di un giorno – decida di licenziare il proprio dipendente nonostante il Ccnl preveda
espressamente per tale condotta la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione.
In tale ipotesi, ad avviso di chi scrive, il giudice dovrà riconoscere al lavoratore le tutele previste
dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015, ma dovrà al contempo astenersi dall’accogliere eventuali
domande di risarcimento di danni ulteriori, se fondate esclusivamente sul carattere illegittimo del
licenziamento.
In altri termini, la violazione delle disposizioni del Ccnl da parte del datore di lavoro può
sicuramente incidere sul giudizio di legittimità del recesso, ma non determina in capo al
prestatore di lavoro il diritto ad azionare un’autonoma domanda di risarcimento del danno ex
articolo 1223 cod. civ., fondata solo e soltanto sulla mancata osservanza delle pattuizioni
collettive, in quanto il danno causato da quest’ultimo inadempimento contrattuale è già
risarcito dall’indennità di cui all’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
43 Il giurista del lavoro n. 12/2017
E, come ha spiegato la Corte di Cassazione, l’indennità risarcitoria prevista dal sistema giuslavoristico
(nel nostro esempio dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015) copre tutti i danni patiti dal lavoratore
collegati all’illegittimità del licenziamento.
Va però a questo punto osservato che, per evitare il rischio di un esercizio incontrollato e distorto del
potere disciplinare, il D.Lgs. 23/2015 ha previsto che, in caso di licenziamento ritorsivo e/o
discriminatorio, il lavoratore possa ottenere la reintegrazione in servizio, oltre che l’indennità
risarcitoria.
In questo senso, anche utilizzando sapientemente lo strumento delle presunzioni, il prestatore di
lavoro licenziato per una ragione all’evidenza pretestuosa o capricciosa (ad esempio, licenziamento in
tronco per ritardo di un solo minuto) potrà addurre e dimostrare in giudizio che il reale motivo alla
base del recesso datoriale non può essere identificato nel fatto contestato, bensì in ragioni ulteriori di
carattere ritorsivo o discriminatorio. In tale ipotesi, il datore di lavoro non potrà comunque evitare la
condanna al ripristino del rapporto di lavoro.
Orbene, ad avviso di chi scrive, la soluzione per disincentivare il datore di lavoro a recedere dal
rapporto anche al cospetto di condotte tipizzate punite dal Ccnl con una sanzione conservativa,
non dev’essere individuata nella concessione al lavoratore di un’ulteriore azione risarcitoria di
stampo civilistico (che determinerebbe solo un’illegittima duplicazione del risarcimento del
danno), quanto invece in un più attento utilizzo giudiziale dello strumento delle presunzioni,
nell’ottica di tutelare con la reintegrazione in servizio il lavoratore licenziato in virtù di un
provvedimento datoriale nullo perché ritorsivo o discriminatorio.
La condotta antisindacale ex articolo 28 St. Lav.
Se la condotta del datore di lavoro dovesse essere improntata a una sistematica violazione delle
disposizioni collettive, nella misura in cui molteplici dipendenti dovessero essere licenziati per
condotte punite dal Ccnl con una sanzione conservativa, è possibile che le organizzazioni sindacali
firmatarie del Ccnl agiscano in giudizio per ottenere l’accertamento della natura antisindacale del
comportamento del datore di lavoro.
In tale ipotesi, non è da escludersi che una continua e sistematica inosservanza delle pattuizioni
intervenute in sede collettiva possa essere qualificata in sede giudiziale come una condotta
antisindacale. Un giudice, infatti, potrebbe ravvisare nel comportamento datoriale la causa di un
pregiudizio all’immagine delle organizzazioni sindacali agli occhi dei dipendenti.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
44 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Fermo restando che spetta alle organizzazioni sindacali dimostrare in ogni singola fattispecie la
sussistenza di tutti i requisiti necessari per attivare la procedura prevista dall’articolo 28 St. Lav.
(l’intento antisindacale, l’attualità della condotta, il pregiudizio subito dalle OO.SS.), può essere utile
esaminare quali potrebbero essere le possibili conseguenze sui licenziamenti intimati dal datore di
lavoro.
In proposito, giova richiamare i primi orientamenti della giurisprudenza di merito sul punto. In
particolare, con decreto dell’11 febbraio 2016, il Tribunale di Roma ha definito un’azione avviata ai
sensi dell’articolo 28 St. Lav. in ragione dell’omesso espletamento della procedura di licenziamento
collettivo, chiarendo 2 principi, ad avviso di chi scrive, condivisibili.
Il Tribunale capitolino, dopo aver accertato la natura antisindacale della condotta, ha rigettato la
domanda dell’organizzazione sindacale volta a ottenere la revoca dei licenziamenti intimati. Al
riguardo, il giudice ha osservato che “sarebbe inconcepibile ipotizzare che il sindacato possa ottenere,
nella fattispecie, una tutela addirittura superiore a quella cui potrebbero ambire i singoli dipendenti”,
sicché – posto che l’articolo 10, D.Lgs. 23/2015, prevede una tutela meramente indennitaria in caso di
violazione della procedura prevista dall’articolo 4, L. 223/1991 – il giudicante non può revocare i
licenziamenti intimati ai lavoratori, essendosi ormai estinti i relativi rapporti di lavoro.
Del pari, il giudice ha chiarito che “neppure, può essere riconosciuta in questa sede alcuna tutela
indennitaria al lavoratori licenziati”: tale domanda, infatti, può essere svolta solo dai dipendenti
licenziati.
Applicando i 2 menzionati principi all’ipotesi di licenziamento disciplinare intimato a un
dipendente responsabile di una condotta punita dal Ccnl con una sanzione conservativa, si può
giungere alla conclusione che, nell’ambito di un’ipotetica azione per condotta antisindacale, le
OO.SS. non potranno verosimilmente ottenere una pronuncia che incida direttamente sulla sfera
giuridica del lavoratore e, tantomeno, un provvedimento giudiziale che riconosca al lavoratore
tutele maggiori rispetto a quelle previste dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015
Le clausole collettive che identificano una specifica tutela in favore del dipendente
A parere di chi scrive, nel nuovo sistema introdotto dal Jobs Act, vi sarebbe un’unica possibile clausola
collettiva che potrebbe vincolare il giudice a riconoscere una tutela diversa rispetto a quella prevista
dal D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento illegittimo. È l’ipotesi (invero alquanto remota) della
pattuizione collettiva volta a garantire al dipendente una tutela di miglior favore rispetto a quelle
stabilite dal Legislatore.
Clausole e accordi nel contratto di lavoro
45 Il giurista del lavoro n. 12/2017
In questo senso, se le parti collettive dovessero stabilire che:
1) al cospetto di una determinata condotta, il dipendente possa essere punito solo con una sanzione
conservativa;
2) in caso di licenziamento in presenza di una simile condotta, il dipendente ha diritto alla
reintegrazione;
il giudice dovrebbe dichiarare l’illegittimità del licenziamento e riconoscere al prestatore di lavoro la
tutela espressamente stabilita dal Ccnl.
In tutti gli altri casi, invece, la violazione della disposizione collettiva che esemplifica le condotte
punibili con una sanzione conservativa dovrebbe portare, al più, al riconoscimento in favore dell’ex
dipendente dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015.
Conclusioni
Sebbene non sia affatto remota la possibilità che la giurisprudenza di merito – particolarmente restìa
a rimanere imbrigliata nei precisi canoni risarcitori individuati dal Legislatore del Jobs Act – cerchi di
individuare valide soluzioni per riconoscere al prestatore di lavoro tutele reintegratorie non
espressamente previste dall’articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015, non pare che sia legittimamente
percorribile la strada di concedere al dipendente un’autonoma e ulteriore azione risarcitoria di natura
civilistica. Né l’impianto sanzionatorio previsto dal D.Lgs. 23/2015 sembrerebbe poter essere aggirato
da azioni giudiziarie ai sensi dell’articolo 28 St. Lav., che, al massimo, potrebbero consentire alle
OO.SS. di ottenere una pronuncia che tuteli un loro interesse di carattere collettivo. Per questi motivi,
è molto più probabile che la giurisprudenza, al cospetto di un licenziamento manifestamente
pretestuoso, si concentri sullo strumento delle presunzioni per “smascherare” quei datori di lavoro
che, approfittando di un inadempimento di scarsa rilevanza, decidono di liberarsi di un dipendente a
loro inviso.
La gestione delle controversie di lavoro
46 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Assenze ingiustificate alle visite di
controllo di Carlo Andrea Galli - avvocato
L’assenza ingiustificata alle visite di controllo domiciliari del medico espone il dipendente
a sanzione sia sotto il profilo del percepimento dell’indennità di malattia da parte dell’Inps
sia sotto il profilo disciplinare, trattandosi di condotta sanzionabile quale mancanza
disciplinare dal datore di lavoro.
Le ipotesi che giustificano l’assenza del dipendente in stato di malattia dal domicilio eletto
ai fini delle visite di controllo sono da un lato residuali e dall’altro oggetto di discussioni
ancor oggi in parte irrisolte, nonostante gli interventi legislativi e ministeriali in materia,
nonché le circolari esplicative dell’Inps.
A ciò si aggiunge che la realtà presenta una casistica di fattispecie concrete assai variegate
di assenza dal domicilio eletto ai fini delle visite mediche di controllo e le pronunce della
giurisprudenza in merito hanno avuto modo di esaminare una varietà davvero notevole e
articolata di casi concreti, con statuizioni talvolta almeno apparentemente contraddittorie.
Ci si prefigge di evidenziare alcune tra le frequenti tematiche e i criteri da rispettare
inerenti alle visite di controllo presso il domicilio eletto dal dipendente e ai casi di
giustificatezza dell’eventuale assenza del dipendente stesso.
Cenni sulle previsioni normative di riferimento e sui principi che regolano la materia
V’è da precisare, in primo luogo, che la presente trattazione ha ad oggetto i rapporti di lavoro del
settore privato e non la diversa disciplina della gestione delle verifiche dello stato di malattia dei
dipendenti pubblici.
Peculiare è inoltre la disciplina delle visite mediche di controllo di stato di malattia professionale o
derivante da infortunio sul lavoro, che parimenti non costituisce oggetto diretto della trattazione.
Per la generalità dei dipendenti del settore privato sussiste il diritto all’indennità di malattia da parte
dell’Inps, oltre che del datore di lavoro, in base anche alle previsioni di ciascun contratto collettivo,
fino alla scadenza della prognosi di malattia, che può essere attestata con uno o più certificati (dal
2011 con un sistema di comunicazioni in via telematica).
La gestione delle controversie di lavoro
47 Il giurista del lavoro n. 12/2017
In base alle previsioni dell’articolo 2, D.L. 663/1979, convertito in L. 33/1980, eventuali visite di
controllo sullo stato di infermità del lavoratore, ai sensi dell'articolo 5, L. 300/1970, oppure, su
richiesta dell'Inps, sono effettuate dai medici dei servizi sanitari.
Il dipendente in stato di malattia certificata deve rendersi reperibile al proprio domicilio durante le
fasce di reperibilità, precisate con D.M., per essere sottoposto ai controlli di verifica dell’effettiva
temporanea incapacità lavorativa.
Le fasce orarie di reperibilità da rispettare sono attualmente, per tutti i giorni riportati nella
certificazione di malattia (compresi i sabati, le domeniche e i giorni festivi), dalle ore 10 alle ore 12 e
dalle ore 17 alle ore 19.
Durante il periodo di stato di malattia certificato il dipendente può cambiare l’indirizzo di reperibilità,
comunicandone la necessità tempestivamente e con congruo anticipo, oltre che al datore di lavoro,
all’Inps, a quest’ultimo con una delle seguenti modalità precisate nel messaggio Inps n. 1290/2013:
inviando un’e-mail all’apposita casella di posta elettronica Inps o una comunicazione al numero di fax
indicato dalla struttura territoriale oppure contattando il Contact center dell’Istituto di previdenza
tramite apposito numero verde telefonico.
Le modalità e le tempistiche di comunicazione dell’eventuale cambiamento di domicilio del
dipendente malato al datore di lavoro sono disciplinate dai contratti collettivi; valgono comunque al
riguardo i principi generali di effettività e tempestività secondo ragionevolezza della comunicazione
dello spostamento.
Il testo normativo che rimane di riferimento in tema di assenza alle visite di controllo medico
domiciliari è il D.L. 463/1983, convertito con modificazioni in L. 638/1983; detta norma, in particolare
all’articolo 5, comma 14, prevede che:
“il dipendente il quale risulti essere assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade
dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l’intero periodo sino a dieci giorni e nella misura
della metà per l’ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente
visita d controllo”.
Va notato che in proposito la Corte Costituzionale, con sentenza n. 78/1988, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del comma sopra citato nella parte in cui non prevedeva una seconda
visita medica di controllo prima della decadenza dal diritto a qualsiasi trattamento economico di
malattia nella misura della metà per l’ulteriore periodo successivo ai 10 giorni.
La gestione delle controversie di lavoro
48 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il medico di controllo domiciliare che riscontra l'assenza deve rilasciare, possibilmente a persona
presente presso il domicilio indicato dal dipendente, un invito in busta chiusa al dipendente stesso a
presentarsi il giorno successivo non festivo per la successiva visita medica di controllo ambulatoriale.
Il medico comunica l’assenza del dipendente dal domicilio per la visita di controllo all’Inps, che ne fa
pervenire la comunicazione al datore di lavoro (come previsto nel D.M. 15 luglio 1986).
L'eventuale assenza alla visita ambulatoriale può dar luogo, dunque, all'applicazione delle sanzioni
citate previste dall’articolo 5, D.L. 463/1983; se il dipendente non si presenta alla visita ambulatoriale,
l’Inps ne dà comunicazione al datore di lavoro e invita il lavoratore a fornire le proprie giustificazioni.
L’assenza ingiustificata alla visita ambulatoriale costituisce motivo di perdita del trattamento di
malattia, indipendentemente dall’esistenza di uno stato accertato di malattia.
Sotto altro profilo, come dianzi accennato, l’assenza alla visita di controllo medico domiciliare
può costituire condotta ritenuta dal datore di lavoro di rilievo disciplinare e, in base alle
circostanze e valutazioni del caso, comportare l’avvio di procedura disciplinare e la
comminazione di sanzione, finanche di licenziamento.
Con riguardo a quanto sopra va sottolineato, altresì, che le visite mediche domiciliari possono essere
disposte d’ufficio dall’Inps oppure richieste dal datore di lavoro.
Va poi tenuto presente che, nell’ambito della riforma c.d. del Jobs Act, l’articolo 25, D.Lgs. 151/2015,
ha aggiunto, rispetto al previgente testo dettato dell'articolo 5, comma 13, D.L. 463/1983 dianzi
menzionato, il seguente periodo:
“Con il medesimo decreto sono stabilite le esenzioni dalla reperibilità per i lavoratori subordinati
dipendenti dai datori di lavoro privati”.
Il Legislatore del Jobs Act ha quindi inteso introdurre specifiche previsioni, finalizzate a stabilire le
esenzioni dalla reperibilità per i dipendenti dai datori di lavoro privati.
Successivamente, con il D.I. 11 gennaio 2016 (“Integrazioni e modificazione al decreto 15 luglio 1986,
concernente l’espletamento delle visite mediche di controllo dei lavoratori da parte dell’Istituto
nazionale della previdenza sociale”) sono state individuate le circostanze causali che danno diritto a
dette esenzioni.
Ai sensi delle novelle sopra citate, sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i
lavoratori subordinati la cui assenza sia connessa con patologie gravi che richiedono terapie
salvavita, comprovate da idonea documentazione della struttura sanitaria, o i lavoratori
subordinati la cui assenza sia connessa con stati patologici sottesi o connessi a situazioni di
invalidità riconosciuta, in misura pari o superiore al 67%.
La gestione delle controversie di lavoro
49 Il giurista del lavoro n. 12/2017
La norma fornisce, come spesso accade, solo la previsione astratta delle situazioni di esonero, senza
dettagliare le concrete fattispecie, che potrebbero rendere necessaria un’attività interpretativa degli
operatori dell’Istituto di previdenza, del mondo imprenditoriale e del diritto.
L’Inps ha evidenziato in proposito, con apposita circolare n. 95/2016, tra l’altro come l’Istituto di
previdenza stesso abbia il potere-dovere di accertare fatti e situazioni che comportano il verificarsi o
meno del rischio assicurativo, presupposto della prestazione assistenziale.
Conseguentemente, pur venendo meno, nelle fattispecie di esenzione oggetto della norma, l’onere
della reperibilità alla visita medica di controllo, posto a carico del lavoratore nell’ambito delle fasce
orarie stabilite dalla legge, rimane confermata la possibilità per l’Inps di effettuare comunque
controlli, sulla correttezza formale e sostanziale della certificazione e sulla congruità prognostica ivi
espressa.
La medesima circolare sottolinea altresì la qualità di pubblici ufficiali dei medici del Ssn e ad esso
convenzionati, i quali effettuano i controlli a domicilio e sono tenuti, in quanto tali, ad attestare la
veridicità dei fatti compiuti e avvenuti in propria presenza nonché delle dichiarazioni ricevute.
La circolare Inps n. 95/2016 prevede inoltre che, ferma restando l’impossibilità per i datori di lavoro di
richiedere, nelle ipotesi previste tra le esenzioni, visite mediche di controllo domiciliare, resta ferma
d’altro canto la possibilità per gli stessi di segnalare, mediante la posta Pec istituzionale, alla sede
Inps territorialmente competente, possibili eventi riferiti a fattispecie per le quali i dipendenti
risultino esentati dalla reperibilità, per i quali ravvisino la necessità di effettuare una verifica.
È in tal caso facoltà dell’Istituto di previdenza valutare l’opportunità o meno di esercitare l’azione di
controllo, dandone peraltro notizia al datore di lavoro che lo abbia richiesto.
Del resto l’Inps ha pubblicato, in seguito alle novelle normative di cui si è detto, delle linee guida per
l’attuazione del D.M. 11 gennaio 2016, aventi lo scopo di specificare e chiarire i concetti di natura
“salvavita” delle terapie, di gravità delle patologie e di “invalidità riconosciuta”, con annessi elenchi
esemplificativi.
Alle novelle di cui si è detto faranno seguito, ad ogni modo, presumibilmente nuove querelle
interpretative.
V’è da dire, d’altronde, che, in materia, molte problematiche tra le variegate che si verificano
concretamente in occasione delle visite a domicilio sono state affrontate dalla giurisprudenza nel
merito e anche della Corte di Cassazione, come si vedrà nel prosieguo.
La gestione delle controversie di lavoro
50 Il giurista del lavoro n. 12/2017
La casistica e le problematiche ricorrenti
È bene rammentare che, per i principi dianzi esposti, la dichiarazione del medico incaricato circa
l’impossibilità di eseguire il controllo a domicilio fa fede fino a prova contraria.
In secondo luogo sembra opportuno ricordare che, nel caso in cui il dipendente, assente dal domicilio
eletto all’arrivo del medico, vi ritorni prima che il medico se ne sia allontanato, la visita può essere
effettuata. Il medico deve tuttavia accertare e annotare nel referto se il dipendente si trovava presso
una pertinenza della propria abitazione, nel qual caso l’iniziale irreperibilità non è qualificabile come
assenza, come specificato dall’Inps stesso. Diversamente, nel caso in cui il dipendente si trovasse in
luogo esterno al domicilio eletto all’arrivo del medico, l’irreperibilità sarebbe qualificabile come
assenza.
Sotto un diverso profilo, nel quadro del mercato del lavoro attuale, sembra particolarmente pertinente
evidenziare anche le procedure inerenti ai controlli per le ipotesi di malattia dei dipendenti che si
trovino per lavoro all’estero.
Ad oggi, nel caso di malattia insorta in un Paese della comunità europea, per i regolamenti vigenti è
prevista l’applicazione della legislazione del Paese dove risiede l’assicurato. Il dipendente deve,
quindi, presentare comunque il certificato di malattia all’Inps e al datore di lavoro.
Alternativamente, il dipendente potrebbe rivolgersi all’autorità locale competente, che procederebbe
all’accertamento medico dell’incapacità al lavoro e alla compilazione del certificato, da trasmettere
poi tempestivamente all’istituzione competente.
Nel caso di malattia insorta in Paesi che non abbiano stipulato con l’Italia convenzioni o accordi che
regolano la materia ed extracomunitari, la rappresentanza diplomatica o consolare italiana all’estero
dovrebbe rilasciare un’attestazione che dia validità del documento, come certificato secondo le
disposizioni locali.
Del resto, casi di assenza ingiustificata alle visite di controllo che i prestatori di lavoro dipendente si
sono trovati frequentemente ad affrontare in seno a procedimenti aventi all’autorità giudiziaria del
giudice del lavoro, nei confronti dell’Inps o del datore di lavoro, hanno avuto ad oggetto le seguenti
circostanze.
L’ipotesi di ripetute assenze del dipendente in occasione di più visite di controllo è stata
considerata condotta gravemente lesiva del vincolo fiduciario del rapporto lavorativo, tale da
giustificare il licenziamento per giusta causa.
I casi di mancanza del nominativo del dipendente tra le indicazioni del citofono dell’abitazione o
condominiale, di mancato funzionamento del citofono o del campanello, così come le ipotesi in cui il
La gestione delle controversie di lavoro
51 Il giurista del lavoro n. 12/2017
dipendente ha addotto di non avere udito per motivi vari il campanello, o di non essersi potuto recare
ad aprire la porta di casa, ad esempio in quanto costretto a letto, sono state ricondotte usualmente a
ipotesi sanzionabili come assenza ingiustificata.
Parimenti, è stato ritenuta foriera di assenza ingiustificata dal domicilio verificato la mancata o
incompleta comunicazione della variazione, anche temporanea, di domicilio (variazione, come detto,
di per sé legittima, purché previamente comunicata dal dipendente che si trovi in stato di malattia
certificata).
Con riferimento alle visite mediche, in linea generale il dipendente dovrebbe recarvisi in orari diversi
rispetto alle fasce di reperibilità. Non si ritiene giustifichino l’assenza alla visita a domicilio, infatti, le
incombenze effettuabili in orari di versi rispetto alle fasce di reperibilità.
Si è ritenuto possano costituire eccezione al criterio generale di cui sopra la necessità di recarsi al
pronto soccorso (che dovrà essere documentata dal dipendente, tendenzialmente mediante referto del
presidio ospedaliero), l’effettuazione di iniezione, così come gli acquisti di farmaci in farmacia non
differibili, le visite dal medico curante laddove gli orari di ricevimento siano inconciliabili con le fasce
di reperibilità e/o utili per constatare la guarigione e la possibilità di ripresa dell’attività lavorativa.
Così sono state ritenute giustificate le assenze del dipendente dal domicilio anche per recarsi in visita
a parenti ricoverati in ospedale, purché gli orari di visita della struttura ospedaliera si dimostrassero
incompatibili con il rispetto delle fasce di reperibilità.
Anche lo svolgimento di attività di volontariato, purché comprovatamente non realizzabile in orari
compatibili con il rispetto delle fasce di reperibilità, è stata considerata in alcuni casi motivo
giustificante l’assenza del dipendente dal domicilio in occasione della visita di controllo.
La tematica dell’assenza dal domicilio per motivazioni e attività non strettamente inerenti alle cure
mediche, si presenta spesso nelle ipotesi di malattie psicofisiche, oltre che fisicamente non
totalmente invalidanti.
Un esempio significativo in tal senso si può considerare una fattispecie in cui una lavoratrice
dipendente, affetta da sindrome ansioso-depressiva, era assente dal domicilio in occasione della visita
di controllo, perché si era recata presso una vicina spiaggia. La Corte di Cassazione, con riguardo al
caso concreto, ha statuito che tale assenza, anche per la brevità della stessa, non aveva influito in
particolare né sullo stato di salute della prestatrice di lavoro né sull’assetto funzionale del rapporto
lavorativo1.
1 Cass. n. 21621/2010.
La gestione delle controversie di lavoro
52 Il giurista del lavoro n. 12/2017
La giurisprudenza di legittimità è addivenuta a statuire alcuni principi generali e fondamentali in
materia; di seguito si richiamano alcune pronunce recenti.
Gli orientamenti recenti della giurisprudenza
Con sentenza n. 64/2017, la Corte di Cassazione ha ribadito che:
“La permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche
domiciliari di controllo costituisce, non già un onere, bensì un obbligo per il lavoratore ammalato, in
quanto l'assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla sussistenza della malattia,
integra un inadempimento, sia nei confronti dell'istituto previdenziale, sia nei confronti del datore di
lavoro”.
Conseguentemente, con riguardo al caso concreto, la Corte ha altresì statuito che:
“il fatto che in un momento successivo alla visita non eseguita per assenza della lavoratrice fosse
stata confermata, da parte del medico dell'Inps, la malattia diagnosticata con la relativa prognosi non
rilevava ai fini dell'appurato inadempimento dell'obbligo di comunicazione preventiva dell'assenza
dal domicilio”.
La Corte di Cassazione ha inoltre sempre recentemente evidenziato che:
“In tema di visite mediche di controllo dei lavoratori subordinati assenti per malattia, l'ingiustificata
assenza alla visita può essere integrata da qualsiasi condotta che sia valsa ad impedire l'esecuzione
della verifica sanitaria per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e
sociale, restando in capo al lavoratore sia l'onere di provare il rispetto del dovere di diligenza
riguardo alla necessità dell'allontanamento sia l'onere di comunicazione tempestiva dello stesso agli
organi ispettivi”. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito con cui era
stata ritenuta ingiustificata l'assenza del lavoratore che aveva accompagnato la sorella per
presenziare al ricovero in ospedale del figlio di lei a seguito di un grave incidente stradale, non
avendo il dipendente nel caso concreto provato né l'indifferibilità dello spostamento né
l'impossibilità di avvisare il datore e l'Inps2).
La Suprema Corte, con tale sentenza, ha tra l’altro ribadito i principi per cui:
“l'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale del D.L. 12 settembre
1983, n. 463, art. 5, comma 14, convertito, con modifiche, nella L. 11 novembre 1983, n. 638, prevede
la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di
2 Cass. n. 3294/2016.
La gestione delle controversie di lavoro
53 Il giurista del lavoro n. 12/2017
malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione,
potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore - pur presente in casa - che sia
valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non
apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe
al lavoratore (cfr. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n.
4216, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000). In particolare, il potere dell'ente previdenziale-debitore di
verificare il fatto generatore del debito (prima di pagare) verrebbe vanificato dalla contrapposta
facoltà del preteso creditore di sottrarsi alla verifica se non per serie e comprovate ragioni, quale
l'indifferibile necessità di recarsi presso altro luogo (usualmente la giurisprudenza ha valutato
l'ipotesi di allontanamento dal domicilio per esigenza improcrastinabile di recarsi presso
l'ambulatorio del medico curante”;
nonché del principio secondo cui:
“L'obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo comporta che l'allontanamento
dall'abitazione indicata all'ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia sia
giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo. Qualora tale
comunicazione sia stata omessa o sia tardiva, non viene automaticamente meno il diritto, ma
l'omissione o il ritardo devono a loro volta essere giustificati”.
Avendo riguardo infine a una fattispecie concreta di licenziamento del dipendente, conseguito a
plurime assenze ingiustificate dello stesso alle visite a domicilio, la Corte di Cassazione ha
sottolineato quanto segue:
“Nel fissare i limiti dell'obbligo di reperibilità del lavoratore alle visite di controllo questa Corte ha
infatti precisato, con orientamento risalente e consolidato, che, mediante la previsione di cui alla L. n.
638 del 1983, art. 5, si è imposto al lavoratore un comportamento (e cioè la reperibilità nel domicilio
durante prestabilite ore della giornata) che è, ad un tempo, un onere all'interno del rapporto
assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto di lavoro, ma il cui
contenuto resta, in ogni caso, la "reperibilità" in sé; con la conseguenza che l'irrogazione della
sanzione può essere evitata soltanto con la prova, il cui onere grava sul lavoratore, di un ragionevole
impedimento all'osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella della effettività della
malattia, la quale resta irrilevante rispetto allo scopo, che la legge ha inteso concretamente
assicurare, dell'assolvimento tempestivo ed efficace dei controlli della stessa da parte delle strutture
La gestione delle controversie di lavoro
54 Il giurista del lavoro n. 12/2017
pubbliche competenti, siano esse attivate dall'ente di previdenza ovvero dal datore di lavoro ai sensi
della legge 20 maggio 1970 n. 300”3.
Brevi considerazioni conclusive
Le ipotesi di esenzione e giustificabili e i casi, viceversa, di ingiustificata assenza dal domicilio in
occasione delle visite di controllo costituiscono materia senza dubbio sempre attuale e di mai sopito
dibattito, come visto anche giurisprudenziale.
Concludendo, non si può non sottolineare come convivano nella realtà dei fatti sia uno spettro di per
sé assai variegato di casi di giustificata e/o necessitata assenza dal domicilio del dipendente malato
negli orari coincidenti con le note fasce di reperibilità, sia numerosi casi concreti di utilizzo
strumentale dell’assenza dal lavoro per malattia, con conseguente mala fede del dipendente nella
gestione delle tematiche concernenti la reperibilità e le visite mediche domiciliari.
I principi sottesi dalle previsioni normative e applicative in materia e dalle pronunce giurisprudenziali
esaminate volgono manifestamente a bilanciare i valori in gioco, della tutela della salute del
dipendente nonché della facoltà di controllo dell’effettività dell’impossibilità alla prestazione
lavorativa.
3 Cass., n. 24681/2016.
L’osservatorio giurisprudenziale
55 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Il giurista del lavoro n. 12/2017
Rassegna della Corte di Cassazione di Evangelista Basile - avvocato - socio Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati
CONTRATTO DI LAVORO
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 5 ottobre 2017, n. 23263
Infortunio – indennizzo Inail – ulteriore risarcimento da parte della società – sussiste
Massima
Si deve escludere che le prestazioni eventualmente erogate dall’Inail esauriscano di per sé e a priori il
ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato o ammalato.
Commento
Con il ricorso de quo, la Società ricorrente chiedeva la cassazione della sentenza di Appello, la quale,
in riforma della pronuncia di primo grado e in parziale accoglimento delle domande proposte dal
lavoratore ricorrente, aveva condannato la Società al pagamento di una somma a titolo di
risarcimento del danno biologico e morale risentiti all’esito dell’infortunio occorso sul lavoro. La Corte
territoriale riconosceva, infatti, che l’evento infortunistico non era ascrivibile a un’improvvida azione
extra ordinem del lavoratore, bensì a esclusiva responsabilità datoriale riconducibile alla mancanza di
un presidio di sicurezza del macchinario, cui era addetto il dipendente e all’omissione di una doverosa
attività di vigilanza sull’organizzazione del lavoro. La Cassazione rigetta il ricorso proposto dalla
Società. In primo luogo, i giudici hanno riconosciuto che, in continuità con la costante giurisprudenza
di legittimità, ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore ex articolo 2087 cod. civ. – la
quale, per completezza, si chiarisce che non configura alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva – è
onere del lavoratore provare l’esistenza del danno alla salute, la nocività dell’ambiente di lavoro e il
nesso causale, mentre è onere del datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele
necessarie a impedire il verificarsi del danno e, tra queste, di aver vigilato circa l’effettivo uso degli
strumenti di cautela. Conseguentemente, la Suprema Corte ricorda che il datore non è esonerato dalla
responsabilità, anche qualora vi fosse un eventuale concorso di colpa del lavoratore, salvo che questa
non sia imprevedibile. Tanto premesso, la Corte si sofferma sulla questione liquidazione del
L’osservatorio giurisprudenziale
56 Il giurista del lavoro n. 12/2017
risarcimento: a parere della Società ricorrente, il giudice dell’appello ha erroneamente liquidato il
danno non patrimoniale, già liquidato dall’Inail, integrando così un’ipotesi di duplicazione del danno,
vietata nel nostro ordinamento. L’indennizzo già riconosciuto dall’Inail deve considerarsi comprensivo
anche del danno biologico e, in ipotesi di danno differenziale, la determinazione del risarcimento
deve essere determinata sottraendo dall’importo del danno complessivo quello delle prestazioni
liquidate dall’Inail. Sul punto, la Cassazione anzitutto si sofferma sul disposto dell’articolo 10, comma
1, D.P.R. 1124/1965, in virtù del quale il datore di lavoro non è chiamato a rispondere civilmente dei
danni coperti dall’assicurazione obbligatoria; di contro, dunque, l’esonero del datore di lavoro sussiste
solo nei limiti in cui il danno sia indennizzabile. In altre parole, ove, per ragioni soggettive o
oggettive, non opera l’assicurazione obbligatoria, non è configurabile alcun esonero del datore di
lavoro. Alla luce di tale chiarimento, la Corte opera un distinguo temporale, poiché nel regime
previgente il danno biologico, non essendo coperto dall’Inail, costituiva danno complementare
sottratto alla regola dell’esonero e il datore di lavoro poteva sempre essere chiamato a rispondere con
azione diretta del lavoratore danneggiato, secondo i comuni presupposti della responsabilità civile.
Successivamente, con l’articolo 13, D.Lgs. 38/2000, la tutela Inail è stata estesa anche al danno
biologico, in quanto si è ritenuto che le medesime ragioni che hanno portato all’introduzione
dell’assicurazione sociale obbligatoria contro il rischio di infortuni e malattie professionali, valgono
anche per il rischio della menomazione dell’integrità psico-fisica, alla quale si deve accordare
un’effettiva, tempestiva e automatica riparazione del danno non apprestata dalla disciplina comune.
Conseguentemente, la Corte opera la distinzione in virtù del momento storico in cui è avvenuto
l’infortunio, pervenendo tuttavia a similare conclusione. Difatti, se l’evento è occorso in data anteriore
all’entrata in vigore della citata norma, il datore risponde dell’intero danno non patrimoniale, non
potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita Inail, poiché corrispondenti al solo
danno patrimoniale per la diminuita capacità lavorativa. Se l’evento è occorso in epoca successiva
all’entrata in vigore del citato D.Lgs., l’esonero da responsabilità per il datore di lavoro non riguarda
comunque il danno alla salute o biologico e il danno morale di cui all’articolo 2059 cod. civ. e,
dunque, l’integrale risarcimento è riconosciuto solo se sussistono i presupposti della relativa
responsabilità del datore di lavoro. In definitiva, anche alla luce delle pronunce della Corte
Costituzionale (sentenze n. 356/1991 e n. 485/1991) e alla ratio dell’articolo 13, D.Lgs. 38/2000, si
deve escludere che le prestazioni eventualmente erogate dall’Inail esauriscono di per sé e a priori il
ristoro del danno subito dal lavoratore.
L’osservatorio giurisprudenziale
57 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 9166/2017
Cassazione, n. 4025/2016
Cassazione, n. 777/2015
Cassazione, n. 18469/2012
Cassazione, n. 10834/2010
Cassazione, n. 8386/2006
Cassazione, n. 16250/2003
Corte Costituzionale, n. 485/1991
Corte Costituzionale, n. 356/1991
Contrari
Cassazione civile, Sezione Lavoro, ordinanza 3 ottobre 2017, n. 23056
Natura subordinata – discontinuità delle prestazioni – qualificazione del rapporto di lavoro – contratto
Massima
L’elemento della continuità non è indispensabile per caratterizzare la natura subordinata del rapporto di
lavoro. Le parti possono definire una modalità, anche con comportamenti di fatto concludenti, di
svolgimento della prestazione che si articoli secondo le richieste o le disponibilità di ciascuna di esse. Le
prestazioni a chiamata, quindi, non escludono l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato.
Commento
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di una cameriera, cassando
con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Roma. Detta Corte aveva respinto la domanda della
lavoratrice e aveva ritenuto non provata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la
stessa e il suo datore di lavoro. Secondo la Corte d’Appello le prove testimoniali non sarebbero state
sufficienti ad affermare la continuità del rapporto e, dunque, a inficiare la tesi difensiva della società,
secondo cui il rapporto sarebbe stato occasionale e le prestazioni sarebbero state svolte solo nei
giorni in cui la signora veniva chiamata presso l’albergo. Pertanto, sarebbe mancata la prova di una
disponibilità continua. L’argomentazione della Corte di Cassazione si è però rivelata in evidente
contrasto con tali conclusioni. La Suprema Corte ha ribadito che “l’elemento della continuità non è
indispensabile per caratterizzare la natura subordinata del rapporto di lavoro, potendo le parti concordare
una modalità di svolgimento della prestazione che si articoli secondo le richieste o le disponibilità di
ciascuna di esse, come previsto nella fattispecie del contratto di lavoro c.d. a chiamata o intermittente, o
anche di part time verticale”. La Corte territoriale non aveva, infatti, tenuto conto degli “elementi fattuali
L’osservatorio giurisprudenziale
58 Il giurista del lavoro n. 12/2017
i quali, ove meglio esaminati, avrebbero potuto consentire una più compiuta valutazione della fattispecie al
fine di accertare la subordinazione del rapporto di lavoro anche in assenza di prova di una continuità
giornaliera relativa a tutto il periodo di contestazione, in presenza di messa in disponibilità da parte della
lavoratrice delle proprie energie lavorative.” Sono le parti che possono manifestare la loro volontà,
anche tramite comportamenti concludenti, di porre in essere un rapporto con tempi alternati o
diversamente articolati rispetto alla prestazione giornaliera e, dunque, anche “con messa in
disponibilità del lavoratore a richiesta del datore di lavoro”. La tesi della Corte si basa sull’assunto per
cui l’articolo 2094 cod. civ. “non postula necessariamente una continuità giornaliera della prestazione
lavorativa”. La Cassazione, pertanto, ritiene che la decisione di merito della Corte d’Appello aveva
erroneamente escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro sulla sola “premessa dell’assenza di prova di
una continuità giornaliera e di una contestuale messa a disposizione delle energie lavorative”. Cassa con
rinvio alla Corte territoriale in diversa composizione.
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 25 settembre 2017, n. 22288
Demansionamento – danno esistenziale – dignità personale e prestigio professionale –
presunzioni – sussiste
Massima
In tema di demansionamento, il danno non patrimoniale esistenziale deve essere risarcito quando sia
conseguenza di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente
garantiti. Tale danno può essere provato anche per presunzioni semplici: è pertanto legittimo il
riconoscimento al lavoratore, sulla base di indici presuntivi della presenza del danno esistenziale, quali la
lesione alla dignità personale e al prestigio professionale del lavoratore.
Commento
La questione di cui è stata investita la Corte di Cassazione ha ad oggetto la valutazione della
legittimità della liquidazione del danno non patrimoniale sulla base di indici presuntivi. Nel caso di
specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto sussistente il danno non patrimoniale, che comprende anche
il danno esistenziale, quale conseguenza di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di
diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, provato a mezzo di presunzioni semplici. La Corte di
Cassazione ha confermato la sentenza della Corte territoriale, la quale – accertata l’esistenza del
demansionamento attraverso il procedimento trifasico (accertamento delle attività svolte;
individuazione di quelle previste dal contratto collettivo; raffronto tra le prime e le seconde) – ha
L’osservatorio giurisprudenziale
59 Il giurista del lavoro n. 12/2017
accolto il ricorso del lavoratore in punto di risarcimento del danno. Secondo la Corte, infatti, se è vero
che non ogni demansionamento comporta un danno esistenziale, la lesione non patrimoniale si
configura sempre laddove la responsabilità contrattuale del datore investa diritti costituzionalmente
garantiti. Erra, dunque, il datore di lavoro nel sostenere che il giudice non avrebbe dovuto disporre il
risarcimento, poiché non era stata rilevata alcuna alterazione delle condizioni di vita o degli assetti
relazionali del lavoratore. Il giudice può, dunque, fondare in via esclusiva il suo convincimento sulla
base degli indici presuntivi, quali, nel caso di specie, la lesione alla dignità professionale e al prestigio
professionale. La Corte di Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso del datore di lavoro e ne ha
statuito la condanna alle spese.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 13877/2007
Cassazione, SS.UU. n. 6572/2006
Contrari
DIRITTI SINDACALI DEL LAVORATORE
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 ottobre 2017, n. 23178
Diritti sindacali – potere organizzativo – sospensione del rapporto – prestazioni lavorative
accessorie – legittimità
Massima
Non può essere sospeso dal lavoro chi non svolge le proprie prestazioni lavorative, anche se accessorie,
durante un permesso sindacale. Non è contrario a buona fede il comportamento del lavoratore che ometta di
prendere visione di circolari organizzative nei periodi in cui risulti assente per fruizione di permessi sindacali.
Commento
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un macchinista delle
ferrovie, cassando con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Roma. La Corte di merito aveva
dichiarato la legittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione pari a 2 giorni, irrogata a
uno dei dipendenti della società, poiché aveva ritenuto contrario ai principi di correttezza e buona
fede il rifiuto del lavoratore di prendere visione delle circolari organizzative aziendali in un momento
di sua assenza per permesso sindacale. La Cassazione ha, contrariamente, accolto le allegazioni del
L’osservatorio giurisprudenziale
60 Il giurista del lavoro n. 12/2017
lavoratore, deducendo che “tale imposizione si sarebbe tradotta in violazione delle norme dello statuto
dei lavoratori che definiscono la libertà dell’esercizio dell’attività sindacale che non consente alla parte
datoriale, di pretendere che il lavoratore impegni il tempo di cui usufruisce in relazione ad attività
sindacale, per l’espletamento di attività di lavoro”. L’esercizio dell’attività sindacale costituisce “oggetto
di un diritto potestativo del dirigente sindacale dal cui esercizio discende una situazione di soggezione del
datore di lavoro, non essendo previsto il suo consenso per produrne l’effetto giuridico di esonero della
prestazione lavorativa”. Alla parte datoriale resta il solo diritto di accertarsi dell’effettiva
partecipazione dei fruitori di tali permessi alle riunioni sindacali, non potendo però limitare le attività
sindacali e impedire ai dirigenti di svolgere, in piena libertà e autonomia, i propri compiti. “Anche nel
caso in cui sia fissato un monte ore per l’esercizio di tale diritto sindacale, è stato affermato che il
lavoratore può far uso dei permessi per un periodo prolungato e interrotto, senza neppure essere tenuto a
far sì che la propria, benché limitata, prestazione lavorativa, conservi una sua utilità nell’ambito del
rapporto contrattuale”. È dato incontroverso che l’attività di lettura circolari attenga alla regolare
esecuzione del servizio, ma tale obbligazione è stata richiesta dalla società al di fuori dell’orario di
lavoro e nel corso del permesso sindacale. Il dovere di diligenza del prestatore di lavoro trova il
proprio limite nella prestazione contrattualmente dovuta e al lavoratore non può essere richiesto un
grado di diligenza tale da eccedere i limiti ordinari e connaturati alla prestazione dovuta. In caso
contrario, afferma la Corte, ci si porrebbe in contrasto con l’articolo 1, comma 2, L. 66/2003, secondo
cui è orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro
e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, e con l’articolo 18, comma 1, 36 e 37, L. 81/2008,
che impone al datore di lavoro l’obbligo di adempiere ai doveri di informazione, formazione e
addestramento del personale, anche attinenti alle normative di sicurezza e alle disposizioni aziendali
in materia. Accogliendo il ricorso, la Cassazione ha pertanto affermato che la società datrice di lavoro
“sia venuta meno all’esercizio del potere organizzativo ad essa ascritto, non avendo consentito al proprio
dipendente l’espletamento delle attività di aggiornamento nella lettura delle circolari, nel contesto
dell’orario normale di lavoro, né dell’orario straordinario”.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 1978/2016
Cassazione, n. 11759/2003
Cassazione n. 454/2003
Contrari
L’osservatorio giurisprudenziale
61 Il giurista del lavoro n. 12/2017
RISOLUZIONE DEL CONTRATTO
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 9 ottobre 2017, n. 23503
Licenziamento dirigente – lettura del provvedimento – efficacia della comunicazione – rifiuto
ricevere il provvedimento ingiustificato – presunzione di conoscenza
Massima
Nell’ambito del diritto sostanziale, il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere l’atto
stesso non esclude che la comunicazione debba intendersi regolarmente avvenuta (nel caso di specie, si
trattava della comunicazione di licenziamento a un dirigente).
Commento
Il caso riguarda un dirigente licenziato per soppressione del posto, che, nei primi gradi di giudizio,
davanti alle Corti territoriali, aveva visto annullare il recesso e condannare il datore di lavoro al
risarcimento del danno. La questione più curiosa e interessante che la Corte di Cassazione si è trovata
a valutare è l’efficacia della comunicazione di licenziamento, che il datore di lavoro aveva intimato al
destinatario leggendogli il provvedimento (che il lavoratore si era rifiutato di ricevere). In altri termini,
la questione è se si possa intendere conosciuta – anche eventualmente tramite la presunzione di cui
all’articolo 1335 cod. civ. – la comunicazione consegnata al lavoratore e da questi rifiutata. Il
principio che la Corte di Cassazione ha inteso ribadire è che, anche nell’àmbito del diritto sostanziale,
il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere l’atto stesso non esclude che la
comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta. Infatti, la Suprema Corte ha precisato che nel
rapporto di lavoro è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere
comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al
quale gli è sottoposto, così come peraltro non è escluso un obbligo di ascolto, e quindi anche di
ricevere comunicazioni da parte dei superiori gerarchici del lavoratore. Nel caso di specie, i giudici
territoriali – con valutazione non più sindacabile in sede di legittimità – avevano accertato le
circostanze di luogo e di tempo in cui si era realizzato il rifiuto del dipendente e avevano stabilito che
il lavoratore aveva l’obbligo di ricevere la comunicazione di recesso. Peraltro, nel caso preso in esame,
il lavoratore rivestiva all’epoca del recesso la qualifica di dirigente e, dunque, stante la natura
fiduciaria del rapporto di lavoro, connotato da particolari obblighi di collaborazione, la valutazione
delle Corti di merito è apparsa alla cor4te di legittimità quanto mai corretta. Se questa parte della
pronuncia è convincente e ben motivata, appare a chi scrive poco persuasiva la seconda parte della
L’osservatorio giurisprudenziale
62 Il giurista del lavoro n. 12/2017
motivazione, in cui la Suprema Corte – pur ribadendo che il licenziamento del dirigente non richiede
la ricorrenza di un giustificato motivo oggettivo tipologicamente conformato alla fattispecie prevista
dall’articolo 3, L. 604/1966, con esclusione per esempio l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare il
repêchage – ha nel caso di specie confermato la illegittimità del recesso, in quanto non era stata
dimostrata “l’impossibilità di assegnare al dirigente altro incarico dirigenziale ovvero di impiegare il
dirigente in posizioni dirigenziali per le quali costui avesse maturato specifiche competenze”. A dire il vero,
a parare di chi scrive, questo onere imposto al datore di lavoro sembra in tutto e per tutto identico a
quell’obbligo di repêchage, che tuttavia la Corte di Cassazione aveva nella premessa della stessa
motivazione escluso (per il caso del licenziamento del dirigente).
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 12571/1999
Cassazione, n. 1671/1981
Contrari
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 9 ottobre 2017, n. 21667
Licenziamento disciplinare – simulazione di malattia – insussistenza
Massima
Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a
giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e
degli obblighi specifici contrattuali di diligenza e fedeltà, ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo
oneroso, sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua
fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni
svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
Commento
Si inserisce nel noto filone giurisprudenziale sulla simulazione della malattia la sentenza in
commento, concernente un dipendente con mansione di autotrenista, il quale, durante un periodo di
assenza dal lavoro per malattia, aveva svolto attività lavorativa ritenuta dal datore di lavoro
incompatibile con l’infermità riportata a seguito di un infortunio sul lavoro. Le pronunce delle Corti di
merito erano state alterne, perché il primo giudice aveva dichiarato legittimo il licenziamento
disciplinare, mentre la Corte d’Appello aveva accolto l’impugnazione del lavoratore. La Corte di
Cassazione, infine, ha confermato la pronuncia del collegio di secondo grado. La premessa di partenza
L’osservatorio giurisprudenziale
63 Il giurista del lavoro n. 12/2017
di tutta l’argomentazione giuridica è il principio consolidato, secondo cui lo svolgimento di altra
attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del
datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi
specifici contrattuali di diligenza e fedeltà, ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso,
sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua
fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle
mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del
lavoratore. Inoltre, sempre secondo la Suprema Corte, l’espletamento di attività extra-lavorativa
durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale
comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche
quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente, con una valutazione di
idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il
comportamento viene realizzato. Tuttavia, nel caso di specie, la Corte territoriale – con valutazione
fattuale insindacabile in sede di legittimità – ha escluso la necessaria rilevanza disciplinare dello
svolgimento di attività lavorativa durante la malattia da parte del dipendente in infortunio, ritenendo
che la stessa non fosse indicativa di simulazione della malattia diagnosticata dai sanitari Inail e non
integrasse nemmeno la violazione di buona fede e correttezza e degli altri obblighi contrattuali di
diligenza e fedeltà, posto che tali condotte non avrebbero ritardato la guarigione.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 24812/2016
Cassazione, n. 17625/2014
Contrari
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 5 ottobre 2017, n. 23259
Licenziamento in tronco – grave insubordinazione – vie di fatto – legittimo
Massima
È legittimo il licenziamento per giusta causa in conseguenza alla contestazione disciplinare per grave
insubordinazione seguita dalle vie di fatto, anche se il Ccnl non prevede espressamente l’illecito commesso
dal lavoratore espulso, posto che le previsioni del Ccnl non sono vincolanti, alla luce oltretutto di una
nozione elastica di giusta causa, come confermata dallo stesso Ccnl applicato al caso de quo.
L’osservatorio giurisprudenziale
64 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Commento
Il lavoratore ricorrente era dipendente di una Società appaltatrice di un servizio di nettezza urbana.
Egli veniva licenziato per giusta causa a seguito della contestazione disciplinare con la quale gli era
stato addebitato di essere stato trovato dal Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri con
l’automezzo di servizio, all’interno dei locali di un’altra Società, con il cassone dell’autocarro riempito
di materiale di scarto di tale ditta. Sia in primo sia in secondo grado, i giudici dichiaravano di
particolare gravità la condotta addebitata al lavoratore: risultava, infatti, che egli avesse prelevato in
orario di lavoro, e con automezzo aziendale, rifiuti speciali non ferrosi provenienti da azienda privata,
caricandoli sull’automezzo della società datrice di lavoro, appaltatrice di un servizio di interesse
pubblico. La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul ricorso per cassazione presentato dal
lavoratore, ha anzitutto evidenziato come la sentenza impugnata si sia basata correttamente sia sulla
documentazione versata in atti e, segnatamente, sul verbale di sequestro dei Carabinieri, relativo al
materiale non ferroso e ai rifiuti speciali rivenuti nell’automezzo, sia sulla prova testimoniale del
carabiniere che aveva proceduto al sequestro e che, precedentemente, aveva svolto un sopralluogo
nell’area, scattando altresì fotografie dello stato dei luoghi. Tanto premesso, la Corte ha confermato la
decisione assunta dai precedenti giudici, ritenendo che fosse correttamente motivata. In primo luogo,
il giudizio di proporzionalità tra la condotta contestata e la sanzione irrogata, ovverosia la valutazione
della gravità del fatto commesso e dell’inadempimento del lavoratore, e l’adeguatezza della sanzione
comminata, è devoluto al giudice del merito; pertanto non può essere riformulato dalla Cassazione. Al
fine di esaminare la legittimità della sanzione irrogata, nel caso di specie, i giudici hanno tenuto conto
che il fatto-reato fosse avvenuto durante l’orario di lavoro, in una zona non assegnata al lavoratore,
con un mezzo aziendale. Secondariamente, il ricorrente eccepiva che la richiamata norma del Ccnl
prevedeva ipotesi di illeciti sanzionabili con il licenziamento in tronco diverse da quella a lui
contestata. Anche tale censura è stata considerata infondata dalla Corte, la quale ricorda che le
previsioni del Ccnl relative alle ipotesi di giusta causa non sono vincolanti. Oltretutto, evidenzia la
Corte, tale tesi risulta essere confermata nel caso concreto dalla stessa norma contrattualistica citata,
posto che recepisce una nozione elastica di giusta causa, disponendo che il licenziamento in tronco si
applica nel caso di “mancanze relative a doveri, anche non particolarmente richiamati nel presente
contratto, le quali siano di tale entità da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di
lavoro, come ad esempio: insubordinazione seguita da vie di fatto, furto, condanne per reati infamanti”.
L’osservatorio giurisprudenziale
65 Il giurista del lavoro n. 12/2017
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 23580/2014
Cassazione, n. 144/2008
Contrari
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 ottobre 2017, n. 23177
Condanna penale del lavoratore – estinzione e risoluzione del rapporto – licenziamento – potere
disciplinare – tempestività
Massima
La contestazione disciplinare deve essere caratterizzata da immediatezza anche nel caso di una condanna
penale a carico del lavoratore. L’azione disciplinare esercitata un anno dopo il passaggio in giudicato della
condanna penale non può essere riconosciuta come tempestiva e rende illegittimo il conseguente
licenziamento. Anche se il criterio d’immediatezza va inteso in senso relativo, spetta al datore di lavoro di
provare la tempestività dell’eventuale provvedimento disciplinare ove sussista un rilevante intervallo
temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare.
Commento
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello,
la quale aveva riformato la sentenza del primo grado e dichiarato illegittimo il licenziamento per
giusta causa intimato alla dipendente a seguito di contestazione disciplinare. La Corte d’Appello
aveva rilevato come nel caso di specie mancasse il requisito dell’immediatezza dell’anzidetta
contestazione, a differenza di quanto statuito dal giudice di primo grado, secondo il quale, invece, la
società sarebbe effettivamente venuta a conoscenza del passaggio in giudicato della condanna penale
del dipendente solo l’anno seguente, quando le sarebbe stata consegnata, a mezzo Pec, la copia del
provvedimento divenuto irrevocabile. Secondo la Corte d’Appello, però, non poteva escludersi la
possibilità che la conoscenza del documento da parte dell’azienda potesse risalire a un momento
anteriore. La Corte territoriale ha sottolineato, infatti, come la Società avesse acquisito copia della
sentenza già il mese dopo la condanna del lavoratore e che tale acquisizione, seppur priva del
carattere d’irrevocabilità, fosse idonea a rendere edotta la società della responsabilità penale del
dipendente. Dunque, contrariamente a quanto statuito dalla sentenza di primo grado, non sarebbe
stata provata la tempestività della contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro, non
essendo stato possibile acquisire certezza circa il momento in cui la sentenza fosse veramente entrata
L’osservatorio giurisprudenziale
66 Il giurista del lavoro n. 12/2017
nella disponibilità della società. La Cassazione ha di conseguenza affermato che la società datrice di
lavoro, su cui gravava l’onere della prova, non era riuscita a provare la tempestività della
contestazione disciplinare, considerando anche che nelle more del procedimento penale non vi era
stata adozione di alcun provvedimento cautelativo nei confronti della lavoratrice, la quale
conseguentemente aveva sviluppato un certo grado di affidamento circa l’irrilevanza disciplinare dei
fatti per i quali era stata condannata in sede penale. La Cassazione ha dunque respinto il ricorso della
datrice di lavoro e dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato alla dipendente per
difetto di tempestività della contestazione disciplinare.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 4724/2014
Cassazione, n. 20719/2013
Cassazione n. 7410/2010
Cassazione n. 1101/2007
Cassazione n. 2023/2006
Cassazione, n. 16754/2003
Cassazione, n. 12141/2003
Contrari
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 28 settembre 2017, n. 22720
Licenziamenti collettivi – lavoratrice madre – cessione del ramo di azienda – necessità – sussiste
Massima
Il collocamento in mobilità della lavoratrice madre è possibile solo nell’ipotesi di “cessazione dell’attività
dell’azienda” come previsto all’articolo 54, comma 3, lettera b), D.Lgs. 151/2001. Trattandosi di norma che
deroga al generale principio di divieto di licenziamento della lavoratrice madre deve intendersi di stretta
interpretazione e, come tale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica: pertanto, deve dirsi
inefficace il licenziamento adottato dal datore di lavoro a seguito di cessazione del solo ramo di azienda
ove la lavoratrice era addetta.
Commento
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un’ipotesi di licenziamento di una
dipendente, lavoratrice madre, nel corso di una procedura di licenziamento collettivo a seguito di
cessione di ramo d’azienda, nel quale la ricorrente era addetta. La Corte d’Appello accoglieva il ricorso e
condannava la Società al pagamento dell’indennità sostitutiva in luogo della reintegrazione oltre che 5
L’osservatorio giurisprudenziale
67 Il giurista del lavoro n. 12/2017
ulteriori mensilità a titolo di risarcimento del danno. Avverso la sentenza, ricorreva in Cassazione la
Società con un unico motivo di ricorso, la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 54, D.Lgs.
151/2001, e omesso esame in relazione all’effettiva cessazione dell’attività aziendale. Secondo il datore
di lavoro, infatti, l’esenzione dal divieto di licenziamento sarebbe valsa anche laddove, come nel caso di
specie, si era verificata la chiusura del solo reparto di Contact center – dotato di autonomia funzionale –
presso cui prestava l’attività la lavoratrice in gravidanza. La Corte di Cassazione, preliminarmente,
richiama la giurisprudenza costituzionale che definisce in maniera inequivoca il divieto di licenziamento
della lavoratrice madre al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge che, pertanto,
sarebbe sempre nullo e non meramente privo di efficacia provvisoria. Dunque esclude che il
licenziamento intimato in costanza di gravidanza, ma differito al compimento del primo anno del
bambino possa modificare la sussistenza del divieto. Procede la Corte, poi, ricordando il tenore testuale
dell’articolo 54, comma 4, seconda parte del citato decreto, precisando che lo stesso indichi che solo in
caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della
lavoratrice madre e, trattandosi di norma che pone un’eccezione a un principio generale (il divieto di
licenziamento della lavoratrice in gravidanza), essa non può che essere di stretta interpretazione.
Pertanto, l’aver cessato l’attività del solo ramo di azienda a cui la lavoratrice era addetta non può
integrare in favore della società il presupposto della cessazione dell’attività aziendale, che avrebbe reso
inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre. La Corte rigettava, dunque, il ricorso della
società e confermava la sentenza della Corte d’Appello.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 18810/2013
Cassazione, n. 18363/2013
Cassazione, n. 10391/2005
Contrari
Cassazione, n. 23684/2004
Cassazione civile, Sezione Lavoro, sentenza 22 settembre 2017, n. 22171
Licenziamento – giusta causa – procedimento disciplinare – proroga – condizioni
Massima
Nel caso in cui le parti sociali abbiano subordinato la legittimità del differimento del procedimento
disciplinare alla “preventiva comunicazione scritta al lavoratore interessato”, il datore di lavoro non può
manifestare la volontà dopo la scadenza del termine indicato dalla clausola del Ccnl applicabile: ne
consegue che deve essere cassata con rinvio la sentenza di merito che ha ritenuto legittima la proroga,
L’osservatorio giurisprudenziale
68 Il giurista del lavoro n. 12/2017
senza accertare, pur a fronte di una specifica contestazione reiterata in sede di gravame, se la
comunicazione fosse stata tempestiva secondo quanto previsto dal contratto collettivo.
Commento
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un’ipotesi di licenziamento per
giusta causa di un dipendente per un ammanco di denaro. La Corte d’Appello di Cagliari, in riforma
della sentenza di primo grado, riteneva legittimo il licenziamento, escludendo il difetto di
proporzionalità fra sanzione e addebito, ritenuto invece sussistente dal giudice di prime cure. In detta
sede, con appello incidentale condizionato, il lavoratore aveva eccepito l’avvenuta decadenza della
Società dall’irrogazione del licenziamento, secondo quanto stabilito all’articolo 227, Ccnl Commercio.
I giudici di merito avevano, dunque, rigettato l’eccezione, puntualmente riproposta in sede di ricorso
per Cassazione. La Suprema Corte ha invece affermato che le giustificazioni proposte dalla Società
circa la necessità di prorogare il termine previsto per l’irrogazione della sanzione non meritassero
accoglimento. Secondo la Società, infatti, la decisione di avvalersi di una proroga dei termini
contrattuali era dettata dalla necessità di compimento di ulteriori indagini, al fine di escludere che il
dipendente anche in passato si fosse reso colpevole degli stessi fatti. Secondo la Corte di Cassazione,
invece, le parti collettive hanno subordinato la legittimità del differimento “alla preventiva
comunicazione scritta al lavoratore interessato”, il che esclude che il datore di lavoro possa manifestare
tale volontà dopo la scadenza del termine fissato dal primo comma della clausola contrattuale.
Quindi, affinché la proroga possa essere validamente disposta è necessario che, prima dello spirare
del termine finale, il datore di lavoro manifesti per iscritto la volontà di avvalersi del prolungamento e
entro il medesimo termine, ove non provveda alla consegna dell’atto, avvii la procedura di
comunicazione mediante consegna al soggetto incaricato di curare il recapito. Qualora il rispetto di
detti termini venga contestato, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver ottemperato alle
prescrizioni previste al Ccnl e, quindi, di aver quantomeno avviato, nel termine di 15 giorni previsto
dal contratto, la procedura di comunicazione al lavoratore del disposto prolungamento. Pertanto, la
Corte ha cassato con rinvio, dovendo il giudice del merito, alla luce del principio esposto, accertare
che la comunicazione in questi termini possa dirsi tempestiva.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi
Cassazione, n. 5714/2015
Cassazione, n. 20566/2010
Contrari
69 Il giurista del lavoro n. 12/2017
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ISSN: 2039-6716
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