Post on 13-Apr-2017
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QUANDO IL TUFFO
DIVENTA ... POESIA
Una storia vera, vissuta e raccontata da
Giorgio Rusconi
Premio Letterario Rotary Club Bormio Contea 2016
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Premessa
Il racconto si riferisce ad un episodio realmente accaduto il 24 Agosto 2012 a Roca
Vecchia, località nel comune di Melendugno in provincia di Lecce. Veri e reali sono tutti
i nomi delle persone citate, i luoghi o le località descritte.
Al di là della vicenda personale in cui mi sono trovato coinvolto, questo scritto è un
doveroso omaggio alla memoria di mio padre che mi ha insegnato ad amare lo sport e
la correttezza nel lavoro. Di questo come di tante altre cose gliene sono grato. Così
come sono infinitamente grato a mia mamma, anche per le cose che scoprirete
leggendo.
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QUANDO IL TUFFO DIVENTA …. POESIA
È difficile individuare un momento preciso in cui si manifesta in me la passione per i
tuffi; ricordo molto bene che fin da bambino provavo eccitazione per il salto nel vuoto.
Nella casa di Ballabio, località della Valsassina dove trascorrevo le vacanze estive,
così come nelle frequenti passeggiate in montagna, con i miei fratelli o con gli amici
più spericolati, eravamo soliti arrampicarci su di un muretto di pietra o su qualche
albero per poi lanciarci nel prato sottostante, godendo di quel brivido eccitante che
comprimeva il ventre facendo mancare il respiro. Un po’ come quando si prendono i
dossi stradali con l’auto a tutta velocità o, meglio ancora, facendo un giro sulle
montagne russe.
Mio papà, Millo Rusconi, era appassionato di tuffi; come consigliere della Canottieri
Lecco, responsabile della sezione nuoto negli anni del secondo dopoguerra, fece
costruire dall’Ing. Badoni – Presidente del glorioso sodalizio sportivo e titolare
dell’omonima impresa di costruzioni meccaniche - quella imponente struttura visibile
ancora oggi da Malgrate o entrando a Lecco dal Ponte Kennedy (conosciuto da tutti
come il Ponte Nuovo, in contrapposizione al vicino Ponte Vecchio – o Ponte Azzone
Visconti – costruito nella prima metà del XIV secolo).
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Mare, lago o piscina, qualunque fosse l’ambiente scelto per un bagno rinfrescante o
per una nuotata, non ho mai visto mio padre entrare in acqua con i piedi. Per lui
l’entrata in acqua, che fosse da uno scoglio, dalla spiaggia o da un pontile, doveva
essere fatta rigorosamente di testa, preferibilmente con un carpiato o con un tuffo di
partenza spanciato a seconda della altezza e della profondità dell’acqua.
Credo, ma non ne sono sicuro, che sia stato giudice di gara nei tuffi, da come mi
raccontava l’attribuzione dei punteggi e dei vari coefficienti di difficoltà, e diceva di
aver allenato Wilma Francoletti, Campionessa Italiana nel 1947 a Sanremo,
sicuramente accompagnata da lui in quella vittoriosa trasferta, come ricorda lei stessa
in occasione di un messaggio di cordoglio per la scomparsa del papà, avvenuta il 30
Agosto 2010:
“Nell'estate del 1947 tuo papà, che da grande sportivo si rendeva disponibile per
tutti gli eventi, mi accompagnò a Sanremo dove vinsi i campionati italiani di tuffi nella
categoria allievi, da un metro e da tre metri. Viaggiammo all'andata su un carro-
bestiame. Io ero una bambina e molto emozionata; tuo papà l'ho percepito come un
protettore buono cui potevo affidarmi e che mi incoraggiava. Per dire il prosieguo,
Aronne Anghileri mi vide in acqua e disse: “questa deve nuotare”. Il Millo in seguito
l'ho sempre rivisto nell'ambiente e ne conservo un ricordo di stima e di simpatia.”
Wilma Francoletti, come ricorda lei stessa, abbandonò presto i tuffi per dedicarsi al
nuoto, in competizione con Nucci Solari e portando in alto il prestigio della Canottieri
Lecco. In seguito, sposandosi con Ferruccio Anghileri si imparentò con una dinastia di
nuotatori e pallanuotisti che fecero grande il sodalizio blu-celeste. Tra questi il caro
amico Aronne Anghileri, grande firma della Gazzetta dello Sport, che per oltre 40 anni
ha raccontato agli appassionati di nuoto, tuffi e pallanuoto le imprese olimpiche e
mondiali degli azzurri. Avendo perso la testimonianza di mio padre, mi sono rivolto ad
Aronne per conoscere qualcosa di più sul rapporto che legava Millo Rusconi ai tuffi.
Con la sua immancabile vena polemica, tipica di ogni grande giornalista, alla mia
domanda sui titoli italiani vinti a Sanremo nel 1947 da sua cognata Wilma,
accompagnata da mio padre, rispose lapidario: “Bella forza, era da sola a gareggiare
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nel trampolino da 3 metri e forse erano in due in quello da 1 metro!”; dimenticando lo
spirito e la filosofia del Barone De Coubertin, “inventore” delle moderne olimpiadi, che
riteneva la partecipazione alle manifestazioni agonistiche come aspetto supremo della
pratica sportiva.
Quando venni al mondo nel 1955, mio papà Millo era ancora consigliere della
canottieri Lecco, ma nel frattempo si dedicava alla vela – gareggiava nella classe Star
con Walter Ruffini – e fondò lo Sci Nautico con suo fratello Carlo, Ferruccio Gilera
(della famosa industria motociclistica) e con Giovanni Comi, poi diventato vice
presidente della FISN (l’allora Federazione Italiana Sci Nautico).
Con la stessa passione e incoraggiamento dedicato a Wilma Francoletti negli anni 40,
ha insegnato i tuffi ai suoi figli, trovando luoghi congeniali nelle scogliere dell’Isola
d’Elba, in particolare a Marciana Marina, dove dall’estate del 1963, per quasi
vent’anni, abbiamo trascorso ininterrottamente le nostre vacanze estive.
Nei primi anni ’60, l’attività sportiva prediletta della famiglia era lo sci. Il giovedì
pomeriggio partenza in pullman da piazza della Stazione per gli allenamenti con lo Sci
Club Lecco ai Piani Resinelli o in Artavaggio, al sabato allenamento con il Maestro
Rinaldo Tagliaferri e la domenica c’era sempre qualche gara cui partecipare. Per la
verità, nonostante la mia innata passione agonistica, non ero molto entusiasta delle
levatacce che si facevano allora per poter gareggiare: il freddo, l’attesa del proprio
turno per la gara, i risultati modesti che ottenevo, mi facevano rimpiangere il
calduccio del mio letto. Allora non passava neppure per la mente di discutere una
decisione paterna, se il papà diceva che si andava a fare una gara a Bobbio o
Caspoggio o da qualsiasi altra parte era così, punto!
Un anno ci qualificammo per la fase regionale del “Corriere dei Piccoli”, prova del
Campionato Italiano “Juvenes”, con destinazione Bormio. Considerata la distanza da
Lecco, decisero di portarci in Alta Valtellina il sabato pomeriggio per pernottare
all’Hotel Rezia. Quello che ricordo ancora con molta lucidità, a distanza di
cinquant’anni, sono la grande stanza dove dormimmo in 6, sistemati in qualche
maniera in un lettone ed una cuccetta, e l’apparizione al ristorante di una comitiva di
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giganti che ci incutirono timore e rispetto. Dopo qualche bisbiglio per lo stupore,
venimmo a sapere che erano i giocatori di Pallacanestro dell’Oransoda di Cantù, allora
sponsorizzati dalla Società dell’acqua minerale Levissima.
Ma il ricordo più bello, e la vera ragione per la quale accettai volentieri quella lunga
trasferta, fu la promessa di un bagno nella piscina delle vecchie terme di Bormio.
Anche in quell’occasione il divertimento più bello era salire su una specie di seggiolone
tipo quelli usati dagli arbitri del tennis, o dai bagnini (oggi ribattezzati assistenti
bagnanti), per poi saltare in acqua e scomparire sotto di essa per qualche secondo.
Purtroppo Lecco allora non aveva una piscina coperta, e neppure una scoperta: ci
bastava il lago, ovviamente nei soli mesi estivi! Quando nel 1979 fu inaugurata la
piscina al Centro del Bione, l’impianto mancava del necessario per i tuffi: trampolino e
profondità della vasca! Ero allora Consigliere Comunale a Lecco, dove venni eletto
nella lista del PLI a soli 21 anni e ricordo che contestai il lavoro dell’Architetto Pino
Zoppini, che aveva progettato una piscina finalizzata alla sola pratica del nuoto.
Proprio perché era la prima e unica piscina a Lecco, mancava di una polivalenza nel
suo utilizzo che avrebbe consentito anche la pratica dei tuffi, della pallanuoto e delle
attività subacquee.
Tornando agli anni ’60 e ’70, ricordo che spesso il pomeriggio delle domeniche
invernali, quando non andavamo a sciare, lo trascorrevamo al Centro Sportivo
Italcementi di Bergamo, in quella bellissima piscina con trampolini da 1, 3 e 5 metri
dove ho cominciato a sperimentare qualche uno e mezzo (salto mortale), il tuffo
ritornato e quello rovesciato.
Tutto questo da autodidatta, con il papà che si prodigava in consigli e giudizi sulla
verticalità dell’entrata in acqua e la giusta posizione dei piedi (quasi sempre, i miei,
erroneamente a martello!).
All’Elba, tra fratelli o con gi amici, ma soprattutto verso me stesso, la sfida diventava
quella dell’altezza; ci si arrampicava sempre più in alto per “voli d’angelo” da posizioni
sempre più elevate. Mitici saranno per sempre, nella mia memoria, gli scogli della
Fenicetta, di Cavoli e dell’Enfola, con altezze ben superiori ai 10 metri.
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Le uniche competizioni erano quelle tra fratelli e qualche amico, con il papà giudice
imparziale nel valutare le nostre prestazioni. Finché, nel Luglio del 1975, sempre
all’Isola d’Elba e ancora a Marciana Marina, non accadde un evento che rimarrà per
sempre tra i ricordi più belli della mia vita. Una vera gara di tuffi.
La Pro Loco di Marciana Marina allestì un ponteggio alto circa 3 metri sul “moletto
dei pesci” perpendicolare al lungomare e il sabato pomeriggio si disputarono le
qualificazioni. Tra i giudici di gara spiccava il giornalista sportivo Nino Oppio, redattore
del Corriere della Sera, abituato a trascorrere le ferie all’Hotel Marinella. Mi qualificai
per la finale del giorno dopo con il secondo posto in classifica, dopo aver effettuato un
carpiato in avanti, un carpiato ritornato e un 1 e mezzo in avanti raggruppato.
La domenica pomeriggio appuntamento alle 18:30 per la finale. Poco dopo l’inizio
della gara, che aveva visto dapprima l’esibizione degli juniores, una grande folla –
reduce dalla Messa domenicale - si radunò intorno al teatro della gara, rendendo la
competizione ancora più emozionante. La presenza del pubblico a una manifestazione
sportiva è per l’atleta come un doping, benefico ovviamente, perché riesce a
trasmettere una carica notevole di adrenalina e fornire delle energie inimmaginabili.
Iniziai la gara con il solito uno e mezzo raggruppato in avanti per poi tentare un
inedito ordinario indietro (partenza dal trampolino con le spalle al mare ed entrata
all’indietro) che non mi riuscì molto bene, tant’è che dopo due tuffi ero al terzo posto.
Mi giocai tutto con l’ultimo tuffo, banale come difficoltà ma molto spettacolare nella
preparazione: una verticale.
In quegli anni la mia vera passione era il Salto con l’Asta, l’anno prima mi qualificai
con 4,10m per la finale degli Italiani Juniores a Torino, con i colori della Atletica ICAM
di Lecco. Per allenarmi al volteggio finale del salto cercavo di reggermi in verticale
sulle mani come un ginnasta.
Prolungai quella posizione il più a lungo possibile per attirare l’attenzione del
pubblico e dei giudici, per poi lasciarmi cadere in acqua con un’esecuzione che non
avrebbe potuto essere più perfetta. Applausi scroscianti, 15 punti, il massimo! (5 da
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ognuno dei 3 giudici!), vittoria nel 1° Meeting di Tuffi di Marciana Marina e l’onore di
un articolo sull’edizione Elbana de “Il Tirreno”.
Immagini del 1° Meeting Elbano di Tuffi – Marciana Marina
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La mia “carriera” di tuffatore è proseguita negli anni a seguire con qualche esibizione
alla Canottieri, facendo infuriare il signor Peverelli, l’ubbidiente segretario del sodalizio
che aveva ordine dal consiglio di non far salire nessuno sul trampolino. Oggi
l’imponente struttura di ferro e cemento, simbolo di una Lecco sportiva d’altri tempi è
stata mutilata delle scalette e vergognosamente ingabbiata per impedire a chiunque di
salire, facendo così morire per sempre una bella tradizione sportiva.
Quando mi capitava di trascorrere un weekend a Livigno, sia in estate che in
inverno, ero solito fermarmi nelle piscine Pontresina o di Saint Moritz, oppure in quella
termale di Bormio, a seconda del percorso del Maloja o del Passo del Foscagno. Sia
Saint Moritz che Bormio avevano bellissimi impianti per i tuffi ed in particolare anche il
trampolino per tuffi da 3 metri.
Proprio nella piscina di Bormio ho eseguito il mio tuffo più difficile di sempre dal
trampolino dei 3 metri: un doppio salto mortale e mezzo raggruppato. Purtroppo poco
tempo dopo hanno smantellato quel bellissimo trampolino lasciando solamente quello
da 1 metro, che anch’esso scompariva qualche anno dopo con la ristrutturazione
dell’impianto.
Il 3° tuffo della finale che mi ha consentito di vincere il 1° meeting di Marciana Marina, il 26 luglio 1975 (a Sin.); Il Podio con i vincitori (sopra); l’articolo de Il Tirreno (a destra)
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Le stagioni all’Elba si diradavano sempre più, nelle piscine dei villaggi turistici il
trampolino e i tuffi erano banditi, così come nella piscina di Bormio, e per le mie
esibizioni dovevo accontentarmi del piccolo trampolino (neanche 1 metro!) della
piscina in una splendida villa di amici ad Abbadia Lariana.
Il desiderio di tuffi emozionanti è sempre arso in me come il fuoco di un vulcano, ed
è esploso nell’estate del 2012 durante una breve vacanza in Salento programmata
dalla mia compagna Giusy. Le scogliere intorno a Otranto sono qualcosa di
spettacolare per la loro verticalità, la facilità di accesso e la profondità del mare, di un
colore blu intenso e limpido. Controllando prudentemente il fondale ho cominciato con
tuffi da 3 poi 5 metri per arrivare fino a 7/8 metri, prima nel golfo di Otranto e poi a
Santa Cesarea Terme. Un piacere immenso, come solo un certo rischio e la
spericolatezza riescono ad offrire.
La vacanza prevedeva uno spostamento da sud verso nord, per arrivare a Ostuni
lungo una strada molto panoramica tra scogliere e faraglioni mozzafiato.
Il desiderio di scattare qualche fotografia a quelle bellezze naturali ci ha fatto
scoprire un luogo molto pittoresco che sia le informazioni turistiche che i consigli di
amici, ci avevano nascosto: la grotta della Poesia a Roca Vecchia.
Era Venerdì 24 Agosto, intorno alle 15:00, quando ci siamo addentrati in un
promontorio molto affollato di bagnanti, per fermarci dinanzi una grotta a cielo aperto
con un’acqua dai colori meravigliosi.
Imprudentemente, fidandomi della trasparenza dell’acqua e dei tuffi di altri ragazzi,
e peccando di presunzione eccitato com’ero dalla quantità di gente presente, ho
trascurato la buona abitudine di controllare il fondale e mi sono concesso un tuffo di
testa carpiato.
Solamente dopo quel tuffo mi sono accorto di un particolare al quale non avevo mai
fatto caso prima: durante i miei tuffi, da qualsiasi altezza essi avvengano, tengo gli
occhi aperti fino all’impatto con l’acqua per poi chiuderli fin quando termino la
parabola discendente e riaprirli quando riprendo a salire verso la superficie dell’acqua.
Mi sono accorto di questo fatto perché, malauguratamente, la corsa verso il fondo ha
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subito un brusco impatto, prima con le mani protese a proteggermi la testa e poi con
la testa stessa, contro una roccia sul fondo!
“Che pirla!” mi sono detto dopo l’improvviso e violento impatto, “come ho fatto a
non accorgermi che il fondale era così basso?” senza immaginare le drammatiche
conseguenze che avrei accertato poco dopo, avvertendo solo il dolore per la botta
rimediata sul cranio e ai polsi.
Risalgo stordito verso superficie e non appena esco dall’acqua mi rendo conto della
gravità della situazione sia per le urla delle persone presenti, che a squarciagola
richiedevano un medico, l’ambulanza, o più in generale soccorsi, sia per il colore
dell’acqua che da turchese era diventata rossa come le acque d’Egitto, nella prima
delle dieci bibliche piaghe.
Risalgo a fatica i gradini intagliati nella roccia e grazie all’aiuto di tante persone
gentili che si prodigavano per assistermi, mi adagio sugli scogli in attesa dei soccorsi:
c’è chi adagia il proprio telo da spiaggia noncurante dell’abbondante perdita di sangue,
chi mi procura un ombrellone…una vera gara di solidarietà.
Dopo circa venti minuti, per me interminabili, arrivano medici e infermieri del pronto
soccorso che, in seguito alle testimonianze sulla dinamica dell’infortunio, temevano
una lesione cervicale. Come da protocollo, mi hanno immobilizzato il rachide,
sistemato il collarino, inserito una flebo e infine “ragnato” (termine tecnico per definire
le modalità di immobilizzo) su una barella spinale, sulla quale, con un dolore non
indifferente per la sua scomodità, ho percorso il tragitto di 30 Km fino al reparto di
Neurochirurgia dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce.
Il viaggio è stato a dir poco allucinante: sirene spiegate, l’autista che comunicava
con il Pronto Soccorso le sue valutazioni del “Triage” alternando una duplice situazione
di gravità (un codice rosso: molto critico, pericolo di vita, priorità massima, accesso
immediato alle cure; e codice giallo: mediamente critico, presenza di rischio evolutivo,
possibile pericolo di vita); un altro infermiere, Salvatore, mi teneva premuto il cranio
con le sue mani, dandomi l’impressione che potesse esserci fuoriuscita di materia
cerebrale. Ho imparato in seguito, entrando come volontario in Croce Rossa, che
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l’immobilizzazione della testa rientra nel protocollo per qualsiasi tipo di evento
traumatico. Singolare e commovente la solidarietà di Salvatore che dopo aver
trascorso la mattinata in servizio al Pronto Soccorso di Lecce, e approfittando del
turno di riposo pomeridiano, aveva portato il figlioletto a tuffarsi nella Grotta della
Poesia.
Come hanno chiuso i portelloni dell’ambulanza, ho cominciato a pregare, a recitare
una serie infinita di Ave Maria, cercando di ricordare la sequenza del Santo Rosario,
mentre vedevo alternarsi, in una situazione di confusione e di appannamento, da un
lato l’immagine di mio padre che mi incoraggiava “forza Giorgio, tuffati” come ripeteva
impaziente un sabato pomeriggio di tanti anni fa quando non trovavo il coraggio di
fare il mio primo tuffo dalla piattaforma dei 10 metri in Canottieri a Lecco; dall’altro
lato l’immagine della mamma che, come sempre, cercava di richiamarmi alla prudenza
e a evitare inutili pericoli. E’ stato in quel momento che ho promesso alla mamma che
se mi avesse aiutato a rimanere vivo, il tuffo successivo l’avrei fatto nella piscina di
Lourdes, dove sarei andato a ringraziare lei e la Madonna per la protezione che
desideravo ricevere.
Arrivato in Ospedale, in uno stato totalmente confusionale, rivedevo alcuni episodi di
E.R. o di Grey’s Anatomy (lo stridolio delle ruote della barella, lo sbattere delle porte,
il vociare incomprensibile del personale medico, ecc.) e intanto cercavo di ascoltare le
parole di medici e infermieri tra le quali spiccava il nome “…Eh, la Poesia; …anche
questo si è tuffato alla Poesia”. La TAC e i Raggi X escludevano fortunatamente ogni
tipo di lesione, quindi il neurochirurgo procedeva alla lunga e dolorosa fase di sutura
dell’ampia ferita sulla testa, che ha richiesto ben 21 punti.
L’assistenza ricevuta in ospedale è stata eccellente, ciò mi ha convinto che in Italia
non ci sono strutture sanitarie buone o meno buone; ovunque ci sono persone, medici
e infermieri, molti dei quali operano costantemente con professionalità competenza e
soprattutto altruismo, così come, purtroppo, si incontrano anche persone scortesi e
poco sensibili. Questo, immagino, in ogni ospedale del sud Italia come del nord.
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Dopo quattro giorni di degenza, lunedì 27 Agosto, da Bari abbiamo ripreso l’aereo
per tornare a casa, accompagnati con una ambulanza messa a disposizione da
Europe-Assistance. Di quella breve vacanza, sfortunatamente ci siamo persi le visite
di: Ostuni, Fasano, Polignano, Alberobello e Locorotondo. Località che meritavano
senz’altro di essere visitate, ben più che il Vito Fazzi di Lecce!
Tuttavia ho imparato la storia de La Grotta della Poesia, di un autore sconosciuto:
"Si narra che una bellissima principessa amasse fare il bagno nelle acque salutifere
della grotta; la sua bellezza era così folgorante che ben presto la notizia si diffuse in
tutta la Puglia. Fu così che schiere di poeti provenienti da tutto il Sud dell'Italia si
riunivano in quel luogo per comporre versi ispirati alla sua bellezza: chi scrisse delle
ninfe, chi delle principesse orientali, chi delle regine del nord, e la fama durò tanto a
lungo che ancora oggi questo luogo è conosciuto come la Grotta della Poesia".
La convalescenza è stata lunga: man mano che migliorava la ferita alla testa e
scomparivano gli ematomi, nuovi dolori si presentavano alla cervicale, alle spalle, alle
braccia e soprattutto ai polsi.
Quasi ossessionato per l’episodio, cercavo continuamente su internet informazioni,
immagini e notizie sulla “Grotta della Poesia”.
Su Youtube ho trovato un filmato che mi ha
fatto molto meditare: una statua della
Madonna, messa a protezione dei migranti
che un tempo arrivavano numerosi
dall’Albania, si erge proprio sopra lo scoglio
teatro della mia disavventura. Un altro segno
della protezione ricevuta dall’alto!
Dopo alcuni mesi di cure e di convalescenza, la prima domenica di Dicembre con
l’amico e guida alpina Enzo Nogara, ho voluto collaudare le mie forze salendo una
difficile parete di roccia: la “R2” al Pizzo Boga, nel gruppo del Corno Medale sopra
Lecco, da me già salita negli anni ’80 quando ero sicuramente molto più giovane, più
allenato e con qualche chilo di meno. Ho trovato alcuni passaggi di 5+ (ora 5b/c)
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meno impegnativi della scalata fatta molti anni prima, segno evidente del buon livello
di recupero raggiunto.
Come promesso alla mamma durante il mio viaggio della disperazione in ambulanza
verso Lecce, l’8 Dicembre, per la prima volta, sono stato in pellegrinaggio a Lourdes,
un’esperienza coinvolgente e degna di essere vissuta, nel rapporto quasi imbarazzante
tra chi ha ricevuto una Grazia e chi la chiedeva e la cercava con fede convinta.
Mentre ero ricoverato in Neurochirurgia all’ospedale a Lecce, mi hanno raccontato di
pazienti arrivati al loro reparto dopo essersi tuffati alla Grotta della Poesia e dimessi in
carrozzella o di alcuni che purtroppo non ce l’anno fatta!
Oggi i miei ringraziamenti per questa esperienza indimenticabile vanno a coloro che
mi hanno aiutato a superare nel migliore dei modi una avventura che, per colpa della
superficialità, dell’imprudenza ed anche per un po’ di esibizionismo, avrebbe potuto
concludersi in tutt’altra maniera.
Estate 1975. Un plastico “Volo d’Angelo” dagli scogli della Fenicetta a Marciana Marina (Isola d’Elba). La dimensione del pattino rende bene l’idea dell’altezza del tuffo
Il tuffo “carpiato” con il quale mi sono schiantato sul fondo della “Grotta della Poesia”. Era il 24 agosto 2012.