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L’OFFERTA CORRUTTIVA AL CONSULENTE DEL PUBBLICO MINISTEROMichele Fascetti
SOMMARIO: 1. Le figure del perito e del consulente tecnico – 2. Il fatto – 3. I primi dubbi delle indagini preliminari – 3.1. La condanna con rito speciale – 4. La riqualificazione del fatto della Corte di Appello – 4.1. Il ricorso degli imputati. – 5. La contraddizione della Sesta Sezione Penale – 5.1 L’intervento delle Sezioni Unite – 6. La Corte costituzionale “decide di non decidere” – 7. La qualificazione finale delle Sezioni Unite – 8. L’art. 377 c.p.: il reato di intralcio alla giustizia - 9. Osservazioni e conclusione
1. Le figure del perito e del consulente tecnico
Prima di esaminare il fatto e comprenderne l’intera rilevanza occorre, a mio avviso, una breve
introduzione1 sulle figure del perito e del consulente tecnico del pubblico ministero, disciplinate dal
libro terzo, titolo II dei mezzi di prova del nostro codice di procedura penale. L’oggetto della
perizia risulta delineato in via generale dall’art. 220 c.p.p. comma 1° attraverso la definizione del
presupposto di ammissibilità della prova peritale (che si configura, nel contempo, come presupposto
del dovere del giudice di disporre la perizia), facendo cioè riferimento alla situazione in cui
“occorre svolgere indagini”, ovvero “acquisire dati o valutazioni”, i quali richiedano “specifiche
competenze tecniche, scientifiche o artistiche”. Quando il giudice accerti la sussistenza di una delle
suddette condizioni è obbligato ad ammettere – e, quindi, a disporre – la perizia anche d’ufficio,
prevedendo il contenuto della relativa ordinanza, che accanto alla nomina del perito dovrà, tra
l’altro, recare la “sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini”. Il perito dunque, è un
soggetto dotato di particolari conoscenze in determinate materie che, qualora il giudice ne ravvisi il
bisogno, può nominarlo per espletare alcune complesse operazioni tecniche. Per la relazione finale
della perizia si prevede che esso risponda immediatamente ai quesiti propostigli, e comunque in
forma orale, mediante “parere raccolto nel verbale” (art. 227 commi 1° e 2° c.p.p.). Quanto ad essa,
si prevede che il perito risponda immediatamente ai quesiti propostigli, e comunque in forma orale,
mediante “parere raccolto nel verbale” (art. 227 commi 1° e 2° c.p.p.). Necessitando l’esigenza del
contraddittorio sul terreno probatorio si esamina per sommi capi la disciplina della partecipazione
dei consulenti tecnici – che possono essere nominati, in numero non superiore a quello dei periti,
sia dal pubblico ministero sia dalle parti private – lungo l’intero arco di svolgimento della perizia,
fin dal momento della formulazione dei quesiti (art. 226 comma 2° c.p.p.). Il pubblico ministero
infatti, quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra
1 Seguito schema rappresentativo G. CONSO, V. GREVI e M. BARGIS, Compendio di procedura penale, Padova, 2014, pag. 363 ss.2 Il pubblico ministero nomina il consulente tecnico scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti ai sensi dell’art. 73 disp. att. del c.p.p. Quindi
si tratta sempre di oggetti chiamati a fornire contributi di natura tecnico-scientifica, fondati su cognizioni specialistiche non possedute dall’organo inquirente.
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operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare e avvalersi di
consulenti2. L’oggetto della consulenza tecnica di parte è identico a quello della perizia: cioè deve
1 Seguito schema rappresentativo G. CONSO, V. GREVI e M. BARGIS, Compendio di procedura penale, Padova, 2014, pag. 363 ss.2 Il pubblico ministero nomina il consulente tecnico scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti ai sensi dell’art. 73 disp. att. del c.p.p. Quindi
si tratta sempre di oggetti chiamati a fornire contributi di natura tecnico-scientifica, fondati su cognizioni specialistiche non possedute dall’organo inquirente.
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essere disposta dal giudice quando occorre compiere una valutazione per la quale sono necessarie
specifiche competenze. Il perito svolge le indagini ed acquisisce risultati probatori per conto del
giudice e gli esiti sono destinati a confluire direttamente nel fascicolo del dibattimento e sono
utilizzabili nella decisione finale. Il consulente di parte propone valutazioni tecniche, che si
traducono in pareri espressi oralmente o in memorie scritte. Identico è lo strumento con il quale
perito e consulente tecnico sono sentiti in dibattimento: l’esame incrociato. Un significativo
riscontro di questa disciplina è infatti fornito dalla prevista possibilità di sottoposizione ad esame,
in sede dibattimentale, tanto dei periti, quanto dei consulenti tecnici, secondo cui “si osservano le
disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili” (art. 501 c.p.p.)3. Relativamente alle
modalità di intervento dei consulenti tecnici, essi sono autorizzati ad assistere al conferimento
dell’incarico e, quindi, a partecipare a tutte le operazioni peritali: non solo formulando osservazioni
e riserve, ma anche proponendo al perito lo svolgimento di specifiche indagini, con la previsione
che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di relazione (art. 230 commi 1° e 2° c.p.p.).
Anche il consulente tecnico nominato ex art. 233 c.p.p. può venire sottoposto ad esame, nel corso
del dibattimento, ai sensi dell’art. 501 c.p.p., proprio allo scopo di consentire l’acquisizione
probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue valutazioni. Punti chiave questi che, oltre a
rappresentarci le figure in esame, ci permettono di entrare nel merito della questione.
2. Il fatto
L’oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un
consulente tecnico del pubblico ministero una somma di denaro (da questi simulatamente
accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa. In particolare, la vicenda
processuale in esame trae origine da un incidente aereo, avvenuto il 1° Giugno 2003, nello spazio
sovrastante l’aeroporto di Milano Linate, che causò la caduta di un aeromobile della compagnia
Eurojet su un capannone industriale e la morte del pilota e del copilota1. Durante le indagini
preliminari che seguirono, il pubblico ministero nominò un consulente tecnico, ex art. 359 c.p.p.,
nella persona del signor Cimaglia, funzionario Enac. Nel corso degli accertamenti tecnici, il
consulente citato fu avvicinato da un suo conoscente e collega, tale Corrado Sghinolfi, ispettore
Enac a Milano ed addetto al controllo operativo di Eurojet, il quale gli prospettò la possibilità di
ottenere una grossa somma di denaro in cambio di un elaborato tecnico favorevole alla compagnia
aerea. Il consulente tecnico finse di accettare la proposta (e conseguentemente il denaro) ma avvisò
3 A tali soggetti viene riconosciuta la qualità di testimone; ne consegue che il giudice può dedurre elementi di prova e di giudizio dalle loro informazioni e dai loro chiarimenti, senza l’obbligo di disporre apposita perizia, quando con adeguata motivazione il medesimo giudice dimostri che non è necessario, in quanto gli elementi forniti dai consulenti appaiono privi di incertezze e basati su argomentazioni logiche e convincenti, nonché scientificamente corrette.
1 Per ulteriori approfondimenti tecnici si rimanda ad archivio storico rai.
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immediatamente il pubblico ministero, che decise di predisporre attività investigativa che
consentisse la prosecuzione della trattativa corruttiva in questione, sia pure sotto il controllo della
polizia giudiziaria, in modo da individuare tutte le possibili responsabilità. All’esito dell’indagine,
emersero profili di reità nei confronti del citato Sghinolfi (e dei soci Guido Andrea Guidi e Edoardo
Rubino) nonché dell’avvocato difensore Angelo Palermo che secondo quanto emerso, avrebbe
avuto il compito di indicare quale avrebbe dovuto essere il contenuto della consulenza tecnica per
risultare favorevole ai suoi assistiti. Qui di seguito ripercorriamo la vicenda giurisprudenziale.
3. I primi dubbi delle indagini preliminari
Il pubblico ministero, con gli elementi acquisiti a carico dei citati indagati, chiedeva ed otteneva dal
giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ordinanza cautelare per il delitto di
corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319-ter c.p.1 Già in sede di interrogatori di garanzia gli
indagati ammisero le materialità dei fatti storici, seppure cercando di giustificare l’offerta corruttiva
con finalità di evitare una consulenza sfavorevole da parte del tecnico nominato dal pubblico
ministero, ritenuto in qualche modo prevenuto nei confronti della società e dei suoi amministratori.
L’ordinanza veniva però in seguito annullata dal Tribunale del riesame per erronea qualificazione
del fatto: non essendosi infatti conclusa la trattativa, il reato prospettabile non era quello di cui
all’art. 319-ter c.p. ma bensì quello di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322 c.p.2 Avverso
il provvedimento del controllo cautelare proponeva ricorso il pubblico ministero milanese. La
Corte di Cassazione rigettava il ricorso, confermando che la corruzione in atti giudiziari
effettivamente non si era consumata adducendo in motivazione di poter sussumere il fatto storico
nell’ipotesi delittuosa di tentativo di corruzione in atti giudiziari.3 In sede di indagini veniva
successivamente sollevata questione sulla competenza territoriale, rimessa al procuratore generale
presso la Corte di Cassazione, ex art. 54-quater c.p.p.4 L’incidente veniva risolto attribuendo la
competenza alla Procura della Repubblica di Roma, sul presupposto che, qualificato come istigazio-
1 Secondo cui al 1° comma “se i fatti indicati negli artt. 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.”
2 Secondo cui “chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti, ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’art. 318, ridotta di un terzo. Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’art. 319, ridotta di un terzo.”
Si evidenza per una migliore comprensione che la fattispecie in questione si configura come un reato di mera condotta, per la cui consumazione si richiede che il colpevole agisca allo scopo di trarre un utilità o di conseguire una controprestazione dal comportamento omissivo o commissivo del pubblico ufficiale, indipendentemente dal verificarsi o meno del fine cui è preordinata la istigazione.
3 Cassazione Penale, sez. VI, 06/03/2007 n. 12734. 4 Secondo cui al comma 1° “la persona sottoposta alle indagini che abbia conoscenza del procedimento ai sensi dell'articolo 335 o dell’articolo 369
e la persona offesa del reato che abbia conoscenza del procedimento ai sensi dell'articolo 369, nonché i rispettivi difensori, se ritengano che il reato appartenga alla competenza di un giudice diverso da quello presso il quale il pubblico ministero che procede esercita le sue funzioni, possono chiedere la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente, enunciando, a pena di inammissibilità, le ragioni a sostegno della indicazione del giudice diverso ritenuto competente.”
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-ne alla corruzione ex art. 322 c.p., il reato si era consumato a Roma. Il pubblico ministero a cui
venne trasmesso il fascicolo, all’esito delle indagini, non riteneva però di contestare la fattispecie
delittuosa individuata dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione ed esercitava l’azione
penale nei confronti dei quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 c.p.,
ritenuto commesso a Roma in data 2 giugno 2006.
3.1. La condanna con rito speciale
Avendo gli imputati Guidi e Rubino optato per il rito abbreviato, il giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza 26 novembre 2008, concordando sulla
qualificazione giuridica proposta dal pubblico ministero, condannava gli imputati alla pena di anni
uno e mesi otto di reclusione ciascuno5. Con successiva ordinanza, emessa il 23 gennaio 2009 con
contemporaneo deposito della motivazione, il giudice dell’udienza preliminare operava un
correttivo sul dispositivo irrogando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la
stessa durata della pena principale, anch’essa sospesa6.
4. La riqualificazione del fatto della Corte di Appello
La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 3 maggio 2012 pronunciata a seguito di
impugnazione degli imputati, in riforma della sentenza del primo giudice, riqualificata la condotta
contestata ai sensi degli art. 1101 e 322 c.p., determinava la pena, tenuto conto delle diminuenti del
rito abbreviato, in anni uno di reclusione ciascuno e revocava la pena accessoria. Secondo la Corte
non era possibile qualificare il fatto in termini di intralcio alla giustizia, essendo questo delitto
prospettabile solo nel caso in cui il soggetto avvicinato rivesta già la qualifica di teste, per essere
stato citato con questo ruolo a partecipare al giudizio. Pur condividendo l’impostazione del primo
giudice sul carattere speciale della fattispecie di cui all’art. 377 c.p. rispetto a quella punita nel capo
dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., la Corte d’Appello di Roma ritenne inapplicabile la
norma speciale. Confermava quindi la declaratoria di responsabilità, previa modificazione del titolo
di reato.
5 Viene riconosciuta la sospensione condizionale della pena.6 In motivazione, il giudice evidenziò come la fattispecie di cui all’art. 377 c.p. era da considerarsi speciale rispetto a quella dell’art. 322 c.p. e che
essa andava ritenuta sussistente, nel caso in contestazione, in quanto l’attività allettatrice, svolta nei confronti del collaboratore del pubblico ministero, era finalizzata ad ottenere una testimonianza favorevole nel futuro dibattimento; il consulente tecnico, infatti, avrebbe dovuto essere considerato, nella prospettiva del processo, un testimone, giusta il disposto dell’art. 501 c.p.p
1 Secondo cui “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti.”
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4.1 Il ricorso degli imputati
Contro la decisione della Corte d’Appello gli imputati hanno presentato, a mezzo del proprio
difensore, ricorso per Cassazione, articolato in un unico motivo, con cui denunciavano sia la
violazione dell’art. 322 c.p. sia il vizio di motivazione. Evidenziano come il reato commesso dal
consulente tecnico non possa che essere inquadrato, in astratto, tra le ipotesi di reati contro
l’amministrazione della giustizia in quanto il legislatore ha dimostrato con le sue scelte la volontà
inequivoca di concentrare in un’apposita sezione tutte le condotte relative ai reati contro
l’amministrazione della giustizia. In concreto, però, non sarebbe ipotizzabile il delitto di cui all’art.
377 c.p. perché mancherebbe il requisito soggettivo; nel caso di specie, infatti, il consulente
tecnico, non avendo ancora assunto la veste di testimone, non poteva essere annoverato fra i
soggetti nei cui confronti ha rilevanza penale una attività subornatrice. Ravvisare, d’altro canto, nel
fatto un’ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione (e quindi secondo l’attuale divisione del
codice penale il delitto di cui all’art. 322), oltre ad apparire una scelta in contrasto con le indicazioni
del legislatore, incontrerebbe un ostacolo insormontabile, rappresentato dalla violazione degli artt.
3 e 25 Cost. Infatti il tentativo di corruzione di un consulente tecnico di parte verrebbe punito più
severamente del tentativo di corruzione nei confronti del perito o del consulente tecnico del giudice
civile o del consulente tecnico del pubblico ministero già ammesso a deporre in dibattimento.
Andrebbe, in conclusione, ravvisata secondo i ricorrenti, la fattispecie di istigazione a commettere
patrocinio o consulenza infedele (art. 380 c.p.2) che, non essendo accolta, sarebbe non punibile
ex. art. 115 c.p.3 In subordine, i ricorrenti hanno eccepito la incostituzionalità dell’art. 322 c.2 c.p.
per contrasto con l’art. 3 Cost.
5. La contraddizione della Sesta Sezione Penale
La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, non appena ricevuto il ricorso degli imputati,
rimetteva alle Sezioni Unite1, sul presupposto di un potenziale contrasto di giurisprudenza, la
questione così riassumibile: “se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art.
377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del
pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico
non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza.” Nell’ordinanza di re-
2 Secondo cui al 1° comma “il patrocinatore o il consulente tecnico che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516”.
3 Secondo cui al 1° comma “salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo.”
1 Ordinanza n. 12901 del 14 marzo 2013.
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-missione si è ricordato come la lettura fatta propria dalla Corte di Appello risultasse supportata
dall’unico arresto edito che si era occupato di un caso analogo: la medesima Sesta Sezione aveva
ritenuto sussistente il delitto di istigazione alla corruzione2, di cui all’art. 322 comma 2° c.p., sul
presupposto che il consulente tecnico del pubblico ministero, cui era offerta un’utilità per
“addomesticare” gli esiti del suo accertamento, non aveva ancora assunto il ruolo formale di
testimone. Ma procediamo con calma ed analizziamo attentamente anche le altre osservazioni
mosse dalla Sesta Sezione penale. Essa ritiene, al tempo stesso, che la prospettazione difensiva
secondo cui vi sarebbero stati ostacoli formali nel configurare il delitto di istigazione alla corruzione
avesse almeno in parte fondamento. La decisione emessa nel 1999 dalla citata sentenza della
Suprema Corte nel caso Pizzicaroli e nell’attuale processo dal giudice d’Appello, rischiava, in
primo luogo, di apparire in contrasto con il dettaglio degli artt. 3 e 25 Cost. L’offerta di denaro o di
altra utilità al consulente del pubblico ministero (pubblico ufficiale) per il compimento di una falsa
consulenza sarebbe stata punita più gravemente dell’analoga condotta diretta ad un perito, che
rientrava pacificamente, per il principio di specialità3, nell’art. 377 comma 1° c.p. Qui sarebbe stata
irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece,
per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377 c.p., la reclusione da otto mesi a tre anni. Sotto
il profilo penalistico invece l’ordinanza ha considerato la possibilità di ritenere corretta la
valutazione cui era pervenuto il giudice di primo grado, quando aveva condannato gli imputati per
il delitto di intralcio alla giustizia. Quel giudice aveva, infatti, individuato il riferimento implicato
dall’art. 377 c.p. nell’art. 372 (o nell’art.371-bis), e non nell’art. 373 c.p.: la proposta corruttiva del
privato non poteva di certo mirare al confezionamento di una falsa perizia, punita dall’art. 373 c.p.,
perché il consulente tecnico del pubblico ministero non era un perito e non produceva, dunque,
alcuna perizia. Anche l’individuazione della qualificazione soggettiva del consulente tecnico,
chiamato a collaborare con una parte privata, poteva contribuire a dimostrare l’assunto: infatti lo
stesso era concepito come un soggetto che esprimeva un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua
equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore; quello nominato dal pubblico ministero,
invece, pur prestando attività d’ausilio ad una “parte” del processo, andava “avvicinato”
maggiormente alla funzione della pubblica accusa, andando quindi ad acquistare natura di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio nel momento in cui compiva le attività assegnategli
dal pubblico ministero stesso. Su lui gravava di conseguenza il dovere, connaturato ad ogni parte
pubblica, di obiettività ed imparzialità, essendo la sua funzione tesa al raggiungimento di interessi
pubblici, quale, in primis, l’accertamento della verità. Andando al nocciolo della questione viene
2 Cassazione Penale, sez. VI, 07/01/1999 n. 4062 in caso Pizzicaroli.3 Richiamo all’articolo 15 c.p. secondo cui: “Quando più leggi penali o disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge
o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.”
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in rilievo la circostanza secondo cui non poteva negarsi che, nel caso in esame, il consulente del
pubblico ministero non era ancora stato citato come testimone al momento della realizzazione
della condotta subornatrice. Per la giurisprudenza dominante, la qualità di testimone, nel reato di
cui all’art. 377 c.p., veniva considerata assunta nel momento dell’autorizzazione del giudice alla
citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell’art. 468, comma 2, c.p.p.4 Affermazione però,
secondo la Sesta Sezione penale non valida nel caso in cui il soggetto su cui si esercitava l’attività
induttiva o violenta fosse il consulente tecnico del pubblico ministero. In questa evenienza, infatti,
il soggetto rivestiva già una precisa veste processuale di consulente tecnico, potenzialmente
destinata a rifluire sulla qualità “testimoniale” ex artt. 371bis o 372 c.p. Questa qualità, anche se non
ancora formalmente assunta, poteva ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario
sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico. In questa prospettiva, il reato
avrebbe potuto ritenersi configurabile nel caso di specie, essendo stata la condotta contestata
esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati ad essere falsamente
rappresentati al pubblico ministero (art. 371-bis c.p.) o successivamente al giudice (art. 372 c.p.).
Considerato il contrasto tra queste opinioni ed il principio affermato nella precedente sentenza
della Cassazione il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite Penali5 a norma
dell’art. 618 c.p.p., aggiungendo che, ove non si dovesse ritenere applicabile l’art. 377 c.p., ma l’art.
322 c.p., sarebbe necessario affrontare i già rilevati profili di illegittimità costituzionale.
5.1 L’intervento delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite escludono anzitutto che nella fattispecie in esame possa ravvisarsi un ipotesi di
tentativo di corruzione in atti giudiziari (artt. 56 e 319-ter c.p.), come ritenuto dalla stessa Sesta
Sezione in sede di valutazione cautelare della posizione di uno degli imputati. In mancanza di un
accordo corruttivo, infatti, l’istigazione non accolta alla corruzione poteva essere ricondotta solo
alla previsione punitiva dell’art. 322 c.p. ovvero quando si trattasse di proposta rivolta a soggetti
destinati ad assumere una veste processuale, alle figure criminose delineate dagli artt. 377 o 377-bis
c.p. Il fatto per cui si procede non poteva essere neppure qualificato, contrariamente a quanto
sostenuto dagli imputati ricorrenti, in istigazione non accolta a commettere una consulenza infedele
(art. 380 c.p.), con conseguente sua irrilevanza penale (art. 115 c.p.). L’attività svolta dal consulente
tecnico del pubblico ministero non poteva essere, infatti, definita come attività di parte, alla quale
4 Art. 468 c.2 c.p.p.: “Il presidente del tribunale o della corte d’assise, quando ne sia fatta richiesta, autorizza con decreto la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente infondate.”
5 Decreto in data 25 marzo 2013
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soltanto si riferiva il citato art. 380 c.p., discutendosi di soggetto che esercitava una funzione
pubblica e che contribuiva non già a tutelare gli interessi di una parte processuale, “ma di accertare
la verità”. Il problema ermeneutico si concentrava, di conseguenza, sull’applicabilità di una delle
due ipotesi delittuose, dianzi indicate, dell’istigazione alla corruzione o dell’intralcio alla giustizia.
Quanto a quest’ultima si ricorda che l’art. 377 c.p. ha subito, nel corso degli anni, alcune
modifiche. In particolare, con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito il legge 7 agosto 1992, è stato
riscritto completamente il comma primo dell’art. 377 c.p., ed è stato aggiunto il consulente tecnico
tra i soggetti destinatari della condotta allettatrice6. Le Sezioni Unite, osservano come nel caso del
consulente tecnico del pubblico ministero l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità non poteva
essere finalizzata alla commissione del delitto di falsa perizia, di cui al richiamato art. 373 c.p., in
quanto l’ausiliario tecnico dell’accusa non era un perito (nominato invece dal giudice). Non era
dunque possibile estendere in via interpretativa il concetto di “perizia” alla “consulenza tecnica”
senza violare il principio di tassatività del precetto penale. Conformemente a quanto ritenuto dalla
Sesta Sezione nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico
del pubblico ministero poteva, nondimeno, egualmente configurare il reato di intralcio alla giustizia,
in quanto finalizzata alla commissione dei delitti di false informazioni al pubblico ministero (art.
371-bis c.p.) e di falsa testimonianza (art. 372 c.p.). La parificazione del consulente tecnico al
testimone trovava, in effetti, un solido appiglio nell’art. 501 c.p.p., che estende al consulente
tecnico le disposizioni sull’esame dibattimentale dei testimoni. Pur non essendo un testimone in
senso proprio, in quanto non chiamato a riferire su “fatti”, ma ad esprimere valutazioni su materie
che richiedono specifiche competenze, il consulente tecnico ben poteva “affermare il falso o negare
il vero”, conformemente alla previsione dell’art. 372 c.p. o “rendere dichiarazioni false”, secondo
quella dell’art. 371-bis c.p. La conseguente configurabilità, sotto questo profilo, del delitto di
intralcio alla giustizia, risultava confermata anche dalla lettera della norma incriminatrice, posto
che il riferimento al “consulente tecnico”, contenuto nell’art. 377 c.p., si prestava senz’altro a
ricomprendere anche l’ausiliario tecnico dell’organo dell’accusa e non era preclusa (la
configurabilità) dalla circostanza che il consulente del pubblico ministero non era stato ancora citato
come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell’offerta di denaro. Era ben vero
che, secondo l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, perché possa configurarsi il delitto di cui
all’art. 377 c.p. è necessario che i destinatari della condotta subornatrice abbiano già formalmente
assunto, nel momento in cui la condotta stessa è posta in essere, le qualifiche processuali indicate
dalla norma: il che si verifica, nel caso del testimone, solo allorchè il giudice abbia autorizzato la
citazione del soggetto in tale veste, ai sensi dell’art. 468 c.2 c.p.p. Ma, rileva la Corte, se il consu-
6 Il testo originario recitava: “chiunque offre o promette denaro o altra utilità a un testimone, perito o interprete, per indurlo ad una falsa testimonianza, perizia o interpretazione, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite degli artt. 372 e 373 ridotte dalla metà ai due terzi.”
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-lente tecnico del pubblico ministero deve essere considerato un pubblico ufficiale o un incaricato di
pubblico servizio, egli ha già, con la nomina del p.m., una precisa veste processuale, idonea
potenzialmente a rifluire sull’assunzione della qualifica testimoniale ai sensi degli art. 371 bis e 372
c.p. Questa “immanenza” della funzione processuale renderebbe, così, del tutto irrilevante un
momento formale di citazione in giudizio, quale richiesto dall’art. 468 c.2 c.p.p. Risolte
positivamente le questioni in astratto incompatibili con l’applicazione dell’art. 377 c.p., le Sezioni
Unite rilevano come, tuttavia, nel caso concreto, non possa farsi ricorso a tale disposizione. Infatti,
se è corretto sostenere che il consulente tecnico può certamente “rendere dichiarazioni false (art.
371bis c.p.) o “affermare il falso o negare il vero” (art. 372 c.p.), è anche indubitabile che ciò non
valga allorquando il consulente formuli un proprio giudizio personale e, come tale, esprima
un’opinione, intrinsecamente incompatibile con un apprezzamento in termini di verità/falsità. Nel
caso di specie, in effetti, la consulenza sarebbe proprio di tipo valutativo e per questo non si
presenterebbe come un’alterazione di accertamenti tecnici od obiettivi espletati. Il consulente
tecnico del pubblico ministero è, infatti, equiparabile al testimone solo in rapporto alle dichiarazioni
che investono gli esiti obiettivi degli accertamenti espletati; non, invece, in relazione alle
valutazioni tecnico-scientifiche, le quali, in quanto espressive di personali opinioni, non sono
qualificabili in termini di verità o di falsità: sicchè, con riguardo ad esse, il consulente non può
rispondere del reato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero.
Residuerebbe, allora, solo l’applicazione dell’art. 322 c.p., norma generale rispetto all’art. 377 c.p.
Una soluzione che, tuttavia, solleva evidenti profili di incostituzionalità, dal momento che
l’offerta in denaro o di altra utilità al consulente del pubblico ministero per il compimento di una
falsa consulenza sarebbe punita più gravemente della medesima condotta diretta ad un perito. Ma,
ancora la medesima condotta risulterebbe punita più gravemente se posta in essere nell’ambito di un
processo penale (con conseguente applicazione, come in tal caso, dell’art. 322 c.p.), rispetto che in
un giudizio civile (per il quale è pacifica l’applicazione dell’art. 377 c.p.) ed ancora la medesima
condotta sarebbe diversificata sul piano del trattamento sanzionatorio a seconda che la consulenza
richiesta sia di tipo meramente accertativo (art. 377 c.p.) o richieda ulteriori valutazioni tecnico-
scientifiche (art. 322 c.p.). Si trattava, sotto ognuno degli evidenziati profili, di conseguenze lesive
sotto il principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe venivano disciplinate in
termini differenti sul piano della risposta punitiva. In aggiunta a ciò, vi era il “paradosso” per cui
solo la particolare e neppure più grave forme di intralcio alla giustizia giustizia oggetto del giudizio
a quo rimaneva estranea alla specifica partizione del codice penale dedicata ai reati contro
l’amministrazione della giustizia, restando “confinata” tra i delitti contro la pubblica
amministrazione. Le Sezioni Unite, dunque, preso atto che il legislatore non è intervenuto
adeguatamente per includere anche il consulente tecnico del pubblico ministero tra i soggetti attivi
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del reato e che l’art. 322 c.2 c.p. nella parte in cui assoggetta la subornazione del consulente del
p.m. ad una pena superiore a quella prevista dall’art. 377 c.1 in relazione all’art. 373 c.p., fosse in
contrasto con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni
analoghe, sospendeva il medesimo giudizio e rimettevano la questione alla Corte Costituzionale per
la decisione in merito.
6. La Corte costituzionale “decide di non decidere”
Con sentenza n. 163 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 322 c.2 c.p., sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Il Giudice delle Leggi riconosce che il problema
centrale sta nel difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici contenute nel titolo III del
codice penale, concernenti l’amministrazione della giustizia ed il nuovo assetto processuale
introdotto dal codice di rito del 1988 In particolare, tendo a rammentare che la fattispecie di “falsa
perizia o interpretazione” (art. 373 c.p.) non è stata interessata da alcun intervento di adeguamento
sistematico, con la conseguenza che attualmente risulta applicabile al perito nominato dal giudice
ma non al consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ex art. 359 c.p.p. Infatti, mentre in
precedenza, sotto il rito c.d. “inquisitorio” vi era una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte
in contraddittorio ed i risultati delle indagini condotte dalla pubblica accusa, il passaggio ad un rito
c.d. “accusatorio” ha, sin da subito, evidenziato notevoli vuoti di tutela anche per altre circostanze1.
La Corte Costituzionale dopo aver illustrato la “soluzione innovativa” adottata nell’ordinanza di
remissione, ha ritenuto di non poter condividere le conclusioni delle Sezioni Unite, là dove non si
è ritenuto applicabile nel caso in esame l’art. 377 c.p. con riferimento all’art. 372 c.p. per essere il
contenuto degli accertamenti eseguiti nel caso di specie dal consulente tecnico del pubblico
ministero di natura valutativa. Infatti tali accertamenti riguardavano nella specie l’idoneità
dell’addestramento del pilota dell’aereo schiantatosi nell’aeroporto di Linate, e una simile indagine,
non poteva prescindere da un’analisi di natura oggettiva, relativa al tipo di addestramento ricevuto
dal pilota ovvero del complesso di attività di apprendimento, teoriche e pratiche, da lui realizzate.
Trattandosi dunque di un accertamento di carattere oggettivo e non valutativo, non vi erano
ragioni per non applicare l’art. 377 c.p. con riferimento all’art. 372 c.p. o, eventualmente, all’art.
371bis c.p. Per altro, la Corte Costituzionale ha osservato come la pronuncia di incostituzionalità
dell’art. 322 c.2 c.p. non avrebbe comunque garantito il ripristino del principio di eguaglianza ri-
1 Come esempio la Corte riporta quello delle persone informate sui fatti che rendano dichiarazioni di fronte al pubblico ministero e alle quali, certamente, nel caso di dichiarazioni mendaci, non risulta applicabile il delitto di falsa testimonianza di cui all’art. 372 c.p. Al fine di colmare la lacuna, con il D.L. n. 306/1992 è stato introdotto l’art. 371bis c.p., rubricato “false informazioni al pubblico ministero” e ancora, per quanto concerne le false dichiarazioni rese al difensore nel corso delle indagini difensive, la l. n. 397/2000 ha inserito l’art. 371ter c.p.
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-chiesto dalle Sezioni Unite. Infatti bisognava ricordare come le pene previste per il delitto di false
informazioni al pubblico ministero (reclusione fino a quattro anni) sono sensibilmente inferiori a
quelle previste per falsa testimonianza (reclusione da due a sei anni): tale divario sanzionatorio si
ripercuote inevitabilmente anche sull’art. 377 c.p., che prevede, nel caso di subornazione, la
riduzione di entrambe le pene dalla metà ai due terzi. Il legislatore, dunque, coerentemente con
l’impianto accusatorio in vigore, ha considerato meno grave la mendacità di una dichiarazione resa
all’organo dell’accusa rispetto a quella resa al giudice del dibattimento e ciò perché il pubblico
ministero è una parte del processo e, di regola, gli elementi dello stesso raccolti fuori dal
contraddittorio non hanno dignità di prova nel processo. La stessa logica imponeva, allora, che le
pene previste per la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero, in ipotesi punita
dall’art. 322 c.2 c.p., fossero sensibilmente inferiori rispetto a quelle stabilite per la medesima
condotta posta in essere nei confronti del perito e punita a norma degli artt. 377 e 373 c.p., posto
che il perito è un ausiliario del giudice e pertanto portatore di un sapere tecnico acquisito dal
giudice in dibattimento. In caso contrario si sarebbe ritornati ad un modello inquisitorio, nel quale
gli elementi raccolti in fase di indagine e quelli raccolti nel dibattimento avevano il medesimo
valore. La Corte Costituzionale inoltre rileva come nel caso in cui il consulente tecnico ponga in
essere una attività di accertamento che postuli sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi, il
soggetto che offra o prometta denaro al consulente dovrebbe essere chiamato a rispondere di due
reati in concorso formale: del delitto di cui all’art. 377 c.p., per la parte che ha ad oggetto elementi
oggettivi, e del delitto di cui all’art. 322 c.2 c.p., per la parte che ha ad oggetto elementi valutativi;
un esito questo che, oltre ad apparire incongruo, non poteva essere rimosso dall’ipotetico
accoglimento della questione di costituzionalità, che mirava ad incidere unicamente sul trattamento
sanzionatorio dell’art. 322 c.2 c.p. e non già sulla duplicazione della risposta punitiva per il
medesimo fatto.
7. La qualificazione finale delle Sezioni Unite
A questo punto, la “parola” tornava nuovamente alle Sezioni Unite, chiamate a misurarsi, in
definitiva, con tre alternative: 1) confermare l’inquadramento del fatto concreto come istigazione
alla corruzione; 2) sollevare una nuova questione di legittimità (esposta a mio parere ad una nuova
declaratoria di inammissibilità senza addurre nuove motivazioni); 3) rivedere, anche alla luce dei
rilievi della Corte Costituzionale, le conclusioni in punto di non sussumibilità del fatto in esame
all’ipotesi delittuosa dell’intralcio alla giustizia. In prima battuta, sempre le Sezioni Unite, ripercor-
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-rono le modifiche di cui è stato oggetto, nel corso del tempo, l’art. 377 c.p. evidenziando come
prima il problema qualificatorio della condotta allettatrice del consulente tecnico del p.m. sia
scaturito da un difetto di adeguamento delle norme in materia di delitti contro l’amministrazione
della giustizia, di cui al codice penale del 1930, al rinnovato assetto processuale introdotto dal
codice di rito del 1988. In particolare, l’art. 377 c.p., modulato sull’impianto inquisitorio del coevo
codice di procedura, avrebbe denunciato la sua inadeguatezza una volta venuta meno, con il
passaggio ad un sistema di tipo accusatorio, la sostanziale equiparazione tra prove raccolte in
contraddittorio e risultasti delle indagini dell’accusa. L’opera legislativa di riallineamento dei delitti
in questione al mutato quadro processuale, che pure conosceva tappe importanti, segnatamente nel
1992 e nel 2000, non veniva portata a compimento, restando ad essa estranea la figura del
consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ex art. 359 c.p.p., consulente non più
equiparabile al perito nominato dal giudice e, di conseguenza, non annoverabile tra i soggetti attivi
del delitto di falsa perizia ex art. 373 c.p. Da qui il precipitato della non ascrivibilità dell’offerta o
promessa indirizzata al consulente tecnico del p.m., con lo scopo di orientarne gli esiti della
consulenza, all’ambito di operatività dell’art. 377 c.p. nella parte in cui fa riferimento al “delitto-
fine” di cui all’art. 373 c.p. A questo punto, le Sezioni Unite procedono ad accertare che la
subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero non sia punibile a diverso titolo,
all’uopo valorizzando non già il richiamo alla falsa perizia contenuto nell’art. 377 c.1 c.p., quanto
quello della falsa testimonianza e delle false informazioni al pubblico ministero (art. 372 e 371bis
c.p.). La verifica ha esito positivo in considerazione del fatto che il consulente di cui si discute,
sentito in dibattimento nelle forme dell’esame testimoniale e, ancora prima, eventualmente,
chiamato a rendere dichiarazioni al p.m. che l’ha nominato, ben potrebbe essere indotto, a mezzo di
offerta o di promessa di denaro o altra utilità, ad “affermare il falso e negare il vero”. E non c’è
dubbio, ad avviso delle Sezioni Unite, che sul consulente tecnico del pubblico ministero incomba
un dovere di verità: egli, infatti, ancorchè chiamato a prestare un’attività di ausilio ad una “parte”
del processo, presenterebbe tratti peculiari rispetto al consulente tecnico chiamato a collaborare con
la parte privata, “ripetendo dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati”.
Del resto, che il consulente tecnico del p.m. sia esposto alle conseguenze penali previste, in caso di
false dichiarazioni, dall’art. 372 c.p. o, in sede di indagini, dall’art. 371bis c.p. è confermato da
elementi di ordine testuale e sistematico sopra enunciati. Le Sezioni Unite confermano, poi
l’impostazione, già abbracciata nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, circa la
problematica posta dal fatto che, nel caso di specie, “il consulente tecnico del pubblico ministero
non si era ancora, per cosi dire ”trasformato” in testimone, non essendo stato citato come tale o
come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice”. In
altre parole, a motivo delle caratteristiche esibite, il consulente tecnico, con la nomina ad opera del
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pubblico ministero, rivestirebbe già una precisa veste processuale della funzione allo stesso
assegnata. Ancora le Sezioni Unite, anche alla luce dei rilievi operati dal Giudice costituzionale,
rimeditano le conclusioni cui erano approdate in prima battuta circa la natura soggettiva delle
opinioni tecnico-scientifiche richieste al consulente, la cui natura sarebbe stata d’ostacolo
all’integrazione degli estremi del delitto di intralcio alla giustizia. A supporto della diversa opzione
ermeneutica i giudici di legittimità evidenziano che, in base ad un orientamento giurisprudenziale
significativamente esteso, quando intervengano in contesti che implicano l’accettazione di
parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati
valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi vero o falsi. Le Sezioni
Unite concludono che il consulente del pubblico ministero va equiparato al testimone anche
quando formuli giudizi tecnico-scientifici, sicchè il caso in esame (in cui il consulente tecnico del
p.m. era chiamato ad accertamenti che postulavano sia il riscontro di dati oggettivi sia profili
valutativi), deve essere inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l’offerta
(rifiutata) nel combinato disposto di cui agli art. 377 e 371bis c.p. (intralcio alla giustizia per far
rendere false dichiarazioni al pubblico ministero) o in quello di cui agli art. 377 e 372 c.p. (intralcio
alla giustizia per far rendere falsa testimonianza). Alla fine dunque, la Corte di Cassazione, nella
sua massima composizione, ha enunciato il principio di diritto seguente: “L’offerta o la promessa
di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata ad influire sul
contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 c.p. in
relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371bis o 372 c.p.”
8. Art 377 c.p.: il reato di intralcio alla giustizia
Art. 377 codice penale: Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazione dal difensore nel corso dell’attività investigativa o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371bis, 371ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi ridotte della metà ai due terzi.
La stessa disposizione si applica qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa.
Chiunque usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, soggiace, qualora il fine non sia conseguito, alle pene stabilite in ordine ai reati di cui al medesimo comma, diminuite in maniera non eccedente un terzo.
Le pene previste ai commi primo e terzo sono aumentate se concorrono le condizioni di cui all’articolo 339.
La condanna importa l’interdizione dai pubblici uffici.
E’ utile preliminarmente ricordare che il delitto di intralcio alla giustizia esiste nel nostro ordina-
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-mento dal marzo 2006. Tale reato è stato infatti introdotto dalla legge 16 marzo 2006 n. 46 di
ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine
organizzato transnazionale adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio
2001, che, all’art. 23 invita gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la c.d. obstruction of
justice, e cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi
considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove
anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione, ovvero
consistenti nell’uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l’esercizio di doveri
d’ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi
reati. Per adeguarsi a questa indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva
già una norma, l’art. 377 c.p., che puniva l’offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del
testimone e che era rubricata come “subornazione”, con l’art. 14 della citata legge n. 146, è
intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già esistente delitto, appellandolo con il
termine richiesto dalla convenzione internazionale (e cioè come “intralcio alla giustizia”) e
aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le condotte di
violenza e minaccia finalizzati a far deporre falsamente, prima non riconducibili nello spettro
applicativo della norma (ma eventualmente punibili ex art. 611 c.p.). La punibilità delle condotte di
intralcio alla giustizia è disposta in deroga all’art. 115 c.p. che – come già ripetuto in precedenza –
sancisce il principio secondo cui è di regola priva di rilevanza penale l’istigazione non accolta o, in
ogni caso, non accompagnata da successiva commissione del reato: siffatta deroga è secondo il
legislatore giustificata dall’esigenza di apprestare una tutela avanzata ad un interesse di particolare
rilevanza, qual è quello di evitare interferenze dirette ad incidere negativamente sulla sincerità e
completezza delle testimonianze e delle perizie con possibile danno dell’amministrazione della
giustizia. Ci troviamo dunque in presenza di un reato di pericolo. Soggetto attivo può essere
chiunque, quindi anche l’imputato o la parte nel procedimento civile. La condotta tipica consiste in
una vera e propria istigazione a commettere una falsità: non sarebbe invece sufficiente il solo invito
a non deporre, anche se accompagnato da un’offerta di denaro1. La seconda forma è data dall’uso di
violenza o minaccia per ottenere false dichiarazioni ad un pubblico ministero o al difensore ovvero
falsa testimonianza, false perizie o interpretazioni. Quanto ai concetti di violenza o minaccia sono
adoperati nel senso di cui alla fattispecie dell’art. 610 c.p.: e cioè rispettivamente ad una coazione
del volere e prospettazione di un male futuro ed ingiusto. Le condotte incriminate devono possedere
il requisito dell’idoneità, e cioè devono, per un verso, essere in grado di subornare e, per altro verso,
di coartare il soggetto2. Nonostante l’eterogeneità delle condotte il reato sembra essere unico
perché la fattispecie incriminatrice ruota essenzialmente sulla finalità di intralciare la giustizia
1 Cassazione Penale, Sez. II, 24/10/1970, n. 1972.2 G.FIANDACA – E.MUSCO, Diritto penale Parte speciale, vol. I, Torino, 2012, pag. 401 ss.
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(c.d. norma a più fattispecie). Il delitto di subornazione mira a tutelare la genuinità processuale di
quanti sono chiamati a riferire sui fatti di causa davanti all’autorità giudiziaria, posizione che
potrebbe venire inevitabilmente ed indebitamente condizionata e compromessa da pressioni esterne,
rappresentate dall’offerta o anche dalla promessa di qualsivoglia utilità, anche non
patrimonialmente apprezzabile, per indurre il soggetto subornato a commettere i reato di falsa
testimonianza (art. 371 c.p.) oltre che di falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.). Il dolo è
specifico perché il soggetto non solo deve avere la coscienza e volontà dell’offerta o promessa, ma
deve altresì perseguire il fine (che non è necessario si realizzi) di indurre o di coartare il testimone,
o perito o interprete alla falsità. Il reato si consuma al tempo della realizzazione della condotta
strumentale (“offre o promette denaro o altra utilità”, “usa violenza o minaccia”)3. Il tentativo si
potrebbe ad esempio ipotizzare nel caso di danaro inviato a scopo di subornazione, che però non
giunge al destinatario. Alla effettiva ammissibilità di esso può tuttavia, anche questa volta, essere di
ostacolo il rilievo che si finirebbe con l’incriminare il tentativo di un tentativo. Il “nuovo” 4°
comma del delitto in esame prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale nell’ipotesi in
cui ricorrono le condizioni dell’art. 339: e cioè nel caso di violenza o minaccia commessa con armi
o da persona travisata o da più persone riunite o con scritto anonimo o in modo simbolico o
valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. E’
configurabile il reato di subornazione di teste, aggravato dalla qualità di pubblico ufficiale, e non
quella di tentata concussione, qualora il pubblico ufficiale, profittando della sua posizione, prospetti
al teste il conseguimento di un vantaggio altrimenti non conseguibile o conseguibile con maggiore
difficoltà.
9. Osservazioni e conclusione
A seguito della questione giurisprudenziale affrontata non rimane dunque, a mio parere, che
affidarsi all’intervento del legislatore, auspicando – (quanto prima) anche se con un pizzico di
scetticismo – che lo stesso ponga rimedio a quella che risulta essere una chiara violazione del
principio di uguaglianza sancito in primis dalla Costituzione, ma che ha radici piuttosto lontane,
per il fatto di non aver ancora proceduto (il legislatore), a distanza di più di venticinque anni
dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ad un generale ripensamento dei delitti
contro l’amministrazione della giustizia volto a rendere compatibili i delitti di cui al titolo III del
codice penale con il mutato assetto processuale. Si potrebbe, ad esempio, ripartire dallo schema di
legge delega per un nuovo codice penale, elaborato nei primi anni 90’ dalla c.d. Commissione
3 D. BRUNELLI, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Perugia 2010, pag 88-89.
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Pagliaro1, che, rimodellando l’intero titolo dei delitti contro l’amministrazione della giustizia,
prevede un capo dedicato appositamente ai “reati contro l’integrità e la veridicità delle prove”, al
cui interno viene inserito il delitto di “falsa consulenza commessa dal perito e dal consulente
tecnico nella fase delle indagini preliminari”. Una norma ad hoc quindi, ben precisa, che vada a
punire adeguatamente un comportamento corruttivo posto in essere non appena le due figure
vengano incaricate dal giudice o dalle parti di svolgere perizie e consulenze. Situazione che questa
volta “ha risolto” la giurisprudenza.
1 Per ulteriori approfondimenti si rimanda ad archivio storico del Ministero della Giustizia.