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Lezioni di
ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE ANIMALE
Corso di Laurea S.A.P.A.
Anno Accademico 2014-2015
Prof. Francesco Toteda
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PARTE PRIMA
CAP. I. PRINCIPI NUTRITIVI
1.1 Generalità
L’utilizzazione da parte dell’organismo dei principi alimentari, attraverso
fenomeni biochimici legati alla sua costituzione fisiologica, costituisce la nutrizione,
quel complesso vale a dire, di processi di scissione (catabolismo) e di sintesi
(anabolismo) d’ordine enzimatico e metabolico, a livello cellulare, che rappresentano
un attributo essenziale della materia vivente.
L’alimentazione, invece, interessa la scelta, la preparazione, la somministrazione
degli alimenti ed anche il loro studio per orientarne appunto la scelta; nonché
comprende l’atto della loro assunzione; o quando si tratti di animali in allevamento
anche la loro somministrazione: razionamento.
Dal punto di vista zootecnico l’alimentazione va vista come:
- fattore di esaltazione delle capacità produttive degli animali;
- fattore in grado di assicurare e conservare la pienezza della salute degli animali;
- fattore economico della produzione animale.
1.1.1 Alimentazione e benessere animale: il Regolamento CE sulla zootecnia
biologica resta l'unica normativa che considera rilevante per un intero settore
produttivo le regole del benessere animale, facendole rientrare fra le condizioni della
certificazione di qualità. Il fatto è, però, che il Regolamento contiene, su questo
argomento, solo indicazioni vaghe e di carattere molto generale. D'altra parte, forse,
non poteva essere che così, visto che per sua natura la questione del benessere
animale non può che essere affrontato indagando le condizioni in cui vive ciascuna
specie e trovando per ciascuna i cambiamenti da introdurre per migliorarle.
La prima delle normative europee che, seppure senza menzionarlo, affronta il tema
del benessere animale è stata la Convenzione europea sulla protezione degli animali
da allevamento, adottata a Strasburgo il 10 marzo 1976 e ratificata dall'Italia il 14
ottobre 1985 con la legge n. 629. Vi si legge tra l'altro che "Ogni animale deve
beneficiare di un ricovero, di un' alimentazione e di cure che - tenuto conto della
specie, del suo grado di sviluppo, di adattamento e di addomesticamento - siano
appropriate ai suoi bisogni fisiologici ed etologici conformemente all'esperienza
acquisita ed alle conoscenze scientifiche" .
Qualche anno più tardi si cominciò, invece, a parlare delle "cinque libertà" che
devono essere garantite a tutti gli animali allevati. Nella loro più recente
formulazione, del Farm AnimaI Welfare Council britannico (1992), suonano così:
l) libertà dalla fame e dalla sete - con un facile accesso all'acqua e una dieta che
mantenga piena salute e vigore;
2) libertà dal disagio - con un ambiente appropriato che includa un riparo e una
confortevole area di riposo;
3) libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie - attraverso la prevenzione e rapide
diagnosi e trattamenti;
4) libertà di esprimere un comportamento normale - mettendo a disposizione spazio
sufficiente, attrezzature appropriate e la compagnia di animali della stessa specie;
5) libertà dalla paura e dall'angoscia - assicurando condizioni e trattamenti che
evitino la sofferenza mentale.
Nel corso dell'evoluzione, gli animali si sono dotati di metodi fisiologici e
comportamentali per affrontare le varie difficoltà che incontrano nel corso della loro
vita. Poiché tutti gli animali si sono evoluti in questo modo e ogni specie è adatta in
un modo particolare a un particolare ambiente, ogni definizione del benessere deve
tener conto dell'ambiente, della fisiologia e del comportamento specifico dell'animale
preso in considerazione. Il benessere di un animale è una condizione intrinseca
all'animale stesso; non è un insieme di valori assegnati all'animale dagli umani. Nel
corso della loro vita, gli animali possono incontrare difficoltà che vanno
dall'insignificante al rischio della vita. I singoli animali affrontano queste difficoltà
con successo variabile, a seconda delle condizioni ambientali, fisiologiche e
comportamentali in cui si trovano ad agire. Il risultato può andare dal migliore, che
non ha alcun effetto avverso, al peggiore, che è la morte. Fra questi due estremi, il
benessere animale può variare da molto buono a molto cattivo.
Da queste considerazione deriva la seguente definizione di benessere: il benessere è
la condizione di un individuo in conseguenza dei suoi tentativi di affrontare i
problemi posti dal suo ambiente.
Gli animali da allevamento hanno un insieme di bisogni simili a quelli dei loro
antenati selvatici, sebbene alcuni bisogni siano stati modificati nel corso della
domesticazione. È ovvio che esigenze fondamentali, come quelle di cibo, acqua e
ricovero, non sono cambiate nel passaggio dall'animale selvatico a quello domestico.
Ma può essere meno ovvio che la spinta con cui gli animali selvatici si esprimono nei
comportamenti associati alla riproduzione, alla ricerca del cibo, dell' acqua e del
riparo sia ancora presente negli animali domestici.
Come il benessere, anche il bisogno è una caratteristica intrinseca dell'individuo ed è
così definito: un bisogno è un'esigenza, che deriva dalla biologia dell'animale, di
ottenere una risorsa particolare o di rispondere a un particolare stimolo ambientale
o organico.
Misurazione del benessere - La conoscenza dei punti critici dell' allevamento per il
benessere degli animali allevati è una necessità per gli operatori, per una corretta
applicazione della legislazione (ad esempio per i suini la Direttiva 91/630 CEE
recepita con D. Lgs. 30 dicembre 1992 n. 534, e sue modifiche - Direttiva
200l/88/CE -) e per fornire al consumatore un'immagine dell'allevamento e del
prodotto che sia di livello adeguato alla richiesta di alimenti non solo sicuri e
tracciabili (caratteristiche che devono ormai ritenersi un prerequisito), ma derivanti
da processi produttivi di sempre più alto livello qualitativo.
Il benessere può essere valutato attraverso misurazioni del comportamento, della
fisiologia, della salute e della produzione. Sebbene, in alcuni casi una singola
misurazione possa dare un’indicazione dello stato di un animale, di solito è
necessario valutare diversi indicatori per ottenere una valutazione chiara.
Comportamento: i test di preferenza consistono nel mettere un animale di fronte a
delle scelte, per esempio fra differenti cibi o sistemi di stabulazione. La forza di una
preferenza determinata se può essere vista come un bisogno; ciò può essere valutato
registrando l'entità dei comportamenti anormali e degli stress fisiologici che si
determinano quando la preferenza espressa viene negata, e misurando le energie che
l'animale è disposto a spendere per ottenerla.
I test di avversione misurano la forza dell'avversione di un animale a un dato stimolo.
Sono di qualche utilità nel misurare gli effetti dei sistemi di stabulazione sugli
animali, ma i loro risultati possono essere confusi dagli effetti dell'apprendimento.
Deprivazione e motivazione. Gli animali permangono motivati nell'espletare certi
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comportamenti anche se ciò viene loro impedito dall'ambiente fisico in cui si
trovano. Ciò si traduce in modelli di comportamento anormali in cui l'animale espleta
i comportamenti motivati in una forma o in un contesto inusuali. La forza della
motivazione può essere valutata misurando quanto l'animale è disposto a "pagare", in
energia o tempo, per espletare quel comportamento.
Le stereotipie sono sequenze di movimenti ripetuti e relativamente invariati che non
hanno alcuno scopo evidente. Si sviluppano quando l'animale è frustrato in modo
acuto o cronico e indicano che è in difficoltà nell'affrontare i problemi posti dal suo
ambiente e che il suo benessere è povero.
Fisiologia. La produzione di cortisolo/corticosterone avviene in diverse situazioni di
difficoltà ed è utile nella valutazione del benessere. Poiché questi ormoni vengono
prodotti anche in situazioni come il corteggiamento o l'accoppiamento, che non sono
dannose per l'animale, sono essenziali per ottenere altre informazioni riguardo lo
stato dell'animale quando vengono usati per valutare il benessere dell'animale.
Frequenza cardiaca: può essere usata per valutare l'effetto di problemi a breve
termine, congiuntamente con altre misurazioni del comportamento.
Risposte immunitarie: Diverse misure dell'attività del sistema immunitario possono
essere usate per misurare lo stress.
Salute. Il tasso di mortalità è un indicatore grossolano ma inequivocabile di benessere
povero. I tassi di morbilità sono anche loro degli indicatori dello stato di benessere
del branco, ma sono meno precisi dei tassi di mortalità.
Performance. Bisogna fare attenzione nell'usare la performance come un indicatore
di benessere. Una sostanziale riduzione nel tasso di crescita di un vitello, per
esempio, è un indice di benessere povero, ma un buon tasso di crescita non è
necessariamente un indice di benessere buono. I giovani mammiferi, infatti, possono
continuare a crescere rapidamente quando il loro benessere è povero.
Va considerato che la qualità e sicurezza degli alimenti di origine animale passa
anche attraverso il benessere animale. Ormai da decenni ci si è resi conto che le
patologie degli animali da reddito possono avere importanti conseguenze
sull'alimentazione umana e su qualità e sanità dei prodotti di origine animale.
Si è visto inoltre che, oltre ad occuparsi delle condizioni igieniche e sanitarie degli
animali, è necessario guardare anche alle loro esigenze biologiche ed in generale al
loro benessere. Per questi motivi sono state emanate numerose leggi e regolamenti
per attuare una attenta sorveglianza su tutta la vita degli animali da reddito che va
dall'origine della loro alimentazione alla fase di raccolta dei loro prodotti.
Bisogna considerare che un animale che non vive nel benessere si ammala più
facilmente e può succedere che:
a) l’animale ammalato viene trattato con farmaci i cui residui possono passare nel
latte, nelle uova o nella carne che consumiamo;
b) non viene curato e allora saranno gli agenti patogeni a inquinare i prodotti che
consumiamo.
Da un punto di vista alimentare, le strategie adottabili per migliorare il benessere
animale riguardano:
- allevamento al pascolo in quanto permette la ginnastica funzionale;
- razioni sufficienti ai fabbisogni, in rapporto allo stato fisiologico, età, livello
produttivo;
- adozione di razioni bilanciate in tutti i principi nutritivi, compresi minerali e
vitamine;
- somministrazione di probiotici, per migliorare la flora ruminale e intestinale;
- adeguati spazi alle mangiatoie per evitare competizione tra animali.
1.1.2 Alimentazione e qualità dei prodotti
L’agricoltura e la zootecnia hanno da sempre avuto il compito di soddisfare i
fabbisogni alimentari dell’uomo e, mentre, in passato la politica agricola ha
determinato i livelli produttivi in condizioni di eccedenza, recentemente si è
affermato il concetto di multifunzionalità agricola (metodi produttivi che devono
soddisfare i bisogni sia delle generazioni attuali che future) la quale si correla
positivamente alla qualità delle risorse ambientali, del paesaggio agrario e delle sue
produzioni tradizionali e tipiche, dalle iniziative agrituristiche e dalle attività sportive
che si possono svolgere in ambito rurale. Ciò è dovuto anche al fatto che, prima il
consumatore chiedeva, soprattutto, di soddisfare le proprie esigenze nutritive a basso
prezzo, oggi, egli si attende dagli alimenti anche specifiche caratteristiche, quali: il
gusto, il valore nutrizionale, la freschezza, la sanità, la genuinità, la varietà, la novità,
la comodità d'uso. Peraltro, in un mercato globalizzato, per competere sono
necessarie produzioni caratterizzate da elevati livelli qualitativi e di sicurezza.
I prodotti di origine animale rappresentano in Italia un terzo della produzione
vendibile dell'agricoltura. L'incidenza maggiore è rappresentata dal latte (30%),
seguita dalla carne bovina (25%), avicunicola (20%) e suina (16%).
Nella zootecnia moderna, l'alimentazione costituisce un punto chiave nella gestione
dell'allevamento in quanto, da un lato, rappresenta il principale costo di produzione
(oltre il 50%) e dall'altro condiziona in larga misura le performance produttive, la
salute, la fertilità degli animali, la qualità igienico-sanitaria, nutrizionale e
organolettica di una derrata alimentare nonché l'inquinamento ambientale.
Le tecniche di razionamento sono condizionate tuttavia anche da altri fattori, tra cui
genotipo e modalità di stabulazione, che a loro volta condizionano quanti-
qualitativamente le produzioni. Gli allevatori nel produrre devono tener conto:
a) delle caratteristiche degli alimenti di origine animale;
b) produzione secondo criteri di massima eco-compatibilità;
c) provenienza da allevamenti in grado di assicurare un adeguato benessere animale;
d) basso costo.
Relativamente alle caratteristiche degli alimenti esse riguardano: elevato livello di
sicurezza; buona qualità, appetibilità; adeguate prerogative nutrizionali, anche dal
punto di vista salutistico; rispondenza alle esigenze tecnologiche della preparazione
di alimenti convenzionali (es. formaggio grana, prosciutto di Parma o di S. Daniele,
ecc.); utilizzabilità per la preparazione di cibi pronti e porzionati; facile
conservazione.
1.1.3 Alimentazione e impatto ambientale
L’allevamento animale, soprattutto, nelle zone montane e pedemontane, oltre che per
la funzione economica deve essere considerato per il suo fondamentale ruolo nella
gestione e conservazione del territorio attraverso: a) la razionale utilizzazione delle
risorse foraggere, b) la limitazione del rischio d’incendi boschivi, oggi largamente
diffusi in queste zone, c) azione indiretta contro l’erosione in quanto utilizzando
particolari essenze foraggere ostacola lo scorrimento di masse nevose, d)
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manutenzione del territorio da parte dell’allevatore mediante lo sfalcio dei prati e la
pulizia di fossi e canali.
Da un punto di vista ecologico non va trascurato il ruolo delle capre, le quali
adottano una modalità di assunzione alimentare molto selettiva e, rispetto agli altri
ruminanti, con il diverso modo di utilizzare le risorse foraggere dovrebbe consentire
di limitare la vegetazione indesiderata quali essenze spinose e arbustive, di
migliorare i cedui abbandonati attraverso un’adeguata gestione e di rispettare le
risorse boschive anche se tale ruolo è spesso ostacolato o messo in dubbio da storiche
leggi forestali (R.D.L. 3267/1923 e R.D. 1126/1926).
Se l’utilizzo e la gestione dei reflui zootecnici non vengono effettuati correttamente, i
reflui possono inquinare:
- l’aria (ammoniaca, idrogeno solfato, cattivi odori, ecc.). Una considerazione a parte
merita la produzione di metano di origine animale (soprattutto ruminanti) il quale
contribuirebbe all’effetto serra, considerando che il suo effetto sul riscaldamento
dell’atmosfera, a parità di peso, è 70 volte superiore a quello della CO2. Per unità di
prodotto utile un sistema di allevamento estensivo ha un effetto ambientale, nella
globalità, più rilevante di uno intensivo. Una produzione di 240.000 kg di latte
all’anno, ottenuta da 60 vacche che producano 4.000 kg di latte/capo/anno, o da 24
vacche con 10.000 litri, nel primo caso libererà nell’atmosfera 6.570 kg di metano,
nel secondo caso solo 3.500.
- l’acqua superficiale e di falda e il suolo: l’alta concentrazione di azoto, fosforo e
alcuni oligoelementi (rame, zinco, selenio, ecc.), nelle deiezioni animali non più
distribuite periodicamente sui terreni nell’ambito dei normali cicli agrari, ha creato
problemi nelle aree ad alta densità di allevamento, per rischi di contaminazione delle
acque superficiali e profonde, con compromissione della potabilità e aumento del
grado di eutrofizzazione (fosforo, nitrati, sali di rame, ecc.), del suolo (metalli
pesanti, ecc.)
Per tentare di limitare o prevenire i possibili danni ambientali derivanti dall’attività
zootecnica il legislatore è intervenuto sia a livello territoriale che a livello di unità
produttiva. L’orientamento della legislazione vigente è basato sul principio di “chi
inquina paga” e ciò è confermato dalla Direttiva CEE 2004/35 la quale prevede che,
tutti i responsabili di attività produttive che, per comportamento doloso o colposo,
causano un danno alla specie, agli habitat naturali protetti, alle acque od al terreno,
potranno essere chiamati a corrispondere i costi di riparazione del danno arrecato.
La scarsa efficienza della macchina animale è la causa principale dell’impatto
ambientale. Solo il 20-30% delle proteine e dei mangimi e dei foraggi è trasformato
in proteine corporee o dei prodotti animali (latte, uova), lo stesso o poco più dicasi
per il fosforo. In altre parole significa che circa due terzi dell’azoto e del fosforo
apportato con gli alimenti sono dispersi nel suolo e nelle acque (circa il 20%
dell’azoto escreto, può essere volatilizzato come ammoniaca). Per alcuni elementi
minerali, l’utilizzazione è inferiore addirittura al 10%, con una dispersione
indesiderata nell’ambiente del 90%. Una razionalizzazione delle tecniche alimentari
può ridurre del 25-40% l’impatto ambientale negli allevamenti intensivi.
La messa in atto di strategie di intervento che contribuiscono ad una riduzione delle
quantità e dei volumi di reflui prodotti potrebbe avere un ritorno in termini
economici e gestionali. Tra queste ricordiamo: tipo di stabulazione e di
pavimentazione; tipo e quantità di lettiera; razionamento idrico compatibilmente con
il rispetto delle norme sul benessere animale; selezione genetica e, soprattutto, vanno
considerate le strategie alimentari le quali possono avere effetti positivi sulla
riduzione degli effluenti zootecnici; si tratta di ottimizzare il processo di
utilizzazione degli alimenti, attraverso la scelta del tipo di alimentazione e del
corretto apporto energetico-proteico per consentire di coprire gli specifici fabbisogni
alimentari, riducendo gli sprechi e migliorando le rese.
Per intervenire nel modo più opportuno sul miglioramento delle caratteristiche degli
effluenti è necessario individuare le cause principali che, in animali in ordinarie
condizioni di benessere e salute, agiscono a livello metabolico sul rilascio degli
elementi nutritivi forniti con la dieta e, in particolar modo, per quanto riguarda le
escrezioni di azoto, fosforo e metalli pesanti.
Le escrezioni azotate sono principalmente riconducibili ad uno squilibrato apporto
proteico ed aminoacidico, alla differente digeribilità degli aminoacidi forniti con la
dieta e, quindi, alla loro differente disponibilità temporale ed al non corretto apporto
energetico; inoltre, vi possono essere dei fattori antinutrizionali che limitano la
disponibilità delle fonti azotate dell’alimento. Soprattutto, nell’alimentazione dei
monogastrici, per massimizzare la quota di azoto trattenuto rispetto a quello ingerito
è utile:
- utilizzare la cosiddetta proteina ideale (pool di aminoacidi essenziali), peraltro,
considerando che gli aminoacidi rispetto alle proteine sono più digeribili (> 95%) e
che la disponibilità degli aminoacidi di sintesi non si abbia in momenti diversi
rispetto a quelli che si originano dalla degradazione delle proteine alimentari e ciò
può essere evitato con somministrazioni frazionate durante la giornata, alimentazione
ad libitum, aminoacidi a lento rilascio.
- le escrezioni azotate possono essere ridotte anche aumentando la digeribilità degli
alimenti (utilizzo di alimenti ad elevata digeribilità, trattamenti tecnologici e/o
enzimatici);
Nei ruminanti, per valutare il corretto fabbisogno proteico bisogna riferire
l’apporto proteico in termini di proteina digeribile a livello di intestino (PDI); per
favorire la sintesi proteica ruminale e l’assorbimento intestinale è necessario:
- somministrare quantità sufficienti di sostanza organica fermentescibile, un giusto
apporto di NH3, aminoacidi e peptidi, fornire all’animale attivatori delle
fermentazioni quali isoacidi e probiotici, somministrare principi nutritivi rumino
protetti (proteine, lipidi, aminoacidi); inoltre, bisogna considerare che i foraggi
devono essere di buona qualità ed è consigliabile l’alimentazione per fasi.
Il fosforo è un elemento fondamentale nella nutrizione animale, spesso, le
integrazioni suggerite risultano superiori del 40-45% rispetto ai reali fabbisogni e
possono interferire con la disponibilità di altri principi nutritivi come osservato in
polli e suini. All’elevata escrezione fosforica (50-80% del fosforo ingerito) concorre,
soprattutto, la bassa digeribilità (specie nei monogastrici, in quanto nei poligastrici il
P viene demolito dai microrganismi ruminali) del fosforo somministrato, la quale
può essere aumentata mediante:
a) uso di enzimi specifici (fitasi) che, indirettamente, aumentano anche la
disponibilità di altri minerali e di azoto;
b) macinazione più spinta degli ingredienti;
c) utilizzo di varietà a basso contenuto di fitati;
d) ricorso all’alimentazione per fasi.
Per quanto riguarda l’escrezione dei metalli pesanti (rame e zinco) il problema
riguarda soprattutto i suini, dove vengono utilizzati in dosi eccessive per sfruttarne
l’effetto auxinico e considerando la loro bassa disponibilità che è condizionata dal
tipo di sale impiegato e dalla presenza di agenti chelanti quali i fitati nonché dalla
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possibile interazione con altri minerali come osservato per il calcio. È possibile
ridurre l’apporto di questi elementi ricorrendo ad integrazioni con molecole
organiche ed inorganiche che presentino buone biodisponibilità, come osservato per
i solfati, carbonati e cloruri di rame e di zinco, la polvere metallica di zinco, la zinco-
metionina e delle forme chelate ad aminoacidi e peptidi. Non meno importante ai fini
di una maggiore ritenzione di nutrienti e, quindi, una minore loro escrezione è lo
sviluppo delle conoscenze sulle proprietà associative degli alimenti.
Negli ultimi decenni si sono registrati notevoli sviluppi nel campo dell'alimentazione
animale, sia per quanto riguarda la produzione e la lavorazione dei mangimi, sia per
quanto riguarda i controlli per garantirne la sicurezza e la corretta utilizzazione.
1.1.4 Alimentazione qualità e sicurezza dei prodotti animali
Gli alimenti di origine animale dovrebbero essere sicuri e, quindi, liberi da:
a) Antibiotici - Gli antibiotici vengono, comunemente, usati in campo zootecnico
per prevenire e curare le malattie batteriche nonché per favorire l'incremento
ponderale. È indispensabile che essi siano impiegati con la massima cautela e
quando sono effettivamente necessari, e mai nel periodo immediatamente precedente
la macellazione, in quanto eventuali residui negli alimenti (carne, latte, uova)
possono provocare patologie a carico del consumatore: a) modificazione della flora
microbica intestinale, b) fenomeni di ipersensibilità, c) induzione di ceppi microbici
antibiotico-resistenti, d) effetti tossici a carico di alcuni organi. Gli stessi
inconvenienti si possono verificare sull’animale stesso.
b) Estrogeni e tireostatici – Generalmente vengono utilizzati per migliorare
l’incremento ponderale. In Italia, l'art.1 del D.M. 15-1-1969 vieta per gli allevatori sia
la detenzione sia la somministrazione agli animali sotto qualsiasi forma delle
sostanze ad azione ormonale quali estrogeni, androgeni, progestativi e simili e delle
sostanze ad azione ormonale quali tireostatici (tiouracilici) e simili. Comunque, la
presenza di eventuali residui di estrogeni nella carne potrebbe essere eliminata
interrompendo la somministrazione almeno una settimana prima della macellazione,
in quanto gli estrogeni vengono completamente eliminati con le urine e le feci dopo
circa 72-90 ore.
c) Pesticidi – sono sostanze utilizzate per combattere animali dannosi e funghi e di
cui gli animali possono contaminarsi mediante i foraggi e le acque. La presenza negli
alimenti è legata alla loro solubilità ed alla loro biodegradabilità. Da un punto di
vista igienico-sanitario costituiscono un problema quelle sostanze (cloro-derivati) che
provocano la formazione di residui negli alimenti senza indurre negli animali
manifestazioni rilevabili e, quindi, suscettibili di sfuggire ai controlli usualmente
adottati. I residui nell’uomo possono provocare manifestazioni ad andamento
cronico: si accumulano e danno origine a patologie tumorali.
d) Altre sostanze - numerose altre sostanze che, pur non essendo direttamente od
esclusivamente impiegate in campo agro-zootecnico, possono rintracciarsi negli
alimenti come conseguenza di una contaminazione degli animali quali: metalli in
zone minerarie; sostanze riversate nell'ambiente come materiale di scarico oppure in
conseguenza di fenomeni accidentali.
e) Agenti patogeni - Gli organi di controllo devono accertare anche che gli animali
non siano contaminati da agenti (germi), con diversi gradi di patogenicità per gli
animali, che sono capaci di moltiplicarsi e talvolta di elaborare tossine negli alimenti.
I prodotti contaminati possono provocare nel consumatore sindromi di gravità
diversa, ma sempre caratterizzate da evidenti disturbi gastro-enterici (tossinfezioni
alimentari o malattie alimentari acute). Fra questi vanno annoverati:
- Salmonelle: possono praticamente contaminare tutti gli alimenti di origine animale,
anche se i prodotti più spesso responsabili di tossinfezioni alimentari sono le carni (in
particolare di suino ed il pollame) le uova e derivati. Le salmonelle resistono bene ed
a lungo nei prodotti congelati; vengono uccise, invece, dai normali sistemi di
pasteurizzazione in quanto muoiono dopo 60' a 55°C e dopo 15-20' a 60°C.
- Escherichia coli: germe gram-negativo, asporigeno, aerobio, ospite abituale
dell'intestino dell'uomo e degli animali. Ha caratteristiche di resistenza agli agenti
chimici e fisici, sostanzialmente, sovrapponibili a quelle delle salmonelle. Alcuni
sierotipi sono enterotossici e, se ingeriti con gli alimenti, possono provocare una
forma morbosa a carattere gastroenterico. Praticamente tutti gli alimenti possono
essere contaminati da questo germe.
f) Tossine – in particolar modo le aflatossine le quali vengono legate all’insorgenza
di tumori. Le aflatossine sono di natura microbica (micotossine) prodotte da diverse
specie di muffe appartenenti al genere Aspergillus. Possono contaminare diversi
prodotti quali mais, grano, soia, normalmente usati nell’alimentazione del bestiame.
Generalmente, si sviluppano in particolari condizioni stressanti per le piante, come
l’alta temperatura accompagnata da elevato tasso di umidità e da scarsità di acqua e
da errate pratiche agronomiche, come un’inadeguata concimazione del terreno. La
contaminazione delle muffe, iniziata in campo, prosegue ed aumenta durante la
permanenza dei raccolti in magazzino e durante il trasporto e lo stoccaggio delle
derrate. Nel mais, ad esempio, le muffe generano l’aflatossina B1 (ad attività
cancerogena per gli animali e per l’uomo).
L’alimentazione di animali in lattazione con mais “inquinato” porta alla
trasformazione nel sistema digestivo dell’aflatossina B1 in aflatossina M1, che come
tale passa nel latte prodotto e può avere effetto cancerogeno se assunta in grosse dosi
e per tempi prolungati.
In Italia, il contenuto medio di aflatossina B1 in cereali e prodotti derivati è 7,6 ppb
(parti per bilione), mentre il limite CEE è di 2 ppb. Alcuni paesi come Belgio e
Germania hanno fissato il limite a 0,5 mentre l’Austria addirittura a 0,05 ppb. Per il
latte il limite dell’aflatossina M1 (meno pericolosa della B1) è di 50 ppb.
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Gli studi della comunità scientifica hanno riguardato, soprattutto, la specie bovina, la
quale produce la più grossa fetta del mercato di latte per uso diretto e per la
trasformazione. Tuttavia, alcuni studi hanno interessato anche gli ovini ed in uno di
questi è stato messo in evidenza come al crescere del livello produttivo degli animali
(maggiore ingestione di alimento contaminato da aflatossina B1), la concentrazione
nel latte e nel siero delle pecore di aflatossina M1 rimanga pressoché costante, mentre
nella cagliata tale concentrazione tenda ad aumentare, dimostrandosi, cioè, l’enorme
pericolosità non solo per il latte ma anche per i formaggi prodotti, a partire da latte
inquinato.
Gli alimenti oltre che sicuri devono essere di buona qualità (uova pigmentate, latte
ricco in grassi e proteine) e negli ultimi anni molte strategie alimentari vengono
adottate per migliorare le caratteristiche qualitative degli alimenti di origine animale.
Nei Paesi industrializzati, particolare attenzione è stata posta alla qualità in termini di
miglioramento della frazione lipidica. Infatti, bisogna considerare che una dieta ricca
in PUFA (acidi grassi polinsaturi) riduce i livelli di colesterolo ematico, diminuisce
l’incidenza di malattie cardiovascolari e di alcune forme di tumore, mentre, è
benefica per il sistema immunitario. L’arricchimento dei prodotti animali in PUFA
può essere ottenuto attraverso l’utilizzo di alimenti ricchi in CLA (acido linoleico
coniugato), quali erba fresca del pascolo (specie di collina), olio di pesce, olio di lino,
olio di oliva, cocco, girasole. Bisogna considerare, comunque, che nei ruminanti
adulti (rumine sviluppato) gli oli vengono degradati a livello ruminale e, quindi, è
necessario somministrarli sotto forma protetta (saponi) o mediante semi interi.
Relativamente alla carne, il suo arricchimento in PUFA da un lato rappresenta un
traguardo in termini nutrizionali, dall’altro la rende più suscettibile alla ossidazione
dei lipidi muscolari con conseguenze negative sul colore, sulla tenerezza, sapidità e
flavour; ciò, la rende poco gradita al consumatore. Un rimedio alla ossidazione
consiste nell’arricchire la carne stessa di antiossidanti (Vit. E, A, C, polifenoli,
estratti di rosmarino, finocchio selvatico, ecc.) che possono essere somministrati
direttamente agli animali oppure assunti dagli stessi attraverso l’erba del pascolo.
1..1.5 Principi alimentari
Gli alimenti sono quelle sostanze che ingerite dall’animale possono essere digerite,
assorbite ed utilizzate (principi nutritivi). Gli alimenti utilizzati per gli animali di
interesse zootecnico sono costituiti per la maggior parte da vegetali (piante e prodotti
di piante) e in modesta quantità sono rappresentati da prodotti di origine animale
(latte, farina di pesce). Piante ed animali contengono analoghi tipi di sostanze
chimiche che possono essere così raggruppate:
Il contenuto in acqua nel corpo animale varia con l’età: l’animale giovane ne
contiene fino al 75-80%, quello adulto intorno al 50%.
La sostanza secca (SS) degli alimenti, generalmente, è distinta in organica e
inorganica ma va considerato che negli organismi viventi la distinzione non è netta;
infatti, molte sostanze organiche contengono elementi minerali (le proteine
contengono zolfo, alcuni glicidi e lipidi contengono fosforo). La maggior parte della
sostanza secca dei foraggi è costituita da carboidrati mentre alcuni semi (arachidi)
hanno un elevato contenuto in protidi e lipidi. La parete della cellula vegetale è di
natura glucidica (soprattutto cellulosio) mentre, le pareti delle cellule animali sono,
soprattutto, di natura proteica inoltre, mentre la maggiore riserva energetica delle
piante è rappresentata da carboidrati (amido, fruttosani) negli animali è data da
grasso il quale è, invece, relativamente basso nelle erbe (40-50 g/Kg S.S.). Le
proteine sono la maggiore componente azotata sia nelle piante sia negli animali: nelle
piante, le proteine si trovano soprattutto sotto forma di enzimi e sono maggiori nelle
piante giovani rispetto a quelle in via di maturazione, negli animali le proteine sono
presenti nei muscoli, pelle, peli, piume, lana e unghie.
Gli acidi nucleici sono sostanze che contengono azoto e svolgono un compito
fondamentale nella biosintesi proteica in tutti gli organismi viventi, oltre che essere
portatori delle informazioni genetiche alle cellule viventi.
Gli acidi organici maggiormente presenti nelle piante e negli animali sono l’acido
citrico, fumarico, succinico e piruvico, i quali rivestono un ruolo fondamentale nel
metabolismo intermedio. Altri acidi organici quali l’acetico, il propionico, il
butirrico, e il lattico sono prodotti nei processi di fermentazione ruminale e degli
insilati.
Per quanto riguarda le vitamine va detto che i vegetali sono in grado di sintetizzare
tutte le vitamine necessarie per i processi metabolici, mentre, gli animali hanno poteri
di sintesi più limitati e, quindi, è necessario che le assumono con l’alimento.
La sostanza inorganica comprende oltre a carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto altri
elementi inorganici che secondo il loro contenuto vanno sotto il nome di
macroelementi e microelementi.
I macroelementi maggiormente presenti negli animali sono calcio e fosforo mentre
nei vegetali troviamo, soprattutto, potassio e silicio.
1.2. Idrati di carbonio o glucidi
In media, costituiscono i tre quarti della S.S. dei vegetali. Derivano dalla fotosintesi
clorofilliana e sono utilizzati dagli animali per scopi energetici. Essi si possono
definire sostanze poliossidrilate di natura aldeica, chetonica, alcolica o acida, loro
semplici derivati e alcuni prodotti della loro idrolisi.
La composizione dei glucidi è rappresentata dalla formula bruta CnH2nOn dove
idrogeno e ossigeno si trovano nel rapporto stechiometrico dell’acqua. Essi si
distinguono in carboidrati propriamente detti e olosidi quando i prodotti della idrolisi
sono soltanto zuccheri; mentre, se accanto agli zuccheri sono liberate altre sostanze
organiche (autocianidi, terpeni, fenili, steroidi, solfocianati, ac. cianidrico) si hanno
gli eterosidi o glucosidi. I composti glucidici importanti per la nutrizione sono gli
11
zuccheri e, soprattutto, alcuni olosidi di alta complessità, come l’amido e il
cellulosio.
Monosi - I monosaccaridi hanno formula CnH2nOn a funzione polialcolica e aldeica o
chetonica e caratterizzati nella struttura a catena aperta dalle formule generali:
CHO-(CHOH)n-CH2OH e CH2OH-CO-(CHOH)n-1_CH2OH
che corrispondono, rispettivamente, agli zuccheri denominati aldosi e chetosi. Si
ripartiscono, a secondo del numero di atomi di carbonio, in triosi, tetrosi, pentosi ed
esosi. Fra i triosi troviamo due composti importanti, l’aldeide glicerica CH2OH-
CHOH-CHO e il diossiacetone CH2OH-CO-CH2OH, i quali non sono presenti negli
alimenti, ma si formano durante il metabolismo. Molto diffusi sotto forma di olosidi
polimeri, sono i pentosi, zuccheri a 5 atomi di carbonio fra i quali si ricordano:
- lo xilosio che si ottiene per idrolisi prolungata a caldo dal legno, dalla paglia e dai
foraggi grossolani;
- l’arabinosio, che si ottiene dall’idrolisi di varie gomme;
- il ribosio, zucchero che entra nelle molecole di ADN e ARN; esso non si trova negli
alimenti, ma è sintetizzato dall’organismo nel corso del metabolismo glucidico.
Gli zuccheri più importanti per la chimica della nutrizione sono gli esosi, a 6 atomi di
carbonio. Essi possono trovarsi in due diverse forme stereisomere, a ciclo
pentagonale (furanici) od esagonale (piranico). Il glucosio è il membro più
importante del gruppo. Si trova in tutti i tessuti animali e vegetali verdi, nella frutta e
nel sangue. Ruota a destra di 52,5° il piano della luce polarizzata e, quindi, è detto
destrosio.
Il fruttosio, invece, è un chetoso che presenta una forma -piranosica stabile ed una
-furanosica particolarmente reattiva. Ruota la luce polarizzata di 92° a sinistra e
quindi è detto levulosio. Si trova nella frutta e nel miele.
Il galattosio non si trova allo stato libero ma come elemento della molecola del
lattosio e di alcuni polisaccaridi complessi. Nell’organismo animale entra, in
combinazione con una base azotata e con acidi grassi, nella costituzione dei
cerebrosidi del tessuto nervoso.
Biosi. I biosi o disaccaridi sono zuccheri generalmente dotati di proprietà riducenti,
che derivano dalla combinazione glucosidica di due molecole di zuccheri e
l’eliminazione di una di acqua. Quando il legame si stabilisce fra il C1 di una
molecola e il C4 di una seconda molecola il disaccaride conserva le proprietà
riducenti perché vi è ancora un ossidrile glucosidico libero, mentre quando il legame
interessa i due ossidrili glucosidici, come nel saccarosio, lo zucchero non è più
riduttore. I composti che hanno interesse per l’alimentazione sono i seguenti:
Saccarosio: è lo zucchero della canna e della barbabietola da zucchero e si trova
anche nelle carote, mais, carrube, sorgo. La sua molecola è costituita da glucosio e
fruttosio, legati fra loro mediante i gruppi glucosidici. Esso è scisso per idrolisi acida
o dall’azione dell’enzima invertasi o sucrasi che si trova nel succo enterico.
Maltosio - è uno zucchero riduttore di scarso potere dolcificante. Si ottiene
dall’amido per azione idrolitica di un enzima (diastasi), è contenuto nel malto di orzo
o nei semi in germinazione. Mediante idrolisi acida o enzimatica (maltasi del succo
intestinale o del lievito di birra) si scinde in due molecole di glucosio
(glucopiranosio) dei due isomeri e .
Lattosio - è lo zucchero del latte ed ha proprietà riducenti. E’ composto da una
molecola di glucosio e da una di galattosio, che si liberano mediante idrolisi
acida od enzimatica. Per fermentazione batterica da origine ad acido lattico.
Nell’intestino promuove lo sviluppo di una flora acidofila che si oppone ai fenomeni
putrefattivi ed, inoltre, favorisce l’assorbimento del calcio e del fosforo.
Cellobiosio - E’ il disaccaride che si libera nel corso della fermentazione batterica
della cellulosa. E’ riducente e consta di due molecole di glucosio.
Poliosi o polisaccaridi. In questo gruppo troviamo le sostanze di più larga diffusione
nel regno vegetale. I pentosani sono polisaccaridi che per idrolisi con acidi diluiti
producono pentosi (soprattutto xilosio), trattati con HCl concentrato a caldo danno
furfurolo. Si trovano, soprattutto, nei fieni e nelle paglie, costituiscono fino al 20%
degli idrati di carbonio di questi alimenti. I polisaccaridi più diffusi nei foraggi e nei
semi sono, però, gli esosani, cioè polimeri di esosi, principalmente fruttosio e
glucosio, che si liberano mediante idrolisi acida o enzimatica (digestione). I
principali sono:
Amido - E’ il più importante carboidrato alimentare e costituisce la sostanza nutritiva
di riserva più diffusa delle piante. Si accumula, soprattutto, nei semi (700 g/Kg), nei
tuberi e nelle radici (300 g/Kg). Sottoposto ad idrolisi graduale, l’amido dà origine
prima a sostanze ad alto peso molecolare che formano soluzioni colloidali, le
destrine, poi a maltosio ed, infine, a glucosio secondo lo schema:
(C6H10O5)n + n-1(H2O) nC6H12O6
amido glucosio
L’amido è formato da una mescolatura di due polisaccaridi aventi proprietà e natura
chimica diverse:
1) l’amilosio, solubile in acqua fredda, idrolizzabile rapidamente in maltosio, che si
colora con lo iodio in azzurro cupo e forma la parte centrale dei granuli;
2) l’amilopectina, si scioglie solo in acqua calda.
3) l’inulina è il polisaccaride di riserva della famiglia delle composite e si estrae,
specialmente, dai tuberi di dalia, di topinambur o dai carciofi.
4) il glicogeno è il polisaccaride dei tessuti animali.
1.2.2 Metabolismo degli idrati di carbonio
I monosaccaridi contenuti negli alimenti sono assorbiti come tali. I di e i
polisaccaridi subiscono, invece, la scissione idrolitica per azione di enzimi contenuti
nella saliva e nei succhi pancreatico ed intestinale (amilasi, maltasi, lattasi, sucrasi), e
sono, pertanto, ridotti a monosaccaridi che sono assorbiti attraverso la mucosa
intestinale, passando con la circolazione portale al fegato, e da questo alla
circolazione generale. Il principale prodotto proveniente dalla digestione dei
carboidrati è il glucosio, meno diffuso il fruttosio; mentre, negli animali lattanti
passano nella circolazione glucosio e galattosio in quantità equimolecolari.
Quanto alla cellulosa, è noto che questa non subisce alcun attacco idrolitico da
parte degli enzimi dei succhi digerenti, ma viene bensì scissa in un processo di vera e
propria fermentazione da numerosi microrganismi presenti nel rumine e negli altri
prestomaci dei ruminanti e nell’intestino cieco degli erbivori monogastrici. I prodotti
finali di questo processo fermentativo sono rappresentati da acidi grassi volatili
(acetico, butirrico, propionico) e da gas di fermentazione (metano e CO2).
Il metabolismo degli idrati di carboni comprende:
- anabolismo: comprende tutti quei processi che portano alla biosintesi degli
zuccheri stessi. La sintesi del glucosio è effettuata partendo da precursori più
semplici quali l'acido piruvico, l'acido lattico e gli aminoacidi: tale processo è detto
13
gluconeogenesi. Dal glucosio sintetizzato o assorbito per via intestinale si forma per
polimerizzazione il glicogeno che si deposita soprattutto nel fegato e nel tessuto
muscolare striato
Utilizzazione glucidi nei ruminanti
RUMINE
MICRORGANISMI
RUMINALI
INTESTINO TENUE
ENZIMI PANCREATICI
(AMILOPSINA)
ENZIMI ENTERICI
(MALTASI, SACCARASI)
SANGUE
FEGATO
TESSUTI
MONOSACCARIDI
POLISACCARIDI
FIBRA
CO2, CH4
AGV:
AC. LATTICO
AC. PROPIONICO
AC. ACETICO
AC. BUTIRRICO
MONOSACCARIDI
Bocca
(Eruttazione)
. La sintesi di glicogeno è sotto l'influenza di fattori enzimatici ed ormonali. Tra gli
ormoni assumono notevole importanza:
- l'insulina: inducendo la polimerizzazione del glucosio ematico in glicogeno, ha
effetto ipoglicemizzante:
- glucagone: stimolando la mobilizzazione del glucosio dalle riserve epatiche ha
effetto iperglicemizzante.
Altro processo legato all'anabolismo dei glucidi è la lipogenesi, cioè la formazione di
grasso di deposito, che si forma quando l'apporto di carboidrati alimentari supera i
fabbisogni energetici dell'organismo; è su questo fenomeno, vista l'abbondanza di
carboidrati e la scarsezza di lipidi nelle diete degli animali, che si basa
l'ingrassamento. Il glucosio in eccesso è trasformato prima in acetil-CoA e
successivamente in acidi grassi; questi per esterificazione con il glicerolo, danno
origine ai trigliceridi che si depositano nel tessuto adiposo.
- Catabolismo: in questa fase i carboidrati sono utilizzati dall'organismo per
ottenere l'energia necessaria allo svolgimento di tutti i processi vitali e produttivi.
Tale via prende il nome di glicolisi e si compone di due fasi:
- anaerobica che si svolge in assenza di ossigeno in cui il glucosio dopo la
fosforilazione e successivi processi di scissione è trasformato in acido piruvico ed
acido lattico;
- aerobica in cui l'acido piruvico può essere utilizzato per la sintesi dei lipidi o può,
invece, andare incontro a demolizione totale, attraverso il ciclo di Krebs, con
produzione di CO2, H2O ed energia
1.3 Protidi
Le proteine o protidi sono sostanze quaternarie contenenti C (51-55%), O (21,5-
23,5%), H (6,5-7,3%), N (15,5-18%) e piccole quantità di S (0,1-2,5%) e/o P (0-
1,5%), ma in alcune possono essere contenute tracce di Fe, Cu e Zn. Esse sono i
costituenti essenziali del protoplasma e del nucleo di tutte le cellule, rappresentando,
in volume, la metà del corpo (umano) e in peso in media il 16%. Oltre alla funzione
plastica esplicano quella catalitica (enzimi) regolando le reazioni chimiche che si
svolgono nella cellula.
Dal punto di vista nutrizionale concorrono in maggior misura, rispetto agli altri
elementi nutritivi, a plasmare l'organismo e a fornire il materiale per le produzioni
(latte, uova, lana, ecc.) e sono quelle che hanno il maggiore valore venale e, quindi, il
loro contenuto quantitativo definisce spesso il prezzo degli alimenti. Le proteine
alimentari adempiono dunque alle seguenti funzioni:
- formazione della sostanza vivente ed accrescimento dell'organismo;
- riparazione dell'usura dei tessuti e degli organi;
- sintesi delle proteine contenute nei secreti (latte) e in altre produzioni (uova, lana),
delle proteine del plasma, degli enzimi e dei vari ormoni;
- formazione di glucosio e glicogeno, dal quale l'organismo può ricavare l'energia
necessaria ai vari processi fisiologici, al lavoro muscolare, o può trasformare in
grasso di deposito;
- ossidazione dei chetoacidi o di altre sostanze originatesi durante il metabolismo,
con produzione di energia. Quindi, gli animali hanno bisogno, attraverso
l'alimentazione, di una quantità almeno minima di proteine (minimo proteico
assoluto) al fine di ristabilire il bilancio energetico alterato a seguito del consumo che
i tessuti subiscono durante le attività vitali.
Mediante idrolisi chimica od enzimatica delle proteine si liberano sostanze colloidali
ad alto peso molecolare (peptoni e polipeptidi) da cui successivamente si ricavano
miscele di composti cristalloidi, solubili e dotati di attività ottica; questi sono gli
aminoacidi ormai noti come i costituenti chimici delle molecole proteiche. Gli
aminoacidi conosciuti sono numerosi ma frequentemente se ne riscontrano solo 23
negli idrolisati delle proteine degli alimenti. Le complesse molecole proteiche
presenti nei tessuti e nei liquidi circolanti, nei vegetali ed animali, sono tutte formate
da un numero molto elevato di uno o differenti aminoacidi e quindi i circa 20
aminoacidi esistenti in natura combinandosi tra loro possono dare origine ad un
numero elevatissimo di proteine, ognuna con caratteristiche proprie. Gli aminoacidi
sono caratterizzati dall’avere un gruppo basico azotato, generalmente un
aminogruppo (-NH2) ed un gruppo carbossilico acido (-COOH). La maggior parte
degli aminoacidi che si trova nelle proteine naturali sono di tipo hanno cioè
l'aminogruppo legato all'atomo di carbonio adiacente al gruppo carbossilico;
possiedono quindi la seguente formula generale:
NH2 R-CH2-CH2-CH-COOH R-CH2-CH-CH2-COOH
| | |
R-C-H NH2 NH2
| -aminoacido -aminoacido
COOH
COOH COOH
| |
H2N-C-H H-C-NH2
| |
R R
L-aminoacido D-aminoacido
15
Fa eccezione la prolina che ha un iminogruppo (NH), invece di un gruppo amminico
Essi si ottengono dall’idrolisi delle proteine, sia per via enzimatica sia con acidi o
alcali. Dal materiale biologico sono stati isolati oltre 200 aminoacidi ma solo una
ventina sono comunemente presenti nelle proteine.
I vegetali sintetizzano i protidi da composti chimici inorganici, gli animali, invece, li
devono ricevere preformati con l'alimentazione. Dei 23 aminoacidi che possono
costituire le più diverse proteine circa 13 (aminoacidi non essenziali o
biosintetizzabili) possono essere sintetizzati dall'organismo animale, partendo anche
da substrati non proteici, gli altri 10-12 (essenziali o abiosintetici) devono essere loro
somministrati in quanto non sintetizzabili. Ciò è valido, soprattutto, per i
monogastrici, in quanto i poligastrici ed il cavallo attraverso la flora microbica
dell'apparato digerente, sono in grado di sintetizzare anche questi ultimi 10-12.
L'essenzialità degli aminoacidi non riguarda tutte le specie, condizioni alimentari e
produttive del soggetto, né le diverse età dello stesso. Secondo Rose sono:
- aminoacidi essenziali: arginina, lisina, istidina, valina, leucina, isoleucina,
fenilalanina, treonina, metionina, triptofano e tirosina;
- aminoacidi non essenziali: acido aspartico, acido glutammico, acido
idrossiglutammico, glicina, alanina, norleucina, serina, cistina, cisteina, prolina,
idrossiprolina e diodotirosina.
Mentre, Mazza da un punto di vista organistico li classifica in :
- aminoacidi atti al mantenimento: glicina, alanina, leucina, subordinatamente acido
aspartico e acido glutammico;
- aminoacidi atti all'accrescimento: arginina, lisina, metionina, cistina;
- aminoacidi atti alla differenziazione: fenilalanina, tirosina, triptofano, e
subordinatamente istidina e prolina.
Le proteine si dividono in:
- semplici (oloproteine) le quali se sottoposte ad idrolisi danno solo aminoacidi; fra
esse ricordiamo le protamine che si trovano nello sperma dei pesci, gli istoni presenti
negli eritrociti degli uccelli, le prolamine diffuse nei semi dei cereali, le gluteine
presenti nel glutine del frumento, le albumine diffuse nel latte, nel siero, nell'uovo,
nei vegetali, le globuline presenti nel plasma sanguigno;
- coniugate o complesse (eteroproteine): oltre agli aminoacidi contengono altre
sostanze chimiche denominate gruppi prosteici delle proteine stesse. Le proteine
coniugate più importanti sono: fosfoprotidi presenti nella caseina del latte e nel rosso
d'uovo (ovovitellina), cromoprotidi presente nell'emoglobina del sangue, glicoprotidi
che si trovano nel tessuto connettivo e cartilagineo, nucleoprotidi presenti negli acidi
nucleinici.
In funzione della loro struttura le proteine sono distinte in:
- fibrose formate da catene polipeptidiche disposte parallelamente a formare lunghe
fibre; sono insolubili e formano gli elementi strutturali di base del tessuto connettivo
degli animali superiori; alcuni esempi sono dati da: collagene dei tendini e del tessuto
osseo, l'-cheratina dei capelli, delle corna, della pelle e delle penne e l'elastina del
tessuto connettivo elastico;
- globulari: costituite da più catene polipeptidiche avvolte a formare strutture sferiche
solubili in acqua; generalmente svolgono ruoli dinamici negli enzimi, negli anticorpi,
in alcuni ormoni e in molte proteine con funzione di trasporto quali l'albumina serica
e l'emoglobina.
1.3.1 Disponibilità di aminoacidi
La maggior parte delle materie prime ricche in proteine, prima del loro
impiego, sono sottoposte a trattamenti quali quelli termici che hanno una certa azione
sulle proteine. Le farine proteiche di origine animale, come quelle di pesce o di carne,
sono sottoposte ad elevate temperature per inattivare i microrganismi e separare una
certa quota di grasso. Nella farina di soia, all’estrazione di olio segue la tostatura per
inattivare la maggior parte dei fattori antinutrizionali presenti. Questi processi
determinano, secondo la loro durata e la temperatura utilizzata, una riduzione della
digeribilità delle proteine. I gruppi amminici della lisina interagiscono con
formazione di legami incrociati i quali ostacolano l’accesso degli enzimi digestivi
all’interno della molecola proteica. La formazione di legame fra lisina ed alcuni
carboidrati porta alla sintesi di composti resistenti all’attacco enzimatico (reazione di
Maillard). Anche gli aminoacidi solforati (metionina, cistina) possono essere alterati
dal calore. In presenza di agenti ossidanti (perossidi dai grassi) si può avere la sintesi
di composti poco utilizzabili. Quindi, gli aminoacidi presenti in un dato alimento
possono andare incontro ad una riduzione della loro disponibilità che dipende dalla
natura della proteina e dal tipo di trattamento. Mentre un latte scremato disidratato
con cura e di ottima qualità presenta una disponibilità della lisina di circa il 100%, il
corrispondente valore nella farina di carne ed ossa, nella farina di piume o nel mais
sottoposti a brusca disidratazione può scendere al 60-70%. Invece, gli aminoacidi di
produzione industriale sono sempre disponibili totalmente. Da anni si è alla ricerca di
un metodo pratico in grado di misurare la quota disponibile degli aminoacidi, in
primo luogo della lisina ma, ancora oggi, non è disponibile un metodo rapido per la
determinazione della qualità delle proteine. A causa della variabilità nella
disponibilità degli aminoacidi nei singoli alimenti non è ancora stato stabilito se nella
formulazione dei mangimi, i calcoli debbano essere riferiti al contenuto totale dei
singoli aminoacidi o alla loro quota disponibile. In ogni caso, alcune tavole riportano
la quota disponibile ma, considerando che l’esatta valutazione della disponibilità
presenta delle difficoltà e che vi sono delle differenze anche nell’ambito della stessa
materia prima in funzione della sua origine, nella formulazione si prende ancora in
considerazione il contenuto totale in aminoacidi. Una stima della disponibilità degli
aminoacidi può essere utile per interpretare i risultati produttivi in sede di
allevamento. Considerando che, gli aminoacidi sintetici sono completamente
disponibili, essi possono essere sempre considerati nella loro totalità.
1.3.2. Utilizzazione e metabolismo delle proteine
Le proteine alimentari subiscono nell'apparato digerente una serie di attacchi
enzimatici e, quindi, sono idrolizzate ad aminoacidi i quali sono assorbiti dai villi
intestinali, entrano nel flusso sanguigno portale, giungono al fegato dove avviene
gran parte del metabolismo degli aminoacidi, compresa la loro degradazione.
La digestione vera e propria inizia nello stomaco, ma nei ruminanti le proteine
subiscono una forte proteolisi già nel rumine ad opera dei microrganismi ruminali.
Nel succo gastrico, il principale enzima proteolitico è la pepsina, secreta sotto forma
di pepsinogeno inattivo; la sua azione avviene in ambiente fortemente acido (pH =
1,5-2) ad opera della pepsina stessa. Questo enzima riduce gran parte delle proteine
in polipeptidi e in pochi aminoacidi liberi.
L'attività proteolitica prosegue nell'intestino tenue dove viene riversato il succo
pancreatico contenente gli enzimi tripsinogeno, chemiotripsinogeno e
carbossipeptidasi.
17
Utilizzazione azoto nei ruminanti
Proteine
Carboidrati
Urea
100%
30-40%
60-70%
Ureasi
microbiche
Enzimi
microbici
Degradazione
Microbica
Saliva
Ru
min
e
Urea Ammoniaca Chetoacidi Aminoacidi
Proteine
microbiche
Abomaso e intestino
Proteine
microbiche
Proteine
alimentari
Enzimi
digestivi
Aminoacidi
Sangue Fegato
Ammoniaca
Aminoacidi
Urea
Aminoacidi
Ammoniaca
Urea
Apparato
urinario
Urea
Proteine di: latte, enzimi,
ormoni, ecc.
Il tripsinogeno viene attivato in tripsina dalla enterochinasi (enzima duodenale) e a
sua volta attiva il chemiotripsinogeno in chemiotripsina. Le proteasi pancreatiche
idrolizzano i polipeptidi in peptidi di piccole dimensione e in aminoacidi liberi. La
degradazione dei peptidi viene poi completata dalle peptidasi prodotte dalla mucosa
intestinale.
La fase anabolica del metabolismo proteico è caratterizzata da tutti quei processi di
sintesi che avvengono utilizzando gli aminoacidi assorbiti: ricambio proteico,
costruzione di altre strutture cellulari, sintesi di proteine plasmatiche, ormoni,
enzimi, ecc.. La fase catabolica degli aminoacidi consente l'utilizzazione di questi
per la produzione di acido piruvico, acido chetoglutarico e acetati.
Tali metaboliti possono fornire energia (4,1 Kcal/g) oppure essere accumulati sotto
forma di glicogeno e grasso. I processi di deaminazione e di transaminazione sono
molto importanti in quanto permettono, rispettivamente, la liberazione di ammoniaca
dall'aminoacido e la sintesi di altri aminoacidi. Gran parte dell'ammoniaca viene
recuperata, la rimanente viene escreta sotto forma di urea, ammoniaca e acido urico.
Da un punto di vista di eliminazione dell'ammoniaca gli animali si distinguono in:
- ureotelici (vertebrati terrestri): eliminazione dell'azoto amminico sotto forma di
urea;
- ammoniotelici (animali acquatici): eliminano ammoniaca;
- uricotelici (uccelli e rettili terrestri): bevono poca acqua, eliminano azoto in forma
semisolida come sospensioni di acido urico.
Il metabolismo proteico globale negli animali in accrescimento è formato da due
quote distinte:
a) azoto assorbito = quantità di N trattenuto dall'organismo e trasformato in tessuti.
N assorbito = N da alimenti - N di escreti solidi.
c) azoto urinario = quantità di N eliminato giornalmente con le urine; negli animali
giovani esso è inferiore a quello assorbito perché una parte è trasformata in tessuti di
neoformazione; negli animali adulti, non in produzione, la quantità di azoto assorbito
eguaglia quella eliminata con le urine.
1.3.3 Valore biologico delle proteine
Rappresenta il rendimento di utilizzazione di una proteina: si ottiene dal
rapporto fra azoto trattenuto dall'organismo animale e quello effettivamente assorbito
ed è espresso in percentuale.
Ogni proteina è in grado di fornire, all'organismo dell'animale che la assume, un
differente complesso di aminoacidi che sono propri della costituzione della proteina
stessa. Dalla quantità e qualità di questi aminoacidi e dalla presenza o meno di alcuni
di essi, considerati essenziali, dipende il valore della proteina e la sua, più o meno
consistente, partecipazione al metabolismo animale e ai processi di sintesi e di
accrescimento od energetici dell'organismo e, quindi, il suo rendimento. Affermando
che il valore biologico della proteina del latte di vacca è di 90, nei riguardi
dell'accrescimento dei ratti, significa che il 90% dell'azoto contenuto nelle proteine
digeribili di questo alimento viene impiegato dall'organismo per la sintesi delle sue
proteine cellulari e il conseguente accrescimento. In generale, il valore biologico
delle proteine animali è superiore a quello delle proteine vegetali e ciò perché sono
più simili a quelle che costituiscono l'organismo animale. Praticamente, la stima del
valore biologico delle proteine si basa: a) sul controllo degli incrementi del peso vivo
di animali da laboratorio cui sono somministrate determinate quantità di proteina da
valutare o b) sostituendo una proteina di cui si conosce il valore biologico con una da
valutare e, infine, c) ponendo a confronto gruppi di animali con dieta apoproteica con
altri ai quali sono somministrati precisi quantitativi di proteina da valutare.
19
1.3.4. Azoto non proteico e proteine sintetiche
Tra le sostanze contenute dagli alimenti o aggiunte agli stessi sono comprese
quelle che contengono azoto ma che si differenziano dalle proteine e, quindi, sono
dette sostanze azotate non proteiche, comunemente, indicate con la sigla NPN (Non
Protein Nitrogen). Tra esse ricordiamo, soprattutto, l'urea o carbammide - CO(NH2)2
-, sali di ammonio, biureto. L'urea viene impiegata nell'alimentazione dei ruminanti
in parziale sostituzione delle proteine. I microrganismi del rumine, mediante l’ureasi,
la trasformano in CO2 e ammoniaca; quest'ultima, nel metabolismo batterico viene
trasferita nei chetoacidi che vengono impiegati nelle sintesi proteiche cellulari dei
batteri del rumine. Le sostanze azotate non proteiche sono usate per ridurre i costi di
alimentazione senza sacrificare l'apporto proteico.
Negli ultimi anni si stanno sperimentando tecniche per la produzione sintetica di
proteine unicellulari partendo da idrocarburi paraffinici per la preparazione di
biomasse di natura fermentativa in cui i lieviti del genere Candida, Torulopsis,
Rhodotorula sono in grado di dare concentrati ricchi di aminoacidi (bioproteine).
Analoghi risultati sono stati ottenuti con l'utilizzo di particolari lieviti (Torula) su
substrati provenienti da residui solfitici della lavorazione della cellulosa.
Vanno aggiunti i solubili secchi di distilleria, residuati dalla distillazione dell'alcol
ottenuto mediante saccarificazione dell'amido dei vari cereali e successiva
fermentazione dei mosti. Sono ricchi di enzimi, vitamina B, e "fattori sconosciuti di
crescita" e contengono il 28-30% di proteina grezza. Dal melasso, dopo la
lavorazione per l’estrazione dell'acido glutammico si ricava un "concentrato proteico
di bietola", con sapore acidulo-salino e un contenuto in proteine del 30%.
Recentemente sono entrati in uso i proteolisati, in altre parole miscele di aminoacidi
atti a bilanciare la dieta alimentare in aminoacidi puri, apportando quelli necessari
per realizzare il rapporto ottimale per la maggiore utilizzazione dell'azoto alimentare.
Tenuto conto della scarsezza delle proteine convenzionali e del loro costo elevato è
opportuno per quanto sia possibile sostituirle con i proteolisati.
L'Aghina distingue gli alimenti azotati in due categorie:
- proteine plus (PP): comprendono quelle convenzionali quali la soia per i volatili e i
suini; la colza, il girasole e il lino per i ruminanti svezzati; il latte in polvere per
l'avviamento dei mammiferi; il pesce e la carne per quello delle specie avicole,
carnivore ed ittiche. Le proteine PP sono difficilmente sostituibili nelle formule per
mangimi destinati ai monogastrici, ma non altrettanto per i poligastrici.
- proteine risparmio (PR): sono rappresentate dalle proteine unicellulari per i
monogastrici e dall'azoto non proteico per i ruminanti dopo lo svezzamento e dagli
aminoacidi di sintesi per tutte le specie e per tutte le categorie di animali.
1.3.5 Proteine by-pass
Le fermentazioni ruminali, fondamentali nell'economia alimentare dei
poligastrici, sono fonte di notevoli complicazioni per l'utilizzazione delle proteine
soprattutto per gli animali ad elevate produzioni di latte e particolarmente all'inizio
della lattazione. La fisiologia digestiva dei poligastrici fa si che il rendimento
alimentare delle proteine sia notevolmente più basso di quello ottenibile con la
digestione diretta (intestinale) dei monogastrici. Il fabbisogno proteico è soddisfatto
nei ruminanti, in ragione del 30% dagli apporti alimentari, mentre la restante parte è
fornita dalle proteine citoplasmatiche sintetizzate dalla micropopolazione ruminale.
Tali microrganismi elaborano proprie proteine utilizzando prevalentemente,
attraverso reazioni di deaminazione, l'azoto contenuto negli aminoacidi di origine
alimentare, in presenza di adeguate quantità di energia; generalmente si ottengono 22
g di proteine microbiche per ogni 100 g di sostanza organica fermentescibile. La
quantità totale di proteine disponibili per l'organismo animale risulta, tuttavia,
insufficiente per produzioni di latte superiori a 25 litri/giorno. Premesso che, tutte le
proteine alimentari subiscono processi fermentativi ruminali, il grado di
fermentescibilità varia in funzione di numerosi fattori quali il tempo di permanenza
degli alimenti nel rumine, la presenza di sufficienti quantità di energia nella dieta, lo
stato fisico dell'alimento. Anche razioni ad elevato contenuto energetico, 0,9 U.F./kg
SS con tasso proteico grezzo del 13% su S.S., che, peraltro, rappresenta il livello
proteico ottimale di utilizzazione, non riescono a coprire integralmente il fabbisogno
di composti azotati in bovine con forti produzioni. D'altra parte, l'innalzamento del
contenuto proteico della razione può determinare, se non è accompagnato da un
aumento proporzionale di energia, indispensabile per la sintesi microbica, un
incremento del livello ruminale di ammoniaca, con possibile pericolo di alcalosi
ruminale.
Da qui l'esigenza di utilizzare sostanze proteiche, le cosiddette proteine by-pass, che
passando indenni attraverso il rumine, si rendono completamente disponibili per
l'organismo attraverso le digestione a livello di intestino tenue. In questo modo si
soddisfano le necessità proteiche dell'animale senza, peraltro, dover aumentare il
contenuto energetico della razione. Per oltrepassare il rumine senza subire
fermentazioni, le proteine by-pass possono essere sottoposte a particolari trattamenti,
tra cui i più diffusi si basano sull'impiego del calore, uso di tannini, sostanze
chimiche particolari. Inoltre, bisogna ricordare che in alcuni alimenti (glutine di mais,
medica disidratata, farina di sangue, farina di carne) sono presenti buone percentuali
di proteine che naturalmente sono dotate di questa proprietà; mentre, le proteine della
farina di soia, del melasso, della farina di arachide e di girasole sono tra quelle che
subiscono la maggiore degradabilità (100-70%). Il trattamento termico riduce la
solubilità delle proteine nel rumine, un eccesso di calore può però diminuire la
digeribilità intestinale delle proteine o denaturare alcuni aminoacidi (lisina, cistina). I
tannini sono sostanze che si aggregano con le proteine limitandone la solubilità
ruminale; non è, comunque, ancora chiaro se compromettono l'utilizzazione proteica
anche a livello intestinale. L'uso di sostanze chimiche, soprattutto formaldeide (1-2
g/100 g proteina) si basa sul principio che la reazione tra formaldeide e proteina
diventa reversibile in ambiente fortemente acido, perciò, a livello gastrico le proteine
vengono liberate e si rendono disponibili per la digestione. Il concetto di proteggere
le strutture proteiche dalle fermentazioni ruminali si è recentemente esteso anche ai
singoli aminoacidi come la metionina, poco presente nelle proteine sintetizzate dai
microrganismi, la cui carenza costituisce sicuramente un fattore limitante nella
produzione del latte nelle grandi lattifere. L'uso di proteine e di aminoacidi by-pass
rimane a tutt'oggi conveniente per l'integrazione alimentare di razioni già complete
dal punto di vista energetico, destinate a bovine ad elevata produzione.
1.4 Lipidi
I lipidi costituiscono un grosso ed eterogeneo gruppo di sostanze organiche che,
composte da C, H e O, possiedono la comune caratteristica di essere solubili nei
solventi organici apolari come il cloroformio, l'acetone, gli eteri, alcuni alcol ed il
benzene. Oltre ad essere alimenti energetici per eccellenza (9,3 Kcal/g rispetto alle
4,1 dei glucidi e delle proteine), svolgono diverse funzioni fisiologiche: entrano a far
parte della membrana citoplasmatica dove partecipano al riconoscimento selettivo
21
delle sostanze da filtrare, alcuni di essi esercitano particolari attività biologiche sotto
forma di vitamine ed ormoni. Essi vengono distinti in semplici e complessi.
- Lipidi complessi (grassi, oli, fosfolipidi, glicolipidi e le cere): contengono acidi
grassi; sono saponificabili in quanto formano per idrolisi alcalina, sali di acidi grassi;
si differenziano per la struttura della molecola a cui si legano gli acidi grassi.
Chimicamente, i grassi e gli oli sono molto simili, infatti vengono, comunemente,
entrambi chiamati grassi o gliceridi; si differenziano però per lo stato fisico a
temperatura ambiente che è solido per i primi e liquido per i secondi. I grassi sono
costituiti da acidi grassi a lunga catena, il cui unico gruppo carbossilico è esterificato
da un gruppo ossidrile del glicerolo, un alcol trivalente: i composti che si ottengono
vengono detti trigliceridi. Gli acidi grassi differiscono fra loro principalmente per la
lunghezza della catena e per numero e posizione dei legami insaturi.
Gli acidi grassi linoleico e linolenico sono definiti essenziali in quanto, non potendo
essere sintetizzati dall'organismo animale, devono essere somministrati con gli
alimenti; l'acido linoleico costituisce il precursore dell'acido arachidonico, assente nei
tessuti vegetali. Gli acidi grassi essenziali sono i precursori di un gruppo di sostanze
ormonosimili, le prostaglandine, le quali vengono sintetizzate nelle cellule bersaglio
degli ormoni e servono a modulare le risposte metaboliche di queste cellule agli
ormoni stessi. I grassi costituiti da acidi grassi insaturi possono subire l'ossidazione
dei legami etilenici che determinano un aumento della viscosità del liquido. Se il
processo di ossidazione è prolungato si formano i perossidi e derivati chetonici e,
quindi, l'irrancidimento dei grassi con alterazione delle proprietà organolettiche e
nutrizionali. Il fenomeno può essere evitato aggiungendo ai grassi sostanze
antiossidanti (fenoli, polifenoli, tocoferoli). I fosfolipidi costituiscono i componenti
fondamentali delle membrane cellulari; in essi uno dei gruppi ossidrilici del glicerolo
è esterificato dall'acido fosforico, mentre negli altri due da acidi grassi; si
differenziano per il tipo di acidi grassi e per le caratteristiche del componente legato
al fosfato. Ai fosfolipidi appartengono: le lecitine presenti nel tuorlo d'uovo, nel
fegato, nel tessuto nervoso, nella soia, e le cefaline presenti nel tessuto nervoso.
Si riportano di seguito alcuni acidi grassi naturali:
- acidi grassi saturi: Punto fusione
C3H7COOH Butirrico - 7,9
CH3(CH2)10COOH Laurico 43,9
CH3(CH2)12COOH Miristico 54,1
CH3(CH2)14COOH Palmitico 62,7
CH3(CH2)16COOH Stearico 69,6
CH3(CH2)18COOH Arachico 76,3
- acidi grassi insaturi:
CH3(CH2)5CH=CH(CH2)7COOH Palmitoleico 0
CH3(CH2)7CH=CH(CH2)7COOH Oleico 13
CH3(CH2)4CH=CHCH2CH=CH(CH2)7COOH Linoleico -5
CH3CH2CH=CHCH2CH=CHCH2CH=CH(CH2)7COOH Linolenico - 14,5
CH3(CH2)4CH=CH(CH)2)3CH=CH(CH2)3COOH Arachidonico - 49,5
I glicolipidi contengono, oltre a due acidi grassi, anche uno zucchero; costituiscono
circa l’80% della frazione lipidica dei cloroplasti delle piante superiori, sono inoltre
diffusi nel cervello, nel fegato, nei reni.
- Lipidi semplici: non contengono acidi grassi e di conseguenza non sono
saponificabili; sono presenti nelle cellule in quantità minima, ma comprendono molte
sostanze ad elevata attività biologica come alcune vitamine ed ormoni. Appartengono
a questo gruppo i terpeni e gli steroidi.
I terpeni sono costituiti da multipli dell'isoprene, idrocarburo a 5 atomi di carbonio
(2-metil-1,3-butadiene); possono essere a struttura ciclica o lineare. I terpeni
costituiscono la componente aromatica di molti oli essenziali vegetali. Tra i terpeni
superiori ritroviamo i carotenoidi e le vitamine liposolubili A, E, K.
Gli steroidi sono sostanze con struttura di base tetraciclica. Il composto di maggiore
diffusione nei tessuti animali è il colesterolo, precursore di altri steroidi come gli
acidi biliari, il progesterone, gli estrogeni, gli androgeni, gli ormoni della corteccia
surrenale e il 7-deidrocolesterolo o provitamina D. Nei tessuti vegetali sono presenti
in differenti forme che prendono, complessivamente, il nome di fitosteroli. Tra questi
assume particolare importanza l'ergosterolo in quanto precursore della vitamina D2.
1.4.1. Utilizzazione e metabolismo dei lipidi
I grassi, pur presenti in quantità limitate negli alimenti, assumono un ruolo
fondamentale in quanto hanno funzioni energetiche e metaboliche. Nei poligastrici
subiscono un primo attacco enzimatico ad opera della popolazione batterica
simbionte; si verifica così l'idrolisi dei trigliceridi, dei galattolipidi, dei fosfolipidi e
degli steroidi con formazione di glicerolo, galattosio, basi azotate, fosfati, steroli e
acidi grassi liberi. A questa attività lipolitica partecipano anche i protozoi che,
inglobando i cloroplasti, digeriscono i lipidi di cui sono molto ricchi.
Successivamente gli acidi grassi insaturi vengono idrogenati dagli enzimi prodotti dai
batteri e dai protozoi.
Nello stomaco ghiandolare, sia dei monogastrici sia dei poligastrici, l'azione
lipolitica viene svolta dalla lipasi gastrica; tale enzima però manifesta una blanda
attività, soprattutto, a causa dell'ambiente fortemente acido. La digestione vera e
propria dei lipidi avviene nell'intestino tenue ad opera delle lipasi sia pancreatiche sia
enteriche. L'attività di tali enzimi è esaltata dall'ambiente basico e dalla presenza dei
sali biliari che, con la loro azione detergente, abbassano la tensione superficiale dei
grassi e ne favoriscono l'emulsionamento. L'idrolisi dei grassi porta alla formazione
prevalentemente di monogliceridi ed acidi grassi liberi. Gli acidi grassi a catena corta
(≤ 10-12 atomi C) ed il glicerolo passano nel circolo sanguigno portale, mentre quelli
a lunga catena ed i monogliceridi vengono riesterificati e, sotto forma di trigliceridi,
entrano nei capillari linfatici.
Il metabolismo intermedio dei lipidi si compone di una fase anabolica e di una fase
catabolica. Nella fase anabolica avviene la sintesi dei lipidi per riesterificazione di
alcol con acidi grassi provenienti o dall'idrolisi dei grassi alimentari o dal
metabolismo di zuccheri e proteine.
I grassi presenti nell'organismo animale possono essere distinti in grassi d'organo e
grassi di riserva. I grassi d'organo sono tutte quelle strutture molecolari che
partecipano alla formazione del protoplasma cellulare, delle membrane cellulari,
degli ormoni e delle vitamine; la loro presenza non dipende dal livello energetico
della razione e non vengono utilizzati come fonte di riserva.
I grassi di riserva sono rappresentati da trigliceridi che formano depositi adiposi con
funzione di riserva energetica; la presenza di questi lipidi è strettamente legata al
contenuto di alimenti energetici, grassi e glucidi, nella dieta. Le riserve adipose non
23
sono stabili ma sono sottoposte ad un ricambio continuo che, in circa 2-3 settimane,
ne provoca il completo rinnovo.
Il glicerolo viene, molto probabilmente, ossidato prima ad aldeide glicerica e poi ad
acido piruvico che segue la via del metabolismo dei glucidi. Gli acidi grassi attivati,
cioè combinati al CoA, vengono invece demoliti attraverso una serie di -ossidazioni
che determinano il distacco successivo di molecole a 2 atomi di carbonio.
Questi frammenti si legano al CoA formando acetil-CoA che, nei mitocondri, entra
nel ciclo ossidativo terminale di Krebs producendo CO2 e H2O. Con questo
meccanismo di ossidazione-demolizione da 1 mole di acido grasso a n atomi di C si
ottengono n/2 moli di acetato. L'acetil-CoA entra a sua volta nel ciclo di Krebs dove
subisce una totale ossidazione che dà come prodotti terminali energia, CO2 e H2O.
1.5 Vitamine
Le vitamine sono bioregolatori di determinante importanza in quanto
presiedono, assieme agli ormoni, allo svolgimento di tutti i processi fisiologici sia
direttamente sia indirettamente attraverso meccanismi enzimatici.
Risposta produttiva degli animali alla somministrazione di vitamine e minerali
Risposta dell’animale
%
Fattori di variazione dei fabbisogni
reali
100
75
Stress
Variabilità biologica
50
Composizione dieta
Biodisponibilità
25
Infezioni
Interazioni fra
nutrienti
Parassitosi
Stabilità
Carenza Fabbisogno Optimum Eccesso
Apporto vitamine/minerali
In base alla solubilità vengono classificate in liposolubili, che si sciolgono nei grassi
e nei solventi apolari ed idrosolubili che si sciolgono in acqua e nei solventi polari.
Vitamine liposolubili - Le quattro vitamine liposolubili A, D, E, K sono tutti
composti isoprenoidi. La conoscenza delle loro funzioni fisiologiche è più scarsa
rispetto a quelle delle vitamine idrosolubili.
La vitamina A è presente in due forme: la vitamina A1 o retinolo diffusa, soprattutto,
nei mammiferi e nei pesci marini e la vitamina A2, comune nei pesci di acqua dolce.
La vitamina A viene prodotta negli organismi animali partendo dal carotene,
pigmento vegetale di colore giallo-arancione, presente in tutti i tessuti clorofilliani, in
vari semi e frutti. I caroteni sono idrocarburi insaturi e sono presenti negli isomeri
dei quali il secondo presenta la maggiore attività provitaminica. In genere, i
foraggi verdi contengono l'85% dell'isomero , il 15% di quello e tracce di quello
. La conversione della provitamina in vitamina A avviene prevalentemente al livello
intestinale ed in minima parte anche nel fegato e nella ghiandola mammaria; la
trasformazione biochimica è mediata dalla presenza del carotenasi, complesso
enzimatico contenente Fe del gruppo delle ossigenasi e dall'ormone tiroxina.
Attualmente c'è la tendenza a considerare la vitamina A come un ormone piuttosto
che come un principio protettivo vero e proprio. La vitamina A interviene nel
mantenimento della capacità visiva in quanto costituisce parte integrante della
rodopsina o porpora visiva dei bastoncelli della retina. Altra funzione svolta da
questa vitamina è quella epitelio-protettrice; tale attività si esplica soprattutto a carico
dei tessuti secernenti muco dell'apparato digerente, respiratorio e urogenitale,
preservando dall'ossidazione i radicali solfidrici delle catene polipeptidiche cellulari e
inibendo così la formazione di cheratine. La cheratinizzazione degli epiteli
mucosecretivi è un processo degenerativo caratterizzato da una diminuzione della
permeabilità cellulare e degli scambi nutritivi. Ciò conduce a fenomeni di
desquamazione epiteliale e a processi ulcerativi delle mucose con conseguenti
possibili infezioni; da qui la denominazione di antinfettiva data a questa vitamina. La
vitamina A esercita una notevole influenza sulla fertilità. Infatti, è assai nota l'azione
sinergica fra questa e il progesterone e l'attività antagonista fra la stessa e gli
estrogeni. La funzionalità ovarica risulta alterata da condizioni di ipovitaminosi dal
momento che i follicoli possono diventare persistenti con possibili degenerazioni
cistiche. L'effetto cheratinizzante può coinvolgere l'endometrio e danneggiare lo
sviluppo della placenta con possibili malformazioni fetali o più frequentemente,
morte dell'embrione. Risulta difficile definire l'esatto fabbisogno alimentare di -
carotene anche perché questo composto viene, in massima parte, utilizzato per la
produzione di vitamina A, comunque, sembra che dosi quotidiane di 30 mg di
provitamina per q di peso vivo bastino a migliorare il tasso sanguigno in modo da
permettere una fertilità ottimale. Generalmente, gli stati carenziali si evidenziano
nelle grandi lattifere in cui l'aumento dei fabbisogni nutritivi ha accentuato lo
squilibrio tra foraggi e concentrati nella razione. Infatti, i fieni e gli insilati che una
vacca può consumare giornalmente riescono a coprire solo i bisogni di mantenimento
e per la produzione di 10 litri di latte. I principali organi di riserva del -carotene
sono il sangue, il fegato e il corpo luteo. Durante i periodi primaverili-estivi,
caratterizzati dalla presenza di foraggio fresco nella dieta, i titoli di -carotene e
quindi di vitamina A aumentano sia nel plasma sia nel latte. La concentrazione
carotenica dei tessuti vegetali diminuisce col progredire della maturazione della
pianta; la conservazione del foraggio implica delle perdite di caroteni che sono
rilevanti nel caso della fienagione e più contenute con l'insilamento e soprattutto con
la disidratazione.
I fabbisogni medi sono:
- bovini: 10.000 U.I./q peso vivo/giorno;
25
- suini: 8.000-10.000 U.I./capo/giorno per verri e scrofe in lattazione; 1.200-2.200
U.I./giorno per lattonzoli fino a 8 settimane; 5.000-8.000 U.I. per q di peso vivo nelle
altre categorie.
La vitamina D (colecalciferolo, ergocalciferolo, antirachitica, calciofissatrice) è
presente in due forme chimicamente affini in quanto appartengono al gruppo degli
steroidi: la vitamina D2 o ergocalciferolo, di origine vegetale, e la vitamina D3 o
colecalciferolo, di origine animale. Entrambi i principi vitaminici attivi si originano
dai propri precursori, rispettivamente l'ergosterolo e il 7-deidrocolesterolo, per
irraggiamento ultravioletto. Essa svolge un ruolo fondamentale nel normale processo
di calcificazione delle ossa, la cui prima tappa consiste nella sintesi, operata dal
fegato, di un composto più attivo, il 25-idrossicolecalciferolo, che costituisce la
forma principale circolante. Questo composto viene ulteriormente metabolizzato nel
rene a 1,25- deidrossicolecalciferolo, che costituisce la forma biologicamente attiva
della vitamina D. Questa a livello intestinale, interviene favorendo l'assorbimento del
Ca++
per mezzo della biosintesi di proteine specifiche che, fungono da trasportatori
attivi attraverso le mucose. In questa sua azione, la vitamina D è complementata
dall'ormone paratiroideo prodotto nel momento in cui la concentrazione di Ca++
plasmatico scende sotto i valori normali. Tale ormone agisce sia sui reni, stimolando
la produzione di 1,25-deidrossicolecalciferolo, che sulle ossa dove è in grado di
mobilizzare il Ca++
accumulato in questo tessuto. Nonostante la vitamina D venga
denominata calciofissatrice, il suo ruolo biologico è quello di assicurare
l'assorbimento del calcio e di controllare l'eliminazione urinaria del fosforo poiché la
funzione mineralizzatrice è svolta invece da un enzima, la fosfatasi alcalina (ALP).
I sintomi più manifesti dovuti a stati di avitaminosi sono il rachitismo nei giovani
animali e l'osteomalacia negli adulti, entrambi causati da carente calcificazione del
tessuto osseo. Generalmente, in condizioni di allevamento adeguate non si verificano
stati carenziali in quanto è sufficiente che gli animali possano beneficiare di spazi
all'aperto e di ricoveri luminosi. L'unità di misura è l'unità internazionale (U.I.)
corrispondente a 0,025 mg di calciferolo puro, perciò 1 mg di questa vitamina
possiede l'azione biologica di 40.000 U.I.. I fabbisogni di vitamina D variano in
funzione della specie, dello stadio fisiologico e dei sistemi di allevamento. Stati di
ipervitaminosi possono portare ad eccessiva calcificazione del tessuto osseo, delle
cartilagini articolari e dei vasi sanguigni arteriosi.
La vitamina E (tocoferolo, antisterile) è molto diffusa nel mondo vegetale, specie nei
germi di cereali e nei relativi olii e nei germogli in genere si trova nelle parti verdi di
tutti i vegetali, nei fieni non dilavati. Nei prodotti di origine animale e nei tessuti
animali la vit. E è contenuta in piccole dosi, fatta eccezione per la placenta e per
l'ipofisi che ne sono, particolarmente, ricche. Essa esplica importanti funzioni nei
riguardi della sfera riproduttiva del maschio e della femmina. Tale effetto non sembra
però l'espressione di un meccanismo biologico molto generale, svolto dalla vit. E, il
cui compito fondamentale nella cellula animale vivente è quello di rappresentare
l'antiossidante fisiologico" che protegge la vit. A e gli acidi grassi saturi ed insaturi
da possibili fenomeni di auto ossidazione. Sembra svolga azione preventiva contro
l'aborto precoce e azione curativa nei riguardi di alcune forme di sterilità a base non
anatomica. Inoltre, partecipa a sintesi e processi metabolici, è dotata di proprietà
tensioattive ed è indispensabile per la genesi di molti enzimi e coenzimi, per la
sintesi di acido ascorbico e degli acidi nucleici. Aumenta la tolleranza dell'organismo
alle sostanze tossiche. Eventuali sintomi di carenza si fanno risentire sulla sfera
genitale e può dipendere anche da carenza di selenio nella razione o dalla presenza di
elevati quantitativi di grassi, soprattutto se irranciditi.
Unità di misura = U.R. (unità ratto) = 3 di tocoferolo. I tocoferoli che costituiscono
la vitamina E sono quattro ma quelli più importanti sono quello e che possiedono
attività antiossidante ma diversa attività biologica.
La vitamina K (della coagulazione, antiemorragica) naturale è presente in due forme,
la K1 e la K2; esiste inoltre una terza forma, di sintesi, la K3 con attività vitaminica
superiore rispetto alle precedenti. E' notevolmente abbondante nelle parti verdi dei
vegetali; nei tessuti animali è scarsa, fatta eccezione per il fegato che ne contiene
discrete dosi. Negli animali viene sintetizzata a livello intestinale. La vitamina K
condiziona, da parte del fegato, la produzione dell'enzima proconvertina che a sua
volta catalizza le reazioni che portano alla formazione della protrombina, precursore
della trombina la quale accelera la conversione del fibrinogeno in fibrina, proteina
insolubile costituente la frazione fibrosa del coagulo di sangue. Raramente si
riscontrano carenze di vitamina K sia perché essa abbonda nei foraggi sia perché è
sintetizzata nel rumine dei poligastrici e nel ceco dei monogastrici. La scarsa flora
microbica intestinale nelle prime settimane di vita e, quindi, il deficiente apporto
endogeno di vitamina K è spesso associato alla comparsa di diatesi emorragiche negli
animali giovani (pulcini, suinetti).
Vitamine idrosolubili
La vitamina B è un gruppo di sostanze diverse costituite da almeno 15
elementi che, nonostante l’eterogeneità della loro struttura molecolare, hanno in
comune alcune proprietà: sono idrosolubili, contengono nella loro molecola un
atomo di azoto, svolgono funzione coenzimatica. Diverse vitamine del gruppo B
sono sintetizzate dalla flora microbica del digerente degli erbivori, la quale
nell'adulto può soddisfare appieno i fabbisogni dell'organismo. Le vitamine del
gruppo B partecipano alle tappe più significative del metabolismo intermedio come
coenzimi: esse, cioè, sono unite a principi specifici di natura proteica, formano
enzimi complessi che catalizzano svariate e fondamentali reazioni del metabolismo.
Sono sostanze indispensabili per il metabolismo (ac. folico, vit. B12) e più
particolarmente per i fenomeni biochimici relativi ai glucidi (tiamina, niacina,
biotina), ai lipidi (ac. pantotenico, colina) e ai protidi (riboflavina, piridossina).
Vitamina B1 o tiamina o aneurina (antineuritica, antiberiberica). Essa è diffusa in
molti tessuti vegetali verdi e in molti mangimi (crusca, avena, orzo, pula di riso); tra
gli alimenti di origine animale, ne contengono sufficientemente il fegato, cuore, reni,
carni in genere, tuorlo d'uovo e in dosi modeste il latte; il lievito di birra ne è
particolarmente ricco. Se ne perde molta con la cottura degli alimenti. Essa è legata al
metabolismo intermedio degli idrati di carbonio, stimola la funzione digestiva, regola
l'attività cardiaca e muscolare, regola la temperatura corporea, ha azione analgesica
contro le nevriti. La sua carenza nei polli determina polineurite e disturbi a carico
dell'apparato digerente, del cuore, e della termoregolazione. Si trova in commercio
sotto forma di cloridrato di tiamina.
Acido folico o folagina o ac. pteroilglutammico. Si trova in notevoli quantità nelle
parti verdi dei vegetali, nei cereali, nel fegato, nel lievito di birra. Viene sintetizzato
dalla microflora ruminale e del grosso intestino. Sembra indispensabile alla
emopoiesi e alla crescita dei pulcini, ha azione curativa nei riguardi di diverse forme
di anemia in quanto favorisce la formazione e maturazione degli eritrociti e dei
leucociti. Esiste una relazione tra ac. folico e immunità ed in unione alla vit. B12
27
induce la produzione di agglutinine contro la Brucella abortis, Pasteurella multocida
e la Salmonella typhosa. La sua azione favorisce la formazione degli anticorpi
attraverso il metabolismo dell'acido pantotenico e la sintesi dell'acido nucleinico.
Vitamina B2 o riboflavina o lattoflavina o epatoflavina. E' diffusa nel regno vegetale,
ne sono ricchi i tessuti animali ed i prodotti di origine animale (latte, uova, farine di
pesce). Regola, insieme con altre sostanze, i processi di respirazione cellulare,
stimola la crescita, è indispensabile per la funzione visiva e per l'ottimale
funzionamento del sistema nervoso. Nei polli, una carenza di vit. B2 si manifesta con
arresto di accrescimento, diarrea e paresi delle zampe nei pulcini, con una diminuita
produzione di uova e percentuale di schiusa nelle ovaiole, con dermatiti diffuse nei
tacchini; nei suini con perdita dell'appetito, paresi degli arti posteriori, diarrea,
dermatite; negli equini sembra sia la causa della cosiddetta luna (oftalmite periodica).
Essa insieme alle altre vitamine del gruppo B agisce in sinergismo sia auxinico sia
terapeutico. I fabbisogni dei giovani animali sono abbastanza elevati e le quantità
apportate con gli alimenti non sempre sono soddisfacenti, quindi le integrazioni di
vit. B2 sono indispensabili in tutti i tipi di mangime.
Vitamina B3 o acido pantotenico (antidermatica del pulcino). Entra a far parte della
molecola del CoA che assolve alla funzione di trasportatore di gruppi acile nelle
reazioni enzimatiche di -ossidazione degli acidi grassi, nelle reazioni di sintesi degli
acidi grassi e di ossidazione dell'acido piruvico. Inoltre, determina l'acetilazione della
colina che sotto forma di acetilcolina costituisce il mediatore chimico nella
trasmissione degli impulsi nervosi a livello delle sinapsi fra i neuroni. L'acido
pantotenico è così definito a seguito della sua larga diffusione in natura: è, infatti,
presente nelle erbe, nei fieni e nei costituenti dei mangimi concentrati (crusche,
farine, ecc.). Generalmente, non si evidenziano stati carenziali anche perché tale
vitamina viene sintetizzata dalla microflora dell'apparato digerente.
Vitamina B6 o piridossina. Prima di essere utilizzata la piridossina viene convertita
in piridossale e piridossamina che formano, rispettivamente, i coenzimi piridossal
fosfato e piridossamina fosfato. I due coenzimi intervengono in reazioni enzimatiche
in cui avvengono trasformazioni di aminoacidi e trasferimento di gruppi amminici
(transaminazione). Si suppone che la vit. B6 intervenga anche nella produzione di
anticorpi nel sangue e nella sintesi dei grassi dagli aminoacidi. Essa viene definita
anche adermina in quanto svolge un'azione trofica sulla cute prevenendo il
manifestarsi di dermatiti. E' molto diffusa negli alimenti, soprattutto nella crusca di
frumento, nei sottoprodotti della molitura, nelle farine animali e nei germi dei semi.
Vitamina B12 o cobalamina (antianemica). Essa è la più importante di un gruppo di
sostanze ad azione e struttura simile, perciò si può parlare di gruppo delle vit. B12 :
- eucobalamine, hanno azione stimolante sul metabolismo proteico e la sintesi degli
acidi nucleici RNA e DNA;
- pseudocobalamine, sintetizzate dai microrganismi ruminali e del grosso intestino o
da altri microrganismi quali gli streptomiceti.
Esse sono caratterizzate dall'avere nella loro molecola il cobalto, che perciò è
necessario per la loro sintesi. La vitamina B12 è assente nei vegetali mentre, è
contenuta negli estratti epatici ed in vari alimenti di origine animale (farine di pesce,
farina di carne, siero di latte) e fa parte del complesso APF (animal protein factor).
La vitamina B12 è essenziale per l'accrescimento e per l'emopoiesi ed è indispensabile
per la sintesi degli acidi nucleici intervenendo nel metabolismo proteico e della
sintesi della colina e della metionina, in particolare, ed in quello lipidico e glucidico
catalizzando diverse reazioni enzimatiche. Ha notevole funzione antianemica e: a)
nei polli, stimola la crescita ed influisce favorevolmente sulla schiusa delle uova e sul
vigore dei pulcini alla nascita; b) nei suini, oltre a stimolare l'accrescimento,
diminuisce la mortalità postnatale. Negli erbivori, il contenuto di vit. B12 nel fegato,
nei polmoni, rene, cervello, ghiandole salivari, pancreas, è dovuto all'assorbimento di
materiale microbico sintetizzato nel tubo digerente e nei carnivori a quello
proveniente da queste vie e dagli alimenti. La placenta è permeabile a questa sostanza
che può passare facilmente dalla madre al feto.
Vitamina B13 o acido orotico. E' un fattore di crescita dei ratti e dei suini ed è
presente nel lievito, nella pula di riso e nella caseina grezza.
Vitamina B14. Viene estratta dall'urina di esseri umani sani, possiede un’elevata
attività antianemica. Contiene azoto e fosforo ma non cobalto e solfo. Viene
considerata un ormone e pur differenziandosi nettamente dalla cobalamina,
rappresenta parte dei meccanismi chimici, necessari a completare il processo
emopoietico.
Vitamina H (biotina, fattore cutaneo, antiseborroica). È presente nel rosso
d'uovo (biotina), nel latte e nel fegato (biotina); nell'albume dell'uovo è presente
una proteina, l'avidina che inattiva la biotina. E' sintetizzata rapidamente dalla
microflora intestinale, per questo condizioni di carenza, in genere, si manifestano
solo quando si utilizza molto avidina. Come coenzima, partecipa alla costituzione di
enzimi che catalizzano varie reazioni del metabolismo dei glucidi, lipidi e protidi
(bioto proteina del fegato). Come cofermento è necessaria alla desaminazione
reversibile dei singoli aminoacidi. Favorisce la sintesi di acidi grassi insaturi, esplica
azione trofica sulla cute, è indispensabile allo sviluppo embrionale del pulcino,
influenza favorevolmente la produzione della lana.
Vitamina C o acido ascorbico (vit. antiscorbutica, fattore antinfettivo).
Chimicamente è un glucide del gruppo degli esosi il cui carattere acido è determinato
dalla presenza di due ossidrili enolici. Possiede proprietà riducenti ed è
biologicamente attivo sia nella forma ridotta che in quella ossidata. Possiede un ruolo
sinergico all'adrenalina ed interviene nella produzione del collagene da parte dei
fibroblasti; esercita infine un'attività trofica sui vasi capillari. La carenza, infatti,
comporta emorragie diffuse sottocutanee (scorbuto). L'acido ascorbico è necessario
nella dieta di pochi vertebrati, tra cui l'uomo, in quanto la maggior parte degli animali
superiori e le piante sono in grado di sintetizzarlo a partire dal glucosio e da altri
zuccheri semplici. La vitamina C è largamente diffusa nei vegetali verdi, negli
agrumi e nei semi in germinazione, è termolabile e si inattiva facilmente in presenza
di sostanze ossidanti. L'uso zootecnico prevalente di questa vitamina è come fattore
antistress.
Vitamina P o citrina (vit. della permeabilità capillare). E' sinergica all'acido
ascorbico sintomi di carenza sono da attribuire all'aumentata fragilità dei capillari
determinando, la loro rottura, emorragie sottocutanee; l'avitaminosi determina anche
un aumento della permeabilità dei capillari alle proteine.
1.6. Macrobromi Inorganici
Comprendono l'acqua e gli elementi minerali: calcio, fosforo, magnesio,
potassio, sodio, cloro e zolfo. Vengono definiti "macro" in quanto si tratta di
elementi presenti negli alimenti in quantità dosabili con i comuni metodi analitici.
L'acqua è il costituente più diffuso in tutti gli organismi viventi. Il corpo degli
animali giovani è costituito da circa 750 -800 gr di acqua per Kg mentre negli
animali adulti, in buone condizioni nutritive, il contenuto in acqua scende a 500 gr
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per Kg. Essa costituisce il solvente delle reazioni biochimiche che avvengono nelle
cellule, determina la caratteristica struttura e le proprietà biologiche delle proteine e
degli acidi nucleici oltre che delle membrane dei ribosomi e di molti altri componenti
cellulari. Essa interviene meccanicamente nella digestione, nell'assorbimento, nel
trasporto dei nutrimenti e nella eliminazione dei prodotti di scarto che ne derivano.
Agisce sulla termoregolazione in quanto funziona da tampone di calore. L'acqua
dell'organismo si distingue in: intracellulare (40%), extracellulare (20%);
quest'ultima si suddivide a sua volta in acqua del siero (5%) e interstiziale (15%). Le
richieste idriche dell'organismo vengono soddisfatte:
a) per via esogena con l'acqua di bevanda e/o quella contenuta negli alimenti;
b) per via endogena, per mezzo dell'acqua metabolica che si forma durante
l'ossidazione dei carboidrati e dei grassi; essa assume molta importanza negli insetti
che non bevono e negli animali in letargo, ma non negli animali di interesse
zootecnico.
L'acqua apportata con gli alimenti viene facilmente assorbita attraverso le pareti dei
prestomaci nei ruminanti e nell'ultimo tratto dell'intestino negli altri animali.
Generalmente, dato il diverso contenuto idrico degli alimenti, si stabiliscono i
fabbisogni di un animale in funzione della sostanza secca ingerita oppure in litri per
unità di peso. Per i bovini all'ingrasso sono necessari 8-10 litri/q peso vivo/giorno
oppure 2,5-3 litri/kg s.s. ingerita. Per le vacche in lattazione le richieste sono
notevolmente superiori, circa 4 l/kg S.S. ingerita. Una vacca da latte ha delle
esigenze d’acqua molto elevate, basti solo pensare che un litro di latte è costituito per
l’87% da acqua. In generale possiamo dire che i fabbisogni d’acqua di una bovina
variano nel corso dell’anno e sono influenzati da diversi fattori, tra cui i principali
sono: livello di produzione, ingestione di sostanza secca, temperatura e umidità
esterna.
Mediamente una bovina beve tra i 60 e i 90 litri d’acqua al giorno che possono
diventare circa 130 nei periodi più caldi e va ricordato che nelle bovine più
produttive questi valori incrementano del 10-20%, per soddisfare i fabbisogni legati
alla maggiore produzione di latte.
Un’insufficiente disponibilità d’acqua si può evidenziare dall’osservazione di aspetti
puramente produttivi o di tipo comportamentale. In particolare, si osserva: a)
diminuzione dell’ingestione alimentare, b) minore produzione di latte, c) riduzione
delle urine prodotte, d) feci dure, asciutte e costipate, e) animali che si abbeverano da
pozze di fango o di urina.
È importante verificare che i punti di abbeverata all’interno della stalla siano ben
accessibili dagli animali. Inoltre, si dovrebbe offrire un perimetro utile di abbeverata
di almeno 7-8 cm per capo; è importante poi che le vasche di abbeverata siano servite
con flussi d’acqua adeguati e/o dotate di una buona riserva d’acqua, altrimenti si
rischia che le bovine non bevano a sufficienza.
Un altro aspetto importante che aiuta a migliorare, notevolmente, l’assunzione
d’acqua da parte degli animali, è quello di curare la qualità dell’acqua d'abbeverata
con una periodica pulizia degli abbeveratoi.
I suini di circa 80-100 Kg possono consumare fino a circa 30 litri di acqua al
giorno mentre, le scrofe in lattazione circa 20-22 l. Nelle specie avicole si considera
un fabbisogno idrico pari al doppio del mangime consumato; per le ovaiole è
necessario un supplemento pari al doppio dell'acqua contenuta nelle uova. La
disponibilità continua di acqua di bevanda determina un maggior benessere negli
animali e, quindi, maggiori produzioni zootecniche. Oltre ad essere pulita, cioè priva
di scorie, l'acqua deve essere potabile, cioè con giusto contenuto minerale (< 500-600
p.p.m.). Il 90-95% del contenuto minerale è rappresentato da: carbonati, bicarbonati,
clorati, solfati di sodio, potassio, magnesio e calcio.
Minerali
L'organismo animale per il 95,7%, del proprio peso è costituito da acqua,
proteine ed idrati di carbonio, cioè elementi plastici (C, H, O, N), il 4,2% da
macroelementi (hanno azione plastica) mentre i microelementi sono presenti in
tracce. Gli elementi minerali biogeni o macroelementi sono: Na, Mg, P, S, Cl, K, Ca
(elencati secondo il peso atomico) mentre i microelementi o minerali accidentali (con
azione oligodinamica, catalitica), in ordine alfabetico, sono: Al, Ag, As, Ba, B, Br,
Cs, Co, Cr, Fe, Fl, Li, Mn, Mo, Ni, Pb, Cu, Rb, Se, Sn, Ti, V, Zn.
I minerali sono privi di energia e di azoto ma sono essenziali per l’alimentazione
animale, peraltro, essi non possono essere sintetizzati, a differenza di altri principi
nutritivi, dall’animale e quindi devono essere presenti nella razione in quantità
sufficienti a soddisfare i fabbisogni. Per quanto riguarda le funzioni dei minerali
bisogna ricordare che:
a) alcuni sono fondamentali per la formazione dello scheletro e dei denti (calcio,
fosforo);
b) il fosforo entra nelle reazioni metaboliche che comportano trasferimento di
energia in tutte le cellule animali;
c) alcuni minerali sono necessari per la sintesi proteica: tra essi lo zolfo che fa parte
della molecola degli aminoacidi solforati (metionina, cistina, cisteina) inoltre,
fosforo, ferro, manganese, zinco, nichel e cromo sono componenti dell’RNA che è
indispensabile per tutte le sintesi proteiche;
d) la maggior parte dei microelementi ma anche qualche macroelemento (calcio)
entrano nei sistemi enzimatici che possono essere: 1) metalloenzimi dove c’è una
rigida associazione tra il metallo e la porzione proteica della molecola, ognuna delle
quali ha un numero fisso di atomi di un dato elemento e 2) complessi di
metalloenzimi dove l’associazione non è molto stretta e vi possono essere
sostituzioni tra elementi diversi;
e) alcuni minerali più abbondanti quali il Ca, P, Mg, Na, K, Cl rappresentano gli
elettroliti dei liquidi corporei e delle secrezioni digestive e sono indispensabili nelle
funzioni vitali quali la pressione osmotica, l’equilibrio acido-basico, il pH, la
permeabilità delle membrane, la trasmissione nervosa; così, sodio e potassio sono
abbondanti nelle secrezioni digestive, il fosforo nella saliva, il cloro nei succhi
gastrici, il calcio nella bile.
f) alcuni regolano il grado di eccitabilità neuromuscolare: calcio e magnesio la
deprimono, potassio e sodio aumentano l’eccitazione nervosa. In una situazione in
cui si ha un brusco calo ematico di magnesio e un aumento di potassio si verifica una
dismetabolia che va sotto il nome di tetania da erba; mentre, un livello insufficiente
di calcio dopo il parto predispone al collasso puerperale;
g) altri minerali hanno ruoli specifici e ben definiti: lo iodio è componente della
tirosina che regola il ritmo metabolico, il cobalto fa parte della vitamina B12, il ferro,
fra l’altro, serve per il trasporto dell’ossigeno da parte dell’emoglobina, il cromo è
un attivatore dell’insulina.
Stabilire i fabbisogni minerali diventa complicato in quanto diversi fattori
influenzano il destino dei minerali una volta ingeriti, così ad esempio:
31
a) il comportamento degli animali varia con la specie e con le condizioni
fisiologiche: accrescimento, gravidanza, lattazione;
b) ci sono diverse interrelazioni tra i minerali,
c) esistono interferenze, nel calcolo della digeribilità, delle quote di origine
endogena;
d) una diversa solubilità e disponibilità dei prodotti e composti attraverso i quali i
minerali sono somministrati.
Comunque, oggi mediante l’uso di elementi marcati (radioattivi) si può essere più
precisi sul fabbisogno in minerale da parte degli animali
Circa il grado di utilizzazione dei minerali è bene ricordare che esso varia con gli
alimenti che li contengono e li veicolano:
a) il magnesio contenuto nei foraggi verdi è poco utilizzabile rispetto a quello
contenuto nei foraggi maturi;
b) per il fosforo fitinico, presente nelle farine di soia e di cotone e nei cereali e
cruscami (60% del fosforo totale) (la fitina è una combinazione di vitamina
(inositolo), fosforo e altri minerali quali calcio e magnesio) va detto che la sua
utilizzazione dipende dal rapporto Ca:P, dalla quantità di vitamina D disponibile, dal
pH dell’apparato digerente, dal livello di zinco nella dieta. Dal 30 al 90% dei fitati
sono idrolizzati (grazie alla fitasi) e metabolizzati dai microrganismi del rumine e ciò
significa che i ruminanti utilizzano meglio il fosforo fitinico rispetto ai monogastrici
per i quali il grado di utilizzazione è quasi nullo;
c) per il calcio la variabilità del grado di utilizzazione è leggermente inferiore a
quella del fosforo (20-80 vs 20-50%); comunque l’utilizzazione del calcio è bassa ed
è maggiore nei monogastrici che nei ruminanti. Il calcio contenuto nell’erba medica
per il 20-30% è sotto forma di ossalato e non è utilizzabile dai ruminanti. Lo stesso
discorso vale per il potassio. Nei bovini, sia il sodio che il potassio e il cloro vengono
assorbiti quasi interamente mentre solo il 3-4% del manganese viene assorbito.
Sull’assorbimento dei minerali influiscono molti fattori:
a) per alcuni (calcio, magnesio, zinco, ferro) la quantità assorbita diminuisce
all’aumentare di quella ingerita;
b) la fibra, in genere, e la cellulosa, in particolare, legano alcuni minerali (Ca, P,
Mg, Fe, Zn) rendendoli non utilizzabili dall’animale;
c) i ruminanti avrebbero una capacità di assorbimento degli oligoelementi più bassa
rispetto ai monogastrici; al riguardo vale l’esempio del rame che viene assorbito per
il 70% dal vitello lattante e solo per il 10% da quello già svezzato;
d) con l’avanzare dell’età dell’animale diminuisce l’assorbimento dei principali
macroelementi (Ca, P, Mg). Ciò, insieme alla diminuzione delle riserve di calcio e di
magnesio con l’avanzare dell’età, contribuisce alla maggiore incidenza della tetania
da erba e del collasso puerperale nelle femmine con più lattazioni rispetto alle
primipare;
e) l’assorbimento dei minerali è condizionato dallo stato fisiologico: nei bovini
l’assorbimento del calcio aumenta (del 30% circa) verso la fine della gravidanza e
l’assorbimento massimo si ha durante il 2-3° mese di lattazione; in pratica
l’organismo gravido o in lattazione si comporta come nelle fasi di crescita,
assumendo capacità anaboliche per far fronte all’elevato fabbisogno del feto a fine
gestazione e quello relativo all’elevata produzione di latte.
Per quanto riguarda l’eliminazione da parte dell’animale dei minerali in eccesso va
considerato che:
a) un eccesso di minerali comporta per la maggior parte di essi (Ca, Mg, ecc.) un
loro minore assorbimento e quindi una maggiore escrezione con le feci;
b) il fosforo in eccesso verrebbe assorbito per la maggior parte e poi verrebbe
escreto con le urine mediante un processo che richiede Ca+ e Na
+, quindi un’eccesso
di P potrebbe causare una carenza secondaria di calcio e sodio;
c) alcuni minerali se somministrati in eccesso riducono l’assorbimento di altri: ad
esempio un eccesso di potassio riduce l’assorbimento del magnesio.
Contenuto in elementi minerali nel corpo animale
Macroelementi % Ppm
g/Kg Microelementi Ppm
g/Kg
Calcio 1,2 12.000 15 Ferro 50 20-80
Fosforo 0,7 7.000 10 Zinco 20 10-50
Magnesio 0,05 500 0,4 Rame 5 1-5
Sodio 0,14 1.400 1,6 Iodio 0.43 0.3-0,6
Potassio 0,17 1.700 2 Cobalto <0.04 0,02-0.1
Zolfo 0,15 1.500 1,5 Selenio Tracce 1-2
Cloro 0,10 1.000 1,1 Manganese 0.3 0,2-0,5
Fluoro Tracce
Cromo < 0.9
Molibideno < 0.07 1-4
Silice ?
Nichel < 0.14
Vanadio 0,3
Stagno 0,43
Non tutta la quantità di elementi minerali presente negli alimenti viene utilizzata
dall'animale; la quota disponibile è molto modesta: inferiore al 30% di quella
presente, per il magnesio, ed al 60% per il fosforo.
Macroelementi
Calcio - E' il costituente essenziale di tutte le cellule viventi e prevale
quantitativamente nelle cellule scheletriche degli organi animali, ma si trova in tutti
gli organi e liquidi organici. Nel sangue, il calcio è presente nella frazione plasmatica
e tende a diminuire come quantità nella femmina gravida; nei tessuti esso sembra
essere combinato con i colloidi protoplasmatici. Il Ca interviene, soprattutto, nella:
- calcificazione delle ossa e dei denti;
- coagulazione del sangue, gli ioni calcio catalizzano la trasformazione della
protrombina in trombina;
- coagulazione del latte: attraverso la formazione del paracaseinato di calcio;
- regolazione della permeabilità delle membrane cellulari;
- regolazione dell'equilibrio acido-basico del sangue;
- regolazione dell'irritabilità muscolare (agisce da moderatore).
Il Ca viene assorbito nella porzione superiore dell'intestino tenue, forse sotto la forma
inorganica e all'assorbimento contribuiscono: presenza in giusto rapporto del P,
presenza della vitamina D, presenza di altri componenti dell'alimento, reazione dei
succhi intestinali. L'utilizzazione del calcio e del fosforo è massima quando il
rapporto tra i due elementi è: 2/1 nei ruminanti, 0,8/1,2 nei suini, 1,5/2 nei pulcini,
3,5/4 nelle ovaiole. La deficienza di calcio nella dieta non porta ad una variazione del
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tasso di calcio nel sangue se non in casi di estrema carenza; anche i sintomi organici
di carenze di calcio (fragilità delle ossa, riduzione della produzione di latte)
avvengono solo dopo un lungo periodo di deficienza calcica. Ad un’alterazione del
metabolismo del calcio è collegata, invece, una forma morbosa che può manifestare
gravi conseguenze nelle vacche da latte: il collasso puerperale.
Fosforo. Oltre ad essere un costituente degli acidi nucleici, interviene nel
metabolismo di tutte le sostanze nutritive ed è presente in misura dello 0,95% nella
materia vivente dei mammiferi allo stato di fosfati, ortofosfati e derivati organici
fosforati. La maggior parte del P si trova nello scheletro. Il suo assorbimento è
facilitato dalla forma chimica dei prodotti fosforati ed è influenzato dal rapporto
calcio/fosforo infatti, quando uno dei due elementi è eccedente, l'altro viene
insolubilizzato per formare fosfato tricalcico e, quindi, diviene indisponibile per
l'organismo quell'elemento, tra il Ca e il P, presente nella dieta in minore quantità. I
sali di ferro riducono l'utilizzazione di P e l'assimilazione del Ca. La carenza di P è
più frequente rispetto a quella del Ca e negli animali giovani e in quelli all'ingrasso si
manifesta con: depravazione del gusto, scarso accrescimento, elevato indice di
conversione, rachitismo. Nelle femmine si hanno turbe delle ossa e dei denti,
infertilità, aborto, nascita di redi deboli, diminuita produzione di latte. Nel caso di
carente apporto alimentare di P l'animale è costretto a fare ricorso alle proprie riserve
ossee.
Potassio - Tutti i foraggi ne contengono in quantità superiori a quelle richieste dagli
animali. Il K+ è il principale catione endocellulare ed è localizzato soprattutto nei
muscoli (75%) e nel fegato, mentre solo il 5% si trova nelle ossa.
Esso regola la pressione osmotica cellulare, gli equilibri elettrolitici e acido-basici,
stimola l’eccitabilità neuromuscolare ed è coinvolto nel metabolismo dei glucidi.
Anche se la sua presenza è limitata in molti mangimi concentrati, il suo elevato
contenuto nei foraggi (2,5% nelle graminacee), soprattutto se giovani, e l’elevata
utilizzazione digestiva (90% circa) rende difficile una carenza negli erbivori.
Bisogna, invece, evitare eccessi di K (facili con l’ingestione di melasso di bietola non
depotassato, molta erba giovane) in quanto si può verificare una carenza di altri
elementi quali quella di Mg per un minor assorbimento e quella di Na e Cl per una
maggiore eliminazione con le urine. Per evitare ciò quando nella razione il rapporto
K/Na è maggiore di 3 bisogna integrare con Na. Il rapporto ottimale tra Ca e K è di
3/1. Tra i due elementi c'è antagonismo; il primo intensifica i processi ossidativi
dell'organismo, il secondo li deprime.
Sodio e Cloro - Sono due elementi molto richiesti dall'organismo il quale, fra l'altro,
non ha la possibilità di formare depositi da cui attingere nei momenti di bisogno. Il
sodio è contenuto in misura dello 0,2% ed è diffuso prevalentemente nel plasma
sanguigno dove rappresenta la quasi totalità delle basi ed ha, perciò, una funzione
preminente nella formazione della riserva alcalina e nella regolazione del pH del
sangue. Il cloro accompagna quasi sempre il sodio, tanto nei tessuti che negli umori
circolanti: il plasma sanguigno contiene, infatti, circa l'8%o di cloruro di sodio e
notevoli quantità di Cl-ioni sono presenti nel succo gastrico. Inoltre, il Cl è connesso
con il trasporto di CO2 nel sangue; il Cl-ione è importante per il normale equilibrio
osmotico dei liquidi dell'organismo ed è anche l'attivatore di alcuni enzimi (amilasi
salivare). La carenza di NaCl comporta perdita dell'appetito, diminuzione del peso,
riduzione della produzione lattea. L'integrazione della razione con NaCl è sempre
utile sia perché il fabbisogno degli animali difficilmente è coperto dalla quota
presente negli alimenti e sia perché il potassio, presente negli stessi in quantità
elevate, richiede una più consistente presenza di Na.
Magnesio - E' presente nell'organismo in dose molto bassa (0,05% del peso corporeo)
ed è mineralizzato per la maggior parte nel tessuto osseo; il suo assorbimento avviene
prevalentemente nel tratto pilorico-duodenale dove l'ambiente è ancora
sufficientemente acido. Il tasso di assorbimento del Mg è molto variabile a secondo
dell’alimento che lo contiene, dell’età dell’animale e del livello di altri minerali nella
dieta (es. il potassio) In forma dinamica, cioè come ione, interviene nel meccanismo
dell'eccitabilità muscolare in sincronia con il calcio; inoltre, entra a far parte di
numerosi enzimi tra cui la fosfatasi alcalina. La carenza di Mg determina una caduta
della produzione lattea nelle lattifere, una crescita rallentata negli animali giovani,
aborto e involuzione uterina nelle femmine gravide, calcificazione dei tessuti molli,
ipereccitabilità accompagnata da manifestazioni tetaniche, aumento del metabolismo
basale. Considerando che, almeno nei ruminanti, esiste un controllo omeostatico che
permette di eliminare senza difficoltà moderati eccessi di Mg, ma non di fronteggiare
adeguatamente carenze dell’elemento, con il Mg è preferibile largheggiare piuttosto
che risparmiare. Comunque, un suo eccesso determina un aumento dell'eliminazione
urinaria del calcio tanto da determinare stati di rachitismo.
Zolfo - E' presente nell'organismo in ragione dell'1,5-2%; nella quasi totalità si trova
in forma organica (aminoacidi, vitamine) mentre si riscontrano solo minime tracce di
composti minerali. Una lieve integrazione minerale (solfato di sodio, o zolfo
finissimo) è consigliabile solo negli ovini per migliorare la qualità della lana
Microelementi
Sono principi protettivi in quanto assumono un ruolo preponderante nel
controllo del metabolismo animale come costituenti del gruppo prosteico di numerosi
enzimi. Inoltre, alcuni di essi svolgono anche funzioni di attivatori di enzimi (il
manganese attiva il funzionamento dell'arginasi), entrano nella genesi di ormoni
(iodio) e di vitamine (cobalto).
Ferro - Circa il 60-70% è contenuto nell'emoglobina, ma discrete quantità sono
contenute nella mioglobina e negli organi di riserva come il fegato, la milza e il
midollo osseo. Il suo assorbimento si verifica quasi totalmente nel duodeno;
nell'epitelio intestinale si coniuga ad una struttura proteica formando una
cromoproteina detta ferritina. Delle combinazioni organiche del ferro solo quella
porfirinica (emoglobina e mioglobina) non viene utilizzata alimentarmente in quanto
il microelemento non si libera dal nucleo tetrapirrolico. L'utilizzazione del ferro
alimentare viene influenzata da: fabbisogno organico, grado di acidità del duodeno,
caratteristiche dei componenti della razione, integrità della mucosa intestinale,
presenza di vitamina E. Il ferro è legato al trasporto di ossigeno in funzione della
capacità di tale elemento di cambiare valenza, entra a far parte del gruppo prosteico
dell'emoglobina (eme) e dei citocromi ed interviene nella formazione dell'enzima
succinico deidrogenasi. Il sintomo più marcato della carenza di ferro è l'anemia,
caratterizzata da globuli rossi piccoli, poveri di emoglobina ma in quantità normale
per ml di sangue. L'anemia ferropriva è frequente nei lattanti a causa sia delle scarse
riserve organiche, sia dell'insufficiente contenuto di tale elemento nel latte e sia per la
ridotta secrezione gastrica di HCl, principale responsabile della conversione dei sali
ferrici in ferrosi, più facilmente utilizzabili. Nei suinetti, la secrezione di HCl inizia
solo verso la terza settimana di vita; inoltre, in questi animali il tasso epatico del ferro
è di 30 mg/Kg alla nascita e di 90-100 mg/Kg nell'adulto. I suinetti quintuplicano il
35
loro peso in circa 3 settimane, il latte fornisce solo il 10% del fabbisogno giornaliero
di ferro, per cui le riserve organiche si esauriscono in un paio di giorni. I suinetti
dovrebbero grufolare nel terreno (possibile solo negli allevamenti familiari) o
ricevere integrazione con composti ferrosi (preferibilmente stabili nella forma
ridotta) i quali dovrebbero contenere anche adeguate quantità di rame (mobilizza il
ferro e lo rende disponibile per la sintesi dell'emoglobina) e di cobalto (attiva
l'eritropoiesi). E' fondamentale la presenza di glucosio e di glicina che favoriscono la
sintesi del gruppo eme. Tali preparati, in genere somministrati per via orale,
dovrebbero avere un pH basso al fine sia di favorire un'anticipata acidificazione del
contenuto gastrico che di inibire lo sviluppo di germi patogeni.
Rame - Viene assorbito prevalentemente nel primo tratto del digiuno ed è presente
nel plasma, soprattutto, sotto forma di ceruloplasmina (glicometalloproteina). E'
accumulato soprattutto nel fegato e, in quantità minime, nel midollo osseo. Le sue
funzioni principali sono:
- legato alla ceruloplasmina, interviene nell'assorbimento e nella mobilizzazione del
ferro;
- interviene nella formazione della matrice proteica del tessuto osseo stimolando gli
enzimi preposti a tale funzione: una carenza di rame determina ispessimenti delle
articolazioni e frequenti fratture;
- attiva la funzionalità della tirosinasi, l'enzima che catalizza la sintesi del pigmento
cutaneo melanina a partire dall'aminoacido tirosina: uno stato carenziale di rame
determina infatti depigmentazione dei peli;
- allo stato di ione Cu++
è attivatore della tripsina, interviene sul sistema nervoso
centrale in quanto attiva la sintesi della mielina.
Generalmente, i foraggi non manifestano vistose carenze cupriche per cui è
sufficiente un minimo di integrazione minerale per soddisfare le esigenze organiche
degli animali.
Cobalto - Si trova localizzato nel fegato, reni e pancreas; l'assorbimento avviene solo
sotto forma di vitamina B12 e si verifica solo nel primo tratto dell'intestino tenue ed il
suo ruolo è legato a quella della vit. B12 di cui è parte integrante. Negli erbivori viene
sintetizzato nel rumine se poligastrici e nel crasso se monogastrici. Ha una notevole
azione emopoietica, se somministrato in dosi eccessive causa aumento dei globuli
rossi (policitemia). La concentrazione minima sufficiente a garantire un adeguato
apporto alimentare agli animali è di circa 0,1 mg/Kg s.s. della razione.
Iodio - Nei mammiferi è presente in quantità molto limitate (0,4 p.p.m.), è
indispensabile al funzionamento della tiroide dove si trova in concentrazione più
elevata e combinato alla proteina tireoglobulina ed agli ormoni tiroxina e 3,5,3'-
triiodotironina. La carenza di iodio determina una ridotta produzione di ormoni
tiroidei e, quindi, la comparsa del gozzo dovuto ad ipertrofia del tessuto ghiandolare
a causa di un marcato accumulo di precursori proteici degli ormoni. Negli animali
giovani, l'ipotiroidismo ritarda l'accrescimento e lo sviluppo sessuale; in quelli adulti,
riduce l'intensità dei calori ed il tasso di concepimento mentre aumenta gli aborti e la
ritenzione di placenta. La carenza di iodio può portare anche al prolungamento della
gestazione. Negli alimenti vi possono essere sostanze ad attività gozzigena (composti
solforati delle crucifere) che ostacolano sia l'assorbimento intestinale dello iodio che
la sua incorporazione nella tireoglobulina. Il limite minimo di questo elemento
necessario per evitare fenomeni carenziali è di 0,15 mg/Kg s.s. di alimento.
Manganese - E' concentrato, soprattutto, nei peli la cui costituzione è utilizzata come
indice del contenuto dell'elemento nell'organismo. L'assorbimento avviene
prevalentemente sotto forma di Mg++
mentre l'escrezione si verifica per via biliare. E'
il costituente o l'attivatore di numerosi enzimi; interviene, inoltre, nell'attivazione di
molti enzimi come la fosfoesterasi, l'adenosina-trifosfoesterasi e numerose peptidasi.
E' indispensabile per la sintesi dell'ormone luteinizzante (LH). Una sua carenza
determina ritardi della pubertà, calori silenti, riduzione del tasso di concepimento e
della libido nei maschi, trofismo osseo (se la sua carenza è associata a quella della
colina e della biotina), condrodistrofia dei pulcini (accorciamento ed ispessimento
delle dita e sviluppo carente del becco). Esso deve essere presente nelle razioni in
ragione di 20-30 p.p.m. per i suini, 10-30 p.p.m. sulla sostanza secca per i bovini e
35-55 p.p.m. per le specie avicole.
Zinco - E' distribuito soprattutto nei capelli, peli, penne, ossa e denti. Si trova sempre
legato alle proteine e a volte entra a far parte di enzimi. Viene assorbito (non tutto
quello contenuto nella razione) nel tratto intestinale. Elevate quantità di calcio ne
inibiscono l'utilizzazione. Esso partecipa all'attività dell'anidrasi carbonica interessata
agli scambi gassosi fra i tessuti e partecipa al meccanismo responsabile della
calcificazione ossea, entra nelle attività delle fosfatasi, nell'amilasi pancreatica e nella
sintesi dell'insulina. Lo zinco risulta quindi indispensabile per l'accrescimento, per la
cheratinizzazione della pelle e dei peli, per l’osteogenesi e la condrogenesi e, forse,
per la normale funzionalità dei testicoli e dei tubuli seminiferi.
L'integrazione di zinco nelle miscele si effettua con l'aggiunta di sali quali il cloruro,
il carbonato, l'ossido, ma il più usato è il solfato eptaidrato.
Selenio - A concentrazioni minime esercita azione auxinica e riduce gli effetti della
carenza di vitamina E. L'azione antiossidante svolta dal selenio è dovuta al fatto che
esso entra nella costituzione dell'enzima glutatione-perossidasi, la cui funzione è
quella di sottrarre l'ossigeno eccedente prevenendo la formazione dei perossidi.
Le normali reazioni di ossidazione dei substrati energetici, che avvengono all’interno
delle cellule, portano alla formazione dei radicali liberi. La presenza di queste specie
reattive dell’ossigeno si ripercuote sull’equilibrio ossidativo cellulare richiedendo
l’intervento del sistema antiossidante per ridurre il processo di perossidazione dei
lipidi.
I sistemi enzimatici in grado di contrastare i radicali liberi sono rappresentati o da
sostanze“scavenger”(spazzini) o da sistemi enzimatici quali:
- superossido-dismutasi (zinco dipendente),
- glutatione perossidasi e catalasi (selenio dipendente),
- glutatione reduttasi localizzati in strutture subcellulari e nel citosol delle cellule
eucariote (Jacob, 1995, Therond et al., 2000).
Non sempre i sistemi di difesa antiossidante sono in grado di contrastare i radicali
liberi prodotti. Spesso per aumentare la capacità antiossidante dell’organismo si
rende necessaria un’integrazione alimentare con sostanze quali: pigmenti vegetali,
vitamine (vitamina C, vitamina E, caroteni), micronutrienti ed enzimi (selenio, rame,
zinco, glutatione, coenzima Q10, ecc.). L’attenzione del consumatore verso gli
“alimenti funzionali” che possano colmare le carenze della dieta senza ricorrere ad
integratori specifici è oggi crescente. Infatti, l’arricchimento intrinseco di un
alimento, piuttosto che un integrazione dall’esterno è vista con notevole favore.
Fra le varie sostanze antiossidanti, l’attività del selenio ha una importanza rilevante
in quanto è un costituente di diversi enzimi tra i quali l’unico di accertata importanza
per i mammiferi è la glutatione-perossidasi, enzima citosolico e mitocondriale che
prende parte alla formazione di alcune seleno-proteine, la cui espressione è affidata
ad alcuni geni e regolata da ormoni.
37
La famiglia delle seleno-proteine include circa 20 proteine eucariote (organismi che
hanno organizzazione cellulare complessa, con nucleo distinto dal citoplasma)
l’espressione delle quali è altamente specifica per ciascun tessuto e dipende dalla
disponibilità di selenio. La glutatione perossidasi, insieme anche ad altri enzimi come
la tireodoxina reduttasi, è uno dei maggiori antiossidanti contenenti selenio
abbondantemente presenti a livello della ghiandola mammaria dove la sua funzione
principale è quella di rimuovere alcuni fra i più pericolosi radicali liberi come il
perossido d’idrogeno e i lipoperossidi.
I primi esperimenti sull’integrazione di alimenti con selenio sono stati condotti
all’inizio degli anni settanta, utilizzando la forma inorganica del selenio, la selenite
(selenito di sodio). Tale fonte permette di assorbire selenio in maniera passiva
dall’intestino e la parte in esubero viene escreta con le feci e le urine, alcune forme
organiche invece (ad esempio la seleno-metionina che presenta selenio al posto dello
zolfo) vengono assorbite sfruttando meccanismi attivi (come quelli degli aminoacidi)
e depositate a livello muscolare incrementandone le riserve.
Tali riserve si dimostreranno particolarmente utili in condizioni di stress come
accade subito dopo il parto per le bovine da latte, quando le richieste organiche
aumentano e contestualmente diminuisce la capacità d’ingestione degli animali. Lo
stesso benefico effetto è stato riscontrato anche in altre specie animali (come i polli )
ed anche nell’uomo.
A livello mammario, il selenio favorisce l’attivazione della glutatione perossidasi
ubicata nel citoplasma, che è considerato un enzima d’emergenza in quanto è in
grado di prevenire gli effetti dannosi legati ad uno stress ossidativo quali, ad
esempio, le mastiti; infatti la glutatione perossidasi è implicata in alcuni eventi
fisiologici come la regolazione della produzione delle citochine pro-infiammatorie
(IL-1, IL-6, TNF), indicate fra i principali fattori causali del così detto “stress da
malattia”.
Sempre nelle bovine da latte è stato dimostrato come un’elevata concentrazione di
selenio nelle razioni di questi animali comporti un innalzamento di questo
oligoelemento nel colostro e successivamente anche nel latte. Inoltre la
concentrazione di selenio nel sangue materno si ripercuote anche su quello del
nascituro.
L’integrazione della dieta con selenio diminuirebbe la frequenza di problematiche
ginecologiche postpartum quali metriti, ritenzioni di placenta, cisti ovariche.
In generale, l’attività immunomodulatrice del selenio e le sue proprietà antiossidanti
rappresentano sicuramente un grande vantaggio per gli organismi animali (uomo
compreso): stimola il sistema immunitario ed ha una azione antiossidante, essenziale
per la produzione delle cellule linfatiche; agisce inoltre come protettore del sistema
cardiovascolare.
Il selenio è un microelemento (oligoelemento) ed è presente nell’organismo in
piccole quantità ed anche il suo fabbisogno è piccolo, nell’ordine dei milligrammi, e
la legge ne regolamenta l’uso nei mangimi.
I microelemeti principali, per i quali la legge regolamenta l'addizione agli alimenti
zootecnici sono: il ferro (Fe), rame (Cu), zinco (Zn), manganese (Mn), iodio (I),
cobalto (Co), molibdeno (Mo) ed anche il selenio (Se).
La carenza di selenio concomitante a quella di vit. E può causare miodistrofia
enzootica dei vitelli e degli agnelli; nei suini causa decessi improvvisi, necrosi al
fegato e degenerazione muscolare. I foraggi sono carenti in selenio quando il terreno
è acido e quando si effettuano abbondanti concimazioni con solfati i quali inibiscono
il selenio da parte delle piante. Alcune malattie pur non essendo causate da carenza di
selenio rispondono positivamente ad una sua somministrazione quali crisi di
svezzamento degli agnelli e dei vitelli, diarrea cronica del vitello, sterilità per
riassorbimento fetale nella pecora, ritenzione placentare di origine infettiva, mortalità
dei suinetti da somministrazione intramuscolare di ferro.
1.7 Ormoni ed Enzimi
Mentre, come già detto, le vitamine devono essere assunte in gran parte con
l'alimento, gli ormoni e gli enzimi sono prodotti dall'animale. Gli ormoni sono
sostanze indispensabili al normale decorso del metabolismo. Gli enzimi (o fermenti)
determinano il verso e la velocità delle reazioni chimiche, senza essere né alterati né
consumati; la loro attività biologica consiste nel sincronizzare le reazioni cellulari e
nel facilitare quelle reazioni metaboliche che in loro assenza avverrebbero con
estrema lentezza. Tra vitamine, ormoni ed enzimi esistono stretti rapporti reciproci e
tutti e tre sono detti "sostanze attive" o "biocatalizzatori".
Nell'alimentazione degli animali possono essere adottati dei prodotti contenenti
sostanze ormonali o ormonosimili per la stimolazione dell'accrescimento e dei
processi fisiologici di interesse economico quali la produzione della carne o del latte,
la regolazione dei cicli sessuali, ecc.:
- sostanze tireoattive in grado di provocare stati di ipertiroidismo, quali le proteine
iodate che stimolano la produzione del latte nelle bovine;
- sostanze tireostatiche, che provocano l'ipotiroidismo e quindi l'ingrassamento;
- estrogeni sintetici (vietati dalla legge) i quali esercitano azione metabolizzante,
stimolando la crescita.
Per gli enzimi vengono utilizzate preparazioni, contenenti enzimi amilolitici e
proteolitici, che aggiunte alla razione migliorano la digeribilità degli alimenti e
quindi consentono di utilizzare foraggi e mangimi di basso valore nutritivo.
1.8 Fattori Sconosciuti di Crescita
Vi sono alimenti che, se somministrati agli animali, hanno una particolare
efficacia (sull'accrescimento) non spiegabile soltanto in base al loro contenuto in
principi nutritivi. Gli stessi prodotti grezzi si considerano perciò portatori di fattori
sconosciuti di crescita (U.G.F: = unidentified growth factors). Tra essi ricordiamo:
- fattore pesce (solubili di pesce, farina e avanzi di lavorazione del pesce, farina di
fegato);
- fattore solubile di fermentazione (farina di semi di soia, lievito di birra, granturco,
fegato, farina residua di fermentazione degli streptomices, ecc.)
- fattore succo d'erbe (farina d'erba medica disidratata, succo di foraggi freschi, siero
essiccato, crema di latte essiccata);
- fattore protidico (gelatina, caseina, farina di soia);
- fattore tuorlo d'uovo (grasso del tuorlo d'uovo, lecitina).
1.9 Promotori di Performances e Additivi
Vi sono alcune sostanze non in grado o quasi di fornire energia che si
dimostrano capaci di migliorare le prestazioni (performances) degli animali. Fra esse
ricordiamo quelle che hanno proprietà auxiniche e quindi in grado di stimolare la
crescita, migliorare l'indice di conversione degli alimenti, la resistenza generale
dell'animale e il rendimento produttivo. Esse vengono dette "promotori di
performance"; invece, gli additivi sono sostanze (antiossidanti, emulsionanti,
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conservanti, addensanti, gelatificanti, coloranti, ecc.) capaci di proteggere gli alimenti
dall'irrancidimento o dagli effetti dannosi dell'umidità e/o della conservazione,
favorire la preparazione e la presentazione degli alimenti. Comunque, la differenza
tra promotori di performances e additivi è del tutto formale in quanto i primi sono
degli additivi ed entrambi mirano ad ottenere: più elevate produzioni, soddisfacente
stato sanitario, perfetta efficienza riproduttiva, minor costo alimentare. Per il
legislatore, gli additivi sono sostanze che possono, se incorporate nei mangimi,
influenzare favorevolmente le caratteristiche degli stessi e le produzioni animali.
Tutte le sostanze da aggiungere alle razioni alimentari destinate agli animali
domestici devono, nelle dosi impiegate:
- non avere conseguenze negative sulla quantità e qualità delle derrate ricavate dagli
animali stessi (carne, latte, uova, ecc.);
- non essere riscontrabili come residui, nei prodotti animali, in quantità tali da essere
nocive per il consumatore;
- essere stabili e ben definite chimicamente ed il loro controllo deve poter essere
effettuato con dei precisi metodi analitici di laboratorio;
- essere ammesse dalla legislazione vigente.
I promotori di performance a carattere auxologico e farmacologico in genere
vengono somministrati con gli alimenti in quanto questa via di somministrazione fa
risparmiare tempo e manodopera e nello stesso tempo assicura un dosaggio preciso a
tutti i soggetti in allevamento. Alcuni di questi vengono utilizzati a basso dosaggio e
per tutta la carriera produttiva dell'animale, esercitando un'azione positiva sulla
crescita e sugli indici di conversione degli alimenti. Altri sono utilizzati per lunghi
periodi con lo scopo di prevenire la diffusione di malattie infestive od infettive
(azione di profilassi). Altri, ancora, si somministrano solo quando insorgono malattie
infettive che richiedono una terapia di massa, o in fase di allattamento e/o
svezzamento. Tra essi ricordiamo:
Antibiotici e sulfamidici: nell'alimentazione degli animali molto giovani o in quelli
tenuti in ambienti molto affollati o in condizioni sanitarie precarie la razione
alimentare viene integrata con antibatterici i quali svolgono azione profilattica,
terapeutica ed auxinica attraverso il controllo alimentare del microbismo
gastrointestinale. Difatti gli antibatterici (antibiotici, sulfamidici e chemioterapici, in
genere), utilizzati attraverso l'alimentazione contrastano i microrganismi che causano
malattie aspecifiche e subcliniche, svolgono azione modulatrice sulla flora microbica,
assecondando quella più favorevole, per una più intensa sintesi nutritiva; ed anche
migliorano l'assorbimento dei principi nutritivi da parte delle mucose del tubo
digerente, grazie ad un'azione di sanitizzazione delle mucose stesse. L'impiego nei
non ruminanti degli antibatterici e dei promotori di performance consente di ottenere
benefici sul miglioramento dell'accrescimento (5-8%) e dell'indice di conversione
degli alimenti (3-6%). La loro azione è tanto maggiore quanto più elevato il livello di
intensificazione produttiva dell'allevamento e quanto più basso è il livello igienico.
In Italia, comunque, gli antibiotici sono vietati per fini alimentari, in zootecnia.
Coccidiostatici, furanici, vermifughi: generalmente sono supplementati nei cosiddetti
"mangimi medicati". I coccidiostatici vengono utilizzati contro la coccidiosi (polli,
conigli, suini, ruminanti). Sono di tipo non tossico né per gli animali né per i
consumatori dei relativi prodotti, e vengono somministrati nelle prime fasi della vita
e quando se ne ravvisi l'opportunità. I furanici oltre che sui batteri agiscono anche sui
protozoi; trovano impiego quali antisettici intestinali specie nelle enteriti da
alterazione della flora microbica, nelle gastroenteriti di origine incerta e sconosciuta,
in quelle croniche, nelle enterocoliti nelle quali si richiedono somministrazioni di
antisettici intestinali prolungate, nelle affezioni miste da protozoi e batteri. In
generale, si possono considerare antisettici intestinali ed urinari ad azione locale. I
vermifughi utilizzati sono molti: polvere di tabacco, estratto etereo di felce maschio,
fenotiazine, tetracloruro di carbonio. Importante è intervenire per tempo sull'agente
responsabile e scegliere il prodotto più adatto.
Sostanze tampone: sono prodotti in grado di modificare il pH ruminale determinando
una variazione delle attività microbiche con conseguenti cambiamenti dei prodotti
finali delle fermentazioni e perciò nei quantitativi di acidi grassi volatili (AGV) che
si vengono formando e nei rapporti molari tra di essi. Nel caso di animali all'ingrasso,
si deve favorire la produzione di acido propionico a discapito degli altri; nelle vacche
in lattazione, invece, bisogna spingere verso la produzione di acido acetico. I prodotti
utilizzati sono carbonati, bicarbonati, sali di acidi grassi volatili, prodotti inerti
(residui del cemento), sali fosfatici di sodio. Essi vengono aggiunti alla dieta quando
si verifica un rapido cambiamento del tipo di alimentazione, quando si
somministrano elevati quantitativi di concentrato ad elevato tenore energetico. Infine,
esistono prodotti in grado di inibire la produzione di metano da parte della microflora
ruminale la quale comporta una perdita del valore energetico della dieta di circa il
10%.
41
CAP. II. DIGESTIONE E ASSORBIMENTO DEI PRINCIPI NUTRITIVI
2.1 Generalità
Gli alimenti che compongono le diete delle varie specie animali sono
costituiti da una mistura di principi nutritivi a struttura molecolare più o meno
complessa e sono rappresentati da: proteine, lipidi, glucidi, vitamine, sali minerali,
acqua che per la maggior parte non possono essere assorbiti come tali. La serie di
processi meccanici, enzimatici, e microbiologici che determina la conversione dei
principi nutritivi contenuti negli alimenti in piccole molecole diffusibili ed
assimilabili, prende il nome di digestione.
Gli animali domestici, in base alle loro caratteristiche digestive, possono essere
distinti in quattro categorie:
a) Carnivori (cane e gatto) che presentano una digestione di tipo, esclusivamente,
enzimatica e scarso o nullo è per loro il significato della digestione microbica;
b) Erbivori poligastrici (bovini, ovini, caprini, camelidi) la cui dieta è costituita
principalmente da foraggi più o meno grossolani, subisce nell’apparato prestomacale,
un intenso processo di fermentazione microbica prima di sottostare all’azione degli
enzimi digestivi, che inizia nell’abomaso e si continua nell’intestino tenue;
c) Erbivori monogastrici (cavallo e coniglio), nei quali i processi fermentativi
microbici sono di notevole entità, ma si realizzano nella parte posteriore del tratto
digerente (cieco e colon), quando gli alimenti hanno già subito l’attacco enzimatico
in sede gastrica ed enterica (intestino tenue);
d) Onnivori (suini): pur potendo utilizzare una dieta simile a quella dell’erbivoro
monogastrico o del carnivoro presentano una digestione prevalentemente enzimatica,
anche se nel loro intestino crasso avvengono processi fermentativi microbici di una
certa entità.
I carnivori sono gli animali con l’apparecchio digerente meno sviluppato e a minor
capacità relativa; gli erbivori ruminanti, quelli con l’apparecchio digerente di
maggior capacità, per lo sviluppo preminente del tratto iniziale (prestomaci), subito
seguiti dagli erbivori monogastrici, nei quali lo sviluppo prevalente del canale
alimentare è a carico del cieco e, soprattutto, del colon; in posizione intermedia
troviamo gli onnivori.
Sviluppo relativo delle diverse porzioni del canale digerente
Specie
Stomaco
%
intestino %
Tenue cieco colon
Suini 29 33 (18) 8 30
Cane 63 23 (4) 2 12
Cavallo 9 21 (22) 16 54
Coniglio 15 12 (3,5) 23 50
Bovini 71 18 (46) 3 8
( ), in parentesi lunghezza in metri
L’attività del tubo digerente è caratterizzata da fenomeni meccanici e secretori. Tutti
questi processi sono coordinati da influenze nervose ed umorali, che assicurano
un’ordinata sequenza alle diverse fasi della digestione, a partire dalla triturazione
dell’alimento ad opera dei denti durante la masticazione, proseguendo, con il
convogliamento del bolo nello stomaco attraverso l’esofago e con l’attività secretiva
e motoria dello stomaco stesso; eventi tutti che portano alla formazione del chimo.
I successivi movimenti dell’ingesta lungo il canale alimentare ed il loro
rimescolamento con i succhi pancreatici ed enterici dipendono poi dalla motilità
dell’intestino tenue, che è anch’essa coordinata da un’attività nervosa intrinseca ed
estrinseca, così come lo sono i movimenti della porzione terminale dell’intestino che
portano all’evacuazione delle feci. Le ghiandole annesse all’apparato digerente sono
controllate nella loro attività secretiva da influenze che sono:
- esclusivamente nervose, vedi ghiandole salivari situate all’inizio del tratto
digerente;
- nervose ed umorali, come nel caso delle ghiandole gastriche;
- prevalentemente umorali, come si verifica per la secrezione pancreatica, biliare ed
enterica. Gli ormoni del tratto digerente non sono secreti da ghiandole endocrine
differenziate ma da cellule disperse nella mucosa gastrointestinale.
2.2 Ingestione degli alimenti
L’inizio della digestione è caratterizzato prevalentemente da eventi
meccanici, consistenti nell’assunzione dell’alimento, nella sua masticazione e nella
deglutizione del bolo.
L’ingestione degli alimenti avviene nel momento in cui l’animale ne sente il bisogno
(appetito per gli alimenti solidi; sete per l’acqua). Quando i bisogni non sono
soddisfatti in tempo più o meno breve si ha che l’appetito si trasforma in fame,
mentre il bisogno di bere si fa più forte per l’abbassarsi del tenore normale di acqua
nell’organismo, soprattutto nel sangue e perché si ha una certa aridità della mucosa
orale e della laringe, associata ad una notevole riduzione della secrezione salivare.
Invece, quando i bisogni sono soddisfatti nell’animale si instaura un senso di sazietà
che inibisce per un certo periodo l’eccitazione dell’appetito.
Nel diencefalo esiste un centro della sazietà e un centro dell’appetito che si
influenzano reciprocamente, alternando periodicamente, l’ingestione e la sua
interruzione.
Negli animali, l’appetito può essere talvolta una sicura guida verso un’alimentazione
più appropriata. La scelta degli alimenti da parte degli animali è dettata dall’istinto:
essi sono capaci di scegliere le sostanze nutritive di cui sono carenti o di rifiutare
quelle che sono loro nocive, quando tali effetti si manifestano in tempi brevi.
Importante è la voluminosità degli alimenti ingeriti che deve essere tale da dare
all’animale il necessario senso di pienezza, apportando però all’organismo i principi
alimentari di cui abbisognano.
La prensione degli alimenti solidi avviene in modo diverso a secondo della specie
in funzione delle strutture utilizzate, che possono essere i denti, la lingua o le labbra.
Nei carnivori si può osservare anche l’uso degli arti anteriori.
Il cavallo ha le labbra estremamente mobili e sensibili e le usa per prendere il
foraggio dalla mangiatoia; mentre al pascolo, retrae le labbra e con i denti incisivi
rade l’erba alla base che poi con la lingua conduce sotto le arcate molari;
comportamento analogo si osserva nel cammello.
Il bovino utilizza la lingua rugosa e prensile con la quale afferra il fieno o la paglia e
li porta direttamente sotto i molari mentre al pascolo, avvolge con la lingua il
foraggio, lo porta fra gli incisivi inferiori e il cuscinetto dentale e, con un brusco
movimento in avanti della testa, lo sega utilizzando il margine tagliente degli incisivi
43
inferiori; in questi animali le labbra sono scarsamente mobili e non partecipano
attivamente all’assunzione degli alimenti solidi.
Negli ovini e caprini, il labbro superiore è mobile e coadiuva notevolmente l’azione
della lingua nell’assunzione dei foraggi, soprattutto quando gli animali sono al
pascolo.
Il maiale, se al pascolo utilizza il grugno per scavare tuberi e radici dal terreno e con
il labbro inferiore appuntito li conduce nella cavità orale. Se in cattività, il maiale
effettua l’assunzione del pastone semiliquido nello stesso modo in cui ingerisce le
bevande.
I neonati prendono il latte mediante succhiamento del capezzolo serrato tra le labbra,
esercitato con la protrazione della lingua e determinando una aspirazione attraverso il
vuoto che è formato dalla porzione anteriore del cavo orale.
Per l’assunzione dei liquidi, i carnivori assumono le bevande utilizzando la porzione
libera della lingua, estremamente mobile, che viene ripiegata a guisa di spatola,
immersa nei liquidi e rapidamente retratta nella bocca.
Il maiale, invece, introduce le bevande nella cavità orale mediante un atto inspiratorio
eseguito a bocca semiaperta. Gli altri animali domestici assumono le bevande
attraverso un processo di suzione che attuano, dopo aver immerso la rima labiale
semichiusa al disotto del livello del liquido, retraendo la lingua a guisa di stantuffo di
una pompa; in questo modo, creano una pressione negativa nel cavo orale, con
conseguente richiamo di liquido.
I principali fattori che influiscono sul livello volontario di ingestione sono: fattore
animale, fattore ambiente e fattore alimento. Il fattore animale è dato dalla specie
(livello di ingestione maggiore negli ovini e nei caprini rispetto ai bovini), dalla mole
( il livello di ingestione varia con il peso metabolico), dal tipo di produzione (livello
di ingestione massimo con la produzione del latte e minimo con le altre produzioni),
dallo stadio produttivo (l’ingestione è minima prima e dopo il parto ed è massima
nella parte intermedia della lattazione), dal livello produttivo. Il fattore ambiente è
costituito dal clima (temperatura, umidità dell’aria, ventosità), dalle modalità
costruttive della stalla, dalle modalità di gestione della stalla (cambiamenti di
alimentazione, frequenza dei pasti, tipo di razione). Il fattore alimento è dato dalla
qualità dei foraggi (contenuto in fibra, lignificazione della fibra, digeribilità
dell’alimento, contenuto nergia/ Kg SS), dalla preparazione dei foraggi (i foraggi
sono ingeriti in maggior misura se tagliati corti anziché lunghi), dal tipo di alimento
(i foraggi verdi sono più appetiti rispetto a quelli secchi, così come le leguminose
rispetto alle graminacee e il fieno rispetto al fieno-silo e all’erba-silo).
Nel comportamento alimentare si individuano tre fasi fondamentali: appetitiva o di
ricerca, di prensione del cibo o atto consumatorio e di sazietà o di quiescenza. La fase
appetitiva è caratterizzata dalla ricerca motivata del cibo, attività per la quale ogni
animale fa uso delle funzioni sensoriali che ha più sviluppate: la vista, l’olfatto, il
gusto, ecc. A questa fase succede quella di prensione dell’alimento che si realizza
mediante schemi caratterizzati da forti differenze di specie. Lo stato di sazietà
rappresenta l’ultima fase del comportamento alimentare: l’animale non risponde più
allo stimolo scatenante (presenza del cibo) e cessa di manifestare i segni del
comportamento appetitivo, iniziando una fase di quiescenza. La nutrizione ha un
evidente significato omeostatico: quello di rifornire il materiale energetico e plastico
di cui l’organismo necessita in relazione al suo stato fisiologico ed ai suoi consumi.
Fisiologicamente parlando, l’assunzione del cibo rappresenta la risposta esecutiva
alla sensazione della fame che origina a livello di sistema nervoso centrale in seguito
alla percezione di stimoli endogeni ed esogeni che segnalano all’organismo la
necessità del ricarico per il mantenimento dell’omeostasi. A livello di ipotalamo
esistono due nuclei molto importanti per il controllo di queste attività:
a) un nucleo laterale che rappresenta il centro della fame;
b) un nucleo medio-ventrale che rappresenta il centro della sazietà.
L’organizzazione del comportamento alimentare si basa principalmente sul
monitoraggio da parte di alcuni recettori nervosi centrali e periferici di alcune
costanti ematiche indicative dei livelli delle sostanze energetiche presenti, dello stato
dei depositi delle sostanze di riserva, dello stato di ripienezza dell’apparato
gastroenterico e del flusso dei metaboliti assimilati. Negli animali superiori, il
comportamento alimentare è influenzato anche da molti altri fattori endogeni ed
esogeni, con meccanismi innati ed appresi, che coinvolgono tutti i sensi.
L’attivazione del comportamento alimentare dipende:
a) soprattutto da un controllo glucostatico cioè dalla diminuzione dei livelli ematici
di metaboliti energetici quali glucosio (soprattutto), glicerolo, acidi grassi volatili
(soprattutto nei ruminanti) e corpi chetonici;
b) controllo termostatico: i centri della fame sono stimolati da un abbassamento della
temperatura del sangue che irrora il cervello.
Nei ruminanti, il glucosio ha meno importanza sull’assunzione dell’alimento rispetto
agli acidi grassi volatili (AGV), la cui concentrazione viene percepita dai recettori a
livello ruminale ed epatico e tramite il vago influenza i centri ipotalamici. Durante la
digestione si liberano ormoni gastroenterici, quali la colecistochinina, che a livello
centrale determina sazietà. L’animale regola l’ingestione, mediante la consistenza e
la frequenza dei pasti ed è importante il fatto che esso cessa di nutrirsi prima che gli
effetti assimilativi e metabolici del cibo possano farsi sentire.
Il pasto di solito ha fine con il riempimento dello stomaco, comunque, esiste anche
un controllo gastrico che tiene conto del valore nutritivo del cibo ingerito. Importanti
nella regolazione del comportamento alimentare sono i segnali provenienti dalle
terminazioni gustative: la palatabilità di ogni alimento stimola l’ingestione del cibo e
determina le preferenze alimentari.
In generale, in ogni individuo, una perdita di peso tende ad essere compensata da un
aumento dell’ingestione mentre, un aumento di peso provoca una diminuzione
dell’ingestione volontaria che tende a riportare il peso corporeo nelle condizioni
precedenti. Il punto di aggiustamento dell’equilibrio dipende da fattori genetici
connessi con i limiti della capacità di accumulo del tessuto adiposo, la quale può
essere condizionata in senso positivo o negativo, rispettivamente da eccessi o
deprivazioni alimentari avvenute durante lo sviluppo.
L’accrescimento, la gravidanza, la lattazione, gli stati di convalescenza sono
condizioni che aumentano l’assunzione alimentare, in relazione alle maggiori
necessità energetiche e plastiche. Durante i calori e immediatamente prima del parto,
l’assunzione alimentare diminuisce forse a causa dell’elevata concentrazione di
estrogeni, mentre, durante la gravidanza le elevate concentrazioni di progesterone
stimolano l’assunzione di cibo.
L’insulina, il GH, gli ormoni tiroidei, il paratormone, le endorfine, i tranquillanti, i
barbiturici aumentano l’ingestione alimentare mediante meccanismi non chiari,
mentre la colecistochinina, la calcitonina ed altri ormoni gastrici hanno azione
deprimente.
45
La luce condiziona l’attività ingestiva negli animali ad abitudini diurne e ciò è
sfruttato, ad esempio, per stimolare l’accrescimento nei polli ed in altri animali da
carne.
Si parla di fame specifica quando un animale manifesta il bisogno di un determinato
nutriente e si orienta, potendo scegliere, verso l’alimento che ne contiene. La ricerca
spontanea del sodio, caratteristica negli erbivori, è presente in molti animali,
compreso l’uomo e si accentua negli stati carenziali spontanei o indotti
sperimentalmente.
Riguardo all’ingestione di alimenti dannosi, esistono meccanismi innati o appresi che
provvedono alla difesa dall’assunzione di sostanze dannose e tossiche e dalla
infestione di parassiti. Molte piante tossiche sono amare o irritanti e quindi spesso
vengono evitate e lo stesso avviene per i cibi contaminati da muffe, molto pericolose
per la presenza di tossine. Però, quando il pascolo è insufficiente gli animali si
alimentano anche con specie tossiche: gli avvelenamenti da ferula, da acetosella, da
veratro, da eliotropo, da felci avvengono generalmente solo quando il pascolo è
scarso.
Le capre si alimentano con un numero di essenze molto maggiore rispetto ai bovini e
agli ovini e sono protette dalla loro naturale capricciosità: spesso si vedono brucare
piante sicuramente tossiche ma dopo poche boccate passano a nuove essenze e
pertanto ne assumono in quantità non pericolose. Lo stesso avviene per le piante che
causano timpanite, infatti, le capre sono ghiotte di erba medica e di trifoglio ma
difficilmente ne ingeriscono quantità tali da causare timpanismo.
Molti animali che si cibano di un alimento nuovo che provochi loro un malessere
gastrointestinale rifiutano in seguito di cibarsene.
Nei confronti delle infestioni parassitarie il comportamento alimentare offre dei
meccanismi di difesa; quasi tutti gli erbivori sono coprofobi ed evitano nei limiti del
possibile di ingerire erbe contaminate con le feci sia proprie che di altre specie,
invece, i cavallini, gli agnelli e i capretti alle loro prime esperienze alimentari
possono ingerire paglia contaminata e feci e ciò è causa di infestione di nematodi e
coccidi. Gli ovini che pascolano radendo l’erba più vicino a terra rispetto ai bovini
sono più suscettibili di infestarsi raccogliendo un maggior numero di uova e di
embrioni di parassiti. La capre, che brucano la cima delle erbe e i cespugli sono
molto più difese, tranne nel periodo post-parto, quando le esigenze della lattazione le
spingono a laute foraggiate nei pascoli più ricchi.
L’assunzione di acqua è regolata in modo distinta da quella degli alimenti solidi,
anche se non è completamente indipendente. La regolazione dei liquidi corporei, di
cui la sete e l’assunzione di acqua rappresentano il momento comportamentale, è
devoluta ad un controllo neurovegetativo ed endocrino con l’ormone antidiuretico ed
il sistema renina-angiotensina-aldosterone come principali agenti. L’angiotensina ha
una potente azione dipsogena, fattore che coordina la regolazione endocrina con
quella comportamentale. Dal punto di vista comportamentale, oltre ai segnali
provenienti dal sangue, hanno importanza quelli provenienti dall’apparato digerente,
riguardanti la concentrazione osmotica e lo stato fisico dell’alimento. La qualità
dell’alimento, la sua secchezza o succosità, influisce notevolmente sull’assunzione di
acqua e la secchezza delle fauci è uno stimolo molto importante.
La temperatura ambiente influenza sensibilmente l’assunzione di acqua:
l’evaporazione a livello cutaneo, respiratorio, buccale è il principale meccanismo di
termoregolazione contro il caldo. L’allattamento richiede all’animale ingenti
introduzioni di acqua. Gli erbivori, in condizioni normali si abbeverano due volte al
giorno ma alcune razze di essi in zone aride possono abbeverarsi molto più raramente
(una volta ogni 2-3 giorni). Animali affamati tendono a bere come attività dislocata,
animali assetati tendono a non assumere cibi secchi e polverulenti.
2.2.1 Previsione del consumo volontario di sostanza secca.
Ai fini di una corretta formulazione delle razione, recentemente si è data
importanza alla previsione di consumo volontario di sostanza secca nei bovini. I
sistemi più rispondenti allo scopo sembrano essere quello di Mertens (1987) e quello
francese delle unità di ingombro (UI). Il sistema Mertens parte dal presupposto che
gli animali consumano sostanza secca allo scopo di soddisfare i fabbisogni energetici
e tenendo conto di questo concetto si possono impostare due equazioni:
1) CSSa = Fb/Ed che indica il consumo di S.S. atteso (CSSa) nel rapporto fra il
fabbisogno dell’animale (Fb) e il contenuto di energia della dieta (Ed), che si può
esprimere in diversi modi (TDN, energia metabolizzabile/Kg, energia netta / Kg).
Questa equazione è valida per le diete il cui consumo non è limitato dall’ingombro e
quindi l’animale mangia tanto quanto gli serve. Ad esempio, se una bovina ha un
fabbisogno giornaliero di 63 MJ ed ha a disposizione una dieta con 7 MJ /kg di
energia netta, CSSa sarà uguale a 63/7 = 9Kg di sostanza secca al giorno.
2) CSSa = CI / VId, indica il consumo di sostanza secca atteso nel rapporto fra il
consumo massimo possibile per quell’animale o capacità d’ingestione (CI) ed il
cosiddetto volume di ingombro della dieta (VId) il quale potrebbe essere espresso
come concentrazione di NDF sulla sostanza secca (o in altri modi), ritenuta altamente
correlata in senso inversamente con la capacità di ingestione proporzionale. Così, se
la bovina di cui sopra può ingerire al massimo 4,0 Kg di NDF al giorno e per la
misura di ingombro si decide di prendere la frazione di NDF /Kg SS della dieta,
ponendo NDF = 0,5, il consumo atteso (CSSa) sarà pari a 4,0/0,5 = 8 Kg di sostanza
secca al giorno.
Il valore stimato con la seconda equazione è inferiore a quello della prima, perché
tiene conto dell’ingombro della dieta: quando l’animale ha ingerito 8 kg di sostanza
secca non può ingerirne altra perché limitato dalle caratteristiche fisiche
dell’alimento. In questo caso riesce a ingerire 5 x 8 = 40 MJ di energia netta e,
quindi , non potrà soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Va sottolineato che,
fra i due valori quello più basso è più realistico e quindi è quello accettabile. Si
sarebbe potuta pure verificare la situazione opposta. Non importa quale unità di
misura si adotta perché sia il fabbisogno che la concentrazione energetica vengono
espressi nella stessa unità ed il rapporto è un numero puro mentre, è importante
stimare correttamente il fabbisogno e la concentrazione. Nelle vacche da latte,
secondo Mertens, la capacità di ingestione è, prudenzialmente dell’1,1 ± 0,1 % del
peso corporeo. I fabbisogni sono quelli indicati dall’NRC:
Fb (MJ/d) = 0,335 BW0,75
+ 3,096 FCM –20,58 L + 21,76 G dove:
BW0,75 = peso metabolico; FCM = quantità di latte prodotto al 4% di grasso, L =
perdite di peso, G = guadagno di peso.
Sempre secondo Mertens, le equazioni che correlano il contenuto in energia netta nei
foraggi (DEF = densità energetica del foraggio) con quelle di NDF sono:
a) DEF (MJ/kg S.S.) = 9,72 – 9,04 NDF (kg/ kg S.S.) per i foraggi di leguminose;
b) DEF (MJ/kg S.S.) = 11,98 – 10,96 NDF (kg/ kg S.S.) per i foraggi di graminacee.
Se ad esempio vogliamo alimentare una bovina da latte dalle seguenti caratteristiche:
- peso vivo = 700 Kg
- produzione latte = 24 Kg/d al 3,8% di grasso
47
- non perde e non acquista peso
con una dieta con il 65% di fieno di medica con il 42% di NDF e il 35% di un
concentrato con il 10% di NDF, allora il livello di NDF della dieta completa è: 0,65 x
42 + 0,35 x10 = 30,8% e la densità energetica della dieta è:
Ed = 9,72-9,04 x 0,308 = 6,93 MJ/Kg S.S. e la capacità di ingestione della bovina
sarà:
CI = 0,011 x 700 = 7,7 kg NDF/d.
La quantità di latte corretto al 4% di grasso è:
FCM = Kg 24 x (0,4 + 0,15 x (% grasso) = 24 x (0,4 + 0,15 x 3,8) = 24 x 0,94 = Kg
22,6.
Il fabbisogno è: Fb = 0,335 x 7000,75
+ 3,09 x 22,6 = 0,335 x 136,1 + 3,09 x 22,6 =
115,43 MJ/d
Se applichiamo l’equazione 1, il consumo previsto è: CSSa = 115,43/ 7,7 = 14,99
kg/d.
Mentre, con l’equazione 2 avremo: CSSa = 7,7/0,308 = 25 kg/d. Il valore più basso
è quello da accettare. Se decidiamo di alimentare la bovina con solo fieno di medica,
la concentrazione energetica sarà pari a: 9,72 – 9,04 x 0,42 = 5,92 MJ/Kg S.S. ed il
valore di ingombro della dieta sarà di 0,42 kg/kg S.S. di NDF. Le due equazioni
allora daranno un consumo atteso di 115,43/5,92 = 19,50 Kg/d la prima e 7,7/0,42 =
18,3 Kg /d la seconda. I limiti del modello Martens stanno nel fatto che la
composizione dell’NDF può essere diversa da un alimento all’altro ed essi possono
essere superati prendendo in considerazione il modello Cornell che tiene conto delle
frazioni dei carboidrati a diversa degradabilità ruminale.
Sistema francese delle Unità di Ingombro
L’Unità di Ingombro (UI) della scuola francese (INRA) fa riferimento ad un
Kg di SS di un’erba giovane la cui sostanza organica abbia una digeribilità dell’80%,
corrispondente a 0,95 UFL e a 0,92 UFC. Questo tipo di alimento, mediamente,
viene consumato nella misura di 75 g di SS per kg di peso metabolico dai montoni
adulti. Il valore di ingombro misurato sull’ariete (VIA), da attribuire all’alimento è
dato dal rapporto: VIA = 75/QIA dove QIA= quantità di S.S. ingerita per Kg di peso
metabolico dell’ariete. Ad esempio, un foraggio che venga consumato
volontariamente nella quantità di 40 g/Kg0,75
, ha il valore di ingombro di 75/40 =
1,87. Conoscendo la capacità di ingestione dell’animale (CI), espressa in UI, ad
esempio 2,2 UI al giorno, per calcolare il consumo di S.S. atteso si fa il rapporto fra
la CI ed il VIA: CSSa = CI/VIA = 2,2/ 1,87 = 1,18 Kg S.S./d.
Per le bovine da latte, il valore di ingombro (VIL) è dato dal rapporto: VIL =
140/QIVL dove QIVL è la quantità di sostanza secca ingerita per Kg di peso
metabolico dalle bovine da latte. Per tutti gli altri bovini è: VIB = 95/QIG dove QIG
è la quantità di sostanza secca per kg di peso metabolico ingerita volontariamente in
manzette di razza Pie Noire. E’ possibile convertire un valore nell’altro utilizzando
delle equazioni di conversione:
QIVL = 78 + 0,826 QIA; QIG = 22,4 + 0,969 QIL; QIVL = 57 + 0,852 QIG
Il sistema francese è molto più complesso di quello che qui è stato semplificato;
infatti, di volta in volta andrebbero fatte delle correzioni a seconda della qualità degli
alimenti considerati: fieni di varia origine e natura, insilati vari, insilato di mais,
paglie e diete complete, nelle quali si tiene conto della componente concentrata e
della sua percentuale attraverso la “legge della variazione del tasso di sostituzione
marginale. Per evitare di effettuare di volta in volta i calcoli, dall’INRA, sono state
approntate delle tabelle le quali partendo dal valore di ingombro del foraggio (VIF) di
base della dieta e dalla percentuale di concentrato, si legge direttamente il valore di
ingombro della razione (VIR). Dividendo poi la capacita di ingestione, anch’essa
riportata nelle tabelle, per il VIR, si arriva al consumo di S.S. atteso.
Una volta avvenuta l’assunzione degli alimenti, il processo nutritivo
comprende:
a) la digestione, data dall’insieme dei processi che avvengono nei vari tratti
dell’apparato digerente e che sono di natura chimica, fermentativa, enzimatica, ed
anche biologica, con l’intervento della microflora, attraverso la scissione dei principi
alimentari nei loro costituenti: separandone la porzione utilizzabile dallo stesso
organismo dalle scorie che vengono evacuate;
Correlazioni fra QIA, QIB e QIVL
50
70
90
110
130
150
50 60 70 80 90
QIA (g/Kg0.75
)
S.S
. in
geri
ta (
g/K
g0
.75)
Bovine da latte Manze Pie Noire Arieti
b) l’assorbimento, che è il fenomeno per cui i principi nutritivi liberatisi, durante la
digestione, attraversano mucose e/o pareti del tratto digerente per entrare
direttamente o attraverso determinati organi come il fegato, nel torrente sanguigno o
linfatico;
e) il metabolismo, quella serie di trasformazioni chimiche ed energetiche cui vanno
incontro i principi nutritivi una volta in circolo; favorite dalle condizioni di
temperatura, pressione e pH caratteristiche degli organismi, nonché dall’azione
catalitica degli enzimi e di quella regolatrice degli ormoni, oltreché di altri composti
ad azione bioregolatrice quali le vitamine e vari ioni di elementi minerali. Questi
processi complessi e quelli biochimici che avvengono sempre a livello dei tessuti e
organi vari sono definiti metabolismo e soddisfano le esigenze energetiche delle
singole cellule e dell’intero organismo.
2.3 Masticazione
E’ un processo prevalentemente meccanico che ha lo scopo di sminuzzare e
triturare l’alimento per aumentarne la superficie, e di conseguenza, per facilitare
l’azione idrolizzante degli enzimi digestivi. Essa viene attuata con i denti molari ed è
prolungata ed accurata negli erbivori monogastrici mentre, nei poligastrici la
masticazione che fa seguito alla prensione degli alimenti (masticazione prima) è
piuttosto sommaria ed ha lo scopo di formare un bolo grossolano il quale viene
deglutito e convogliato nel rumine; a questa farà seguito la masticazione mericica che
49
è lunga ed accurata. I carnivori deglutiscono boli scarsamente masticati, sia perché i
loro molari presentano una conformazione inadatta ai processi di fine triturazione, sia
perché questi animali li utilizzano a modo di cesoie, compiendo atti masticatori che
avvicinano la mandibola alla mascella esclusivamente su un piano verticale. Gli
erbivori hanno, invece, molari piuttosto voluminosi e, per di più, forniti di cuspidi
che li rendono particolarmente adatti ad esercitare un’azione triturante sia sulle
cariossidi sia sui foraggi.
Inoltre, gli erbivori compiono movimenti masticatori che fanno scorrere la mandibola
sulla mascella in senso antero-laterale, si può comprendere che l’azione dei denti
sugli alimenti diventa analoga a quella di una macina. La mascella avendo una
larghezza maggiore di quella della mandibola, consente agli erbivori la masticazione
alternativamente da un solo lato. La masticazione è coadiuvata dall’intervento della
lingua e delle guance che con i loro continui movimenti, mantengono l’alimento
costantemente sotto i denti fino a che esso non risulti adatto alla formazione di un
bolo che verrà poi deglutito.
La masticazione è un atto volontario regolato da centri superiori, ma in pratica si
esplica come un atto riflesso involontario ogni volta che viene introdotto
dell’alimento in bocca.
Le vie nervose sensitive di questo atto riflesso sono contenute nella seconda e terza
branca del trigemino; le vie efferenti, in parte nella branca mandibolare per i muscoli
elevatori della mandibola e il muscolo miloioideo; in parte nel 7° nervo cranico, per i
muscoli delle labbra, delle guance e per il ventre caudale del muscolo digastrico; nel
12° nervo cranico o ipoglosso per i muscoli della lingua.
La masticazione è un atto meccanico di triturazione esercitato simultaneamente dalle
mandibole e dai denti molari ed è favorito dalla funzione passiva della volta palatina.
Con la triturazione si ha anche l’insalivazione che oltre a provocare il rammollimento
degli alimenti per favorirne la deglutizione dà soprattutto inizio, nella bocca, alla loro
digestione; con l’insalivazione si provoca, infatti, una prima scissione idrolitica dei
disaccaridi e polisaccaridi ad opera della ptialina (amido in destrine e maltosio).
2.3.1 - Saliva
Il compito della saliva è il mantenimento della umettazione boccale, oltre a funzioni
antibatteriche, lubrificanti e digestive nei confronti degli amidi e del glicogeno
alimentare.
Le ghiandole salivari concorrono alla formazione della saliva con secrezioni di tipo
mucosa e sieroso e le secrezioni sono diverse per la composizione in proteine, sali,
muco, enzimi. Le mucine sono glicoproteine con i residui glucidici rivolti verso
l’esterno, con la caratteristica di elevata solubilità ed idratazione e rendono viscosa la
soluzione in quanto si gonfiano; lubrificano la mucosa e quindi la proteggono mentre
impastandosi con il bolo alimentare (imbibizione) lo fanno rigonfiare. Il bolo viene
reso viscido e morbido e, quindi, viene agevolato il suo scivolamento nell’esofago
verso lo stomaco; inoltre, il rigonfiamento aumenta la superficie d’attacco del bolo da
parte dei succhi digestivi.
Il secreto sieroso, tipico della paratiroide, presenta una proteina diversa di natura
enzimatica, nota come ptialina o amilasi salivare; tale enzima ha il compito di
idrolizzare i legami 1--4 glucosidici, tipici dell’amido. Il pH ottimale della ptialina
è intorno a 6,7 e l’ambiente gastrico, fortemente acido, ne inibisce l’azione. I prodotti
finali della digestione con l’amilasi salivare sono il maltosio, il maltotrioso e le
destrine -limite.
Nel complesso, la saliva si presenta come un liquido incolore, leggermente
vischioso, composto per più del 98% di acqua. I soluti sono organici (mucina,
ptialina, albumine, globuline, urea) e inorganici (Cl--, HCO3
-, HPO4
--, H2PO4
-, I
-, K
+,
Na+, Ca
++).
L’urea è presente soprattutto nella saliva dei ruminanti, grazie all’intensa attività
delle ghiandole salivari. L’urea è preziosa per la flora microbica ruminale in quanto
costituisce una fonte organica di azoto per la sintesi di aminoacidi. Una
concentrazione molto elevata di urea può portare ad un innalzamento drastico del pH
in quanto è una base forte. Inoltre, l’urea può trasformarsi in ammoniaca e
attraversare le pareti ruminali, passando in circolo e venendo a interferire con il
funzionamento di strutture nervose: passa per gradienti di concentrazione e di pH.
Lo ione bicarbonato HCO3-
ha il compito di tamponare l’acidità dell’ambiente
ruminale, dovuta alle fermentazioni. Nelle ghiandole salivari è presente anche
l’enzima anidrasi carbonica che accelera la reazione: HCO3- + H
+ = H2CO3 = CO2 +
H2O
La concentrazione di HCO3- nella saliva è più elevata di quella plasmatica, in fase di
secrezione elevata. La saliva a pH 7 è satura di Ca++
il quale bilancia l’usura del
dente e ne impedisce la decalcificazione. Il tartaro dentario è un deposito di sali di
Ca++
sul quale precipitano altre sostanze, dando un accumulo non normale.
Relativamente allo ione ioduro I-, le ghiandole salivari assorbono lo iodio dal plasma,
così che la sua concentrazione è più elevata che quella plasmatica; tale assorbimento
da un punto di vista funzionale è ancora poco chiaro. La concentrazione in K+
presente nel liquido salivare è molto maggiore di quella plasmatica e ciò perché a
livello di acini secretori il secreto è isotonico rispetto al liquido extracellulare ma
uscendo verso il dotto escretore si incontra una zona definita dotto striato nella quale
si ha assorbimento attivo di sodio e una eliminazione di potassio; tale processo ha
regolazione ormonale ed è sotto l’azione dell’aldosterone. Inoltre, si ha la secrezione
di ione bicarbonato concomitante. La quantità e la qualità della saliva variano
secondo la natura dei materiali introdotti in bocca: introducendo alimenti secchi o
soluzioni irritanti, si ottiene la secrezione abbondante di saliva acquosa di natura
soprattutto parotidea. Per la formazione del bolo, per la deglutizione è più utile una
saliva ricca di mucine, proveniente dalle ghiandole sottomascellari e sottolinguali.
Produzione di saliva nei bovini in funzione dell’alimento ingerito
Alimento Produzione di saliva
g/Kg di alimento
Velocità di assunzione
del cibo (Kg/minuto)
Pellettato 680 0,24-0,36
Insilati 1130 0,25-0,28
Fieno 3630 0,25-0,27
Erba fresca 940 0,27-0,28
Erba secca 3250 0,27-0,28
La modalità di secrezione della saliva nelle diverse ghiandole è diversa, infatti, nelle
ghiandole sottomascellari e sottolinguali la secrezione è continua e remittente
(aumenta nella masticazione) mentre, nelle ghiandole parotidi la secrezione è
intermittente (ad intervalli durante la masticazione). Per quanto riguarda le parotidi
ciò non è vero nei bovini. In caso di salivazione insufficiente si parla di xerostomia
mentre la salivazione abbondante si dice scialorrea.
51
2.4 Deglutizione
E’ l’atto mediante il quale il bolo alimentare, più o meno masticato e insalivato,
a seconda della specie, passa dalla bocca, attraverso faringe ed esofago, direttamente
nello stomaco dei monogastrici o nel rumine dei poligastrici. Questo atto è
caratterizzato da una coordinata serie di eventi motori che interessano tutti gli organi
prima citati. L’atto deglutorio inizia come fenomeno volontario, ma diventa
successivamente riflesso durante la sua prosecuzione. Importanti per il suo insorgere
sono i movimenti della bocca e della lingua i quali, oltre ad amalgamare l’alimento
con la saliva, convogliano il bolo fra la base della lingua stessa e il palato duro, nella
posizione più adatta per essere deglutito.
La deglutizione avviene quando il bolo è sufficientemente masticato ed insalivato;
esso è spinto con l’aiuto della lingua contro la parete della faringe ed, attraverso
l’esofago, arriva allo stomaco dei monogastrici e nel rumine dei poligastrici. La
deglutizione è un atto riflesso che comincia con la raccolta volontaria del contenuto
orale sulla lingua, cui segue la propulsione di esso nella faringe. Si origina così
un’onda di contrazione involontaria dei muscoli della faringe, che spinge il bolo
nell’esofago. L’inibizione del respiro e la chiusura della glotide sono effetti
collaterali di questa risposta riflessa. A livello di giunzione gastroesofagea, vi è un
tratto di muscolatura che è tonicamente contratto, il quale si rilascia in via riflessa
nella deglutizione e permette il passaggio del bolo al corpo dell’esofago. Dietro al
materiale si forma un anello di contrazione muscolare e si ottiene un’onda
peristaltica, della velocità di circa 4 m al secondo. I liquidi scendono per gravità, se
l’individuo è in stazione eretta, precedendo l’onda peristaltica.
L’ormone gastrina ha la capacità di aumentare il tono dello sfintere nella giunzione
gastroesofagea, ma non raggiunge mai concentrazioni tanto elevate in condizioni
fisiologiche.
2.5. Fisiologia della digestione nei monogastrici
Il bolo alimentare una volta arrivato nel primo tratto dello stomaco si trova in un
mezzo alcalino per la presenza preponderante della saliva e quindi le amilasi salivari
possono continuare a demolire l’amido fino a quando l’acidità non le blocca.
Successivamente il bolo passa nella frazione gastrica, per la presenza di enzimi
gastrici (pepsina, chimosina, lipasi) e dell’acido cloridrico. Il bolo nello stomaco
entra per mezzo del cardias e si dispone in strati distinti. Il primo bolo viene spinto
alla periferia, verso la grande curvatura; i boli successivi si stratificano secondo sfere
concentriche, fino a che l’ultimo bolo inghiottito rimane nelle immediate vicinanze
del cardias. Si nota, quindi, una fase di riposo di circa un’ora durante la quale la
stratificazione rimane quasi immutata: lo strato più esterno del cibo viene ad essere
imbevuto dagli enzimi digestivi e dall’HCl del succo gastrico, mentre all’interno
della massa gastrica del cibo può continuare, fino a quando il pH non raggiunge
valori bassi, la digestione amilasica salivare. Lo stomaco accogliendo il bolo si
distende ed aumenta la sua capacità, senza tuttavia aumentare la pressione
endocavitaria per piccole o grandi quantità di cibo. Questo fenomeno è detto
rilassamento recettivo e indica l’esistenza di processi che permettono il rilassamento
del tono muscolare gastrico. Sul fatto, sono state fatte due ipotesi:
a) inibizione riflessa, operata dai plessi nervosi intramurali che inibiscono l’attività
meccanica del muscolo liscio;
b) riempimento passivo, degli organi cavi, secondo un principio piuttosto generale.
La seconda ipotesi sembra la più probabile e sostiene che il rilassamento è dovuto
alla presenza di tessuto connettivo lasso fra le fibrocellule muscolari lisce, che
assorbirebbe la maggior parte della pressione esercitata internamente dal bolo. Tale
dilatazione interesserebbe la muscolatura liscia solo oltre un certo livello. Alla base
di queste teorie, vi è la legge di Laplace che correla la pressione intramurale T, quella
transmurale P e il raggio di curvatura R dell’organo cavo. La pressione in un organo
cavo è distribuita in eguale modo in tutte le direzioni: P = K x T/R; la costante K
varia in funzione della forma dell’organo (per un solido sferico semplice = 2).
Lo svuotamento dello stomaco è un processo lento: dopo il passaggio di una piccola
parte del chimo nel duodeno (in seguito all’onda di contrazione) si osserva un’onda
peristaltica duodenale che lo fa avanzare. La velocità di svuotamento è controllata da
vari fattori:
a) stato del duodeno: distensione, irritazione meccanica, presenza di soluzioni
ipertoniche e ipotoniche, presenza di prodotti di scissione (grassi, acidi grassi,
proteosi, peptoni, aminoacidi, glucidi) che inibiscono la motilità della muscolatura
gastrica e quindi ostacolano lo svuotamento dello stomaco;
b) enterogastrone: sostanza ormonale secreta nel duodeno e che ha effetto inibente
sulla motilità gastrica; essa giunge allo stomaco per mezzo del torrente circolatorio e
inibisce anche la secrezione acida gastrica;
c) riflesso enterogastrico: si tratta di un riflesso nervoso vagale che controlla
l’ampiezza ma non la frequenza della peristalsi gastrica; sembra che gli acidi e i
prodotti peptidici agiscano attraverso il meccanismo riflesso vagale mentre, i grassi e
i carboidrati attraverso quello umorale;
d) fenomeni psichici: lo stress e la paura inibiscono l’attività gastrica;
e) insulina: oltre che stimolare il nervo vago, influenza l’attività meccanica gastrica,
probabilmente, regolando l’assorbimento cellulare del glucosio attraverso l’azione
sui recettori specifici a livello dell’ipotalamo.
Per quanto riguarda il pH nel duodeno si ha un’azione di tamponamento dell’acidità
del chimo, per mezzo di tampone bicarbonato HCO3- / H2CO3 secreto dalla mucosa
enterica, che porta il valore del pH da 2 a 4 - 4,5; mentre, procedendo verso il colon,
a livello di secrezione biliare epatica e pancreatica, il pH si aggira intorno a 8.
Attività secretoria dello stomaco
La secrezione gastrica è data da tre tipi cellulari, posti in zone diverse e aventi
diverse secrezioni:
a) cellule principali o peptiche: secernono proteine ed enzimi digestivi;
b) cellule parietali od ossintiche con secrezione acida;
c) cellule mucipare: secernono mucine protettive (glicoproteine).
Mentre le cellule principali e parietali si trovano nel fondo e nel corpo dello stomaco
quelle mucipare si trovano nella porzione antrale.
La secrezione gastrica ha un pH inferiore a 1 e contiene:
a) HCl, pepsina e quantità trascurabili di lipasi;
b) mucine: hanno azione lubrificante e protettiva della mucosi gastrica nei confronti
della autodigestione;
c) acqua e piccole quantità di elettroliti (cloruri, bicarbonati di sodio);
d) fattore intrinseco di Castle, detto anche fattore antianemico e necessario per
l’assorbimento della vitamina B12
La produzione di HCl dalle cellule parietali si ha in risposta a determinati stimoli,
inizia quando l’animale decide di ingerire cibo (intervento cefalico) e aumenta
53
gradualmente con la masticazione (intervento oro-faringeo) e la presenza di alimento
nello stomaco (intervento gastrico). Lo stomaco a riposo non secerne HCl ma sali
cloruri. L’acidità del succo gastrico varia in funzione della concentrazione di HCl
secreto dalle ghiandole parietali nell’unità di tempo. Quando il ritmo della secrezione
parietale è lento si ha una forte diluizione dell’acidità da parte delle secrezioni non
parietali ed il pH si alza. Il valore teorico dell’HCl secreto dalle cellule parietali è di
166 mEq/lt.
La cellula parietale presenta, nella parte rivolta verso il lume ghiandolare, un fitta rete
di canalicoli che si approfondano nel citoplasma cellulare, rivestiti da una membrana,
i quali danno una reazione intensamente acida; l’interno della cellula presenta invece
un pH quasi neutro (7,2). La secrezione di HCl quasi sicuramente avviene nei
canalicoli.
Il trasporto di ioni attraverso la mucosa gastrica è dato da due componenti:
a) componente di secrezione continua, basale;
b) componente secretoria dovuta a stimolazione da parte di agenti stimolanti.
Inoltre, il meccanismo di trasporto è diverso per i diversi ioni:
- Na+ è trasportato attivamente al plasma (trasporto legato ad una pompa metabolica
che consuma ATP e quindi energia) in cambio di K+, il quale viene diffuso
passivamente nel lume gastrico (serve al mantenimento della elettro-neutralità;
- Cl- entra passivamente nella cellula parietale grazie alla sua elevata permeabilità;
viene espulso nel lume gastrico mediante trasporto attivo (pompa metabolica);
- CO2 entra nella cellula per diffusione passiva (gradiente di concentrazione);
- H+ sembra provenire dalla dissociazione dell’H2CO3 e la sua secrezione lascia
all’interno della cellula una molecola basica, che viene eliminata soprattutto per
gradiente di concentrazione. Per ogni mole di H+ secreto nel lume gastrico, una mole
di HCO3- viene immessa nel flusso venoso gastrico. Dopo un pasto appetitoso, si può
notare nel plasma una elevata concentrazione di HCO3-, detta Marea alcalina
postprandiale.
La concentrazione plasmatica di HCO3- può essere tanto grande da ottenere una
escrezione transitoria di ione bicarbonato attraverso i reni. La reazione con cui si
forma HCO3- è una conseguenza e non una causa della secrezione di H
+ in quanto la
reazione è la seguente:
H2O OH- + H
+ espulso nel lume gastrico
CO2 + OH- HCO3
- espulso nel plasma
La CO2 tamponerebbe l’effetto dello ione OH- che danneggerebbe la cellula in caso
di accumulo intracellulare.
La secrezione di HCl assume valori intorno a 160 mEq/lt e ciò indica che il pH è
inferiore a 1 e visto che il pH cellulare ha valori intorno a 7 se ne deduce che esiste
un gradiente di concentrazione per gli ioni H+, diretto verso l’interno della cellula.
L’HCl ha azione batteriostatica, denatura le proteine e le rende strutturalmente più
idonee all’attacco degli enzimi proteolitici; attiva il pepsinogeno presente nel succo
gastrico trasformandolo in pepsina e crea le condizioni di pH (1-2.5) ottimali per
l’azione di questo enzima. Nella frazione gastrica il bolo è soggetto all’azione
proteolitica e viene trasformato in un impasto detto chimo.
Secrezioni enzimatiche dello stomaco
Comprendono: 1) pepsina: è secreta come pepsinogeno dalle cellule
principali; l’attivazione del pepsinogeno in pepsina è dovuta all’ambiente acido (pH
= 2) creato dall’H+ che permette il distacco di un frammento peptidico che funge da
tappo sul sito attivo dell’enzima. L’azione della pepsina è migliorata dalla
denaturazione proteica ma l’effetto finale è quello di una leggera idrolisi con
frammenti polipeptidici;
2) rennina: è un enzima simile alla pepsina, la sua funzione è quella di far
precipitare la caseina del latte e renderla insolubile, sotto forma di paracaseinato di
Ca++
(caglio). La precipitazione della caseina permette che il latte rimanga più a
lungo nello stomaco e quindi aumentarne la digestione. Si trova nei lattanti e negli
animali giovani.
3) fattore intrinseco di Castle: è una proteina che presenta una notevole resistenza
all’idrolisi peptica, ha il compito specifico di legare la vitamina B12 e di proteggerla
dall’ambiente gastrico (acido). E’ secreta dalle cellule secernenti Cl-, così un
aumento della secrezione di Cl- ne indica anche uno di quello del fattore intrinseco;
4) mucine: non si tratta propriamente di enzimi, ma di glicoproteine che hanno il
compito di proteggere la mucosa gastrica dall’autodigestione e lubrificare il chimo.
Lo stimolo alla secrezione si ottiene grazie a tre tipi diversi di interventi:
1) intervento cefalico: è dato da stimoli di vario tipo (gusto, olfatto, visione, udito)
che provocano meccanismi riflessi, più o meno condizionati, di secrezione gastrica,
nota come succo gastrico dell’appetito;
Plasma Cellula parietale Lume
Na+
Pompa
K+
Diffusione passiva
K+
K+
Cl-
Pompa
Cl-
HCO3-
HCO3- + H
+ pompa
H+
H2CO3 anidride carboniosa
CO2 CO2 + H2O
ddp = - 60 mV
2) intervento gastrico: l’alimento svolge una certa azione sul canale alimentare di
tipo meccanico e chimico. L’entrata del bolo nello stomaco va a stimolare la
porzione pilorica dello stomaco, che non secerne HCl.
3) intervento duodenale: inizia quando il chimo acido gastrico entra nel duodeno, per
mezzo dello sfintere pilorico e la parete duodenale è distesa.
55
Secrezioni presenti nell’intestino tenue
Nel tenue vi sono ghiandole parietali ed extraparietali che riversano il loro
secreto nel lume:
a) ghiandole del Brunner (parietali)
b) porzione esocrina del pancreas
c) fegato.
Il pancreas è una ghiandola extraparietale, composta da una porzione esocrina ed una
endocrina. La porzione esocrina ha la struttura tipica delle ghiandole acinose, le cui
unità secernenti hanno la forma di acini, con un dotto escretore che raccoglie il
secreto, rivestito da cellule centroacinose. I due tipi cellulari hanno diverse
secrezioni:
a) cellule degli acini: secrezione di enzimi digestivi;
b) cellule centro-acinose: secrezione di sali che servono al tamponamento dell’acidità
del chimo e alla protezione della mucosa intestinale. Si tratta essenzialmente di
bicarbonati che alzano il pH a valori di 7-8, ottimali per gli enzimi pancreatici. La
somma di tali secrezioni fornisce un succo pancreatico, composto da enzimi digestivi
ed elettroliti. Il pancreas esocrino, se a riposo, produce soprattutto cloruri di Na+ e
K+, mentre sotto stimolazione aumenta la produzione di bicarbonati, in modo che la
somma delle concentrazioni di HCO3- e Cl
- è costante. A qualunque ritmo secretorio
il succo pancreatico è isotonico rispetto al plasma. Il tampone bicarbonato, riversato
nel duodeno, tampona l’acidità del chimo e la porta a valori di neutralità o addirittura
di basicità: ne segue l’annullamento dell’attività della pepsina, che è attiva al 100%
ad un pH di circa 2. In compenso è favorita l’azione degli enzimi digestivi presenti
nel lume intestinale, che operano bene ad un valore di pH intorno a 7.
Gli enzimi pancreatici costituiscono circa il 95% della componente proteica del
secreto, e sono in grado di demolire tutti i principi alimentari nei costituenti più
semplici, permettendo una digestione quasi completa. Fra essi ricordiamo:
1) -amilasi pancreatica: è simile alla ptialina; agisce sull’amido e i polisaccaridi
con legami 1--4 glucosidici, fino alle ramificazioni 1--6. Il pH ottimale di
funzionamento è intorno a 6,9 e la sua attività cessa con pH al di sotto di 4,5. La sua
attività è maggiore nei monogastrici, mentre nei ruminanti è un enzima scarsamente
importante visto che i carboidrati sono attaccati dalla flora ruminale. Esso è resistente
all’idrolisi proteica in quanto la sua struttura è resa stabile dalla presenza di ioni
Ca++
.
2) lipasi pancreatiche: si tratta di enzimi che lavorano sui grassi neutri (soprattutto
trigliceridi) idrolizzando i legami esterici sugli atomi di C 1 e 3 del glicerolo, in una
reazione reversibile. Giunge nell’intestino in una forma già attivata e non è presente
nel secreto pancreatico dei ruminanti. I prodotti di degradazione della lipasi sono
glicerolo, acidi grassi e monogliceridi. Anche le lipasi sono resistenti all’idrolisi
proteica per la presenza di Ca++
nella struttura. L’attività delle lipasi sui grassi è
coadiuvata dalla presenza di aminoacidi, ioni Ca++
e soprattutto sali biliari. Tali
sostanze funzionano da agenti emulsionanti sulle micelle di grassi, srotolandole
nell’ambiente acquoso e aumentando la interfacies oleosa/idrica; ciò permette un
miglior attacco dei grassi da parte delle lipasi. Gli ioni Ca++
fungono da
saponificatori, portando in soluzione gli acidi grassi. Se si ha ipocalcemia, ciò può
essere dovuta ad alterazione del pancreas.
3) proteasi pancreatiche: per evitare l’autodigestione gli enzimi proteolitici, sono
secreti in forma inattiva e attivati una volta giunti in loco. Fra essi ricordiamo:
a) tripsinogeno: è la forma inattiva della tripsina, endopeptidasi che agisce su un
legame peptidico il cui carbossile sia fornito da una lisina o un’arginina (aminoacidi
basici). L’attivazione dell’enzima avviene nel lume intestinale per opera
dell’enterochinasi, glicoproteina che stacca un frammento dalla molecola di
tripsinogeno, rendendolo attivo come tripsina. Una volta attiva, si ha un processo
autocatalitico per cui la tripsina è in grado di attivare altro tripsinogeno e anche altri
enzimi proteolitici;
b) chimotripsinogeno: è una endopeptidasi che agisce meglio ad un pH 8, scindendo i
legami carbossilici dove vi sono aminoacidi aromatici impegnati;
c) procarbossipeptidasi (A e B): si tratta di enzimi che staccano gli aminoacidi delle
catene proteiche partendo dal gruppo terminale -COOH. Il tipo A stacca tutti gli
aminoacidi, ad eccezione di lisina, arginina, ossiprolina che invece sono staccati dal
tipo B;
d) proelastasi e procollagenasi: sono proteasi adatte alla scissione del collagene e
dell’elastina, particolari proteine ricche in prolina, tipiche del tessuto connettivo.
4) nucleasi (RNA - asi e DNA - asi) sono enzimi che scindono i nucleotidi e gli
acidi nucleici, che agiscono sul contenuto dei nuclei cellulari, precedentemente
disgregati dall’azione di proteasi e lipasi;
5) colesterolo - esterasi: è una esterasi che rompe il legame fra il colesterolo ed un
altro composto, in genere un acido grasso.
6) fosfolipasi: si tratta di enzimi che agiscono sui fosfolipidi, esistenti in almeno
quattro tipi diversi (A, B, C, D) che staccano le molecole in punti diversi.
Le ghiandole duodenali del Brunner, si trovano solo nella porzione caudale
del tenue; la loro secrezione aumenta in proporzione all’ingestione di cibo. Nella
prima porzione del duodeno, il numero di tali ghiandole è maggiore e la loro
secrezione si presenta più viscosa e più ricca di ioni bicarbonato di quella del restante
duodeno. La funzione del secreto di tali ghiandole forse è quella di proteggere la
mucosa duodenale dall’acidità del chimo, neutralizzandola con il tampone
bicarbonato.
Secrezioni del fegato: la bile è prodotta dagli epatociti e riversata nei dotti
biliferi del fegato per esserne espulsa. Essa ha sia azione emulsionante nei confronti
dei grassi alimentari, sia azione di escrezione di alcune sostanze provenienti dal
catabolismo delle emoproteine. La bile prodotta può essere immagazzinata
gradualmente nella cistifellea per essere poi espulsa al momento del bisogno. Negli
animali privi di colecisti, quale il cavallo, essa è escreta direttamente nel duodeno
come un flusso continuo durante la giornata. La bile è composta per il 97% da una
porzione elettrolitica (HCO3-, Na
+, K
+, Cl
-) e per il 3% da una porzione non
elettrolitica (sali biliari, pigmenti biliari, fosfolipidi). I sali biliari sono il prodotto
terminale principale e la principale forma di escrezione del colesterolo e
costituiscono la metà della porzione non elettrolitica. Sono dati da numerosi acidi
biliari (acido colico, desossicolico, chenodesossicolico, iocolico, litocolico). Gli acidi
colico e chenodesossicolico sono detti sali biliari primari perché sintetizzati nel
fegato in questa forma; gli altri acidi si trovano solo nelle feci e sono detti sali
secondari. I sali biliari svolgono un’azione detergente per le loro proprietà
tensioattive: abbassano la tensione superficiale dei grassi e delle sostanze idrofobe in
ambiente acquoso, disponendosi attorno alle micelle in modo tale da renderle solubili
e permettono l’attacco da parte delle lipasi pancreatiche. In condizioni normali, solo
il 10% dei sali biliari è espulso con le feci: il resto è assorbito attivamente da parte
della mucosa dell’ileo, è immesso nel circolo ematico portale e raggiunge di nuovo il
57
fegato. Questo ciclo di assorbimento ed escrezione è detto entero-epatico. E’ un
meccanismo che permette il risparmio di energia da parte dell’organismo in quanto la
produzione di sali biliari è abbastanza lenta. I sali biliari subiscono due processi:
a) accumulo, per essere escreti (cistifellea);
b) recupero, perché siano disponibili in quantità sufficiente per il pasto successivo.
Esiste un meccanismo di feed-back positivo basato sull’equilibrio ematico ed epatico
del colesterolo: quando il colesterolo è elevato, il fegato è stimolato ad assorbirlo e a
trasformarlo in sali biliari. La presenza dei grassi nell’intestino stimola la produzione
dell’ormone colecistochinina, che agisce sulla muscolatura della cistifellea e la
spinge a contrarsi e ad espellere la bile per mezzo di uno sfintere duodenale,
collegata ad esso per mezzo del dotto coledoco. Una ostruzione delle vie biliari
(calcolosi) porta ad accumulo eccessivo dei sali biliari e della bile in genere; ciò
comporta un blocco della sintesi dei sali biliari e un aumento del pool del colesterolo,
che si manifesta con aumento della colesterolemia.
Gli acidi biliari al livello digestivo sono importanti perché:
a) promuovono la digestione e l’assorbimento dei lipidi alimentari e delle vitamine
liposolubili;
b) stimolano le secrezioni enteriche e pancreatiche;
c) neutralizzano l’acidità del chimo gastrico;
d) normalizzano la flora batterica intestinale quale substrato per reazioni
biochimiche.
Succhi enterici
Sono dati dall’insieme dei prodotti della mucosa intestinale. La reazione è nel
complesso, di piccola entità e risulta isotonica rispetto al plasma. Oltre a sali ed
elettroliti il secreto contiene mucine e due proteine enzimatiche, un’amilasi e
l’enterochinasi, quest’ultima deputata all’attivazione del tripsinogeno. Nel succo
enterico si trovano anche altri enzimi associati a cellule di sfaldamento della mucosa.
Si tratta di enzimi solitamente associati alla superficie dei microvilli intestinali,
aventi il compito di completare la digestione e forse di carriers specifici attraverso la
mucosa. Tali enzimi sono: lattasi, saccarasi, maltasi e isomaltasi, cellobiasi,
colesterolo-esterasi, fosfatasi alcalina, ATP-asi, aminopeptidasi. La lattasi ha una
induzione inversa rispetto agli altri enzimi che demoliscono i glucidi; essa è presente
in gran quantità nell’intestino del neonato e scompare gradualmente con lo
svezzamento. Ciò comporta la perdita della capacità di digerire il lattosio e quindi il
latte. Nell’adulto, il lattosio è assorbito in minima parte per poi essere espulso con le
urine. La parte che non è assorbita, più cospicua, rimane nel lume intestinale dove
richiama acqua per fenomeni osmotici. Il lattosio è degradato dalla flora batterica
Lac+ e utilizzato per la sintesi di acidi grassi, che hanno azione tossica e aumentano
la peristalsi intestinale. Invece di avere riassorbimento dell’acqua, si osserva una
aumentata secrezione: si ha il fenomeno della diarrea. Il ritorno all’allattamento può
portare a gravi enteriti per la mancanza di lattasi. La diarrea cronica comporta una
grossa perdita di succo intestinale che provoca un’acidificazione dell’ambiente
intestinale (acidosi) per la perdita dei sali e dei bicarbonati. Inoltre, sono sottratti
dall’organismo elettroliti preziosi, quali il K+ e una grossa quantità di acqua, con il
rischio di disidratazione e depauperamento delle riserve saline. Gli enzimi saccarasi,
maltasi e isomaltasi mancano nel suino e nel vitello neonato, ma la loro sintesi è
indotta nel passaggio graduale dall’alimentazione lattea a quell’adulta.
In sintesi, durante la chimificazione, le due valvole d’entrata e di uscita dello
stomaco (cardia e piloro) sono chiuse, la muscolatura si contrae e si ha la
mescolazione del chimo; successivamente le contrazioni favoriscono il passaggio del
chimo verso l’intestino. La digestione intestinale provvede all’ulteriore
trasformazione di quanto nel chimo è sfuggito ai succhi gastrici (proteine
parzialmente digerite, carboidrati intaccati solo in parte, lipidi praticamente
immodificati). Ciò è possibile grazie ai continui movimenti di mescolamento e di
trasporto alla frazione di enzimi che si trovano nell’intestino tenue e forniti dal
pancreas (succo pancreatico) e dalle ghiandole della mucosa intestinale (succo
enterico) nonché dalla bile del fegato. Il succo pancreatico è costituito da un
complesso di enzimi proteolitici (tripsina, chemiotripsina e carbossipeptidasi) che
attaccano le molecole proteiche scindendole in polipeptidi sempre più semplici, fino
alla liberazione di aminoacidi che avverrà per l’intervento di peptidasi presenti nel
succo enterico.
Inoltre, nel succo pancreatico è contenuta la lipasi pancreatica che trasforma i grassi
(trigliceridi in digliceridi, monogliceridi e glicerolo + acidi grassi liberi).
Il succo enterico, prodotto dal disfacimento delle cellule epiteliali della mucosa del
digiuno e dell’ileo, contiene enzimi proteolitici (complesso ereptico) che completano
la digestione delle proteine fino ad aminoacidi; un enzima lipolitico (lipasi enterica)
che trasforma il tripsinogeno in tripsina, le glucosidasi (maltasi, saccarasi, lattasi) che
scindono i disaccaridi (maltosio, lattosio, saccarosio) in monosi e le nucleotidasi e
nucleosidasi enteriche che scindono gli acidi nucleici in basi azotate, acido fosforico
e pentosi.
La bile del fegato, con i suoi acidi e pigmenti biliari, il colesterolo ed alcuni
acidi grassi rende i grassi atti a subire l’ulteriore e fondamentale azione digerente dei
succhi pancreatici.
Nel cieco e nel colon dei monogastrici esiste una flora microbica che è in grado di
intaccare parte della cellulosa degli alimenti ed anche certe strutture azotate di natura
non proteica.
L’impasto che si forma sotto l’azione dei succhi digerenti e dei movimenti
dell’apparato intestinale prende il nome di chilo ed i principi nutritivi in esso
contenuti sono assimilabili, mentre le sostanze sfuggite alla digestione e le scorie
sono destinate ad essere evacuate.
2.6. Vomito
Il vomito consiste nell’espulsione di contenuto gastrico attraverso l’esofago e
la bocca; esso è di solito un atto riflesso, il cui stimolo scatenante può avere varie
origini:
a) irritazione oro-faringea o della mucosa gastrointestinale;
b) cinetosi, fenomeno legato all’alterazione dei canali semicircolari, organo di senso
che informa il SNC sulla posizione del corpo nello spazio;
c) infiammazione delle vie genito-urinarie;
d) emozioni sgradevoli, importanti nell’uomo.
Questo riflesso è coordinato nel bulbo da un centro del vomito, il quale ha relazioni
con il centro della respirazione.
Il senso di nausea e l’eccessiva salivazione, infatti, precedono una serie di
inspirazioni profonde, che accompagnano i conati di vomito. Una inspirazione a
glotide chiusa provoca una depressione all’interno dell’esofago, grazie all’azione
della muscolatura respiratoria. Il diaframma si abbassa con violenza, i muscoli
59
addominali si contraggono; contemporaneamente si ha la contrazione energica del
piloro e il rilassamento del fondo dello stomaco, del cardias e dell’esofago. La
pressione che si crea è sufficiente a spingere gli alimenti nell’esofago stesso. Oltre
alla nausea e alla salivazione, si accompagnano al vomito il senso di debolezza e il
pallore, lacrimazione e caduta della pressione sanguigna. Il vomito se è un fenomeno
raro, ha effetti benefici in quanto permette la liberazione da sostanze tossiche
eventualmente presenti; se è un fenomeno recidivo, è dannoso perché comporta una
grossa perdita di elettroliti, fra i quali è importante il K+.
2.8. Particolarità nei conigli
La digestione dei conigli è caratterizzata dalla ciecotrofia. L’attività del cieco
nel coniglio è da paragonare al rumine con la differenza che mentre nei ruminanti
s’instaura un ciclo alimentare interno (rumine reticolo omaso abomaso) nel
coniglio il ciclo comprende una fase esterna (cieco ano bocca stomaco
ileo), inoltre mentre nei ruminanti la flora microbica agisce sull’alimento appena
ingerito, quella ciecale agisce sui residui alimentari che hanno subito l’azione dei
succhi digerenti.
Nel coniglio il chilo a livello di ileo entrando nel cieco diviene in parte feci e
si dirige verso il colon per essere evacuato ed in parte si dirige verso la parte
appendicolare dello stesso cieco, dove sosta più o meno a lungo ed è sottoposto
all’azione degli enzimi cellulosolitici, che idrolizzano parzialmente la cellulosa, con
formazione di acidi grassi volatili (AGV) i quali, attraverso la mucosa, passano nel
sangue della vena mesenterica anteriore. Con la digestione enzimatica e microbica,
detta ciecotrofia, si ha la formazione del ciecotrofo che è rappresentato da pallottole
fecali soffici e morbide (ciecotrofo), avvolte in una pellicola di muco.
Il ciecotrofo (ricco in vitamine, proteine, aminoacidi) ha un preciso significato
nutrizionale dato che il suo contenuto, soprattutto, in aminoacidi varia notevolmente
in rapporto a quello della razione ed è tanto più alto quanto più essa è povera e
diversi aminoacidi (lisina, metionina, leucina, alanina, valina, ecc.) sono
costantemente molto più rappresentati nel ciecotrofo che non nell’alimento. Per
questo, il coniglio preleva con la bocca i ciecotrofi dall’ano, in genere ogni 24 ore, e
li riutilizza durante un secondo ciclo alimentare. Così, il coniglio rispetto agli altri
monogastrici, utilizza meglio la fibra grezza, aumenta la digeribilità degli alimenti,
ricicla l’acqua ed ottiene la copertura del 30% del proprio fabbisogno energetico e del
20% del proprio fabbisogno proteico.
2.8.1. Particolarità nei volatili
Gli uccelli prendono l’alimento con il becco. La bocca non ha funzione
masticatoria in quanto mancano i denti e la saliva é minima e serve solo per favorire
la deglutizione. Attraverso l’esofago, l’alimento è spinto, con movimenti volontari, in
una dilatazione dello stesso esofago che costituisce un punto di sosta dell’alimento da
2 a 24 ore. Nei colombi, il gozzo serve solo alla produzione del cosiddetto latte del
gozzo (latte che non ha niente a che vedere con quello dei mammiferi) che è secreto
da entrambi i genitori e serve per l’alimentazione dei piccoli nella prima settimana di
vita.
Nel gozzo si ha un rimescolamento ed una prima macerazione favorita dal secreto
delle ghiandole mucipare del gozzo e dall’acqua di abbeverata. Successivamente, il
cibo passa nel proventricolo o stomaco ghiandolare contenente HCl ed enzimi quali
la pepsina che attacca la proteine. L’alimento ricco di succo gastrico passa nel
ventriglio o stomaco muscolare, il quale ha una potente muscolatura e lamine di
triturazione che insieme ai sassolini e la sabbia, ingeriti volontariamente
dall’animale, sminuzzano finemente il cibo il quale si trova anche sotto l’azione
chimica ed enzimatica (soprattutto peptica) dei succhi gastrici. Con il passaggio nel
duodeno si ha l’attacco dei succhi digestivi (pancreatici, enterici, epatici). Il chilo,
infine, passa nei ciechi, dove sosta 3-4 giorni, e si ha una parziale digestione della
cellulosa e la sintesi di vitamine del gruppo B.
2.8.2. Digestione nei lattanti dei poligastrici
I poligastrici lattanti si comportano come i monogastrici fino a quando i
prestomaci non diventano funzionali. In questi animali, i processi digestivi del latte
sono devoluti all’abomaso i cui succhi sono provvisti di enzimi amilolitici e
proteolitici, cui si aggiungono quelli del succo pancreatico ed enterico oltre le,
rispettive, lipasi pancreatica ed enterica. L’abomaso digerisce quindi le proteine, i
grassi ed il lattosio del latte. Il latte, dalla suzione, direttamente è deglutito ed avviato
all’abomaso attraverso la doccia esofagea. Nei succhi dell’apparato gastrointestinale,
l’enzima più importante per la digestione del latte, e precisamente della sua frazione
proteica, è il caglio o presame o chimosina. Altro enzima è la lipasi gastrica che
avvia la digestione dei globuli di grasso.
2.9. Fisiologia della digestione nei poligastrici
Va sottolineato che, i poligastrici oltre che avere la capacità di digerire le
sostanze alimentari in modo analogo ai monogastrici, hanno la possibilità, a mezzo
dei microrganismi del rumine, di fermentare i carboidrati e la cellulosa utilizzandone
i prodotti quale fonte di energia, di sintetizzare quasi tutte le vitamine (soprattutto
quelle del gruppo B) e di trasformare sostanze azotate semplici quali l’urea in
proteine batteriche.
Nei ruminanti, all’esofago fa seguito un complesso gastrico costituito da quattro
cavità di cui tre (rumine, reticolo e omaso) munite di mucose aghiandolari sono dette
prestomaci ed una con mucosa provvista di ghiandole che è il vero stomaco, o
“stomaco ghiandolare”, l’abomaso.
Il rumine svolge la funzione di stoccaggio e parziale demolizione degli alimenti, che
in questa sede subiscono una prima e profonda trasformazione, indispensabile per la
loro utilizzazione. L’alimento trasformato passa all’omaso solo quando, per l’azione
meccanica della masticazione e per l’attività microbica, raggiunge dimensioni
inferiori a 0,6 cm circa (ciò anche in funzione delle dimensioni dell’animale).
Alcuni composti (il 70-80% degli acidi grassi volatili) passano, invece, nel sangue
direttamente dal rumine, grazie alle papille, estroflessioni di 6-10 mm, presenti sulla
parete dello stesso.
Il reticolo contribuisce a selezionare il materiale che dal rumine passa all’omaso. La
sua parete, infatti, presenta sottili creste che formano delle cellette esagonali simili a
una rete (da qui il nome di reticolo) che trattengono le parti grossolane, mentre quelli
sufficientemente fini passano all’omaso.
61
RUMINE
Funzioni
- Stoccaggio alimenti
- Parziale degradazione
- Assorbimento AGV
- Sintesi proteine e vitamine (idrosolubili, K)
Ambiente
- H2O = 85-90%
- Temperatura = 39-40 °C
- pH = 5,5 – 7,0:
< zuccheri più fermentescibili (farina, melassa)
(produzione ac. lattico più veloce)
> idrati di carbonio meno fermentescibili (cellulosa)
- Bolla gastrica:
a) Funzione : 1) mantenere le condizioni di anaerobiosi; 2) mantenere
distesa la parete ruminale
b) Composizione: CO2 = 60 - 70%,
CH4 = 30 – 40 %
H2 = piccole quantità
N2 = tracce
Il materiale trattenuto dalle cellette torna al rumine ed è rimasticato. Il reticolo ha
anche il compito di coordinare i movimenti del rumine che permettono il
rimescolamento del materiale in esso contenuto, il ritorno in bocca dello stesso e
l’eruttazione.
Il funzionamento di questi prestomaci è strettamente
collegato, al punto che si parla di “sistema rumine-
reticolo”. Le contrazioni del reticolo possono
determinare l’attraversamento della parete da parte di
corpi estranei, accidentalmente ingeriti, e
considerando che il reticolo si trova in prossimità del
cuore essi possono determinare pericarditi
traumatiche e/o compromissione della motilità
prestomacale e della ruminazione; questa sindrome,
detta anche “fil di ferro, può essere prevenuta
mediante immissione nel rumine-reticolo di speciali calamite.
L’omaso noto come centopelli o libro, ha funzioni di filtro tra rumine e abomaso per
impedire l’ingresso di materiale ancora grossolano. Nell’omaso è assorbita una
grossa quantità di acqua, al fine di consentire l’azione ottimale dei succhi gastrici a
livello dell’abomaso. In questa sede sono assorbiti anche gli acidi grassi volatili
sfuggiti all’assorbimento ruminale. Se dall’omaso passano all’abomaso acidi grassi
volatili in quantità superiori alla norma, sembra che s’instaurino condizioni che
predispongono alla sua dislocazione.
Ciò comporta un ridotto o impedito flusso di materiale con gravi conseguenze per lo
stato di salute. L’abomaso è la sede in cui hanno inizio le secrezioni gastriche vere e
proprie e dove il materiale è preparato alla successiva azione dell’intestino. Il
processo della digestione nei ruminanti è strettamente legato a precisi movimenti dei
prestomaci i quali consentono: il continuo rimescolamento del materiale ruminale,
l’espulsione delle rilevanti quantità di gas prodotti nel rumine, il ritorno in bocca
dell’alimento durante la ruminazione, il passaggio delle parti fini all’omaso.
Lunghezza relativa dei prestomaci e dell'abomaso in ruminanti a differenti età
Il rallentamento dell’attività motoria dei prestomaci si ripercuote sempre
negativamente sullo stato di salute dell’animale; peraltro, quando l’animale è
“indisposto” per altre ragioni, i movimenti dei prestomaci rallentano fino ad
annullarsi (l’animale non rumina). Il rimescolamento del materiale ruminale, a
diverso livello di degradazione, è indispensabile sia per migliorare l’azione dei
microrganismi ruminali, sia per consentire il deflusso della fase liquida e delle parti
fini all’omaso, passaggio che avviene in concomitanza dei movimenti di
rimescolamento. Il rimescolamento avviene 1,8-2,2 volte al minuto e la sua
frequenza è maggiore con i cibi grossolani. Se la razione è povera di alimenti
grossolani (fibra lunga), l’acqua e le particelle fini sostano di più nel rumine, con
conseguente formazione di una poltiglia che intasa le papille riducendo così il
passaggio di sostanze nel sangue attraverso la parete del rumine. Sull’efficacia del
rimescolamento influisce anche la robustezza della parete ruminale, la quale
s’irrobustisce prima e in misura maggiore in animali che fin dallo svezzamento
ricevono adeguate quantità di fibra lunga (foraggi). Il ritorno in bocca delle parti
grossolane (ruminazione) ha lo scopo di permettere una nuova masticazione e
un’ulteriore insalivazione. Lo stimolo alla ruminazione aumenta in presenza di parti
grossolane e, quindi, maggiore è la quota fibrosa maggiore sarà la produzione di
saliva. Quest’ultimo fatto è molto importante, in quanto, la saliva ha funzioni
insostituibili, quali: impedire l’eccessivo abbassamento del pH ruminale, stimolare
l’attività dei microrganismi, avere azione antischiuma e, quindi, evitare il
meteorismo. L’espulsione dei gas, o eruttazione, è necessaria per eliminare i gas che
normalmente si formano in quantità rilevante durante le fermentazioni batteriche
(circa 600 litri/giorno). Se i gas non sono espulsi si ha meteorismo: il rumine gonfio
provoca, tra l’altro, una compressione dei polmoni, con conseguente riduzione della
capacità respiratoria, che può portare a soffocamento.
63
Classificazione di alimenti in base alla fermentescibilità in vitro
a 8 e 24 ore di incubazione (valori rapportati all'orzo)
Alimenti
Valori di
Fermentescibilità
a 8 ore
Alimenti
Valori di
fermentescibilità
a 24 ore
Trebbie di birra 100.4 Polpe bietola 112
Orzo granella 100 Mais fiocchi dec. 112
Polpe di bietola 97.06 Maniaca 108
Farinaccio 95.06 Patata 101
Orzo fiocchi 93.9 Orzo gr. 100
Mais fiocchi dec. 93.54 Orzo fiocchi 97
Patata 80.5 Mais gr. 95
Mais f. e. 80.0 Mango 94
Tritello 79.8 Mais f.e. 92
Mais fiocchi 76.15 Trebbie di birra 90
Semola 75.9 Sorgo rosato 89
Riso pula 70.98 Farinaccio 87
Mais granella 66.39 Semola 82
Sorgo rosato 49 Tritello 74
Le caratteristiche fisico-chimiche del rumine dipendono dalla fisiologia delle cavità
prestomacali dei ruminanti e dalle attività metaboliche delle numerose specie
monocellulari che vi risiedono. Esse sono influenzate dall’apporto intermittente di
alimento e di acqua con l’ingestione di cibo, dall’eliminazione continua dei prodotti
del metabolismo fermentativo per assorbimento epiteliale nel rumine e nel reticolo,
dall’eruttazione di metano e di anidride carbonica e dal passaggio nel duodeno del
bolo ruminale, costituito da residui alimentari non digeriti, microrganismi e fase
liquida ruminale. La percentuale di acqua nel rumine si aggira intorno all’85-90%; la
temperatura è mantenuta relativamente costante intorno ai 39-40 °C. Il rumine ha un
potenziale ossido-riduttivo compreso tra 250 e 400 mVolt ed è in equilibrio con
un’atmosfera gassosa (bolla gastrica), la cui composizione è relativamente costante:
60-70% di CO2, 30-40% di metano, piccole quantità di H2 e tracce di azoto ed
ossigeno che provengono dall’aria ingerita con gli alimenti. La composizione gassosa
della bolla gastrica è tale da garantire condizioni di anaerobiosi. Il pH ruminale è
compreso tra 5,5 e 7,0 e varia in funzione del tipo di alimento. Con alimenti ricchi di
farine (amido) o di zuccheri rapidamente fermentescibili (melassa), la velocità dei
processi fermentativi, ed in particolare di quelli che si concludono con la produzione
di acido lattico, è tale da superare la capacità dell’organismo animale di contrastare
l’accumulo nel rumine di sostanze acide, attraverso il loro assorbimento o
l’immissione di basi nel sistema e, quindi, dopo il pasto si verifica una rapida ed
intensa riduzione del pH. Con alimenti ricchi di cellulosa, le cui molecole non sono
immediatamente disponibili per i processi di fermentazione ossidativa, il pH
ruminale nel periodo interprandiale tende ad assumere valori più elevati. In ogni
caso, l’apporto continuo di saliva, nel corso del processo di ruminazione, si oppone a
variazioni eccessive del pH, grazie all’apporto costante di bicarbonati e fosfati. La
produzione di saliva varia in funzione della presentazione fisica dell’alimento ed
influenza significativamente il volume del liquido ruminale, dal momento che un
bovino, ad esempio, può produrre fino a 200 litri di saliva al giorno.
Nei ruminanti adulti, il rumine non solo rappresenta la cavità stomacale di maggiore
volume ma è quella che assieme al reticolo costituisce la stazione di sosta degli
alimenti sommariamente masticati e deglutiti: un vero e proprio tino di
fermentazione nel quale si realizzano fenomeni meccanici e microbiologici. Sempre
nei ruminanti adulti, la terza cavità, l’omaso o centopelli, oltre che assorbire i
principi nutritivi liberatisi durante la prima fase digestiva esercita un’azione abrasiva
sui restanti residui alimentari e di filtro e di regolatore del deflusso delle sostanze che
passano all’abomaso, che è uno stomaco ghiandolare con funzioni analoghe a quelle
dei monogastrici.
2.9.1. Digestione microbica ruminale
I ruminanti possono utilizzare la cellulosa, contenuta in quantità più o meno
rilevante nei foraggi, attraverso l’intervento della flora batterica, della fauna
protozoaria e dei funghi che vivono nel rumine. La colonizzazione del rumine da
parte dei microrganismi avviene già durante i primi giorni di vita, quando la madre
lambisce il figlio e quando il figlio lambisce la saliva della madre, unita al liquido
ruminale rigurgitato durante la ruminazione. La popolazione cellulare ruminale si
completa quando il giovane animale inghiotte foraggio parzialmente masticato da un
animale adulto.
I microrganismi ingeriti attraverso l’alimento sono sia aerobi sia anaerobi ma
solo questi ultimi, se dotati di un metabolismo compatibile con quello ruminale,
resteranno vitali all’interno del rumine dell’animale e vanno a completare la
popolazione cellulare. In generale, sia i batteri aerobi sia gli anaerobi facoltativi e gli
sporigeni sono meno rappresentati nell’animale adulto che nel giovane.
I batteri (8.109
- 4.10
10 cellule /ml nel rumine dell’adulto) si trovano liberi nella fase
liquida ruminale, adesi alle pareti del rumine e alle particelle del digesto o a protozoi.
La loro densità varia continuamente in ragione di vari fattori.
La disponibilità nella razione di monosaccaridi (melassa) od olosaccaridi
(concentrati), favorisce i batteri altamente fermentativi quali i lattobacilli che
producono acido lattico. Razioni contenenti polisaccaridi complessi (cereali, foraggi)
inducono un maggior sviluppo dei batteri degradativi ai quali seguono o si
accompagnano quelli ad attività fermentante. Il tipo di specie cellulare predominante
in ogni istante è condizionato dalla competizione per il substrato utilizzato ma anche
dalla disponibilità di azoto e altri nutrienti essenziali, quali i minerali, e dai valori del
pH ruminale. Una fermentazione ruminale molto intensa porta ad un abbassamento
del pH e, quindi, a una regressione di numerose specie e allo sviluppo di altre. Ad
una elevata crescita batterica corrisponde un aumento dei protozoi i quali avendo
attività predatoria nei confronti dei batteri ne controllano la densità. I protozoi ciliati
ingolfando e utilizzando i granuli di amido in sede intracellulare, sottraggono il
65
polisaccaride all’attacco degradativo e fermentativo dei batteri, prevenendo un
accumulo di lattato e la conseguente acidosi intraruminale.
I batteri ruminali, in base alla loro attività metabolica principale ed al substrato
energetico da essi maggiormente utilizzato, li possiamo distinguere in:
a) cellulosolitici (Ruminococcus, Fibrobacter, Clostridium): attraverso la
produzione di enzimi idrolizzano le cellulose e ne rendono disponibili i residui
monosaccaridici per le fermentazioni ruminali. La demolizione della cellulosa è
molto più lenta rispetto a quella dell’amido per cui si ha un’intensa attività celluloso
litica, soprattutto, con razioni ricche in fibra;
b) emicellulosolitici: la demolizione delle emicellulose è più veloce rispetto a quella
della dellulosa;
c) amilolitici ( Streptococcus bovis, Bacteroides ruminicola): idrolizzano l’amido;
f) produttori di acido (Veillonella alcalescens, Veillonella gazogenes): producono
acido acetico, butirrico e propionico;
g) metanogeni (Methanobacterium ruminantium, Methanobacterium formicium):
partendo dalla CO2 e dall’H2, producono il metano il quale è eliminato con
l’eruttazione e, quindi, non è utilizzato dall’animale; l’H2 utilizzato da questi batteri
potrebbe essere utilizzato per la formazione di ac. propionico
h) lipolitici (Anaerovibrio lipolytica): idrolizzano i trigliceridi e formano glicerolo e
acidi grassi liberi;
i) proteolitici (Butyrivibrio fibrisolvens, Bacteroides ruminicola): utilizzano le
proteine come fonte di energia, forniscono aminoacidi liberi mediante idrolisi dei
legami peptidici delle proteine;
j) produttori di vitamine i quali sintetizzano la vitamina K e le vitamine del gruppo
B.
k) utilizzatori di acidi: vi appartengono i batteri in grado di utilizzare gli acidi
organici quali l’ac. lattico, succinico, fumarico, ossalico. Per evitare acidosi ruminale
risulta utile la trasformazione dell’ac. lattico in ac. propionico.
Questo tipo di classificazione pone dei limiti in quanto, mentre alcune specie
(Anaerovibrio lipolytica) utilizzano un unico strato energetico altre (Bacteroides
ruminicola), invece, svolgono più di una delle funzioni prima descritte.
Considerando l’attività predominante in relazione al solo metabolismo ossidativo
possiamo dividere i microrganismi in quattro gruppi:
a) degradativi: comprende batteri che depolimerizzano i polisaccaridi o l’amido in osi
più semplici come cellubiosio, maltosio, saccarosio, xilobiosio;
b) fermentativi: fermentano i glucidi, convertendoli in acidi grassi a corta catena
come acetato, propionato e butirrato a CO2 ed H2. La CO2 è in parte ridotta a metano
attraverso i batteri metanogeni;
c) azoto-fissatori: degradano i substrati azotati per formare, oltre ad acetato, acidi
grassi a catena ramificata e NH3 , indispensabili per la sintesi di altri aminoacidi e
quindi per la crescita cellulare;
d) metanogenetico: producono metano.
I protozoi compaiono nel rumine non prima della seconda settimana di vita, in
quanto la loro possibilità di persistere nel rumine dipende dalla disponibilità di
batteri e funghi, che sono per questi microrganismi la principale fonte alimentare.
Essi sono soprattutto ciliati e in minor misura flagellati. Così come i batteri, i
protozoi vivono liberi nella fase liquida ruminale oppure attaccati alle particelle
alimentari o alla parete del rumine e sono coinvolti nel metabolismo degradativo e
fermentativo ruminale. La loro concentrazione è di 105-10
8 cellule /ml di liquido
ruminale e varia in funzione della dieta, del tempo di ritenzione del cibo nel rumine,
del tipo e del numero dei pasti giornalieri e delle condizioni fisico-chimiche del
rumine. Il numero massimo si osserva con diete ricche in fibre, quello minimo con
diete a base di concentrati. Prima del pasto, il numero di protozoi è bassissimo e
aumenta di circa 9 volte entro 40’ dal pasto, inizia a diminuire dopo 4 ore per tornare
ai valori minimi 6-8 ore dopo.
L’ingolfamento, da parte dei protozoi, dei batteri e di particelle alimentari porta ad un
aumento del tempo di ritenzione degli alimenti nel rumine, con un maggior attacco
degradativo degli stessi e un minor flusso del digesto al duodeno. La concentrazione
di ammoniaca ruminale in presenza di protozoi rispetto a quella del rumine defaunato
è considerevolmente maggiore per una aumentata degradazione proteica ed
utilizzazione delle catene carboniose degli aminoacidi, nonché del prolungato tempo
di ritenzione dell’alimento nel rumine. Con la defaunazione si osserva un maggior
flusso di composti azotati nel duodeno. Comunque, le proteine protozoarie sono più
digeribili che quelle batteriche e sono caratterizzate da un più elevato valore
nutritivo, per la presenza nel pool di aminoacidi di elevate concentrazioni di lisina.
Un ulteriore effetto indesiderabile, legato ai protozoi, è quello derivante dalla
compressione sull’accrescimento batterico ruminale a seguito della loro attività
predatoria e al loro consumo di energia. Comunque, i protozoi concorrono alla
digeribilità dei costituenti lignocellulosici della parete vegetale, sia perché hanno una
intensa attività degradativa nei confronti di alcuni polisaccaridi vegetali, sia
attraverso l’influenza che esercitano sulla popolazione batterica. In loro assenza,
infatti, la crescita batterica non controllata porta a variazioni tanto considerevoli delle
condizioni chimico-fisiche del rumine, da risultare pregiudizievoli per la
sopravvivenza degli stessi batteri. La presenza di protozoi influisce anche sul destino
finale delle catene carboniose di origine glucidiche. I maggiori prodotti del
metabolismo ossidativo protozoarico nel rumine sono lattato, acetato, butirrato, CO2,
H2. Il rapporto molare fra butirrato e propionato prodotti a seguito delle
fermentazioni ruminali, pari a 1,7 in presenza di protozoi, passa a 0,5 in loro assenza
mentre, aumenta la quantità di acidi grassi volatili (AGV). Poiché una elevata
disponibilità di propionato favorisce l’accrescimento somatico dell’animale, a fini
zootecnici, è stata sperimentata la defaunazione ruminale; i risultati sono stati
contraddittori e ciò in considerazione di quanto articolate e complesse siano le
interazioni fra le specie microbiche e protozoiche nel rumine.
I funghi anaerobi compaiono nel rumine 6-8 giorni dopo la nascita.
Appartengono alla classe Chytridiomycetes e sia il loro numero che le specie variano
in funzione del tipo di pasto dato all’animale. Con una dieta ad alto contenuto di
crusca di cereali, il numero dei miceti anaerobi nel rumine è massimo, con una dieta
povera di fibre, la popolazione fungina si riduce fino alla completa scomparsa di
alcune specie. In particolare, la crescita fungina è stimolata da diete a base di fieno e
concentrati ed inibita dalla somministrazione di mais e foraggio.
Il ciclo dei miceti consiste di una fase mobile, nella quale avviene la formazione di
zoospore uniflagellate o pluriflagellate, e una fase immobile riproduttiva con
formazione di un tallo vegetativo attaccato mediante rizoidi alle particelle vegetali.
Essi sono coinvolti nel metabolismo degradativo e fermentativo ma, al contrario dei
batteri e dei protozoi sono in grado di attaccare i tessuti lignocellulosici, che in
assenza dei miceti passerebbero indigeriti nelle feci. L’attività dei miceti ruminali è
favorita dal danneggiamento parziale dei tessuti lignificati durante la ruminazione. La
capacità di degradare la lignina è comunque limitata, infatti, mentre alcuni funghi
67
sono in grado di degradare le pareti lignificate di alcune angiosperme, altre
angiosperme, le graminacee e alcune conifere sono resistenti all’attacco fungino.
Influenza dell’alimento ingerito sulla digestione nei ruminanti
Razione ricca di fibra
(60-100 % foraggio grossolano)
Razione ricca di concentrati
(35-60% di foraggio grossolano)
Ruminazione più lunga
(40-60 minuti/Kg S.S.)
Ruminazione più breve
(35-45 minuti / Kg S.S.)
Alta produzione di saliva
(12-14 litri/Kg SS)
Minore produzione di saliva
(10-12 litri / Kg S.S.)
Valore del pH ruminale più alto (6.0 - 6,8)
Minore valore del pH ruminale (5,4 - 6.0)
Maggiore produzione di acido acetico
(65-70 Mol. %)
Aumento della produzione di acido
propionico (30 - 35 Mol. %)
Concentrazione relativamente più bassa
degli AGV per l’assorbimento più lento
Concentrazione relativamente alta degli
AGV per l’assorbimento più veloce
pH (6,2-7) più favorevole alla
scomposizione batterica della cellulosa
pH (5,5 – 6,2) più favorevole alla
scomposizione batterica dell’amido
Digestione dei foraggi ottimale
Rapporto C2:C3 = 4:1 – 3:1
Produzione quanti-qualitativa di latte =
buona
- Inadeguata digestione dei foraggi
- Rapporto C2:C3 = 2:1 – 1,5:1
- Produzione quanti-qualitativa del latte =
bassa
- Ingrassamento degli animali ottimale
- Rischio di acidosi e problemi sanitari
Un’aumentata lignificazione si associa ad una diminuita digeribilità perché l’attività
dei miceti ruminali viene inibita da composti fenolici, che aumentano con il grado di
lignificazione. I funghi instaurano con i batteri metanogeni una simbiosi mutualistica,
infatti, i miceti ricavano dai batteri un aumento della velocità di idrolisi della
cellulosa dei tessuti vegetali, che rendono disponibile glucosio solubile, il quale
favorisce il benessere e la proliferazione fungina, a loro volta, i metanogeni sfruttano
l’idrogeno prodotto negli idrogenosomi posseduti anche da queste specie cellulari per
produrre metano.
Fra le sostanze del contenuto ruminale assume importanza la saliva, la cui
composizione è simile a quella dell’uomo (anche se quella dei ruminanti non
contiene ptialina e quindi non ha capacità idrolitica sull’amido). La saliva ha anche
funzione tampone in quanto neutralizza l’acidità proveniente dalla fermentazione
della cellulosa e degli idrati di carbonio (pH nel rumine = 6-7).
Il ruminante durante l’ingestione mastica gli alimenti solo sommariamente,
lasciandoli cadere attraverso l’esofago nel rumine, dove si accumulano e, sotto
l’azione della saliva, subiscono una prima macerazione. Successivamente, gli stessi
alimenti sono riportati alla bocca sotto, forma di boli, dove sono accuratamente
masticati (masticazione mericica) abbondantemente insalivati e nuovamente
deglutiti. Il bolo mericico non ancora fermentato, di basso peso specifico a causa del
suo contenuto in fibra grezza, rimane nello strato superiore del rumine dove subirà
l’azione demolitrice della microflora. La parte già sensibilmente trasformata dai
batteri scende sul fondo e passa nell’omaso. Qui viene sottratta acqua (per non diluire
i succhi gastrici dell’abomaso) e lo stesso bolo se sufficientemente digerito e
immesso nell’abomaso.
Digestione della cellulosa e formazione degli acidi grassi volatili (AGV) nel
rumine
I carboidrati somministrati ai ruminanti sono rappresentati da monosaccaridi,
disaccaridi, sostanze pectiche, emicellulosa, lignina.
La fibra grezza nel rumine è scissa in: cellulosa, emicellulosa, lignina, cutina,
suberina, pentosani.
All’azione dei microrganismi del rumine, oltre la cellulosa soggiacciono anche gli
altri componenti strutturali della fibra grezza, nonché gli estrattivi inazotati (amido,
destrine, zuccheri).
La cellulosa per azione della -1,4-glucosidasi è depolimerizzata a cellubiosio e
cellulodestrine. Successivamente, il cellubiosio è scisso in glucosio o mediante una
fosforilasi in glucosio-1-fosfato. Il glucosio non è assorbito dalle pareti del rumine e
viene trasformato in acidi grassi a corta catena carboniosa (ac. Acetico 65%, ac.
Propionico 25%, ac. Butirrico 10%, ac. Valerianico e Isovalerianico 4-5%).
L’amido e le destrine sono scissi prima in maltosio o isomaltosio e poi in glucosio o
glucosio-1-fosfato ad opera, rispettivamente, delle amilasi, maltasi e maltosio-
fosforilasi. I fruttani vengono idrolizzati a fruttosio il quale può anche derivare dal
saccarosio. Le emicellulose sono la fonte di xilosio e acidi uronici; gli acidi uronici
possono derivare anche dalla scissione delle pectine e successivamente sono anche
essi convertiti a xilosio. Gli zuccheri semplici, provenienti dai processi fermentativi,
non sono assorbiti dalla parete ruminale ma si trovano in piccole quantità in quanto
vengono immediatamente metabolizzati dai microrganismi.
Acidi grassi volatili (VFA) nel liquido ruminale di bovini e ovini a varie diete
Animale Dieta Totale
AGV
Singoli AGV
(proporzioni molari)
(mmoli/l) Acetico Propionico Butirrico Altri
Bovini Erba insilata 108 0.74 0.17 0.07 0.03
Ovini Fieno: concentrati
1 :0 97 0.66 0.22 0.09 0.03
0.6:0.4 87 0.61 0.23 0.13 0.02
0.2:0.8 70 0.40 0.40 0.15 0.05
All’interno delle cellule batteriche si ha la seconda fase di degradazione dei
carboidrati e in sintesi consiste nella degradazione del fruttosio-1-fosfato ad ac.
piruvico attraverso la via metabolica di Embden-Meyerhof. L’ac. piruvico, a sua
volta, viene trasformato in acidi grassi volatili (AGV): ac. acetico, propionico,
butirrico a seconda della specie batterica. In queste reazioni si ha la produzione di
prodotti secondari: ac. formico e CO2; il primo viene metabolizzato ad anidride
69
carbonica e idrogeno il quale viene utilizzato per reazioni di riduzione, produzione di
metano o eliminato con l’eruttazione.
La trasformazione dell’acido piruvico in AGV avviene come segue:
a) acido acetico: l’ossidazione avviene secondo due vie; la prima è quella del
sistema fosforoclastico tipico dei Coli aerogenes con formazione di acido acetico ed
ac. formico, la seconda è il sistema fosforoclastico dei clostridi con produzione di ac.
acetico e CO2;
b) acido propionico: la sua formazione prevede due vie di cui la prima è quella del
succinato che ha come prodotti intermedi gli acidi ossalacetico, malico, fumarico e
succinico; questa via è predominante con razioni ricche in cellulosa. La seconda via,
predominante con razioni ricche in amido, è quella dell’acrilato che consiste nella
riduzione diretta dell’acido piruvico in acido propionico via ac. lattico e acrilico.
c) Acido butirrico: la sua sintesi prevede la formazione di acetil- CoA dal piruvato il
quale si condensa con l’ac. acetico extracellulare. Come prodotti intermedi si hanno:
ac. acetacetico, ac. -idrossibutirrico ed il crotonil-CoA.
Metabolismo dei carboidrati nel rumine (da McDonald e coll., 1988)
Cellulosa Amido
Maltosio Isomaltosio
Glucosio 1-fosfato Glucosio
Pectine Acidi uronici Glucosio 6-fosfato Saccarosio
Fruttosio
Emicellulose Pentosi Fruttosio 6-fosfato Fruttani
Pentosani Fruttosio1,6 fosfato
Via Embden-Meyrhof
Acido piruvico
Formiato Acetil -CoA Ac. Ossalacetico Ac. Lattico
CO2 H Ac. acetacetico Ac. Malico
Metano Ac.
idrossibutirrico
Ac. Fumarico Ac. Acrilico
Crotonil -CoA Ac. Succinico
Ac. acetico Ac. Butirrico Ac. propionico
In sintesi, nei processi cellulosolitici della microflora ruminale il 15% dell’energia
totale posseduta dalla cellulosa viene liberata sotto forma gassosa con produzione di
metano e idrogeno che vengono eliminati e, quindi, perduti per l’organismo animale,
il 10% sotto forma di calore utilizzato dai microbi per la loro moltiplicazione e
parzialmente dall’organismo animale per la termoregolazione, il 70% trasformato in
acidi grassi volatili a corta catena carboniosa che sono i prodotti più importanti della
digestione ruminale dei glucidi.
Nel rumine, tutti i glucidi sono principalmente fonte di glucosio e perciò di energia.
Questi zuccheri, sono captati dai microrganismi, e con l’intervento di ATP
energetico, subiscono complicate trasformazioni, con produzione finale degli AGV.
Il glucosio fornisce alla microflora del rumine energia utile per le molteplici funzioni,
mentre la quota che passa nel sangue fornisce precursori per la sintesi del lattosio ed
è elemento indispensabile per molte altre reazioni biochimiche, fra cui quella che
porta alla sintesi dell’acido ossalacetico che è una molecola indispensabile nel ciclo
di Krebs.
In alcuni casi, i batteri traggono energia da altre fonti: a) dalla produzione di metano
(metanogenesi), che nei prestomaci conduce alla formazione persino di 200 litri di
gas (di cui il 30% è metano, il 65% CO2 e il rimanente azoto e ossigeno); b) dalla
formazione di acido lattico.
Effetto della dieta sulla fermentescibilità dell’amido di diversi alimenti
Alimento
Rapporto foraggi/concentrato
alto basso
Mais
Degradabilità (%) a 6 ore:
3,5 21,6
Corn gluten feeds 17,6 45,3
Fiocchi di mais 14,4 42,6
Frumento 9,9 42,3
Farinaccio 14,7 50,1 - -
Gli AGV, invece, assorbiti dalle pareti ruminali e messi in circolo, trasferiscono al
corpo il 60-70% dell’energia contenuta nell’alimento e, inseriti nel ciclo metabolico,
gli forniscono composti carboniosi per la sintesi, principalmente, del grasso del latte.
La degradabilità ruminale della cellulosa e degli altri idrati di carbonio è soggetta a
notevoli variazioni e ciò perché è influenzata da diversi fattori ( pH, tipo di foraggio,
tipo di dieta, ecc.). La produzione di AGV può anche essere orientata verso la
produzione di uno anziché un altro: così negli animali da latte si preferisce far
abbondare i foraggi sui concentrati per far attestare la produzione di AGV sui valori
60:25:15% rispettivamente per ac. Acetico, ac. Butirrico e ac. Propionico.
Digestione e sintesi proteica nel rumine.
Solo il 30-35% delle proteine alimentari ingerite riesce a sfuggire alla degradazione
ruminale e quindi arriva indenne all’intestino. Il resto viene trasformato nel rumine in
71
proteine microbiche mediante enzimi specifici, prodotti dai batteri, e con l’aiuto di
energia. L’attacco enzimatico avviene in due fasi:
1) si ha la rottura (idrolisi) dei legami polipeptidici, con liberazione di peptidi
(aminoacidi a catena corta) o di semplici aminoacidi;
2) si ha la deaminazione e la degradazione di tali molecole semplici, con produzione
di ammoniaca, residui di aminoacidi e di peptidi e qualche altro composto.
L’ammoniaca e gli altri prodotti della scissione sono captati dai batteri (riescono a
intercettare fino al 90% di azoto) ed elaborati a proteina del loro stesso corpo
(proteinogenesi). La cellula batterica contiene dal 44,4 al 55% di proteina. Il 30-40%
dei batteri viene ingerito dai protozoi ed avviato insieme ai batteri nell’abomaso e
all’intestino dove subiscono la classica digestione delle proteine. La digeribilità della
proteina batterica è di circa l’80%. Tali trasformazioni permettono di dire che “il
ruminante è un erbivoro per ciò che mangia ma è un carnivoro o pseudocarnivoro per
ciò che digerisce”. La proteinogenesi necessita di due condizioni basilari:
a) presenza di azoto: le proteine alimentari sono formate da frazioni più (albumine,
globuline) o meno (gluteline, prolamine ) solubili e quelle più solubili sono
degradate più velocemente. Così come detto per i glucidi, anche le proteine sono
degradate in proporzione diversa e la degradabilità dipende dalla loro natura e dai
trattamenti subiti. Ad esempio, la velocità di degradazione è molto elevata per gli
insilati, i cereali, molte farine ad elevato tenore proteico, è inferiore per i foraggi
verdi e soprattutto per quelli affienati ed è bassa per le materie prime proteiche
sottoposte a riscaldamento (erba disidratata, soia tostata, ecc.). I batteri cercano
soprattutto l’azoto ureico ma anche aminoacidi e peptidi: il rendimento della
trasformazione dell’azoto si ha quando esso si trova per il 75% come non proteico
e per il 25% come aminoacidico o peptidico. La proteosintesi è influenzata da
diversi fattori e situazioni fra cui:
- la capacità di lisi posseduta dai batteri, a sua volta dipendente dalla sua peculiare
capacità enzimatico-proteolitica,
- il mantenimento di un equilibrato e favorevole ambiente ruminale,
- dal buon rapporto fra velocità di degradazione e velocità di transito delle
particelle alimentari che a sua volta dipende dalla struttura e qualità dell’alimento,
dal livello di ingestione di sostanza secca, dal tempo di permanenza dell’alimento nel
rumine.
b) presenza di energia: da essa dipende l’attività microbica di riproduzione e di
proteinogenesi. La quota principale di energia deriva per l’80% dai carboidrati, per il
20% dalle proteine e in maniera trascurabile dai grassi. Un contributo energetico non
indifferente è dato dalla metanogenesi: va ricordato che da una mole di metano si
ottengono 4 ATP, da 100 g di carboidrati fermentati 2,5-3 ATP e da 100 g di proteina
solo 1,2-1,5 ATP. La migliore garanzia per l’ottenimento di ATP energetico per il
lavoro di lisi e di sintesi proteica si ha in presenza di glucidi ad alta velocità di
fermentazione e la conseguente produzione di acido acetico. Il costo energetico in
ATP risulta più elevato quando è destinato a produrre proteina batterica piuttosto che
altri composti della cellula batterica (grassi, carboidrati). Il 45% dell’ATP disponibile
viene utilizzato per il mantenimento dei batteri, il 45% per la loro moltiplicazione e il
10% viene perso. Quando aumenta la diluizione del contenuto ruminale (produzione
di saliva, altro), viene risparmiato ATP per il mantenimento a favore della
moltiplicazione batterica e della sintesi. Molti studi condotti hanno stabilito che
grosso modo da 100 g di sostanza organica fermentata nel rumine si ottiene una
produzione di 16-22 g di proteina batterica, mentre secondo studi tedeschi si
produrrebbero 15 g di proteina batterica per MJ di energia netta latte (ENl) presente
nel rumine e quindi traducendo tale energia in UFL si avrebbero 108-110 g di
proteina batterica per ogni UFL. Questi valori possono elevarsi razionalizzando al
meglio gli equilibri nutritivi della dieta o inserendo vitamina PP (5 g/capo/giorno) e
in quest’ultimo caso la proteosintesi può aumentare anche del 30-50%.
E’ stato ipotizzato che nelle bovine la sintesi batterica è ottimale con diete contenenti
circa il 13% di proteina sul secco. Con una normale razione non spinta, è prevedibile
una produzione giornaliera di 1.800 g di proteina batterica grezza, che avendo una
digeribilità intestinale dell’80% corrisponde a circa 1400-1500 g di proteina
digeribile. Le esperienze di Virtanen, indicano che è possibile coprire una produzione
di 40 kg di latte nel ciclo di produzione di 305 giorni (13 kg al giorno, mediamente)
fornendo alla microflora solo urea quale fonte azotata, dimostrando così l’elevato
grado di captazione dell’azoto di cui sono capaci i batteri ruminali.
Forzando oltre il 13% la concentrazione proteica alimentare su S.S., bisogna
provvedere ad un proporzionale adeguamento dei valori energetici della razione.
Quando la microflora non dispone di sufficiente energia fermentativa, almeno il 75%
della quota di proteina eccedente quel 13% si arresta allo stadio di ammoniaca la
quale si accumula nel rumine dove in parte è trattenuta in urea che, nella migliore
delle ipotesi è riciclata attraverso la saliva nel rumine o eliminata con le urine.
Comunque, è il fegato l’organo fondamentale che partecipa a tutti i processi di
detossificazione, ma le sue capacità non sono illimitate e, inoltre, necessita di energia
che gli viene fornita sotto forma di glucosio.
Esempio di utilizzo di una proteina nei ruminanti
Proteina grezza alimentare ingerita = g 3170 Energia: 129 Mj di ENl
Degradazione = 65,6 =
g 2080 g 1090
Quota by-pass = 34,4%
Sintesi ruminale* = g 1935 + g 1090
All’intestino = g 3025 di proteina pura
Digeribilità 80% = g 2420 di proteina digeribile all’intestino
Metabolizzabilità 70% = g 1964 di proteina metabolizzabile intestinale
* La sintesi di proteina microbica è di 15 g per ogni MJ
L’eventuale sovraccarico metabolico di ammoniaca non bruciata, allora, causa
degenerazione del tessuto epatico, stato tossico di alcalosi, squilibri ormonali, ridotto
assorbimento di calcio e fosforo, passaggio di urea nel sangue e latte, ipofertilità.
2.9.2. Metabolismo delle sostanze azotate nel rumine
L’azoto ingerito con gli alimenti può essere proteico o non proteico (urea, ammidi,
nitrati, nitriti). In media, le sostanze azotate non proteiche rappresentano circa il 15-
20% dell’azoto totale. L’urea per essere utilizzata deve essere prima trasformata in
ammoniaca e ciò avviene ad opera delle ureasi batteriche. In presenza di energia
sufficiente, l’ammoniaca viene trasformata in proteina batterica. In assenza di energia
o in presenza di quantità elevate di ammoniaca essa viene assorbita in parte dalla
73
parete ruminale, attraverso il sangue giunge al fegato dove viene detossificata
mediante trasformazione in urea la quale viene escreta in parte con le urine, in parte
con il latte e una certa quantità (circa il 20%) torna al rumine attraverso la saliva.
Con livelli ancora più elevati di ammoniaca nel rumine si può avere la saturazione
della capacità di ureogenesi epatica e l’innalzamento del tenore ematico di
ammoniaca con conseguenti gravi intossicazioni (alcalosi).
Esempio di utilizzo di un aminoacido (metionina) nel ruminante
Metionina ingerita = g 54
Metionina nella quota di proteina
degradabile (65,6%) = g 35,40
Metionina contenuta nella proteina
di sintesi microbica (g 0,0018 x 1.935)*
= g 34,83
+
Metionina nella quota di
proteina by-pass =
g 18,60
Totale metionina che va all’intestino =
g 53,43
Digeribilità 80% = g 42,75 di metionina digeribile all’intestino
Metabolizzabilità 70% = g 29,92 di metionina metabolizzabile
* La metionina nella proteina microbica è di 1,8 g ogni 100 g di proteina
Con l’aumentare dell’ammoniaca nel rumine, aumenta il pH che riduce il grado
di dissociazione dell’ammoniaca aumentandone l’assorbimento attraverso la parete
ruminale; in questi casi i tenori di urea e ammoniaca aumentano a livello del plasma
e dei tessuti e liquidi degli organi riproduttori, con effetti tossici nei riguardi degli
spermatozoi, degli ovuli e degli embrioni. Questi inconvenienti possono essere
eliminati:
a) utilizzando come fonti di azoto non proteico, sostanze che liberano l’ammoniaca
gradualmente (urea, biureto, ecc.);
b) impiegando vitamina PP, sotto forma di acido nicotinico alla dose di 6-10
g/capo/giorno, la quale avrebbe un effetto antitossico nei confronti di eccesso di
ammoniaca, aumentando la velocità di ripristino dei valori fisiologici a livello
ematico.
Delle proteine alimentari, una quota (circa il 30%, variabile con il tipo alimento)
sfugge alla degradazione ruminale (proteina by-pass) e raggiunge l’intestino dove in
parte viene assorbita e in parte escreta con le feci; il rimante 70% circa viene
degradata dai microbi ruminali con produzione di aminoacidi i quali possono essere
inglobati dalla microflora o essere deaminati con produzione di ammoniaca e catene
carboniose o decarbossilati con produzione di ammine. La degradazione delle
proteine si ha ad opera di proteasi endocellulari che scindono le proteine in peptidi.
Gli aminoacidi liberati dalle proteine e quelli liberi possono essere utilizzati per la
sintesi proteica sia dalla microflora che dalla microfauna oppure deaminati con
produzione di ammoniaca e delle rispettive catene carboniose le quali possono essere
utilizzate a scopi energetici e trasformate, così come avviene per i carboidrati, in
AGV. La flora batterica è capace di sintetizzare tutti gli aminoacidi ma per alcuni di
essi (valina, isoleucina e leucina) è necessaria la presenza di acidi grassi ramificati
(ac. isobutirrico, ac. Z-metil butirrico e ac. isovalerianico). I ruminanti riescono a
vivere e le vacche a produrre fino a 45-50 qli di latte con razioni prive di proteine ma
con adeguati apporti di fonti di azoto non proteico.
2.9.3. Digestione dei grassi nel rumine
I grassi che pervengono nel rumine, subiscono una scissione ad acidi grassi e
glicerolo ad opera di enzimi batterici. Il glicerolo viene convertito in acido
propionico e successivamente nel fegato in glucosio mentre, gli acidi grassi insaturi
vengono saturati dai batteri e dai protozoi in gran parte in acido stearico; la
saturazione avviene mediante captazione dell’idrogeno in eccesso che continuamente
si forma durante le fermentazioni e che, peraltro, qualora si accumulasse in quantità
eccessive, condurrebbe al blocco delle funzioni ruminali. Utile risulta anche la
riduzione della quantità di grassi insaturi in quanto un eccesso potrebbe deprimere
l’attività fermentativa dei batteri. I batteri stessi utilizzano parte del grasso presente
nel rumine. La principale fonte di energia e dei prodotti carboniosi utili alla sintesi
del latte nel ruminante, comunque, è rappresentata dagli AGV. Quindi, è importante
nei ruminanti da latte fornire fibra alimentare e favorire un’adeguata vitalità della
microflora utile per la fermentazione dei composti cellulosici. Qualora la produzione
di latte superi i livelli fisiologici deve essere fornito un surplus di energia di altra
origine e, contrariamente a quanto avviene nei monogastrici, essa non può essere
rappresentata da grassi insaturi in quanto essi sono mal tollerati ed avvolgerebbero i
microbi deprimendone l’azione cellulosolitica. D’altra parte se si sopperisse alla
carenza energetica con troppo amido insorgerebbero fenomeni di acidosi. Il
problema, negli ultimi tempi, è stato risolto sfruttando la capacità che hanno i grassi e
gli olii contenuti in certi semi (soia, cotone) di non turbare l’ambiente ruminale,
essendo facilmente trasferiti all’intestino, al quale apportano grassi a lunga catena i
quali sono molto utili all’organismo. Peraltro, l’industria produce miscele di grassi
saturi ed insaturi di tipo diverso, a media e lunga catena di atomi di carbonio,
stabilizzati e non soggetti all’irrancidimento (grassi by-pass). Questi a livello
ruminale sono inerti e giunti all’abomaso dove il pH è fortemente acido, rilasciano la
loro parte grassa che poi subisce la normale scissione in acidi grassi e glicerolo.
2.9.4. Metabolismo dei lipidi nel rumine
Negli alimenti per i ruminanti, i lipidi sono presenti soprattutto sotto forma
esterificata come mono e digalottogliceridi nei foraggi e come trigliceridi nei
concentrati. Gli acidi grassi più presenti sono quelli insaturi dei quali l’ac. linolenico
rappresenta il 60% degli acidi grassi totali e poi abbiamo ac. linoleico, oleico,
palmitoleico, ecc., mentre, gli ac. grassi saturi rappresentano circa il 15% del totale.
Nel rumine, i legami acil-esteri dei trigliceridi, fosfolipidi, galattogliceridi, metil- ed
etil esteri, ecc. vengono idrolizzati dalle lipasi batteriche e si ha la produzione di
acidi grassi liberi, galattosio e glicerina. I batteri che maggiormente producono lipasi
sono l’Anaerovibrio lipolytica le cui lipasi idrolizzano i trigliceridi contenenti ac.
grassi a media e lunga catena ed il Butyrivibrio fibrisolvens in grado di idrolizzare la
fosfatidilcolina e la fosfatiletanolamina. I protozoi intervengono soprattutto
nell’idrolisi dei digalattogliceridi in galattosio e digliceridi.
Il galattosio e la glicerina successivamente vengono fermentati ad AGV, mentre, gli
ac. grassi poliinsaturi vengono trasformati prima in monoeni e dopo, almeno in parte,
in ac. stearico. Una piccola quota degli ac. grassi poliinsaturi sfugge a questo
75
processo di idrogenazione e giungono all’intestino comunque, la maggior parte degli
ac. grassi che raggiunge il tenue è data da quelli saturi (ac. palmitico, stearico).
Recentemente, si è tentato di aumentare il tenore lipidico delle razioni per ruminanti,
soprattutto in lattazione, allo scopo di aumentare la concentrazione energetica senza
far ricorso all’amido. Comunque, i grassi aggiunti alla razione, soprattutto se di
origine vegetale, tendono a ridurre il tenore lipidico del latte dovuto ad un effetto
negativo sulla microflora cellulosolitica. Il fenomeno non trova facile spiegazione e
potrebbe essere dovuto:
a) rivestimento fisico delle particelle di cellulosa da parte del grasso;
b) minore disponibilità di alcuni cationi in seguito alla formazione di complessi
insolubili con gli ac. grassi a lunga catena;
c) effetti diretti di tossicità di alcuni ac. grassi nei confronti della microflora
ruminale;
d) formazione di isomeri trans nei processi di idrogenazione degli ac. grassi
poliinsaturi;
e) formazione di perossidi.
La maggior parte di questi inconvenienti può essere evitata utilizzando lipidi protetti
dall’attacco ruminale. Per la protezione il globulo di grasso viene rivestito con sottile
strato proteico denaturato mediante trattamento termico o con formalina o ancora
mediante una reazione di salificazione fra acidi grassi e cationi, in modo particolare
con calcio. Gli acidi grassi salificati, cosiddetti “saponi, per la maggior parte non
sono solubili a livello ruminale, ma vengono idrolizzati nell’abomaso in presenza di
pH acido.
2.9.5 Degradazione e sintesi di vitamine nel rumine
Nel rumine alcune vitamine vengono degradate:
a) il 93% della vitamina C ed il 60% della vitamina A vengono distrutti in 6 ore;
b) le perdite di riboflavina, niacina, acido folico e vitamina B12 risultano elevate;
c) per la vitamina E la degradazione è molto più elevata quando essa si trova sotto
forma di DL-alfatocoferilacetato;
d) la tiamina, l’ac. pantotenico e la colina vengono degradate, rispettivamente per il
48, 78 e 70%;
e) le perdite di vitamina B6 e biotina risultano trascurabili.
La degradazione delle vitamine a livello ruminale sembra essere più elevata in
presenza di elevate quantità di concentrati ricchi in amido nella razione. In condizioni
normali, nel rumine vengono sintetizzate tutte le vitamine del gruppo B (idrosolubili)
e la vitamina K (liposolubile). Comunque, in condizioni di squilibri ruminali o di
esasperati fabbisogni (livelli produttivi elevati, intenso ingrassamento) possono
insorgere fenomeni carenziali come ad esempio la poliencefalomalacia, causata da
una carenza di tiamina. Peraltro, la sintesi di alcune vitamine è influenzata dalla
presenza di alcune sostanze (es. il cobalto per la vitamina B12). Fra i batteri in grado
di sintetizzare vitamine ricordiamo il Flavobacterium vitarumen ed il Clostridium
butyricum.
2.9.6. Tempi di degradabilità ruminale dei diversi alimenti
I tempi di degradazione ruminale sono molto variabili in funzione del principio
alimentare interessato:
a) per le frazioni fibrose più digeribili, la degradazione si completa in 12-24 ore,
per quelle meno digeribili (foraggi lignificati) avviene in qualche giorno: i foraggi
macinati sono degradati più velocemente che non quelli lunghi, la fibra delle polpe di
bietola è più fermentescibile di quella della paglia;
b) gli zuccheri e gli acidi organici degli insilati sono degradati molto velocemente,
tempi leggermente più lunghi sono richiesti dall’amido: l’amido del frumento e
dell’orzo è più fermentescibile e più velocemente degradabile di quello del mais e del
sorgo, quello cotto lo è più di quello crudo;
c) nell’ambito dei foraggi vi sono differenze nella degradabilità dovute alla diversa
struttura e composizione dei glucidi, in particolare modo di quelli parietali, in
rapporto al tipo botanico (più lenta nelle graminacee rispetto alle leguminose), alle
diverse parti della stessa pianta (foglie, steli), allo stadio di sviluppo (più veloce per
quello precoce rispetto a quello tardivo).
2.9.7. Biotecnologia del rumine
Le conoscenze disponibili sui modulatori del processo fermentativo ruminale
sono ancora frammentarie, comunque, è ormai stabilito che a ciascuna situazione
alimentare corrisponde un determinato equilibrio della micropopolazione ruminale,
equilibrio che può essere variato agendo sul tipo e la qualità delle sostanze
degradabili (specialmente glucidi), la forma fisica degli alimenti, il numero dei pasti,
la quantità di fibra, il rapporto foraggi/concentrati, l’utilizzazione dei foraggi verdi ed
altro.
Destino dei nutrienti nel rumine
Amido Cellulosa NPN Proteine Grassi
acetato Propionato butirrato NH3 -chetoacidi Grassi
saturi
Quota
by-pass
-OH butirrato
Proteine microbiche
Assorbimento
Digestione post-ruminale
Metabolismo
dell’ospite
Ad esempio, in una situazione in cui nella razione prevalgono i foraggi si ha
un aumento dei batteri cellulosolitici e si ha un rallentamento della degradazione
della cellulosa, un’abbondante produzione di saliva e ciò porta ad una buona stabilità
del pH (6,4) e ad una elevata velocità del ricambio del liquido ruminale (5-12% /ora);
si instaura una fermentazione di tipo “acetico” e sono favoriti anche i batteri
metanogeni, con una sensibile perdita di energia della razione in forma di metano
(circa 12% dell’energia grezza ingerita), ma con una maggiore quantità di energia
77
indirizzata verso la sintesi di proteine microbiche. Quando, invece, nella razione
prevalgono i concentrati, sono favoriti i batteri amilolitici e quelli produttori di acido
lattico. Il conseguente abbassamento del pH, cui concorre anche una minore
insalivazione, deprime i batteri cellulosolitici e metanogeni e i protozoi. Il ricambio
della fase liquida rallenta (3,5% per ora) e si riduce la produzione di acetato mentre
aumenta quella del propionato (25-30%) e del butirrato (12-15%); in questo caso le
perdite energetiche sono minori, poiché la formazione di metano si riduce al 6%
circa, ma si deprime contestualmente l’efficienza della sintesi proteica.
Per quanto attiene alla protezione dei principi alimentari pregiati, la soluzione ideale
sarebbe quella di lasciare alla micropopolazione ruminale solo i glucidi strutturali
(cellulosa ed emicellulosa) e le forme azotate non proteiche (urea) o, comunque, le
proteine meno efficienti dal punto di vista del fattore limitante.
Le fermentazioni ruminali possono essere modulate attraverso diverse vie:
a) tecniche di alimentazione, sono essenzialmente due:
1) autoalimentazione dell’animale sotto controllo elettronico computerizzato:
l’operatore assegna ad ogni animale un numero di porzioni di alimento adeguato alle
necessità, che l’animale ripartisce spontaneamente nel corso della giornata, ma non
può superare i limiti stabiliti dall’allevatore sulla base del rendimento e del suo stato
di benessere o malattia;
3) tecnica del piatto unico o unifeed, consiste nel miscelare i vari componenti
alimentari della razione in rapporti adeguati alle specifiche necessità
dell’allevamento in atto. Questo metodo può essere applicato anche da solo poiché il
singolo animale, in genere, ingerendo quantità variabili di alimento completo, si
autoregola.
Destino delle sostanze azotate presenti nel rumine
Proteine Azoto non
proteico (NPN)
Proteine by-pass
Proteine degradati
ad NH4
Pool dell’NPN
Pool dell’urea
plasmatica
Proteine
microbiche
Digestione
intestinale
Feci
Urine
Metabolismo
dell’ospite
d) composizione della razione: diviene importante il rapporto foraggi:concentrati;
l’amido o gli zuccheri molto fermentescibili se ad elevata quantità causano una
intensa attività fermentativa soprattutto di tipo propionico fino ad arrivare a quella
lattica che può penalizzare la digestione ruminale degli alimenti e ciò si ha
soprattutto se il pH si abbassa di molto.
Gli americani consigliano razioni contenenti carboidrati per il 28% a rapida
fermentazione (zuccheri solubili), per il 32% carboidrati a media fermentazione
(pectine e amido molto degradabili, prodotti fioccati) e per il 40% carboidrati a lenta
fermentazione (amido di mais, amido di patate). Il tenore in fibra grezza della razione
non dovrebbe scendere al di sotto del 15-16%. I tenori ottimali di NDF e ADF della
razione sono, rispettivamente del 32-36% e 20-22%. Ciò porta a un tenore in NDF, a
secondo del livello produttivo, tra lo 0,85 e l’1,2% del peso vivo, peraltro, il 70-80%
dell’NDF dovrebbe essere apportato da foraggi.
e) frequenza dei pasti, con pasti più frequenti il biochimismo ruminale è più lineare,
non si hanno brusche variazioni di pH e la flora è di tipo cellulosolitico, per cui il
rapporto acetato/propionato rimane >3, una condizione favorevole per le vacche
lattifere, essendo l’acetato un substrato per la sintesi degli acidi grassi destinati alla
secrezione nel latte;
f) foraggi verdi, hanno un’azione di stimolo sulle fermentazioni ruminali che è
dovuta alla presenza di zuccheri solubili a lenta liberazione con abbondanza di acqua;
e) additivi chimici modulatori delle fermentazioni ruminali, sono una serie di
sostanze in grado di intervenire positivamente sull’attività dei microrganismi
ruminali le quali vengono somministrate per perseguire alcuni obiettivi:
1) migliorare l’utilizzazione della quota fibrosa della razione che è limitata sia dalla
modesta efficienza energetica delle fermentazioni anaerobiche, sia dalla intensità
della degradazione delle proteine alimentari durante la loro permanenza nel rumine;
2) aumentare l’energia utilizzabile dai microbi del rumine e, di conseguenza, la loro
biomassa spostando l’equilibrio fra gli acidi volatili a favore dell’acido acetico e
riducendo le perdite di fermentazione sotto forma di CO2 e metano che oscillano tra
il 6 e il 19%;
3) ottimizzare le proteinogenesi batteriche, sempre attraverso un aumento della
disponibilità di energia, riducendo così l’entità della degradazione delle proteine
alimentari: un’efficiente integrazione di proteine nelle strutture microbiche riduce il
numero di atomi di carbonio degli amminoacidi che vengono ossidati nelle
fermentazioni;
4) aumentare il by-pass proteico del rumine e, quindi, la disponibilità di amminoacidi
essenziali per l’animale;
5) controllare situazioni di stress metabolico dovute a cambiamenti bruschi di regime
alimentare, che comportano fermentazioni anomale e la produzione di sostanze
tossiche, con ripercussioni negative sulla fertilità e sullo stato di salute dell’animale.
A fianco dei modulatori delle fermentazioni ruminali con effetto auxinico, per
interferenza diretta con l’attività microbica, altri modulatori possono essere efficaci
attraverso meccanismi meno selettivi. Una maggiore diluizione del contenuto
ruminale può essere ottenuta aumentando il tenore salino della razione, inducendo
così l’animale a bere più acqua, con la conseguenza di favorire lo sviluppo microbico
ed orientare le fermentazioni verso l’acido acetico. La slaframina, un metabolita
fungino isolato da Rhizotoma leguminicola, stimola la secrezione salivare fino al 50-
60% nei bovini alimentati con concentrati, senza ridurre il consumo alimentare, e
porta ad un miglior controllo fisiologico del flusso del digesto ruminale verso
porzioni caudali del tubo digerente. Trova un utile riscontro anche l’impiego di
alcune sostanze fisiologiche che favoriscono le fermentazioni ruminali aumentando
la proteinogenesi ed il by-pass proteico; fra queste l’acido nicotinico e la sua
ammide, l’acido fumarico e la bentonite sodica. La nicotinammide esercita anche un
effetto extravitaminico, svolgendo un’azione sedativa in presenza di condizioni di
stress e, forse, stimolando l’assunzione di cibo.
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f) inibitori della metanogenesi, alcune sostanze quali il tricloroacetammide,
tricloetanolo, tricloroadipato, tricloropivalato hanno effetti tossici sui batteri
metanogeni e, purtroppo, anche sulle altre specie microbiche ruminali, determinando
una diminuzione della efficienza di degradazione della materia organica alimentare
ed una minore sintesi microbica, effetti messi in evidenza specialmente in ruminanti
alimentati con razioni ricche di concentrati. Inoltre, risultano pericolose per la salute
dell’animale e dell’uomo e vengono allontanate dall’ambiente in tempi molto lunghi.
g) antibiotici ionofori, devono il proprio nome al loro meccanismo d’azione
fondamentale che consiste in un’azione facilitante lo scambio di cationi attraverso le
membrane batteriche. Più impiegati sono il Monensin che è quello più studiato, il
Lasalocid, il Salinomicin ed il Narasin. Essi hanno la capacità nel processo di
trasporto di ioni in membrane che normalmente non possiedono tale attività. Il
Monensin e il Salinomicin interferiscono solo sul trasporto di ioni monovalenti (Na e
K) in particolare, mentre, il Lasalocid interessa anche gli ioni bivalenti (Ca e Mg). I
batteri della fermentazione acetica sono quelli più sensibili agli antibiotici ionofori.
Essi, di conseguenza, ostacolano la conversione del piruvato ad acido acetico
attraverso la via fosforoclastica che libera acido formico che, successivamente, viene
scisso in CO2 e metano; quindi si ha una minore produzione di acido acetico e di
metano. Nei riguardi dei batteri lattici ha una azione più spiccata il Lasalocid rispetto
al Monensin. Gli antibiotici ionofori modificano il rapporto acetico/propionico a
favore di quest’ultimo (soprattutto se al Monensin si associa acido nicotinico),
riducono la proteogenesi microbica e la degradazione delle proteine alimentari e della
sostanza organica. Fra i limiti di queste molecole vi è il fatto che inibiscono la
metanogenesi, almeno in parte, nelle feci e ciò rappresenta un inconveniente nel caso
in cui esse dovessero essere impiegate per la produzione di biogas.
Papille ruminali
Rumine sano Acidosi acuta
L’aggiunta di Monensin alla razione alimentare determina un aumento della
produzione di propionato a scapito di quella dell’acetato e del butirrato, con solo
minime variazioni del lattato. Alcuni studi in vitro hanno messo in evidenza che
l’antibiotico è inibitore di vari ceppi batterici producenti lattato, di batteri formanti
acido formico e della produzione di idrogeno. Gli antibiotici ionofori possono ridurre
la quantità di alimento assunto giornalmente infatti, è stato osservato che il monesin
può ridurre il consumo di una razione alimentare a base di granelle dal 10 al 16%. La
riduzione della produzione di metano con l’uso di monesin va dal 4 al 31%; esso, a
differenza di altri inibitori della metanogenesi, non produce un eccesso di H2. Il
monesin riduce il fabbisogno proteico del ruminante, in quanto diminuisce
l’ossidazione degli aminoacidi liberatisi nel liquido ruminale, per l’idrolisi dei legami
peptidici e la degradazione ruminale delle proteine della razione. Con il monesin
aumenta di circa il 15% il turnover del glucosio poiché l’antibiotico fa diminuire la
quantità di amminoacidi glucogenetici avviati alla gluconeogenesi. Una maggiore
quantità di proteine alimentari non degradate arriva all’abomaso e, quindi, al
duodeno per essere digerite a livello intestinale. L’uso continuo di monesin, nei
bovini fa diminuire l’azoto microbico nell’abomaso, suggerendo che il risparmio
delle proteine alimentari dall’attacco microbico ruminale concorra a limitare la
disponibilità di NH3 per la crescita batterica. Il monesin, inoltre, inibendo i batteri
responsabili della deaminazione del triptofano e della produzione dei suoi derivati
indolici, contrasta gli effetti nocivi di questi cataboliti a livello polmonare.
Il monesin anticipa la pubertà e, attraverso la produzione di propionato, favorisce la
secrezione ipofisaria di LH (ormone luteinizzante) in risposta alla somministrazione
di Gn-RH (fattore rilasciante gonadotropine dall’ipotalamo); inoltre, riduce l’anaestro
postpartum e causa un aumento del peso alla nascita dei vitelli, probabilmente come
conseguenza del più intenso anabolismo causato dall’uso del farmaco.
L’impiego del monesin, come fattore di crescita per giovani bovini, è autorizzato
negli Stati Uniti (non in Europa), con una dose raccomandata di 200
mg/capo/giorno. La somministrazione deve essere interrotta prima della macellazione
e sono necessari controlli sistemici per determinare l’assenza di quote residue nei
tessuti destinati al consumo, ciò in quanto, i residui stessi hanno effetti tossici non
trascurabili per il consumatore. I segni d’intossicazione da monesin negli animali
riguardano: postura preferenziale coricata, anorresia, atassia moderata, rigidezza dei
movimenti, flaccidità muscolare, diarrea, dispnea e morte.
Effetto di diversi livelli di impiego di un complesso cellulasi/xilanasi
(rapporto 2/1) sulle performance di bovine alimentate con razioni a base di
fieno e insilato di medica
Parametro
Livello di cellulasi/xilanasi (mg/kg SS )
Controllo Basso
1,25
Medio*
2,5
Alto
5,0
Assunzione s.s. kg/d 24,4 26,2 26,2 26,6
Latte, kg/d 39,6 40,8 45,9 41,2
Grasso, % 3,99 3,83 4,00 3,75
Proteine, % 2,95 2,87 2,88 2,85
Efficienza, kg latte/kg s.s. 1,82 1,64 1,86 1,62
*il il livello enzimatico intermedio si è dimostrato più efficace.
Trattamenti fisici: per i foraggi si fa in genere riferimento alla trinciatura, che se
non inferiore a 1-2 cm, mantiene buona parte delle caratteristiche fisico-meccaniche
dei foraggi, ai fini di un regolare stimolo alla ruminazione, con una normale funzione
ruminale, ma con il vantaggio di aumentare la quantità di alimento ingerita.
81
Con la macinatura (< 0,6 cm), la digeribilità degli alimenti si riduce per una minore
permanenza nel rumine e possono comparire effetti nocivi assai rilevanti. Infatti, lo
sminuzzamento eccessivo della razione porta a lesioni del rumine, ad ascessi epatici,
a meteorismo cronico e a calcoli urinari. L’incidenza di queste complicazioni
diminuisce con l’adozione di misure profilattiche che consistono, principalmente, nel
distribuire una piccola quantità di paglia.
I trattamenti operati sui cereali, in genere, accelerano i processi fermentativi ruminali.
In ordine di velocità fermentativa crescente abbiamo: granella secca intera > granella
conservata umida > granella frantumata > granella finemente macinata > granella
sottoposta a trattamento idrotermico. Le quantità di propionato e lattato sono tanto
maggiori quanto maggiori e violenti sono stati i processi fermentativi. Anche la
stessa fonte dell’amido ha effetti al riguardo: mais e sorgo > orzo. L’amido non deve
giungere nell’intestino in quantità eccessive, per la presenza in questa sede di
quantità di -amilasi non adeguate ad un sovraccarico di substrato. Ad essa si può
porre un parziale rimedio con dei tamponi intestinali, quali carbonati di calcio, ossido
di magnesio che, favorendo l’avvicinarsi del pH alla neutralità, aumentano l’attività
specifica dell’enzima. Per contro, l’assorbimento di elevate quantità di glucosio
dall’intestino causa nelle lattifere la sindrome del latte magro.
Protezione proteica con aldeidi, ha lo scopo di ridurre o inibire l’attacco microbico
sulle proteine, senza influire negativamente sul flusso del digesto e quindi
sull’efficacia di utilizzazione dell’alimento nel metabolismo animale. La formaldeide
permette un’effettiva protezione proteica, senza rendere l’alimento indigeribile a
livello intestinale. Anche altre aldeidi quali l’acetaldeide, la glutaraldeide e il
gliossale, possono essere utilizzate per il fine medesimo. La principale reazione
coinvolta è la carbamilazione degli -amminogruppi terminali delle proteine e dei
gruppi amminici presenti nelle catene laterali degli amminoacidi che possiedono tale
caratteristica. I batteri ruminali non sono in grado di metabolizzare i metilesteri di
quattro amminoacidi essenziali (leucina, treonina, valina e lisina) mentre gli
amminoacidi non modificati sono facilmente degradabili. Utilizzando dialdeidi, come
la gluteraldeide, si possono anche creare ponti intramolecolari fra gli amminoacidi
basici. Il trattamento della proteina alimentare con formaldeide e analoghi favorisce
la ritenzione di azoto da parte dell’animale, con un aumento della concentrazione
amminoacidica ematica.
Protezione proteica con tannini, il tannino è un composto chimico con peso
molecolare variabile tra 500 e 300 D, contenente gruppi fenolici-idrossilici capaci di
formare sulla proteina un reticolo di protezione. Le proteine rivestite di tannino sono
parzialmente protette dalla degradazione ruminale e vengono idrolizzate
nell’abomaso. In alcuni casi, tuttavia, ad esempio con il sorgo, il trattamento con
tannini riduce il rendimento energetico, rendendo le proteine resistenti anche alla
digestione post-ruminale.
Integrazione della razione alimentare con aminoacidi: in animali con forti
produzione di latte e di carne, alcuni aminoacidi e specialmente quelli solforati non
sono disponibili in quantità adeguate e possono rappresentare un fattore limitante
della razione. Così, la lisina e la metionina sono aminoacidi co-limitanti per la
produzione del latte in bovine alimentate con insilati di frumento e concentrati,
contenenti il 60% di grano e il 25% di avena, la lisina è limitante in razioni senza
l’apporto di leguminose e la metionina in razioni al 4% di farina di soia.
L’integrazione di diete carenti con zolfo, solfato sodico o DL-metionina migliora
l’accrescimento ponderale e la produzione del latte. Solo il 20-30% della metionina
aggiunta alla razione raggiunge il duodeno, cosicché sono stati fatti numerosi sforzi
per proteggere questo aminoacido dalla ossidazione ruminale. In sospensioni di
microrganismi ruminali alimentati con urea come sola fonte di azoto, l’aggiunta di
metionina permette una migliore sintesi delle proteine sia microbiche che
protozoiche. La metionina stimola in ambito ruminale anche la sintesi lipidica,
fornendo gruppi metilici nella sintesi della fosfatidilcolina. Gli amminoacidi possono
essere protetti con l’incapsulamento, risultato che può essere ottenuto preparando un
composto costituito dal 20% di DL-metionina, dal 20% di caolino e dal 60% di
tristearina: il prodotto così ottenuto ha un nucleo di metionina disperso in un colloide
di caolino rivestito da una pellicola idrofobica di tristearina. Altri materiali sono stati
usati allo stesso scopo, quali amido acrilato, polimeri immidamminici; essi si basano
sul fatto di essere resistenti alle condizioni fisico-chimiche del rumine, ma di
disgregarsi ai valori di pH caratteristici dell’abomaso.
2.10. Assorbimento dei principi utritivi
In seguito alla digestione, i principi alimentari vengono scissi nei relativi
principi nutritivi (aminoacidi, zuccheri semplici, acidi grassi) e come tali vengono
assorbiti attraverso la mucosa intestinale, nella quale sono presenti i villi intestinali i
quali sono dotati di un vaso linfatico, detto chilifero centrale, e da una fitta rete
capillare: attraverso i primi passano i gliceridi, gli acidi grassi a lunga catena, il
colesterolo e, nei primi giorni di vita, le immunoglobuline mentre, la via ematica
viene utilizzata dall’acqua, dai sali inorganici, dagli aminoacidi, dai monosaccaridi,
dagli acidi grassi a catena corta e dal glicerolo.
Meccanismi di assorbimento
Molecole cariche
Passivo le sostanze seguono
un certo gradiente
elettrolitico
Gradiente di concentrazione
Trasporto attivo (pompe metaboliche)
Trasporto
mediato
le sostanze sono
trasportate da carrier
Diffusione facilitata
Diffusione a scambio
L’assorbimento è il processo di trasporto delle particelle ingerite che va dal
lume intestinale al circolo sistemico; ciò avviene, soprattutto, ad opera delle cellule
dell’epitelio della mucosa che riveste il tenue.
83
Nei monogastrici la principale sede dell’assorbimento dei principi nutritivi è
l’intestino tenue la cui superficie della mucosa è aumentata notevolmente dalla
presenza dei villi. L’assorbimento può avvenire con:
a) per trasporto passivo, quando la concentrazione del principio nutritivo è più
elevato all’esterno che all’interno della cellula;
b) per trasporto attivo, più veloce rispetto al primo e necessita di un trasportatore
specifico sul quale si trovano due siti di attacco: uno per il sodio (Na+) e l’altro per il
principio nutritivo da trasportare;
c) pinocitosi (cellula che beve): è un processo importante in molti neonati di
mammiferi in quanto permette di assorbire le immunoglobuline del colostro.
L’assorbimento avviene grazie alla capacità della membrana cellulare di captare
grosse molecole che si trovano in sospensione o in soluzione.
Il trasportatore una volta depositato il principio nutritivo ed il sodio nella
cellula ripassa la membrana e si rende disponibile per il trasporto di altri principi; il
sodio viene allontanato dalla cellula per mezzo della cosiddetta “pompa del sodio” e
una volta ritornato nel lume intestinale si lega ad un altro trasportatore. Gli zuccheri e
gli aminoacidi vengono assorbiti soprattutto attraverso questa via.
I fattori che possono influenzare i processi di assorbimento sono:
a) area di flusso: nel tenue le pliche intestinali aumentano notevolmente la superficie
disponibile al contatto con il chimo, coadiuvate dai villi e dai microvilli;
b) circolazione: il trasporto avviene nei vasi sanguigni e nei vasi chiliferi linfatici,
che seguono le estroflessioni della mucosa e formano una rete diffusa sotto le cellule
epiteliali. Questa disposizione riduce al minimo la distanza che il materiale assorbito
deve compiere all’interno della mucosa; inoltre, le sostanze assorbite vengono
allontanate rapidamente. Va notato che il flusso sanguigno capillare è circa 1000
volte maggiore della velocità di formazione della linfa;
c) potenziale elettrico: le particelle cariche vengono assorbite con velocità diverse e
ciò causa l’esistenza di una separazione di cariche fra i due lati della membrana, con
la creazione di una differenza di potenziale. Un contributo alla differenza di
potenziale è dato dal trasporto attivo di Na+ verso l’interno della mucosa, che rende
la parete luminale più negativa rispetto all’interno; tale disposizione sembra
influenzare più l’assorbimento degli ioni bivalenti che quelli monovalenti;
d) permeabilità epiteliale: varia entro ampi limiti; le dimensioni delle particelle
sono molto importanti in quanto più piccole sono esse maggiore è la velocità di
assorbimento e ciò forse perché sulla membrana ci sono pori di diverse dimensioni.
La permeabilità dipende anche dal meccanismo di trasporto, infatti, il glucosio è
assorbito prima dei pentosi, che hanno dimensioni più piccole, in quanto è sottoposto
a trasporto attivo. Sulla permeabilità delle sostanze influisce anche la liposolubilità.
Si pensa che esistano diversi tipi di trasportatori e che alcuni di essi possono
veicolare più di un principio nutritivo (es.: il trasportatore del glucosio è uguale a
quello dello xilosio). La natura dei trasportatori non è conosciuta, comunque, il
trasportatore del D-glucosio isolato dai villi intestinali del criceto è una proteina con
peso molecolare di 55.000.
L’assorbimento dell’acqua avviene per diffusione passiva lungo tutto il tubo
gastroenterico, negli erbivori, mentre nei carnivori l’acqua deve essere assorbita
attivamente, soprattutto a livello dell’ileo e del colon. Negli erbivori, l’acqua viene
escreta nell’ileo e riassorbita nel crasso, per la presenza di processi fermentativi. I
fattori che determinano il movimento di acqua sono:
- la forza osmotica, relativamente ai gradienti di concentrazione;
- differenza di pressione idrostatica esistente fra lume e capillari;
- trasporto delle sfere di solvatazione, da parte di sostanze che vengono assorbite
portando con sé le molecole di acqua associate. Dei tre, la forza osmotica è quella più
importante.
La digestione dei carboidrati porta alla formazione di zuccheri semplici la
quale avviene sulla superficie della membrana dei villi; gli aldosi, quali il glucosio,
vengono trasportati con trasporto attivo, mediato da proteine carrier aiutate da un
cofattore di trasporto, lo ione Na+ e attraverso il sistema portale giungono al fegato. Il
fegato è in grado di controllare il flusso di glucidi nel sangue e di modificarli
metabolicamente prima di immetterli nel circolo. Il meccanismo di assorbimento dei
chetosi non è chiaro, peraltro, per il fruttosio sembra che il trasporto sia sodio
indipendente e per questo monosaccaride è dubbio il trasporto attivo in quanto la
velocità di assorbimento è pari a circa la metà di quella del glucosio e galattosio. Per
i vari zuccheri la velocità di assorbimento, a parità di concentrazione segue l’ordine
decrescente: galattosio, glucosio, fruttosio, mannosio, xilosio e arabinosio.
L’assorbimento dei monosaccaridi può essere inibito da vari fattori, fra cui la
fluorizina, che interferisce con il trasporto attivo e con il carrier.
Nell’intestino tenue i grassi digeriti si trovano sotto forma di micelle miste;
per il loro assorbimento sembra che le componenti lipidiche siano assorbite per
diffusione passiva nelle cellule della mucosa del digiuno mentre, i sali biliari
verrebbero assorbiti nell’ileo, con meccanismo di trasporto attivo. Dopo
l’assorbimento, si ha sintesi di trigliceridi nei chilomicroni (goccioline di grasso in
dispersione colloidale) i quali dal vaso linfatico dei villi raggiungono il dotto toracico
e, quindi, la circolazione generale. I chilomicroni sono così costituiti: trigliceridi
86%, colesterolo 3%, fosfolipidi 9%, lipoproteine 2%. Gli acidi grassi a corta e
media catena non richiedono sali biliari, né la formazione di micelle e, quindi,
possono essere assorbiti molto rapidamente dal lume intestinale e direttamente
versati nel sangue del sistema portale. L’assorbimento di questi acidi grassi è Na-
dipendente e avviene, contro gradiente di concentrazione, per trasporto attivo. Nei
polli, il sistema linfatico è trascurabile e la maggior parte dei grassi arriva nel sangue
portale come lipoproteine di bassa densità.
Dalla digestione delle proteine si liberano aminoacidi e oligopeptidi di basso
peso molecolare. Gli oligopeptidi entrano nelle cellule epiteliali della mucosa del
tenue e qui vengono idrolizzati da specifiche di- e tri-peptidasi. Gli aminoacidi
vengono assorbiti nel piccolo intestino con meccanismo di trasporto attivo, che nella
maggior parte dei casi é Na-dipendente e quindi giungono al fegato attraverso il
sangue del circolo portale. Il sodio non è necessario per l’assorbimento della glicina,
prolina e lisina. I sistemi descritti per il trasporto degli aminoacidi possono essere
classificati in quattro gruppi:
a) per aminoacidi neutri, con carica totale nulla;
b) per aminoacidi acidi quali i dicarbossilici (aspartato, glutammato);
c) per aminoacidi basici: lisina, arginina, ornitina, cisteina
d) per iminoacidi e glicina.
Aspartato e glutammato vengono assorbiti dalla cellula, ma all’interno
subiscono dei processi di transaminazione, cosicché il prodotto riversato nel sangue è
alanina.
Alcuni aminoacidi possono essere veicolati da più di un sistema. Abbiamo già detto
che nei neonati è possibile l’assorbimento di proteine inalterate con il meccanismo
della pinocitosi.
85
L’assorbimento degli aminoacidi è compiuto per il 40-50% circa nel duodeno, poi
continua in tutto il tenue (digiuno e ileo). Con un pasto di carne magrissima e molto
proteica, la digestione e l’assorbimento sono completati in un’ora.
I minerali vengono assorbiti sia per semplice diffusione sia con meccanismo
di trasporto attivo. Le modalità con le quali vengono assorbiti tutti i minerali non
sono state precisate. Per il calcio l’assorbimento è regolato dall’1,25-
diidrossicolicalcio fenolo ed è influenzato da diversi fattori, infatti, è favorito da un
pH basso ed è ostacolato dalla presenza di ossalati e fitati e da un eccesso di fosforo,
inoltre, l’assorbimento aumenta con il fabbisogno dell’animale.
L’assorbimento del ferro, generalmente, è indipendente dalla fonte alimentare;
l’animale tende a tesaurizzare il ferro corporeo e per questo esiste una modalità di
regolazione dell’assorbimento del ferro che evita il suo accumulo nell’organismo.
Negli animali adulti, in genere, viene assorbito poco ferro a meno che non sia in
corso qualche grave emorragia o uno stato di gravidanza; per i cani è stato osservato
che l’assorbimento può essere 20 volte maggiore negli animali anemici rispetto a
quelli sani.
Le vitamine liposolubili A, D, E e K attraversano la mucosa intestinale per
semplice diffusione, in seguito all’azione dei sali biliari e, all’interno delle cellule, si
possono combinare con le proteine ed entrare nella circolazione generale come
lipoproteine. La vitamina A può giungere al lume intestinale come estere del retinolo
o come -carotene. Negli altri animali, a differenza dei bovini, il -carotene può
essere assorbito solo dopo che è stato trasformato in retinolo, acidi grassi e altri
composti. Il retinolo una volta assorbito viene esterificato con l’acido palmitico
all’interno della cellula (palmitato di retinolo), viene emesso dalla cellula e assorbito
dai vasi linfatici, per essere condotto al fegato. Il trasporto alla retina oculare è
mediato da una proteina plasmatica che gli permette il riconoscimento da parte di
recettori specifici; il retinolo viene staccato dal complesso con la proteina e assorbito.
La vitamina D viene assorbita e condotta come tale nella linfa; a livello della mucosa
intestinale viene attivata e favorisce la sintesi di una proteina in grado di legare lo
ione Ca++
, responsabile del suo assorbimento dal lume intestinale.
Le vitamine idrosolubili ad eccezione della B12 sono tutte assorbite per
processi di diffusione passiva. La vitamina B12 ha un sistema di trasporto specifico,
legato alla presenza di una proteina secreta nel lume gastrico, il fattore intrinseco di
Castle, diverso nei diversi tipi di animali. Il complesso Vit. B12-fattore intrinseco
viene riconosciuto da recettori presenti nelle cellule della mucosa dell’ileo dove si ha
lo scambio della Vit. B12 e il suo passaggio all’interno della cellula.
Nel rumine si ha l’assorbimento di diverse sostanze che avviene sia per
semplice diffusione sia per meccanismo di trasporto attivo. In questa sede,
l’assorbimento riguarda soprattutto gli AGV: circa il 75% di essi viene assorbito nel
rumine-reticolo, il 20% nell’omaso e nell’abomaso e solo il 5% raggiunge l’intestino
tenue. L’assorbimento degli AGV è per diffusione, in base al gradiente di
concentrazione fra ambiente ruminale e cellule epiteliali e sangue. La velocità di
assorbimento aumenta con il diminuire del pH ruminale e quindi gli AGV sono
assorbiti più velocemente sotto forma indissociata. L’ac. butirrico viene
metabolizzato dall’epitelio del rumine che lo utilizza come substrato energetico
trasformandolo in corpi chetonici (ac. -idrossibutirrico, ac. acetacetico, acetone) e
tutto ciò causa una concentrazione molto bassa di ac. butirrico nella vena porta la
quale porta il sangue proveniente dalle rete capillare sottoepiteliale del rumine al
fegato. Una certa permeabilità della parete ruminale si ha anche per altre sostanze
quali: glucosio, ammoniaca, CO2, H2O e sali minerali. Il sodio mediante meccanismo
di trasporto attivo contro gradiente dal rumine passa al sangue con dispendio di
energia. Altri elementi interessati all’attraversamento della parete ruminale sono il
cloro, il fosforo, il potassio il calcio e il magnesio: per questi ultimi due
l’assorbimento è rallentato da elevate concentrazioni di potassio; questo fenomeno
probabilmente è una delle cause della tetania da erba o ipomagnesiemia che si
verifica in particolare modo in animali che ingeriscono alimenti ricchi in proteine,
calcio e potassio.
2.10.1. Defecazione
Le feci sono composte da residui alimentari non digeriti, prodotti della
digestione, prodotti di fermentazione e putrefazione, composti dei succhi digerenti,
materiale che deriva dalla desquamazione della mucosa intestinale, prodotti di
escrezione, cellule microbiche, ecc.
La defecazione è un atto riflesso con il quale l’animale espelle dal canale alimentare
il materiale indigerito e i prodotti di escrezione dell’intestino.
Lo stimolo alla defecazione si ha quando le feci sono entrate nell’ampolla rettale e vi
hanno prodotto un certo grado di distensione. Quando l’ampolla rettale contiene feci
a sufficienza, la contrazione del colon e il rilascio degli sfinteri anali portano alla
evacuazione delle feci. I riflessi interessano solo le porzioni sacrali del midollo
spinale.
Produzione di feci in diverse specie e categorie animali
Deiezioni
Specie Categoria Peso medio
(Kg/capo)
(capo/anno)
Q
q/peso vivo
q
Bovini
Vacche da latte
Vitelli
Vitelloni
tori adulti
600
125
300
1.000
180
30
65
180
30
24
21,5
18
Suini
Scrofe con suinetti
Verri adulti
Suini da ingrasso
Magroni
200
300
100
30
30
30
20
10
15
10
20
33
Avicole Galline ovaiole
Polli
2
1
0.72
0,36
36,5
36,5
Ovi-caprini
Pecore
Capre
Agnelloni
60
35
18
15
9
5
25
25
28
Equini Fattrici e stalloni
Puledri
700
200
150
50
21,5
25
Cunicola Fattrici
Conigli ingrasso
4
2
1,6
0,8
40
40
La dilatazione dell’ampolla rettale o l’irritazione della mucosa (es. i purganti come la
glicerina) costituiscono lo stimolo diretto alla defecazione. Uno stimolo indiretto è
costituito dal cosiddetto riflesso gastro-colico, che sarebbe responsabile della
tendenza alla defecazione nelle ore postprandiali.
87
L’atto della defecazione è parzialmente volontario: ciò riguarda il rilascio dello
sfintere anale esterno, ma può comprendere anche l’azione sinergica dovuta alla
contrazione del diaframma e dei muscoli addominali. Il riflesso della defecazione
viene espletato due o più volte nella giornata, secondo la specie e, la quantità di feci
varia notevolmente con l’animale considerato (15-20 Kg nel cavallo; 15-45 Kg nel
bovino).
La diarrea può essere causata da almeno tre cause diverse: aumento della
velocità di transito delle feci, diminuzione dell’assorbimento, aumento delle
secrezioni intestinali. Essa può presentarsi in forma:
a) acuta: si risolve in poco tempo ma è violenta; essa porta alla perdita di una
notevole quantità di acqua, legata ad una emoconcentrazione ed ipovolemia, il
sangue diventa più viscoso e lo scambio gassoso a livello dei tessuti è rallentato; ciò
causa un aumento di CO2 e di cataboliti acidi, con abbassamento del pH e quindi un
peggioramento delle condizioni di salute. L’acidosi metabolica causa fuoriuscita di
K+ dalle cellule (ipopotassemia) e ciò può causare blocco della contrazione cardiaca e
infarto.
b) cronica: ha carattere permanente e si risolve in un periodo di tempo piuttosto
lungo; presenta una elevatissima morbilità e mortalità. Nell’organismo porta alla
comparsa di reazioni adattative e difensive, quali la riduzione della minzione e
l’aumento della tendenza al bere per compensare la perdita sistematica di acqua e
sali. Comunque, l’ingestione di acqua, povera di sali (soprattutto K+) apporta pochi
benefici in quanto si ha ipopotassemia e diminuzione delle concentrazioni saline
organiche.
CAP. III. METABOLISMO
3.1. Generalità
Il metabolismo è l’insieme dei processi chimici che avvengono
nell’organismo vivente e può essere distinto in:
a) catabolismo: processo che porta alla degradazione di composti a sostanze
semplici;
a) anabolismo: sono processi metabolici che partendo da sostanze semplici portano
alla formazione (sintesi) di composti complessi.
Con il catabolismo si rende disponibile l’energia necessaria di cui l’organismo ha
bisogno per il lavoro meccanico e per il lavoro chimico richiesto per la sintesi dei
carboidrati, delle proteine e dei lipidi. Il metabolismo dei carboidrati parte dalle
sostanze prodotte con la loro digestione e sono rappresentate da glucosio e, in misura
minore galattosio e fruttosio nei monogastrici.
Nei poligastrici, la maggior parte dei carboidrati alimentari nel rumine è trasformata
in acido acetico, acido propionico, acido butirrico e piccole quantità di acidi volatili a
catena ramificata. L’acido butirrico viene metabolizzato nel passaggio attraverso la
parete del rumine e giunge al sangue sotto forma di acido -idrossibutirrico (BHBA).
L’acido acetico e propionico attraversano la parete ruminale immodificati e insieme
all’acido idrossibutirrico raggiungono il fegato attraverso il sangue della vena porta.
L’ac. acetico e il BHBA dal fegato passano ai vari organi e tessuti dove vengono
utilizzati quali fonte energetica e per la sintesi di acidi grassi, invece, l’acido
propionico nel fegato viene trasformato in glucosio il quale in parte è trasformato in
glicogeno, e come tale viene immagazzinato, in parte viene trasformato in acidi
grassi, coenzimi ridotti e L-glicerol-3-fosfato, usato per la sintesi dei trigliceridi e
infine una quota di glucosio dal fegato passa nel sangue e portato ai vari tessuti dove
viene utilizzato quale fonte di energia, coenzimi ridotti e per la sintesi di glicogeno e
di acidi grassi.
La digestione delle proteine produce aminoacidi e peptidi di basso peso molecolare
che sono assorbiti dai villi intestinali, immessi nel sangue portale attraverso il quale
giungono al fegato, dove entrano a far parte del pool di aminoacidi. Essi possono
essere usati per la sintesi delle proteine o entrando nella circolazione generale, vanno
ad unirsi agli aminoacidi provenienti dal catabolismo dei vari tessuti e, quindi,
partecipano alla sintesi delle proteine corporee e alle altre sostanze azotate di grande
importanza biologica. Gli aminoacidi che superano il fabbisogno vengono portati al
fegato e trasformati in chetoacidi, con liberazione di ammoniaca. I chetoacidi
possono essere impiegati per la sintesi di aminoacidi o quali fonte energetica;
l’ammoniaca, in parte trova impiego per processi di aminazione e per la quasi totalità
è trasformata in urea che viene escreta con le urine o riciclata nella saliva. Nei
poligastrici, una notevole quantità di ammoniaca può essere assorbita dal rumine e
con il sangue portale giungere al fegato ove viene trasformata in urea, poi escreta o
riciclata al rumine, con la saliva o attraverso la parete dei visceri.
La maggior parte dei lipidi alimentari passa nel vaso chilifero del villo ed i
chilocromi che si formano, giungono attraverso il dotto toracico, nel sangue della
circolazione generale. I chilocromi sono particelle di circa 500nm di diametro, con un
involucro di natura lipoproteica. Piccole quantità di trigliceridi alimentari vengono
idrolizzati nel tratto intestinale a glicerolo e acidi grassi di basso peso molecolare,
che vengono direttamente versati nel sangue portale. I chilocromi circolanti giungono
89
al fegato ed i trigliceridi che li costituiscono sono idrolizzati. Gli acidi grassi così
prodotti, come quelli liberi che il fegato preleva dal sangue, possono essere
catabolizzati con produzione di energia oppure utilizzati per la sintesi di trigliceridi.
Questi ultimi rientrano nel sangue sotto forma di lipoproteine e con il sangue
giungono ai vari tessuti e organi, dove possono essere impiegati per la lipogenesi o
per la produzione di energia o per la sintesi di acidi grassi. Fatta eccezione per il
fegato, l’idrolisi è presupposto per l’assorbimento. Gli acidi grassi catabolizzati in
eccesso, rispetto al fabbisogno energetico del fegato, sono trasformati in -
idrossibutirrato ed acetoacetato, trasportati ai vari tessuti dove vengono utilizzati a
fini energetici.
3.2 Metabolismo energetico
L’unità di misura dell’energia è la caloria termochimica (cal), che corrisponde
al valore calorico dell’acido benzoico standard di riferimento; in pratica si usa la
chilocaloria (1 Kcal = 1000 cal) o la megacaloria (1 Mcal = 1.000.000 cal) in quanto
la cal è una’unità di misura troppo piccola. Il Joule (J) è il lavoro compiuto dalla
forza di un Newton quando il suo punto di applicazione si sposta di un metro ed è =
0,239 cal; 1 cal = 4,184 J; anche il J è una unità di misura molto piccola e, quindi, si
usa il chilojoule (KJ) e il megajoule (MJ).
La maggior parte delle reazioni di sintesi che avvengono all’interno dell’animale
sono endoergoniche e, quindi, è necessario un apporto di energia affinché esse
possano avvenire e tale energia può derivare dai processi catabolici esoergonici.
Affinché l’energia liberata dai processi catabolici possa essere usata dai processi
endoergonici è necessario che tra i due processi si stabilisca un legame e ciò avviene
mediante composti che partecipano ad entrambi i processi: prendono l’energia che si
sviluppa dal catabolismo e la rendono disponibile per i processi endoergonici. Il più
importante di questi mediatori nell’animale è rappresentato dall’adenosina trifosfato
(ATP), formata dall’adenina (base purinica) e dal D-ribosio (zucchero).
L’esterificazione dell’ossidrile dell’atomo di C5 dello zucchero con l’acido fosforico
dà luogo all’adenosina monofosfato (AMP) e successive aggiunte di radicali fosforici
portano all’adenosina difosfato (ADP) e all’adenosina trifosfato (ATP). Quando la
produzione di ATP da ADP è accoppiata direttamente ad una reazione si parla di
fosforilazione a livello del substrato, ma la maggior parte dell’ATP è formato per via
indiretta. Il meccanismo della fosforilazione ossidativa non è stato ancora chiarito,
ma si ritiene che la formazione di ATP abbia luogo durante il trasferimento
dell’idrogeno dal NAD+ ridotto al FAD, durante il trasferimento di elettroni dal
citocromo b al citocromo c1 e dal citocromo a3 all’ossigeno, così come
schematizzato:
NADH (+ H+) + ½ H2O + 3ADP +3Pi > NAD
+ + 3ATP + H2O
L’ossidazione di ogni mole di NAD+ ridotto produce quindi tre moli di ATP, da ADP
e fosfato inorganico. L’energia immagazzinata nell’ATP viene usata per il lavoro
muscolare e per i processi vitali che servono all’organismo animale per mantenersi e
produrre. Sia la contrazione che il rilassamento muscolare richiedono energia, la
quale è fornita dalla scissione dell’ATP ad ADP e fosfato inorganico. L’energia
fissata dall’ATP può anche essere usata per reazioni nelle quali il gruppo fosforico è
ceduto ad accettori di diversa natura (es. D-glucosio) e quindi aumentando il loro
contenuto energetico sono resi idonei per successive reazioni biosintetiche. In altre
reazioni, come nel primo stadio della lipogenesi, l’ATP fornisce l’energia necessaria
scindendosi in AMP e fosfato inorganico:
Acetato + CoA + ATP Acetilcoenzima A + AMP + pirofosfato.
La quantità di energia che si rende disponibile con il distacco di ognuno dei due
gruppi fosforici terminali dell’ATP varia a seconda delle condizioni in cui avviene
l’idrolisi. Si ritiene che nelle condizioni normali delle cellule intatte essa sia di 52 KJ
per mole-1
, ma può variare con il pH, con la concentrazione di ioni magnesio e la
concentrazione di ATP, ADP e fosfato. I legami fosforici dell’ATP sono
comunemente considerati in maniera non del tutto corretta “altamente energetici”.
L’accumulo di energia sotto forma di ATP è un fenomeno transitorio; quando la
produzione di energia supera il fabbisogno immediato, essa viene immagazzinata in
forma più permanente in prodotti che costituiscono una riserva di energia, come la
fosfocreatina dei muscoli che si forma dalla creatinina quando l’ATP è prodotto in
eccesso rispetto al fabbisogno; il fenomeno opposto si verifica quando la
disponibilità di ATP è insufficiente.
NH2 NH≈P
| |
C = NH2 C = NH2+
| Creatina cinasi |
N - CH3 + ATP N - CH3 + ADP
| |
CH2 CH
| |
COO-
COO-
Creatina Fosfocreatina
La maggior parte dell’energia è, comunque, immagazzinata sotto forma di grassi di
deposito, insieme a modeste quantità di glicogene; in alcune circostanze anche le
proteine vengono usate quale fonte di energia.
Fonti di energia:
a) Glucosio: la principale via catabolica attraverso la quale il glucosio
fornisce energia comprende due parti:
1) la prima detta glicolisi, capace di fornire energia anche in condizioni anaerobiche,
porta dal glucosio all’acido piruvico (via Embden-Meyerhof). Il glucosio viene
fosforilato con due moli di ATP e si ha il fruttosio difosfato il quale viene scisso e si
formano due moli di gliceraldeide - 3- fosfato; successivamente si formano altre 2
moli di ATP e quindi da una molecola di glucosio si formano 4 moli di ATP, ma
poiché due moli di ATP erano stati usati inizialmente per la fosforilazione, la
produzione netta di ATP da ADP è di due moli per ogni mole di glucosio. In
condizioni aerobiche, il NAD+ ridotto che si è prodotto al passaggio 7 può essere
ossidato lungo la catena respiratoria con la produzione di 3 moli di ATP per mole di
coenzima ridotto e quindi in condizioni aerobiche la glicolisi produce 8 moli di ATP
per ogni mole di glucosio. Sempre in condizioni aerobiche, il piruvato è ossidato fino
ad anidride carbonica ed acqua con ulteriore produzione di energia. La prima tappa
di questo processo consiste nella decarbossilazione ossidativa del piruvato in
presenza di tiamina difosfato. La deidrogenazione è operata dal NAD+ e 3 moli di
91
ATP si formano da ADP. L’acetil-CoA è poi completamente ossidato ad anidride
carbonica ed acqua nel ciclo degli acidi tricarbossilici (ciclo di Krebes o ciclo
dell’acido citrico). Nel ciclo si hanno 4 deidrogenazioni, tre delle quali con
intervento di NAD+ e una con intervento del FAD, il che comporta la formazione di
11 moli di ATP da ADP. Inoltre, una mole di ATP si forma a livello del substrato
nella reazione che porta da succinil-CoA ad acido succinico. Dunque, l’ossidazione
di ogni mole di acido piruvico produce 15 moli di ATP. L’energia immagazzinata
corrisponde a quella di 38 legami fosforici altamente energetici e può essere calcolata
moltiplicando 38 x 52 = 1976 KJ/mole-1
di glucosio, il cui contenuto totale di energia
libera è di 2870 KJ e questo significa che l’accumulo di energia libera nell’organismo
animale, almeno in condizioni cellulari ottimali, si verifica con un rendimento pari a
1976/2870 = 0,69.
In condizioni anaerobiche, non vi è disponibilità di ossigeno per la fosforilazione
ossidativa del NAD+ e, quindi, per ottenere una modesta liberazione di energia dalla
scissione continua del glucosio a piruvato, è indispensabile che il NAD+ ridotto
venga nuovamente ossidato. L’ossidazione del NAD+ ridotto, in queste condizioni, è
ottenuta attraverso la riduzione del piruvato a lattato catalizzata dal lattato
deidrogenasi:
CH3
|
|
C = O
|
|
COO-
Lattato deidrogenasi
NADH (+H+) NAD
+
CH3
|
|
CHOH
|
|COO-
Piruvato
Lattato
Così, è possibile la produzione di due moli di ATP, da ogni mole di glucosio, anche
in condizioni di anaerobiosi, come può verificarsi nell’esercizio muscolare intenso e
prolungato. Il lattato che si forma in parte viene portato al fegato dove viene
trasformato in glicogeno.
Nell’organismo, il glucosio può essere metabolizzato anche attraverso la via dei
pentoso-fosfati, nella quale si ha ossidazione diretta del glucosio a fosfogluconato o
anche come shunt dell’esomonofosfato. Il ciclo dei pentoso-fosfati assume
importanza nel citoplasma delle cellule epatiche, nel tessuto adiposo e nella
ghiandola mammaria in attività secretoria. Il risultato di questo ciclo è la rimozione
di un atomo di carbonio del glucosio come anidride carbonica e la produzione di due
moli di NAD+ ridotto.
Glucosio-6-fosfato + 12 NADP+ > 6 CO2 + PO4
3- + 12 NADPH (+ H
+)
A differenza del NAD+ ridotto, il NADP
+ non è utilizzato per la produzione di ATP
attraverso la fosforilazione ossidativa; la principale funzione del ciclo dei pentoso-
fosfati è infatti, quella di produrre i pentosi, necessari per la sintesi dei nucleotidi e il
NADP+ ridotto occorrente per diverse sintesi biologiche ed, in particolare, per la
lipogenesi. Peraltro, il NADP+ ridotto può essere trasformato in NAD
+ ridotto e,
quindi, servire indirettamente come fonte di ATP.
b) glicogeno: il glicogeno per essere utilizzato come fonte di energia deve essere
prima scisso in glucosio e la sua scissione, nell’organismo, avviene in presenza di
fosfato inorganico ed è catalizzata dalla glicogeno-fosforilasi. L’enzima catalizza la
scissione dei legami glicosidici 1,4 a cominciare dall’estremità non riducente della
catena. Vengono così liberate molecole di glucosio-1-fosfato, fino al punto di
ramificazione. Quindi, in presenza di oligotransferasi, si libera una destrina limite
con legame glicosico1,6; il glucosio viene messo successivamente in libertà per
scissione del legame1,6 ad opera di una oligo-1,6-glucosidasi, mentre l’ulteriore
attività della fosforilasi produce altro glucosio-1-fosfato. Il risultato finale della
scissione del glicogenolisi (fosforolisi) è la produzione di glucosio-1-fosfato accanto
ad una piccola quantità di glucosio. Il glucosio-1-fosfato ad opera di una
fosfoglutomutasi, è trasformato in glucosio-6-fosfato che poi segue la via Embden-
Meyerhof o entra nel ciclo dei pentoso-fosfati come il rimanente glucosio.
La produzione di glucosio-6-fosfato a partire dal glicogeno non comporta consumo di
ATP e, pertanto, la produzione di energia è in questo caso leggermente superiore a
quella che si ottiene a partire dal glucosio.
c) acido propionico: esso dal rumine, attraverso la parete ruminale, dove in parte
viene trasformato in acido lattico, passa al fegato dove è utilizzato per la produzione
di glucosio. La prima tappa prevede la trasformazione del propionato in succinil-CoA
il quale entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici e convertito in malato; in questa
trasformazione si formano 3 moli di ATP. Il malato passa nel citoplasma dove è
trasformato in ossalacetato e in fosfoenolpiruvato. Dal fosfoenolpiruvato,
percorrendo a ritroso alcune tappe della glicolisi, viene sintetizzato fruttosio difosfato
il quale è trasformato in fruttosio-6-fosfato dalla esoso-difosfatasi, poi in glucosio-6-
fosfato ed, infine, in glucosio per intervento della glucosio-6-fosfatasi. Il glucosio
può essere utilizzato a fini energetici; il bilancio dell’energia nella degradazione del
glucosio sintetizzato a partire dal propionato può essere così schematizzato:
Moli ATP
+ -
da 2 moli di propionato a 2 moli di succinil-coenzima A 6
da 2 moli di succinil-coenzima A a 2 moli di malato 6
da 2 moli di malato a 2 moli di fosfoenolpiruvato 6 2
da 2 moli di fosfoenolpiruvato a 1 mole di glucosio 8
da 1 mole di glucosio ad anidride carbonica ed acqua 38
Totale 50 16
Guadagno netto di ATP 34
Quindi, si ha un guadagno di 17 moli (34/2) di ATP per ogni mole di acido
propionico.
Piccole quantità di questo acido sono presenti nel sangue periferico o come
conseguenza di una incompleta rimozione da parte del fegato o a seguito della
ossidazione di acidi grassi a numero dispari di atomi di carbonio.
Questo propionato può essere usato direttamente per la produzione di energia, lungo
la via del fosfoenolpiruvato: piruvato, acetil-coenzima A e ciclo degli acidi
tricarbossilici.
Questo processo è leggermente più redditizio, infatti, si ha un guadagno netto
di una mole in più di ATP:
93
Moli ATP
+ -
da 1 mole di propionato a 1 mole di succinil-CoA 3
da 1 mole di succinil-CoA a 1 mole di malato 3
da 1 mole di malato a 1 mole di fosfoenolpiruvato 3 1
da 1 mole di fosfoenolpiruvato a 1 mole di acetil-CoA 4
da 1 mole di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 12
Totale 22 4
Guadagno netto di ATP 18
d) acido butirrico: viene assorbito dalle pareti del rumine e dell’omaso ed in questa
sede è trasformato in -idrossibutirrato il quale può essere utilizzato, quale fonte di
energia, da molti tessuti e soprattutto dai muscoli scheletrici. Attraverso diversi
passaggi si forma acetil-CoA il quale viene, successivamente, metabolizzato nel ciclo
degli acidi tricarbossilici con lo sviluppo della seguente energia:
Moli ATP
+ -
da 1 mole di butirrato a 1 mole di b-idrossibutirrato 5 5
da 1 mole di idrossibutirrato a 2 moli di acetil-CoA 3 2
da 2 moli di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 24
Totale 32 7
Guadagno netto di ATP 25
Se il passaggio di acetoacetato ad acetoacetil-CoA avviene attraverso l’intervento del
succinil-CoA si risparmiano due moli di ATP e così il guadagno netto passa da 25 a
27 moli di ATP.
e) acido acetico: nei ruminanti è il principale prodotto della digestione dei carboidrati
ed è il solo AGV presente nel sangue periferico in notevole quantità. Molti tessuti lo
utilizzano quale fonte di energia: l’acetato viene attivato, in presenza di acetil-CoA
sintetasi, ad acetil-CoA che poi viene ossidato nel ciclo degli acidi tricarbossilici con
la produzione di 12 moli di ATP per mole di acido; considerando che 2 legami
fosforici altamente energetici sono usati inizialmente per l’attivazione dell’acetato, il
guadagno netto di ATP si riduce a 10 moli/mole di acetato.
f) grassi: le riserve organiche di trigliceridi vengono mobilitate a scopo energetico
per azione delle lipasi che catalizzano la produzione di acidi grassi e glicerolo.
Il glicerolo è glicogenetico e si inserisce nella via della glicolisi come
fosfodiossiacetone fosfato.
Il glucosio può essere sintetizzato seguendo a ritroso la reazione aldolasica con
produzione di fruttosio-1,6-difosfato, poi convertito a glucosio con l’intervento della
esoso difosfatasi, della glucosofosfato isomerasi e della glucosio-6-fosfatasi.
Se il glucosio è usato per produrre energia, il rendimento energetico del glicerolo è il
seguente:
Moli ATP
+ -
da 2 moli di glicerolo a 2 moli di fosfodiossiacetone 6 2
da 2 moli di fosfodiossiacetone a 1 mole di glucosio
da 1 mole di glucosio ad anidride carbonica ed acqua 38
Totale 44 2
Guadagno netto di ATP/mole di glicerolo 21
Il diidrossiacetonefosfato può anche entrare nella via della glicolisi ed essere
metabolizzato, via piruvato, nel ciclo degli acidi tricarbossilici ad anidride carbonica
ed acqua e in questo caso si guadagna una mole di ATP:
Moli ATP
+ -
da 1 mole di glicerolo ad 1 mole di fosfodiossiaceton 3 1
da 1 mole di fosfodiossiacetone ad 1 mole di piruvato 5
da 1 mole di piruvato ad anidride carbonica ed acqua 15
Totale 23 1
Guadagno netto di ATP/mole di glicerolo 22
La maggior parte dell’energia, gli animali la ricavano dagli acidi grassi la cui via di
degradazione è rappresentata dalla -ossidazione, che consiste in un progressivo
accorciamento della catena carboniosa per distacco di due atomi di carbonio per
volta. Prima tappa della -ossidazione è l’attivazione dell’acido grasso con il CoA in
presenza di ATP e di Acil-CoA sintetasi: ne risulta un acil-CoA che, attraverso una
serie di reazioni, è trasformato in acil-CoA con due atomi di carbonio in meno. Il
distacco dell’acetil-CoA comporta la sintesi di 5 moli di ATP. L’acil-CoA che
residua subisce la stessa serie di reazioni e il processo continua finché l’intera catena
carboniosa dell’acido grasso è trasformata in acetil-CoA, che entra nel ciclo degli
acidi tricarbossilici per essere completamente ossidato ad anidride carbonica ed
acqua. Nel corso dell’ossidazione di ciascuna mole di acetil-CoA vengono
sintetizzate 12 moli di ATP. Poiché l’acil-CoA sintetasi, che comporta consumo di
ATP, interviene solo nella prima tappa della demolizione di ciascuna molecola di
acido grasso, la produzione di ATP, a parità di dispendio energetico, è maggiore
negli acidi grassi a lunga catena carboniosa che non in quelli a corta catena. Così la
produzione di ATP dal palmitato (16 atomi di carbonio) è la seguente:
Moli ATP
+ -
da 1 mole di palmitato a 8 moli di acetil-CoA 35 2
da 8 moli di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 96
Totale 131 2
Guadagno netto di ATP/mole di palmitato 129
g) aminoacidi: la degradazione degli aminoacidi ha luogo soprattutto a livello del
fegato e, in minor misura, nel rene mentre non si verifica nel tessuto muscolare.
95
La prima tappa della degradazione ossidativa degli aminoacidi è la rimozione del
gruppo amminico attraverso la deaminazione o la transaminazione. Nella
transaminazione il gruppo aminico è trasferito all’atomo di carbonio in posizione
di un chetoacido, di norma l’acido -chetoglutarico con il risultato della
produzione di un altro chetoacido e di glutammato. Le reazioni sono catalizzate da
aminotrasferasi o transaminasi. Il glutammato formato, come quello che proviene
dalla digestione degli alimenti o dal catabolismo delle proteine dei tessuti, può subire
la deaminazione ossidativa in presenza di glutammico deidrogenasi e mentre l’-
chetoglutarrato che si è formato trova impiego in altre transaminazioni, il coenzima
ridotto è riossidato attraverso la fosforilazione ossidativa. Vi sono D- e L-
aminoacido-ossidasi che sono flavoproteine e catalizzano la produzione di chetoacidi
ad ammoniaca, ma la loro importanza per il metabolismo degli animali è modesta.
Prodotto finale della degradazione degli aminoacidi è l’acetil-CoA, che viene poi
inserito nel ciclo degli acidi tricarbossilici per trarne energia; esso può essere
prodotto direttamente, come nel caso del triptofano e della leucina, o via piruvato
(alanina, glicina, serina, treonina e cisteina), oppure via aceto-acetil CoA
(fenilalanina, tirosina, leucina, lisina e triptofano). Altri aminoacidi sono degradati
attraverso vie più o meno complesse con produzione di -chetoglutarrato,
ossalacetato, fumarato e succinil-CoA che entrano nel ciclo degli acidi tricarbossilici
e producono acetil-CoA, via fosfoenolpiruvato.
Il catabolismo degli aminoacidi porta alla formazione di ammoniaca che è fortemente
tossica; una parte di questa trova impiego in reazioni di aminazione nella sintesi degli
aminoacidi. In questo caso, l’ammoniaca reagisce con l’a-chetoglutarrato per dare
glutammato, che viene usato per reazioni di sintesi. La reazione è l’opposto della
desaminazione ossidativa, ma il NADP+ prende qui il posto del NAD
+. La maggior
parte dell’ammoniaca è escreta per via renale, come urea nei mammiferi e come
acido urico negli uccelli.
L’ureogenesi avviene nel fegato e consta di due fasi che richiedono entrambe energia
sotto forma di ATP:
a) consiste nella formazione di carbamil-fosfato da anidride carbonica e ammoniaca,
in presenza di carbamil-fosfato sintetasi:
O O
Carbamil fosfato sintetasi || ||
CO2 + NH4+ + H2O NH2-C-O-P- O
2ATP 2ADP + 2Pi
|
O
Carbamil fosfato
b) il carbamil-fosfato reagisce con l’ornitina, dando via al ciclo di reazioni che
portano alla formazione di urea. Il secondo gruppo aminico occorrente per la sintesi
dell’urea è prelevato dall’aspartato e si ha la produzione di fumarato, che si inserisce
nel ciclo degli acidi tricarbossilici. Anche l’ammoniaca che viene assorbita
direttamente dal rumine subisce la stessa serie di reazioni; l’urea che ne deriva è
escreta per la maggior parte con le urine ma una certa quantità (in funzione
dell’apporto alimentare di azoto) viene riciclata, o attraverso la saliva o direttamente
attraverso la parete ruminale. La produzione di acido urico comporta la previa
incorporazione dell’ammoniaca nella glutamina per reazione con l’acido glutammico.
La glutamina è poi inserita in una serie di reazioni con il ribosio-5-fosfato, la glicina
e l’aspartato, che portano all’acido inosinico che contiene un nucleo purinico:
8ATP
2 glutamina + glicina + aspartato acido inosinico + fumarato
Con l’eliminazione del residuo di ribosio-5-fosfato, si forma ipoxantina che subisce
due ossidazioni, NAD+ dipendenti, per dare xantina ed infine acido urico.
L’eliminazione di due moli di ammoniaca comporta la perdita netta di 4 moli di
ATP; inoltre, vengono utilizzati 2 moli di glutammato, 1 mole di glicina, 1 mole di
aspartato e viene prodotta 1 mole di fumarato. Nel valutare il rendimento energetico
degli aminoacidi è necessario tenere conto dell’energia occorrente per la sintesi di
urea e di quella che si ottiene dall’ossidazione dello scheletro carbonioso
dell’aminoacido. Se si prende come esempio l’aspartato, occorre considerare che esso
è innanzi tutto convertito ad ossalacetato e glutammato, per reazione con l’-
chetoglutarato. L’ossalacetato è ossidato, via fosfoenolpiruvato, nel ciclo degli acidi
tricarbossilici. Il glutammato, per deaminazione, rigenera -chetoglutarato ed il suo
gruppo aminico è utilizzato per la sintesi dell’urea, cui partecipa la deaminazione di
una mole di aspartato, donde liberazione di una mole di fumarato, poi convertito a
malato, quindi a fosfoenolpiruvato ed infine completamente ossidato ad anidride
carbonica ed acqua nel ciclo degli acidi tricarbossilici:
Moli ATP
+ -
da 1 mole di aspartato a glutammato + ossalacetato 0 0
da 1 mole di ossalacetato a CO2 e H2O 16 1
da 1 mole di glutamato ad a-chetoglutarato 3 0
da 1 mole di ammoniaca+1 mole di aspartato ad urea e fumarato 0 4
da 1 mole di fumarato a CO2 e H20 19 1
Totale 38 6
Guadagno netto di ATP da 2 moli di aspartato 32
Bisogna considerare che il costo energetico medio per la produzione di una mole di
ATP è di 85,2 KJ, e l’energia ottenuta per ogni P speso è di 52 KJ.
Rendimento energetico di alcuni principi nutritivi
Principio
Nutritivo
Mole di ATP/mole
di principi attivi
Mole di ATP/100
g di principi attivi
Calore di
combustione per
mole di ATP (KJ)
Glucosio 38 21,2 ( 4) 73,8 ( 1)
Acido propionico 17 22,9 ( 3) 89,8 ( 5)
Acido acetico 10 16,7 ( 5) 87,5 ( 3)
Acido butirrico 26 38,5 ( 2) 84,0 ( 4)
Acido aspartico 16 12,2 ( 6) 98,0 ( 6)
Tripalmitina 409 50,7 ( 1) 78,3 ( 2)
( ) i numeri in parentesi indicano l’ordine di rendimento
97
3.3. Sintesi proteica
Le proteine vengono sintetizzate a partire dagli aminoacidi: quelli che si
formano fra i prodotti finali della digestione e quelli sintetizzati per sintesi
intraorganica. L’aminazione può avvenire in via diretta, come nella conversione
dell’-chetoglutarato a glutammato il quale può subire una ulteriore aminazione e
dare glutamina, ma di maggior rilievo sono le reazioni di transaminazione con vari
chetoacidi per dare aminoacidi. Anche altri aminoacidi, quali l’alanina e la glicina
possono subire la transaminazione i quali reagendo con il fosfoidrossipiruvato danno
serina. Il glutammato è anche fonte di prolina. Gli aminoacidi possono anche
formarsi per reazione fra chetoacidi e sali di ammonio od urea, come avviene per
l’arginina che viene sintetizzata nel ciclo dell’urea.
Il raggiungimento delle cellule da parte degli aminoacidi attraverso il sangue richiede
il dispendio di energia in quanto la concentrazione di aminoacidi nella cellula può
essere fino a cento volte superiore a quella del sangue e, quindi, il trasferimento nella
cellula avviene contro un gradiente di concentrazione. Un continuo scambio avviene
tra aminoacidi del sangue e delle cellule, ma non fra aminoacidi liberi e quelli
presenti nelle proteine tissutali. Queste proteine vengono demolite e sintetizzate e il
tempo occorrente per il loro rinnovo varia nei diversi tessuti; così le proteine del
fegato hanno una semi-vita di 7 giorni mentre il collagene è così stabile da essere
considerato quasi completamente inerte.
La sintesi proteica può essere divisa in quattro tappe:
a) attivazione dei singoli aminoacidi: la prima tappa è enzimatica e richiede la
presenza di ATP per la formazione di un complesso:
aminoacido + ATP + enzima > enzima amino-acil AMP + pirofosfato
il gruppo amino-acilico viene poi trasferito su una molecola di RNA transfer (tRNA):
enzima amino-acil AMP + tRNA > amino-acil tRNA + AMP + enzima. Entrambe le
reazioni sono catalizzate da una singola aminoacil-sintetasi MG2+
-dipendente e
specifica per l’aminoacido e per il tRNA. Queste sintetasi sanno discriminare fra i 20
aminoacidi naturali, ma la loro specificità non è assoluta. La molecola del tRNA è
composta da una catena di nucleotidi i cui ripiegamenti sono stabilizzati da legami di
idrogeno. Ad una estremità della catena vi è una sequenza terminale di basi, ad
esempio: _C
_C
_A
_OH (citidina-citidina-adenosina). L’aminoacido è legato al ribosio
del resto adenosinico terminale. Frequentemente, l’altra estremità della catena
termina con un nucleotide contenente guanina. Esiste almeno un tRNA per ciascun
aminoacido ma un solo aminoacido per un determinato tRNA. L’aminoacido legato
al tRNA viene trasportato sui ribosomi dove avviene la sintesi proteica. Questi
formano degli aggregati noti come polisomi, legati ad una molecola di RNA
messaggero (mRNA) che, fissandosi sui ribosomi, funge da matrice nella sintesi delle
proteine. È la sequenza delle basi dell’mRNA che determina la sequenza degli
aminoacidi nella struttura primaria della proteina che viene sintetizzata. I singoli
aminoacidi sono legati selettivamente sulla superficie del mRNA messaggero, in
corrispondenza di ogni determinato gruppo di tre basi, triplette di basi che
costituiscono le parole del codice, note come codon, e che sono specifiche per ogni
aminoacido. Il tRNA che porta un determinato aminoacido corrispondente al suo
specifico codon si fissa su l’RNA messaggero, in corrispondenza di una tripletta di
basi complementari, nota come anti-codon. Negli organismi superiori, i ribosomi
consistono di una subunità piccola (40 S; S = unità Svedberg, in funzione della
sedimentazione nell’ultra-centrifuga) e di una subunità grande (60 S). Durante la
sintesi proteica, la catena del peptide che si allunga è attaccata al componente più
grande.
b) inizio della formazione della catena peptidica: questo processo esige la
formazione di un complesso fra la subunità più piccola del ribosoma componente del
RNA messaggero e un tRNA che lega formil-metionina o metionina (AA1). Il
componente ribosomale più grande viene attaccato a questo complesso.
L’inserimento del residuo aminoacido comporta un dispendio energetico
corrispondente all’idrolisi di un legame fosforico altamente energetico del GPT.
c) allungamento della catena peptidica: l’aminoacido richiesto, AA2, viene
sistemato al codon n+1 tramite il suo specifico tRNA; l’energia occorrente è fornita
da un legame altamente energetico del GPT. Si forma così un legame peptidico fra
AA1 e AA2 ed il tRNA per la formil-metionina viene espulso. L’RNA messaggero si
sposta poi sul ribosoma ed il codon n+2 va ad occuppare quella precedentemente
occupata da n+1. Questo spostamento richiede dispendio di un altro legame
altamente energetico del GPT.
d) termine della sintesi: quando viene raggiunto un codon che non codifica alcun
aminoacido termina l’allungamento della catena (es.: UAA, UAG, UGA) e quando la
catena è completa si stacca dal ribosoma ed il residuo di formil-metionina rimosso
per via enzimatica, in quanto non fa parte della struttura proteica. La catena
polipeptidica rappresenta la struttura primaria della proteina; essa poi assume la
struttura secondaria a spirale, stabilizzata da legami di idrogeno; infine, le catene
peptidiche si avvolgono e si ripiegano assumendo nello spazio la disposizione che
caratterizza la loro struttura terziaria stabilizzata da legami di idrogeno, legami salini
e ponti disolfurici. Le strutture terziarie polimerizzandosi danno luogo alla struttura
quaternaria. La protidosintesi non prevede l’aggiunta di aminoacidi a peptidi
preformati ma ha inizio con un aminoacido e la catena polipeptidica è realizzata per
successive aggiunte di singoli aminoacidi. La sintesi non ha luogo se tutti gli
aminoacidi necessari non sono disponibili al momento giusto e in tal caso gli
aminoacidi disponibili sono rimossi e possono essere catabolizzati. L’energia
necessaria per la protidogenesi è fornita dall’idrolisi dell’ATP e del GPT e la
produzione di ogni mole di questi fosfageni richiede all’animale un dispendio di 85,2
KJ. Supponendo che il peso molecolare medio degli aminoacidi occorrenti per una
data proteina, espresso in grammi, sia 100 e che nella stessa proteina il numero degli
aminoacidi necessario per costituirla si n, il numero dei legami peptidici sarà n-1 (ma
per un esempio pratico si può calcolare che ciascun aminoacido richieda la
formazione di un legame peptidico), si può stabilire il bilancio energetico:
Energia ((KJ)
Spesa | Accumulata
100 g di aminoacido 2437
2 moli di ATP (attivazione) 170,4
1 mole di GPT (inizio) 85,2
1 mole di GPT (allungamento) 85,2
100 g di proteine 2437
2777,8 2437
Rendimento energetico = 2437/2777,8 = 0,88
99
3.4. Sintesi dei grassi.
I trigliceridi presenti nei grassi di deposito possono derivare dai gliceridi del
sangue o possono essere sintetizzati a partire da acil-CoAs e L-glicerol-3-fosfato.
L’acetil-CoA è prodotto nei mitocondri per decarbossilazione ossidativa del piruvato,
per degradazione ossidativa di certi aminoacidi o per -ossidazione di acidi grassi a
lunga catena. L’acetil-CoA, per reazione con l’ossalacetato, è trasformato in citrato e
questo diffonde nel citoplasma dove rigenera acetil-CoA.
ATP-citrato liasi
Citrato + CoA Acetil-CoA + ossalacetato
ATP ADP
L’acetil-CoA può anche passare nel sangue legato alla carnitina. Nei ruminanti,
l’acetato viene assorbito direttamente dall’intestino e forma acetil-CoA in presenza di
acetil-CoA sintetasi; l’energia occorrente è fornita dall’idrolisi dell’ATP e AMP.
Questa è la maggiore fonte di acetil-CoA per le specie ruminanti, nelle quali l’attività
dell’ATP-citrato liasi è estremamente ridotta
Per la sintesi degli acidi grassi esistono due sistemi:
a) sistema citoplasmatico molto attivo che porta alla produzione di acido palmitico a
partire da acetil-CoA; è un sistema attivo al livello del fegato, reni cervello, polmoni,
ghiandola mammaria e tessuto adiposo. Esso richiede NADP+ ridotto, ATP, anidride
carbonica e ioni manganese (Mn2+
). In un primo momento si ha la trasformazione
dell’acetil-CoA in malonil-CoA:
COOH
Acetil-CoA carbossilasi |
CH3 + ATP + H2O + CO2 CH3 + ADP + Pi
Mn2+
|
COS.CoA COS.CoA
Il malonil-CoA reagisce poi con la proteina acil-trasportatrice (ACP), in presenza di
malonil transferasi per dare il complesso malonil-ACP. L’acetil-CoA si unisce con
l’ACP in presenza di acetil transferasi e reagisce con il malonil-ACP allungando la
catena di due atomi di carbonio con formazione del complesso butirril-ACP il quale
può successivamente reagire con il complesso malonil-ACP determinando un
ulteriore allungamento della catena di due atomi di carbonio e dando, quindi, caproil-
ACP. Successive reazioni con malonil CoA determinano un ulteriore allungamento
della catena, fino al complesso palmitil ACP. A questo punto il processo di sintesi si
arresta; l’acido palmitico viene liberato per azione di una deacilasi. Quindi la
reazione può essere così schematizzata:
CH3.COS.CoA + 7COOH.(CH2)COS.CoA + 14 NADPH (+ H+)
Acetil CoA Malonil CoA
CH3.(CH2)14.COO- + 7CO2 + 14 NADP
+ + 6H2O + 8 HS.CoA
Palmitato CoA
b) sistema mitocondriale che provvede all’allungamento della catena degli acidi
grassi preformati, mediante aggiunta di due atomi di carbonio, tramite l’acetil-CoA.
Il processo richiede ATP, NAD+ ridotto e NADP
+ ridotto e comporta
l’incorporazione di acetil-CoA nella molecola di acidi grassi a media e lunga catena
carboniosa. Non si sa con precisione se la sintesi di acetil-CoA abbia luogo in situ.
I prodotti che si ottengono sono acidi grassi saturi a 18, 20, 22 e 24 atomi di
carbonio, generalmente ottenuti a partire dall’acido palmitico sintetizzato a livello
citoplasmatico. L’allungamento degli acidi grassi a lunga catena, sia saturi che
insaturi, può anche aver luogo nel reticolo citoplasmatico con impiego di malonil
CoA quale fonte del frammento bicarbonioso. Gli acidi grassi insaturi con un solo
doppio legame possono essere sintetizzati dall’organismo a partire da acidi saturi con
catena carboniosa della stessa lunghezza. Così, l’acido palmitoleico e l’oleico sono
formati, rispettivamente, dall’acido palmitico e da quello stearico. Nei mammiferi gli
acidi poliinsaturi sono derivati dal palmitoleico e dall’oleico e se i doppi legami si
trovano fra il gruppo metilico terminale ed il settimo atomo di carbonio, dal linoleico
e dal linolenico. Questi due acidi non vengono sintetizzati dall’organismo dei
mammiferi e, quindi, si devono somministrare con la dieta. Le reazioni di
desaturazione che si verificano nella produzione degli acidi grassi polinsaturi sono
NADP+ dipendenti e si verificano soprattutto nel fegato.
Sintesi del L-glicerol-3-fosfato: il suo precursore è il fosfobiossiacetone prodotto
dalla reazione aldolasica nel corso della glicolisi. Il biossiaceton-fosfato è ridotto
dalla glicerol-3-fosfato deidrogenasi che è NADP+ dipendente. Può essere prodotto
anche dal glicerolo che si forma per scissione dei trigliceridi, in una reazione che
richiede ATP.
Sintesi dei trigliceridi: la prima tappa è l’acilazione, in presenza di glicerolfosfato
acil transferasi, dei gruppi alcolici liberi del glicerol-3-fosfato mediante due molecole
di acetil-CoA, con produzione di acido fosfatidico. La reazione decorre
preferibilmente con acidi grassi a 16 e 18 atomi di carbonio. L’acido fosfatidico è poi
defosforilato a digliceride che reagisce con una terza molecola di acetil-CoA per dare
il trigliceride. Una sintesi diretta di trigliceridi, a partire da monogliceridi, ha luogo
nella mucosa intestinale di animali superiori. Il rendimento della sintesi lipidica può
essere calcolato tenendo presenti le vie descritte. Il calcolo per la tripalmitina a
livello citoplasmatico potrebbe così essere riassunto:
Energia (KJ)
spesa trattenuta
8 moli di acetato 6996,0
8 moli acetato ad acetil-CoA 1363,2
7 moli acetil-CoA a malonil-CoA 596,4
7 aggiunte di malonil-CoA 3578,4
Energia per 1 mole di palmitato 12354,0
Energia per 3 moli di palmitato 37602,0
½ mole di glucosio 1401,5
½ mole di glucosio a diidrossiacetonfosfato 85,2
1 mole di idrossiacetonfosfato a
1 mole di L-glicerol-3-fosfato 255,6
Energia per mole di L-glicerol-3-fosfato 1742,3
Energia totale per 1 mole di tripalmitina 39344,3
Energia accumulata per 1 mole di tripalmitina 32037,0
Rendimento della sintesi = 32037,0 / 39344,3 = 0,81
La formazione di glucosio a partire da molecole più semplici, come l’acido
propionico ed i chetoacidi è stata già descritta prima. Va aggiunto che il glucosio è
101
utilizzato per la sintesi di altri due importanti carboidrati: il glicogeno che è il più
importante glucide di riserva ed il lattosio la cui sintesi è specifica della ghiandola
mammaria.
La fonte immediata per la sintesi del glicogeno è rappresentata dalla uridin-fosfo-
glucosio (UDPG), che può derivare da diversi zuccheri. Il glicogeno è prodotto per
reazione dell’uridindifosfoglucosio con molecole primer, la più attiva delle quali è
proprio il glicogeno. Anche composti che hanno un minimo di 4 residui di glucosio
possono servire da primer, ma in questo caso la reazione è lenta, in quanto la sua
velocità è correlata alla complessità della molecola primer. La sintesi implica una
reazione fra l’uridinfosfoglucosio ed il quarto gruppo idrossilico dell’estremità non
riducente della catena primer, ed è catalizzata dalla glicogeno sintetasi. I legami 1,6
che caratterizzano le numerose ramificazioni della molecola del glicogeno sono
formati da frammenti oligosaccaridici terminali, composti di sei o sette residui di
glucosio, che vengono staccati dall’estremità del glicogeno e trasferiti sull’idrossile
in posizione 6 di un residuo di glucosio all’interno della catena. La reazione è
catalizzata dalla glicogenosintetasi (1,4-1,6 transglicosilasi).
Il lattosio si forma dalla condensazione di una molecola di glucosio e una di
galattosio. Il glucosio è facilmente disponibile, ma il galattosio deve essere
sintetizzato a partire dal glucosio, il che implica una inversione sterica dell’atomo di
carbonio 4. Il glucosio è prima trasformato in glucosio-1-fosfato, poi in
uridindifosfoglucosio e in uridindifosfogalattosio per azione della UDO galattosio-4-
epimerasi, chiamata anche galatto-waldenasi. Il galattosio si forma per reazione
dell’UDP-D-galattosio con D-glucosio in presenza di un sistema enzimatico, la
lattosio sintetasi. Il sistema enzimatico in gioco è un complesso dell’enzima
galattosil-transferasi con -lattoalbumina. L’enzima è presente anche nella
mammella non in lattazione, ma è debolmente attivo; con l’inizio della lattazione, la
ghiandola mammaria produce -lattoalbumina ed è in sua presenza che la galattosil-
transferasi diventa molto attiva. Il rendimento energetico della sintesi del lattosio può
essere così calcolato:
KJ
2 moli di glucosio
da 2 moli di glucosio a 2 moli di glucosio-1-fosfato
da 1 mole di glucosio-1-fosfato a galattosio-1-fosfato
Energia occorrente per 1 mole di lattosio
Energia contenuta in 1 mole di lattosio
5606,0
170,4
85,2
5861,6
5648,4
Rendimento energetico = 5648,4 / 5861,6 = 0,96
CAP. IV. VALUTAZIONE CHIMICO FISIOLOGICA DEGLI ALIMENTI
La prima condizione per poter alimentare razionalmente gli animali è quella
di conoscere e saper valutare gli alimenti loro destinati, in modo da poterli scegliere a
seconda della specie, dell’età e della produzione, realizzando il massimo utile
economico dalla trasformazione dei foraggi e dei mangimi in carne, latte, uova, lana,
lavoro ed altre produzioni o prestazioni.
Gli alimenti devono essere sottoposti a due tipi di valutazione: chimica e fisiologica.
4.1. Valutazione chimica
Per la legge italiana (n. 281 del 15 febbraio 1963 e seguenti) nei mangimi bisogna
indicare:
- umidità e per riflesso la sostanza secca
- protidi grezzi
- lipidi grezzi
- fibra grezza
- estrattivi inazotati
- ceneri
La valutazione chimico-funzionale di un alimento viene fatta su piccole quantità
(campione) prelevate dalla partita, dal silo, dal campo che si vogliono esaminare.
Per effettuare un buon campionamento esistono varie metodiche: metodo ISO,
metodo NGD, metodo CEE, metodo ufficiale G.U. n. 165 del 15/6/1978 e altri. Tutti
i metodi tengono conto della consistenza della partita, del tipo di prodotto da
analizzare, del tipo di confezione e del tipo di controllo da eseguire.
Nel prelievo dei campioni bisogna fare in modo che essi siano rappresentativi della
massa che si vuole analizzare e, nello stesso tempo, si deve evitare che si verifichino
alterazioni o contaminazioni del prodotto. I recipienti usati devono essere puliti e
sterili, asciutti e sigillabili e il trasporto al laboratorio deve avvenire nei tempi o con
le procedure eventualmente necessarie per la conservazione (refrigerazione,
congelamento, ecc.). Il numero e le dimensioni dei campioni da raccogliere saranno
tanto più grandi quanto maggiore ed eterogenea è la massa di alimento da valutare.
Per partite di alimenti alla rinfusa si suggeriscono 7 o più campioni, se il peso della
massa è inferiore a 2,5 tonnellate, mentre per pesi superiori il numero dei campioni
sarà uguale o maggiore di √20 n , dove n è il numero di tonnellate della partita, fino
ad un massimo di 40. Per assicurare la rappresentatività, i campioni devono essere
prelevati a caso e a vari livelli della massa o, in alternativa, suddividendola
idealmente in più parti approssimativamente uguali e prelevando un campione per
ciascuna parte. Le eventuali parti visibilmente danneggiate o alterate, vanno
allontanate oppure separate e campionate a parte. I singoli campioni si riuniscono in
campioni finali in congruo numero (es.: 1-2 fino a 10 tonnellate e 3-4 oltre 10
tonnellate della massa da valutare). Ciascun campione finale, adeguatamente
mescolato, fornirà poi uno o più sub-campioni (almeno 500 g) per le analisi di
laboratorio. Inoltre, è necessario registrare tutti i dati inerenti i particolari della partita
o dell’ambiente e quelli necessari all’identificazione dell’alimento (luogo, data, tipo
di alimento, provenienza, ecc.).
Il campionamento varia in funzione dell’alimento da analizzare:
a) Foraggi freschi o miscele unifeed: il campione si preleva al momento della
somministrazione; si prelevano numerosi campioni (20-30) di circa mezzo Kg
103
ciascuno, in diversi punti della massa e si pongono in un unico recipiente, dopo averli
mescolati accuratamente si prelevano 2 Kg dei quali 0,5 Kg vengono utilizzati subito
per determinare la S.S. e 1,5 Kg vengono inviati al laboratorio di analisi. Per la
determinazione della S.S. il campione si pone in un contenitore di peso noto (tara),
quale può essere un bustone di carta; la busta una volta riempita viene forata per far
uscire l’umidità una volta che verrà posta in stufa; terminata l’operazione, la busta
con il campione di foraggio o di unifeed viene pesata con una bilancia abbastanza
precisa (± 1 g) e si registra il peso lordo e quello netto, quindi, il campione si pone in
stufa a 65 °C finché non raggiunge un peso costante tra le ultime due pesate (sono
necessari circa 3 giorni).
Esempio di calcolo della S.S. di un alimento
Prima dell’essiccazione
Dopo l’essiccazione
Peso lordo (tara + alimento 530 g - 130 g -
Tara 30 g = 30 g =
Peso alimento 500 g 100 g
% S.S. alimento: (100 : 500) x 100 = 20%
g S.S./Kg alimento = 20 : 100 = x : 1000;
x = 20 x 1000 / 100 = 200 g
b) Insilati: la tecnica di prelevamento dei campioni è uguale a quella dei foraggi
freschi. E’ molto importante la rapidità nel prelievo del campione, particolarmente
per quanto riguarda la costipazione e la compressione del foraggio nel doppio
sacchetto di plastica o in un contenitore a chiusura ermetica. Nel caso in cui le analisi
non possono essere effettuate subito il campione va conservato a 0 °C per
determinare la S.S. al massimo entro 4 giorni mentre per le altre determinazioni da
eseguire sul fresco (pH, acidi organici, azoto ammoniacale) il campione va
conservato in freezer.
c) Foraggi secchi: trattandosi di materiale poco soggetto a variazioni biochimiche,
il prelievo dei campioni si può fare anche nel luogo di conservazione. Di tutta la
massa bisogna prendere diversi campioni di circa 200 g ciascuno per un totale di 5-10
Kg. Dopo una eventuale trinciatura e un accurato mescolamento verrà estratto il
campione finale di circa un Kg che verrà inviato al laboratorio di analisi. Se le analisi
non possono essere fate subito, conviene determinare la sostanza secca direttamente
in azienda.
d) Mangimi concentrati: il prelevamento dovrà essere effettuato in più punti della
partita al fine di ottenere, mescolando le singole porzioni, un campione
rappresentativo della massa di circa 1,5 – 2 Kg.
Lo schema di analisi dei costituenti chimici adottato in molti paesi, compresa l’Italia,
è quello definito “analisi tipo”, che segue lo schema Wende.
Il contenuto di umidità di un alimento si determina per differenza di peso, su
un campione del peso di 4-5 grammi, posto in stufa a 103 °C per 4 ore. In queste
condizioni, l’acqua evapora e rimane la sostanza secca. Per gli alimenti ricchi di
acqua quali i foraggi verdi è necessaria una preessiccazione, che viene condotta a 65
°C fino al raggiungimento di un peso costante (generalmente due giorni) al fine di
consentirne la conservazione.
Anche a questa temperatura, alcune sostanze possono evaporare o alterarsi
(vitamine, enzimi, acidi grassi volatili) e, quindi, per esse è necessario utilizzare
campioni freschi. Quando le quantità di sostanze volatili sono tali da provocare una
elevata sovrastima dell’umidità, come nel caso degli insilati, è necessario operare una
aggiustamento del reale tenore di sostanza secca mediante opportune correzioni, che
tengono conto del tenore di AGV, NH3 e etanolo, determinati sul tal quale:
perdite di volatilizzazione (g/kg) =
etanolo + N-NH3 + AGV x 0,85 + acido lattico x 0,14
La determinazione dei protidi grezzi è fatta convenzionalmente rilevando
l’azoto totale (metodo Kjeldahl) presente nel campione e moltiplicando per il
coefficiente 6,25 in quanto il contenuto medio in azoto delle diverse proteine è del
16% (6,25 = 100 : 16).
Con il metodo Kjeldahl, attraverso il trattamento con acido solforico
concentrato, l’azoto presente, ad eccezione di quello che eventualmente si trova sotto
forma di nitriti o nitrati, viene trasformato in solfato di ammonio - (NH4)2SO4 – il
quale viene trattato con idrossido di sodio (NaOH) e quindi si libera ammoniaca che
viene dosata e titolata, generalmente, per via colorimetrica.
I lipidi grezzi si determinano attraverso l’estratto etereo ricavato con l’apparecchio
Soxlet con etere etilico anidro. Nel solvente, però, non si disciolgono solo i lipidi ma
anche tutta una serie di composti che hanno come unica caratteristica comune, la
liposolubilità quali: pigmenti presenti nei foraggi, cere, resine, acidi organici (acetico,
propionico, butirrico, lattico, ecc.), alcoli, steroli, vitamine liposolubili (A, D, E, K).
Invece, alcuni lipidi non vengono estratti e l’etere estrae male i saponi: la loro
presenza necessita una prima estrazione dei lipidi seguita da una idrolisi acida prima
di eseguire l’estrazione vera e propria; lo stesso procedimento conviene applicarlo
per le farine proteiche di origine animale (carne, pesce, sangue), trebbie di birra
essiccate, lieviti disidratati, sottoprodotti lattiero-caseari e ai prodotti contenenti
lipidi protetti contro la degradazione ruminale.
Per lipidi grezzi si intendono, quindi, tutte le sostanze liposolubili presenti nel
campione analizzato: LG = lipidi digeribili + altre sostanze liposolubili.
La fibra grezza è costituita per il 50 - 80% da cellulosa, per il 10-15% da lignina e
per il 20% da emicellulosa. Si determina convenzionalmente con il metodo Wende
attraverso trattamenti successivi del campione con una soluzione bollente di acido
solforico (0,26 N), quindi, con una soluzione di idrossido di potassio di determinata
concentrazione (0,23 N). Se gli alimenti hanno un contenuto lipidico superiore
all’8% della S.S. le idrolisi vanno precedute da una estrazione delle sostanze
lipidiche con etere.
L’esigenza di distinguere meglio tra i carboidrati più prontamente e totalmente
utilizzabili da quelli utilizzabili più lentamente e in minor misura o addirittura non
utilizzabili dai ruminanti ha portato al sistema d’analisi (van Soest) al detergente e
delle frazioni fibrose (NDF, ADF, ADL) in cui la frazione fibrosa della parete
cellulare vegetale può essere scomposta. In sintesi, van Soest distingue tre livelli di
disponibilità per, il ruminante, dei componenti della cellula vegetale:
a) disponibilità totale: dove il livello effettivo della digestione è determinato dalla
competizione tra i livelli di digeribilità e di flusso degli alimenti attraverso il
105
digerente. Appartengono a questa classe tutte le sostanze contenute nel citoplasma
(zuccheri, amido, lipidi, proteine e aminoacidi, acidi organici, minerali, vitamine);
b) disponibilità parziale: oltre alla limitazione prima detta vi è quella dovuta a
legami con la porzione disponibile, enzimaticamente non idrolizzabili. Vi
appartengono i carboidrati strutturali quali la cellulosa e le emicellulose, la cui
disponibilità varia notevolmente con il tipo botanico e con il suo stadio di
maturazione;
c) disponibilità nulla: sono comprese la lignina, la cutina, i prodotti originatisi con
la reazione di Maillard e altre sostanze indigeribili.
Il principio su cui si basano i metodi di analisi al detergente si basa sulla
diversa solubilità dei carboidrati strutturali e dei costituenti del contenuto cellulare in
ambiente acido, neutro e alcalino. Infatti, mentre le emicellulose sono solubili sia in
ambiente acido che alcalino ma non in quello neutro, la cellulosa è solubile solo in
ambiente molto acido e la lignina in ambiente alcalino
Frazionamento dei carboidrati parietali secondo il metodo van SOST
Alimento Pectine, emicellulose, cellulosa, lignina
Attacco con detergente neutro
Fibra neutro detersa
(NDF = parete cellulare)
Emicellulose, cellulosa, lignina
Attacco con un detergente acido
(distruzione delle emicellulose)
Fibra acido detersa
(ADF)
Cellulosa,
Lignina
Contenuto cellulare e
pectine
Attacco con acido solforico al 72%
(distruzione della cellulosa)
Lignina acido detersa (ADL)
Lignina
La caratterizzazione del contenuto in carboidrati strutturali secondo l’analisi “Van
Soest” prevede il trattamento del campione con una soluzione a pH neutro (soluzione
neutro-detergente) che solubilizza il contenuto cellulare mentre lascia nel residuo le
pareti cellulari (normalmente dette NDF che deriva da Neutral detergent fibre) che
sono costituite da emicellulose, cellulosa, lignina e ceneri insolubili in ambiente
acido (silice).
Successivamente, si impiega una soluzione acida per solubilizzare le emicellulose; il
residuo così ottenuto, fibra acido detergente o ADF viene trattato con una soluzione
fortemente acida (H2SO4, 72%) per solubilizzare la cellulosa, lasciando nel residuo
lignina e ceneri acido solubili, che vengono separate per incenerimento in muffola.
Più dettagliatamente si ha:
a) Fibra neutro detersa (NDF) – Il campione viene bollito per un’ora in una
soluzione neutra (pH di circa 7) di sodio lauril solfato e di acido
etilendiaminotetracetico (EDTA). Quasi tutte le sostanze contenute nel succo
cellulare (minerali, vitamine, proteine e aminoacidi, acidi organici, lipidi e pigmenti,
vitamine, ecc.) e le pectine vanno in soluzione e vengono quindi rimosse dal
campione. L’amido non si idrolizza a pH 7 e quindi prima dell’analisi al detergente
neutro va sottoposto all’attacco enzimatico (amilasi). Dopo il lavaggio con il
detergente neutro il residuo è costituito da fibra resistente al detergente neutro o fibra
neutro detersa o NDF nella quale sono incluse: emicellulose, cellulosa, lignina e
cutina, cioè quell’insieme di sostanze nutritive non rapidamente né totalmente
disponibili per l’animale. Peraltro, l’NDF essendo costituita soprattutto dalle frazioni
strutturate dei carboidrati, esprime bene l’ingombro dell’alimento a livello ruminale
e, quindi, un elevato contenuto in NDF equivale a un grande ingombro mentre un
basso contenuto corrisponde a un piccolo ingombro. I vantaggi derivanti dalla
determinazione dell’NDF rispetto alla FG possono essere evidenziati se
consideriamo, ad esempio, un fieno di medica e uno di festuca i quali hanno entrambi
un contenuto in fibra grezza del 33% circa rispetto alla S.S. ma quello di festuca ha
un maggiore contenuto di NDF: utilizzando questi due foraggi come base foraggera
della razione, a parità di minerali e proteine, l’ingestione alimentare e la produzione
di latte sono più elevate negli animali che ingeriscono fieno di medica rispetto a
quelli alimentati con la festuca.
b) Fibra acido detersa (ADF) – Il residuo NDF viene bollito per un’ora con acido
solforico 0,5 M associato a bromuro di acetiltrimetilammonio e con ciò si ha la
solubilizzazione delle proteine e delle emicellulose della parete cellulare. Rimangono
ora la cellulosa e la lignina e tale residuo va sotto il nome di “fibra resistente al
detergente acido” o “fibra acido detersa” o ADF. Tale analisi può essere fatta
direttamente sul campione di partenza ma in questo caso l’ADF contiene anche una
certa quantità di pectine e quindi i valori sono sempre superiori rispetto a quelli della
determinazione dell’ADF dall’NDF (in genere di + 1,4 punti percentuali sulla S.S.
per i concentrati). Il residuo ADF non contiene residui di amido ma può contenere
sostanze azotate (specie quelle danneggiate dal calore) e tannini. I tenori in ADF
degli alimenti sono sempre più elevati di quelli in fibra grezza: 3-4% in più per i
foraggi, 20% in più per gli altri alimenti. In Irlanda, la determinazione analitica
dell’ADF è stata modificata (MADF) per meglio correlare l’ADF alla digeribilità dei
foraggi: essi vengono essiccati a 95 °C, bolliti per più tempo e ad un pH più basso.
Comunque, l’elevata temperatura usata per l’essiccamento impedisce di utilizzare
l’ADF quale rivelatore di eventuali danni da calore alle proteine.
c) Lignina acido detersa – Il trattamento dell’ADF con acido solforico al 72%
consente la solubilizzazione della cellulosa e, quindi, il residuo “lignina acido
detersa” o ADL comprende la parte non digeribile della cellula vegetale e cioè la
lignina ed eventualmente cutina e silice.
Per scomporre l’ADF in cellulosa, lignina e ceneri acido insolubili essa può anche
essere trattata con un solvente a base di permanganato di potassio mediante il quale si
solubilizza la lignina che viene calcolata per differenza e definita lignina
permanganato. Il residuo che resiste all'azione del permanganato è costituito da
ceneri acido insolubili (determinate per incenerimento in muffola) e dalla cellulosa,
calcolata per differenza, che include la cutina. La lignina non è un vero carboidrato
107
ma viene inclusa fra questi in quanto la sua struttura a ragnatela è intimamente
connessa con quella delle emicellulose e della cellulosa delle quali limita fortemente
la digeribilità e quindi la disponibilità per l’animale. In media, ogni punto
percentuale in più di lignina in rapporto alla S.S. aumenta di 3,8% la quantità di
parete (NDF) non digeribile. Nel caso in cui l’ADF è determinato sull’ADF calcolato
sul residuo NDF anziché direttamente sul campione esso risulterà leggermente
inferiore (0,14% sulla S.S., nei concentrati). Tra gli alimenti concentrati, per uno
stesso tenore in fibra grezza il tenore in ADL è estremamente variabile. La
determinazione dell’ADL benché di notevole interesse teorico, ha avuto poca
diffusione sia perché si tratta di un’analisi poco piacevole, con un reagente pericoloso
da manipolare in un’analisi che sporca molto sia perché i valori di ADL sono sempre
piuttosto bassi (1-14% della S.S.) e, quindi, le possibilità di errore sono elevate. La
determinazione della lignina può essere effettuata anche mediante il metodo
Christian, che prevede due attacchi sequenziali con acido solforico concentrato (72%
in peso) e con soluzione detergente acida (etiltrimetilammoniobromuro) direttamente
sul campione. In questo modo si ha l’idrolisi della cellulosa, emicellulose, estrattivi
inazotati, proteine e grassi. Con questo metodo, i passaggi analitici per la
determinazione dell’ADL sono ridotti e, quindi, si riduce l’errore analitico e aumenta
la riproducibilità dei risultati. Con il metodo Christian, il contenuto in lignina risulta
più elevato rispetto a quello determinato con il sistema van Soest e ciò avviene,
soprattutto, per gli alimenti lignificati come le paglie (3-5% in più sulla S.S.) per i
quali il metodo Christian sembra preferibile.
Per ceneri si intende quella frazione dell’alimento ottenuta
dall’incenerimento a 500-550 °C in muffola per 3 ore e, comunque, fino a quando
tutto il carbonio è stato rimosso e rimane solo il contenuto inorganico. Va
considerato che le ceneri contengono anche materiale di origine organica come zolfo
e fosforo, contenuti nelle proteine mentre, non contengono sostanze inorganiche
quali quelle a base di cloro, sodio, potassio, fosforo e zolfo che si volatilizzano
durante la combustione, così come elementi quali lo iodio e il selenio.
Il termine sostanze minerali, con cui questa frazione è anche indicata non significa
che i vari elementi siano tutti contenuti nel campione già allo stato inorganico. La
percentuale in ceneri dei prodotti di origine animale fornisce una indicazione del loro
contenuto in calcio e fosforo, perché il rapporto fra le ceneri totali e questi due
elementi è piuttosto costante. Nel caso, invece, degli alimenti vegetali le sostanze
minerali sono estremamente variabili, non solo per quantità, ma anche per
composizione per cui il dato globale delle ceneri non consente illazioni sul
significato nutritivo di questa frazione. La determinazione del contenuto in ceneri se
non approfondita serve semplicemente come elemento di calcolo per risalire agli
estrattivi inazotati o, per differenza alla sostanza secca, alla sostanza organica. Un
rilievo importante fra le altre sostanze minerali può acquisire la silice per i mangimi
composti contenenti sottoprodotti della lavorazione del riso. Le ceneri non
contengono energia e, quindi, il loro contenuto negli alimenti, a parità di altre
condizioni, è inversamente proporzionale al valore energetico dell’alimento. Valori
molto elevati, rispetto a quelli mediamente riportati nelle tabelle, del contenuto in
ceneri di un alimento stanno a significare che l’alimento è contaminato di terra
oppure ad esso è stata aggiunta della sabbia, silice, sale o carbonato di calcio.
Gli estrattivi inazotati sono un gruppo di sostanze non classificate con i metodi
precedenti analitici tra le quali i carboidrati solubili (amido, disaccaridi,
monosaccaridi) detti estrattivi inazotati digeribili. La determinazione degli estrattivi
inazotati grezzi non proviene dall’analisi chimica dal momento che viene ottenuta
con la seguente formula:
E.I.G. = S.S. - (P.G. + L.G. + F.G. + ceneri)
Sul risultato si riversa, quindi, la somma algebrica degli eventuali errori commessi
nelle varie fasi delle singole analisi.
La necessità di conoscere sempre più sia la composizione degli alimenti sia i
fabbisogni nutritivi degli animali ha indotto sempre più a ricorrere ad analisi degli
alimenti che un tempo venivano effettuate solo a scopi sperimentali. Fra esse
ricordiamo soprattutto:
a) Determinazione dell’amido – Si utilizzano soprattutto due metodi:
- Polarimetrico mediante il quale l’amido viene idrolizzato con acido cloridrico
e sulla soluzione ottenuta si effettua una misura del potere rotatorio della luce;
- Enzimatico che prevede la dispersione dell’amido e il suo trattamento con
amiloglucosidasi e il glucosio che si ottiene viene misurato con lo spettrofotometro
(metodo della glucosio-ossidasi).
Per alimenti contenenti amido (tuberi, cereali, cruscami) il metodo polarimetrico
fornisce valori di 3-5 punti percentuali (sulla S.S.) superiori a quelli forniti dal
metodo enzimatico. Inoltre, esso a causa dell’idrolisi delle pectine e delle
emicellulose, causata dall’HCl, fornisce valori non trascurabili anche in alimenti che
non ne contengono affatto quali le polpe di bietola.
b) Analisi qualitativa degli insilati: per i prodotti conservati mediante insilamento
(foraggi, polpe di bietola suppressate, trebbie di birra, scarti di frutta) né l’analisi tipo
né quella delle frazioni fibrose sono sufficienti ad indicare la qualità del prodotto.
Affinché l’insilamento abbia successo è necessario che si instaurino determinate
fermentazioni che producendo acidi organici a partire dai glucidi solubili in acqua
garantiscono una certa acidità dell’ambiente e quindi l’inattivazione di batteri, muffe
e lieviti nocivi. Nell’alimento insilato bisogna trovare, soprattutto, acido lattico e, in
minor misura, acido acetico mentre dovrebbero essere assenti o presenti solo in
tracce l’ac. Propionico, l’ac. Butirrico e gli alcoli (soprattutto etanolo) che indicano
un’attività dei lieviti. Gli acidi grassi volatili (acetico, propionico, butirrico) e gli
alcoli vengono determinati mediante gascromatografia in fase gassosa mentre, l’acido
lattico è valutato mediante reazione enzimatica (metodo di Noll).
L’azoto ammoniacale nell’insilato non deve superare il 7% di quello totale ed esso
sulla S.S. è così calcolato: 0,05147 x ppm NH3 / % PG
Peraltro, negli insilati non è da trascurare la determinazione del pH e la eventuale
presenza di sostanze tossiche o indesiderabili.
La già citata legge 281/63 richiede poi dati analitici riguardanti:
- vitamine, antibiotici, elementi oligodinamici ed altri principi attivi per gli
integratori ed i mangimi integrati;
- betacarotene per la farina di erba medica disidratata;
- cloruro di sodio per la farina di pesce;
- zuccheri totali per il melasso e le carrube.
Usualmente, per avere un’idea sulle caratteristiche generali dell’alimento sottoposto
ad analisi chimica si dovrà tenere conto soprattutto: dell’umidità, della fibra grezza
che oltre un certo limite, deprime la digeribilità abbassandone il valore nutritivo, e
del contenuto in proteine che normalmente determina il prezzo dell’alimento e
suggerisce la sua utilizzazione in funzione dell’età e dello stato fisiologico
dell’animale e delle produzioni che si desiderano dall’animale stesso.
109
4.2. Valutazione fisiologica
Nella valutazione fisiologica degli alimenti si tiene conto della digeribilità, relazione
nutritiva, azione dietetica, appetibilità, conservabilità, equilibrio acido basico e del
loro valore nutritivo.
4.2.1 Digeribilità
E' necessario conoscere il grado di utilizzazione dei vari principi nutritivi di
cui l'alimento è portatore cioè la loro digeribilità o meglio il rapporto % fra le singole
sostanze nutritive trattenute e le singole sostanze nutritive grezze contenute
nell'alimento, rapporto che va sotto il nome di coefficiente di digeribilità (CD). Se
non viene diversamente specificata, la digeribilità si riferisce alla sostanza secca
(S.S.) dell’alimento.
Per es. se una bovina ingerisce 5 kg di fieno al 90% di S.S. (quindi ingerisce 4,5 kg
di SS) ed elimina 1,5 kg con le feci, la digeribilità della SS del fieno in oggetto sarà:
(4,5 - 1,5)/4,5 = 0,67 oppure (4,5 - 1,5)/4,5 x 100 = 67%
I coefficienti di digeribilità possono essere determinati per tutti i componenti della
sostanza secca: sostanza organica, azoto, estratto etereo, fibra neutro detersa (NDF) e
lo stesso dicasi per l’energia contenuta nell’alimento.
Così, ad esempio, se 5 becchi hanno ingerito 1,5 kg/capo/giorno di S.S. di fieno e la
quantità di S.S. escreta con le feci è stata di 0,70 kg/capo/giorno e considerando che
l’analisi del fieno e delle feci ha dato la seguente composizione (g/kg S.S.):
Sostanza
organica
Proteine
Grezze
Estratto
Etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
inazotati
Fieno 850 90 12 340 408
Feci 800 100 12 300 388
moltiplicando per 1,5 e 0,70 rispettivamente i contenuti del fieno e delle feci si ha:
Sostanza
secca
Sostanza
organica
Proteine
grezze
Estratto
etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
inazotati
Quota
consumata -
1,5 1,275 0,135 0,018 0.51 0,612
Quota escreta
=
0,70 0,56 0,07 0,0084 0,21 0,2716
Quota digerita 0,80 0,715 0,065 0,0096 0,30 0,3404
e i coefficienti di digeribilità saranno:
Sostanza
secca
Sostanza
Organica
Proteine
grezze
Estratto
etereo
Fibra
Grezza
Estrattivi
inazotati
0,80 : 1,5
= 0,53
(53%)
0,71 : 1,27
= 0,56
(56%)
0,06 : 0,13
= 0,48
(48%)
0,01 : 0,02
= 0,53
(53%)
0,3 : 0,51
= 0,59
(59%)
0,34 : 0,61
= 0,56
(56%)
e quindi la composizione del fieno in termini di principi alimentari digeribili è la
seguente (g/kg S.S.):
Sostanza
Organica
Proteine
Grezze
Estratto
etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
Inazotati
850 x 0,56 =
476
90 x 0,48 =
43,2
12 x 0,53 =
6,36
340 x 0,59 =
200,6
408 x 0,56 =
228,48
In questo caso è stato utilizzato del fieno, che può essere somministrato da solo agli
animali; nel caso dei mangimi concentrati, i quali se vengono somministrati da soli
possono causare disturbi digestivi, la loro digeribilità viene determinata
somministrandoli insieme ad un foraggio di nota digeribilità.
In questo esempio, i becchi hanno ingerito 1,5 kg di sostanza secca di fieno il cui
contenuto in energia lorda è pari a 18.0 MJ/kg e quindi l’energia lorda consumata da
ciascun animale è pari a 18 x 1,5 = 27 MJ. Gli 0,70 kg di S.S. delle feci contenevano
18,7 MJ/kg e quindi un totale di 13,09 MJ per giorno. La digeribilità apparente di
quel fieno è risultata perciò (27 - 13,1)/27 = 13,9/27 = 0,515 e l’energia digeribile
contenuta nella sostanza secca dello stesso fieno è uguale: 18,0 x 0,515 = 9,3 MJ/kg.
In vivo, il coefficiente di digeribilità si calcola prendendo un gruppo di animali,
tenuti singolarmente in box e muniti di mezzi idonei per la raccolta separata delle
feci e delle urine. Gli animali sono alimentati per 7-14 giorni con l'alimento da
esaminare, il quale va accuratamente mescolato in modo da uniformarne la
composizione. Successivamente, per un altro periodo di 8-10 giorni (a seconda della
specie e della mole), sono controllati sia i quantitativi dello stesso alimento da
ognuno assunto (ingesta), che i quantitativi delle feci e delle urine (separate), emesse
(escreta). Nei monogastrici, le feci riferibili ad una data ingestione di cibo possono
essere identificate mediante l’impiego di sostanze colorate indigeribili (ossido di
ferro) aggiunta al primo ed ultimo pasto del periodo sperimentale: l’inizio e la fine
della raccolta delle feci prendono posto, rispettivamente, alla comparsa e alla
scomparsa dell’alimento colorato. Nei poligastrici, si considera che un lasso di tempo
di 24-48 ore sia sufficiente per l’eliminazione dei residui e quindi il controllo delle
feci inizia 1-2 giorni dopo la somministrazione dell’alimento da determinare; in essi
non è possibile somministrare sostanze colorate per identificare l’alimento in quanto
il pasto colorato si mescola con quello già presente nel rumine.
Nei mammiferi, vengono preferiti i maschi alle femmine perché in essi è più facile la
raccolta delle feci e delle urine, si impiegano soggetti che stanno bene in salute e
devono essere, preferibilmente, animali docili. Per i piccoli animali si impiegano
gabbie metaboliche dove è possibile raccogliere separatamente le feci dalle urine
invece, nei grossi animali (bovini, ovini) si usano sacchi di gomma, opportunamente
adattati. Per le femmine, un dispositivo speciale consente di raccogliere le feci in un
sacco e deviare le urine. Nei polli, la digeribilità è difficile determinarla in quanto le
feci vengono eliminate insieme alle urine attraverso la cloaca; comunque, i composti
presenti nelle urine sono soprattutto di natura azotata e le feci possono essere
chimicamente separate dalle urine se i composti azotati delle prime possono essere
separati da quelli fecali. Questa separazione è basata sul fatto che l’azoto urinario in
maggior parte si trova sotto forma di acido urico, mentre la maggior parte dell’azoto
fecale è sotto forma di proteine. E’ anche possibile modificare l’anatomia dei polli
con un intervento chirurgico in modo che l’emissione delle feci sia separata da quella
delle urine.
Specie nei ruminanti, ai fini delle prove di digeribilità, i pasti devono essere
somministrati ogni giorno alla stessa ora e la quantità di alimento non deve variare di
111
giorno in giorno. Infatti, quando l’ingestione di alimento è irregolare può capitare, ad
esempio, che se l’ultimo pasto del periodo di prova è insolitamente abbondante, il
relativo aumento delle feci può verificarsi dopo che è stata ultimata la raccolta delle
feci e, quindi, la produzione fecale verrebbe sottostimata e la digeribilità
sovrastimata.
Quanto detto serve a impostare un bilancio fra ingesta ed escreta e calcolare
percentualmente quanto è stato trattenuto, e quindi digeribile.
Il coefficiente così determinato è apparente perché:
a) nei ruminanti dalla fermentazione dei carboidrati si forma, tra l’altro, il metano e
la CO2 che non vengono assorbiti ma eliminati con l’eruttazione;
b) le feci non sono costituite solo da alimenti non digeriti ma vi sono anche prodotti
metabolici (microbi, cellule parietali, prodotti di scarto quali gli enzimi).
Un animale alimentato con un dieta priva di azoto continuerà ad eliminare azoto con
le feci (azoto metabolico fecale) e l’eliminazione è correlata positivamente con la SS
ingerita;
c) le feci sono ricche di sostanze estraibili con etere (non sono lipidi) e minerali
(soprattutto calcio) di origine metabolica.
Un’altra differenza fra digeribilità apparente e reale scaturisce dalla conversione di
sostanze che si trovano in una data frazione all’analisi dell’alimento (es. FG) e in
un’altra all’analisi delle feci (es. negli estrattivi inazotati o nei lipidi). Ciò significa
che la FG è stata trasformata in altre sostanze, non necessariamente digerite.
Considerando, comunque, che la determinazione della digeribilità reale è assai
difficile: ai fini applicativi si riconoscono universalmente i coefficienti di digeribilità
apparente.
Impiego degli indicatori per determinare la digeribilità
Quando è difficile determinare i consumi di alimento ingerito o di feci emesse
individualmente (animali alimentati in gruppo) la digeribilità viene determinata
aggiungendo all’alimento delle sostanze non digeribili (lignina) e determinando la
concentrazione di queste sostanze sia nell’alimento, sia in campioni di feci di ciascun
animale e la digeribilità è data dal rapporto fra le due concentrazioni. Ad esempio, se
la concentrazione dell’indicatore è 5 g/kg S.S. nell’alimento e 10 g/kg S.S. nelle feci,
vuol dire che metà della S.S. ingerita è stata digerita e assorbita dall’animale. La
digeribilità in questo caso viene determinata applicando la seguente equazione:
(g indicatore/kg feci - g indicatore/kg alimento)/g indicatore/kg feci.
L’indicatore può essere un costituente naturale dell’alimento o una sostanza chimica:
quest’ultima però è difficile mescolarla ad alimenti quali ad esempio il fieno ed in
questo caso si utilizza un componente naturale dell’alimento che è noto per non
essere digeribile, quale la lignina. Oggi si usano altri indicatori, quali la fibra acido
detersa e le ceneri acido insolubili (sono formate principalmente da silice). Fra gli
indicatori chimici quello più usato è il cromo sotto forma di ossido (Cr2O3), in
quanto:
a) è pressoché insolubile, quindi, indigeribile;
b) è improbabile che sia presente come costituente importante dell’alimento.
Per l’erba consumata al pascolo, pur potendo utilizzare la lignina come indicatore in
quanto è un costituente naturale dell’erba, il calcolo della digeribilità è più difficile e
ciò perché è difficile ottenere campioni di erba che siano rappresentativi di quelli
consumati. Gli animali al pascolo, infatti, scelgono le erbe più giovani e non quelle
mature, le foglie e non gli steli e quindi è molto probabile che analizzando un
campione di pascolo raccolto con la falciatrice contenga maggiori quantità di
elementi fibrosi (lignina compresa) superiori rispetto a quelli contenuti nel foraggio
consumato dall’animale. Per ottenere un campione rappresentativo si può usare un
animale con fistola esofagea (apertura dal lume dell’esofago fino alla superficie della
cute). Chiudendo quest’apertura con un tappo l’alimento passa dalla bocca allo
stomaco se, invece, il tappo si toglie l’erba ingerita può essere raccolta in un sacco
posto all’apertura della fistola. I campioni dell’erba così ottenuti possono essere
analizzati ed il loro tenore in indicatore può essere confrontato con quello delle feci.
In vitro, la digeribilità si calcola utilizzando il metodo in << due tempi in vitro>>:
a) in un primo momento, si fa incubare, per 48 ore, il campione finemente macinato
in liquido ruminale tamponato, in condizioni anaerobiche;
b) nel secondo tempo i batteri sono uccisi per acidificazione con HCl, fino a pH 2 e
vengono poi digeriti, incubandoli con pepsina per oltre 48 ore. Il residuo insolubile
viene filtrato, essiccato e calcinato; la sua sostanza organica, sottratta a quella
presente nell’alimento, consente una stima della sostanza organica digeribile.
E' evidente che il processo digestivo preso a modello e schematizzato è quello dei
poligastrici, perciò solo a questi vanno riferiti i risultati. La digeribilità determinata in
vitro, generalmente, è più bassa di quella determinata in vivo ed esistono equazioni
per passare dall’una all’altra. Oppure ad ogni lotto di campioni di alimento,
sottoposto ad analisi in vitro della digeribilità, vengono associati alcuni campioni dei
quali si conosce la digeribilità in vivo e la differenza media riscontrata, per tali
campioni, tra i coefficienti di digeribilità in vivo e quelli in vitro viene sommata ai
coefficienti di digeribilità in vitro dei campioni in esame per ottenere il valore di
digeribilità corretto. Per ottenere risultati il più possibile ripetibili è necessario
operare in condizioni standard non solo durante le analisi, ma anche a livello della
dieta degli animali dai quali si preleva il liquido ruminale mediante apposita fistola,
da utilizzare per la prima fase della digestione in vitro. Negli ultimi anni, per evitare
di mantenere gli animali da cui prelevare il liquido ruminale, per la digeribilità in
vitro anziché liquido ruminale si utilizzano enzimi cellulosolitici che però danno
risultati meno affidabili del liquido ruminale
La digeribilità in vitro viene attualmente impiegata per:
a) valutazione dei foraggi aziendali;
b) valutazione di campioni di piante destinate alla riproduzione;
c) valutazione dell’erba ingerita al pascolo e raccolta da animali con fistola esofagea.
Il liquido ruminale viene raccolto da animali con fistola i quali possono essere anche
utilizzati per la stima della digeribilità di piccoli campioni di alimento; questi
campioni (3-5 g di S.S.) sono posti in sacchetti di fibra sintetica, permeabili con pori
di misura standard (400-1600 m2). I sacchetti vengono posti nel rumine con una
sonda e incubati per 24-48 ore, dopo vengono tolti, lavati ed essiccati per determinare
la quantità di sostanza secca dell’alimento che vi è rimasta, cioè non digerita. Questa
tecnica, detta tecnica della digeribilità in sacco, anche se trova dei problemi legati
alla scelta del momento più appropriato di incubazione, trova applicazione nella
valutazione delle singole proteine che vengono demolite a livello ruminale e della
velocità con cui essa avviene.
La stima, invece, della digeribilità in base alla composizione chimica dell'alimento
tiene conto del fatto che il contenuto delle frazioni fibrose nell'alimento condiziona
fortemente la digeribilità globale e quella dei singoli principi nutritivi.
Mediante equazione di regressione lineare è possibile stimare la digeribilità dei dati
analitici, nelle quali la variabile indipendente è rappresentata dal contenuto in fibra o
113
lignina, infatti, la digeribilità diminuisce con l'aumentare della fibra grezza, passando
dal 75-90% con un contenuto del 2% al 35-40% con un contenuto del 50%.
Digestione e digeribilità nei vari tratti dell’apparato digerente
I principi nutritivi possono essere assorbiti in diverse parti del tratto digerente
e a seconda del luogo dove vengono digeriti e assorbiti i costituenti alimentari danno
origine a principi diversi e quindi il valore nutritivo, per l’animale, dei singoli
costituenti dipenderà, non solo dal grado in cui verranno digeriti ma, anche dal luogo
dove verranno digeriti. Un carboidrato, ad esempio, quale è l’amido può essere
fermentato e assorbito nel rumine come acidi grassi volatili (e metano) o può essere
digerito nell’intestino tenue ed essere assorbito come glucosio. Per valutare la
digeribilità nei vari tratti dell’apparato digerente si può far ricorso alle fistole alle
quali è applicato un tubo di gomma con tappo a vite e che possono essere applicate a
livello di rumine, di stomaco o di intestino. Un esempio del controllo digestivo nelle
successive porzioni del tubo digerente, viene riportato da Beever e coll. (1972; Br. J.
Nutr., 28, 347) i quali utilizzarono pecore incannullate al duodeno e nella parte
terminale dell’ileo in modo da controllare la digestione a livello di stomaco, di
piccolo intestino e grosso intestino.
Digestione dell’erba disidratata, trinciata o sfarinata e pellettata
Costituenti
alimentari
Forma del
Foraggio
percentuale digerita in:
stomaco piccolo
intestino
Grosso
intestino
Totale
Sostanza
Organica
Trinciato
Pellettato
0,52
0,45
0,27
0,20
0,04
0,13
0,83
0,78
Cellulosa Trinciato
Pellettato
0,80
0,56
0,02
-0,02
0,05
0,23
0,87
0,77
Come si può osservare dalla tabella la digeribilità totale della sostanza organica
dell’erba pellettata è risultata più bassa rispetto a quella dell’erba trinciata e ciò
perché la digestione microbica della prima è stata in parte trasferita dal rumine al
grosso intestino; le differenze risultano più accentuate per la cellulosa.
L’azoto delle proteine che entrano nel rumine può lasciare il rumine stesso nella
stessa forma o sotto forma di proteine microbiche se è stato utilizzato dai
microrganismi ruminali o sotto forma di ammoniaca se le proteine sono state
degradate ma l’azoto non è stato utilizzato dai batteri.
Il destino delle proteine alimentari nei ruminanti può essere determinato con la
raccolta dell’ingesta nelle successive sezioni del tubo digerente, cosi come può essere
osservato nell’esempio di MacRae e Ulyatt (1974; J. Agric. Sci. Camb., 82, 309) che
somministrarono nella pecora 800 g/giorno/capo di sostanza organica di due tipi di
loglio:
Loglio
Perenne
Loglio in
rotazione
N totale (g/giorno)
1) nell’alimento
2) al duodeno
3) all’ileo terminale
4) nelle feci
38
28
9
6
35
32
9
7
Proporzioni dell’N alimentare
digerito
5) nello stomaco
6)nel piccolo intestino
7) nel grosso intestino
8) Totale
0,3
0,5
0,1
0,9
0,1
0,6
0,1
0,8
N proteico assorbito (g/giorno)* 9) nel piccolo intestino 15 19
N amino acido assorbito
(g/giorno)
10) nel piccolo intestino 15 18
* Proteine calcolate moltiplicando per 6,25 l’azoto non ammoniacale
Benché le due diete fossero similari per contenuto di azoto, la quantità di azoto perso
a livello ruminale (assorbimento di ammoniaca) è stata maggiore per il loglio
perenne, fra l’altro, per questa erba è risultata minore la quantità di azoto assorbito
nel piccolo intestino sia come azoto totale, sia come proteine e sia come aminoacidi.
Le differenze tra l’azoto totale e l’azoto proteico assorbiti riflettono l’assorbimento di
ammoniaca che raggiunge l’intestino; quelle fra l’azoto proteico e azoto
aminoacidico sono in larga misura riconducibili all’azoto degli acidi nucleici delle
proteine microbiche. Un’ulteriore perdita di azoto, forse sotto forma di ammoniaca,
si ha a livello di grosso intestino. Quindi il loglio in rotazione, benché contenesse una
quantità di azoto leggermente inferiore e di digeribilità più bassa, ha offerto agli
animali un apporto azotato, in termini di aminoacidi assorbiti, di circa il 25%
superiore, rispetto al loglio perenne; con quest’ultimo, peraltro, dell’azoto totale
apparentemente assorbito (32 g/giorno), meno della metà (15 g/giorno) lo è stato
sotto forma di aminoacidi.
Fattori che influenzano la digeribilità
La digeribilità varia in funzione di diversi fattori fra i quali, la composizione
chimica degli alimenti ed eventuali trattamenti subiti, la specie animale.
a) Alimento - Il contenuto in protidi è correlato negativamente con la fibra grezza,
per cui un alto contenuto in azoto è indice di buona digeribilità, soprattutto, se le
proteine sono di origine animale.
Un eccesso di amido e di zuccheri nella dieta dei poligastrici riduce la digeribilità
della cellulosa in quanto i batteri sono portati ad utilizzare questi idrati di carbonio e
trascurare la fibra. Per aumentare la digeribilità delle proteine e dei grassi è
necessario che il rapporto adipo-proteico degli alimenti sia compreso tra 1/3 e 1/5
dato che un eccesso in grassi deprime appunto la digeribilità sia delle proteine che dei
grassi. La digeribilità risulta correlata negativamente con la quantità di alimento
ingerito.
c) Trattamenti degli alimenti – Sia i foraggi sia i concentrati possono essere
sottoposti a trattamenti meccanici, fisici, chimici o a combinazione dei tre allo scopo
sia di migliorarne l’appetibilità e/o la digeribilità sia per diminuirne gli sprechi e
facilitarne la manipolazione. I foraggi possono essere sottoposti a:
115
- Trinciatura: la trinciatura del foraggio a particelle di 2-3 cm consente da un lato
una minore possibilità di selezione da parte dell’animale e dall’altro un aumento
della quantità di foraggio ingerito, infatti, il minor ingombro ruminale comporta una
maggiore velocità di transito del foraggio attraverso il canale digerente. Quindi, la
trinciatura, specie se molto spinta, diminuisce la digeribilità dell’alimento,
comunque, globalmente l’animale ricava più energia in quanto ha la possibilità di
ingerire più sostanza secca.
- Macinazione ed eventuale cubettatura: tali processi alterano la struttura del
foraggio e non va dimenticato che per i ruminanti, specie per quelli in lattazione, la
struttura del foraggio assicura una struttura fisica della razione che è il presupposto
indispensabile per una normale attività masticatoria e ruminativa dell’animale e
costituisce il sistema più naturale e sicuro per minimizzare i rischi di forme di
dismetabolie.
- Trattamento con soda o ammoniaca: si pratica soprattutto per foraggi ricchi di
lignina, quali le paglie e gli stocchi. L'ammoniaca e, soprattutto, la soda sono basi
forti. Quest’ultima viene nebulizzata, sotto forma di soluzione al 30% di NaOH, sulla
paglia in ragione di 12-15 litri/qle. Essa rompe i legami tra la lignina e le altre
frazioni della parete cellulare, rendendo queste ultime più digeribili (aumento dal 40
al 60%) dalla microflora ruminale. Il trattamento con ammoniaca, in misura del 3-5%
in peso della S.S., migliora in maniera meno soddisfacente rispetto alla soda la
digeribilità (aumento del 10% circa) ma esso comporta un aumento del tenore azotato
dell’alimento trattato. Entrambi i trattamenti sono poco praticabili a livello aziendale
ma esistono delle ditte specializzate in tal senso. Il foraggio viene macinato,
idrolizzato e poi pellettato. Per valutare se un foraggio è stato trattato con una dose
sufficiente di soda basta misurare il pH, che dovrebbe essere intorno a 10. Infatti,
concentrazioni di soda inferiori al 3% non aumentano sufficientemente la digeribilità
e del valore nutritivo del foraggio però, concentrazioni elevate possono diminuire
l’appetibilità per l’eccessiva compattezza del pellet che se ne ottiene.
I mangimi concentrati possono essere sottoposti:
- macinazione: i semi possono essere macinati più o meno finemente; per i
ruminanti, la macinazione dovrebbe essere grossolana in quanto una macinazione
fine, spesso seguita da pellettatura, causa un passaggio troppo veloce dell’alimento
nel tubo digerente. Per i cereali ad alta fermentescibilità (orzo, frumento), la
macinazione spinta della granella aumenta notevolmente la superficie esposta
all’attacco degli enzimi amilolitici della microflora ruminale, con aumentato rischio
di acidosi. Quindi bisogna dosare nel tempo il rilascio di energia dai vari alimenti che
compongono la razione: una quota deve essere disponibile subito per i ruminanti da
latte, specie se ad elevata produzione e, quindi, si utilizzano alimenti ricchi in amido
e zuccheri ma il rilascio non deve essere eccessivamente concentrato in poco tempo.
La macinazione delle granaglie sembra inutile per gli ovini e i caprini che masticano
bene il cibo, mentre, è efficace per i suini e per gli animali con dentatura inefficiente
- Rullatura a secco: i semi trattati in tal modo (schiacciati) rispondono bene ai
requisiti di aumentare il livello di ingestione e della velocità di rilascio dell’energia
senza alterare la funzionalità ruminale. Peraltro, questo trattamento è tra i più
economici.
- Fioccatura: la fioccatura e, soprattutto, l’estrusione di un cereale comporta la
rottura tra le diverse molecole di amido e un inizio di gelatinizzazione dell’amido
stesso; una volta nel rumine i granuli di amido saranno attaccati velocemente dalla
flora amilolitica e la loro idrolisi che era già iniziata con il trattamento di fioccatura o
con quello di estrusione, verrà completata rapidamente; il glucosio prodotto verrà
rapidamente fermentato ad acido piruvico e questo, a sua volta, verrà trasformato in
acidi grassi volatili, soprattutto acido propionico. La forte produzione di questi acidi
farà scendere il pH del rumine a valori inferiori a 6 o addirittura sotto il 5,5 e a questo
punto la flora lattica prende il sopravvento e producendo acido lattico farà scendere
ulteriormente il pH. Questo è il quadro dell’acidosi ruminale, nel corso della quale
viene progressivamente inibito lo sviluppo dei batteri cellulosolitici e, quindi,
diminuisce la digeribilità delle componenti fibrose della razione e si ha: meno
ruminazione, meno masticazione, minore produzione di saliva e, quindi, minore
potere tampone nei confronti dell’acidità ruminale, ecc. Comunque, la fioccatura
sembra utile negli animali da carne, soprattutto bovini.
- Cottura: in genere è inutile per suini e polli.
Per i ruminanti da latte, trattamenti quali la fioccatura, l’estrusione, la
micronizzazione, la cottura a vapore devono essere limitati a pochi Kg di alimento (2
-3 per i bovini) somministrato insieme ad altri alimenti e, possibilmente, diluito
durante la giornata, soprattutto, se il prodotto una volta fioccato o estruso viene
macinato ed eventualmente pellettato. Tale pratica è adottata da diverse ditte
mangimistiche per aumentare la concentrazione energetica di determinati mangimi
composti; in effetti, la femmina che ha partorito da poco e che si trova nella fase più
produttiva di latte, risponde bene alla somministrazione di cereali così trattati, visto il
forte fabbisogno di energia prontamente utilizzabile per sostenere l’alta produzione
di latte. Nei ruminanti è l’acido propionico il principale precursore del glucosio dal
quale deriva a sua volta. Nel rumine, l’amido dei cereali viene rapidamente
idrolizzato a glucosio e questo fermenta ad acido propionico il quale viene assorbito
dalla parete ruminale, attraverso il sangue arriva al fegato dove viene convertito in
glucosio, il quale raggiunge gli organi vitali e le cellule della ghiandola mammaria
per la sintesi del lattosio. Considerando che c’è una correlazione positiva tra la sintesi
di lattosio e la produzione di latte, i trattamenti prima citati sono in grado di
aumentare la produzione di latte ma con il rischio di alterare l’equilibrio ruminale e
dell’insorgenza di turbe dismetaboliche delle quali un abbassamento del contenuto in
grasso del latte è frequentemente il primo e più evidente sintomo.
d) Specie animale - Le diverse capacità di digestione e di utilizzazione degli alimenti
dipendono dalla struttura anatomica e dallo sviluppo dell'apparato digerente delle
singole specie domestiche, nonché dal particolare decorso dei diversi atti fisiologici:
dalla masticazione, alla intensità delle azioni enzimatiche dei succhi, alla velocità di
passaggio degli alimenti, alla più o meno attiva partecipazione dei batteri alla
digestione del cellulosio; degli organismi animali. Le specie erbivore presentano una
capacità di digestione della fibra grezza maggiore delle specie onnivore: in
particolare i ruminanti sono degli eccellenti utilizzatori dei foraggi e degli altri
alimenti ricchi di cellulosio. Gli ovini rispetto ai bovini fanno registrare valori più
elevati di digeribilità apparente dell’azoto e in generale degli alimenti molto
digeribili ma coefficienti di digeribilità più bassi per le frazioni fibrose, specie se di
foraggi qualitativamente scadenti e lignificati.
4.3. Relazione nutritiva
Nel preparare le razioni per gli animali è opportuno sapere per ognuno degli
alimenti quale sia il rapporto fra il contenuto digeribile di idrati di carbonio e grassi
(elementi energetici) e il contenuto in protidi digeribili (elementi plastici). Detto
rapporto è denominato relazione nutritiva (RN) ed è indicato:
117
R.N. = (Estrat. inazotati digeribili + Fibra diger. + Lipidi diger. x 2.25(1)
) / Protidi
digeribili.
Ad esempio, per un alimento la cui costituzione in sostanze digeribili è: protidi 8,5%,
lipidi 1,0%, estrattivi inazotati 30%, fibra 10,0% la relazione nutritiva sarà:
RN = ((1,0 x 2,25) + 30 + 10) : 8,5 = 42,25 : 8,5 = 5 (stretta)
La R.N. si dice bassa, media o alta quando il valore è rispettivamente di 15, 6 e >7.
Gli animali in pieno accrescimento e le femmine in lattazione richiedono una R.N. di
4-4.5 a 6-7; i soggetti in prestazione dinamica di 8,5-10, gli animali di riforma
all'ingrasso di 9-11 e quelli adulti a riposo di 1114.
Alimenti con RN: bassa o stretta (<5) Media ( 6) alta (> 7)
Farina di sangue 0,1 crusca di orzo 6,0 avena macinata 7,2
Farina di carne 0,4 fieno ottimo di prato 6,0 mais 11,2
Farina di soia 0,9 Frumento macinato 6,6 polpe secche di bietola 13,2
Farina di lino 1,0 miglio 6,9 paglia di frumento 43,0
Farina di colza 1,5 tutoli di mais 50,0
Pisello da foraggio 2,4
Semola glutinata di mais 2,5
Erba di ottimo pascolo 3,5
Erba di medica 3,6
Crusca di frumento 4,3
La relazione nutritiva è solo un indice sintetico per giudicare se un alimento è più o
meno idoneo per essere impiegato nella composizione di razioni per animali aventi
differenti esigenze proteiche in funzione dell’energia digeribile totale della razione.
Nel razionamento dei polli e dei suini si tiene, invece, conto del rapporto energia
metabolizzabile/proteina (EM/P); polli e suini, infatti, quando sono alimentati ad
libitum limitano il loro consumo in alimenti al soddisfacimento delle loro esigenze
energetiche.
EM : P = Energia metabolizzabile per Kg di mangime (Kcal/kg) / % di proteine grezze
Quindi è necessario che nel mangime siano, soprattutto, incluse sostanze proteiche in
quantità percentuali sufficienti, da ciò il rapporto energia/proteina, anzidetto, che
indica quanta E.M. ogni Kg di mangime deve fornire per ogni punto percentuale di
proteina grezza contenuta nello stesso mangime, in modo che l'animale cui è
destinato possa soddisfare ad un tempo le proprie esigenze energetiche e proteiche.
4.4. Equilibrio acido-basico
Nell'organismo animale la costanza della reazione (del pH) nel sangue e nei tessuti
dipende da un complesso equilibrio fra l'entrata e l'uscita degli alimenti acidogeni
(fosforo, cloro, zolfo, formatori di anioni) e degli alimenti alcalogeni (sodio,
potassio, calcio, magnesio, formatori di cationi), con prevalenza di questi ultimi. Per
1Il contenuto in lipidi digeribili si moltiplica per 2,25 per equiparare il valore energetico dei lipidi a
quello degli estrattivi inazotati e della fibra
mantenere lo stato acido-basico dei liquidi corporei nelle giuste condizioni,
l'organismo si avvale di tre meccanismi basati: a) azione di sostanze tampone di
natura chimica (bicarbonato, proteine protoplasmatiche, fosfati emoglobina); b)
adattamento respiratorio delle concentrazioni dell'acido carbonico (la CO2 che si
forma nei processi respiratori reagisce con l'acqua formando acido carbonico); c)
eliminazione di idrogenioni o bicarbonatoioni attraverso i reni.
Alterazioni dello stato acido-basico a livelli tali che i normali meccanismi di
regolazione non siano in grado di correggere portano a disturbi:
a) di acidosi se le quantità totali di acidi nei liquidi corporei sono superiori a quelli
normali,
b) di alcalosi nei casi in cui sono le basi a porsi a livelli superiori a quelli normali.
La reazione acida o basica che l'alimento viene a formare nel corpo dipende, perciò,
non dall’acidità o basicità misurabile nella dieta alimentare bensì dalla composizione
quanti-qualitativa in sostanze minerali degli alimenti stessi; anche gli acidi organici
(citrico, malico, ossalico, lattico, acetico, propionico, butirrico, ecc.) presenti negli
alimenti o formatisi a livello digestivo, perciò, non concorrono a formare un
eccedente acido in quanto dopo la loro demolizione digestiva e la successiva
ossidazione a livello metabolico, lasciano in genere un residuo basico.
Per valutare l'influenza degli alimenti sull'equilibrio acido-basico dell'organismo, a
livello metabolico, è stato proposto di calcolare, in base all'analisi delle ceneri, le
differenze fra elementi acidi e basici (denominata residuo acido o basico),
esprimendo questo valore in grammi equivalenti di acido o di base in soluzione
normale per Kg di alimento. Soprattutto, nelle femmine in lattazione e negli animali
in accrescimento si devono somministrare mangimi con eccedente basico di 0,5-0,8
per Kg di sostanza secca ingerita.
4.5. Appetibilità
L'appetibilità riveste molta importanza nella valutazione degli alimenti.
L'odore, il sapore e la gustosità di un alimento eccitano i centri nervosi e stimolano
l'appetito, favorendone l’assunzione da parte dell'animale. Sono detti di buona bocca
gli animali che consumano volentieri e con profitto anche gli alimenti più scadenti.
L'indice di assunzione volontaria di cibo da parte dell'animale è subordinata al
contenuto in alimenti del tubo digerente ed è, principalmente, in funzione del grado
di rapidità con cui la fibra viene demolita e trasformata e, quindi, dalla velocità del
complesso della digestione della razione; velocità che dipende dalla microflora
ruminale e/o intestinale: alcuni, inerenti alla natura del foraggio (lignificazione dei
tessuti) altri, da fattori relativi alla costituzione della dieta (deficienza azotata o
minerale, presenza di sostanze batteriostatiche che portano ad una parziale inattività
della microflora).
La gustosità di un alimento è determinata dalla sua composizione in alcuni
specifici costituenti chimici che attribuendo odori o sapori particolari, ne
condizionano l'appetibilità da parte dell'animale. In genere, l'animale si abitua
gradatamente a gradire un determinato alimento. Gli alimenti possono essere resi
gustosi aggiungendo particolari prodotti (melasso, sale pastorizio, sostanze
aromatizzanti), in qualità di condimenti.
119
4.6. Conservabilità
La conservabilità degli alimenti dipende dalle caratteristiche intrinseche
dell'alimento stesso quali l'umidità (non deve superare il 15% nel fieno e nella paglia
e il 10% nella farina). Percentuali di grasso superiori al 5-6% possono provocare
irrancidimento.
4.7. Azione dietetica
Prima di far entrare un alimento nella razione bisogna accertarsi che la
somministrazione nelle dosi e nel tempo che si ritengono opportuni non sia dannosa
per gli animali e non sia fattore di abbassamento o deprezzamento della produzione.
Ad esempio, non deve abbassare la produzione di latte, né conferire cattivi odori o
sapori al latte, oppure nuocere alle caratteristiche di caseificazione del latte.
L'alimento non deve avere effetti negativi sulla funzionalità digerente (stipsi,
diarrea), non deve apportare caratteristiche negative nei depositi adiposi (grasso
giallo o particolarmente molle), non deve provocare stati di tossicità o fenomeni di
irritazione delle mucose o lasciare residui di metalli pesanti e/o di prodotti chimici
(diserbanti, anticrittogamici) che possono passare al latte o alla carne, provocando
fenomeni di accumulo.
CAP. V. UTILIZZAZIONE BIOLOGICA DEGLI ALIMENTI
5.1. Produzione energia
L'animale è una macchina chemiodinamica nella quale l'energia viene fornita
dagli elettroni dei legami covalenti delle sostanze nutritive che vengono scissi nel
corso dei fenomeni metabolici. Bruciando un campione di un alimento nella bomba
calorimetrica, attraverso il suo calore di combustione si può definire la quantità di
energia chimica potenziale che lo stesso alimento possiede cioè la sua Energia Lorda
Totale (E.L.). La bomba calorimentrica consiste in un robusto recipiente metallico
(bomba) inserito in un serbatoio isolato contenente acqua. Il campione di alimento
viene messo nella bomba dove viene posto ossigeno sotto pressione. Controllata la
temperatura dell’acqua, si avvia la combustione dell’alimento con un meccanismo
elettrico. Il calore prodotto dall’ossidazione è assorbito dalla bomba e trasmesso
all’acqua che la circonda. Ad equilibrio raggiunto, si rileva nuovamente la
temperatura dell’acqua. Il calore prodotto è poi valutato dall’aumento della
temperatura e dal peso dell’acqua presente nel calorimetro e dal calore specifico
dell’acqua e della bomba. La bomba calorimetrica è usata per determinare il
contenuto in energia lorda degli alimenti interi e dei loro costituenti e quello dei
tessuti animali e dei prodotti di escrezione. In pratica, però, per la stima dell'energia
lorda di un alimento si parte dalla sua composizione chimica grezza applicando i
seguenti coefficienti:
proteine 5,40 Kcal/grammo
lipidi 9,72 "
fibra grezza 4,59 "
estrattivi inazotati 4,24 "
Energia lorda contenuta in alcune sostanze
Sostanza MJ*/Kg di
sostanza secca
Sostanza MJ*/Kg di
sostanza secca
Principi alimentari:
Glucosio
Amido
Cellulosa
Caseina
Grasso del latte
Grasso semi oleaginosi
15,6
17,7
17,5
24,5
38,5
39,0
Alimenti:
Granella di mais
Granella di avena
Paglia di avena
Farina estr. lino
Fieno di prato
Latte al 4% di grasso
18,5
19,6
18,5
21,4
18,9
24,9
Prodotti delle fermentazioni:
Ac. Acetico
Ac. Propionico
Ac. Butirrico
Metano
14,6
20,8
24,9
55,0
Tessuti animali privi di ceneri:
Muscolo
Grasso
23,6
39,3
* 1 MJ = 239 Kcal
I grassi contengono una quantità di energia che è di circa 2,25 volte quella degli idrati
di carbonio e delle proteine e ciò è dovuto al diverso rapporto: (Carbonio+Idrogeno)/Ossigeno
che è maggiore nei grassi; cioè questi ultimi si trovano in uno stato di minore
ossidazione e sono perciò in grado di sviluppare maggiore energia quando vengono
121
ossidati. Anche le proteine hanno un più alto contenuto in energia lorda, rispetto ai
carboidrati.
Mediamente, i comuni alimenti contengono circa 18,5 MJ/Kg di sostanza secca, ne
contengono quantitativi maggiori quelli ricchi in grasso (panello di lino) e
quantitativi inferiori alla media gli alimenti ricchi in ceneri le quali non forniscono
energia.
Nelle varie tappe dell'utilizzazione da parte dell'animale, si verificano delle perdite di
energia lorda:
- con la digestione una parte di energia passa nelle feci assieme ad una quota di
alimento indigerito (10-30% nei monogastrici e 20-50% nei poligastrici)2 mentre la
rimanente, detta energia digeribile (E.D.), rimane a disposizione dell'animale;
Calcolo energia digeribile di un fieno somministrato ad un ovino
1) Fieno (S.S.) somministrato all’ovino (Kg/capo/d) = 1,50 Kg
2) Alimento eliminato con le feci (S.S.) = 0,70 Kg
3) Fieno digerito 0,80 Kg
3) Energia lorda per Kg di S.S. di fieno = 18,0 MJ
4) Energia per Kg di feci = 18,7 MJ
- Energia lorda ingerita = 18 x 1,5 = 27,0 MJ
- Energia eliminata con le feci = 18,7 x 0,70 = 13,1 MJ
- Energia trattenuta = 27 - 13,1 = 13,9 MJ
- Digeribilità (apparente) = (27 - 13,1)/27 = 0,515
- Energia digeribile contenuta nel fieno = 18 x 0,515 = 9,3 MJ/Kg
- all'E.D. va sottratta l'energia eliminata con le urine (urea, 3-5% dell'E.L.) e con i gas
di fermentazione gastro-intestinale (metano, 4-10% dell'E.L. nei ruminanti, invece
nei monogastrici tale perdita è trascurabile. L’energia dell’urina è dovuta a sostanze
che contengono azoto, come l’urea, l’acido ippurico, la creatinina e l’allantoina, ed
anche composti non azotati come l’acido glucuronico e l’acido citrico. I gas
combustibili persi dal rumine sono quasi interamente rappresentati da metano, la cui
produzione è strettamente legata alla ingestione di alimento; al livello alimentare di
mantenimento si perde circa l’8% dell’energia lorda (12% di quella digeribile) come
metano. A livelli alimentari più elevati, questa proporzione si riduce al 6-7% e il calo
è maggiore con alimenti altamente digeribili. Il contenuto in energia metabolizzabile
di un alimento si valuta con prove di alimentazione simili a quelle di digeribilità ma
bisogna raccogliere oltre le feci anche l’urina e il metano. Le gabbie metaboliche per
ovini e suini sono dotate di un dispositivo per la raccolta delle urine. Nei bovini le
urine vengono raccolte con sacchi di gomma attaccati sotto l’addome nei maschi e
sopra la vulva nelle femmine; per gravità o per aspirazione l’urina finisce poi nei
sacchi di raccolta. La quantità di metano prodotta viene misurata ponendo l’animale
nella camera respiratoria e quando non si dispone di ciò essa viene calcolata pari
2Essa è tanto più elevata quanto più l'alimento è ricco di cellulosa. Nei ruminanti aumenta quando
l'alimento è macinato finemente, dato che si riduce il suo tempo di permanenza nel rumine ed è ridotta
l'intensità della degradazione microbica
all’8% dell’energia ingerita; inoltre, nei ruminanti può essere ottenuta moltiplicando
per 0,8 l’energia digeribile, ciò significa che circa il 20% dell’energia digeribile è
escreta con le urine e con il metano. Nei polli, le feci e le urine vengono escrete
insieme per cui la valutazione dell’energia metabolizzabile diviene più facile. I polli
adulti vengono messi a digiuno fino a completo svuotamento dell’apparato digerente,
poi vengono alimentati forzatamente con un solo pasto dell’alimento in esame. Le
escreta vengono raccolte fino a completa eliminazione del pasto; per valutare le
perdite endogene, contemporaneamente, vengono raccolte le piccole quantità di
escreta di altri polli tenuti a digiuno. L’energia di queste ultime escreta viene tolta
dall’energia delle escreta degli animali alimentati, per poter stimare l’energia
metabolizzabile reale e non quella apparente.
I principali fattori che influiscono sul valore dell’energia metabolizzabile di un
alimento sono gli stessi che influiscono sulla digeribilità dell’alimento.
Il rapporto EM/ED, cioè la resa con la quale l’energia digeribile viene convertita in
energia metabolizzabile si calcola con la formula (INRA, 1988):
EM/ED = 0,8417 – 0,00099 FG – 0,00196 + 0,0221 LA
Dove la fibra grezza (FG) e la proteina grezza (PG) sono espresse in % sulla sostanza
organica (SO) e il livello alimentare (LA) è espresso dal rapporto tra l’EM ingerita e
l’EM necessaria al mantenimento dell’animale. Dalla formula si vede che il rapporto
EM/ED diminuisce all’aumentare del contenuto in fibra grezza e di proteina grezza e
ciò è dovuto alle maggiori perdite di energia sotto forma di metano all’aumentare
della fibra e alle maggiori perdite di energia con le urine all’aumentare delle proteine.
La stessa formula indica che il rapporto EM/ED aumenta con l’aumentare del livello
alimentare (LA). Ciò si verifica sia con i singoli alimenti che per razioni composte:
a) per gli alimenti singoli (es. fieno) all’aumentare del livello di ingestione aumenta
anche la velocità di transito nel digerente, con conseguente minor tempo di
digestione ruminale, minore fermentazione acetica a carico della fibra e minore
produzione di metano ad essa associata (quindi minore perdita di energia);
b) considerando la razione composta, aumentando il livello produttivo, il ruminante
riceve una razione sempre più ricca in concentrati e povera in fibra e oltre ad una
maggiore peristalsi intestinale si ha una maggiore fermentazione propionica anziché
acetica e quindi una minore perdita di energia con il metano.
Considerando che il livello alimentare (LA) medio utilizzato dai francesi negli studi
di digeribilità dei foraggi è uguale a 1,7 multipli del mantenimento e poiché tale
valore è simile a quello sul quale sono state impostate le diverse prove di digeribilità
dei concentrati, la precedente formula può essere così semplificata:
EM/ED = 0,879 – 0,00099 FG – 0,00196 PG
Dove FG e PG sono espresse ugualmente in % sulla S.O. e il termine noto 0,879 è
uguale a 0,8417 x 1,7.
Per bovine femmine a media o elevata produzione di latte (25-30 litri/giorno)
bisognerebbe utilizzare un livello alimentare uguale a 3 se non 3,5 e quindi
bisognerebbe ridurre il coefficiente di digeribilità dell’energia (dEL) tabulato e
riferito al livello di mantenimento e nello stesso tempo si dovrebbe modificare la
formula per il calcolo del rapporto EM/ED. Con la prima correzione si riduce il
valore nutritivo mentre, con la seconda lo si aumenta; pertanto le due operazioni si
compensano a vicenda e, quindi, almeno al momento, non sembra opportuno
modificare il metodo di calcolo proposto dall’INRA in Francia. La stessa INRA
suggerisce di aggiungere ai fabbisogni una quota aggiuntiva per tenere conto degli
effetti associativi tra foraggi e concentrati e l’aggiunta deve essere tanto più elevata
123
quanto più scadente è la qualità del foraggio e quanto più elevato è il livello
produttivo.
I ricercatori francesi per non tabulare per uno stesso alimento diversi valori nutritivi
riferiti ai diversi livelli alimentari hanno agito sui fabbisogni; così una vacca che
produce 25 l/giorno di latte e mangia 2,5 volte quello che le serve per mantenersi
(LA = 2,5) utilizzerà con meno efficienza l’alimento rispetto a una con un livello
alimentare più basso e quindi per essa il fabbisogno in UFL è leggermente maggiore.
L’EM rappresenta la quantità di energia alimentare utilizzabile dai vari tessuti
dell’organismo ed è costante, per un dato alimento o razione, quale che sia la
funzione per cui è utilizzata (accrescimento, ingrasso, lattazione). Nell’organismo
essa deriva dai prodotti terminali della digestione i quali sono presenti in quantità che
variano con la composizione della dieta e con le condizioni digestive. In pratica, per
le razioni classiche per ruminanti l’EM è prodotta per il 60% dagli AGV, per il 15-20
dagli aminoacidi, per il 5-10% dagli acidi grassi dei lipidi alimentari e per l’1-5% dal
glucosio.
DETERMINAZIONE ENERGIA CONTENUTA IN ALIMENTI DESTINATI A
RUMINANTI
a) Energia lorda: (Hoffmann e Schiemann, 1980):
EL (MJ/Kg S.S.) =
0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x CG + 0,175 x EI
dove PG, LG, CG, ed EI sono i contenuti (% sulla S.S.) di proteina grezza, lipidi grezzi,
cellulosa grezza ed estrattivi inazotati;
b) Energia digeribile: (Hoffmann e Schiemann, 1980):
ED (MJ/Kg S.S.) =
0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x Cg x dCG + 0,170 x EI x dEI
c) Energia metabolizzabile: (Nehring e Haenlein, 1973):
EM (MJ/Kg S.S.) =
0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x CG x dCG + 0,152 x EI x dEI.
Il valore in energia metabolizzabile di un alimento, ovviamente, varia con la specie
animale cui l’alimento è destinato; nei monogastrici l’energia persa come metano è
trascurabile e ciò significa che gli alimenti come i concentrati hanno un maggior
contenuto in energia metabolizzabile. Il valore in energia metabolizzabile di un
alimento può variare anche a seconda se gli aminoacidi che apporta siano
dall’animale trattenuti e utilizzati per le sintesi proteiche, oppure deaminati ed il loro
azoto escreto con le urine, come urea. Anche il modo con cui gli alimenti vengono
preparati può, in alcuni casi, influire sul loro valore in energia metabolizzabile.
Infatti, nei ruminanti la macinazione e la pellettatura dei foraggi aumentano le perdite
fecali di energia ma queste perdite possono, almeno in parte, trovare compensazione
nella minore produzione di metano mentre, per i polli, la macinazione dei cereali non
influenza il contenuto in energia metabolizzabile. L’aumento del livello alimentare
nei ruminanti determina una sensibile riduzione della digeribilità degli alimenti,
quindi anche il loro valore in energia metabolizzabile. Le perdite di energia come
metano possono essere ridotte aggiungendo alla razione degli inibitori della
metanogenesi e fra questi soprattutto un coccidiostatico: il monesin, che è largamente
usato come stimolante di crescita nell’alimentazione dei bovini da carne e nei conigli.
- l'E.M. subisce un’ ulteriore perdita dovuta al dispendio per l'utilizzazione degli
alimenti (digestione, fermentazione, assimilazione) e alla conseguente produzione di
calore irradiato (extracalore) dovuto all'azione dinamico-specifica degli alimenti (per
ottenere l'effetto utile di 100 Kcal occorre somministrare agli animali 105 Kcal se
trattasi di glucidi, 114 se sono lipidi e 130 nel caso delle proteine); l'azione dinamico
specifica è lo stimolo metabolico che le sostanze nutritive assorbite, specie
aminoacidi, esercitano con conseguente esaltata termogenesi.
Utilizzazione dell’energia o bilancio energetico
Energia lorda ( = calore di combustione) (100%)
Energia fecale
a) alimento indigerito
b) microbi intestinali e loro prodotti
c) secrezioni nell’intestino crasso
d) sfaldamento cellulare nell’intestino crasso
Energia digeribile = energia del cibo digerito) (40-90%)
Energia urine
Energia metano
Energia metabolizzabile (35-85%)
(5%) (5-10 % nei ruminanti
Aumento di calore Energia netta (15-65%)
Usata per il
Mantenimento
Usata per la per la
produzione (carne, latte, uova, fibra)
(energia ritenuta o bilancio energetico)
Produzione totale di calore
Da parte dell’animale
L’ingestione di un alimento è seguita da perdite di energia sotto forma di calore
prodotto dall’animale ed eliminato nell’ambiente o direttamente (radiazione,
conduzione, convezione) o indirettamente attraverso l’evaporazione di acqua. Se ad
un animale a digiuno viene somministrato dell’alimento, la sua produzione di calore
aumenta (incremento metabolico) e l’incremento può essere espresso in termini
assoluti (MJ/kg di S.S. di alimento) o relativi, quale proporzione dell’energia lorda o
dell’energia metabolizzabile.
La principale causa di questo incremento di calore è il limitato rendimento energetico
delle razioni attraverso le quali i principi nutritivi assorbiti vengono metabolizzati.
Ad esempio:
125
a) quando il glucosio è ossidato per la formazione di ATP, il rendimento dell’energia
libera catturata è solo di circa lo 0,69 e quindi per lo 0,31 la sua energia è persa come
calore;
b) il legame di un aminoacido all’altro richiede il dispendio di 4 legami altamente
energetici e se l’ATP che li fornisce è stato ottenuto dall’ossidazione del glucosio,
circa 2,5 MJ di energia viene persa come calore per ogni kg di proteine sintetizzate.
Un consumo di energia si verifica per la masticazione dell’alimento e per il suo
transito lungo il canale digerente e siccome l’energia chimica usata dall’organismo
per qualsiasi lavoro è degradata a calore, ne consegue inevitabilmente un incremento
di calore prodotto. Altro lavoro svolto all’interno dell’organismo è il movimento di
sostanze (ioni Na+, K
+) contro gradienti di concentrazione; anche questo lavoro
comporta un consumo di legami fosforici altamente energetici.
Nei ruminanti, una parte dell’energia che è persa come calore deriva dall’attività dei
microrganismi che vivono nell’apparato digerente; questa quota è nota come calore
di fermentazione ed è stimata pari al 5-10% dell’energia lorda dell’alimento.
Tolte queste perdite dall'E.M. rimane l'energia netta (E.N.) che servirà all'animale
per il suo mantenimento fisiologico (ENm) e per le sue produzione (ENp).
L'energia netta di mantenimento serve all'animale per espletare le funzioni
fisiologiche vitali (respirazione, circolazione, secrezioni endocrine ed esocrine,
nonché il tono muscolare che costituiscono il metabolismo basale), per il lavoro
muscolare dei movimenti spontanei e per la termoregolazione.
L'energia di mantenimento e gravidanza (ENmg) oltre che per il mantenimento serve
per gli invogli fetali, i fluidi fetali, l'accrescimento del feto, dell'utero e della
placenta. L'ENa (accrescimento) soddisfa le esigenze dipendenti dall'incremento
ponderali dei tessuti e dei depositi di grasso. L'ENl (lattazione) serve all'animale per
sopperire ai fabbisogni relativi alla produzione di latte in funzione della quantità e
del tenore lipidico. L'ENpd (prestazioni dinamiche) serve a sopperire ai fabbisogni
relativi a prestazioni dinamiche (lavoro, traino, corsa).
5.2 Metodi di misura del calore prodotto e ritenzione di energia
La produzione di calore può essere valutata direttamente con mezzi fisici, con
l’impiego di un calorimetro per l’animale (calorimetria diretta) oppure si stima
controllando gli scambi respiratori dell’animale, mediante camera respiratoria
(calorimetria indiretta).
Calorimetria diretta
Nelle 24 ore la perdita di calore da parte dell’animale è uguale a quello prodotto e la
perdita si ha per irradiazione, conduzione, convezione e per evaporazione di acqua
dai polmoni. Le perdite per evaporazione si valutano controllando il volume dell’aria
che è aspirata nella camera e misurando il suo livello di umidità all’entrata e
all’uscita. Nella maggior parte dei calorimetri, la perdita di calore è desunta dalla
quantità di acqua che circola nella camera e dalla differenza della sua temperatura
all’entrata e all’uscita del calorimetro. L’incremento metabolico dovuto ad un
alimento allo studio è dato dalla differenza del calore prodotto dall’animale a due
livelli alimentari come indicato in figura. I due livelli sono necessari perché una parte
del calore prodotta è dovuta al metabolismo basale dell’animale. Nell’esempio sotto
riportato, i due livelli di alimentazione adottati sono stati di 40 e 100 MJ di energia
metabolizzabile. L’incremento di 60 MJ (BD, nella figura) ha motivato l’aumento
CD nella produzione di calore, cioè un aumento di 24 MJ e quindi un rapporto pari a:
CD/BD o 24/60 = 0,4. Per ragioni di semplicità, la relazione fra produzione di calore
ed energia metabolizzabile ingerita è rappresentata da una retta (AB) ma
generalmente ciò non si verifica.
80
60 C
Produzione di calore
(MJ/giorno)
40
B D
20 A E
0
20 40 60 80 100
Energia metabolizzabile ingerita (MJ/giorno)
A = metabolismo basale; B e C rappresentano il calore prodotto a seguito
dell’ingestione di 40 e 100 MJ, rispettivamente, di energia metabolizzabile
Il controllo dei singoli alimenti viene eseguito somministrandoli da soli a due livelli
se, invece, si tratta di un alimento che, normalmente, non viene dato da solo il livello
più basso può essere ottenuto con un alimento che può essere dato da solo (fieno nei
ruminanti) e il livello più alto dalla razione base + l’alimento da valutare (es. avena).
I calorimetri per animali sono costosi per cui, il più delle volte, si ricorre alla
calorimetria indiretta.
Calorimetria indiretta.
I carboidrati, i grassi e le proteine vengono ossidati dall’organismo animale
con produzione di calore come negli esempi:
a) glucosio: C6H12O6 + 6 O2 > 6 CO2 + 6 H2O + 2,82 MJ
b) tripalmitina: C3H5(OOC.C15H31)3 + 72,5 O2 > 51 CO2 + 49 H20 + 32.04 MJ
In un animale che copre tutto il fabbisogno energetico ossidando solo glucosio, il
consumo di un litro di ossigeno corrisponde alla produzione di 2828/(6 x 22,4) =
20,95 kJ di calore. Questi valori sono noti come equivalenti termici dell’ossigeno e
sono usati in calorimetria indiretta per valutare la produzione di calore, a partire dal
consumo di ossigeno.
In un animale che catabolizza solo miscele di grassi, l’equivalente termico
dell’ossigeno è 19,61 kJ/l ed è 19,73 kJ/l se calcolato con l’equazione b) sopra
riportata. In genere, però, gli animali traggono la loro energia da una miscela di
principi nutritivi e, quindi, è necessario conoscere quanto ossigeno è stato consumato
per ogni principio nutritivo. Per conoscere ciò si parte dal quoziente respiratorio
(QR) che è il rapporto fra volume di CO2 prodotta e volume di O2 consumato
dall’animale. Considerando che, in determinate condizioni di temperatura e
127
pressione, eguali volumi di gas contengono un eguale numero di molecole, il QR può
essere calcolato dalle molecole di CO2 prodotte e di O2 consumato. Dall’equazione a)
il QR dei carboidrati risulta 6 CO2 / 6 O2 = 1 e dall’equazione b) quello dei grassi
risulta 51 CO2 / 72,5 O2 = 0,70.
Calcolo della produzione di calore di un bovino desunta dagli scambi respiratori e
dalla escrezione urinaria di azoto
Risultati delle prove per 24 ore
O2 consumato
CO2 prodotta
N escreto con le urine
392,0 l
310,7 l
14,8 g
Calore per il metabolismo proteico
Proteine ossidate
calore prodotto
O2 consumato
CO2 prodotta
14,8 x 6,25
92,5 x 18,0
92,5 x 0,96
92,5 x 0,77
92,5 g
1665 kJ
88,8 l
71,2 l
Calore per il metabolismo glucidico e lipidico
O2 consumato
CO2 prodotta
QR per quota non proteica
equivalente termico dell’O2 per QR = 0,79
calore prodotto
392,0 - 88,8
310,7 - 71,2
303,2 x 20,0
303,2 l
239,5 l
0,79
20,0 kJ/l
6064 kJ
Produzione totale di calore 1665 + 6064 7729 kJ
Se il QR di un animale è noto, le proporzioni in cui i carboidrati e i grassi sono stati
ossidati possono essere determinate usando delle apposite tabelle. Per esempio, un
QR di 0,9 indica che è stata ossidata una miscela del 67,5% di glucidi e 32,5% di
grassi; l’equivalente termico per questa miscela è quindi 20,60 kJ/l. Nella miscela
ossidata sono, in genere, presenti anche proteine e la quantità di proteine
catabolizzate può essere stimata dall’azoto eliminato con le urine, tenendo presente
che ad ogni grammo di proteina ossidata corrisponde l’escrezione urinaria di 0,16 g
di azoto (N).
Il calore medio di combustione delle proteine è di 22,2 kJ/g ma varia con la
composizione in aminoacidi; peraltro, considerando che le proteine non vengono
ossidate completamente, in quanto l’azoto non viene ossidato, il calore prodotto dal
catabolismo di un g di proteina diventa 18,0 kJ. Per le proteine il QR è di 0,8, infatti,
per ogni g di proteina ossidata si producono 0,77 l di CO2 e si consumano 0,96 l di
O2.
Il calore non viene prodotto solo quando i principi nutritivi organici sono ossidati, ma
anche quando vengono usati per la sintesi di componenti cellulari ma in questo caso
il calore prodotto comporta variazioni negli scambi respiratori uguali a quelle che si
osservano quando i principi nutritivi vengono ossidati completamente. Il rapporto fra
produzione di calore e scambi respiratori è alterato se la combustione dei grassi e dei
carboidrati è incompleta come avviene, ad esempio, in presenza di dismetabolie quali
la chetosi nella quale, gli acidi grassi non sono completamente ossidati a CO2 e H2O
ed il carbonio e l’idrogeno abbandonano il corpo animale come corpi chetonici. Una
incompleta ossidazione si osserva nei ruminanti anche in condizioni normali, in
quanto un sottoprodotto della fermentazione dei carboidrati nel rumine è il metano;
per questo motivo, la produzione di calore calcolata dagli scambi respiratori, nei
ruminanti, viene corretta deducendo 2 kJ per ogni litro di metano. Per semplicità,
alcune volte la produzione di calore viene calcolata controllando solo il consumo di
ossigeno. In questo caso se si adotta un QR di 0,82 ed un equivalente termico
dell’ossigeno di 20,0, l’errore della stima non dovrebbe superare il 3,5%. Inoltre,
considerando che l’equivalente termico dell’ossigeno per l’ossidazione delle proteine
è di 18,8 kJ/l e non è molto diverso da 20,0 utilizzato per l’ossidazione dei
carboidrati e i lipidi, se il calore prodotto dalle proteine è solo in piccola parte non si
ritiene dover fare una valutazione separata e, quindi, la determinazione dell’azoto
escreto con le urine può essere tralasciata.
L’apparecchiatura più comunemente usata per misurare gli scambi respiratori negli
animali è la camera respiratoria che può essere a circuito chiuso o a circuito aperto.
E’ costituita da una camera a tenuta d’aria, dove viene collocato l’animale e gli è
possibile mangiare, bere, essere munto; inoltre è possibile raccogliere le feci e le
urine. In quella a circuito aperto, l’aria è aspirata all’interno della camera e poi
eliminata, durante il passaggio si arricchisce di CO2 e cede O2. Sia l’anidride
carbonica che l’ossigeno possono essere valutati confrontando il volume e la
composizione dell’aria che entra ed esce dalla camera. Nella camera a circuito chiuso
l’aria che circola nella camera perde H2O e la CO2 passando attraverso soluzioni che
l’assorbono (idrato potassico, calce sodata) ritorna alla camera depurata; l’ossigeno
consumato dall’animale è rimpiazzato tramite una erogazione controllata di ossigeno
puro. Il peso dell’anidride carbonica prodotta si determina dall’incremento in peso
del materiale che l’assorbe. Sia il consumo di ossigeno che la produzione di anidride
carbonica devono essere alla fine corrette, sulla scorta delle differenze fra le quantità
presenti nell’aria che circola nell’apparecchio, all’inizio e alla fine dell’esperimento.
Il metano può accumularsi nell’aria che circola e la quantità presente è determinata
alla fine dell’esperimento. La camera a circuito chiuso richiede un’apparecchiatura
sofisticata per misurare, campionare e analizzare l’aria che vi circola mentre, quella a
circuito aperto non richiede ciò ma presenta l’inconveniente della necessità di un
grande quantitativo di materiale assorbente (per un bovino necessitano 100 kg di
calce sodata per assorbire la CO2 che produce giornalmente e 250 kg di gel di silice
per assorbire il vapore acqueo. Ultimamente, è stata costruita una camera a circuito
misto che elimina gli inconvenienti sopra detti.
Misura della ritenzione di energia mediante il bilancio del carbonio e dell’azoto.
Nell’animale in accrescimento o all’ingrasso, l’energia viene immagazzinata,
soprattutto, sotto forma di proteine e di grassi, mentre le riserve glucidiche sono
modeste e relativamente costanti. Le quantità di proteine e di grassi sintetizzati
possono essere stimate misurando la quantità di carbonio e azoto in entrata e in uscita
dall’organismo e, quindi, per differenza, le quantità ritenute. L’energia ritenuta può
essere calcolata moltiplicando le quantità dei principi alimentari immagazzinati per i
rispettivi valori calorici. Sia l’azoto che il carbonio entrano nell’organismo solo con
gli alimenti però mentre l’azoto lascia l’organismo con le feci e le urine, il carbonio è
rilasciato anche come metano e anidride carbonica e, quindi, la determinazione
richiede la camera respiratoria. Le modalità per calcolare l’energia accumulata,
partendo dai dati ottenuti con il bilancio del carbonio e dell’azoto, sono più
facilmente illustrate considerando un animale che abbia sintetizzato sia grasso che
proteine; in tale animale, le quantità di carbonio e di azoto sono maggiori di quelle
escrete (bilancio positivo). La quantità di proteine immagazzinate è calcolata
129
moltiplicando l’azoto trattenuto x 6,25 (1000/160) considerando che le proteine
corporee contengono 160 g di N/kg.
Calcolo dell’energia ritenuta (e del calore prodotto) nella pecora
Risultati dell’esperimento (per 24 ore) C (g) N (g) Energia (MJ)
Entrate 684,5 41,67 28,41
Escrezioni con le feci 279,3 13,96 11,47
Escrezioni con le urine 33,6 25,41 1,50
Escrezioni come metano 20,3 - 1,49
Escrezioni come CO2 278,0 - -
Bilancio 73,3 2,30
Energia metabolizzabile disponibile - - 28,41 - 14,46 = 13,95
Immagazzinamento di proteine e grasso
Proteine immagazzinate
Carbonio ritenuto come proteine
Carbonio ritenuto come grassi
Grassi immagazzinati
2,30 x 6,25 =
14,4 x 0,512 =
73,3 - 7,4 =
65,9 : 0,746 =
14,4 g
7,4 g
65,9 g
88,3 g
Ritenzione di energia e produzione di
calore
Energia ritenuta come proteine
Energia ritenuta come grassi
Totale energia ritenuta
Produzione di calore
14,4 x 23,6 =
88,3 x 39,3 =
0,34 + 3,47 =
13,95 - 3,81 =
0,34 MJ
3,47 MJ
3,81 MJ
10,14 MJ
Le proteine contengono anche 512 g di C/kg e basandoci su questo dato è facile
stabilire quanto carbonio è stato impegnato per la sintesi proteica. Il resto del C
trattenuto è immagazzinato come grassi e siccome questi contengono 746 g C/kg, le
quantità accumulate si ottengono dividendo per 0,746 il dato relativo al bilancio del
C, diminuito della quota di questo elemento utilizzata per la sintesi delle proteine.
L’energia corrispondente alle proteine ed ai grassi sintetizzati è valutata usando i
valori calorici medi dei tessuti corporei, che variano da una specie all’altra. Per i
bovini e gli ovini vengono consigliati: 39,3 MJ/kg per i grassi e 23,6 MJ/kg per le
proteine.
5.3. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per il mantenimento.
Per il mantenimento, l’animale ossida i principi nutritivi degli alimenti soprattutto
per coprire le spese energetiche per il lavoro e se i principi nutritivi non sono forniti
l’animale ossida le sue riserve di grasso. Quando i principi nutritivi non sono
sufficienti, il compito di provvedere alla sintesi di ATP occorrente è in gran parte
trasferito dalle riserve lipidiche dell’organismo ai principi nutritivi assorbiti. Se
l’energia di questi principi nutritivi assorbita è trasferita all’ATP con lo stesso
rendimento che caratterizza l’utilizzazione dei grassi corporei, l’animale non
produrrà alcun calore extra all’infuori di quello dovuto al consumo, alla digestione ed
all’assorbimento dell’alimento.
Il calore di fermentazione rientra in questa categoria, come quello proveniente dal
lavoro di digestione, dalla masticazione dell’alimento, dal suo transito lungo il tratto
digerente, dall’assorbimento dei principi nutritivi e dal loro trasporto nei tessuti.
Utilizzo energia
Spese energetiche
mantenimento
a) Ossidazione principi alimentari
b) ossidazione riserve corporee
Catabolismo grassi Produzione di energia: catturata da ATP
Rendimento energia
metabolizzabile per
mantenimento
a) Grassi = 0,70
- Monogastrici = 0,70
b) Glucosio:
- Poligastrici < 0,70 per perdite con fermentazioni
c) Proteine: rendimento diminuito del 20% per perdite
dovute a sintesi di urea
d) AGV: - differiscono molto fra loro
- rendimento più elevato se si usano miscele
rispettando le proporzioni presenti nel rumine
- rendimento più basso di quello del glucosio
Rendimento energia: monogastrici > poligastrici:
- rendimento AGV < glucosio
- perdita energia come calore di fermentazione
L’energia libera che deriva dal catabolismo dei grassi viene catturata
dall’ATP con un rendimento che può essere calcolato dalle reazioni descritte in
precedenza e stimata dell’ordine di 0,67; il glucosio ha un rendimento analogo, circa
0,70. Nei poligastrici il rendimento è ridotto a causa delle fermentazioni ruminali, ma
queste perdite si possono evitare iniettando il glucosio direttamente nell’abomaso.
Quando le spese energetiche del mantenimento sono sostenute dalle proteine, un
aumento di calore che è di circa 0,2 ed è dovuto in parte alla richiesta di energia per
la sintesi dell’urea. Nei ruminanti, l’energia per il mantenimento è in gran parte
assorbita sotto forma di acidi grassi volatili e da esperienze condotte su pecore a
digiuno, infondendo nel rumine i singoli acidi grassi volatili puri è risultato che
esistono delle differenze notevoli fra il rendimento con cui l’energia dei singoli acidi
è utilizzata. Però, quando questi acidi vengono somministrati insieme, sotto forma di
miscele che rispecchiano i rapporti estremi fra acidi volatili che possono trovarsi nel
rumine, il loro rendimento di utilizzazione appare uniformemente alto; comunque,
questo rendimento è inferiore a quello del glucosio e ciò insieme al fatto che i
ruminanti perdono energia sotto forma di calore di fermentazione, porta alla
conclusione che per il mantenimento, l’energia metabolizzabile è utilizzata con un
rendimento maggiore nei monogastrici, che assorbono il glucosio come tale.
131
Rendimento dell’utilizzazione per il mantenimento dell’energia metabolizzabile
in vari principi alimentari e alimenti
Ruminanti Suini Pollame
Costituenti alimentari
Glucosio
Amido
olio di oliva
caseina
0,94 (1,0)*
(0,82)*
0,95
0,88
0,97
0,76
0,89
0,97
0,84
Prodotti di
fermentazione
ac. Acetico
ac. Propionico
ac. Butirrico
miscela a**
miscela b**
0,59
0,86
0,76
0,87
0,86
Concentrati
Mais
dieta bilanciata
0,80
0,81
Foraggi
Loglio essiccato
fieno di prato
fieno di medica
erba insilata
0,76
0,70
0,82
0,65-0,71
* i valori in parentesi si riferiscono a somministrazione con sonda duodenale
** miscela a = acetico 0,25; propionico 0,45; butirrico 0,30; Miscela b = acetico 0,75; propionico 0,15; butirrico 0,10
5.4. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile ai fini produttivi
L’energia può essere accumulata nei grassi di deposito, nei muscoli, nel latte,
nelle uova, nella lana ed è contenuta principalmente nei grassi e nelle proteine di
questi prodotti ad eccezione del latte dove molta energia è contenuta sotto forma di
carboidrati (lattosio).
Il rendimento con il quale l’energia metabolizzabile è usata ai fini produttivi dipende,
soprattutto, dal rendimento energetico delle vie metaboliche che portano alla sintesi
dei grassi e delle proteine, a partire dai principi nutritivi assorbiti. In generale, la
sintesi sia dei grassi che delle proteine rappresenta un processo assai più complicato
rispetto al catabolismo, ciò perché tutti i materiali necessari per la sintesi devono
essere disponibili e devono essere disponibili nelle giuste proporzioni e usati al
momento giusto. Ciò rende difficile valutare il rendimento teorico dei processi di
sintesi. La sintesi di un trigliceride da acetato e glucosio avviene con un rendimento
teorico dello 0,81 mentre il rendimento dovrebbe essere maggiore se la sintesi dei
grassi parte dai trigliceridi alimentari.
Nella sintesi delle proteine, il costo energetico per legare i singoli aminoacidi è
relativamente basso e, quindi, se questi sono tutti presenti e nelle giuste proporzioni,
il rendimento teorico della proteinogenesi è all’incirca dello 0,88, questo valore si
abbassa se alcuni aminoacidi devono essere sintetizzati e altri deaminati. La sintesi
del lattosio a partire dal glucosio può avvenire con un rendimento di 0,94 ma, nella
vacca da latte, il glucosio utilizzato proviene in gran parte dall’acido propionico ed in
parte da aminoacidi (gluconeogenesi); per questo, nei ruminanti il rendimento della
sintesi del lattosio è più basso.
Utilizzo energia per produzioni
Energia
a) Accumulata in:
- grassi deposito, muscoli
- latte, uova, lana
b) Contenuta in: grassi, proteine, lattosio (latte)
Rendimento
energia
produttiva
a) Rendimento energetico delle vie metaboliche per la sintesi di
grassi e proteine
b) Presenza nella giusta misura del materiale necessario alla sintesi
Sintesi
grassi
a) Da acetato e glucosio: rendimento = 0,81
b) Da trigliceridi alimentari: rendimento più elevato
Sintesi
proteine
a) In presenza di tutti gli aminoacidi nelle giuste proporzioni:
rendimento = 0,88
b) Rendimento più basso se è necessaria la sintesi e/o deaminazione
di aminoacidi
Sintesi
lattosio
a) da glucosio: rendimento = 0,94
b) da ac. Propionico e aminoacidi: rendimento più basso (poligastrici)
d
Quando l’apporto di alimento aumenta, l’energia metabolizzabile in eccesso,
rispetto al fabbisogno di mantenimento, sopporta l’intero carico delle spese
metaboliche, dunque un rendimento nella sua utilizzazione sempre più basso. Il
concetto è illustrato nella figura sotto riportata:
- quando l’apporto di energia metabolizzabile sale da 0 al livello di mantenimento
(AC), la produzione di calore aumenta del tratto BC;
- a livello di mantenimento, l’apparente incremento di calore è BC/AC, la linea che
indica il metabolismo basale è presa come base di calcolo;
- quando l’apporto di energia metabolizzabile sale al livello di mantenimento,
diminuisce la produzione di calore dovuta al metabolismo dei grassi di deposito
(triangolo ADE); il rapporto BD/AC rappresenta perciò una stima più realistica del
rendimento dell’energia metabolizzabile dell’alimento usata per il mantenimento
- la linea di base DE, in questo caso, è nota come valore base minimo della
produzione di calore
- al di sopra del livello di mantenimento l’incremento di calore è espresso dal
rapporto FG/BG
Questi dati sono stati calcolati prendendo in considerazione le più opportune vie
metaboliche, ma quando si considera il rendimento con il quale l’energia
metabolizzabile può essere utilizzata, è importante non dimenticare che esso viene
ridotto da quelle perdite di energia riconducibili al consumo, alla digestione e
all’assorbimento degli alimenti. Misurando in un animale, il rendimento energetico
con cui una singola sostanza, come una proteina o un singolo prodotto, come il latte,
vengono sintetizzati si incontra la difficoltà dovuta al fatto che gli animali è solo
133
raramente che immagazzinano energia solo sotto forma di una singola sostanza o di
un solo prodotto.
Rapporto tra la produzione di calore e l’ingestione di energia metabolizzabile. La
produzione di calore totale è indicata dalla linea ABF
2 F
Produzione di
Produzione di Calore a livello
calore (multipli del B G di mantenimento
metabolismo basale
1 A C Metabolismo basale
E D Valore base minimo della
Produzione di calore
0 1 2
Apporti di energia metabolizzabile (multipli del fabbisogno di mantenimento)
Un’eccezione è data dall’animale adulto, né gravido, né in lattazione, per il quale si
considera che l’energia venga immagazzinata quasi interamente sotto forma di
grasso. Nel caso di principi alimentari puri, i monogastrici utilizzano il grasso con
maggior rendimento dei carboidrati e questi con maggior rendimento delle proteine.
Il rendimento è minore nei poligastrici rispetto ai monogastrici. Il rendimento per il
mantenimento è più elevato rispetto a quello della produzione del grasso e la ragione
principale è dovuta al fatto che l’incremento nella produzione di calore dovuta ai
principi alimentari, ed agli alimenti, misurata al di sotto del mantenimento non
rappresenta il vero rendimento della conversione energetica, ma il rendimento
relativo rispetto all’utilizzazione delle riserve organiche (soprattutto grasso). In un
animale che digiuna, la produzione del calore è dovuta:
a) trasferimento dell’energia dal grasso all’ATP;
b) utilizzazione dell’ATP per i processi di importanza vitale.
La seconda importante differenza nel rendimento degli alimenti, se utilizzati per il
mantenimento oppure per l’ingrasso, sta nella grande variabilità che caratterizza gli
alimenti destinati ai ruminanti.
Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per la produzione del latte e delle
uova
Queste produzioni animali raramente avvengono da sole; in genere sono
accompagnate da guadagno o perdita di grasso o di proteine del corpo della lattifera o
dell’ovaiola. Ciò significa che, la stima del rendimento specifico della sintesi del latte
o delle uova deve usualmente essere ottenuta tramite una ripartizione matematica
dell’intera energia metabolizzabile utilizzata dall’animale. Dai risultati di ricerche
ultime risulta che:
- l’energia metabolizzabile viene utilizzata dalle lattifere con un rendimento medio
dello 0,60, che è poco influenzato dalla natura della dieta;
- le riserve organiche d’energia possono essere convertite in latte con un rendimento
energetico dello 0,80;
- gli animali in lattazione se accumulano energia (soprattutto sotto forma di grasso)
realizzano questi accumuli utilizzando l’energia metabolizzabile con un insolito
rendimento (0,60).
Rendimento energia per la produzione del latte e delle uova
Produzione latte
a) Rendimento energia alimentare = 0,60
b) “ “ riserve corporee = 0,80
Animali in lattazione vs
Animali ingrasso
- maggior rendimento energia: accumulo energia sotto
forma di lattosio, acidi grassi a catena corta
a) rendimento sintesi grasso di riserva = 0,60
b) proteine del latte allontanate dal corpo e non soggette a
turnover degli aminoacidi
Sintesi uova
a) rendimento energia metabolizzabile = 0,60 - 0,70
b) rendimento sintesi proteica = 0,45 - 0,50
c) “ “ lipidica = 0,75 – 0,80
d) “ “ tessuti corporei = 0,75 – 0,80
Il maggior rendimento dell’animale in lattazione rispetto a quello all’ingrasso, forse
in parte, è dovuto all’accumulo di energia nel latte sotto forma di lattosio e di acidi
grassi a corta catena; il maggior rendimento della sintesi delle proteine del latte può
dipendere dal fatto che queste proteine vengono rapidamente allontanate dal corpo e
non subiscono il turnover di aminoacidi che caratterizza la maggior parte delle
proteine dell’organismo. Si ritiene che le galline utilizzino l’energia metabolizzabile
per la sintesi delle uova con un rendimento dello 0,60 - 0,70; la sintesi delle proteine
dell’uovo avverrebbe con un rendimento dello 0,45 - 0,50 e quella dei lipidi con una
resa dello 0,75-0,80. Nelle galline ovaiole, anche la sintesi dei tessuti corporei
avviene con un rendimento elevato (0,75 - 0,80).
In sintesi, con i metodi moderni, l’energia contenuta in alimenti destinati ai ruminanti
può essere così determinata:
a) Energia lorda: si stima in base all’analisi tipo con equazioni che attribuiscono a
ciascun costituente chimico il suo contenuto energetico medio (Hoffmann e
Schiemann, 1980):
EL (MJ/Kg S.S.) = 0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x CG + 0,175 x EI
dove PG, LG, CG, ed EI sono i contenuti (% sulla S.S.) di proteina grezza, lipidi
grezzi, cellulosa grezza ed estrattivi inazotati;
b) Energia digeribile: viene stimata a partire dalla composizione chimica tipo e dai
coefficienti di digeribilità dei suoi componenti (Hoffmann e Schiemann, 1980):
ED (MJ/Kg S.S.) = 0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x Cg x dCG +
0,170 x EI x dEI
c) Energia metabolizzabile: la stima si ottiene con apposite equazioni, basate sul
contenuto di principi nutritivi digeribili (Nehring e Haenlein, 1973):
EM (MJ/Kg S.S.) = 0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x CG x dCG
+ 0,152 x EI x dEI.
135
Rendimento per l’ingrasso dell’energia metabolizzabile (da McDonald et al., 1992)
Ruminanti Suini Polli
Principi alimentari
Glucosio 0,54 (0,72)* 0,74
Saccarosio 0,58 0,75 0,75
Amido 0,64 0,76 0,78
Cellulosa 0,61 0,71
Olio di arachidi 0,58 0,86 0,78
Proteine miste 0,51 0,62 0,55
Caseina 0,50 (0,65) 0,60
Prodotti di fermentazione
Acido acetico 0,33-0,60 0,60
Acido propionico 0,56
Acido butirrico 0,62
Miscela A** 0,58
Miscela B** 0,32
Acido lattico 0,75
Etanolo 0,72
Concentrati
Orzo 0,60 0,77 0,73
Avena 0,61 0,68 0,73
Mais 0,62 0,78 0,74
Farina di estrazione di arachidi 0,54 0,58 0,64
Farina di estrazione di soia 0,48 0,57 0,64
Foraggi
Loglio essiccato (giovane) 0,52
Loglio essiccato (maturo) 0,34
Fieno di prato 0,30
Fieno di medica 0,52
Erba insilata 0,21-0,61
Paglia di frumento 0,24
*I valori in parentesi si riferiscono a somministrazione per sonda duodenale
** Miscela A = acetico 0,25; propionico 0,45; butirrico 0,30
Miscela B = acetico 0,75; propionico 0,15; butirrico 0,10
Rispetto ai coefficienti di valore energetico dei componenti chimici impiegati per la
stima dell’ED, quelli utilizzati per la stima di EM sono diminuiti soprattutto per la
PG e la CG, che contribuiscono rispettivamente alle perdite energetiche urinarie e
con i gas di fermentazione.
L’INRA propone di stimare l’EM a partire dall’ED: EM = ED x EM/ED dove:
EM/ED = 0,8417 - 9,9 x 10-5
x CG - 1,96 x 10-4
x PG - 0,0221 x LA
in cui CG e PG sono i tenori di cellulosa grezza e proteina grezza espressi in g/KG di
sostanza organica e LA o livello alimentare è il rapporto fra l’EM ingerita e quella
necessaria per il mantenimento dell’animale (ad es. LA = 3 quando l’energia ingerita
è tripla di quella necessaria).
Calcolare l’EN di un fieno avente le seguenti caratteristiche
PG LG CG EI
Composizione chimica (% S.S.) 8,5 1,6 32,8 49,6
Digeribilità (%) 46 27 61 65
EL = 0,239 x 8,5 + 0,398 x 1,6 + 0,200 x 32,8 +0,175 x 49,6 = 17,9 MJ/Kg S. S.
ED = 0,239 x 8,5 x 0,46 + 0,379 x 1,6 x 0,27 + 0,183 x 32,8 x 0,61 + 0,170 x
49,6 x 0,65 = 10,2 MJ/Kg S. S.
EM = 0,181 x 8,5 x 0,46 + 0,323 x 1,6 x 0,27 + 0,150 x 32,8 x 0,61 + 0,152 x
49,6 x 0,65 = 8,7 MJ/Kg S. S.
q = 8,7/17,9 = 0,49
Km = 0,054 + 0,287 x 0,49 = 0,69
Kl = 0,600 + 0,240 x (0,49 - 0,57) = 0,58
Ka = 0,06 + 0,780 x 0,49 = 0,39
ENm = 8,7 x 0,69 = 6,0 MJ/Kg S.S:
ENl = 8,7 x 0,58 = 5,0 MJ/Kg S.S:
ENa = 8,7 x 0,39 = 3,4 MJ/Kg S.S:
Questa equazione indica, quindi, come il rapporto fra EM e ED sia circa l’85% e
venga ridotto con l’aumentare del tenore in fibra grezza e proteina grezza
nell’alimento per effetto del contributo positivo di queste sostanze rispettivamente
alla produzione di metano e all’escrezione di energia urinaria, mentre sia aumentato
dal crescere del livello alimentare che, implicando una maggiore ingestione,
comporta una diminuzione del tempo di permanenza nel rumine e quindi delle
perdite di fermentazione.
d) Energia netta: in via preliminare è necessario calcolare la metabilizzabilità
dell’Energia lorda, espressa dal rapporto q = EM/EL.
Visto che l’energia lorda contenuta nella sostanza secca degli alimenti è abbastanza
costante, il rapporto q è solo un modo differente per esprimere il contenuto di EM
nell’alimento e, quindi, i coefficienti K di utilizzazione dell’EM in EN varieranno al
crescere di q in maniera molto simile a quanto si verifica al crescere della
concentrazione di EM sulla sostanza secca. Considerando che il valore di K è
proporzionale a q può essere ricavato con particolari equazioni:
Km = 0,054 + 0,287 x q (Van Es, 1978)
Kl = 0,600 + 0,240 x (q - 0,57) (Van Es, 1975)
Ka = 0,06 + 0,780 x q (Blaxter, 1974)
e l’energia netta viene calcolata moltiplicando EM per q
I ricercatori dell’INRA, per semplificare la valutazione degli alimenti, hanno
considerato che gli animali in accrescimento destinano circa i 2/3 dell’EM al
mantenimento e 1/3 all’accrescimento-ingrasso.
Il coefficiente di utilizzazione dell’EM di questi animali (Kma) sarà quindi per 2/3
dovuto al Km e per 1/3 al Ka dell’alimento considerato e quindi si può impostare
l’equazione:
Kma = Km x Ka x 1,5/ Ka + 0,5 x Km e la stima con questo sistema si conclude
calcolando le UF carne e latte:
UFC = EM x Kma / 7,62; UFL = EM x Kl / 7,11
dove 7,62 rappresenta il valore energetico (MJ/Kg) di una UFC e corrisponde
all’energia netta di mantenimento e di ingrasso di un Kg di orzo, mentre 7,11 è il
137
valore calorico di una UFL e corrisponde all’energia netta di lattazione di un Kg di
orzo.
Utilizzo energia in animali in accrescimento
Utilizzo Energia
metabolizzabile
2/3 per mantenimento
1/3 per accrescimento
Coefficiente
utilizzazione
E.M.
a) 2/3 dovuto al Km
Kma = Km x Ka x 1,5/Ka + 0,5 x Km
b) 1/3 dovuto al Ka
U.F.
UFC = EM x Kma / 7,62
UFL = EM x Kl / 7,11
UFC
60% E.M. orzo (11,3 MJ/Kg t.q.) usata per mantenimento (Km = 75,6 %)
40% E.M. usata per l’accrescimento (Ka = 55,4 %)
Rendimento medio Km + Ka = 67,5
(67,5 x 11,3 = 7,62)
UFL Kl = 63% che moltiplicato x 11,3 = 7,11
Il valore più elevato fornito per l’UFC rispetto all’UFL deriva dal fatto che, nel primo
caso, circa il 60% dell’EM dell’orzo (11,3 MJ/ Kg t.q.) è utilizzato per il
mantenimento con un Km del 75,6% e il restante 40% è impiegato per
l’accrescimento con un Ka del 55,4%, con un rendimento medio del 67,5% che,
moltiplicato per 11,3 dà 7,62 MJ. Nel caso della produzione del latte, invece, si
considera un Kl del 63%, che fornisce quindi 7,11 MJ
CAP. VI. DETERMINAZIONE DEL VALORE NUTRITIVO DEGLI ALIMENTI
6.1. Generalità
La determinazione del valore nutritivo degli alimenti ha sempre rivestito un
ruolo centrale negli studi dei nutrizionisti. Per un razionamento scientifico degli
animali bisogna affrontare due problemi principali:
a) la valutazione dei loro fabbisogni in principi alimentari;
b) la scelta degli alimenti che possano soddisfare queste esigenze.
Per i fabbisogni dell’animale si prendono in considerazione, soprattutto, quelli
energetici e ciò perché i principi alimentari che forniscono energia sono quelli più
rappresentati negli alimenti e, quindi, se una razione dovesse essere formulata
tenendo soprattutto conto degli altri fabbisogni, se poi dovesse essere carente da un
punto di vista energetico richiederebbe un cambiamento radicale. Invece, una carenza
di minerali o vitamine può essere corretta aggiungendo alla razione degli integratori.
Altra caratteristica che distingue i principi apportatori d’energia dagli altri è il modo
in cui le prestazioni produttive rispondono alle quantità fornite. La disponibilità
d’energia imprime il passo all’attività produttiva e l’animale dimostra di rispondere
regolarmente ad ogni cambiamento dell’apporto energetico. Quando, però, altri
principi sono disponibili in quantità appena sufficienti, rispetto al fabbisogno, è
probabile che l’animale ingerisca una maggiore quantità d’energia. Così facendo, si
ha un accumulo di grasso di deposito e di conseguenza potrebbe aumentare il
fabbisogno di minerali e vitamine coinvolti nei sistemi enzimatici della lipogenesi e
allora si potrebbe instaurare una carenza di questi principi. Da ciò la conclusione che
ci deve essere un buon equilibrio fra l’apporto d’energia e gli altri principi nutritivi
della dieta.
L’energetica alimentare si occupa di due aspetti importanti:
a) la misura del valore energetico degli alimenti;
b) la misura dei fabbisogni energetici degli animali.
Il valore energetico degli alimenti può essere espresso in energia: lorda, digeribile,
metabolizzabile, netta. L’energia netta sembrerebbe l’espressione più logica in
quanto rappresenta direttamente l’energia richiesta dall’animale. Il metodo
dell’energia netta non è, comunque, così semplice come può sembrare in quanto i
singoli alimenti dimostrano un valore in energia netta che varia per le differenti
funzioni animali (mantenimento, produzione della carne, produzione del latte) e
quindi le tavole che riportano il valore nutritivo degli alimenti dovrebbero indicare
due o più valori di energia netta per ogni alimento; ciò significa che, i metodi di
razionamento basati sull’energia netta sono molto approssimativi. Invece, il valore
nutritivo in energia metabolizzabile può essere espresso, con maggiore
approssimazione, con un unico valore ed è per questo che l’energia metabolizzabile
viene di preferenza usata per indicare il valore nutritivo degli alimenti in parecchi
metodi di razionamento. Con l’energia metabolizzabile, però, il valore nutritivo degli
alimenti ed i fabbisogni degli animali non sono direttamente paragonabili, in quanto
l’energia metabolizzabile, a differenza di quella netta, non rappresenta direttamente
l’energia richiesta dall’animale. Per superare l’ostacolo bisogna poter calcolare
l’equivalenza fra energia metabolizzabile ed energia netta in ogni specifica situazione
di razionamento; cioè, bisogna conoscere il rendimento con il quale l’energia
metabolizzabile è utilizzata per le varie produzioni (carne, latte, uova).
Una grande attenzione è stata rivolta alla formulazione di unità di misura del
valore energetico degli alimenti di facile applicazione. I metodi per valutare il valore
139
energetico degli alimenti attualmente utilizzati sono: unità amido, unità foraggiere, il
T.D.N. e l'energia netta.
6.2. Metodo delle unità amido
Il metodo è stato messo a punto da Kellner e prende come unità di misura del
valore nutritivo l'energia contenuta in un Kg di amido; l'unità amido (U.A.)
rappresenta un’unità di energia netta corrispondente a 2356 Kcal. Le prove di
alimentazione sono state condotte in camere respiratorie su bovini adulti di 600-650
Kg di peso vivo; fu stabilita la razione di mantenimento, con la cui somministrazione
gli animali non manifestavano variazioni di peso, poi sono state aggiunte nella dieta
di base quantità unitarie di vari principi nutritivi e di foraggi. Le prove furono fatte in
camera respiratoria per avere la possibilità di effettuare il bilancio del carbonio e
dell'azoto e, quindi, determinare il guadagno o la perdita dell'organismo. Di seguito si
riporta un esempio ripreso dal Borgioli:
Azoto Carbonio
Entrata
g
Uscita
g
Entrata
g
Uscita
g
Alimenti 390,55 5.668,2
Feci 105,69 1.456,9
Urina 263,76 283,3
Gas respiratori e digestivi - 3.247,9
Guadagno - + 21,10 - + 680,1
Totali 390,55 390,55 5.668,2 5.668,2
Proteine sintetizzate dall’organismo = 21,6 x 6 = 126,6 g
Contenuto delle proteine in C: 126,6 x 0,5254 = 66,5 g
Carbonio fissato sotto forma di grassi: 680,1 - 66,5 = 613,6 g
Grasso sintetizzato dall’animale: 613,6 x 1,307 = 802,2 g
Il bilancio dell'animale si chiude con un guadagno di 21,1 g di azoto, equivalenti a
21,1 x 6 = 126,6 g di proteine sintetizzate dall'organismo (per le proteine della carne
il valore medio del coefficiente stechiometrico è 6 anziché 6,25). Queste sostanze
proteiche contengono 126,6 x 0,5254 = 66,5 g di carbonio, che vanno detratti dal
guadagno complessivo di questo elemento; cioè 680,1 - 66,5 = 613,6 sono i grammi
di carbonio fissati nel corpo dell'animale sotto forma di grasso in quanto, le
variazioni del contenuto di glicogeno sono trascurabili se l'animale si trova in
condizioni normali di nutrizione. La quantità di carbonio predetta, moltiplicata per la
costante stechiometrica 1,307, dà infine la quantità di grasso che si è accumulata
nell'organismo del bovino (= 802,1 g).
Il bilancio materiale dell'idrogeno e dell'ossigeno non è generalmente necessario
perché esistono rapporti ben definiti fra il contenuto in N e C degli escreti ed il
contenuto in H e O dei medesimi.
Con i suoi esperimenti, Kellner osservò che: 1 Kg di amido si trasforma in 248 g di
grasso, 1 Kg di proteine in 235 g e 1 Kg di grassi (di semi oleosi) si trasforma in 598
g di grasso. Queste quantità furono definite potere adipogeno delle varie sostanze
nutritive.
Fatto uguale ad 1 il valore adipogeno dell'amido (248 g/Kg, pari a 2.360 Kcal), si
possono ricavare, per rapporto, i diversi equivalenti riferiti alla quota digeribile di:
Proteine pure 0,94
Grassi dei foraggi 1,91
Grassi di concentrati non oleosi 2,12
Grassi di semi oleosi e derivati 2,41
Carboidrati (fibra grezza + estrattivi inazotati 1,00
di cui va tenuto conto nel calcolo del valore amido teorico di un alimento,
conoscendo il suo contenuto in sostanze nutritive digeribili.
In pratica, considerato il costo energetico del lavoro digestivo ed assimilativo degli
alimenti, il loro potere adipogeno risulta più basso rispetto a quello ricavabile tenuto
conto delle loro sostanze digeribili e del predetto valore adipogeno. Secondo Kellner,
i coefficienti di utilizzazione per i quali moltiplicare i valori amido teorici sono pari
a: 100% o poco meno per i concentrati in genere; 60-90% per i foraggi verdi ed
insilati; 50-80% per i fieni e 20-50% per la paglia. Un modo semplice per trovare il
valore amido reale di un alimento conoscendone la composizione chimica consiste
nel togliere al valore amido teorico una quota ottenuta moltiplicando per i seguenti
coefficienti:
fibra (%) fattore correzione
superiore a 16 0.58 U.A.
16-14 0,53 "
12-14 0,48 "
10-12 0,43 "
8-10 0,38 "
6-8 0,34 "
3-5 0,29 "
Le detrazioni relative a contenuti intermedi di fibra si possono calcolare per
interpolazione lineare, secondo la formula: Df = 0,58 - 0,0242 (16- f) dove con Df è
indicata la detrazione e con f il contenuto percentuale in fibra.
Es.: Calcolare il valore nutritivo reale in unità amido di un'erba fresca (s.s. = 24 Kg)
aventi le seguenti caratteristiche:
Grezzi
g
digeribilità
%
digeribili
g
Protidi 2,40 71 1,70
Lipidi 0,80 50 0,40
Estrat. Inazot. 9,60 66 6,33
Fibra 6,80 43 2,92
Il suo valore nutritivo in unità amido teoriche è pari a:
141
Protidi digeribili 1,70 x 0,94 = 1,598
Lipidi digeribili 0,40 x 1,91 = 0,764
Estrat. inazotati 6,33 x 1,00 = 6,330
Fibra digeribile 2,92 x 1,00 = 2,920
Totale 11,612
Da questo bisogna togliere il "coefficiente di utilizzazione" che è uguale:
6,80 (contenuto in fibra) x 0,36 (ricavato dalla formula di cui sopra) = 2,448;
quindi, le unità amido reali saranno 11,612 - 2,448 = 9,164.
Gli incrementi di peso, attribuibili ad un aumento della quantità di depositi adiposi,
trattandosi di animali adulti, fornivano quindi un'indicazione sul valore adipogenetico
delle diverse sostanze alimentari. Le prove di alimentazione con foraggio misero in
luce che, in effetti, era depositata una quantità di grasso inferiore a quella teorica;
questa riduzione risultò direttamente proporzionata al contenuto in fibra grezza, in
quanto tale composto era causa di maggiore lavoro digestivo e di aumento di perdite
dovute all'elevata produzione di gas di fermentazione ruminale.
Gli alimenti furono quindi distinti in due gruppi:
- alimenti a produttività piena, in cui i valori teorici sono molto prossimi a quelli
ottenuti sperimentalmente;
- alimenti a produttività parziale, caratterizzati da valori teorici nettamente superiori
rispetto a quelli reali.
Queste detrazioni, proposte da Kellner, risultarono eccessive finendo per penalizzare
il valore dei foraggi rispetto a quello dei concentrati.
Per quanto concerne il calcolo della digeribilità dei principi alimentari, i dati più
attendibili sono quelli che si ottengono da prove di digeribilità in vivo su animali
(bovini, ovini) appositamente alimentati per tali determinazioni. Tale metodo è però
molto oneroso e di solito ci si avvale dei coefficienti di digeribilità tabulati per i
diversi alimenti (Morrison, INRA, Kellner).
Purtroppo, la maggior parte degli alimenti, per ragioni fisiologiche e di appetibilità,
non possono essere somministrati da soli, ma è necessario ricorrere all’aggiunta di un
alimento base a digeribilità nota. Il successivo calcolo della digeribilità dell’alimento
in studio presuppone che la somministrazione di un alimento unito ad altri non
influisca sulla sua digeribilità e su quella degli altri componenti della razione. Spesso
ciò non è vero: l’aggiunta di concentrati a una dieta basata su foraggi, per esempio
porta, perlopiù, a una riduzione della digeribilità della frazione fibrosa, causa il
rapido attacco della flora microbica sugli estrattivi inazotati dei concentrati con
produzione di acidi grassi volatili (AGV) e conseguente abbassamento del pH che
deprime l’attività dei batteri cellulosolitici. L’effetto opposto si nota quando a un
alimento fibroso (es. paglia) è aggiunto un supplemento proteico che favorisce lo
sviluppo della microflora ruminale. Per meglio chiarire il concetto, riportiamo un
esempio tratto da un lavoro di Malossini e Martilllotti (1972). Si supponga che il
prodotto A presenti un coefficiente di digeribilità (DA) dell’80% e B del 60% e che
A entri nella razione nel rapporto del 35%. In assenza di interazione, la digeribilità
(DT) della miscela A + B è:
DT = (35 x80) + (65 x 60) : 100 = 67%
Se invece l’aggiunta di A deprime la digeribilità di B, in modo che questa scenda, per
es.: al 58%, si ha:
DT = (35 x 80) + (65 x 58) : 100 = 65,7%
Poiché l’incognita è DA, si ottiene: DA = (100 x (65,7 - 60) : 35) + 60 = 76,3%
La digeribilità di A risulta, quindi, sottostimata. In maniera analoga si incorrerebbe in
un errore di sovrastima nel caso di interazione positiva. In ogni caso, è sempre
preferibile utilizzare i dati dei diversi coefficienti di digeribilità tabulati per i vari
alimenti piuttosto che desumerli dalla tabella Leroy; quest’ultima fornisce i
coefficienti di digeribilità dei vari principi alimentari in funzione del contenuto in
fibra sulla sostanza secca.
Tabella - Coefficienti di digeribilità dei principi alimentari in funzione del tenore in
fibra grezza dei foraggi (da Leroy)
Coefficienti di digeribilità
% fibra sulla
sostanza secca
Protidi Lipidi Estrattivi
inazotati
Fibra
2 83,5 77,5 89,5 78,5
3 82,5 76,5 88,75 77,75
4 81,5 75,5 88 77
5 80,5 74,5 87 76
6 80 73,5 86 75
7 79 72,75 85 74,25
8 78 72 84 73,5
9 77,25 71 83,25 72,5
10 76,5 70 82,5 71,5
11 75,75 69 81,75 70,5
12 75 68 81 69,5
13 74 67,25 80 68,75
14 73 66,5 79 68
15 72,25 65,75 78,25 67,25
16 71,5 65 77,5 66,5
18 69,5 63 75,5 64,5
20 68 61 74 62,5
22 66,5 59,5 72,5 61
24 65 57,5 70,5 59
26 63 56 69 57,5
28 61.5 54 67 55,5
30 60 52,5 65,5 54,5
32 58 50,5 63,5 52,5
34 56 49 62 51
36 55 47,5 60 49,5
38 53 45,5 58,5 47,5
40 51.5 44 56,5 46
42 49,5 42 55 44
44 48 40 53 42
46 46 38,5 51,5 40,5
48 44,5 37 50 39
50 43 35 48 37
Tali coefficienti sono spesso assai approssimativi e penalizzano la digeribilità degli
alimenti ricchi in fibra, senza distinguere di che fibra si tratti (paglia e fettucce di
143
bietola hanno fibre ben diverse). Attualmente, le UF alimentari vengono per lo più
calcolate applicando i coefficienti di digeribilità di Leroy.
Per una maggiore comodità di calcolo e per una maggiore precisione in caso di valori
di fibra intermedi a quelli tabulati da Leroy, si riportano le seguenti equazioni
ricavate dalla tabella di Leroy:
1) dPG = (84,8714 - 0,09343 x FG) /100
2) dLG = (78,9 - 0, 088 x FG) /100
3) dFG = (89,2857 - 0,08571) x FG) / 100
4) dEI = (91,3571 - 0,08714 x FG) / 100
(dove FG = g/kg SS)
E' da sottolineare però che l'U.A. assume differenti valori energetici nelle
varie produzioni, nelle diverse specie ed età degli animali e del singolo individuo. Per
effetto della migliore utilizzazione dell'energia metabolizzabile il contenuto
dell'energia netta dell'unità amido è di: 3.100 Kcal per il mantenimento, 2.950 per la
produzione del latte e 2.360 Kcal per l'accrescimento e l'ingrasso. Ciò indica che, il
rendimento dell'energia è maggiore se è utilizzata per il mantenimento e minore se
utilizzata per la produzione della carne. Nelle singole specie la stessa U.A. assume i
seguenti valori:
bovini g 248 di grasso = 2.360 Kcal
ovini g 310 " " = 2.950 "
suini g 367 " " = 3.550 "
conigli g 273 " " = 2.590 "
polli g 252 " " = 2.390 "
In sintesi per calcolare le UA di un alimento o di una razione bisogna effettuare i
seguenti passaggi:
1) determinazione analitica o stima mediante tabelle del contenuto in PG, LG, FG,
ed EI;
2) calcolo dei coefficienti di digeribilità di PG, LG, FG, ed EI;
3) calcolo del contenuto in principi nutritivi digeribili (PD, LD, FD, ed EID)
dell’alimento (es. PD = PG x dPG (g/kg t.q.);
4) calcolo del valore amido lordo (VAL):
PD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA delle proteine +
LD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA dei lipidi +
FD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA della fibra grezza +
EID x coeff. adipogenetico corrispondente = VA degli estrattivi inazotati = VAL
5) calcolo del valore amido netto (VAN) dell’alimento
VAN = VAL - (grammi FG s.t.q. x coefficiente di correzione)
Da esse si possono calcolare le UF:
6) calcolo delle UF dell’alimento UF/kg alimento = VAN x 1,43
eventualmente si può calcolare l’EN dell’alimento:
EN-latte (kJ/kg) = UF x 8054
6.3. Metodo scandinavo o delle unità foraggiere (U.F.)
L'unità foraggiera esprime il valore energetico di 1 Kg di semi di orzo o di 2,5
Kg di fieno normale; corrisponde a circa 2075 Kcal per la produzione del latte (1
U.F. permette la produzione di 3 Kg di latte al 3,4% di grasso) e a 1650 Kcal per la
produzione della carne nei bovini. La determinazione sperimentale delle U.F. fu
strutturata in modo tale da poter verificare le variazioni della produzione di latte
conseguente all'uso di foraggi diversi. Furono presi più gruppi con almeno sei
animali, omogenei per età, peso vivo, produzione media, epoca di parto, ecc. Tutti i
gruppi sperimentali erano alimentati per 3 settimane con fieno normale,
successivamente nel giro di una settimana l'alimento di base era sostituito con una
quantità identica del foraggio da valutare a tutti i gruppi tranne quello di controllo.
Per circa 4-6 settimane era controllata la produzione di latte. Terminato tale periodo,
agli animali era fornito di nuovo l'alimento di base per altre tre settimane; questa fase
concludeva il ciclo. Es.:
- animali gruppo A (controllo): fieno normale
- animali gruppo B: fieno normale di cui 5 Kg sostituiti con 5 Kg di fieno di erbaio
- animali gruppo C: fieno normale di cui 5 Kg sostituiti con fieno di trifoglio;
Il foraggio fornito al gruppo B determina un aumento di 0,65 Kg di latte rispetto al
controllo. Considerando che 5 Kg di fieno normale forniscono 2 U.F. (1 U.F. = 2,5
Kg di fieno normale) si ha che il valore energetico di 5 Kg di fieno di erbaio è: 2 U.F.
+ 0,65/3 Kg (si divide per tre in quanto 1 U.F. permette la produzione di tre litri di
latte) = 2,22 U.F. per cui 1 Kg di fieno di erbaio contiene 0,44 U.F (2.22 U.F. : 5 Kg).
E' possibile la conversione delle U.A. in U.F. e viceversa: 1 U.A. = 1,43 U.F = 2360
Kcal mentre 1 U.F. = 0,70 U.A. = 1650 Kcal.
Questi coefficienti permettono di ricavare le U.F. di un alimento qualsiasi partendo
dalla sua composizione chimica dopo aver ricavato le U.A. reali; permette, inoltre, di
legare questa unità di misura allo schema analitico Wende.
Questi metodi di razionamento hanno dei limiti. Il valore nutritivo in U.F.,
rappresentando una stima dell'energia netta dell'alimento per il mantenimento e la
produzione del latte (l'unità amido invece rappresenta una stima dell'energia netta di
un alimento per la sintesi e la deposizione del grasso) diviene inadatto per la stima
dell'energia netta per il mantenimento e l'accrescimento. Difatti, mentre 1 Kg di orzo
somministrato ad animali in lattazione permette la produzione di 2,33 l di latte al 4%
di grasso e quindi corrisponde a 1730 Kcal (2100 per 3 litri al 3,4%), se invece è
somministrato ad animali in accrescimento e all'ingrasso è in grado di fornire 1850
Kcal per il mantenimento e l'accrescimento.
6.4. Metodo delle U.F. latte e carne
In Italia la commissione ASPA (Associazione Scientifica di Produzione
Animale) ha suggerito che le attuali U.F. dovrebbero essere sostituite con quelle
francesi: U.F. latte (U.F.L.) e U.F. carne (U.F.C.), per le notevoli somiglianze di
sistema agricolo, condizioni climatiche e vicinanza genetica fra le razze allevate. Il
sistema delle U.F. francesi è legato a quello delle U.F. di cui conserva i seguenti
parametri:
- l'espressione dell'energia come energia netta (E.N.);
- la conversione in U.F. che equivale all'energia netta di un Kg di semi di orzo
contenente l'86% di sostanza secca e 2720 Kcal di energia metabolizzabile;
- le procedure analitiche nel calcolo dell'energia netta a partire da quella digeribile
passando attraverso l'energia metabolizzabile.
Il metodo si basa sul rendimento di utilizzazione dell'energia netta rispetto all'energia
metabolizzabile (K = E.N./ E.M.) che risulta decrescente, rispettivamente, per il
mantenimento, la lattazione e l'accrescimento. Il rendimento di utilizzazione
dell'E.M. (K) è:
- mantenimento Km = 0,78
145
- produzione latte Kl = 0,64
- ingrasso o accrescimento Kia = 0,55.
Inoltre, le differenze aumentano con la diminuzione della concentrazione energetica
delle razioni. In funzione della produzione richiesta i valori energetici sono espressi
in:
- U.F.L. per femmine in lattazione, in gestazione in asciutta e per animali con crescita
moderata (< 750 g al giorno di accrescimento)
- U.F.C. per animali con forte accrescimento o all'ingrasso.
Le differenze fra i valori in UFL e UFC di uno stesso alimento sono minime per gli
alimenti concentrati e maggiori per i foraggi in cui variano in funzione della
diminuzione della digeribilità. Questo sistema è basato su una struttura fisiologica
definitiva, ma nuovi dati dovuti ad ulteriori verifiche possono essere inseriti senza
difficoltà.
Determinazione schematica dell’UFL e dell’UFC (da Tisserand)
1 Kg di orzo in granella (86 % SS)
EL
3.800 Kcal
utilizzazione 84,7%
ED
3.220 Kcal
utilizzazione 84,5%
EM
2.721 Kcal
kl = 0,636
Km kf
kmf 0,681
EN l EN m EN c
2,33 l di latte km/kl = 1,2 2/3 1/3 LPA = 1,5
1 UFL = 1.730 Kcal 1 UFC = 1.855 Kcal
LPA = livello produttivo animale
Per chiarire il metodo francese delle nuove unità foraggere bisogna tenere conto che
l’energia metabolizzabile (E.M.) messa a disposizione dell’organismo animale è
utilizzata secondo un coefficiente di utilizzazione K che varia in funzione della
digeribilità dell’alimento e del rapporto q tra i contenuti di E.M. e di E.L., e
soprattutto in funzione della specie animale e del tipo di utilizzazione
(mantenimento, accrescimento, ingrasso, lattazione). Difatti, l’energia netta che ne
deriva è:
E.N. = E.M. x (E.M. / E.L. + K) = E.M. x (q + K)
Il coefficiente di utilizzazione o rendimento K, ancora poco conosciuto per i suini e
per i volatili è per gli stessi elevato e relativamente stabile. Per i ruminanti invece,
varia più o meno intensamente dato che dipende:
- sia dalla composizione degli alimenti (contenuto in fibra grezza e di protidi grezzi)
in funzione del rapporto q tra E.M. e E.L.
- sia dal rendimento ricavabile dalla trasformazione dell'E.M. in E.N., che è più
elevato per il mantenimento (0,67-0,75) che per la lattazione (0,58-0,62) e per
l’ingrasso (0,32-0,55). Quindi, per i ruminanti si hanno differenti valori del
coefficiente di utilizzazione o rendimento K. Rendimenti che si esprimono in
funzione del rapporto q = E.M. /E.L. e secondo le seguenti equazioni:
Km = 0,287 (q + 0,0554)
Kl = 0,240 (q x 0,57) + 0,60
Kf (ingrasso) = 0,780 (q + 0,006)
Nel caso della produzione di latte, esiste un rapporto costante tra Km e Kl che è
uguale a 1,20 per cui è anche possibile prendere come unità di misura il valore in
E.N. dell’orzo. Così l’U.F. latte proposta dalla scuola francese corrisponde a 1730
Kcal di latte prodotto al 4% di grasso (cioè 2,33 Kg di latte). Per la produzione della
carne, non essendovi rapporto costante tra Km e Kia, quando si abbia un livello
produttivo pari a 1,5 si può considerare che l’E.N. sia utilizzata per i 2/3 per il
mantenimento e per 1/3 per la produzione della carne. Così l’U.F. carne corrisponde
a 1855 Kcal.
In media, per gli alimenti in genere, kia, km e kl stanno nel rapporto 1,0 : 1,30 : 1,25.
Così se un animale richiede 30 MJ (cioè 3 kg di amido equivalenti) per il
mantenimento, questo valore va diviso per 1,30 per esprimerlo in termini di energia
netta per l’ingrasso (23 MJ 0 2,3 kg di amido equivalenti) ed analoga è la procedura
per adattare il fabbisogno energetico per la produzione del latte. Ma va tenuto
presente che i rapporti variano notevolmente da un alimento all’altro; ad esempio, il
rapporto km : kia è più ampio per gli alimenti più grossolani
6.5. Metodo dell’E.M. attraverso il calcolo del T.D.N. -
La conoscenza del contenuto in sostanze nutritive digeribili di un alimento
(cioè del total digestible nutrients o T.D.N.) espresso come percentuale e calcolato
secondo la formula:
T.D.N. = (% proteine digeribili x 1 + % estrattivi inazotati digeribili x 1 + % fibra
grezza digeribile x 1 + % lipidi digeribili x 2,25) non è elemento sufficiente per
valutare il valore nutritivo dell’alimento stesso, infatti, oltre che trascurare le perdite
che si hanno per la perdita dell’utilizzo della dieta alimentare, con il T.D.N. si
attribuisce ai principi digeribili il medesimo valore nutritivo qualunque sia la natura
degli alimenti nei quali sono contenuti. Si pensi, ad esempio, alla paglia che per avere
lo stesso valore nutritivo di un Kg di orzo ne occorrono 3,33 Kg, mentre il rapporto
tra i due T.D.N. è appena di 1,85 (che è anche il rapporto dell'E.M. dei due alimenti).
Per questo, il valore in T.D.N. è utilizzato soprattutto per la determinazione dell'E.M.
degli alimenti (e per polli e suini, delle razioni loro destinate).
E’ stato valutato che 1 Kg di T.D.N. fornisce: 4000 Kcal se utilizzato dai
monogastrici e vitelli allattanti e 3600 Kcal se utilizzato dai ruminanti; si può quindi
esprimere con sufficiente approssimazione, conoscendo il T.D.N., l'E.M. stimando
4,1 Kcal/g per vitelli non svezzati, suini e altri monogastrici e 3,65 Kcal/g per i
ruminanti. L’unità di misura dell'E.M. è lo Joule, ma poiché essa è un’entità molto
piccola si preferisce il mega Joule (MJ = 106J = 239 Kcal).
147
Rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile nei ruminanti per il
mantenimento, l’accrescimento e la produzione di latte
Metabolizzabilità (qm) 0,4 0,5 0,6 0,7
Energia metabolizzabile (MJ/kg S.S.) 7,4 9,2 11.0 12,9
Mantenimento (km) 0,643 0,678 0,714 0,750
Accrescimento e ingrasso (kf) 0,318 0,396 0,474 0,552
Lattazione (kl) 0,560 0,595 0,630 0,665
Equazioni: km = 0,35qm + 0,503; kf = 0,78qm + 0,006; kl = 0,35qm + 0,420
Il sistema di valutazione dell’energia attualmente usato in Inghilterra per i ruminanti
è quello descritto da Blaxter (1965), nel quale il valore energetico degli alimenti è
espresso in termini di energia metabolizzabile ed il valore in energia metabolizzabile
di una razione è calcolato addizionando i contributi energetici dei singoli alimenti
che la compongono e i fabbisogni energetici degli animali sono espressi in termini
assoluti, come energia netta. La caratteristica essenziale dell’interfaccia è
rappresentata da una serie di equazioni che consentono di prevedere il rendimento
dell’energia metabolizzabile per il mantenimento e per la produzione della carne e
del latte.
a) prevedere l’incremento ponderale di un manzo all’ingrasso del peso di 300 kg e
che riceve 4,5 kg di fieno (4 kg di SS)/d e 2,2 kg di mais in granella (2,0 kg SS)
Animale Alimento tal
quale
kg di
SS
Energia metabolizzabile (EM)
MJ/kg SS MJ/giorno
Manzo di 300 kg fieno 4,5 kg 4 8 32
mais 2,2 kg 2 14 28
totale 6 22 60
EM/kg SS = 60/6 = 10 MJ
Metabolizzabilità = 10/18,4 = 0,54 (qm)
Km = 0,692; Kf = 0,427
Fabbisogno giornaliero di mantenimento = 23 MJ energia netta (EN)
Fabbisogno in energia metabolizzabile = 23/0,692 = 33 MJ
Energia fornita oltre il mantenimento = 60 - 33 = 27 MJ
Energia utilizzata per l’incremento in peso = 27 x 0,427 = 11,5 MJ
Contenuto (presunto) per kg di peso vivo = 15 MJ
Incremento in peso del manzo = 11,5/15 = 0,77 kg/giorno
Le previsioni sono fatte tenendo conto della concentrazione di energia
metabolizzabile nella dieta, sebbene questa sia espressa come rapporto fra energia
metabolizzabile (EM) ed energia lorda (EL) e non come MJ/kg; questo rapporto
EM/EL da alcuni è chiamato metabolizzabilità.
La metabolizzabilità può essere convertita in MJ EM/kg S.S., moltiplicandola per
18,4, concentrazione media dell’energia lorda nella sostanza secca dell’alimento.
Anche se km e kl presentano variazioni con il variare della metabolizzabilità (qm),
queste variazioni sono molto più piccole rispetto a quelle di kia per il quale per
alimenti poveri di (qm = 0,4) è solo il 50% di km, mentre per alimenti ricchi (qm = 0,7)
kf è il 74% di km
b) un manzo di 300 kg che si deve accrescere di 770 g al giorno, oltre che di 3 kg di
fieno di quanto mais ha bisogno?
- si calcola prima quanta energia è necessaria per l’aumento di 0,770 kg al giorno;
0,77 x 15 = 11,55 MJ
- questo valore bisogna convertirlo in energia metabolizzabile e ciò sembra
impossibile visto che bisogna conoscere Kf e noi non possiamo determinarlo in
quanto non conosciamo la concentrazione in EM della dieta, che non abbiamo ancora
definito; allora bisogna lavorare in termini di energia netta e modificare l’interfaccia
fra fabbisogno del bovino allo studio e apporto di alimento:
a) fabbisogno bovino = (23 MJ per il mantenimento + 11,55 MJ per l’aumento in
peso) = 34,55 MJ
b) interfaccia: si adatta un valore del rendimento dell’EM per il mantenimento e la
produzione (Kmp)
c) il rendimento, per qualsiasi tipo di alimento, dipende dalle quote di EN necessarie
rispettivamente per il mantenimento e la produzione
d) le quote suddette variano con il livello produttivo dell’animale (LPA):
LPA = (ENm + ENp)/ENm = 23 + 11,55/23 = 1,50
e) la formula per ottenere Kmp è: Kmp = (ENm + ENp)/(ENm/Km + ENp/Kf) che
espressa in termini di LPA diventa: Kmp = LPA/(1/Km + (LPA - 1)/Kp)
f) a questo punto si calcola l’energia netta del fieno (EM/kg SS = 8MJ; qm = 0,43):
dalle equazioni precedentemente riportate risulta che Km = 0,654 e Kp = 0,348 e
quindi Kmp sarà uguale a 1,50/ (1/0,654 + (1,50-1)/0,348) = 0,506 e ENmp sarà = 8 x
0,506 = 4,05 MJ/kg SS
g) si calcola l’energia netta del mais (EM/kg SS = 14MJ; qm = 0,76) per il quale Km =
0,77 e Kf = 0,60
Kmp = 1,50/(1/0,77 + (1,50 -1 )/0,60) = 0,70
ENmp = 14 x 0,70 = 9,8 MJ/kg SS
h) considerato che 3 kg di fieno (2,7 kg SS) = 10,94 MJ EN/giorno, il mais dovrà
apportare 34,55 - 10,94 = 23,61 MJ EN/giorno
i) calcolo quantità mais necessaria = 23,61:9,85 = 2,40 kg SS o 2,70 kg mais tal quale
l) infine possiamo stabilire la razione giornaliera del manzo = 3 kg di fieno + 2,7 kg
di mais
c) calcolare il fabbisogno energetico di una bovina di 500 kg che produce 20
kg/giorno di latte al 4% di grasso e definire quanta SS deve ingerire l’animale
considerando che la concentrazione, per l’alimento considerato è di 11 MJ/kg SS
Come detto in precedenza il rendimento dell’energia metabolizzabile per la
produzione del latte (Kl) varia con MJ EM/kg SS e quindi per un razionamento
accurato bisognerebbe fare gli stessi calcoli riportati per i bovini da carne;
considerando, però, che la concentrazione in energia metabolizzabile delle diete per
bovine da latte, rispetto a quelle per bovini da carne, non presenta un’elevata
variabilità si adottano valori relativamente costanti per Km (0,72) e Kl (0,62). Invece,
i calcoli del razionamento delle lattifere spesso sono complicati in quanto la lattifera
può perdere (soprattutto nelle prime fasi della lattazione) o acquistare (alla fine della
149
lattazione) peso. Se la vacca aumenta di peso il suo fabbisogno deve essere
considerato come la somma del mantenimento, della produzione di latte e la
produzione di grasso; mentre se perde peso bisogna considerare il contributo dato
dalle riserve di grasso per il mantenimento e la produzione di latte. Peraltro, così
come avviene per i ruminanti in accrescimento, anche per i bovini da latte bisogna
considerare dei fattori di correzione che tengano conto della riduzione dell’energia
metabolizzabile degli alimenti in funzione del livello alimentare. Fatte queste
precisazioni calcoliamo il fabbisogno energetico della bovina in questione:
Fabbisogno di mantenimento = 34 MJ di EN quindi 34/0,72 = 47 MJ EM/giorno
Fabbisogno per la produzione di un kg di latte = 3,13/0,62 = 5,05 MJ EM/kg
Fabbisogno per la produzione di 20 kg di latte = 5,05 x 20 = 101 MJ EM
Fabbisogno energetico totale della bovina = 47 + 101 = 148 MJ EM
Sostanza secca occorrente = 148/11 = 13,5 kg/giorno
6.6. Metodo della energia netta
Questo metodo (Armsby) è stato studiato misurando il metabolismo
energetico (E) dell’animale corrispondente ad una razione di base e quello (E1)
dovuto alla somministrazione aggiuntiva di una quantità nota (t) dell’alimento in
esame: E.N. = Mt - (E1 - E) dove Mt = energia metabolizzabile della quantità t di
alimento e (E1 - E) = incremento metabolico. Quest’ultimo dato esprime la differenza
fra il calore prodotto dalla razione di base addizionata della quota di alimento in
esame e quello dovuto al solo alimento di base. L’autore riprese ed ampliò le ricerche
di Kellner introducendo il concetto secondo il quale contrariamente a quanto fino ad
allora ritenuto, la quota di energia non utilizzata non era dovuta solo alla frazione
alimentare non digerita ma anche all’incremento metabolico o extracalore cui
l’animale va incontro a seguito della somministrazione dell’alimento in più.
L’incremento metabolico varia proporzionalmente alla sostanza secca della razione e
a seconda della natura dell’alimento.
L’energia metabolizzabile assume i seguenti valori:
- foraggi grossolani 3500 Kcal/kg di T.D.N. o 3,5 Mcal
- alimenti concentrati con meno del 5% di grassi digeribili 3900 Kcal/kg di T.D.N. o
3,9 Mcal
- alimenti concentrati con più del 5% di grassi digeribili 4000 Kcal/kg di T.D.N. o
4,0 Mcal.
Le stesse prove fornirono coefficienti di valore compreso fra 0,78 e 1,43 che,
moltiplicati per il contenuto di sostanza secca dei vari alimenti presenti nella razione
permettono la determinazione dell’incremento metabolico.
I coefficienti di conversione dell’energia netta nelle altre unità di misura del valore
energetico sono :
1000 Kcal = 0,605 U.F. = 0,423 U.A.
1 U.A. = 1,43 U.F. = 2360 Kcal
1 U.F. = 0,70 U.A. = 1650 Kcal
Il metodo dell’energia netta ha avuto scarsa diffusione perché l’energia netta varia in
funzione di numerosi parametri quali la composizione degli alimenti e le
caratteristiche degli animali.
6.7. Previsione del contenuto energetico degli alimenti
La precisione di un sistema di razionamento dipende dall’accuratezza con cui
si riesce a valutare il contenuto energetico dei singoli alimenti o della razione. Il
contenuto energetico si può valutare ricorrendo o alle tabelle o all’analisi chimica
degli alimenti oppure alla valutazione della digeribilità attraverso la fermentazione in
vitro. Peraltro, molti Paesi obbligano i produttori di mangimi a dichiarare il
contenuto energetico del mangime (soprattutto energia metabolizzabile) e, quindi, si
rendono necessari metodi semplici per determinare l’energia stessa. In Inghilterra, il
contenuto energetico dei mangimi destinati ai polli, suini e ruminanti è determinato
usando le seguenti equazioni:
a) polli: EM apparente (MJ/kg) = 0,034 EE + 0,0165 PG + 0,0172 AM + 0,0158
ZUC; l’equazione si basa su fattori che riguardano i singoli principi alimentari, ad
esempio, il fattore per l’estratto etereo sta a significare che 0,0345/0,0393 = 0,88
dell’energia lorda dell’estratto etereo degli alimenti per polli è metabolizzabile;
b) suini: ED (MJ/kg) = 17,38 + 0,0105 PG + 0,0114 EE - 0,0317 FG - 0,0402 CT;
l’equazione parte da un valore costante che si corregge maggiorandolo, in funzione
del contenuto del mangime in estratto etereo ed in proteine grezze, e diminuendolo,
in base al contenuto in fibra grezza e ceneri;
c) ruminanti: EM (MJ/kg SS) = 11,78 + 0,00654 PG + 0,000665 EE2 - (0,00414
EE x FG) - 0,0118 CT; anche in questo caso si parte da un valore costante che è
adattato in base al contenuto proteico ed in ceneri del mangime, ma il plusvalore
dovuto al contenuto in estratto etereo è ridotto per tenere conto dell’interazione fra
contenuto lipidico e fibra grezza, cioè per tenere conto che l’estratto etereo deprime
la digeribilità della fibra a livello ruminale.
EE = estratto etereo, PG = proteine grezze; AM = amido; ZUC = zuccheri; FG =
fibra grezza; CT = ceneri totali (tutti espressi in g/kg SS)
151
CAP. VII. SISTEMI DI VALUTAZIONE DELLE PROTEINE
7.1. Valutazione nei monogastrici
Nei monogastrici, il problema della valutazione quanti-qualitativa delle proteine
da somministrare è stato risolto da molto tempo e per ogni specie e categoria di
animale sono stati definiti i fabbisogni relativi alla proteina grezza e digeribile e ai
singoli aminoacidi essenziali e nello stesso tempo per ogni alimento sono stati
determinati gli apporti proteici e aminoacidici.
Il rendimento con cui le proteine assorbite sono utilizzate dall’organismo differisce
molto da una proteina all’altra. Ciò ha indotto a studiare metodi di valutazione delle
proteine basati sulla risposta dell’animale alla proteina considerata. Fra questi ne
riassumiamo qualcuno:
a) coefficiente di efficienza proteica (CEP): si può definire come l’incremento in
peso di una ratto per unità di peso della proteina ingerita:
CEP = incremento in peso (g)/proteina consumata (g).
Il CEP varia con l’età e il sesso degli animali, con la durata del periodo sperimentale
(in genere 4 settimane) e con il livello proteico della dieta (generalmente 100 g/kg di
alimento). I valori di CEP in genere sono stabiliti facendo il paragone con una
caseina standard con un determinato CEP. Una modifica di questo metodo consiste
nel confrontare il guadagno di peso del gruppo sperimentale (a) e la perdita di peso
del gruppo con dieta aproteica (b) per valutarne la ritenzione proteica netta (RPN)
così calcolata:
RPN = (guadagno di peso del gruppo a - perdita di peso del gruppo b)/g di
proteina consumata. b) valore proteico grezzo (VPG): sono confrontati gli incrementi in peso di pulcini
alimentati con una dieta base contenente 80 g di proteina grezza per kg con quelli di
un altro gruppo dove la stessa dieta è stata addizionata con 30 g/kg della proteina in
esame e con quelli di un 3° gruppo ricevente la dieta base arricchita di 30 g/kg di
caseina. Il VPG della proteina in esame è ottenuto dal rapporto fra il maggior
incremento in peso del gruppo a) che l’ha ricevuta e il maggior incremento di peso
del gruppo b) che ha ricevuto la caseina:
VPG = incremento in peso del gruppo a/incremento in peso del gruppo b.
Le determinazioni di CEP, RPN e VPG oltre che essere dispendiose in termini di
moneta (servono molti animali) e personale tecnico (rilievi giornalieri per ogni
singolo animale), hanno il difetto di basarsi sull’incremento ponderale che potrebbe
non essere in rapporto con la proteina allo studio. Una più accurata valutazione delle
proteine può essere fatta prendendo in considerazione il bilancio dell’azoto, dove è
misurato sia l’azoto ingerito che quello eliminato con le feci e le urine e con
eventuali prodotti contenenti azoto (latte, lana, uova).
Si possono avere tre possibilità: a) animali in equilibrio di azoto: N ingerito = N
eliminato; b) bilancio di azoto positivo (come nell’esempio): N ingerito > N
eliminato; c) bilancio di azoto negativo: N ingerito < N eliminato
c) valore di sostituzione delle proteine (VSP): valuta la capacità di una determinata
proteina a realizzare lo stesso bilancio di azoto ottenibile con la stessa quantità di una
proteina standard (proteina dell’uovo o del latte); sono fatte due prove di bilancio
dell’azoto: una con la proteina da testare e l’altra con la proteina standard e VSP sarà
uguale:
VPS = (bilancio N proteina standard - bilancio N proteina da testare) / N
ingerito
Il VSP misura il rendimento con cui l’animale utilizza una determinata proteina, altri
metodi misurano l’utilizzazione della proteina digerita e assorbita.
Bilancio dell’azoto in un suino Hampshire del peso vivo di 42 kg alimentato
con una razione contenente farina di soia come fonte proteica
Quantità (g) giornalmente
Azoto Ingerite eliminate
nell’alimento
nelle feci
nelle urine
trattenuto
19,82
-
-
-
-
2,02
7,03
10,77
19,82 19,82
Bilancio positivo = + 10,77 g/giorno
d) valore biologico (VB): stabilisce in che misura una proteina è utilizzata
dall’animale per la sintesi di componenti azotati dell’organismo e può definirsi come
la quantità di azoto assorbita che è ritenuta dall’animale. Dopo aver determinato il
bilancio dell’azoto i dati ottenuti si usano per calcolare il valore biologico:
VB = (N ingerito - (N fecale + N urinario))/(N ingerito - N fecale).
Considerando che parte dell’azoto delle feci e delle urine non proviene dall’alimento
ma proviene dal rinnovo di varie strutture proteiche e secrezioni la formula su
riportata andrebbe corretta per la quota di azoto fecale metabolico (NFM) e
dell’azoto urinario endogeno e quindi:
VB = (N ingerito - ((N fecale - NFM)- (N urinario - NUE))/((N ingerito - (N fecale -
NFM)).
Per determinare il valore biologico:
a) il maggior apporto proteico deve essere rappresentato dalla proteina in esame;
b) la quantità ingerita deve consentire un’adeguata ritenzione di azoto (se la quantità
di proteina ingerita è elevata si ha catabolismo di aminoacidi che porta a sottostimare
il VB;
c) anche i principi alimentari inazotati devono essere adeguati, altrimenti l’animale
per coprire le esigenze energetiche catabolizza le proteine;
d) la dieta deve essere adeguata per tutti gli altri aspetti.
Calcolo del V.B. di una proteina per il mantenimento e la crescita del ratto
Alimento consumato giornalmente (g)
% azoto nell’alimento
mg di azoto ingeriti giornalmente
Azoto totale escreto giornalmente con le urine (mg)
Azoto endogeno escreto giornalmente con le urine (mg)
Azoto totale escreto giornalmente con le feci (mg)
Azoto fecale metabolico escreto giornalmente (mg)
6,00
1,043
62,6
32,8
22,0
20,9
10,7
VB = (62,6 - (20,9 - 10,7) - (32,8 - 22,0)) : ((62,6 - (20,9 - 10,7)) = 0,79
153
V.B. delle proteine di vari alimenti per il mantenimento e l’accrescimento di
giovani suini
Alimenti VB
Latte
Farina di pesce
Farina di soia
Farina di seme di cotone
Farina di seme di lino
Mais
Orzo
Piselli
0,95-0,97
0,74-0,89
0,63-0,76
0,63
0,61
0,49-0,61
0,57-0,71
0,62-0,65
I VB riportati nella tabella si riferiscono al mantenimento e all’accrescimento. Per il
solo mantenimento il VB può essere calcolato dal bilancio dell’azoto; al di sotto delle
condizioni di equilibrio dell’azoto, esiste un rapporto lineare fra N ingerito e bilancio
dell’azoto che è rappresentato dall’equazione: y = bx - a dove:
y = bilancio dell’azoto;
x = azoto assorbito;
a = perdita azoto a digiuno proteico;
b = frazione dell’azoto assorbito che è trattenuta nell’organismo ed è uguale al VB
per il mantenimento.
L’utilità di una proteina per l’animale dipende dalla sua digeribilità e dal VB; il
prodotto di questi due valori è definito utilizzazione netta della proteina (UNP),
mentre, il prodotto fra UNP e la % di proteine grezze presenti nell’alimento
rappresenta il valore proteico netto (VPN) e dà la misura della quota proteica
effettivamente metabolizzabile. Il VB di una proteina dipende dal numero e dal tipo
di aminoacidi presenti nella sua molecola e sarà tanto più elevato quanto più la
composizione della proteina alimentare si avvicina a quella che l’organismo deve
sintetizzare. In genere, le proteine che presentano una carenza o un eccesso di un
particolare aminoacido hanno un basso VB. Considerato che esiste un’azione
complementare tra le proteine le diete contenenti diverse proteine hanno spesso un
VB maggiore di quelle che ne contengono poche. Tra le proteine animali e vegetali
sono le prime ad avere un maggior VB ad eccezione, ad esempio, della gelatina che è
carente in diversi aminoacidi indispensabili. La composizione aminoacidica della
proteina che deve essere sintetizzata varia notevolmente con la specie animale e con
le prestazioni produttive.
Per una normale crescita del ratto, del suino, del pulcino, ad esempio, lisina,
triptofano, istidina metionina, fenilalanina, leucina, isoleucina, treonina, valina ed
arginina sono aminoacidi essenziali. Per l’uomo l’istidina non è indispensabile e per
il pulcino e necessaria anche la glicina e la prolina. Alcuni aminoacidi in parte
possono essere sostituiti da altri come osservato per la metionina che può essere
parzialmente sostituita dalla cistina e la tirosina dalla fenilalanina.
Oggi ci sono tecniche veloci e convenienti per valutare la composizione in
aminoacidi delle proteine.
7.2. Valutazione nei poligastrici
Nei poligastrici, a causa della mediazione del rumine, il problema della
valutazione qualitativa delle proteine è più complesso. Fino a poco tempo fa, il
metodo della proteina grezza (PG = N x 6,25) era il solo impiegato per quantificare il
contenuto proteico degli alimenti e i fabbisogni dei ruminanti. Questo sistema non
fornisce alcuna indicazione circa la reale composizione della frazione azotata degli
alimenti, né sulla digeribilità, né tantomeno sulle trasformazioni operate dalla
microflora ruminale. Per un certo tempo si è utilizzato, anche, il sistema delle
proteine digeribili (PD) il quale si basa sul calcolo della digeribilità dell’N x 6,25
nell’intero tratto digerente, ottenuta come bilancio fra quantità ingerita e quantità
escreta con le feci. Le PD non si sono però dimostrate un’unità di misura
soddisfacente per il razionamento dei ruminanti le cui diete si basano soprattutto su
foraggi nei quali il valore N x 6,25 e in PD è notevolmente superiore al reale
contenuto in aminoacidi. Fra l’altro, la maggior parte dell’azoto aminoacidico
ingerito con gli alimenti non è utilizzato direttamente come tale dal ruminante ma va
incontro a degradazioni e riconversioni ad opera della popolazione microbica
ruminale e, quindi, il termine “digeribili” appare non esatto. Pertanto, sono stati
messi a punto altri metodi per valutare le proteine fra cui:
a) il sistema francese delle proteine digeribili nell’intestino (PDI);
b) il sistema americano delle proteine assorbite nell’intestino (AP);
c) il sistema Cornell (Cornell Net Carbohydrate & Protein System)
7.2.1. Sistema francese
Il sistema francese si propone di determinare il valore azotato di ogni alimento in
termini di quantità di aminoacidi realmente assorbiti nell’intestino tenue, siano essi
derivanti dalle proteine alimentari non degradati nel rumine che derivanti dalla
proteina della massa microbica prodotta nel rumine. Secondo il sistema francese, le
PDI possono essere PDIN o PDIE a seconda che il fattore limitante per la sintesi
microbica ruminale sia l’azoto degradabile o l’energia fermentescibile,
rispettivamente. Comunque, le PDI sono costituite da due componenti:
a) le PDIA che rappresentano gli aminoacidi assorbiti nell’intestino provenienti dalle
proteine alimentari non degradate nel rumine;
b) le PDIM che rappresentano gli aminoacidi assorbiti nell’intestino provenienti dalla
proteina di cui è costituita la massa microbica ruminale. Poiché, la popolazione
microbica si sviluppa in funzione dell’azoto e dell’energia disponibili a livello
ruminale, le PDIM possono essere PDIMN o PDIME a seconda che il fattore
limitante per la sintesi microbica ruminale sia l’azoto degradabile o l’energia
fermentescibile, rispettivamente. Il ragionamento fatto è il seguente: se un alimento è
somministrato da solo, il suo valore in PDIM è determinato dalla sua caratteristica
che maggiormente limita la proteosintesi microbica. Sarebbe, quindi, il PDIMN per i
cereali i quali forniscono più energia che azoto alla popolazione ruminale; sarebbe,
invece, il PDIME per le farine proteiche nelle quali l’azoto degradabile è
predominante rispetto all’energia che i microrganismi del rumine possono utilizzare.
Invece, quando l’alimento è un componente di una razione mista il suo contributo
alla proteosintesi ruminale può aumentare grazie all’azione complementare svolta
dagli altri ingredienti della razione. Così, ogni alimento è caratterizzato da un tenore
in PDIN e da uno in PDIE: il più basso dei due indica il valore azotato minimo
dell’alimento, il più alto indica il valore azotato potenziale, cioè quello
potenzialmente raggiungibile con opportune associazioni. Quando si adotta il sistema
155
PDI si devono sommare da un lato i valori di PDIN e dall’altro quelli di PDIE dei
vari alimenti compresi nella razione; si otterranno così due valori totali di PDIN e
PDIE: l’apporto di PDI della razione sarà dato dal più basso di questi due valori. In
una razione ben formulata i valori di PDIN e PDIE sono pressoché uguali e siamo
nella situazione di equilibrio tra energia ed azoto nella razione. Lo scarto tra i due
valori non dovrebbe superare i 200 g in vacche ad elevata produzione di latte.
Comunque, un deficit delle PDIN rispetto alle PDIE di 8 g/UFL sarebbe compensato
dall’urea endogena riciclata.
Per il calcolo delle PDI degli alimenti, la scuola francese ha considerato quattro
caratteristiche degli alimenti stessi:
1) il contenuto in proteine grezze (PG) o meglio in sostanze azotate totali;
2) la degradabilità teorica (DT) dell’azoto ottenuta mediante nylon bags posti nel
rumine di vacche fistolate. La cinetica di degradazione delle sostanze azotate è
valutata a partire da misure effettuate dopo un tempo di permanenza di 2-4-8-16-24-
48 ore. Tali registrazioni consentono di calcolare la DT che è quella ottenuta con un
tasso di passaggio delle particelle del 6% all’ora. In realtà, si è visto che il valore
teorico DT sovrastima la degradabilità reale delle proteine degli alimenti; questa
discrepanza può essere corretta moltiplicando la quota proteica non degradata per il
coefficiente 1,11;
3) la digeribilità reale nell’intestino (dr) delle proteine alimentari non degradate nel
rumine;
4) il contenuto in sostanza organica fermentescibile (SOF) ricavata dal tenore in
sostanza organica digeribile (SOD) e dalla composizione chimica dell’alimento
stesso.
Ai fini pratici il valore delle PDI degli alimenti è calcolato applicando le seguenti
formule:
1) PDIA (g/kg SS) = (N x 6,25) x 1,11 x (1- DT) x dr dove:
PDIA = proteine digeribili nell’intestino di origine alimentare;
(N x 6,25) = sostanze azotate totali dell’alimento;
1,11 = fattore di correzione della DT;
(1 - DT) = quota proteica by-pass;
dr = coefficiente di digeribilità reale nell’intestino delle proteine non degradate nel
rumine;
2) PDIME (g/kg SS) = SOF x 0,145 x 0,8 x 0,8 dove:
PDIME = proteine digeribili nell’intestino di origine microbica quando il fattore
limitante è l’energia fermentescibile;
SOF = sostanza organica fermentescibile, data dalla SOD (sostanza organica
digeribile) meno i lipidi, le proteine grezze non degradabili e, per gli insilati, gli acidi
grassi volatili, l’acido lattico e gli alcoli;
0,145 = coefficiente per il calcolo delle quantità di proteina microbica sintetizzata
fissata in 145 g/kg di SOF;
0,8 = proporzione di azoto aminoacidico presente nella proteina batterica;
0,8 = coefficiente di digeribilità intestinale della proteina batterica;
3) PDIMN (g/kg SS) = (N x 6,25) - 1 - 1,11 x (1- DT) x 0,9 x 0,8 x 0,8 dove:
PDIMN = proteine digeribili nell’intestino di origine microbica quando il fattore
limitante è l’azoto degradabile;
(N x 6,25) = sostanze azotate totali presenti nell’alimento;
1 - 1,11 x (1- DT) = quota proteica alimentare degradabile;
0,9 = coefficiente di captazione dell’azoto alimentare degradabile da parte dei
microrganismi ruminali;
0,8 = proporzione di azoto aminoacidico presente nella proteina batterica;
0,8 = coefficiente di digeribilità intestinale della proteina batterica.
Ad esempio volendo considerare una farina di estrazione di soia contenente il 55% di
proteina grezza sulla S.S., con degradabilità pari al 62% e la digeribilità post-
ruminale pari al 80% si ha:
PDIA= 55 x (1 - 0,62) x 0,90 = 18,8 = 188 g /Kg S.S.
PDIMN; assumendo:
a) frazione di proteina grezza degradata = 55%
b) efficienza di incorporazione dell’azoto ammoniacale (da essa liberato) nella
proteina microbica = 90%
c) la frazione di amminoacidi della proteina microbica = 80%
d) digeribilità post-ruminale della proteina microbica = 80%
si ha: PDIMN = 55 x 0,62 x 0,90 x 0,64 = 19,6 = 196 g/Kg S.S.
PDIME; assumendo:
a) sostanza organica fermentescibile (S.O.F.) dell’alimento (proteine non
degradabili, lipidi grezzi, prodotti di fermentazione negli insilati = 65% S.S.
b) proteina microbica che si può formare dalla S.O.F. = 145 g/Kg)
c) frazioni di aminoacidi e digeribilità post-ruminali = 64%
si ha: PDIME = 65 x 0,145 x 0,64 = 6,0 = 60 g/Kg S.S.
A questo punto il valore delle PDI può essere espresso:
a) PDIN = PDIA + PDIMN = 18,8 + 19,6 = 38,4 = 384 g/Kg S.S.
b) PDIE = PDIA + PDIME = 18,8 +6,0 = 24,8 = 248 g /Kg S.S.
Se la farina di soia fosse somministrata da sola il suo valore di PDI sarebbe uguale a
248 g/Kg S.S. e si avrebbe un eccesso di proteina degradabile che non potrebbe
essere trasformata in proteina microbica per carenza di energia. Per sfruttare al
massimo la sintesi proteica si potrebbe aggiungere alla soia un alimento con eccesso
di PDIE.
Aggiungendo, ad esempio, delle polpe secche di barbabietola che apportino 65 g di
PDIN e 98 g di PDIE per Kg di S.S., si vede che ogni Kg di questo alimento vi è un
eccesso di 33 g di PDIE. Mescolando 4 parti di polpe di bietola (che apportano 132 g
di PDIE in eccesso rispetto al PDIN) e 1 di farina di soia (che apporta 136 g di PDIN
in eccesso) si ottiene quindi una miscela equilibrata in cui PDIN = 384 + 65 x 4 =
644 g e PDIE = 248 + 98 x 4 = 640 g. Teoricamente ciò consente di non sprecare
proteina sotto forma di ammoniaca
7.2.2. Sistema AP
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche americano ha messo a punto un sistema
di valutazione delle proteine similare a quello francese, che va sotto il nome di AP
(Absorbed Protein). Con questo sistema le proteine sono distinte in:
a) proteine alimentari degradabili a livello ruminale ((DIP);
b) proteine alimentari indegradabili (UIP);
c) proteine alimentari indigeribili (IIP).
Le proteine alimentari degradabili (a cui va aggiunta l’urea proveniente dal circolo
sanguigno) sono convertite in proteina batterica e protozoaria (BCP); la produzione
157
di quest’ultima è calcolata in funzione dell’ingestione giornaliera di ENl per le
vacche da latte e di TDN per gli animali in accrescimento. A differenza del sistema
francese, la produzione di BCP dipende solo dall’energia della razione e non
dall’apporto in azoto degradabile. Per la quota di proteine alimentari indegradabili
(UIP), anche il sistema americano ricorre ai valori di degradabilità ottenuti in prove
in situ con bovine fistolate. I fabbisogni giornalieri delle varie categorie di animali
sono espressi in g giornalieri di UIP e DIP. Benché il sistema americano delle AP
abbia avuto scarsa diffusione in Italia, è stata recepita la distinzione delle proteine in
UIP (proteina alimentare by-pass) e DIP (proteina alimentare degradabile a livello
ruminale). Tali parametri sono utilizzati comunemente nel razionamento accanto ai
valori di proteina grezza (PG) e di proteine digeribili nell’intestino (PDI) al fine di
conseguire una valutazione il più possibile completa del valore proteico degli
alimenti da un lato e dei fabbisogni dall’altro. Infatti, i fabbisogni in proteine by-pass
(UIP) delle bovine variano in funzione del livello produttivo, in quanto in
corrispondenza di elevate produzioni la proteina batterica non è sufficiente per
quantità e qualità a coprire le necessità degli animali.
7.2.3. Sistema Cornell o CNCPS
Il sistema Cornell, denominato CNCPS, contrariamente agli altri sistemi che
valutano gli alimenti della razione e i fabbisogni per gli animali in maniera statica,
cerca di tenere conto delle variazioni del metabolismo che conseguono all’intervento
di numerosi fattori e delle interrelazioni esistenti tra questi fattori. La valutazione
dell’apporto energetico e proteico degli alimenti da un lato e dei fabbisogni dall’altro
è considerata, perciò, in maniera dinamica come funzione di una serie di variabili che
comprendono il tipo di razione e la sua influenza sulle fermentazioni ruminali, il tipo
di animale, le caratteristiche ambientali e le tecniche di allevamento. Il sistema
comprende, innanzitutto, un modello per la predizione delle fermentazioni ruminali,
la stima dei prodotti finali delle fermentazioni e dei prodotti che sfuggono alla
degradazione ruminale. La flora batterica ruminale è suddivisa in due gruppi: i batteri
che fermentano i carboidrati non strutturali (CNS) e quelli che fermentano i
carboidrati strutturali (CS). Questa distinzione riflette differenze, non solo a livello di
fonti energetiche ma, anche di fonti azotate e di velocità di crescita delle diverse
specie batteriche. Infatti, i batteri CNS che fermentano i carboidrati non strutturali
(amido, pectine, zuccheri, ecc.) sono in grado di utilizzare sia N ammoniacale che
aminoacidi e peptidi come fonte azotata, possono effettuare la proteolisi e sono
caratterizzati da una crescita molto rapida. Invece, i batteri CS fermentano solo i
carboidrati strutturali, usano solo azoto ammoniacale per la proteosintesi, non
fermentano peptidi o aminoacidi e hanno una crescita lenta. In questo sistema, la
crescita dei microrganismi ruminali non è considerata una semplice funzione
dell’ingestione di sostanza organica o di energia ma è messa in relazione con molti
fattori:
a) predazione da parte della fauna protozoaria,
b) tenore in carboidrati della razione e il tasso di fermentazione di questi,
c) presenza a livello ruminale di N di natura amminoacidica e peptidica per la sua
influenza positiva sulla crescita ruminale,
d) entità della secrezione salivare che influenza il pH e, conseguentemente, la crescita
microbica e che dipende a sua volta dal rapporto foraggi/concentrati della razione.
Nel sistema Cornell le sostanze azotate sono divise in 5 frazioni: A) azoto non
proteico (NNP), immediatamente disponibile nel rumine, B1) proteina rapidamente
degradabile nel rumine, B2) proteina mediamente degradabile nel rumine, B3)
proteina legata all’NDF, lentamente degradabile nel rumine, C) proteina legata
all’ADF, indegradabile mentre, gli idrati di carbonio sono divisi in 4 frazioni: A)
carboidrati degradati nel rumine rapidamente (zuccheri), B1) carboidrati degradati
nel rumine a velocità intermedia (amidi e pectine), B2) carboidrati degradati nel
rumine lentamente (emicellulose e cellulosa), C) frazioni fibrose non digeribili.
Le quantità di carboidrati e di azoto alimentare digerite nel rumine dipendono dai
tassi di fermentazione e di passaggio. Il tasso di fermentazione (Kd) o degradabilità,
è una proprietà dell’alimento, mentre, il tasso di passaggio (kp) è calcolato in
funzione dell’ingestione, della dimensione delle particelle dell’alimento, della densità
e del tipo di alimento (foraggio o concentrato). Successivamente al rumine, il sistema
Cornell calcola quale può essere l’assorbimento intestinale delle frazioni proteiche e
dei carboidrati che derivano dalla crescita microbica o che arrivano all’intestino non
degradati: ogni frazione ha un suo coefficiente di utilizzazione digestiva.
I nutrienti totali realmente digeribili (TDN vero) derivano, quindi, dalla somma delle
proteine, dei carboidrati e dei grassi a cui vanno sottratti quelli persi con le feci; è
importante sottolineare che, poiché i valori dei nutrienti persi con le feci variano in
funzione delle caratteristiche dell’intera razione, dell’apporto delle diverse frazioni di
carboidrati e proteine e della conseguente crescita della flora microbica ruminale,
anche i TDN di un alimento calcolato con il sistema CNCPS non è un valore fisso ma
variabile. A partire dal TDN disponibile della dieta sono, successivamente, calcolati i
valori di EM e EN. Le proteine metabolizzabili sono determinate a partire dalle
proteine assorbite al livello intestinale di origine alimentare e batterica (escluse
quelle degli acidi nucleici batterici che passano inutilizzate). Il sistema Cornell
calcola, inoltre, a partire dalle diverse fonti, i fabbisogni in proteine e in energia a
seconda della produzione di latte, del peso vivo e di fattori ambientali e manageriali
che influenzano l’ingestione di sostanza secca. La conoscenza dei fabbisogni teorici e
il calcolo dei nutrienti disponibili con la dieta dà la possibilità di aggiustare razioni
per bovini da latte e da carne in modo che rispondano alle esigenze stimate. Il sistema
CNCPS si distingue dagli altri sistemi anche perché include un modello per la
determinazione dei fabbisogni e degli apporti della razione in singoli aminoacidi
essenziali assorbiti a livello intestinale.
7.3 . Degradabilità delle proteine
Alla base dei sistemi di valutazione delle proteine nei ruminanti sta il concetto di
degradabilità ed il grado in cui le proteine alimentari sono degradate nel rumine, per
l’influenza che questo parametro esercita sul valore delle proteine come fonte di
azoto per i microrganismi ruminali e di aminoacidi assorbiti a livello dell’intestino
tenue. La quantità di proteina che sfugge alla degradazione può essere stimata in vivo
e in vitro. Per la stima in vivo si misura l’azoto alimentare ingerito e l’azoto non
ammoniacale e quello microbico che passano nel duodeno e la degradabilità
dell’azoto alimentare è così espressa:
Degradabilità = 1 - (N duodenale non ammoniacale - N microbico) / N
alimentare ingerito
Il metodo richiede un’accurata misurazione del flusso duodenale e dell’azoto
microbico. La frazione microbica, in genere, è identificata per mezzo di indicatori
quali l’acido ribonucleico e gli aminoacidi marcati Co 35
S, 32
P, 15
N. La
concentrazione dell’indicatore nei microrganismi è misurata in un campione di
liquido ruminale. La formula prima riportata non tiene, però, conto che l’azoto
159
duodenale contiene una quota non trascurabile di azoto di origine endogena e, quindi,
è preferibile applicare la seguente:
Degradabilità = 1 - ((N duodenale non ammoniacale - (N microbico + N
endogeno)) / N alimentare ingerito.
La quota di origine endogena rappresenta circa 50-200 g/kg di azoto duodenale, ma
siccome è molto difficile da quantificare, in genere, si adotta il valore medio di 150
g/Kg.
In vitro, la degradabilità delle proteine si valuta facendo incubare l’alimento in
sacchetti di fibra sintetica immersi nel rumine. Il valore della degradabilità è dato
dalla differenza fra la quantità di azoto inizialmente presente nel sacchetto e quella
rimasta al termine della incubazione ed è espresso in proporzione alla quantità
iniziale:
degradabilità = (azoto iniziale - azoto residuo dopo l’incubazione)/azoto iniziale.
In questo caso, gli errori sono dovuti soprattutto alla dimensione del campione, alla
misura e alla porosità del sacchetto.
Degradabilità delle proteine alimentari
Classe Degradabilità Alimenti
A
B
C
D
0,71-0,90
0,80*
0,51-070
0,60*
0,31-0,50
0,40*
< 0,31
Fieno, insilati, orzo
Fiocchi di mais, farina di soia cotta
Farina di pesce
Lupinella essiccata
* considerato come media di gruppo
Valori indicativi di degradabilità ruminale dell’azoto in alcuni alimenti
(INRA, 1988):
Alimento % Alimento %
Foraggi verdi e insilati
70-80
Farina di estrazione di arachide
73
Fieni 66 Farina di estrazione di soia 62
Farina di avena 78 Farina di estrazione di girasole 77
Farina di frumento 74 Panello di lino 62
Farina di mais 42 Granelle macinate di oleaginose 90
Farina di orzo 74 Granella di soia estrusa 49
Crusca di frumento 76 Farina di medica disidratata 60
Glutine di mais 27 Farina di pesce 45
Trebbie di birra 45 Farina di carne 50
Polpe di bietola 48
CAP. VIII. FATTORI NUTRITIVI DEGLI ANIMALI E FATTORI DI
RAZIONAMENTO
8.1. Nuove concezioni sul valore nutritivo degli alimenti e della razione nel suo
complesso.
L’indicazione del valore nutritivo degli alimenti non può essere considerata
come un dato preciso ed assoluto, qualunque sia il metodo adottato per la sua
determinazione. Nell’utilizzazione degli alimenti da parte degli animali, giocano un
ruolo principale la complessità dei fenomeni metabolici, l’individualità dei singoli
utilizzatori, l’ambiente in cui vivono, le produzioni loro richieste nonchè la
composizione della razione ed il livello nutritivo della dieta. Il livello nutritivo di un
alimento varia secondo:
- la razione in cui entra a far parte;
- la variabilità individuale della specie e della razza dell’animale cui è somministrato;
- la produzione richiesta all’animale.
La razione alimentare ha un differente rendimento:
- secondo gli alimenti di cui è costituita;
- il rendimento decresce con il crescere del livello nutritivo, in pratica in funzione
della quantità di alimento consumato dall’animale;
- il rendimento cresce con l’aumentare del rapporto tra E.M. ed E.L., vale a dire con
la concentrazione nutritiva del piano alimentare cui l’animale è sottoposto.
E’ necessario che la razione sia bilanciata in quanto, per ogni specie animale e tipo di
produzione, solo se la razione è bilanciata, l’E.N. raggiunge il suo valore più elevato
e la stessa razione il suo massimo valore nutritivo. I piani alimentari ed il
razionamento sono definiti in base al tipo di animale (specializzazione, razza, età) ed
alle produzioni richieste, secondo esperienze acquisite in precedenti turni di
allevamento, quando è possibile, utilizzando come base mangime o foraggi di
produzione aziendale. Ciò, perché, i fabbisogni degli animali ed i fattori di
razionamento, riportati nei testi e nelle pubblicazioni, vanno considerati solo come
valori medi al pari della composizione degli alimenti e non come dati esatti da
adottare in qualunque circostanza.
8.2. Fabbisogni degli animali
Volendo analizzare i fabbisogni degli animali si deve considerare il problema
da due diverse angolature. L’una interessa i fabbisogni relativamente ad energia, a
proteine ed aminoacidi, sali minerali e vitamine; l’altra riguarda le specifiche
esigenze legate all’espletamento delle funzioni vitali dell’organismo,
all’accrescimento ed all’ingrasso, alle diverse produzioni e stati fisiologici
dell’animale. Il fabbisogno quali-quantitativo complessivo che ne deriva va tradotto
in una razione bilanciata che, oltre a soddisfare le suddette esigenze soddisfi anche i
requisiti di voluminosità, appetibilità, ed economicità della stessa razione e
dell’alimentazione nel suo insieme. I fabbisogni energetici, proteici, minerali e
vitaminici nonché di sostanza secca, sono così distinti:
- mantenimento,
- accrescimento,
- ingrasso,
- produzione del latte,
- riproduzione e lo stato di gravidanza,
- prestazioni dinamiche,
161
- asciutta,
- termoregolazione,
anche se a volte, alcuni di questi fabbisogni sono tra loro cumulabili e/o accumulati.
Nel razionamento, le esigenze nutritive degli animali saranno soddisfatte dalla
razione alimentare agendo sui seguenti elementi:
- sul valore nutritivo totale della razione,
- sul contenuto ottimale in proteine digeribili, assicurando la presenza degli
aminoacidi indispensabili,
- sulla sostanza secca (s.s.) totale della razione, assicurando una giusta voluminosità
degli alimenti somministrati,
- sul contenuto ottimale in vitamine e sostanze minerali.
8.2.1. Fabbisogni di mantenimento
L’organismo animale utilizza una parte, più o meno, considerevole dei
principi nutritivi che gli provengono dall’alimentazione per ricavare l’energia
necessaria alle sue funzioni fisiologiche fondamentali, come la digestione, la
circolazione sanguigna, la respirazione, la termoregolazione, il tono muscolare e i
movimenti spontanei, nonché la reintegrazione delle sostanze perdute nei processi
metabolici. Il fabbisogno energetico dell’animale a completo digiuno, mantenuto in
un ambiente termostatato e che, quindi, non svolge alcun lavorio digestivo, non
assorbe sostanze nutritive e non incrementa il metabolismo dei tessuti e non ha
dispendi per la termoregolazione è chiamato energia basale o energia di metabolismo
basale o semplicemente metabolismo basale (M.B.). Il metabolismo basale, infatti,
corrisponde alla quantità di energia necessaria nelle condizioni di riposo e di digiuno
e dà un’idea dell’intensità del ricambio energetico caratteristica per ogni singolo
animale.
Sul metabolismo basale influiscono fattori quali l'età dell'animale, il sesso, il tipo
costituzionale, la razza, il ciclo estrale, lo stato fisiologico, il clima, la stagione, il
periodo di lattazione. Esso aumenta in maniera esponenziale, e non in maniera
lineare, con il peso vivo dell'animale. Difficilmente però, l'animale si trova a digiuno
e in perfetto riposo. Se, ad esempio, ha ingerito degli alimenti ha bisogno di energia
per la digestione e l'assorbimento; se si trova in un ambiente freddo deve
termoregolarsi, se è al pascolo consuma energia per la ricerca del cibo. Pertanto, è più
giusto affermare che il fabbisogno nutritivo di mantenimento è l'E.M. che assicura
l'equilibrio nel bilancio materiale ed energetico degli animali, allorché in questi non
sussiste alcun’attività funzionale di interesse economico, difatti corrisponde al
ricambio energetico proprio di uno stato in cui l'animale (non gravido e non in
lattazione) non aumenta e non diminuisce di peso per un periodo piuttosto lungo.
Fabbisogni energetici. Essi sono direttamente proporzionali al peso metabolico
dell'animale (rapporto fra area/volume o peso vivo dell'animale). Il peso metabolico è
espresso come potenza del peso vivo con esponente inferiore ad 1, ed è espresso con
uno dei seguenti simboli internazionali: PV0,75
o W0,75
o Kg0,75
. Agli effetti pratici del
razionamento e per qualsiasi tipo di razione, i fabbisogni energetici di mantenimento
nei ruminanti, per esempio, corrispondono a 1,2 volte il consumo di energia durante
l'inedia (MB). Una vacca che per il metabolismo basale consuma giornalmente: 70,5
Kcal E.N. /PV0,75
il fabbisogno energetico sarà 70,5 x 1,2 = 84,6 Kcal E.N. cui è da
aggiungere un 10-20% a seconda dell'età per l'accrescimento.
Es: vacca di 500 kg in prima lattazione = (5000,75
x 70,5 x 1,2) + 20% = (105,74 x
84,6) + 20% = 8945,4 + 1789,1 = 10734,47 Kcal ENm.
Se pesa 550 kg ed è in seconda lattazione, per l'accrescimento si aggiunge il 10% e
quindi il fabbisogno sarà 10568,57 Kcal ENm.
E' stato osservato che il fabbisogno in ENm è:
- 77 Kcal per kg di peso metabolico nei giovani bovini castrati,
- 120 Kcal /kg PV0,75
per vitelli lattanti e animali giovani,
- 60 Kcal/kg PV0,75
per gli ovini.
Prendendo come unità di misura l'U.F. o l’E.M., i fabbisogni energetici di
mantenimento sono riportati nelle tabelle.
Fabbisogni proteici - I fabbisogni proteici di mantenimento tendono a sopperire le
perdite azotate dei metaboliti endogeni eliminati con le urine e dei protidi enzimatici
metabolici escreti con le feci. Il fabbisogno proteico di mantenimento risulta
proporzionale al peso metabolico.
Stima del fabbisogno proteico per il mantenimento, partendo dall’azoto endogeno totale
e dalle altre perdite di azoto (desquamazione cutanea, peli)
Perdita di azoto endogeno = 42 g/giorno
perdita cutanea di azoto (desquamazione, peli) = 2 g/giorno
perdita totale di azoto = 44 g/giorno
perdita totale di proteina: 44 x 6,25 = 275 g/giorno
Valore biologico nel bovino delle proteine digerite e assorbite = 0,8
Fabbisogno proteine digerite e assorbite nell’intestino = 275 : 0,8 = 344 g/giorno
Somministrando i 344 g tutti come proteina microbica (degradabilità = 1)
e considerando:
a) digeribilità reale delle proteine microbiche = 0,85
b) contenuto in AA delle PG = 0,80 (0,2 = acidi nucleici)
la quantità di proteina richiesta sarà 344/(0,85 x 0,80) = 506 g/giorno
Supponendo che:
a) si producano 8,3 g di proteina microbica per 1 MJ di EM consumata
b) la vacca ingerisca 61 MJ EM/giorno (mantenimento)
nel suo intestino giungono: 8,3 x 61 = 506 g/giorno (coincide con il fabbisogno
della vacca)
Se la degradabilità delle proteine fosse 0,7 la quantità della proteina nella dieta dovrà
essere (per assicurare il fabbisogno dei microbi) = 506/0,7 = 723
Adesso si calcola la quantità minima di PG della dieta della vacca:
se la razione contiene 11 MJ EM/kg SS l’ingestione di SS sarà: 61/11 = 5,54 kg/giorno
e il tenore minimo in proteina:
a) degradabilità = 1: 506/5,54 = 91 g/kg SS
b) degradabilità = 0,7: 723/5,54 = 130 g/kg SS AA = aminoacidi
Nei bovini, esso è di 3 g di proteina digeribile per kg di peso metabolico. In pratica,
poiché il rendimento delle proteine somministrate con la razione varia secondo il
valore biologico delle proteine stesse (e non sempre è possibile conoscere con
esattezza il V.B. delle proteine di una razione mista) si fa riferimento alle tabelle di
163
razionamento specifiche che riportano con una certa larghezza, i fabbisogni per le
diverse categorie di animali.
Grosso modo, però, per le vacche da latte, i bovini adulti, gli equini e i suini si stima
un fabbisogno proteico di mantenimento di 60 g di proteina digeribile per q di peso
vivo. Per gli ovini detto fabbisogno è elevato a 80 g/q.
Fabbisogni minerali e vitaminici. Non esistono particolari fabbisogni per sopperire ai
consumi per il mantenimento degli animali. Comunque, per le vacche in lattazione e
per gli ovini si raccomanda la somministrazione di adeguati quantitativi di fosforo,
calcio, magnesio, potassio e sodio:
bovini - mg/kg PV: P 25, Ca 18, Mg 3, K 50, Na 10
ovini - " " 30, " 20, " 3,5 " 20, " 8
Per le vitamine, i fabbisogni di mantenimento variano da soggetto a soggetto in
relazione allo stato nutritivo e/o di salute.
Fabbisogni nutritivi degli ovini per il mantenimento (INRA, 1978)
Peso
vivo
Kg
Variazioni
di peso
(Kg/mese)
Apporto giornaliero Capacità di
ingestione
UEM
UFL (1)
Proteine
digeribili
(g)
Ca
g
P
g
40
-2
-1
0
+1
+2
0,37
0,45
0,53
0,64
0,75
30
37
44
51
58
3,0
2,0
1,6
50
-2
-1
0
+1
+2
0,46
0,54
0,62
0,73
0,84
33
40
47
54
61
3,5
2,5
1,8
60
-2
-1
0
+1
+2
0,55
0,63
0,71
0,82
0,93
40
47
54
61
68
4,0
3,0
2,0
70
-2
-1
0
+1
+2
0,64
0,72
0,80
0,91
1,02
47
54
61
68
75
4,5
3,5
2,3
(1) da aggiungere il 25% per il pascolamento: il valore va aumentato con pascoli scadenti e poco produttivi e va ridotto
con pascolo intensivo e erba abbondante
Contenuto in sostanza secca della quota di mantenimento. La razione di
mantenimento non deve essere voluminosa in modo eccessivo. Il suo indice di
voluminosità (s.s./UF x 100) deve adeguarsi a quello dell'intera razione che secondo
Leroy non deve superare i 2-2,1 nei bovini, 1,2 nei suini, 1,6 negli equini, 1,8 negli
ovini.
Fabbisogno di mantenimento negli equini: le esigenze di mantenimento del cavallo
adulto a riposo, cui spetta solo la quota di mantenimento, giornalmente sono pari a
0,9 UF e 65-70 g di proteine digeribile per qle di peso vivo. Per soddisfare le
esigenze energetiche, gli equini necessitano più di idrati di carbonio e meno di
proteine, rispetto a quanto avviene, ad esempio nei bovini, e ciò perché essi per la
contrazione dei muscoli utilizzano soprattutto glucosio, fosforo e vit. B1.
Fabbisogni di mantenimento per i caprini: i fabbisogni energetici di mantenimento
variano in funzione del peso degli animali, dello stato fisiologico, delle condizioni
ambientali e del sistema di allevamento. Essi, in genere, sono inferiori nelle capre
tenute a stabulazione fissa rispetto a quelle che pascolano (se il tragitto per procurarsi
il pascolo è molto lungo e i terreni sono accidentati i fabbisogni di mantenimento
aumentano fino al 50%) e in quelle tenute in stalla (minore attività motoria, minore
spese energetiche per la termoregolazione). Una capra di 60 Kg di peso vivo
necessita di 0,8 UFl al giorno e, quindi, 296 UFl all’anno.
I fabbisogni proteici sono proporzionali al peso metabolico dell’animale e sono pari a
2,14 g di PD e 2,20 g di PDI per Kg di peso metabolico.
8.2.2. Fabbisogni di accrescimento
L'accrescimento consiste nella moltiplicazione ed aumento di volume delle
cellule che formano i tessuti e gli organi di un animale, dal momento del suo
concepimento al momento in cui questo raggiunge l'età adulta.
Se il livello alimentare è alto, la crescita è rapida e l’animale raggiunge un
determinato peso ad un’età più giovane, invece, una riduzione del livello alimentare
determina un minore accrescimento e addirittura diminuzione in peso. Anche la
qualità della dieta ha la sua influenza così, ad esempio, gli animali che hanno
ricevuto una razione scarsa in proteine hanno una composizione corporea diversa da
quelli che hanno ricevuto una razione adeguata dal punto di vista proteico.
Il peso dell’animale può essere riferito all’intero peso corporeo o al suo corpo vuoto,
la sua carcassa o la massa corporea senza grasso. Per ciò che ci riguarda, ai fini delle
esigenze nutritive, l’animale è considerato soprattutto in termini di composizione
chimica (e di valore energetico) del suo corpo, intero o vuoto.
I fenomeni di moltiplicazione e di aumento di volume si accompagnano e s’integrano
attraverso la crescita (aumento di peso) e lo sviluppo (modificazione nella
conformazione e forma corporea). Ciò indica che, le varie parti del corpo crescono in
diversa misura e, quindi, le proporzioni cambiano man mano che l’animale raggiunge
la maturità. Il rapporto fra il peso di una parte del corpo ed il peso totale
dell’individuo può essere indicato dalla seguente equazione di tipo allometrico di
Huxley: y = bxa;
oppure log y = log b + a log x; dove y = peso della parte del corpo
in esame; x = peso dell’animale; a = coefficiente di crescita; b è una costante. Se il
valore di a è superiore all’unità significa che la parte cresce in modo più rapido
rispetto all’intero corpo dell’animale e una parte che ha questo comportamento si
afferma che “matura tardi” mentre, per le parti con coefficiente inferiore all’unità si
afferma che “maturano prima”.
Ad esempio, se il grasso ha coefficiente a = 1,5 e il muscolo e le ossa hanno
coefficienti di 0,99 e 0,80, rispettivamente, significa che il grasso è un componente
che matura tardi, mentre il muscolo e, soprattutto, le ossa maturano presto. La parte
interessata può essere una regione del corpo (testa, taglio di carne tipico in sede
165
commerciale), una parte ottenuta per dissezione (osso, muscolo, grasso) o un
componente chimico (acqua, proteine, estratto etereo, ceneri).
Coefficienti di crescita per l’acqua, le proteine, i grassi ed il contenuto energetico
nell’intero corpo vuoto di ovini
30
20
0,74
Energia
... 1000
------
acqua
10
1,59
500
1,99
Kg Energia
(MJ)
6
0,80 200
4
- -
proteine
-------
grassi
100
2
50
20 30 40 50 60
Peso del corpo vuoto (kg)
Ad esempio, i dati riportati in figura indicano che gli incrementi di peso del corpo di
ovini che crescono da 20 a 30 kg contengono 133 g di proteine, 313 g di grasso e
16,3 MJ/kg mentre gli incrementi ponderali di ovini che crescono da 50 a 60 kg
contengono 113 g di proteine, 682 g di grasso e 26,0 MJ/kg. In genere, quando un
soggetto diventa adulto diminuisce la % di acqua e di proteine e aumenta quella del
grasso nel suo organismo. Se il principio allometrico di Huxley fosse esattamente
applicato agli individui di una stessa specie, l’allevatore sarebbe in grado di produrre
animali con una specifica composizione della carcassa semplicemente portandoli ad
un determinato peso. Comunque, la composizione del corpo non è determinata solo
dal peso del corpo ma anche da altri fattori quali la tecnica di allevamento, il sesso,
l’alimento e, quindi, il controllo della qualità della carne non è semplice.
Peraltro, da un punto di vista nutrizionale, bisogna considerare anche la
composizione delle parti anatomiche o delle parti dissezionate della carcassa, in
quanto è in stretto rapporto con il valore della carne degli animali.
100
Coefficienti di crescita delle ossa, Muscolo 0,992 dei muscoli e del grasso della car- 10 cassa di suino (da McMeekan e coll., 1964)
Kg Ossa 0,804
1
0,1
Grasso 1,499
0,01 1 10 100
Peso del corpo vuoto (kg)
Le modifiche nelle proporzioni del corpo durante lo sviluppo sono importanti da un
punto di vista nutrizionistico, in quanto, influenzano i fabbisogni alimentari degli
animali.
Il loro andamento è rapido dalla nascita alla pubertà, poi rallenta man mano che lo
sviluppo e il peso vivo si avvicinano a quello dell'età adulta, proprio della specie,
della razza e del tipo di soggetto. In genere, l'aumento di peso medio giornaliero nei
bovini e nei suini si ricava dalla tabella di Armsby anche se non tiene conto della
razza, del tipo e dell'individualità. Durante la crescita e lo sviluppo si ha una diversa
utilizzazione della disponibilità nutritiva, da parte dei vari tessuti e organi.
La misura più comune dell’accrescimento degli animali di interesse zootecnico è
rappresentata dall’incremento in peso ma, questa misura è molto grossolana perché i
cambiamenti di peso comprendono anche le variazioni di peso del contenuto
intestinale che, nei poligastrici concorrono spesso all’aumento del peso vivo in
misura del 20%.
I fabbisogni energetici, minerali e vitaminici di accrescimento vanno assommati a
quelli di mantenimento.
I fabbisogni energetici di accrescimento aumentano con il procedere della crescita
e dello sviluppo (e quindi dell'età) ma sono relativamente più elevati nei giovani.
167
Composizione e contenuto in energia dell’aumento in peso, osservati in animali di
diverse specie, età e peso vivo
Composizione dell’incremento in peso (kg)
Animali Peso vivo
(kg) Età Acqua Proteine Grasso Ceneri Energia
MJ/kg
Polli: Livornese
bianca
(a lenta crescita)
0,23
0,7
1,4
4,4 sett.
11,5 sett.
22,4 sett.
695
619
565
222
233
144
56
86
251
39
37
22
6,2
10,0
12,8
Ovini:
femmine
Shropshire
9
34
59
1,2 mesi
6,5 mesi
19,9 mesi
579
480
251
153
163
158
248
324
528
22
31
63
13,9
16,5
20,8
Suini:
femmine
Duroc-Jersey
23
45
114
-
-
-
390
380
340
127
124
110
460
470
520
29
28
24
21,0
21,4
23,3
Bovini:
giovenche
Holstein
70
230
450
1,3 mesi
10,6 mesi
32,4 mesi
671
594
552
190
165
209
84
189
187
-
-
-
7,8
11,4
12,3
Calcolare la quantità di proteine e grassi che può depositare un suino di 60 kg che ha la capacità di
depositare 31 g/giorno di proteina a livello alimentare di mantenimento e 4,43 g in più per ogni MJ
di EM oltre il mantenimento, il quale ingerisce 25 MJ di EM al giorno:
Fabbisogni energia per ritenzione proteine = 42,3 MJ/kg
Fabbisogni energia per ritenzione grassi = 53,5 MJ/kg
Contenuto Energia lorda delle proteine = 23,7 MJ/kg
Contenuto Energia lorda dei grassi = 39,6 MJ/kg
Kf proteine = 23,7/42,3 = 0,56;
Kf grassi = 39,6/53,5 = 0,74
EM ingerita = 25 MJ/giorno
EM per mantenimento = 0,639 x 600,67
= 9,9 MJ/giorno
EM produzione = 25 - 9,9 = 15,1 MJ/giorno
Proteine depositate = 31 + 4,43 x 15,1 = 98 g (0,1 kg)
EM usata per le proteine = 42,3 x 0,1) = 4,23 MJ
EM usata per i grassi = 15,1 - 4,23) = 10,87 MJ
Grasso depositato = 10,87 / 53,5 = 0,203 kg
Peso tessuto magro depositato = 98 / 0,213 = 460 g (0,46 kg);
(si valuta dal contenuto proteico)
Incremento totale del corpo vuoto =
magro + grasso = 0,46 + 0,20 = 0,66 kg/giorno
Contenuto energetico dell’incremento =
(0,1 x 23,7) + (0,20 x 39,6) = 10,3 MJ
e quindi 10,3 / 0,66 = 15,61 MJ /kg
I fabbisogni in U.F. riferiti all'accrescimento di un Kg di peso vivo, sono alle varie
età e per le diverse specie, quelli evidenziati nelle tabelle.
I fabbisogni proteici di accrescimento sono stimati tenendo conto che nei giovani
animali i tessuti sono più ricchi di acqua (75% rispetto al 45% degli adulti) e le
proteine concorrono per il 20% circa alla costituzione del loro corpo, mentre negli
animali adulti la % si abbassa al 15-16%.
Quindi, nei giovani, dove la sintesi proteica è più intensa e la fissazione delle
proteine più elevata, le esigenze proteiche sono notevoli, tenuto conto anche del più
accentuato accrescimento dell'età giovanile. Per i bovini si calcola, mediamente, un
fabbisogno proteico di accrescimento di 230-250 g di proteine digeribili per kg di
accrescimento.
I fabbisogni minerali e vitaminici per l'accrescimento negli animali giovani sono
proporzionalmente più elevati che negli adulti e, soprattutto, per le vitamine bisogna
tenere conto che nella giovane età oltre che una maggiore quantità di caroteni e di
vitamina A, la vitamina D è indispensabile anche per il metabolismo del calcio, del
fosforo e che nei giovani non sono presenti i fenomeni di sintesi che si rilevano (o si
possono rilevare) negli animali adulti. I fabbisogni medi di tutti gli animali, di
qualsiasi specie sono calcolati tenendo conto della loro età fisiologica cioè della %
del peso dell'animale giovane rispetto al peso dell'età adulta.
8.2.3. Allattamento
a) vitelli - I mammiferi sono forniti di mammelle che secernono il latte per la
nutrizione dei neonati, durante il primo periodo della loro vita. Lo stomaco e
l’intestino dei neonati sono di scarsa capacità e contengono il meconio che è una
sostanza vischiosa, accumulatasi durante lo sviluppo fetale. Nei primi giorni di vita,
il neonato ha bisogno di un alimento (colostro) che in poco volume contenga,
soprattutto, proteine, sali minerali e vitamine ed anche anticorpi di cui il neonato
stesso è sprovvisto.
Il colostro è di colore bianco-giallastro, più denso del latte comune, di sapore
dolciastro-salato e di odore caratteristico. E’ più digeribile e più nutriente del latte ed
ha una leggera azione purgativa che favorisce l’eliminazione del meconio.
L’elevato contenuto in proteine del colostro è dovuto soprattutto alle globuline le
quali sono importantissime per la formazione degli anticorpi. Con l’alimentazione
colostrica, soprattutto nelle prime 24-36 ore, le gammaglobuline nel sangue del
neonato aumentano notevolmente dandogli la difesa immunitaria e a ciò contribuisce
anche la vitamina A e i caroteni che sono presenti nel colostro in quantità 10 volte
superiore a quella del latte. La vitamina D nel colostro è presente 3 volte in più
rispetto al latte mentre il calcio e il fosforo fino a 2-3 volte. Nel latte sono contenute
solo tracce di rame e ferro mentre nel colostro sono contenute quantità fino a 20 volte
in più. Per i vitelli nati nel tardo inverno, in aggiunta al colostro, è preferibile
somministrare una dose giornaliera di 1,5-2 milioni U.I. di vitamina A e ciò perché
essa in questo periodo è carente nel colostro. L’assorbimento intestinale degli
anticorpi nel neonato è influenzato da:
- le favorevoli condizioni anatomiche che consentono agli anticorpi, presenti nel
colostro, di passare inalterati nel sangue attraverso la mucosa intestinale, si verificano
entro le 24-36 ore dalla nascita;
- la permeabilità dell’intestino del neonato agli anticorpi si mantiene al suo livello
massimo entro le prime 12 ore, poi cala rapidamente;
169
- le successive ingestioni di colostro, fatte al momento opportuno, non sono
controindicate anzi, il loro effetto si accumula;
- l’immunità passiva più elevata viene raggiunta mediante il frazionamento del
colostro in più pasti di modesto volume.
In conclusione, il neonato nei primi giorni e, soprattutto, nelle prime 6 ore di vita
deve avere un’alimentazione a base di colostro e, possibilmente, di quello della
madre, a circa 40 °C. Mancando la possibilità di somministrare al neonato il colostro,
è possibile sostituire le sostanze in esso contenute e non contenute nel latte normale
con un poco di olio di ricino, qualche uovo sbattuto e della vitamina A e D; mentre,
per sopperire alla immunoglobuline si possono somministrare delle gammaglobuline
e del siero iperimmune anticoli fornito dall’industria farmaceutica. Inoltre, esiste la
possibilità di somministrare al neonato del colostro di altre madri della stessa
azienda, opportunamente raccolto in sacchetti e congelato per poi scongelarlo a 40 °C
al momento dell’uso.
Il latte è l’alimento ideale per la nutrizione dei giovani nati e ciò per due ragioni
fondamentali:
- esso contiene i principi alimentari necessari ai neonati per il loro sviluppo nel
primo periodo di vita;
- dato lo scarso sviluppo dell’apparato digerente i neonati possono utilizzare solo
un alimento concentrato liquido.
Allattamento artificiale - In commercio si trovano miscele lattee (latte ricostituibile)
adatte per essere sciolte in acqua e somministrate ai vitelli con il poppatoio o con il
secchio. Esse, generalmente, sono a base di polvere di latte magro, grassi vegetali ed
animali, vitamine ed integrativi. Il latte ricostituito, essendo più completo e nutritivo
del latte naturale, è capace di assicurare l’accrescimento dei vitelli in modo regolare
per un lungo periodo di tempo e, soprattutto per l’ingrasso, è capace da solo di
produrre animali fino al peso di 200-220 Kg. Ciò è dovuto al fatto che:
1) la somministrazione del latte ricostituito permette di far assumere al vitello tutti i
principi alimentari e tutta l’energia indispensabile per un rapido accrescimento;
2) dato lo scarso sviluppo dell’apparato digerente dei vitelli, sarebbe per loro
impossibile utilizzare per un lungo periodo solamente il latte naturale, il quale non è
sufficientemente nutritivo.
L’alimentazione a base di latte ricostituito può protrarsi fino alla macellazione dei
vitelli da ingrasso (vitelli a carne bianca) mentre, per quelli da allevamento, invece,
anche per favorire uno sviluppo ruminale, il latte ricostituito deve essere
precocemente integrato con concentrati e foraggi secchi. In particolare:
- se trattasi di soggetti destinati all’allevamento (riproduzione, vitelloni da
ingrasso) dal 10° giorno oltre al latte bisogna somministrare una miscela adatta di
concentrati e dalla 3a settimana si somministra anche del buon fieno polifita;
- se trattasi di soggetti destinati al macello (vitellone precocissimo o mezzo
lattone, ultra baby-beef o barley-beef) dalla seconda settimana bisogna integrare la
razione lattea con una buona miscela di concentrati a base, soprattutto, di cereali.
In tutti i casi, i vitelli devono disporre di acqua da bere a volontà.
In genere, dal 10° al 14° giorno di vita è conveniente somministrare al vitello una
miscela asciutta (miscela di avviamento) nella quale come componenti risulti anche
la polvere di latte magro e abbondanti dosi di vitamine; dopo il 40° giorno si
somministrano miscele complementari o di svezzamento che possono essere
acquistate o costituite in parte, da prodotti aziendali e in parte da mangimi acquistati.
Peraltro, sono in commercio dei nuclei proteici, vitaminici e minerali che miscelati in
varie proporzioni percentuali con granaglie e cruscami, possono dare miscele di
mangimi concentrati bilancianti la razione giornaliera, adatti per l’alimentazione
delle diverse specie animali alle differenti età.
Nell’alimentazione del vitello bisogna considerare:
- sia un’alimentazione troppo scarsa che quella troppo abbondante sono dannose
infatti, nel primo caso oltre ad avere un lento accrescimento si può avere una
depravazione dell’appetito e il vitello affamato è spinto ad ingerire materiali dannosi
per il suo stomaco non ancora irrobustito, nel secondo caso, invece, si possono
verificare fenomeni di diarrea da dieta che abbassano la resistenza del vitello e lo
rende più attaccabile dalle infezioni batteriche;
- i vitelli da vendere come vitelli grassi da latte o a carne bianca devono essere
alimentati esclusivamente con latte;
- per i vitelli da vendere a 350 o più Kg, mantenendo però il colore rosa chiaro
delle carni (barley-beef o mezzo lattone) l’alimentazione lattea deve essere integrata
con adatte miscele di concentrati (cereali in granella schiacciati);
- i vitelli da rimonta e quelli per la produzione del baby-beef e del vitellone,
inizialmente devono essere alimentati con latte, poi devono ricevere, in aggiunta al
latte, un’adatta miscela di concentrati ed acqua a volontà e dalla 3a settimana di vita
devono disporre di un buon fieno di erbe falciate giovani. Soprattutto, per i futuri
vitelloni, successivamente, il fieno sarà sostituito da silo-mais e il concentrato dal
pastone di mais con le dovute integrazioni di proteine e minerali e il latte sarà
definitivamente sospeso.
Svezzamento: per svezzamento si intende la sospensione dell’alimentazione lattea ed
il passaggio a mangimi normali (concentrati, fieno, insilati) e questa tecnica è in
continua evoluzione. La durata del periodo di svezzamento dipende dalla futura
carriera del vitello, dalla disponibilità e dal costo di alimenti idonei al soggetto in
quell’età, alla disponibilità di manodopera e alla preparazione tecnica della stessa.
Comunque, lo svezzamento deve realizzarsi in modo tale da non causare situazioni
stressanti (crisi di svezzamento). A seconda della destinazione degli animali, lo
svezzamento dovrà avvenire in modi e tempi diversi:
- - per vitelli destinati ad essere ingrassati come baby-beef o vitelloni lo
svezzamento sarà precoce o precocissimo (35-60 giorni);
- - per vitelle destinate alla rimonta esso sarà precoce o più tardivo (60-90 giorni);
- - per vitelli maschi destinati alla riproduzione lo svezzamento sarà più tardivo
(90-120 giorni).
b) bufali - Premesso che, il parto anche nella bufala debba avvenire in ambiente
igienicamente valido che può essere identificato in una sala parto razionale od in un
ambiente all'aperto ma non affollato, preferibilmente un prato erboso, è necessario
separare il vitello dalla madre al fine di non abituarlo a succhiare dalla mammella. In
ogni caso, è opportuno che esso effettui almeno una poppata di colostro direttamente
dalla madre. Successivamente, deve essere posto in una gabbia metallica da
disinfettare ad ogni ciclo. Per almeno 5 gg è opportuno fornire colostro a circa 37°C
in due somministrazioni giornaliere ed in quantità limitate a 2- 3 litri per poppata. La
prima somministrazione di latte, a mano, è opportuno che sia effettuata quando il
vitello mostra appetito, il che significa che ha ben digerito il colostro succhiato
direttamente dalla mammella. Questo accorgimento è fondamentale; è preferibile
saltare un pasto (12 ore di digiuno non influenzano la vitalità) piuttosto che fornire al
neonato metà razione, che potrebbe determinare disturbi digestivi e fargli assumere
latte freddo. La mancanza di appetito, infatti, ritarda l'assunzione con conseguente
171
abbassamento della temperatura del latte e compromissione della coagulabilità della
caseina nel 4° stomaco. Dopo 6-7 gg è opportuno somministrare, in ragione di circa
5-6 l/giorno, suddivisi in due poppate, latte ricostituito. Quest'ultimo va preparato
miscelando 120 g di polvere con 880 g di acqua alla temperatura di circa 40°-44° C.
Questa quantità deve restare fissa fino all'età di 40 gg. Nell'intervallo tra le due
poppate è bene lasciare a disposizione acqua ed incominciare a somministrare, a circa
20 gg, piccole quantità di fieno di prato polifita e mangime composto integrato per
svezzamento precoce. Dopo i 40 gg, la quantità di latte va ridotta di un litro ogni 2
settimane in modo da svezzare completamente i vitelli intorno ai 3 mesi. In questa
fase e nella successiva e fino ai 6 mesi è opportuno somministrare fieno ad libitum e
mangime composto integrato (m.c.i.) al 15% in protidi grezzi ed al 13% circa di
cellulosa (sul tal quale). Sono da preferirsi i m.c.i. ricchi di cellulosa digeribile che
non provocano alterazioni della flora ruminale in caso di eccessiva assunzione. Con
tale tecnica, all'età di 6 mesi i soggetti dovrebbero superare il peso di circa 170 kg
con un razionamento medio tra i 3 ed i 6 mesi di circa 1,8 UFC/q di peso vivo ed un
rapporto foraggio/concentrato di 1:1. Dopo questa fase, seconda la destinazione
futura, sarà effettuato un razionamento differenziato.
c) agnelli – poco dopo la nascita l’agnello cerca la mammella della madre ed inizia
la suzione del colostro che dura 4-5 giorni. Dopo ci si comporta in funzione della
destinazione dell’agnello. Così, ad esempio, nel Lazio, Sardegna e Sicilia si tende a
valorizzare il latte delle pecore e il mercato richiede l’agnello da latte o abbacchio di
circa 8-10 Kg di peso vivo e l’allattamento (l’agnello utilizza solo latte materno) dura
circa 25 giorni. In Puglia (Tavoliere) e Toscana Maremma Grossetana), invece
l’allattamento dura 7-8 settimane (agnello pesante di 16-18 Kg) e gli agnelli oltre il
latte materno o quello ricostituito hanno un supplemento di concentrati. Nell’Italia
settentrionale, in genere, l’allattamento si protrae per 3-4 mesi (agnello bianco) con
latte della madre o ricostituito e con integrazione della dieta con concentrati a partire
dal 35° giorno di età.
Gli agnelli da rimonta devono allattare per almeno 3 mesi e lo svezzamento avviene
gradatamente in due settimane circa.
Anche nell’allevamento ovino si va diffondendo l’allattamento artificiale e questa
tecnica permette di:
- assicurare un regime alimentare più costante agli agnelli che, nelle condizioni di
allattamento naturale, vanno soggetti alla variabilità quanti-qualitativa della
produzione lattea materna;
- allevare agnelli gemelli per i quali la produzione di latte materna è insufficiente;
- ridurre la frequenza di malattie negli agnelli, sottratti al contagio da parte delle
pecore;
- ridurre il periodo di interparto, soprattutto nelle razze da carne;
- aumentare il peso di macellazione degli agnelli delle razze da latte che,
tradizionalmente, vengono macellati a pesi molto modesti;
- poter conferire più latte all’industria casearia, soprattutto negli allevamenti da
latte.
La riuscita dell’allattamento artificiale dipende dalla corretta applicazione delle
norme riguardanti i tempi ed i sistemi di somministrazione. Il momento più idoneo
per dare inizio all’allattamento artificiale è compreso tra le 48 e le 72 ore dalla
nascita. L’adattamento dell’agnello alla tettarella del distributore del latte presenta
qualche difficoltà per cui è richiesta all’operatore molta attenzione e pazienza. Un
buon sistema è quello di lasciare gli agnelli a digiuno per un pò di tempo dopo la
separazione dalle madri, in modo da renderli affamati e disposti ad attaccarsi alla
tettarella. Nella fase iniziale, gli agnelli vanno seguiti singolarmente, aiutando quelli
che non riescono ad adattarsi ricorrendo, se necessario, all’uso di un biberon
individuale.
Il passaggio dal colostro al latte artificiale spesso provoca turbe dell’apparato
digerente che si manifestano con fenomeni di diarrea o meteorismo. Il latte artificiale
per essere perfettamente tollerato, deve coprire non solo i fabbisogni nutritivi ma
rispettare anche la funzione digestiva e, quindi, diviene importante il contenuto di
sostanza secca, proteine e grassi. Per avere lo stesso residuo secco di quello del latte
di pecora, quello in polvere va impiegato in ragione di 160-250 g/litro di acqua; in
genere, la concentrazione più bassa è usata per l’alimentazione ad libitum, quella più
alta se la somministrazione è razionata. Per avere un rapporto energia/proteina
similare a quello di pecora il latte artificiale dovrebbe contenere un 27-30% di grassi
e un 21-23% di proteine. Per quanto riguarda il numero di somministrazioni
giornaliere, si ritiene che una somministrazione ad libitum sia più idonea rispetto a
quella ripartita in 3-4 pasti. Infatti, con l’alimentazione ad libitum la frequenza delle
poppate riduce la quantità di latte ingerito per poppata evitando così gli inconvenienti
nei giovani animali. Nei primi giorni, per far assumere quantità sufficienti di latte
agli agnelli si consiglia di somministrarlo ad una temperatura di 37-38 °C,
successivamente si può dare anche freddo.
Nei piccoli allevamenti il latte può essere distribuito anche individualmente,
mediante biberons forniti di tettarelle in lattice, suddividendo gli agnelli in gruppi
omogenei per peso ed età. Negli allevamenti di medie dimensioni, invece, si ricorre a
secchi muniti di tettarelle; mentre, nei grandi allevamenti si usano le allattatrici
meccaniche od elettromeccaniche. Le allattatrici hanno i seguenti vantaggi:
- rapidità di preparazione del latte;
- possibilità di somministrare il latte alla temperatura voluta e di mantenere la sua
concentrazione su valori quasi costanti;
- possibilità di conservare lo stato chimico-fisico del latte, data la presenza di
agitatori che lo omogeneizzano durante la preparazione e la sosta.
I ricoveri nei quali si pratica l’allattamento artificiale devono essere asciutti,
illuminati, esenti da correnti d’aria, con umidità relativa non superiore al 75% e con
temperatura oscillante tra 14 e 20 °C. I locali e le attrezzature (soprattutto secchi,
tettarelle, allattatrici) devono essere ben lavati e disinfettati.
Il consumo pro capite di latte artificiale (espresso come sostanza secca) nella prima
settimana è mediamente di 250 g giornalieri per raggiungere i 350-400 g verso la 5a
settimana. Gli incrementi ponderali giornalieri sono di circa 150-180 g nella prima
settimana e, successivamente, vanno gradatamente aumentando fino a raddoppiare.
Gli indici di conversione della farina lattea in carne, nelle prime 4-5 settimane
oscillano tra 1,1 e 1,3.
Svezzamento degli agnelli – per i soggetti destinati al macello (abbacchio, agnello
pesante da latte) lo svezzamento coincide con la macellazione mentre, per quelli
destinati alla rimonta, per i castrati, per gli agnelli che prima della macellazione
devono essere ingrassati si hanno due tipi di svezzamento:
- - svezzamento naturale, a 90-120 giorni, (soprattutto per soggetti da rimonta)
seguito da alimentazione mista a pascolo e a mangimi concentrati;
173
- - svezzamento precoce, a 7-8 settimane, seguito da alimentazione intensiva da
ingrasso all’ovile, o mista al pascolo (agnello bianco, agnellone, castrato).
L’agnello può essere svezzato in modo brusco o graduale: il primo è più indicato
quando si pratica l’allattamento artificiale, il secondo quando gli agnelli sono allattati
dalle madri.
d) capretti – Per l’allattamento e lo svezzamento del capretto vale quanto già detto
per l’agnello. Le relative tecniche anche qui dipendono dal tipo di allevamento
(intensivo, estensivo) e dalla destinazione dei soggetti (macello, rimonta), nonché
dall’utilizzazione che si intende fare del latte materno (allattamento dei capretti,
vendita, trasformazione).
I capretti si abituano più facilmente all’allattamento artificiale e ciò, tenuto anche
conto della convenienza economica di utilizzare il latte caprino per la caseificazione,
i capretti sono allattati con latte bovino o con latte ricostituito più di quanto non lo
siano gli agnelli.
L’alimentazione lattea dura da 4 settimane a 6 mesi, e l’allattamento può essere
naturale o artificiale. Negli allevamenti estensivi o in quelli da carne prevale
l’allattamento naturale e di lunga durata, mentre in quelli intensivi da latte prevale
l’allattamento artificiale di breve durata.
È però sempre fondamentale che il capretto appena nato assuma, entro le prime ore di
vita, il colostro, ricco di immunoglobuline che lo proteggono da infezioni di batteri e
virus. Se il colostro non è assunto direttamente dalla madre, per evitare contagio da
CAEV (artrite-encefalite virale delle capre) o perché la madre è morta, bisogna
somministrare circa 100 ml di colostro/Kg di peso vivo per 2-3 pasti giornalieri. In
questi casi il colostro sarà congelato, se proveniente da animali sani, o di vacca.
Dopo due giorni di somministrazione di colostro, si passa al latte intero di capra o di
vacca o a latte in polvere ricostituito, fino ad almeno alla quarta-quinta settimana.
Se si impiega latte in polvere ricostituito, questo deve essere di buona qualità, con un
tenore in grasso tra il 15 e il 25% e in proteine tra il 20 e il 25% sul secco; non deve
avere eccesso di lattosio per non indurre diarrea.
Un’alternativa al latte in polvere è il latte acido, che ha il vantaggio di ridurre i
disturbi digestivi.
I sistemi di somministrazione sono principalmente tre: con allattatrice (lupa), con
secchio multi-biberon o con canaletta.
Con l’allattatrice si ha 1 tettarella ogni 15 capretti ed è conveniente in allevamenti
con più di 70 capretti; il latte è disponibile durante tutto il giorno e l’ingestione è
maggiore, anche se non è possibile controllare l’assunzione di latte dei singoli
capretti.
Il sistema a secchio prevede 1 tettarella a capretto e la somministrazione avviene tre
volte al giorno, ma l’ingestione di latte è inferiore rispetto ai sistemi automatici e la
richiesta di manodopera maggiore. Con il sistema a canaletta ogni capretto ha a
disposizione 25-30 cm di canaletta entro cui si trova il latte.
Per l’alimentazione delle caprette da rimonta l’obiettivo è quello di prepararle in
modo che verso i 7-8 mesi possano affrontare la gravidanza in maniera ottimale,
almeno negli allevamenti di tipo intensivo. Per far questo è necessario che, al
momento del primo salto, raggiungano un peso corporeo pari al 60% del peso vivo
adulto e, al momento del parto, un peso pari al 75% del peso vivo adulto. Pertanto,
l’allattamento sarà protratto fino a 3-4 mesi, riducendo il latte gradatamente dal 3°
mese.
.Confronto tra latte in polvere spray e latte acido
Tipo Caratteristiche Vantaggi Svantaggi
Latte in
polvere
spray
latte bovino scremato
essiccato con metodo
spray, distribuito con
allattatrice, secchio
multi-biberon,
canaletta
accrescimenti più
veloci, più simile al
latte materno,
maggior controllo
sull’ingestione dei
singoli animali
somministrazione solo a
caldo, una volta ricostituito
degrada rapidamente, va
preparato di volta in volta,
maggior impiego di
manodopera, > costo,
Latte
acido
non contiene latte in
polvere, ma
sottoprodotti caseari e
sieroproteine,
distribuito con
secchio multi-biberon
e canaletta
preparazione e
somministrazione a
freddo (>15°C), dura
diverse ore dopo
essere preparato,
sempre a
disposizione dei
capretti, minor
impiego di
manodopera, < costo
< controllo dell’ingestione
dei singoli animali,
accrescimenti più lenti,
Svezzamento - La tecnica di svezzamento varia a seconda del tipo di allevamento. In
quello estensivo o semi-estensivo, dove i capretti crescono sotto le madri, lo
svezzamento avviene nell’arco di 2-6 mesi in modo graduale. In quello intensivo,
invece, avviene o in modo progressivo o con passaggio netto da latte ad alimento
solido.
Negli allevamenti intensivi, dove si mira, soprattutto, alla produzione del latte,
l’allattamento dei capretti è praticato solo nei primi 7-15 giorni con il latte della
madre, somministrato al secchio o al biberon, successivamente, almeno per 5
settimane, con latte ricostituito al quale vanno aggiunti gradatamente fieno e
concentrati nonché alcune ore giornaliere di pascolo razionato.
Lo svezzamento dovrebbe cominciare quando il capretto ha raggiunto un peso pari a
2,5 volte quello della nascita. Lo svezzamento graduale rende più facile il cambio di
dieta.
I concentrati specifici per svezzamento e accrescimento devono avere un contenuto
proteico elevato (18-20% per svezzamento e 16-18% per accrescimento); è
consigliabile somministrare il concentrato inizialmente in più pasti ed in piccole dosi
per suscitare la curiosità dei capretti e favorire l’ingestione. È importante che i
capretti abbiano sempre a disposizione acqua fresca e pulita e facilmente accessibile.
I foraggi devono essere di ottima qualità e a disposizione già dalla 3° settimana, per
favorire lo sviluppo del rumine. Il pascolo rappresenta un’ottima risorsa per
l’allevamento delle caprette da rimonta, ma è necessario osservare alcune
precauzioni:
175
non far pascolare le caprette su parcelle già pascolate da ovi-caprini, per evitare il
rischio di parassitosi;
il pascolo deve avere essenze appetibili e tagliate da poche settimane o pascolate
in precedenza da bovini o equini (altezza del cotico erboso 7-12 cm);
l’uscita al pascolo deve avvenire intorno ai 4-5 mesi per animali svezzati a 2 mesi;
il tempo dedicato al pascolamento deve essere graduale e progressivo nell’arco di
2 settimane, per non creare squilibri alimentari.
Relativamente al fabbisogno dei becchi va considerato che, per il mantenimento essi
sono analoghi a quelle delle capre adulte, con una richiesta energetica superiore del
10%. Durante la stagione di monta, invece, i fabbisogni crescono del 15% circa. A
partire da 6 settimane prima delle monte e per tutta la loro durata, bisogna integrare
con concentrati ricchi in cereali (300-600 g/giorno, secondo il peso). Il contenuto in
fosforo della razione deve però essere limitato, per non provocare litiasi urinaria, con
disturbi all’attività sessuale.
e) suinetti - La produzione di latte nella scrofa necessita di uno stato di quiete in
quanto qualsiasi eccitazione dovuta a rumori, a cambi di porcilaia, presenza di
personale non addetto all’allevamento provoca rapidamente scariche di adrenalina
capaci di arrestare la produzione di latte e di restringere il lume dei canali galattofori.
I lattonzoli poppano ogni 1-3 ore sia di giorno che di notte, le poppate diradano con
l’età. I suinetti poppando stimolano essi stessi la produzione di latte secondo il
meccanismo schematizzato:
- effettuano un vigoroso massaggio della mammella e del capezzolo per 30 secondi;
- ognuno si attacca al proprio capezzolo di elezione aspettando che il latte scenda;
- iniziano la vera e propria suzione che dura circa 20 secondi.
Successivamente, ripetono le stesse operazioni per 3-4 volte: per ogni suzione
ingurgitano 20-40 g di latte, pari a 60-120 g per poppata e a 600-1.200 g durante le
24 ore.
Il latte di scrofa ha un elevato potere nutritivo (1.200 Kcal di EL/Kg). Ogni scrofa
che allatta produce 6 g di S.S. del latte per ogni Kg di peso vivo (contro i 5 della
capra e i 3 della vacca. Mediamente, produce 5,3-5,5 Kg di latte al giorno con punte
massime di 9 Kg ed un totale per l’intera lattazione di 300-350 Kg.
La quantità di latte prodotto varia con l’età e il numero di lattazioni; l’aumento di
peso avuto dalla scrofa durante la gestazione; l’entità della nidiata; la posizione di
mammella considerata (quelle anteriori possono erogare fino al 60% di latte in più).
Il picco massimo di produzione tende a cadere dopo la 3a settimana di lattazione ma,
già dal 10° giorno la lattazione comincia a manifestare una progressiva insufficienza
energetica. Considerando, invece, che i fabbisogni nutritivi dei suinetti aumentano
sempre di più in modo continuo e rapido, già alla fine della 2a settimana di vita il
solo latte materno non è più sufficiente a soddisfare le esigenze caloriche di una
nidiata di 10 suinetti. A parte l’aspetto energetico, il latte di scrofa non riesce ad
apportare sufficienti quantità di principi nutritivi (vi è anche carenza di ferro)
necessari per il normale accrescimento e per il mantenimento di un buono stato di
salute dei suinetti. Quindi, già dalla prima-seconda settimana bisogna somministrare
mangimi complementari del latte materno, di adatta composizione. Essi, detti anche
mangimi di preavviamento, vanno distribuiti a volontà nella gabbia da parto,
contengono anche polvere di latte e devono essere ben appetiti per spingere i suinetti
a ingerirne sempre di più prima dello svezzamento. La farina deve essere macinata a
grana non molto fine oppure, può essere somministrata sotto forma di cubetti ed è
preferibile incorporare alla miscela idonee quantità di zucchero e sostanze appetibili
o, appetizzanti opportunamente odorizzate con aromi graditi all’animale.
Svezzamento: nonostante gli incontestabili progressi compiuti nella tecnica, lo
svezzamento è ancora l’operazione che crea più problemi all’allevatore a causa delle
possibili diarree, ritardi di crescita, stress e malattie che ne possono derivare.
Il momento ottimale per lo svezzamento è in relazione all’andamento della
produzione lattea della scrofa, dall’organizzazione dell’allevamento e dalla
disponibilità di ricoveri e di attrezzature nonché dai riflessi che la interruzione della
lattazione ha sull’efficienza riproduttiva della scrofa. Tradizionalmente, lo
svezzamento avveniva a 50-60 giorni di età, oggi si tenta di anticiparlo per aumentare
il numero annuo (2,3 – 2,5) dei parti nella scrofa. Orientativamente, si ha
convenienza a ridurre la durata della lattazione e, quindi, anticipare l’epoca dello
svezzamento solo nella misura in cui ciò non provochi turbe sanitarie e
dell’accrescimento nei suinetti, o della riproduzione nelle scrofe.
f) puledri - Il puledro comincia a succhiare il latte materno poco dopo la nascita, se
occorre bisogna aiutarlo a trovare i capezzoli e invogliarlo a succhiare in quanto è
necessario che assuma il colostro entro 36 ore; se, nonostante ciò, non si abitua è
necessario mungere la cavalla e somministrare il colostro con un biberon a piccole
dosi, almeno ogni due ore e per un totale di 2-2,5 litri al giorno. In caso la madre non
producesse colostro, bisogna procurarsi il colostro di un’altra cavalla dello stesso
allevamento oppure si somministra al puledro un leggero purgante per liberarlo del
meconio e praticare un’iniezione di siero di cavallo per immunizzarlo. In genere, il
puledro poppa ad intervalli di ½-1 ora all’inizio e con intervallo maggiore
successivamente. Verso il 3° mese ingerisce 10-15 litri di latte al giorno. Dopo 15-20
giorni dalla nascita, conviene mettere a disposizione del puledro erba e fieno e,
successivamente, avena e mangime in pellets fino ad arrivare a 1-1,5 Kg di
concentrato al giorno, verso i 3-4 mesi.
In casi particolari, una volta fatto assumere il colostro, il puledro sarà sottoposto ad
allattamento artificiale il quale sarà praticato con latte ricostituito oppure con latte
vaccino con aggiunta di acqua (2 litri di latte e uno di acqua), un po’ di zucchero e un
integratore vitaminico (soprattutto Vit. A e D3).
Il Gratani suggerisce che il latte per l’allattamento artificiale dei puledri sia costituito
da: 5 parti di latte bovino fresco + 3 parti di acqua + 35 g di zucchero per ogni litro di
miscela ed esso va somministrato come segue:
- mezzo litro, ogni due ore nella prima settimana;
- 12 litri, suddivisi in 6 pasti, nella 2a e 3
a settimana
- 14 litri, suddivisi in 4 pasti, dalla 4a all’8
a settimana;
- 14 litri, suddivisi in tre pasti, dalla 9a settimana.
Mentre, Jackson consiglia una miscela composta da: 120 g di latte bovino + 120 g di
acqua calda + un cucchiaino di acqua di calce la quale va somministra in dose di 250
g ogni 2 ore nella 1a settimana, successivamente dilazionare ogni 2 ore fino a portare
le poppate giornaliere a 4 dopo il primo mese di vita.
Bisogna considerare che, il puledro raddoppia il peso alla nascita già a 45 giorni di
vita e lo triplica tra i 90 e i 100 giorni.
Svezzamento: con l’adozione dell’allattamento materno allo stato brado o semibrado,
il puledro si abitua gradualmente a consumare dosi crescenti di erba e alla
diminuzione progressiva del latte della madre la quale, peraltro, se di nuovo in
gravidanza impedisce al puledro di poppare ed è, quindi, giunto il momento di
separare definitivamente il puledro dalla fattrice. Nell’allevamento a sistema stallino
177
o semistallino, quando si ritiene che sia giunto il momento dello svezzamento si
permette al puledro di poppare solo 4 volte al giorno per poi passare gradatamente,
nel giro di 3-4 settimane, a 0.
g) conigli - La produzione massima di latte nella coniglia ha il suo picco tra i 16 e i
18 giorni dal parto, quando la stessa produce 200 g di latte al giorno. L’allattamento
naturale dura 7 settimane, circa, e in caso di necessità, il latte di coniglia è difficile se
non addirittura impossibile imitare. Quindi, in caso di prematura morte della coniglia
o per la sua mancanza di latte, è preferibile collocare i suoi redi presso altre coniglie
allattanti, confondendoli nella nidiata, dopo aver fatto loro assumere il comune odore
caratteristico strofinandoli con il pelo depositato nel nido. Il numero di capezzoli
nella coniglia varia da 6 a 10 e una buona fattrice dovrebbe avere 8-10 capezzoli
funzionanti. La pesata della nidiata permette di apprezzare la portata lattifera della
fattrice, infatti, va considerato che, approssimativamente, 1 grammo di incremento
ponderale richiede due grammi di latte. In genere, conviene pesare la nidiata alla
nascita e poi a 20 giorni e a parità di numero dei componenti la nidiata, la produzione
lattifera giornaliera media corrisponderà a circa un decimo della differenza tra i due
pesi. I coniglietti sono privi di peli e ciechi fino a 10-12 giorni; la madre li allatta una
volta al giorno ad intervalli regolari, verso i 12-14 giorni essi sono in grado di uscire
dal nido e a 15-16 giorni di iniziare l’assunzione di alimenti solidi (pellets e fieno
foglioso). A 20 giorni, l’alimentazione dei coniglietti è ancora esclusivamente a base
di latte, mentre a 24 -25 giorni essa scende al 50% e a 35 giorni, la produzione di
latte è insignificante.
Svezzamento: lo svezzamento dei coniglietti è legato al ritmo riproduttivo delle
fattrici e all’organizzazione aziendale e può essere: precocissimo, precoce,
fisiologico, tardivo. Negli allevamenti in cui si praticano ritmi riproduttivi
semiestensivi, con accoppiamenti a 10 giorni dal parto (sono i più numerosi), lo
svezzamento fisiologico può essere effettuato a 27-30 giorni dalla nascita, con
soggetti aventi un peso di almeno 350-380 g; invece, negli allevamenti con ritmo
riproduttivo intensivo lo svezzamento è precoce e cioè a 18-20 giorni. Per
l’applicazione di queste tecniche è necessario dotare la gabbia della fattrice di una
mangiatoia e di un abbeveratoio supplementari, ai quali possono accedere solo i
coniglietti che si devono abituare a mangiare appena usciti dal nido. Il mangime
fornito ai coniglietti deve essere sotto forma di pellet, altamente nutritivo e
facilmente digeribile, cioè deve rappresentare un buon sostitutivo del latte materno.
Alcuni suggeriscono di somministrare anche piccole quantità di fieno di medica
foglioso.
8.3. Fabbisogni di ingrasso
La carne è costituita da fasci muscolari più o meno infiltrati di grasso
(marezzatura). La formazione della carne quindi è connessa con l'accrescimento.
Quando si parla di ingrasso, perciò:
a) qualora si tratti di animali giovani, s’intende accelerare l'accrescimento (e la
formazione di fasci muscolari) favorendo anche un'adeguata ma non eccessiva
produzione di grasso e quella rifinitura che promuove la maturazione della carne;
b) qualora si tratti di animali adulti s’intende favorire quel moderato accrescimento
del tessuto muscolare ancora possibile, data l'età, ma soprattutto, una progressiva
deposizione di grasso del tessuto connettivo sottocutaneo, perimuscolare ed
inframuscolare che fanno assumere all'animale quelle caratteristiche proprie del
soggetto ingrassato ed alla relativa carne migliori qualità organolettiche di tenerezza
e sapidità.
Negli animali adulti, i fabbisogni di ingrasso si concretizzano nell'aggiunta ai
fabbisogni di mantenimento di supplementi energetici, proteici e vitaminici
proporzionati al grado ed alla rapidità di ingrassamento desiderato. Nei bovini adulti,
ad esempio, per i quali i fabbisogni energetici di mantenimento sono 0,85 UFC /q,
quelli di ingrasso vanno da 0,7 a 1,40 UFC/q ed i fabbisogni proteici sono di 100-150
g di proteina digeribile per q di peso vivo. Negli animali giovani, i fabbisogni di
ingrasso tengono conto che in una prima fase (messa in carne; magronaggio nei suini)
si somministra un’alimentazione ricca sotto il profilo proteico, minerale e vitaminico
allo scopo di accelerare al massimo lo sviluppo muscolare e scheletrico; in un
secondo periodo (finissaggio) bisogna aumentare la quota energetica della razione (2-
2,5 volte la quota di mantenimento) facendo uso di alimenti ricchi in estrattivi
inazotati, in modo da permettere l'ulteriore accrescimento dello scheletro e delle
masse muscolari favorendo anche la deposizione di grasso e quella rifinitura di cui si
è detto. Bisogna però evitare l'eccessiva grassosità che deprezza il valore
dell'animale. Per i bovini, i piani alimentari sono basati sui livelli nutritivi:
alto: 2-3 UFC./q p.v.
medio: 1,8-2,0 UFC./q p.v.
Bovini – la tecnica di ingrassamento deve essere tale da provocare il massimo
sviluppo delle parti muscolari con un adeguato deposito di grasso intramuscolare.
Ciò è possibile solo attraverso un’alimentazione intensiva la quale consente anche di
anticipare i tempi di macellazione e, quindi, una maggiore tenerezza delle carni e una
maggiore produzione di carne magra con un massimo sviluppo di tagli pregiati. I
piani alimentari da adottare nell’ingrassamento differiscono a seconda del tipo di
animale che si intende produrre:
- vitello da latte a carne bianca (200-250 kg): sono destinati all’ingrasso i vitelli
subito dopo la fase colostrale, ad 8-10 giorni circa. L’allevamento è fatto detenendo i
vitelli, per circa 150 giorni in gabbie di dimensioni tali da limitare il movimento
dell’animale, pur consentendogli di alzarsi e coricarsi comodamente. Durante le
prime 24 ore dall’arrivo nell’allevamento, i vitelli sono tenuti a digiuno,
somministrando solo 2-3 litri di acqua bollita e zuccherata. Nel secondo giorno ha
inizio l’alimentazione esclusivamente a base di latte ricostituito. Bisogna considerare
che il colore della carne di questi animali deve essere rosa-chiaro e questo colore è
dovuto allo stato anemico, dipendente dall’alimentazione lattea e dalla mancanza di
ferro nel tipo di alimento usato. La polvere di latte che viene utilizzata è
completamente priva di ferro e bisogna fare attenzione che anche l’acqua usata per
ricostituire il latte non sia ferruginosa. Nel primo periodo di ingrassamento, i vitelli
devono ricevere un’integrazione minerale comprendente anche gli oligoelementi
indispensabili, ferro compreso; per soddisfare questa esigenza, l’integrazione viene
somministrata per tutto il primo mese di ingrasso e poi sospesa. Le diverse case
produttrici di latte ricostituibile suggeriscono il modo di preparazione del latte e la
sua concentrazione in funzione dell’età dell’animale; queste indicazioni devono
servire solo come orientamento ma l’allevatore deve variare l’alimentazione tenendo
conto delle caratteristiche individuali del singolo animale. Il miglior indice per il
dosaggio del latte da somministrare ad ogni vitello è rappresentato dall’esame della
consistenza e del colore delle feci, nonché dall’assenza nei vitelli di timpanismo.
Il vitello da latte grasso se ha ricevuto un’appropriata alimentazione presenta dorso e
cosce pienamente carnosi, uno strato di grasso sulla carcassa e una sufficiente
179
formazione di grasso sui lombi, grasso bianco con giusta consistenza, la carne è quasi
bianca, tenera ma non molle.
- vitellone precocissimo o “mezzo lattone” o barley-beef per gli inglesi e ultra
baby-beef o children-beef per gli americani (8-11 mesi di età, 300-350 Kg di peso.
Il Preston (Università di Aberden) ha messo a punto un piano che si divide in due
periodi: 1) riguarda la tecnica di alimentazione dalla nascita allo svezzamento; 2)
dallo svezzamento alla macellazione (350 Kg). Nella prima fase, i vitelli sono
alimentati solo con latte ricostituito, fino al raggiungimento del peso di 70-80 Kg; a
partire dalla quarta settimana di età, essi ricevono anche una miscela di concentrati.
Lo svezzamento è praticato bruscamente quando gli animali hanno raggiunto il peso
prima detto. La fase di ingrasso inizia quando i vitelli hanno raggiunto il peso di 120-
140 Kg. Il mangime è somministrato ad libitum e per avere i migliori risultati
bisogna fare in modo tale da raggiungere un livello massimo di ingestione ed
utilizzazione degli alimenti da parte degli animali. La razione ideale per bovini a
rapido accrescimento deve contenere una quantità massima di concentrati amidacei
(cereali), integratori sufficienti a soddisfare i fabbisogni nutritivi degli animali e una
quantità minima di fibra necessaria al fine di assicurare la salute degli stessi. Se
vengono esclusi completamente i foraggi, la razione deve contenere almeno il 65% di
orzo e il 35% di avena. In America, considerata l’elevata produzione di mais, questo
cereale sostituisce l’orzo in miscele composte da farine di estrazione di semi di
cotone, fieno di medica sfarinato, ecc. Inoltre, secondo gli americani la fibra grezza
deve rappresentare almeno il 10% della razione.
Tra le tecniche attuate in Italia, degna di nota è quella proposta dal Borini la quale si
differenzia da quella di Preston per il fatto che nella fase intermedia
dell’ingrassamento, si aggiunge alla miscela di concentrati il 15-20% di farina di
fieno di medica allo scopo di stimolare la funzionalità ruminale e prevenire il
meteorismo. Peraltro, questa variante rende il razionamento più economico.
- vitellone precoce o baby-beef (11-14 mesi di età, 400-450 Kg di peso): conviene
partire da giovani vitelli da latte, in quanto il trattamento alimentare deve essere per
tutto il periodo ad un livello tale da favorire al massimo lo sviluppo delle porzioni
muscolari, con la formazione di un leggero strato di grasso, soprattutto, nell’ultima
fase di allevamento e cioè quella che va sotto il nome di finissaggio. Così facendo si
ottengono soggetti carnosi, con colore della carne di un rosso non carico, tenerezza e
succosità della carne corrispondenti a quelle richieste dal consumatore. Gli alimenti
utilizzati per il baby-beef sono essenzialmente tre:
- latte ricostituito che viene somministrato fino a 2 mesi di vita;
- fieno: si comincia a somministrare dalla 2-3a settimana, può essere somministrato a
volontà fino al peso di 230 Kg ma deve essere d’ottima qualità e nella mangiatoia
deve stare sempre fieno fresco; superati i 230 Kg non bisogna somministrare più di
2-3 Kg/capo giorno di fieno;
- miscela di mangimi concentrati: deve essere composta, soprattutto, da cereali (orzo
e mais schiacciati e pastone di mais) opportunamente integrati, facendo in modo che
il contenuto proteico della miscela sia del 13-14% e quello di fibra non inferiore
all’8-10%.
- vitellone (15-18 mesi di età, 500-600 Kg di peso): per la sua produzione si può
considerare razionale l’adozione di un piano di alimentazione:
- alto fino a 12 mesi;
- medio da un anno fino a 30-35 giorni dalla macellazione;
- alto nel periodo di finissaggio.
Fabbisogni nutritivi dei vitelli nelle diverse fasi di ingrassamento
Peso
vivo
Kg
Incremento medio giornaliero (Kg)
1,000 1,250 1,500
U.F.
Proteine
digeribili
g
S.S.
Kg
U.F.
Proteine
digeribili
g
S.S.
Kg
U.F.
Proteine
digeribili
g
S.S.
Kg
150 3,3 506 4,4 3,9 601 4,5 - - -
200 3,9 558 5,4 4,3 653 5,6 4,8 750 5,8
250 4,3 606 6,3 4,7 701 6,8 5,1 795 7,0
300 4,9 656 7,7 5,1 749 8,0 5,6 842 8,2
350 5,3 706 8,5 5,5 799 8,8 5,9 890 9,2
400 5,6 720 9,1 6,0 812 9,5 6,4 905 9,8
450 5,9 770 9,8 6,7 860 10,2 7,2 955 10,5
500 6,3 785 10,5 7,2 870 11,0 7,7 970 11,4
550 6,7 790 11,8 7,6 875 12,2 8,0 978 12,6
600 7,0 795 12,5 7,9 880 13,1 8,5 985 13,5
Negli ultimi tempi, si consiglia di utilizzare quale alimento il mais nelle sue diverse
forme (insilato integrale, pastone di pannocchie, granella) in quanto ha un costo per
UF fornita più contenuto rispetto ad altri prodotti. Inoltre, per ridurre i costi di
produzione si possono utilizzare sottoprodotti industriali (polpe di bietola, buccette
d’uva e di pomodoro, ecc.). Per il piano alimentare alto e medio il mangime
concentrato dovrebbe entrare nella razione in ragione di Kg 1 e 0,5 per qle di peso
vivo dell’animale, rispettivamente. La razione si completata utilizzando foraggi
aziendali (insilati di mais) fino ad ottenere 1,8-2,0 UFC/qle peso vivo, nel primo e
ultimo periodo (allevamento e finissaggio) e 1,6-1,8 UFC/qle nel secondo periodo
(ingrasso). Varianti a tale tecnica si possono avere in funzione del tipo genetico
dell’animale e della disponibilità di alimenti a minor costo.
- Suini – L’alimentazione nel bilancio di gestione dell’allevamento suino incide per
il 70% e la riduzione dei costi alimentari può ottenersi mediante un’adeguata e
razionale organizzazione dell’allevamento e delle tecniche adottate, con un’adeguata
alimentazione ed un corretto razionamento in rapporto a: tipo di allevamento,
genotipo dell’animale, tipo di suino che si vuole produrre (leggero da macelleria,
pesante da salumificio).
La razione alimentare può essere somministrata sotto forma:
a) umida, praticata negli allevamenti collegati con l’industria lattiero-casearia dove
si ha necessità di utilizzare il siero e/o latticello; in genere, si usa per produrre suini
da salumificio;
b) asciutta, il concentrato è distribuito tal quale in forma di farina o pellettato;
questo tipo di distribuzione dà migliori risultati fino a quando il suino non ha
raggiunto i 50 Kg di peso vivo e nella produzione del suino da macelleria.
181
Il livello alimentare e, cioè, la quantità di mangime composto che viene
somministrato agli animali in rapporto al peso vivo si può considerare:
- alto, l’alimentazione è ad libitum e ciò consente condizioni di tranquillità nei
soggetti in quanto non si ha competizione per la conquista del cibo; una masticazione
e un’insalivazione adeguata del cibo e, quindi, un maggior assorbimento e un
accrescimento uniforme del gruppo; minore manodopera richiesta; ridotto sviluppo
del truogolo; impiego di distributori semplici ed automatici. Di contro, se la base
genetica dei soggetti non è uniforme, vi possono essere soggetti molto voraci che si
cibano di continuo per cui alla macellazione si riscontra una quantità eccessiva di
grasso e nello stesso tempo si è sprecato dell’alimento.
- basso: si distribuisce una quantità di alimento inferiore a quella richiesta
dall’animale; la quantità di alimento che si distribuisce si chiama razione; questo
sistema permette: ai suini di raggiungere più agevolmente pesi elevati (160-180 Kg),
migliorare l’indice di conversione degli alimenti, ottenere carcasse magre.
In generale, somministrando un 25% in meno di alimento rispetto a quello che
l’animale avrebbe ingerito volontariamente si registra una diminuzione del 19,5%
dell’incremento ponderale giornaliero, un miglioramento del 6,6% circa dell’indice
di conversione degli alimenti ed una riduzione dello spessore del lardo dell’8,7%. I
tempi di allevamento si allungano leggermente ma si possono raggiungere pesi più
elevati senza che gli animali ingrassino eccessivamente.
Per quanto riguarda la scelta degli alimenti, bisogna considerare che, il maiale è un
animale onnivoro e che unendo più alimenti semplici si può produrre un mangime
composto capace di soddisfare sia le esigenze nutrizionali degli animali nelle diverse
fasi di accrescimento che il minor costo di produzione della miscela. Comunque,
nelle miscele di finissaggio del suino pesante devono prevalere il mais e l’orzo in
quanto apportano particolari caratteristiche alla carne e alla consistenza del grasso
mentre, per il suino leggero possono essere utilizzati altri alimenti alternativi ai
cereali.
Il valore calorico della dieta si esprime, preferibilmente, con l’energia digeribile e ciò
sia per motivi di praticità (è facilmente determinabile anche in vivo) sia perchè essa è
indipendente da fattori biologici-ambientali. Peraltro, anche in modo
approssimativo, è possibile trasformare l’energia digeribile (ED) in Energia
metabolizzabile (EM = ED x 0,95) o in TDN (TDN = ED : 45). Risultano, invece in
disuso, il sistema delle U.F. e delle U.A.
Per quanto riguarda l’apporto proteico (N x 6,25) e, soprattutto, aminoacidico delle
diete per suini si parla di “proteina ideale” che considera una dieta in grado di
apportare gli aminoacidi essenziali o abiosintetici negli stessi rapporti inter se con cui
risultano presenti nel muscolo.
- Nel nostro Paese si producono tre tipi di suini:
a) suino leggero o suino magro da macelleria il quale viene macellato a 100-110 Kg
di peso vivo ed è ricco di tagli carnosi. L’alimentazione ha una certa influenza,
soprattutto, nel periodo di accrescimento (nel passaggio dai 25-30 ai 50-60 Kg) ed in
quello di finissaggio sul tipo di suino che si vuole ottenere ed in particolare sulla
carcassa per quanto riguarda il rapporto carne/grasso. Per l’accrescimento ed il
finissaggio del suino magro è necessario e conveniente economicamente, raggiungere
un’elevata concentrazione energetica del mangime e cioè almeno 3.100-3.200 Kcal di
ED/Kg di mangime sul tal quale e questo è possibile mantenendo i valori della fibra
al disotto del 5% sul tal quale. La quantità di mangime da somministrare deve variare
dal ad libitum al 75% dell’ad libitum, la fibra non deve superare il 4,8 e il 5,7%,
rispettivamente per le fasi di accrescimento e di finissaggio mentre, le proteine e gli
aminoacidi devono soddisfare le esigenze degli animali anche se le stesse, in base
all’unità di peso, diminuiscono con l’avanzare dell’età.
b) suino medio-pesante, di 135-145 Kg, alla macellazione presenta un discreto busto
utilizzabile e dei prosciutti che possono essere cotti o stagionati.
c) suino pesante da salumificio di 150-180 Kg. L’ingrasso del suino pesante
comprende quattro periodi fisiologici in corrispondenza dei quali l’animale prende il
nome di lattone (25-40 Kg), magroncello (40-60 Kg), magrone (60-100 Kg) e grasso
(100-160 Kg e oltre). Una metodica capace di fornire una risposta soddisfacente è
quella che prevede un razionamento variabile per quantità di energia a seconda dei
periodi in cui viene suddiviso il ciclo produttivo: livello nutritivo alto nella fase di
lattone e magroncello; medio alto per la fase di magrone e basso per quella di
finissaggio realizzabile mediante la somministrazione giornaliera di mangime che in
percentuale del peso vivo è compresa tra 4 e 3,7; 3,7 e 3; 3 e 2, rispettivamente. Se
nella razione è compreso il siero, i valori sopra detti devono essere ridotti in quanto
esso, per ogni Kg, contiene circa 65-70 g di sostanza secca e 230-250 Kcal di ED. Va
precisato, inoltre, che la sostanza secca apportata dal siero non deve superare il 30%
di quella della razione nella fase di accrescimento, il 20% in quella di finissaggio e
che il rapporto tra siero e concentrato non deve essere superiore a 4:1. Nei periodi di
accrescimento e finissaggio, i fabbisogni in proteina grezza, espressi in percentuale
del mangime, sono di circa 18, 16, 14 e 12, rispettivamente per le fasi di lattone,
magroncello, magrone e di ingrasso (finissaggio). Questi valori permettono un
accrescimento giornaliero di circa 650-700 g e indici di conversione oscillanti tra 3,8
e 4.
8.3.1. Esigenze alimentari dei bufali per la produzione della carne
L'allevamento dei maschi non ha mai trovato uno sbocco economico
interessante. Le cause dello scarso interesse per quest’attività sono molteplici e sono
da addebitarsi sia agli stessi allevatori sia alla miope mentalità dei commercianti che
non hanno intravisto nel bufalo un prodotto qualificante del loro banco di vendita, ma
un mezzo per frodare il consumatore al qual è stato sempre "rifilata", tranne qualche
sporadica iniziativa, carne di bufalo per quella bovina. In un periodo in cui è
diminuita la vendita della carne bovina, considerata dal consumatore con molta
diffidenza, per i noti trattamenti auxinici ed ormonali, tale atteggiamento
probabilmente ha nuociuto agli stessi commercianti che avrebbero potuto inserire
nella loro gamma un prodotto alternativo richiesto dalla massaia. Nel recente
passato, le carni di coniglio, di agnello e di altre specie hanno costituito un’attrattiva
del banco di vendita per quei consumatori, che hanno fatto registrare un’evoluzione
del gusto e hanno ridotto l'acquisto delle carni di maggior consumo (bovino-suino).
La mancata qualificazione della carne, contrariamente ai vantaggi derivanti dalla
valorizzazione del latte di bufala, ha ormai dissuaso gli imprenditori ad allevare i
maschi il cui prezzo di mercato è al di sotto all’effettivo costo di produzione.
Nel passato, una parte dei vitelli era allevata in quanto costituiva, in ogni caso,
un'entrata per l'azienda, che disponeva di superfici maggiori altrimenti inutilizzate.
L'allevamento di tipo estensivo contribuiva ad esitare sul mercato soggetti di 4 q di
qualità scadente, che risentiva della disponibilità stagionale dei foraggi e
raggiungevano il peso di macellazione a circa 3 anni. La resa al macello era inferiore
al 50% e la carne era particolarmente dura e caratterizzata dall'odore di muschio,
derivante dall'abitudine degli animali a trovare refrigerio nei cosiddetti tonzi o
183
caramoni, sorta di pozzanghere che essi stessi scavavano nel terreno. In definitiva,
l'allevatore prestava poca cura all'allevamento dei maschi che, allevati con modiche
quantità di latte materno (secondo l'usanza succhiavano da tre capezzoli nel primo
mese e da due e da uno nel secondo e terzo mese), allo svezzamento raggiungevano il
peso di circa 60 - 70 Kg, successivamente ricevevano fieno scadente ed erano lasciati
al pascolo dopo i 6 mesi. Le infestioni di parassiti gastrointestinali e il barbone
(pasteurella bubaliseptica) operavano una selezione naturale e rallentavano la crescita
dei soggetti esorbitanti la rimonta e destinati al macello. Il tutto contribuiva a
diminuire il valore commerciale dei bufali giustificando in parte la scarsa valutazione
di mercato imposta dai macellai. La reciproca convenienza da parte degli allevatori
di esitare, sul mercato, soggetti allevati senza impegno di capitali con pascoli
marginali o con i residui della foraggiata delle bufale, e da parte dei commercianti di
acquistare, ad un prezzo di poco inferiore a quello reale, bufali da vendere in
macelleria per bovini, alla lunga non ha giovato all'immagine della carne bufalina
che, anche in caso di richiesta, era scarsamente reperibile da parte del consumatore.
Con le mutate tecniche di gestione aziendale, abbandono del pascolo e messa a
coltura dei terreni, l'allevamento di maschi per il macello induceva l'imprenditore a
stornare per un’attività poco redditizia parte della produzione aziendale (insilato e
fieno), destinata altrimenti alle bufale da latte che producevano una derrata richiesta e
ben remunerata. La mancanza di un mercato della carne bufalina giocava a sfavore
anche di quegli allevatori, veramente pochi, che producevano un vitellone con
caratteristiche qualitative non dissimili da quelle del bovino.
Ai vitelli da rimonta è opportuno somministrare, secondo la disponibilità aziendale,
una foraggiata che assicuri mediamente 4,5 UFL e 700 g di PG tra i 6 ed i 20 mesi di
vita, che rappresenta l'età media al primo salto. All'età di 600 gg (20 mesi), la
rimonta dovrebbe raggiungere il peso di 370 kg e, quindi, in 420 gg dovrebbe essere
in grado di crescere 210 kg pari ad un incremento giornaliero di 500 g. Per assicurare
tale accrescimento sono sufficienti 10 kg di insilato primaverile (orzo, veccia,
avena), 2,5 kg di fieno di medica ed 1,6 kg di polpe secche; nel caso in cui l'azienda
non disponga di fieno di medica ma di fieno di graminacee, le polpe secche vanno
sostituite con 800 g di soia o con 1 kg di nucleo al 40% di PG.
Per la produzione del vitellone da carne è necessario offrire una SS con maggiore
densità energetica e minore percentuale di FG, al fine di ottenere degli incrementi
maggiori. Diete con una percentuale di FG che oscilla dal 16,3% al 26,6% assicurano
incrementi ponderali di circa 800-900 g/die e una resa al macello di circa il 55%, solo
nel caso in cui la percentuale di FG è inferiore al 20%; le carcasse che si ottengono
con tali razionamenti non sono gradite dal macellaio perché ricoperte di grasso,
difficilmente separabile durante la dissezione dei vari tagli.
E' preferibile penalizzare l'accrescimento di circa 100 g (700-800 g/die) con un
razionamento meno spinto (0,5 UFC/die) e con un rapporto foraggi/concentrati di 2
che assicurano carcasse più magre e una resa di circa il 53%.
Finora ci si è sempre riferiti alla produzione di un vitellone di un peso inferiore ai
4 q senza accennare ad altri tipi di produzione.
I tentativi fatti finora per creare un mercato del vitello bufalino a carne bianca, del
peso vivo di circa 180 kg non hanno trovato consensi. Attualmente, il prezzo del
latte ricostituito è tale che il kg di incremento si ottiene ad un costo non competitivo.
Occorrono 1,7 kg di latte da ricostituire per ottenerne uno d'incremento di peso vivo.
E' stato dimostrato che la resa al macello migliora soltanto dopo i 6 q ma dopo i
380 kg si verifica una flessione della velocità di accrescimento e l'aumento di resa
che si osserva è dovuta, prevalentemente, ad una maggiore deposizione di grasso. Ciò
si verifica in quanto la maturazione della carcassa e, quindi, l'infiltrazione di grasso,
modifica precocemente, rispetto al bovino, la composizione chimica dei tessuti
corporei che richiedono, pertanto, più energia per il mantenimento con conseguente
peggioramento dell'indice di conversione dell'unità nutritiva. Dopo i 380 kg, infine,
si avverte l'odore di muschio, poco gradito al consumatore, che la castrazione attenua
ma non elimina.
Abbiamo già affermato che soggetti di 380 kg con un incremento giornaliero di
800 g presentano una resa del 53-54% e quindi producono una carcassa di 200 kg che
fornirà 125 kg di carne (62% della carcassa).Un vitellone bovino di pari peso non
presenta delle rese molto diverse: 56% resa al macello, 62% resa in carne della
mezzena. Sotto certi aspetti la carne di bufalo è da ritenersi superiore in quanto è più
ricca di Ac. stearico ed Ac. oleico, che si sono dimostrati neutri nella colesterolemia
dell'uomo, e di Ac. linoleico che è un acido grasso essenziale. Non esistono
sostanziali differenze con quella bovina per quanto riguarda la quantità globale di
proteine anche se alcuni aminoacidi essenziali (lisina, fenilalanina, tirosina, treonina
e valina) sono meno rappresentati. Dal punto di vista aminoacidico, tuttavia, la carne
di bufalo risulta più equilibrata in quanto si discosta meno dallo schema distributivo
proposto dalla FAO/OMS per i fabbisogni dell'uomo. Il contenuto vitaminico-
minerale è leggermente diverso da quello della carne bovina, quella di bufalo risulta
meno ricca di riboflavina, di Ca e contiene maggiori quantità di vitamina B6, B12, Fe
e K.
8.4. Fabbisogni per la produzione del latte
La produzione di latte implica la conversione di principi nutritivi in latte. Una
vacca da latte altamente produttiva può produrre in una sola lattazione una quantità di
sostanza secca sotto forma di latte, 3-4 volte superiore a quella contenuta nel suo
stesso organismo. I fabbisogni alimentari dipendono dalla quantità di latte prodotto e
dalla sua composizione. Qualitativamente, i latti delle varie specie hanno una
composizione simile, ma le quantità delle varie frazioni presenti, come le proteine e i
grassi, variano da specie a specie.
Il maggior costituente del latte è l’acqua, nella quale sono sciolti molti elementi
inorganici, sostanze azotate solubili come gli aminoacidi, la creatina e l’urea,
l’albumina, che è una proteina idrosolubile, insieme al lattosio, agli enzimi, alle
vitamine idrosolubili del complesso B e alla vitamina C. In sospensione colloidale, in
questa soluzione, vi sono sostanze inorganiche quali composti del calcio e del fosforo
e la caseina; in questa fase acquosa vi è dispersa una sospensione di minuscoli
globuli di grasso del latte.
Questa fase lipidica contiene i veri trigliceridi del latte (circa 980 g/kg) assieme ad
altre sostanze associate ai grassi, come i fosfolipidi, il colesterolo, le vitamine
liposolubili, i pigmenti, tracce di proteine e metalli pesanti. La fase lipidica,
generalmente, è indicata come “grasso” e i restanti costituenti del latte, diversi
dall’acqua, sono indicati come “sostanze non grasse” o <<SNF>> o residuo magro.
185
Composizione del latte nelle varie specie zootecniche (g/kg)
Specie Grassi Residuo
magro
Proteina
grezza
Lattosio Ca P Mg
Vacca 37 90 34 48 1,2 0,9 0,12
Capra 45 87 33 41 1,3 1,1 0,20
Pecora 74 119 55 48 1,6 1,3 0,17
Scrofa 85 120 58 58 2,5 1,7 0,20
Asina 5 15 68
1 10
2 21
4 28
6 30
10 28
15 24
25 21
35 18
40 15
Curva di lattazione nei bovini
0
5
10
15
20
25
30
35
1 2 4 6 10 15 25 35 40
Settimane dal parto
kg
Nei bovini, la produzione di latte dipende dalla razza, il ceppo, l’individuo, lo stadio
di lattazione. In genere, la produzione aumenta dal parto fino al 35° giorno circa, poi
decresce regolarmente, di circa 2,5% a settimana, fino alla fine della lattazione. In
alcuni soggetti, la produzione è massima all’inizio della lattazione, poi decresce
rapidamente. In modo approssimativo, la punta massima di produzione può essere
calcolata come un duecentesimo della produzione lattea prevista, oppure 1,1 volte la
produzione registrata due settimane dopo il parto; ad esempio, per una vacca che 15
giorni dopo il parto produce 20 kg di latte si può prevedere una punta massima di 22
kg giornalieri di latte. Il fatto che, successivamente, la produzione declini del 2,5%
per settimana è utile per controllare le deviazioni dalla norma nel corso della
lattazione.
Unità misura
Energia
1 Kcal = 1000 cal
1 J = 0,239 cal
1 KJ = 239 cal
1 Kcal = 4,184 KJ
1 MJ = 1000 KJ = 1000.000 di J
1 MJ = 239 Kcal
Contenuto energetico latte 4% di grasso 740 Kcal = 3,10 MJ
UFl
Contenuto energia netta = 7,24 MJ = 1730 Kcal
Necessarie per produrre 1 litro di latte al 4% di grasso = 0,44
1 UFl corrisponde a 2,33 l latte al 4% grasso
Contenuto del latte al 3,7% di grasso Esigenze per la produzione
(considerando la metabolizzabilità)
Proteine = 35 g
Grasso = 37 g
Lattosio = 49 g
Ceneri: 7 g
Calcio: 1,21 g
Fosforo: 0,95 g
Energia = 3,05
50 g (proteine digeribili)
3,7 g
1,5 g
5,08 MJ EM
Il soddisfacimento delle esigenze nutritive delle femmine in lattazione non deve
limitarsi alle specie delle quali si utilizza il prodotto per l'alimentazione umana,
diretta, o per la trasformazione casearia (bovini, ovini, caprini, bufalini) ma tenere
conto delle altre specie dato che questa produzione è importante ai fini
dell'allevamento della prole, soprattutto se i parti sono plurimi.
8.4.1. Esigenze per la produzione del latte nei bovini
Una vacca che pesa 500 kg di peso che, nel corso della lattazione produca
4.000 kg di latte dà una produzione pari a 8 volte il suo peso e attraverso la
mammella emette una quantità di sostanze nutritive pari a 2,5 volte il peso delle
sostanze contenute nel suo stesso organismo, e con 20 litri di latte al 3,7% di grasso
(produzione media di una buona lattifera) in un giorno produce: 740 g di grasso, 700
g di proteine, 980 g di lattosio, 140 g di sostanze minerali di cui 25 g di calcio e 20 g
di fosforo, per un totale di 14.600 Kcal.
Alle esigenze della lattazione, le femmine dei mammiferi fanno fronte ricorrendo alle
proprie riserve organiche ed ai contenuti della razione. In particolare, nelle prime fasi
della lattazione, le vacche da latte forti produttrici, si trovano nell’impossibilità
fisiologica di assorbire e metabolizzare (assumendoli dagli alimenti loro
somministrati) tanto Ca e P quanto ne richiede il latte prodotto, quindi, devono
necessariamente ricorrere alle riserve contenute nel loro scheletro.
Ne conseguono fatti di demineralizzazione, che restano nei limiti fisiologici qualora
con l'alimentazione siano apportati sufficienti quantitativi di questi due elementi che
saranno reintegrati nello stesso scheletro durante le successive fasi della lattazione o
durante l'asciutta. L'interparto nella vacca è normalmente di 300-350-400 giorni e si
suddivide in quattro fasi che corrispondono a quattro momenti diversi
dell'alimentazione: alta, media, bassa produzione e asciutta.
187
Parametri produttivi in vacche da latte (Smith, 1982) (modificato)
Vacche
Latte
prodotto
Kg/d
Max assunzione S.S.
Kg/d
Durata deficit
Energetico
Alta
produzione
50
24,6 alla
14^ settimana
Fino alla 21^ settimana
Media
produzione
32,5
19,5 alla
13^ settimana
Fino alla 13^ settimana
Bassa
produzione
27,5
18,3 alla
13^ settimana
Fino alla 10^ settimana
I primi tre momenti s’identificano nella curva di lattazione che esprime il potenziale
genetico della vacca da latte, il quarto momento (asciutta) è, altrettanto, delicato
perché è in grado di restituire all'animale quanto prelevato dal proprio organismo con
la precedente lattazione e di prepararla alla successiva. L'applicazione della tecnica di
alimentazione, della lattifera per fasi, è favorita dai moderni sistemi computerizzati
che controllano e regolano, animale per animale, il rapporto
alimentazione/produzione/peso forma, corrispondendo ad ogni vacca l'alimentazione
che le è dovuta, agendo, soprattutto, sui quantitativi giornalieri di concentrati
(distributori automatici/dosatori a collare).
Fabbisogni S.S. bovina da latte
a) equazione che tiene conto del PV e del latte prodotto al 4%
- S.S. = (PV x 0,0185) + (Kg latte al 4%) x 0,305
Es. calcolare la S.S. consumata da una bovina di 600 Kg e che produce 32,5 Kg di
latte al 3,5%
1) trasformazione latte al 3,5% in latte standard:
32,5 x (0,4 + 0,15 x 3,5 = Kg 30 al 4% di grasso
2) calcolo S.S. = (600 x 0,0185) + (30 x 0,305) =
11,1 + 9,15 = 20,25 Kg S.S.
b) si ricorre a tabelle che, tenendo conto del peso vivo e della produzione di latte,
danno un valore che va moltiplicato per il peso vivo:
Esempio precedente: fattore di moltiplicazione = 3,5
- S.S. richiesta = 600 x 3,5 = 21 Kg
Va considerato:
1) nei primi 90-100 giorni di lattazione l’ingestione si riduce di un 15% rispetto al
valore teorico
2) per sollecitare una buona produzione ruminale di AGV il rapporto
foraggi/concentrati deve essere:
- 60 : 40 per basse produzioni
- 50 : 50 per medie produzioni
- 40 : 60 per alte produzioni
Fabbisogni UFl bovina da latte
Si possono usare due metodi di calcolo:
a) a) considerare i fabbisogni per il mantenimento e per la produzione di latte al 4%:
- mantenimento = 1,4 + 0,006 x PV
- produzione = 0,44 x kg latte al 4%
Es. Vacca di 600 Kg, produzione 32,5 al 3,5% di grasso
(32,5 x (0,4 + 0,15 x 3,5 = Kg 30 al 4% di grasso):
- mantenimento = 1,4 + (0,006 x 600) = 1,4 + 3,6 = 5,0 UFl
- produzione = 30 x 0,44 = 13,2 Ufl
Totale 18,2 UFl
b) b) l’UFl va riferita alla S.S. che la bovina dovrebbe ingerire ed il suo valore è
proporzionale all’entità della produzione:
- 80% per bassa produzione
- 88% per media produzione
- 90% per alta produzione
Es. nell’esempio precedente la bovina dovrebbe ingerire 19,7 Kg di S.S. e quindi 19,7 x
0,90 = 17,73 UFl
Accorgi-
menti
- Gli alimenti vengono digeriti meno con l’inserimento di elevate quantità
di concentrati: deprimono l’attività dei batteri cellulosolitici e riducono il
livello energetico della razione e quindi bisognerebbe supplementare la
razione di 0,1 – 1,5 UFl a secondo la qualità del foraggio
- In animali al pascolo bisogna prevedere un supplemento di 20% e 50%
UFL, rispettivamente se in pianura e montagna
- Un supplemento di 0,4 – 0,7 e di 0,1 – 0,2 UFL è previsto per le primipare
e le pluripare, rispettivamente per l’accrescimento
I fabbisogni nutritivi della lattazione, sotto il profilo energetico, proteico, minerale e
vitaminico, dipendono dal quantitativo di latte prodotto e dalla sua composizione
(soprattutto il grasso), che varia da specie a specie e per la percentuale di grassi e di
proteine, anche da razza a razza se non da animale ad animale (ereditabilità del
contenuto in grasso: h2 = 0,8; per le proteine = 0,5). Leroy suggerisce che,
mediamente bisogna somministrare 0,38 U.F. con 60 g di proteine digeribili x Kg di
latte prodotto. In pratica, secondo Borgioli, si calcolano i fabbisogni in unità
foraggere per ogni kg di latte facendolo coincidere con tanti centesimi di unità, quanti
sono i grammi di grasso contenuti in un kg di latte:
0,34 per 1 Kg di latte al 3,4% di grasso
0,38 " " " " 3,8% "
0,40 " " " " 4,0 % "
fermo restando i 60 g di proteina digeribile. Necessità che si rende indispensabile
soddisfare, soprattutto, quando la produzione giornaliera supera i 20 kg di latte.
Comunque, è necessario tenere conto di una quota di maggiorazione del 12-15% in
quanto ci possono essere delle discrepanze tra valore nutritivo teorico dei foraggi e
dei mangimi ed il valore nutritivo reale e sia perché il fabbisogno di mantenimento e
quello della produzione di latte (unità) aumentano con il livello nutritivo e
produttivo. I fabbisogni proteici di lattazione sono soddisfatti con i 60 g di protidi
digeribili/kg di latte, ma nei monogastrici è necessario somministrare aminoacidi
189
essenziali in quanto non sono in grado di sintetizzarli. Per i minerali, non vanno
trascurati il Ca e il P. Il fabbisogno vitaminico non presenta problemi quando la
lattifera usufruisce d’alimentazione verde, con l'alimentazione secca, invece, bisogna
somministrare caroteni e vitamina A in quantità di 20-25 mg/kg di latte prodotto. Per
i monogastrici bisogna somministrare le diverse vitamine.
Negli ultimi anni, nell’alimentazione della bovina da latte assumono importanza:
A) il rapporto foraggi: concentrati: normalmente è espresso in percentuale della
sostanza secca totale apportata dalla razione, dipende dallo stadio fisiologico
dell’animale (asciutta, lattazione), in secondo luogo dal livello produttivo e, infine,
dalla qualità dei foraggi. I due parametri, che meglio sintetizzano il valore nutritivo
di un foraggio, sono il contenuto in fibra (NDF) e in energia (UFL), entrambe
espresse sulla sostanza secca per poter meglio confrontare più facilmente i foraggi a
diverso tenore d’umidità. Va precisato che, il silomais va considerato un foraggio a
se stante in quanto circa metà della sua S.S. è ascrivibile alla granella che ha un
contenuto energetico simile a quello di un concentrato.
Controllo dello stato di nutrizione della bovina
Presentazione Punteggio
I processi trasversi delle vertebre lombari sono facilmente distinguibili al tatto e risultano
appuntiti: notevole è la depressione fra spina dorsale ed anca. Attorno alla coda vi è una
profonda cavità, la cute è aderente allo scheletro per assenza di grasso (troppo magra)
1
I processi trasversi delle vertebre lombari possono essere identificati individualmente al
tatto, ma si sentono arrotondati; la depressione fra spina dorsale ed anche è ben visibile.
La cavità attorno alla coda è meno profonda, ma le ossa sono ancora prominenti; vi è
traccia di grasso nel sottocute e la pelle è flessibile
2
Processi trasversi arrotondati e la depressione fra spina dorsale ed anca è meno evidente.
Cavità attorno alla coda poco pronunciata e con grasso presente in misura modesta, ma le
ossa del bacino si sentono bene.
2,5
I processi trasversi delle vertebre lombari si possono sentire soltanto con una certa
pressione e la depressione fra spina dorsale ed anca è leggera. La presenza di grasso è
ben percettibile anche sulla punta della natica, la pelle è morbida e le ossa del bacino si
sentono ancora.
3.0
I processi trasversi si sentono solo con notevole pressione e sopra lo strato è spesso per
cui la depressione fra spina dorsale ed anca è pressoché scomparsa. L’area attorno alla
coda è quasi riempita di grasso, la pelle è morbida e flessibile mentre le ossa si sentono
con difficoltà
3,5
I processi trasversi non si sentono più e non si apprezza la depressione fra la linea della
spina dorsale ed anca. Il grasso sulla punta della natica è ben visibile ed è soffice al tatto;
la cavità attorno alla coda è totalmente scomparsa (troppo grassa)
4.0
Punteggio ottimale nelle diverse fasi:
al parto................................. 3,0-3,5
2-3 mesi dopo il parto .......... 2,0 meglio se 2,5
fine lattazione ...................... 3,0
La Cornell University ha proposto la seguente formula per stimare la quantità di SS
giornalmente ingerita dalla bovina da latte:
SS ingerita (kg/d) = PV (kg) x 0,0185 + latte 4% (kg) x 0,305.
Per calcolare la produzione di latte corretta:
Kg latte 4% = kg latte x (0,4 + 0,15 x % di grasso del latte);
ad esempio, 45 kg di latte al 3,6% di grasso equivalgono a:
45 x (0,4 + 0,15 x 3,6) = 42,3 kg latte 4% (FCM).
B) la concentrazione energetica - il fabbisogno energetico viene espresso in UFL/kg
SS: il valore minimo (0,80 UFL/ kg SS) si ha per produzioni di latte inferiori a 15 kg
FCM/giorno, quello massimo (0,97 UFL/kg SS) per produzioni superiori a 40 kg
FCM/giorno. Con produzioni comprese tra 15 e 40 kg FCM/giorno, la
concentrazione energetica della razione si può calcolare con la seguente equazione:
UFL/kg SS = FCM x 0,0062 + 0,7204
Se la bovina è in asciutta, la concentrazione energetica consigliata è pari a 0,65
UFL/kg SS che dovrebbe passare a 0,80 negli ultimi 15 giorni prima del parto.
Il fabbisogno energetico giornaliero complessivo per una bovina è dato dalla somma:
1) mantenimento: UFL /d = 1,4 + 0,006 x kg PV
2) produzione di latte: UFL/d = 0,44 x kg FCM (va considerato che un kg di FCM
contiene 3096 kJ, mentre, un’UFL ne ha 7113 e, quindi, per la produzione di un kg di
FCM la bovina necessita di 3096/7113 = 0,44 UFL
3) ricostituzione riserve corporee: UFL/d = 4,5 x kg di incremento ponderale
giornaliero (le riserve corporee sono costituite da grasso che ha un contenuto
energetico di 31.380 KJ e quindi per ogni kg di incremento ponderale la bovina avrà
bisogno di 31.380/7113 = 4,5 UFL circa); per le primipare, per ogni kg di incremento
giornaliero si dovrebbero somministrare 3 UFL, considerando che il loro incremento
è dovuto anche alle masse muscolari e ossee che hanno un minor contenuto
energetico.
Rapporti (orientativi) foraggi/concentrati, espressi sulla SS, delle bovine in lattazione, in
funzione della qualità del foraggio e del livello produttivo
Foraggio
NDF UFL/kg SS
Kg di latte al 4% di grasso
% SS Asciutta < 15 15-20 21-25 26-30 31-35 36-40 > 40
> 60 0,6 85 : 15 65 : 35 60 : 40 50 : 50 45 :55 40 :60 - -
50-60 0,7 90 : 10 70 :30 65 : 35 55 : 45 50 :50 45 :55 40 :60 35: 65
45-50 0,8 - 75 : 25 70 : 30 60 : 40 55 :45 50: 50 45: 55 40 :60
< 45 0,9 - 80 : 20 75 : 25 65 : 35 60 :40 55 :45 50:50 45 :55
I fabbisogni energetici possono anche essere espressi in EM ed essere derivati con
metodi fattoriali. Ciò comporta il calcolo del valore in EL del latte prodotto, che può
essere usato per stimare il fabbisogno energetico netto per la produzione del latte. La
determinazione dell’EL del latte comporta l’impiego della bomba calorimetrica o
un’analisi chimica dettagliata; i tenori in grasso, carboidrati e proteine sono poi
moltiplicati per i rispettivi valori energetici ed i prodotti ottenuti sono sommati.
L’Agricultural Research Council (1980) ha proposto la seguente equazione per
calcolare il contenuto energetico del latte:
EL latte (MJ/kg) = 1,509 + 0,0406 F
in cui F = contenuto lipidico del latte in g/kg. Valutazioni più accurate si possono
avere prendendo in considerazione anche il residuo magro (SNF) utilizzando la
seguente equazione:
EL latte (MJ/kg) = 0,0386 F + 0,0206 SNF - 0,2553
Successivamente, si calcola l’energia necessaria per soddisfare il fabbisogno in EN e
per questo è necessario conoscere il rendimento dell’utilizzazione dell’EM, per la
produzione del latte (kl) che, secondo i dati di Forbes, Fries e Kellner è di 0,70 per
191
diete che consentono una normale fermentazione ruminale (acido acetico prodotto
rispetto agli altri acidi grassi volatili = 50-60%). Quando, invece, la proporzione di
acido acetico scende al di sotto del 50% la vacca non è in grado di sintetizzare in
quantità sufficiente gli acidi grassi a breve e media catena carboniosa, che
contribuiscono in larga misura a formare il grasso del latte; mentre se, l’acido acetico
supera il 65% il rendimento di utilizzazione dell’energia si abbassa così come
avviene per le altre produzioni.
Kl varia da 0,51 a 0,81 ma generalmente è 0,60-0,65. Van Es, ritiene che il
rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile, per la produzione del
latte, dipende dalla metabolizzabilità (qm) della dieta, definita come il rapporto fra
EM (MJ/kg s.s.) corrispondente al livello di mantenimento ed EL della dieta (MJ/kg
s.s.). Vale a dire q = EM/EL. I suoi rapporti secondo i dati olandesi (a) e americani
(b) sono: (a) Kl = 0,385 + 0,38 qm; (b) kl = 0,466 + 0,28 qm
dove kl = rendimento dell’utilizzazione dell’EM per la produzione del latte, a peso
dell’animale costante. Più recentemente, si è ritenuto opportuno calcolare kl come
0,35 qm + 0,42. Inoltre, si suppone che il valore in EL della S.S. della dieta di tutti gli
alimenti sia costante e pari a 18,4 MJ/kg e, quindi, la precedente relazione può essere
così modificata: kl = 0,019/M / S.S. + 0,42 dove M/s.s. è la concentrazione di EM
nella S.S. (MJ/kg) e kl può quindi essere calcolato dalla concentrazione energetica
della dieta. Per gli insilati e le miscele ad alto titolo lipidico, che frequentemente
costituiscono la maggior parte della razione della vacca da latte, è preferibile la
seguente equazione:
EL (MJ/kg) = 0,0226 PG + 0,0407 EE + 0,0192 FG + 0,0177 EI
dove PG (proteina grezza), EE (estratto etereo), FG (fibra grezza) e EI (estrattivi
inazotati) sono espressi in g/kg.
Quando non sono disponibili i relativi dati per gli insilati si calcola un’EL = 19,2
MJ/kg s.s. e per gli alimenti con elevato contenuto lipidico EL = 19,4 MJ/kg s.s.
mentre, come abbiamo già detto, per gli altri alimenti si considera un valore d’EL =
18,4 MJ/kg s.s.
Il fabbisogno d’energia metabolizzabile per la produzione del latte (Ml) può essere,
quindi, considerato: Ml (MJ/kg) = EL del latte / (0,35 qm + 0,42). Così, per una
vacca che produce latte al 4% di grasso e con un residuo magro di 90 g/kg e che
riceve una razione con qm = 0,6, il fabbisogno di Ml è di 5,02 MJ /kg latte prodotto.
La vacca da latte, normalmente, perde o guadagna peso: nel primo caso ricorre alle
proprie riserve per mantenere il suo livello di produzione di latte, nel secondo caso
significa che la razione è messa in riserva. Il valore energetico del guadagno di peso è
mediamente di 26 MJ/kg. Il rendimento con il quale l’EM è depositata nei tessuti
(kg), nelle femmine in lattazione è più alto che in quelle che non lo sono ed è,
leggermente, più basso di kl e oggi è considerato kg = 0,95 kl. Per ogni kg di
guadagno in peso, significa che 26/0,95 kl MJ d’EM della dieta non sono utilizzabili
per la produzione del latte o che, questa quantità d’EM è superiore rispetto a quella
richiesta per il mantenimento e per la produzione del latte. In termini d’energia netta,
ogni kg di guadagno di peso può essere considerato come un’aggiunta di 26/0,95 =
27,36 MJ, oltre il fabbisogno di lattazione. In merito al rendimento dell’utilizzazione
per la produzione del latte dell’energia mobilitata dai tessuti corporei, va considerato
che esso è di circa 0,84; ciò significa che per ogni kg di tessuto corporeo mobilitato
26 x 0,84 = 21,84 MJ d’energia sono emessi come latte. Oltre all’energia per la
produzione del latte, la lattifera ha bisogno dell’energia per il mantenimento che può
essere così calcolata: Em (MJ/giorno) = 0,53 (W/1,08)0,67
+ 0,0043 W; il coefficiente
0,0043, per attività muscolare, si riferisce a vacche che vivono in condizioni normali
di riposo, non legate; si basa sul tempo che l’animale rimane in piedi (circa 14 ore), il
numero di volte che cambia posizione (nove volte al giorno) e camminerebbe per
circa 500 m al giorno.
Il coefficiente può essere così calcolato:
Attività Costo energetico Energia spesa
MJ/ kg/giorno
Posizione eretta (14 ore) 10 kJ /kg/giorno 0,0058
Cambiamenti di posizione (9) 0,26 kJ/kg 0,0023
Cammino (0,5 Km/giorno) 2 J /kg/metro 0,0010
Totale 0,0091
Il rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile della dieta, per il
mantenimento (km) può essere così calcolato: km = 0,35 qm + 0,503 e il fabbisogno
d’EM per il mantenimento corrisponde a:
Mm (MJ/giorno) = (0,53 (W/1,08)0,67
+ 0,0091W)/ (0,35 qm + 0,503).
Calcolare il fabbisogno di EM di una vacca del peso di 6 q, che produce 30 kg di latte
al giorno al 4% di grasso, perde 0,4 kg/giorno di peso corporeo, la cui dieta ha un
qm = 0,6
EM = 0,53 (600/1,08)0,67
+ 0,0091 x 600 42,04 MJ giorno
km = 0,35 x 0,6 + 0,503 0,713
El = 30(1,509 + 0,0406 x 40)
kl = 0,35 x 0,6 + 0,42
Eg = - 0,4 x 0,26
93,99 MJ/giorno
0,630
- 10,4 MJ/giorno
Energia risparmiata per perdita di peso (10,4 x 0,84) + 8,74 MJ/giorno
Mm = 42,04/0,713
Ml = (93,99 - 8,74)/0,630
58,96 MJ / giorno
135,32 MJ/giorno
Fattore di correzione per il livello alimentare (1 + 0,018
Mp/Mm)
1,041
Mmp = (135,32 + 58,96) x 1,041 202,25 MJ/giorno
Margine di sicurezza = 5%
EM raccomandata (202,25 x 1,05) 212 MJ/giorno
Calcolo dell’EL del latte
Componenti g/kg EL MJ/kg EL MJ/kg latte
Grasso 40 38,12 1,52
Proteine 34 24,52 0,83
Carboidrati 47 16,54 0,78
Latte 3,13
193
Composizione del latte in alcune razze bovine (g/kg)
Shorthorn Friesian Ayrshire Gurnsey
Grasso 35,3 34,6 36,9 44,9
Residuo magro 87,4 86,1 88,2 90,8
Proteine 33,2 32,8 33,8 35,7
Lattosio 45,1 44,6 45,7 46,2
Ceneri 7,6 7,5 7 7,7
Calcio 1,21 1,13 1,16 1,30
Fosforo 0,96 0,90 0,93 1,02
Valore energetico (MJ/kg) 3,04 3,09 3,40
C) concentrazione proteica: almeno all’inizio, un’elevata concentrazione proteica
tende ad aumentare la produzione di latte, spesso, però, ciò si accompagna a
problemi d’ordine sanitario. La percentuale di PG, sul secco, varia dal 14 (bovine che
producono meno di 15 kg FCM/d) al 18% (per produzioni superiori a 40 kg FCM/d)
mentre, per produzioni intermedie le PG sono calcolate con l’equazione:
PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008).
Per le bovine in asciutta, il contenuto di PG sulla SS è del 12%: oscillazioni del 3 e
6% sono consentite per le bovine in lattazione e in asciutta, rispettivamente.
L’aumento del tenore proteico deve essere seguito da una maggiore concentrazione
energetica della dieta ed, in modo particolare, d’amido e di zuccheri per dare la
possibilità ai microbi ruminali di utilizzare più efficacemente l’azoto, che si libera
dalle proteine e, quindi, impedire un innalzamento del tasso ammoniacale nel rumine
e d’urea nel sangue e nel latte. La concentrazione ottimale, in amidi e zuccheri, è del
19% sulla SS per produzioni fino a 15 kg di latte e passa al 26% per produzioni
superiori a 40 kg; per produzioni intermedie i fabbisogni sono calcolati con
l’equazione (sono ammesse variazioni del 10%): Amido + zuccheri (% SS) = FCM
x 0,2 + 17,4
Peraltro, aumentando la concentrazione proteica della razione deve aumentare anche
quella delle proteine by-pass (UIP). Con produzioni giornaliere di latte inferiori ai 15
kg FCM le UIP dovrebbero essere il 30% delle PG e le PDI il 9% della SS. Con
produzioni comprese tra 15 e 40 kg FCM sono impiegate le seguenti equazioni:
- UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28
- PDI (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324
L’oscillazione consentita è del 6 e 3%, rispettivamente, per le UIP e le PDI. Nelle
bovine in asciutta il contenuto ottimale di PDI sulla SS è dell’8%
In sintesi la quantità di PDI (g/d) da somministrare alle bovine è di:
- mantenimento: 0,65 x kg PV
- produzione di latte: 55 x kg FCM (L’INRA in Francia consiglia 48 g anziché 55)
- accrescimento: 300 x kg d’incremento ponderale
- gestazione: 200 nell’ultimo mese di gestazione.
0.5 0.7
0.6 0.7
0.7 0.55
0.8
0.9
Rendimento energetico della lattazione
0
0.1
0.2
0.3
0.4
0.5
0.6
0.7
0.8
0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 0.9
Proporzione molare dell'acido acetico rispetto agli altri acidi grassi volatili del
rumine
Ren
dim
en
to d
ell'u
tilizzazio
ne d
ell'E
M
Il fabbisogno di proteine degradabili nella vacca in lattazione dipende dalla taglia
dell’animale, dalla quantità di latte che produce e dalle variazioni del suo peso
corporeo. Da questi fattori dipende il fabbisogno energetico e, quindi, il fabbisogno
di proteine dei microrganismi ruminali. Questo può essere calcolato pari a 8,34 g per
MJ di EM/giorno per le diete miste, 8,67 g per le diete a base di insilati e 7,84 g per
le diete costituite solo da insilati. Oltre che il fabbisogno microbico bisogna
considerare la richiesta proteica a livello dei tessuti dell’animale e cioè:
a) una quota per il mantenimento pari a 2,19 g/kg W0,75
;
b) una quota per il latte calcolata come proteine del latte (g / kg) x 0,95.
Quando il tenore proteico del latte non è conosciuto, può essere desunto dal tenore in
grasso (G), utilizzando l’equazione di regressione di Gaines e Overman:
Proteine (g/kg) = 21,7 + 0,31 G
o, altrimenti, si usa il contenuto proteico medio delle razze allevate nella zona. L’uso
del fattore 0,95 è giustificato dal fatto che la quota di azoto non proteico del latte è
considerata come materiale di escrezione di sostanze già utilizzate dall’organismo e
pertanto già precedentemente prese in considerazione.
c) una quota relativa alle perdite di proteine a livello della cute, per perdita di peli e
desquamazioni che è pari a: 0,1125 g/kg W0,75
;
d) una quota relativa alle variazioni di peso corporeo; si considera che i tessuti
corporei contengono 150 g di proteine per kg e che le proteine dei tessuti sono usate
per la produzione del latte con un rendimento dello 0,75 e che per ogni kg di peso
corporeo perso il fabbisogno di proteine si riduce di 150 x 0,75 = 112 g di proteine. Il
fabbisogno di proteine dei tessuti (PT) può essere coperto da proteine microbiche,
sintetizzate nel rumine.
195
Calcolare il fabbisogno proteico per una vacca che produce 30 kg di latte al giorno
contenente 32 g /kg di proteine e che perde 0,4 kg di peso corporeo al giorno
Fabbisogno di EM (MJ/giorno)
fabbisogno di PDR (g/giorno) = 8,34 x 202,3
Proteine per il mantenimento (g/giorno) 2,19 x 6000,75
Proteine cutanee (g/giorno) = 0,1125 x 6000,75
Produzione del latte (g/giorno) = 32 x 0,95 x 30
Perdita di tessuto (g/giorno) = 0,4 x 112
PT (g/giorno) = 265,5 + 13,6 + 912 – 44,8
Fabbisogno di PNDR (g/giorno) 1,47 PT - 6,6 EM
Apporti consigliati di PDR (g/giorno) = 1687,2 x 1,05
Apporti consigliati di PNDR (g/giorno) = 335,7 x 1,05
fabbisogno di proteine grezze = 1772 + 352
202,3
1687,2
265,5
13,6
912,0
44,8
1146,3
335,7
1772
352
2124*
*Se la miscela di proteine PDR e PNDR non è ideale il fabbisogno può aumentare notevolmente
Usando i fattori 0,80, 0,80 e 0,85 rispettivamente per calcolare la quantità di proteine
vere nelle proteine grezze microbiche, per il valore biologico e per la digeribilità di
queste proteine, il contributo delle proteine microbiche può essere così calcolato:
PDR x 0,8 x 0,8 x 0,85 oppure 8,34 EM x 0,8 x 0,8 x 0,85.
la differenza fra i fabbisogni dei tessuti e la fornitura di proteine microbiche
deve essere compensata dalle proteine non degradabili a livello ruminale così
calcolate:
PNDR (g/giorno) = (PT - (8,34 EM x 0,8 x 0,8 x0,85))/ (0,8 x 0,85)
e semplificando si ha: PNDR (g/giorno) = 1,47 PT - 6,6 EM
D) contenuto in fibra: più che sulla fibra grezza bisogna porre attenzione sulle
frazioni fibrose (Van Soest): NDF (esprime l’ingombro della razione e quindi la
capacità di ingestione) e ADF (comprende le frazioni meno digeribili e, quindi, è
correlata negativamente con il valore nutritivo).
Almeno un terzo dell’NDF totale deve provenire da foraggi a fibra lunga strutturata
(NDF-FLS), cioè che possiedono una dimensione superiore a 3 cm.
Livello produttivo
< 15 15-40 > 40 Asciutta
NDF (% FG) 39 FCM x (-0,29) + 41,92 30 60
ADF (% FG) 24 FCM x (-0,08) + 23,44 21 38
FG (% SS) 20 FCM x (-0,08) + 19,44 17 30
E) contenuto lipidico: esso deve aumentare gradatamente con l’aumentare della
produzione lattea, ciò al fine di soddisfare le esigenze energetiche senza abbondare
con le sostanze amidacee. Bisogna considerare che, soprattutto, gli oli interferiscono
negativamente con le fermentazioni batteriche a livello ruminale e, quindi, l’impiego
oltre certi limiti deve essere caratterizzato da grassi con buona capacità di by-pass
ruminale (sego, semi integrali di cotone ma solo se di buona qualità, grassi e oli
idrogenati, acidi grassi salificati con calcio); peraltro, vanno utilizzati grassi di facile
digestione a livello intestinale.
L’estratto etereo sul secco deve essere del 3% in bovine che producono meno di 15
kg di latte e del 6% in quelle che superano i 40 kg di produzione. Per produzioni
intermedie vale l’equazione (variazione consentita 10% in più o in meno):
EE (% SS) = FCM x 0,0743 + 2,5684.
F) contenuto in calcio e fosforo: il rapporto Ca/P dovrebbe essere di 1,7 - 2 per le
bovine in lattazione e di 1,3 per quelle in asciutta.
Livello produttivo
< 15 15-40 > 40 Asciutta
Calcio (% SS) 0,6 FCM X 0,01 + 0,42 0,85 0,42
Fosforo (% SS) 0,35 FCM X 0,003 + 0,3 0,42 0,32
Variazioni ammesse: 5-10%
Il fabbisogno netto di calcio e fosforo per il mantenimento dovrebbe essere,
rispettivamente, intorno a 16 e 14-28 mg/kg di peso vivo, per bovini che pesano circa
500 kg. Oltre a coprire il fabbisogno di mantenimento, Ca e P devono sopperire alla
produzione del latte. Per calcolare i fabbisogni alimentari, è necessario conoscere
l’utilizzabilità degli apporti alimentari che è rispettivamente di 0,68 e 0,58 per calcio
e fosforo. Recenti indagini indicano che un apporto di 25-28 g di calcio e 25 g di
fosforo al giorno è sufficiente per bovine che producono 4540 kg di latte all’anno per
4 lattazioni, il che indica un fabbisogno di 1,1-1,32 g di calcio e 1,1 g di fosforo per
kg di latte. Comunque, bisogna considerare che, è meglio abbondare un poco rispetto
al fabbisogno, per assicurare una normale durata di vita e una soddisfacente attività
riproduttiva. Anche apporti molto abbondanti di calcio e di fosforo sono, in genere,
inadeguati per soddisfare il fabbisogno di questi due minerali della vacca che si trova
all’inizio della lattazione, mentre alla fine della lattazione stessa e durante l’asciutta
si verifica un accumulo. I bilanci negativi all’inizio della lattazione sono considerati
normali, in quanto non è evidente nessun effetto negativo, purché in seguito le riserve
organiche vengano ripristinate e, quindi, i fabbisogni di calcio e fosforo sono stimati
sulla base della produzione totale della lattazione. Molti ritengono che, un apporto
adeguato per una bovina che produca 45 q di latte nel corso della lattazione deve
essere di 45 g di calcio e 60 g di fosforo al giorno, per altri l’apporto deve essere di
39 g di calcio e 33 g di fosforo.
Se la carenza in Ca e P è notevole si può avere un indebolimento delle ossa e la loro
rottura se, invece, è meno spinta determina una precoce riduzione dell’attività
secretoria della mammella e, quindi, una minore produzione di latte. Nelle diete
carenti di fosforo, il rapporto Ca/P può essere molto importante il quale generalmente
dovrebbe essere di 1:1 - 2:1.
197
35 -500 200
40 -350 300
45 -100 500
50 400 600
55 800 700
-1000
-800
-600
-400
-200
0
200
400
600
800
1000
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55
Stadio della lattazione (settimane)
g
Calcio Fosforo
Calcolare le esigenze nutritive per una bovina di 5 qli che produce 20 litri di
latte/giorno al 3,7% di grasso
Mantenimento Produzione Totale
Energia Met. 47 MJ
Energia netta 32 MJ
UFl (0,9 x 5) = 4,5
Proteine diger. 350 g
Calcio 35 g
Fosforo 25 g
5,08 x 20 = 101,6 MJ
3,05 x 20 = 61 MJ
0,44 x 20 = 8,8 UFl
50 x 20 = 1000 g
3,7 x 20 = 74 g
1,5 X 20 = 30 g
47 + 101,6 = 148 MJ/d
32 + 61 = 93 MJ/d
4,5 + 8,8 = 13,3 UFl/d
350 +1000 = 1350 g/d
35 + 74 = 109 g/d
25 + 30 = 55 g/d
Esigenze in minerali e vitamine delle bovine
Elementi Stato fisiologico
Minerali Asciutta Lattazione
Potassio (% SS) 0,65 0,9-1,1
Magnesio (% SS) 0,17 0,22-0,28
Sodio (% SS) 0,12 0,16-0,10
Cloro (% SS) 0,18 0,25-0,3
Zolfo (% SS) 0,16 0,2-0,22
Ferro (mg/kg SS) 70 70
Cobalto (mg/kg SS) 0,1 0,1
Rame (mg/kg SS) 12 12
Manganese (mg/kg SS) 60 60
Zinco (mg/kg SS) 60 60
Iodio (mg/kg SS) 0,4 0,8
Selenio (mg/kg SS) 0,3 0,3
Vitamine
A (UI/kg SS) 15.000 7000
D (UI/kg SS) 1500 1000
E (mg/kg SS) 40 25
Oscillazione: 10% massimo
Nel calcolare l’apporto di magnesio va considerato che il fabbisogno per il
mantenimento è di 3 mg per kg di peso corporeo e di 0,125 g per kg di latte prodotto.
Alle bovine in lattazione, generalmente, viene dato un supplemento di sodio cloruro
il quale viene aggiunto al mangime o viene messo a disposizione sotto forma di rulli
o di blocchi; bisogna preoccuparsi soprattutto del sodio in quanto il cloro è ben
rappresentato nelle diete.
Fabbisogni nutritivi per la produzione del latte nelle bovine
Latte al 4% di grasso (kg)
<15 15-20 21-25 26-30 31-35 36-40 >40 Asciutta
UFL/kg SS 0,8 0,83 0,86 0,9 0,93 0,95 0,97 0,65
PG (% SS) 14 14,7 15,2 16 16,8 17,5 18 12
UIP (% PG) 30 30 32,5 34 35,5 37 38
PDIN (% SS) 9 9,2 9,5 10,2 10,7 11,2 11,5 8
PDIE (% SS) 9 9,2 9,5 10,2 10,7 11,2 11,5 8
Estratto etereo
(% SS)
3,5
4
4,2
4,5
5
5,5
6
NDF (% SS) 39 37 35 33,5 32,5 31 29 60
NDF-FLS minimo
(% SS)
11,1
10,5
10
9,6
9,3
8,9
8,6
ADF (% SS) 24 23 22,6 22,2 21,8 21,4 21 38
FG (% SS) 20 19 18,6 18,2 17,8 17,4 17 30
Amidi e Zuccheri
(% S.S.)
20 21 22 23 24 25 26
Calcio (% S.S.) 0,6 0,6 0,65 0,7 0,75 0,8 0,85 0,42
Fosforo (% S.S.) 0,35 0,35 0,37 0,39 0,4 0,41 0,42 0,32
In presenza di carenza di sodio si ha perdita di appetito, pelo opaco e ruvido,
debolezza, apatia, dimagrimento, riduzione della produzione del latte. Carenze di sale
e bassi livelli di sodio si manifestano nel sangue e nelle urine già dopo tre settimane
nelle vacche altamente produttive, se la razione non è ben integrata, mentre, la
perdita di appetito, il calo di peso e l’abbassamento della produzione di latte si
evidenziano dopo un anno circa. Il fabbisogno netto di sodio è di circa 0,60 g/kg di
latte prodotto e di 8 mg/kg di peso corporeo. In genere, si consiglia di integrare con
28 g al giorno di cloruro di sodio, oltre quello presente negli alimenti, oppure si
aggiungono 15 kg per tonnellata di mangime concentrato.
8.4.2. Alimentazione delle bovine da latte ad alta produzione (BLAP)
Trovandoci di fronte a bovine dotate di grande attitudine produttiva (BLAP) si
pongono problemi di gestione dell’allevamento e, primo fra tutti, quello della scelta
di una corretta alimentazione. E’ necessario far coincidere le quantità di energia,
proteine, minerali e vitamine realmente ingerite dalle bovine, con i suoi fabbisogni
effettivi. Ciò non è di facile attuazione considerando che, i fabbisogni oltre che essere
diversi da animale ad animale variano nel corso della lattazione. Sono state
identificate diverse necessità della vacca in funzione del periodo in cui si trova e ciò
in quanto, oltre al potenziale genetico, diversi fattori concorrono a delineare la curva
199
di lattazione: piano alimentare, modalità di distribuzione della razione, tipo di
stabulazione, tecnica di mungitura.
Quindi l’interparto è stato diviso in quattro fasi:
a) 0-90 giorni post-parto: questo periodo è il più critico: al sistema digestivo è
chiesto di utilizzare improvvisamente grosse quantità di carboidrati e ciò perchè i
fabbisogni energetici e proteici sono, rispettivamente, 3-4 e 6-7 volte superiori a
quelli di mantenimento e, quindi l’alimentazione deve basarsi soprattutto su razioni
ad elevata
Sostanze usate nella bovina da latte
Prodotto Azione Uso
Aminoacidi
protetti
Sopperiscono alla carenza di aminoacidi nelle
alte produzioni
Dosare in base all’analisi
della razione
Avopa-
rcina
Antibiotico non assorbibile. Controlla la flora batterica
senza alterare il rapporto tra AGV. Migliora l’assorbimento
degli aminoacidi e il tenore lipidico del latte
- 4-10 mg / Kg di
mangime
- 100 mg/capo/giorno
Bentonite
sodica
Ha azione assorbente, modula la microflora ruminale,
aumenta la quantità di AGV (soprattutto ac. Acetico) in
razioni ricche in concentrati e povere in fibra. Previene
l’acido da eccesso di ac. lattico
1% della S.S. della
razione.
20 g/Kg concentrato
Glicole
propilenico
Alcol bivalente che viene metabolizzato nel
rumine e trasformato in glucosio dal fegato. Ha
rapido effetto energetico e disintossicante. A
dosi moderate previene l’acetonemia subclinica
mentre a dosi elevate cura le forme conclamate
- uso preventivo acetonemia
suclinica: 150 g/capo/d per
20 giorni post-parto
- uso curativo: 300-500
g/capo/d per pochi giorni
Grassi
protetti
Forniscono energia supplementare nelle alte lattazioni.
Apportano alla mammella ac. Grassi a lunga catena. Sono
disponibili anche con aminoacidi by-pass
100-500 g/capo/d
secondo fabbisogni
Lievit
i
Stimolano la funzionalità dei batteri del rumine, specie di quelli
cellulosolitici. Favoriscono più elevate produzioni di latte con più alto
titolo lipidico
30-50 g
al giorno
Lisati
proteici
Aumentano la vitalità dei protozoi e le attività microbiche ruminali,
specie quella acetica. Migliorano l’utilizzo dell’azoto e della fibra
grezza. Aumentano la resa caseinica del latte e quindi quella in
formaggio.
8-10
g/capo/d
Magnesio ossido Aumenta il pH nell’intestino dove migliora l’effetto
dell’enzima amilasi e la digestione dell’amido
2-5 g/Kg S.S
razione
Magnesio solfato e
carbonato
Agiscono nel rumine meglio dell’ossido con azione
alcalinizzante, specie se associati con sodio bicarbonato.
2 g/Kg S.S
razione
Metionin
a
Buon terreno di coltura per i batteri ruminali, favorisce la
produzione di AGV, con effetto sui grassi del latte
5 o più g/capo/d
secondo produzione
Metionina
protetta
Migliora la produzione lattea e la persistenza della lattazione.
Favorisce il tenore lipidico e proteico del latte, migliorandone la
frazione caseinica. Ha effetto protettivo sul fegato
10-15
g/capo/d
Sodio
bicar-
bonato
Regola il pH nel rumine ed impedisce deviazioni verso
valori di acidità. Ha effetto appetizzante e aumenta il
tenore lipidico del latte
- 1-1,2% della razione
- 50 g/capo/d con fieno
- 100 g/capo/d consilomais
Vitamina
PP
Stimola la crescita dei batteri ruminali e la proteogenesi.
Opera a che a livello metabolico. Favorisce il tenore
lipidico e proteico del latte, con miglioramento della
frazione caseinica.
1-2 g/capo d; 5-10 g se per
vacca grassa, chetosi e
patoprotettore
concentrazione di principi nutritivi (concentrati). Queste razioni possono però
presentare carenze di fibra effettiva la quale è necessaria per stimolare
meccanicamente il rumine, stabilizzare il pH (non al disotto di 6,2), modulare la
produzione di AGV (l’ac. Acetico dovrebbe essere del 50-60% sul totale),
scongiurare l’insorgenza di acidosi e gravi forme di inappetenza. Peraltro, si ricorda
che la fibra se carente causa un abbassamento del tenore lipidico del latte e, quindi,
non dovrebbe essere al disotto del 17-18% sulla S.S. di cui almeno un terzo apportata
da foraggi con fibra strutturata lunga. In questo periodo, le bovine producono spesso
40-50 Kg di latte al giorno e, mentre è facile coprire i fabbisogni proteici, minerali,
vitamici (ricorrendo spesso agli integratori) è difficile coprire quelli in energia.
Quindi, è necessario preparare la vacca alle elevate ingestioni di concentrati già
nell’ultima fase di asciutta (steaming-up) e aumentando gradatamente la
somministrazione fino a raggiungere, verso la 10-12a settimana, i quantitativi
necessari (i concentrati comunque non devono rappresentare più del 65% della
sostanza secca totale). Specialmente le grandi lattifere, comunque, avranno un
progressivo calo di peso, durante i primi 2-3 mesi di lattazione (30-50 Kg) e ciò
perché una bovina di statura media (600 Kg) può ingerire alimenti solo per produrre
30-35 Kg di latte al giorno e per il resto deve ricorrere alla proprie riserve corporee.
Ciò non deve preoccupare in quanto la buona lattifera lo fa con molta facilità e senza
danni per il proprio organismo. Invece, bisogna evitare che il calo di peso oltrepassi
certi limiti altrimenti si incorre in gravi rischi di chetosi e altre turbe (sindrome della
vacca magra). La vacca magra, oltre che produrre meno latte rispetto alle sue
potenzialità genetiche, evidenzia infertilità legata alla mancanza dei calori post-parto.
b) 91-200 giorni post-parto: in questa fase i picchi di produzione sono stati già
raggiunti, l’ingestione di sostanza secca è massima, i fabbisogni per la produzione
sono coperti e si comincia ad avere un recupero del peso. La razione deve essere
bilanciata per controllare il declino della curva di lattazione e per permettere alla
bovina di recuperare le riserve corporee: in questa fase la diminuzione di produzione
si considera normale se è del 5-10% al mese. Il recupero di peso non deve essere
eccessivo, specialmente per quelle vacche che non sono rimaste gravide nella prima
fase, altrimenti ingrasserebbero troppo. Il metabolismo della vacca deve rimanere di
tipo chetogenetico e non glucogenetico: questo pericolo si corre quando la bovina
ingerisce quantità eccessive di carboidrati facilmente fermentescibili che tra l’altro
determinano: a) riduzione del grasso nel latte, b) ingrassamento dell’animale, c)
diminuzione di produzione.
c) Da 211 giorni post-parto all’asciutta: in questo periodo bisogna soprattutto
controllare lo stato fisiologico e il ristabilirsi del peso corporeo e nello stesso tempo
far calare lentamente la produzione di latte. L’animale deve riassumere il peso forma
senza ingrassare, la funzionalità del rumine deve essere ristabilita riducendo
gradualmente carboidrati e proteine ed aumentando i foraggi.
d) asciutta: il periodo dell'asciutta che poi è la sospensione della secrezione lattea da
parte della femmina dei mammiferi, nella generalità delle specie nelle quali il latte è
prodotto per la sola alimentazione del neonato, come fenomeno fisiologico
conseguente allo svezzamento. Invece, nelle femmine nelle quali l'uomo sollecita il
prolungamento della produzione del latte attraverso la mungitura è opportuno che la
lattazione sia sospesa alla fine della gestazione. Alla vacca in lattazione, gravida, è
concesso un periodo più o meno lungo di riposo, sospendendo la mungitura 40-50
giorni prima del parto per dare modo alla stessa vacca di prepararsi per il parto e la
201
successiva lattazione e di perdere quell'aspetto di vigorosa magrezza e di estrema
angolosità che è tipico delle buone produttrici. In questo periodo, l'animale ha la
possibilità di ricostruire quanto prelevato dal proprio organismo durante la lattazione
e riparare alle usure, soprattutto della ghiandola mammaria. Inoltre, l'animale si deve
costituire delle scorte per far fronte agli imponenti fabbisogni delle fasi iniziali della
lattazione, quando la portata lattea è particolarmente elevata, non è più così
indispensabile in quanto l'alimentazione razionale della lattifera è ormai entrata nella
pratica comune e la copertura di questi fabbisogni è conseguibile attraverso un
razionamento nelle varie fasi della lattazione. Del resto, le stesse scorte possono
interessare solo l'energia (grasso), vitamine liposolubili e taluni minerali, mentre per
le proteine e la maggior parte dei minerali non si può parlare di vere e proprie scorte.
D'altra parte, non si può far ingrassare molto l'animale in quanto ciò predispone
all'acetonia e al collasso puerperale, così come gli eccessi di calcio aumentano il
rischio dello stesso collasso e quelli di proteina aggravano le conseguenze di questi e
di altre malattie di tipo dismetabolico. L'alimentazione in questo periodo deve tenere
conto della potenzialità produttiva (genetica), dell'animale e del suo stato di
alimentazione e di gravidanza avendo cura che in aggiunta ai fabbisogni di
mantenimento e di gravidanza siano soddisfatti anche quelli dell'asciutta
considerando l'animale stesso come se fosse in produzione di un quantitativo medio
giornaliero di latte e, soprattutto, ponendo particolare attenzione a:
- non eccedere in energia, proteine, calcio;
- non devono mancare elementi fibrosi a bassa concentrazione energetica e poveri di
calcio;
- devono essere soddisfatte le esigenze di vitamina A, E, caroteni, fosforo,
oligoelementi
-
Patologie puerperali frequenti nella vacca grassa (da Ballarini)
Turbe genitali:
- Difficoltà di parto; Ritenzione placentare;
- Metriti; Infertilità
Turbe della produzione di latte
- Edema della mammella; Mastiti
- Scarsa produzione di latte
- Riduzione del contenuto lipidico del latte
Turbe metaboliche
- Steatosi epatica e renale
- Collasso puerperale ipocalcemico
- Paresi puerperale; Chetosi; Tetanie
Turbe digestive
- Indigestioni ruminali
- Abomasiti ed ulcere abomasali
- Dislocazioni dell’abomaso
Turbe varie
- Sindromi podali
- Rifondimento acuto o cronico
- deve essere favorito nell'animale il passaggio all'alimentazione di forzatura cui
dovrà essere necessariamente sottoposto dopo il parto; per la realizzazione di questo
punto e, soprattutto, per assuefare l'apparato digerente dell'animale all'assunzione dei
4-6 kg giornalieri di concentrato, necessari all'inizio della lattazione, si pratica il
cosiddetto steaming-up attraverso la somministrazione durante gli ultimi giorni prima
del parto, in aggiunta alla razione prefissata per l'asciutta, in quantitativi di cereali
(mais, orzo) in graduale aumento (da 1 a 3-4 kg/giorno).
Considerando che, la popolazione microbica del rumine per adeguarsi ad un nuovo
tipo di alimentazione necessita di un certo periodo di tempo (2-4 settimane) lo
steaming-up varrà anche a favorire la selezione degli anzidetti microrganismi in base
alle caratteristiche fisiche e di composizione chimica degli alimenti che costituiranno,
appunto, gran parte della razione della prima fase della lattazione.
Nel caso dell'alimentazione della fattrice da carne in asciutta bisogna fare distinzione
rispetto alla vacca da latte dell'inizio della lattazione e il tipo di alimentazione, più
idoneo allo scopo. Se, infatti, nella lattifera si deve favorire la spinta lattea e,
soprattutto, cercare di coprire il divario fra fabbisogno ed ingestione, un’esigenza
contraria si presenta per la fattrice da carne la cui utilizzazione deve attenuare la
secrezione lattea iniziale. Giacché tutto il latte è destinato al redo, i cui fabbisogni
sono assai modesti alla nascita per poi accrescersi gradualmente finché la sua
capacità di ingerire altri alimenti lo renderà meno dipendente dal latte materno, la
produzione di latte dovrà seguire tale evoluzione se si vorranno evitare gravi rischi
per il redo (diarrea per eccesso di latte ingerito) o per la fattrice (mastiti). Per ottenere
il risultato, prima indicato, è consigliabile, oltre ad impedire l'eccessivo
ingrassamento (che nella fattrice adulta comporta l'ingestione di non oltre 5-6 U.F.
contro le 6-7 della lattifera), bisogna ridurre l'apporto energetico-proteico nelle
ultime fasi della gravidanza e nei primi giorni di lattazione. L'aumento sarà, invece,
consigliabile quando il vitello avrà superato i 25-30 giorni di vita e richiederà più
latte; tale aumento fungerà, inoltre, da stimolo per un recupero della funzione
riproduttiva e favorirà il successivo concepimento, quindi la fertilità (flushing).
Circolo vizioso della Sindrome Vacca Grassa (da Ballarini)
Eccessivo stato di ingrassamento
al parto
Infertilità ed inizio della gravidanza
oltre il 95° giorno dal parto
Allungamento del periodo di
asciutta con prolungamento di
un’alimentazione troppo
energetica
Cessazione della lattazione quando la
gravidanza non è ancora arrivata al 7°
mese
In sintesi durante il periodo di asciutta occorre:
- somministrare buoni foraggi ricchi di fibra per stimolare l’attività ruminale;
- impedire un eccessivo ingrassamento, somministrando non più di 2-3 kg di
concentrato al giorno e mantenendo un rapporto foraggi concentrati di 70/30;
- usare foraggi di cui si prevede l’impiego anche nel successivo periodo di
lattazione e ciò al fine di predisporre la flora batterica ruminale;
- praticare lo steaming-up;
- regolare l’apporto in minerali: l’apporto di calcio e fosforo dovrà avere un
rapporto di 2:1 (50-60 g di Ca e 30-40 g di P), evitando l’apporto massiccio di
foraggi di leguminose le quali sono molto ricche in calcio;
- costituire buone riserve in vitamine liposolubili (A, D, E);
203
- far riassumere il peso forma ed una leggera “messa in carne” ma evitare
l’ingrassamento in quanto esso se eccessivo causa molti inconvenienti, sia durante
il parto che nella prima fase della lattazione (sindrome della vacca grassa).
8.4.3. Modalità di somministrazione degli alimenti
Nelle grandi lattifere, il problema di fondo è quello di soddisfare le loro esigenze,
soprattutto energetiche, mantenendo il biochimismo ruminale in condizioni ottimali
rispetto alla produzione sfruttata. Ciò può essere raggiunto:
- somministrando in modo molto frazionato gli alimenti (10-14 pasti) il che
consente anche un normale andamento delle fermentazioni ruminali;
- somministrando i vari alimenti di base opportunamente trinciati e mescolati tra di
loro, in modo da favorire l’ingestione volontaria e di garantire un adeguato apporto
energetico e di fibra;
- provvedere alla somministrazione individuale di quel tanto di mangimi
concentrati che occorre ad ogni singola bovina per completare i propri fabbisogni
energetici, proteici, minerali e vitaminici.
La realizzazione di modalità pratiche di alimentazione che tendono a soddisfare le
esigenze sopra elencate si può avere, in stalle a stabulazione libera, mediante:
1) adozione dell’unifeed o piatto unico: è una tecnica di alimentazione che prevede la
somministrazione di razioni complete e bilanciate, opportunamente trinciate e
miscelate, somministrate ad libitum, mediante l'ausilio di appositi carri miscelatori, a
gruppi omogenei di bovine. Tale tecnica ha acquisito un notevole impulso grazie
all'impiego di insilati, in virtù delle caratteristiche di tali alimenti che assicurano
contemporaneamente alla razione: appetibilità, umidità, alta energia, fibra digeribile.
Sebbene la tecnica "unifeed" abbia assunto una notevole diffusione negli allevamenti
di medie-grandi dimensioni e opportuno precisare che:
A) una buona conduzione dell'alimentazione non e esclusiva di chi pratica " unifeed "
ed, anzi, persistono situazioni nelle quali non è possibile introdurre tale tecnica per
motivazioni economico-strutturali;
B) l'applicazione corretta dell'unifeed non è cosi semplice come può sembrare.
Richiede una pratica lunga e meticolosa che necessita di mesi o anni di continue
correzioni ed aggiustamenti, anche in relazione al notevole numero di fattori che
interferiscono con la formulazione della razione;
C) la soluzione universale non esiste, ogni azienda costituisce una realtà con proprie
problematiche (disponibilità di manodopera, tipo e qualità di foraggi, strutture
aziendali, ecc.) per cui nel rispetto delle indicazioni tecnico-nutrizionali è necessario
un adeguamento "personalizzato".
D) la formulazione di una buona razione richiede la valutazione di un sempre
maggior numero di variabili. Per quanto riguarda la qualità del latte, emerge che, in
virtù dell'introduzione di una corretta tecnica dell'unifeed si ottengono alcuni
interessanti risvolti positivi: il tenore del grasso si accresce (anche se l'aumento del
grasso può determinare problemi vedi quote latte) l'attitudine alla coagulazione
migliora, la quantità di cellule somatiche si riduce.
Resta tuttavia il fatto che, per ottenere migliori livelli qualitativi (più proteine e
caseine, meno spore, ecc.) occorre approfondire le relazioni intercorrenti tra
componenti della razione, stato endocrino – fisiologico dell'animale e sintesi
ruminali.
In questo ambito diverrà certamente fondamentale "mirare" l'alimentazione della
lattifera in modo da orientare adeguatamente taluni meccanismi endocrini ed ottenere
i miglioramenti produttivo - qualitativi desiderati.
I vantaggi più evidenti consistono in una più semplice preparazione e
somministrazione della razione, una diminuzione dei fenomeni di competizione e di
disturbo alla mangiatoia, una impossibile selezione da parte dell’animale di un
determinato alimento più gradito. La disponibilità ad libitum dell’alimento consente,
inoltre, un numero più elevato di pasti che, insieme alla costante ed equilibrata
miscelazione dei componenti, determina una maggiore costanza del pH e dei
fenomeni biochimici del rumine. L’unifeed vero e proprio, cioè alimentando le
bovine esclusivamente in mangiatoia con le 2-3 miscelate giornaliere, non è
facilmente praticabile nelle nostre aziende in quanto il numero delle lattifere allevato
non è tale da permettere la formazione di diversi gruppi omogenei necessari per una
corretta alimentazione collettiva. Pertanto, si rende necessario somministrare con il
carro miscelatore solo parte della razione (di base), per poi integrare con
l’autoalimentazione quanto è dovuto ad ogni singola bovina.
3) Autoalimentazione: si tratta di particolari tramogge (box o stazioni di
alimentazione) capaci di contenere la miscela di mangimi concentrati,
specificatamente formulata secondo le necessità di “bilanciamento della razione” del
gruppo di bovine cui è destinata. La distribuzione della miscela è regolata da
un’apparecchiatura elettronica o da un computer (a mezzo trasponder applicato al
collare o attraverso una trasmittente fissata nello stomaco della bovina che viene poi
recuperata alla macellazione) in modo che ogni bovina, debitamente riconosciuta
dall’impianto (generalmente il ciclo di 24 ore è diviso in 1.440 minuti e, in pratica,
ogni animale, per ciascun minuto trascorso tra un’utilizzazione e l’altra, può avere
1/1440 della razione di sua spettanza), abbia a disposizione nella giornata molte
piccole dosi di concentrato (esistono anche autoalimentatori elettronici non collegati
a computer per i quali l’allevatore deve, ogni 2-3 giorni, regolare a mano
l’apparecchiatura del collare fissando il quantitativo di concentrato che la bovina
deve avere durante la giornata), fino a raggiungere il quantitativo totale che le
compete, secondo le proprie individuali necessità date dallo stato fisiologico, dal
livello e dallo stadio di lattazione, ecc., e per bilanciare la quota di razione base che
può aver assunto volontariamente dalla mangiatoia.
L’elaboratore memorizza la quantità di concentrati non consumati e li mette a
disposizione dello stesso animale nel ciclo successivo e se l’impianto è collegato al
computer fornisce all’allevatore l’elenco dei soggetti (lista di allarme) che per
qualsiasi motivo non hanno consumato per intero la razione loro assegnata.
I vantaggi derivanti dall’autoalimentazione, soprattutto quella computerizzata, sono:
- le piccole dosi distribuite in più riprese, durante le 24 ore, oltre che favorire la
funzionalità del rumine, non fanno diminuire l’appetito e il gradimento per i foraggi
della razione base, anzi ne aumentano l’ingestione in quanto i concentrati richiamano
la fibra e viceversa;
- permette la realizzazione nella mandria di due o tre soli gruppi (gruppo delle
bovine in asciutta, gruppo delle bovine in lattazione che a sua volta può essere diviso
in due, in funzione dello stadio della lattazione).
I vantaggi derivanti dall’adozione dell’unifeed e dell’autoalimentazione possono
essere così riassunti:
- aumento della produzione di latte del 5-8%;
- aumento fino al 10% dell’ingestione volontaria;
205
- miglioramento del 4-5% dell’efficienza di utilizzazione degli alimenti;
- più costanza della curva di lattazione;
- riduzione delle forme di acetonemia e di acidosi;
- minore perdita di peso nella prima fase della lattazione;
- maggior peso delle primipare a fine lattazione;
- possibilità di mascherare alimenti poco appetibili, purché buoni;
- impossibilità per l’animale di scegliere o scartare qualche componente della
razione;
- minore incidenza delle mastiti, delle malattie podali e delle forme di infertilità;
- riduzione della manodopera per la distribuzione degli alimenti e semplificazione
delle operazioni di controllo degli alimenti;
- possibilità di meccanizzazione completa;
- aumento del tenore proteico e lipidico del latte;
- minor costo di produzione per Kg di latte.
8.4.4 Alimentazione e qualità del latte
Le caratteristiche qualitative minime del latte destinato al consumo diretto o alla
caseificazione sono contenute nella legge 169/1989 e nel D.P.R. 54/97 e vengono
riassunte in tabella. Va, inoltre, ricordato che il regolamento CEE 1525/98
stabilisce che il livello massimo ammesso nel latte di aflatossina MI è di 0,05
ppb.
Requisiti minimi del latte da destinare al consumo diretto o alla trasformazione.
Latte trattato termicamente Latte alta qualità
Peso specifico a 20°C > 1.028 > 1.028
Estratto secco magro (%) < 8,5 > 8,5
Proteina (%) > 2,8 > 3,2
Indice crioscopico (0C) 0,52 0,52
Contenuto in cellule somatiche < 400.000 < 300.000
Il produttore è, quindi, obbligato a rispettare le caratteristiche sopra riportate, ma
è anche stimolato a migliorare le caratteristiche qualitative del latte in quanto
queste condizionano il pagamento dello stesso.
Contenuto lipidico
Negli anni la selezione genetica si è orientata in modo diverso per quanto
riguarda la percentuale lipidica del latte; la tendenza attuale è quella di
privilegiare il contenuto lipidico intorno al 3,7%. Il contenuto lipidico del latte
è un parametro che riveste un’importanza fondamentale, in quanto:
a) un contenuto inferiore ai capitolati di vendita comporta una penalizzazione
del prezzo del latte;
b) un'incontrollata riduzione fino al limite estremo dell’inversione del rapporto
grasso/proteina è sicuramente indice di alterata funzionalità ruminale;
c) elevati livelli di grasso del latte determinano una riduzione della quantità di
latte che l'allevatore può produrre nell'ambito del sistema "quote/latte", dato che
le quote sono calcolate anche sulla quantità di grasso prodotta.
L'alimentazione influenza in modo significativo il tenore lipidico del latte, infatti
opportuni interventi nutrizionali possono determinare variazioni anche di due
punti percentuali di questo parametro.
II grasso del latte è costituito per il 98% da gliceridi, di cui il 95% trigliceridi, il
2-3% di digliceridi e lo 0,1 % di monogliceridi, il rimanente 2% è costituito da
fosfolipidi, lipoproteine, sostanze non saponificabili. Per quanto riguarda la
composizone acidica è utile ricordare che, gli acidi grassi a corta catena, che
possiedono da quattro a 12 atomi di carbonio, vengono sintetizzati a livello
mammario e derivano dall'acido acetico e dal -idrossibutirrato, prodotti dalle
fermentazioni ruminali. Gli acidi grassi a media catena, da 14 a 16 atomi di
carbonio, sono in parte sintetizzati a livello mammario ed in parte captati come
tali dal sangue, mentre, gli acidi grassi a lunga catena, da 18 atomi di carbonio,
sono captati come tali dal sangue.
È importante sapere anche che:
1. il tenore lipidico del latte si abbassa durante la stagione calda e si alza durante
la stagione fredda;
2. esiste una stretta correlazione tra il pH del fluido ruminale e il tenore lipidico
del latte, infatti si può predire il pH del fluido ruminale dalla percentuale di
grasso del latte attraverso la seguente equazione: pH fluido ruminale = 4,44 +
0,46 x % di grasso del latte;
3. la percentuale di grasso del latte tende a decrescere all'inizio della lattazione,
indicativamente nei primi due controlli funzionali a scadenza mensile e a risalire
dal terzo controllo;
4. la variazione negativa tra il primo e secondo controllo dovrebbe essere di 0,4 -
0,5 punti percentuali;
5. percentuali di grasso superiori al 4,8 % all'inizio della lattazione, cioè in
corrispondenza del primo controllo, che in ogni caso dovrebbe essere effettuato
nei primi 45 giorni di lattazione, in particolare se associate a percentuali di
proteina inferiori a 3,2%, sono indice di chetosi;
6. la percentuale di grasso dovrebbe essere superiore a quella di proteina, la quale
dovrebbe essere pari nella Frisona a circa l'85% della percentuale di grasso,
quindi, non si dovrebbero mai osservare, in condizioni di corretta gestione,
inversioni del rapporto grasso/proteina del latte;
Principali acidi grassi del grasso del latte in bovine alimentate con diete senza grassi
aggiunti o con l'aggiunta di alimenti ricchi di lipidi e di grassi protetti a livello ruminale
(saponi di calcio) (Contarini et al., 1996)
Acidi Grassi Controllo Semi di Cotone Semi di Soia Saponi di Calcio
C4:0 4,30 4,25 4,77 4,22
C6:0 2,39 2,31 2,33 2,21
C8:0 1,49 1,38 1,39 1,21
C10:0 2,90 2,46 2,61 2,57
C12:0 3,34 2,72 2,93 2,97
C14:0 11,57 9,64 10,17 10,14
C16:0 29,33 26,81 26,96 28,11
C18:0 9,86 12,83 11,19 10,26
C18:1 22,29 26,01 25,73 26,44
C18:2 2,23 2,78 2,65 2,85
7.la composizione acidica del latte varia durante la lattazione, in quanto all'inizio
207
della lattazione la percentuale di acidi grassi a lunga catena è superiore, poiché si
verifica, comunque, una certa lipomobilizzazione;
8. la composizione acidica del latte è influenzata dalla somministrazione di lipidi,
con un aumento degli acidi grassi a lunga catena ed una riduzione di quelli a
corta catena.
Se si desidera incrementare il tenore in grasso del latte si dovrà, innanzi tutto,
aumentare la sintesi endogena mammaria, quindi, si dovranno orientare le
fermentazioni ruminali a produrre maggiori quantità di acetato e butirrato. Tale
obiettivo può essere raggiunto tramite:
1. aumento del rapporto foraggio/concentrato della razione, che equivale ad
aumentare il tenore in fibra e quindi la produzione ruminale di acido acetico;
2. aumento della quota di sottoprodotti fibrosi caratterizzati da elevata
degradabilità ruminale della fibra, es. polpe di barbabietola, oppure semi integrali
di cotone che, inoltre, apportano dei grassi;
3. macinazione grossolana dei cereali;
4. verificare che il 75% dell'NDF della razione provenga da foraggi e che sia
sufficiente l'apporto di NDF;
5. adeguato sfruttamento del potere tampone e della capacità di scambio
cationico delle materie prime;
6. utilizzo di una quota di fieno di erba medica (1-2 kg) o di paglia (0,4 - 0,5 kg)
quando nella razione sono presenti fieni di prato stabile di terzo o quarto taglio
che, essendo molto sottili, stimolano poco sia la motilità ruminale sia la
salivazione;
7. evitare la somministrazione di grassi vegetali non protetti, in quanto gli acidi
grassi insaturi riducono l'attività dei batteri cellulosolitici e, quindi, la produzione
di acido acetico;
8. somministrazione di sostanze tamponanti, es. bicarbonato di sodio, (100-200 g
capo/d), eventualmente insieme con ossido di magnesio in rapporto 3:1;
9. somministrazione di lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae), in quanto in grado
di ridurre la concentrazione di acido lattico nel fluido ruminale;
10. somministrazione di malato;
11. somministrazione di acetato di sodio.
Oltre a questi interventi, quando si deve aumentare la concentrazione di grasso di
latti ipolipidici, cioè con percentuali di grasso inferiori a 3,0%, si può anche
ricorrere all'utilizzo di grassi protetti, ad es. saponi di calcio, il che comporta un
aumento della quota di acidi grassi a lunga catena. Bisogna però ricordare che
tale intervento non sempre fornisce risultati positivi in quanto la
somministrazione di energia così effettuata determina un aumento produttivo con
un effetto di diluizione, quindi con una riduzione o nessuna variazione del tenore
lipidico del latte. Può essere utile, inoltre, somministrare fattori lipotropi, quali
colina (20-25g/capo/d) e metionina (10-30 g/capo/d). La depressione del tenore
lipidico del latte può essere dovuta, oltre ad una carenza di precursori, come
precedentemente descritto, anche ad un effetto diretto di alcuni metaboliti a
livello mammario. Infatti, una produzione eccessiva di acidi grassi trans a livello
ruminale, che si verifica quando la razione contiene oli vegetali, ed il rapporto
foraggio:concentrato è decisamente a favore del concentrato, cioè un apporto in
foraggio inferiore al 50%, comporta una riduzione della percentuale di grasso del
latte. Gli acidi grassi trans si formano a seguito della incompleta
bioidrogenazione degli acidi grassi insaturi. In queste condizioni, il contenuto del
grasso in acidi grassi trans sale da un normale 5-6% fino al 15%. Questo
incremento può essere considerato negativamente per la salute dell'uomo, però si
deve ricordare che aumenta notevolmente, circa cinque volte, il contenuto del
grasso in CLA (coniugato dell'acido linoleico o C18:2 cis-9, trans-11), il quale
riveste funzioni interessanti per la salute umana, essendo un fattore
anticancerogeno. Inoltre, verificandosi le condizioni sopra descritte,
aumenterebbe anche la percentuale nel grasso del latte di trans-11 18:1, il quale
pare possa essere trasformato a CLA nell'organismo umano.
Contenuto in proteina
Il contenuto in proteina del latte è un parametro che riveste un'importanza
fondamentale in quanto:
a. una riduzione comporta una penalizzazione del prezzo del latte e un’inferiore
resa casearia;
c. una riduzione è indice di un non corretto bilancio tra le diverse fonti
energetiche e proteiche della razione;
d. bassi tenori proteici sono spesso correlati con fenomeni di ipofertilità a loro
volta sostenuti da carenza energetica.
La percentuale di proteina del latte fornisce indicazioni sul contenuto in azoto
dello stesso, deriva, infatti, dal prodotto del contenuto di azoto per 6,37, ma
non permette di conoscere la distribuzione delle varie frazioni azotate.
Composizione della proteina del latte.
Frazione %
Caseine 78,0
Lattoglobuline 8,5
Lattoalbumine 4,0
Albumine ematiche 0,8
Immunoglobuline 2,0
Proteoso-peptoni 1,7
NPN (urea, nucleotidi, aminoacidi etc.) 5,0
L'alimentazione può influenzare il tenore proteico del latte in modo molto
meno significativo rispetto al tenore lipidico; infatti, opportuni interventi
nutrizionali possono determinare variazioni di 0,1-0,4 punti percentuali di
questo parametro, Gli aminoacidi utilizzati dalla mammella per le sintesi
proteiche derivano dalla proteina microbica sintetizzata a livello ruminale e
dalla proteina alimentare non degradata nel rumine che raggiunge il duodeno.
L'assunzione di aminoacidi non essenziali da parte della mammella è variabile
e dato che l'escrezione nel latte di alcuni aminoacidi non essenziali è talvolta
superiore rispetto all'assunzione, sembra logico pensare che, a livello di
mammella, avvenga una sintesi di aminoacidi non essenziali. Per quanto
riguarda, invece, l'utilizzazione degli aminoacidi essenziali da parte della
mammella questi possono essere suddivisi in due gruppi principali:
209
Utilizzazione degli aminoacidi essenziali da parte della mammella
1° Gruppo 2° Gruppo
Assunti dalla ghiandola mammaria nella
stessa quantità con cui vengono secreti
nel latte:
metionina, istidina, tirosina, fenilalanina
e triptofano
Assunti dalla ghiandola mammaria in
quantità superiore a quella con cui vengono
secreti nel latte:
lisina, isoleucina, treonina, valina, leucina e
arginina
Ne consegue che, gli aminoacidi del 1° gruppo possono essere limitanti per la
sintesi proteica a livello della ghiandola mammaria; è, infatti, noto che il
principale aminoacido limitante per la produzione di latte è la metionina.
Tuttavia, anche gli amino acidi del 2° gruppo potrebbero essere limitanti per la
sintesi proteica a causa di un insufficiente trasporto nelle cellule epiteliali
mammarie o perché vengono utilizzati per altri processi metabolici.
È importante sapere inoltre che:
1. il tenore proteico del latte si abbassa durante la stagione calda e si alza
durante quella fredda;
2. la percentuale in proteina del latte tende a decrescere all'inizio della
lattazione, indicativamente nel primo controllo funzionale a scadenza
mensile, e a risalire dal secondo controllo;
3. la variazione tra il primo e secondo controllo dovrebbe essere di 0,4 - 0,5
punti percentuali;
4. la percentuale di proteina del latte per la Frisona italiana dovrebbe essere
intorno all'85%, con variazioni di 0,3 - 0,5 punti percentuali, della
percentuale di grasso;
5. la somministrazione di grassi, in particolare se non protetti a livello ruminale e
ricchi di acidi grassi insaturi, comporta una riduzione del tenore proteico del
latte fino a 0,2 punti percentuali in quanto esercitano un'azione negativa sui
batteri ruminali diminuendone le sintesi proteiche e, quindi, riducendo la
disponibilità per le sintesi mammarie. I grassi potrebbero agire negativamente
anche in sede post-ruminale e tale effetto potrebbe essere spiegato con un
rallentamento della secrezione di somatotropina ed un aumento della resistenza
all'insulina a livello mammario, che comporta un inferiore utilizzo di
aminoacidi ematici.
Se si desidera aumentare il tenore in proteina del latte si dovrà innanzitutto
incrementare la quantità totale di aminoacidi che raggiunge l'intestino, il che
permette un maggiore assorbimento e quindi una maggiore disponibilità a
livello mammario e controllare il profilo aminoacidico della proteina realmente
disponibile a livello duodenale, in modo tale da aumentare l'assorbimento di
aminoacidi essenziali e limitanti per la sintesi proteica mammaria,
principalmente metionina.
Il primo obiettivo, cioè l'aumento della quantità di aminoacidi disponibili a
livello intestinale, può essere raggiunto tramite:
1. riduzione del rapporto foraggio/concentrato della razione, che equivale ad
aumentare il tenore in energia della razione e quindi le sintesi proteiche dei
microrganismi ruminali;
2. aumento della percentuale di carboidrati non strutturali della razione (NSC),
che dovrebbe essere compresa tra 35 e 41% s.s. oppure essere in un rapporto
con l'NDF pari a 0,9-1,2;
3. somministrazione di fonti amilacee a diversa fermentescibilità ruminale in
modo che il 60-70% dell'amido totale sia degradato a livello ruminale;
5. assicurazione di una corretta percentuale di proteina grezza della razione e
utilizzazione di fonti proteiche poco degradabili a livello ruminale, in modo
tale che il rapporto proteina degradabile/proteina non degradabile sia
compreso tra 60/40 nei primi quattro mesi di lattazione, tra 65/35 tra quattro
e sette mesi e tra 68/32 nell'ultima fase della lattazione e che la proteina
solubile sia pari al 50% della proteina degradabile;
6. valutazione della proteina metabolizzabile (MP), che è la somma della
proteina batterica, prodotta a livello ruminale, e della proteina non
degradabile a livello ruminale.
Il raggiungimento del secondo obiettivo, cioè il controllo del profilo
aminoacidico della proteina disponibile a livello intestinale, può essere
raggiunto:
1. somministrando fonti proteiche poco degradabili a livello ruminale,
caratterizzate da elevato valore biologico della proteina, ad esempio trebbie
di birra, distillers di cereali.
2. utilizzando aminoacidi protetti a livello ruminale, cercando di mantenere un
rapporto tra metionina e lisina di circa 1 e 3 e facendo in modo da
soddisfare i seguenti fabbisogni, che potranno essere calcolati con opportuni
programmi di razionamento:
3.
Fabbisogni in metionina e lisina delle bovine da latte.
Fabbisogni secondo Rulquin
Metionina (% proteina metabolizzabile) 2.10 - 2,50
Lisina (% proteina metabolizzabile) 6,50 - 7,20
Fabbisogni secondo Schwab
Metionina (% AA essenziali a livello duodenale) 4.5-5.0
Lisina (% AA essenziali a livello duodenale) 14,4-16,0
A titolo riassuntivo si riporta il contributo teorico della proteina microbica sul
fabbisogno totale proteico a tre diversi livelli produttivi in funzione
dell'efficienza della sintesi microbica.
Contributo teorico della proteina microbica sul fabbisogno totale proteico a tre diversi
livelli produttivi in funzione dell'efficienza della sintesi microbica (Stern, 1994).
Efficienza della sintesi microbica
(g di N/ kg SO degradata)
Produzione latte al 4% di grasso
(kg)
25 35 45
Contributo teorico della proteina
microbica sul fabbisogno totale (%)
20 49 42 39
30 73 64 59
40 98 85 79
211
Dalla tabella risulta evidente che l'intervento più efficace, in quanto più
economico per aumentare la quantità di proteina a livello duodenale, è
massimizzare la sintesi proteica microbica ruminale.
Contenuto in urea
L'urea presente nel latte viene sintetizzata a livello epatico a partire
dall'ammoniaca. Nel ruminante, l'ammoniaca ha una duplice origine: endogena,
derivante dai processi di gluconeogenesi da aminoacidi introdotti in eccesso con
la dieta, ed esogena di provenienza ruminale.
I fattori in grado di influenzare il contenuto di urea del latte sono:
a) tenore in proteina grezza della dieta;
b) rapporto tra proteina degradabile, non degradabile e solubile a livello
ruminale;
c) tenore in NSC della dieta; degradabilità ruminale degli NSC.
Il mantenimento di livelli ottimali di urea nel latte è condizionato dalla
disponibilità contemporanea di energia e di proteina a livello ruminale
caratterizzate da cinetiche di degradazione simili. Quando la dieta contiene un
eccesso di proteina degradabile e solubile a livello ruminale, associata ad un
insufficiente apporto di NSC, cioè ad un insufficiente apporto di energia, si rende
disponibile ammoniaca, che verrà trasformata in urea a livello epatico la quale,
non essendo possibile un adeguato riutilizzo a livello ruminale, determinerà un
aumento del tenore di urea nel plasma e nel latte.
Range di riferimento del tenore in urea del latte
Eccesso proteina
degradabile e solubile
Carenza NFC
Ridotta ingestione
Ridotta produzione
Epatopatie
Rischi di chetosi e zoppie
Problemi di fertilità
Valori di urea superiori
a 35 mg/100ml
Carenza proteina
degradabile e solubile
Eccesso NFC
Ridotta ingestione
Ridotta produzione
Rischi di acidosi
Rischi di fertilità
Valori di urea inferiori
a 23 mg/100ml
La sintesi di urea è un processo che richiede energia, il che aggrava il deficit
energetico che si osserva all'inizio della lattazione.
Il contenuto in urea del latte è correlato positivamente con il livello produttivo;
inoltre, tende ad aumentare nei primi due mesi di lattazione.
I valori di urea nel latte e nel plasma si equivalgono ed il passaggio dell'urea dal
sangue al latte avviene nell'arco di un'ora circa.
Al fine di non creare confusione si riportano i fattori di conversione per
trasformare l'urea ad azoto ureico e per trasformare le unità di misura, da mg a
mmoli e viceversa:
per trasformare il valore di urea in azoto ureico: dividere per 2,18
Esempio: 35 mg/100 ml di urea corrispondono a 16 mg azoto ureico
per trasformare il valore di urea da mg/100 ml a mmoli/l: dividere per 6,03
Esempio: 35 mg/100 ml urea corrispondono a 5,8 mmoli/l urea.
La conoscenza dei valori di urea nel latte, determinati con regolarità, ad es. 2
volte al mese, è importante perché:
permette di individuare tempestivamente squilibri tra le frazioni proteiche e di
NSC della dieta;
elevate concentrazioni di urea nel latte alla fecondazione possono causare
insuccesso della fecondazione o una morte molto precoce dell'embrione,
infatti, l'aumento dell'azoto ureico ematico determina un aumento del pH
uterino che crea un ambiente inadatto allo sviluppo dell' embrione, inoltre diete
con percentuali elevate di proteina, soprattutto di proteina degradabile e
solubile, a livello rurninale, comportano una riduzione del tasso di
progesterone ematico;
un incremento del tenore in urea del latte, a parità di azoto presente,
determina un peggioramento dell'attitudine alla caseificazione, infatti
diminuirà proporzionalmente la quota di caseina.
Per la determinazione del livello in urea del latte ci si può avvalere di kit
diagnostici disponibili sul mercato e utilizzabili direttamente in azienda per
uno screening iniziale e, se viene evidenziato un problema, si deve procedere
ad analisi approfondite in laboratorio.
La riduzione del tenore in urea del latte può essere raggiunta modificando la
composizione della dieta nei seguenti punti:
1.quantità e qualità della proteina;
2.contenuto e fermentescibilità della frazione di NSC;
3.inclusione di additivi.
Per quanto concerne i primi due punti sarà necessario controllare, verificare e
adeguare:
il tenore proteico in funzione della produzione;
la percentuale di proteina degradabile e solubile;
1'apporto di proteina metabolizzabile e di lisina e metionina a livello
intestinale tramite opportuni programmi di razionamento;
il tenore in NSC in funzione della produzione;
la fermentescibilità degli NSC.
Per quanto concerne il terzo punto sarà necessario includere nella dieta:
lievito di birra, in quanto in grado di ridurre il tenore di ammoniaca a livello
ruminale;
estratto di Yucca schidigera, in quanto in grado, come il lievito di birra, di
ridurre il tenore di ammoniaca a livello ruminale;
adsorbenti, quali bentonite, etc.
Contenuto in cellule somatiche
Le cellule somatiche sono normalmente presenti nel latte, il loro contenuto nel
latte di animali la cui ghiandola mammaria non presenta fenomeni
infiammatori è pari o inferiore a 50.000/ml. L'aumento del tenore in cellule
somatiche deriva da un trauma o da fenomeni infiammatori, da mastiti, per cui
le cellule somatiche rappresentano un buon parametro per valutare la sanità
della mammella.
La vigente normativa, D.PR. 54/97, prevede che il tenore massimo di cellule
213
somatiche debba essere inferiore a 400.000/ml per il latte trattato termicamente
e a 300.000/ml per il latte di alta qualità. Oltre al limite imposto dalla
legislazione, vi è un interesse diretto dell'allevatore a mantenere valori bassi di
cellule somatiche; infatti, all'aumentare del loro contenuto la produzione di
latte diminuisce, con riduzioni che vanno dal 5% per valori di cellule
somatiche fino a 200.000/ml al 20% per valori intorno a 1.500.000/ml e si
riduce anche il premio sul prezzo del latte.
Le cellule somatiche sono composte da neutrofili, macrofagi, linfociti e da una
piccola percentuale di cellule dell’epitelio ghiandolare. Esse rappresentano il
meccanismo di difesa della mammella nei confronti dei microrganismi
patogeni; infatti, la rapida mobilizzazione di leucociti dal sangue al latte è
indispensabile per organizzare i meccanismi di difesa locali contro le mastiti.
L'alimentazione non rappresenta la principale causa dell'aumento delle cellule
somatiche nel latte, tuttavia può svolgere un ruolo importante in quanto in
grado di condizionare la risposta immunitaria della bovina e, quindi, la
capacità di difesa nei confronti di microrganismi, ad es. Staphylococcus aureus,
Streptococcus agalactiae, Streptococcus uberis, E. coli, etc.
La maggior parte degli aumenti del contenuto in cellule somatiche si osserva
nei primi mesi di lattazione, in concomitanza con fenomeni di bilancio
energetico negativo. La bovina subito dopo il parto si trova in una situazione
di depressione immunitaria; inoltre, patologie metaboliche, quali chetosi,
acidosi, etc., inducono un'ulteriore riduzione della risposta immunitaria. A
tutto ciò si aggiunga che, le micotossine, talvolta presenti negli alimenti
somministrati alle bovine, esercitano un'azione immunosoppressiva. Non si
dimentichi che, anche l'ipocalcemia determina un aumento del cortisolo
plasmatico, che ha un'azione immunodepressiva. Ne consegue che, una
corretta profilassi nutrizionale dei fenomeni di mastite comporta:
somministrazione di diete bilanciate nelle varie componenti: proteina,
carboidrati, micronutrienti;
riduzione dell'entità del bilancio energetico negativo all'inizio della
lattazione;
prevenzione dei fenomeni di ipocalcemia;
controllo e contenimento della presenza di micotossine degli alimenti.
Oltre agli aspetti di carattere generale, si può intervenire tramite la
somministrazione di dosaggi superiori a quelli necessari a soddisfare i
fabbisogni di mantenimento e di produzione di alcuni micronutrienti in grado di
stimolare la risposta immunitaria. I principali micronutrienti in grado di stimolare
la risposta immunitaria e, quindi, contenere il numero di cellule somatiche nel
latte sono: zinco, rame, selenio, vitamina E, vitamina A.
Infatti, considerando che lo zinco svolge un ruolo fondamentale nella produzione
di cheratina e che ad ogni mungitura le bovine perdono circa il 40% della
cheratina presente nel canale del capezzolo, è plausibile ritenere che la
somministrazione di zinco possa aumentare la produzione di cheratina e, quindi,
migliorare la barriera che si oppone all'entrata dei microrganismi presenti sul
capezzolo a fine mungitura. Inoltre, lo zinco svolge un ruolo importante nello
stimolare la risposta immunitaria, in particolare nello stimolare la produzione di
linfociti T. La biodisponibilità dello zinco è decisamente superiore nelle forme di
zinco chelato con aminoacidi, forme organiche, per cui è utile somministrare una
quota dello zinco sotto forma organica. Il quantitativo di zinco da somministrare,
come integrazione, dovrebbe essere almeno di 100 ppm.
Il rame è un oligolemento coinvolto nel meccanismo di controllo delle cellule
somatiche in quanto gioca un ruolo nello stimolare la risposta immunitaria dato
che è presente nelle proteine ceruloplasmina e superossido dismutasi.
Quest'ultima aiuta a proteggere le cellule dai danni causati dagli ossidanti che si
formano durante i processi di fagocitosi. Il quantitativo di rame da somministrare
con l'integrazione dovrebbe essere almeno di 30 ppm.
Il selenio è in grado di convertire i perossidi di idrogeno ad acqua attraverso
l'azione dell'enzima glutatione perossidasi. Il perossido di idrogeno è prodotto dai
neutrofili e da altre cellule della serie bianca per uccidere i microrganismi,
tuttavia è anche dannoso per le cellule, quindi è necessario un meccanismo di
autodifesa attuato appunto dalla glutatione perossidasi. Il quantitativo di selenio
da somministrare con l'integrazione dovrebbe essere almeno di 0,3 ppm, anche in
questo sarebbe da preferire una quota sotto forma organica.
Quale fattore antiossidante e stimolante l'attività fagocitaria, la vitamina E è in
grado di esercitare un'azione di prevenzione nei confronti dell'insorgenza di
mastiti. La soglia ematica di vitamina E al di sotto della quale possono aumentare
i fenomeni di mastite è di 3,5-4 mg/ml. In particolare, intorno al parto i livelli
ematici di vitamina E tendono a diminuire, sia per una ridotta assunzione di
alimento e sia per un inferiore trasporto della vitamina nel plasma. Per cui nel
periodo di transizione potrebbe essere utile ricorrere ad un'integrazione
supplementare di questa vitamina arrivando ad integrarne la dieta con 2 g/capo/d.
L'integrazione di vitamina E dovrebbe essere di 1000 mg/capo/d in asciutta e di
500-1000 mg/ capo/d durante la lattazione.
Carenze di vitamina A e -carotene aumentano l'incidenza di mastiti in quanto
entrambe sono coinvolte nei meccanismi di difesa dell'organismo nei confronti
delle infezioni infatti, stimolano la funzione linfocitaria nella risposta
immunitaria cellulo-mediata e aumentano la secrezione di citochine come
l'interleuchina e l'interferone, che incrementa la resistenza alle infezioni. Inoltre,
la vitamina A stimola la produzione di anticorpi contro microrganismi patogeni. I
quantitativi di vitamina A da somministrare a bovine da latte dovrebbero essere
di 150.000-200.000 UI/capo/ giorno in asciutta e di 200-400.000/capo/giorno in
lattazione.
Contenuto in molecole bioattive
Le macrocomponenti del latte apportano i principi nutritivi per l'alimentazione
del neonato. Oltre a tali componenti sono presenti nel latte altre molecole, che
svolgono un'azione sia nutrizionale (vitamine, microelementi) che una funzione
biologica "extranutrizionale" più complessa. Molte di queste molecole bioattive
sono derivate dalla proteolisi delle proteine del latte (caseina, -lattoalbumina,
lattoferrina). Anche la frazione lipidica del latte contiene diversi componenti che
svolgono un ruolo positivo nella prevenzione dell'aterosclerosi o nella risposta
immunitaria.
Fra questi particolare attenzione è stata posta al contenuto in coniugati dell'acido
linoleico (CLA), una famiglia di molecole che deriva dai processi di
bioidrogenazione ruminale e di cui è stata evidenziata la potenzialità inibente la
carcinogenesi. Numerosi ormoni e fattori di crescita vengono prodotti a livello di
ghiandola mammaria e/o trasferiti dal sangue al latte attraverso meccanismi di
passaggio paracellulare o per transcitosi.
215
Principali molecole bioattive presenti nel latte e loro attività biologica
Molecole Effetti
Peptidi agonisti degli oppiodi (caseomorfine, lattorfine),
Peptidi antagonisti degli oppioidi (casoxine, lattoferroxine),
Fosfopeptidi delle caseine
Funzionalità gastroenterica
e digeribilità
Caseokinine (ACE-I e peptidi inibitori),
Caseoplatenina (peptidi da k-caseina), Modulazione emodinamica
Lattoferrina e peptidi
Glucomacropeptidi della A k-caseina,
Oligosaccaridi nel latte, Lattoferrina e peptici,
Caseomorfine
Substrati per la flora
intestinale
Lattoferrina, Lisozima, Lattoperossidasi, Lattoferricina,
Glicolipidi, Sfingolipidi Difesa non immunitaria
IgG, IgA, IgM, Peptidi immunomodulatori delle caseine,
Citochine, Fattori di crescita Immunità passiva
Peptidi delle caseine, Lattoferrina e peptidi,
Fattori di crescita, Peptidi delle caseine,
Lattoferrina e peptidi
derivati, Citochine, Fattori di crescita
Immunoregolazione/
Antinfiammatori
Ormoni e fattori di crescita nel latte (prolattina ed altri),
Citochine, Peptidi delle caseine, Lattoferrina
Crescita e sviluppo
intestinale/neuroendocrino
CLA, Sfingomieline, Acido butirrico, -carotene, Vitamine
A e D Attività anticarcinogenica
Principali ormoni e fattori di crescita presenti a livello mammario
Fattore Specie Effetto
IGF-I, IGF-II Bovino, pecora, suino, roditore Mitogenico, mediato da IGFBP
TGF- Bovino, pecora e altre specie Mitogenico
EGF Topo Mitogenico, modulatore
delle funzioni cellulari
Anfireguline Pecora Mitogenico
MDGI Bovino, capra e pecora Fattore di differenziazione
TGF-l, 2, 3 Topo, bovino Inibizione sviluppo lobo-alveolare
e sintesi proteica
Prolattina Ratto, pecora, capra Mitogenico,
fattore di differenziazione
GH Cane, uomo, bovino Mitogenico
Fra le proteasi presenti nel latte è di primaria importanza il sistema enzimatico
plasmina-plasminogeno-attivatore del plasminogeno (PA) ed inibitori (PAI). Nei
mammiferi è stata dimostrata la presenza di due forme di PA: tipo tissutale (t-
PA) e tipo urochinasi (u-PA). Le due diverse forme di PA sono il prodotto di
un'espressione genica differente, sebbene entrambe catalizzino l'attivazione del
plasminogeno (PC) a plasmina (PL).
La plasmina idrolizza molto efficacemente le e le caseine con evidenti
ripercussioni sulle caratteristiche qualitative del latte in termini di proprietà di
coagulazione del latte e resa casearia. La concentrazione di plasmina nel latte è
generalmente bassa, ma può variare in base allo stadio di lattazione ed allo stato
di salute della ghiandola mammaria. Nella specie bovina è stato evidenziato un
aumento significativo dei livelli di plasmina a fine lattazione e in campioni di
latte ad elevato contenuto in cellule somatiche. Gli effetti negativi sulla qualità
del latte risultano più evidenti negli animali con ciclo produttivo
prevalentemente ad andamento stagionale, quali pecore e capre. Infatti,
essendo tale complesso enzimatico maggiormente attivo negli stadi avanzati di
lattazione e durante i processi involutivi, ne risulta che tale attività è particolar-
mente accentuata nel latte raccolto in alcuni periodi dell'anno, corrispondenti
al calo di produzione lattea.
Il ruolo fisiologico svolto dalla plasmina e dall'attivatore del plasminogeno a
livello della ghiandola mammaria sembra strettamente correlato ai processi di
involuzione che si instaurano con l'avanzare della lattazione e che prevedono
l'attiva degradazione da parte della plasmina dei componenti le matrici
extracellulari e conseguentemente della struttura dell’epitelio mammario.
Livelli crescenti di plasmina ed attivatore del plasminogeno sono stati
osservati nel latte bovino e bufalino durante la fase d'involuzione attiva della
ghiandola mammaria.
8.4.5 Formulazione di mangimi e premiscele
Principi generali e software per la formulazione dei mangimi
La formulazione dei mangimi può essere effettuata sia manualmente, sia tramite
l'ausilio di software specifici i quali permettono:
a) velocità di calcolo, eliminazione di eventuali errori manuali e possibilità di
controllare numerosi parametri nutrizionali insieme;
b) ottimizzazione del costo sulla base di vincoli imposti sulle materie prime e
sulle caratteristiche analitiche dei mangimi.
Nella formulazione di un mangime è importante valutare la quantità dello stesso
che sarà consumata, giornalmente e in media, dagli animali in modo tale da
stimare il quantitativo dei singoli ingredienti effettivamente consumati. Per le
bovine da latte si possono prevedere i seguenti consumi medi: bovine in asciutta:
2 kg; bovine in lattazione nei primi 210 d: l0 kg; manze: 2 kg; vitelli da rimonta:
1,5 kg. Dopo bisogna effettuare la ripartizione percentuale nel mangime delle
materie prime energetiche, fibrose, proteiche, degli additivi ed integratori nel
mangime, che è riportata nella tabella, considerando l'impiego di insilato di mais
nella razione.
Ripartizione percentuale delle materie prime energetiche, fibrose,
proteiche, degli integratori e degli additivi nel mangime.
Materie Bovina Manze Vitelli
Prime in lattazione in asciutta
Energetiche 50 33 35 55
Fibrose 10 37 30 15
Proteiche 35 25 30 25
Integrazione e additivi 5 5 5 5
217
Formulazione manuale (quadrato di Pearson)
Un metodo per formulare un mangime manualmente è quello di definire la
percentuale di inclusione di alcune materie prime, calcolata sulla base
dell'assunzione giornaliera e, quindi, calcolare la percentuale dei principali
alimenti apportatori di energia e di proteina, cioè cereali e farina di estrazione
di soia, tramite il quadrato di Pearson.
Si ipotizzi di voler formulare un mangime caratterizzato da un tenore proteico
pari al 21% sul tal quale e con una concentrazione energetica pari a 1,05 UFL.
Tale mangime è destinato a bovine nella prima fase di lattazione, per cui si
dovranno introdurre una quota di proteina poco degradabile a livello ruminale,
ad es. 3% di glutine di mais, una quota di lipidi protetti, ad es. 3% di saponi di
calcio, nonché una quota di alimenti fibrosi caratterizzati da elevata
degradabilità ruminale, ad es. 10 % di polpe di bietola e che la quota di
integrazione di macro, microelementi e vitamine sia pari al 4%. Sulla base del
contenuto in proteina e del tenore energetico delle polpe di bietola, dei saponi
di calcio e del glutine di mais l'apporto di questi tre alimenti è di 0,20 UFL e
30 g di proteina per kg di mangime; restano quindi da apportare 0,85 UFL
(1,05 - 0,20) e 180 g di proteina (210-30) che saranno da integrare con il
rimanente 80% (100 - (10+3+3+4) del mangime. Per stabilire la quota di
cereali e di farina di estrazione di soia che dovranno essere inseriti nel
mangime si può fare ricorso al quadrato di Pearson. Tale metodo consente di
definire i rapporti che due ingredienti con concentrazioni diverse di un
nutriente (ad es. proteina grezza) devono avere per raggiungere una
concentrazione intermedia. Il quadrato di Pearson consente risoluzioni al 100
%, quindi a questa percentuale vanno ricondotti i valori, in modo tale che poi,
inserendone 80 parti, il tenore energetico e proteico siano quelli voluti; ne
consegue che i nuovi valori del mangime saranno:
proteina grezza: 18%/0,8 = 22,5%
Il quadrato di Pearson si imposta e si risolve nel seguente modo:
1. disegnare un quadrato;
2. inserire la percentuale di proteina del mangime (22.5%) al centro del
quadrato;
3. porre la percentuale di proteina del mais nell'angolo superiore sinistro del
quadrato e la percentuale di proteina della farina di estrazione di soia nell' an-
golo superiore destro;
9,0 mais 44,0
f .e.s.
22,5 PG
21,5 13,5
4.sottrarre la percentuale di proteina del mais da quella del mangime (22,5 – 9
= 13,5) e trascriverla nell'angolo inferiore destro del quadrato. Sottrarre la per-
centuale di proteina del mangime dalla percentuale di proteina della farina di
estrazione di soia (44 - 22,5 = 21,5);
5. sommare le due differenze e dividere ogni singola differenza per la somma tra le
due:
(13,5/35)x100 = 38,5, che rappresenta la percentuale di farina di estrazione di soia da
inserire
(21,5/35)x100 = 61,5, che rappresenta la percentuale di mais da inserire.
Tali valori vanno però ricondotti a 80 parti: 38,5 x 0,8 = 30,8 % di farina di estrazione
di soia; 61,5 x 0,8 = 49,2 % di mais
Il mangime sarà quindi costituito da:
Materie prime Proteina
% (g/kg) UFL
Mais 49,2 45,36 0,54
Farina di estrazione di soia 30,8 135,52 0,31
Polpe di bietola 10 9,00 0,09
Glutine di mais (57% PG UFL 1.09) 3 21,00 0,03
Saponi di calcio 3 ---- 0,08
Integratore 4 ---- ----
Totale 100 210,88 1,054
Ovviamente si potranno calcolare anche tutti gli altri nutrienti apportati, ad es. nel
caso specifico il mangime apporta il 44% di NFC, il 13,8 di NDF, 1'1% di calcio e lo
0,56% di fosforo.
Nell'esempio si è ritenuto di considerare prioritarie la precisione nella definizione del
tenore proteico del mangime e, quindi, in questo senso, si è applicato il quadrato di
Pearson per la definizione di tale parametro.
È evidente da quanto esposto che l'utilizzo del quadrato di Pearson è ancor più veloce
tra due ingredienti in quanto non occorre riposizionare a 100.
Calcolo con software specifici
La formulazione di mangimi tramite l'ausilio di software specifici che
consentono la realizzazione di mangimi in modalità di ottimizzazione, cioè la
creazione di un mangime caratterizzato da caratteristiche specifiche al minor
costo possibile, presuppone che al software vengano fornite tre informazioni
basilari:
1. costo degli ingredienti (materie prime, integratori ed additivi);
2. un range di valori (minimo e massimo) delle componenti analitiche del
mangime (vincoli sulle caratteristiche analitiche);
3. un range di valori di introduzione (minimo e massimo) delle singole materie
prime (vincoli sulle materie prime).
Sulla base di queste informazioni il software calcola la quantità dei singoli
ingredienti da introdurre nel mangime rispettando i vincoli imposti sulle
caratteristiche analitiche al minimo costo.
Ovviamente, questo metodo è molto più preciso e veloce del metodo di calcolo
manuale e permette di controllare numerosi parametri del mangime finito in
modo tale da ottenere la soluzione migliore al minimo costo. I singoli
programmi possono poi offrire altre numerose informazioni all'utente, ad es.
nel caso di materie prime non utilizzate dal software perché troppo costose, il
costo di convenienza di utilizzo, la percentuale massima di utilizzo di una certa
materia prima poco costosa su cui è stato posto un vincolo massimo di utilizzo,
219
la gestione del magazzino, la gestione dei cartellini, etc.
Nei software di formulazione di mangimi la quantità di materie prime
utilizzabili, contenute nell'archivio alimenti, è generalmente molto elevata
come anche il numero di dati analitici e, nella maggior parte dei software, è
possibile introdurre nuovi dati analitici per aggiornare l'archivio alimenti con
informazioni che si rendono via via disponibili.
8.4.6. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella bufala
L'alimentazione della bufala è oggi praticata utilizzando i fabbisogni
ricavati per analogia dalla specie bovina.
Non sempre utili risultano, infatti, i dati delle ricerche condotte in India, Pakistan,
Sud est asiatico ed Egitto, in quanto ottenuti su entità etniche diverse dalla bufala
mediterranea allevata in Italia. In quei paesi il latte di bufala è destinato al consumo
diretto e le condizioni socioeconomiche risultano completamente diverse da quelle
italiane. Ne consegue che, i fabbisogni suggeriti al di fuori dell'Italia, peraltro
suffragati da una limitata sperimentazione, risultano solo in parte idonei per la nostra
bufala.
Negli allevamenti italiani, anche in quelli tecnologicamente più avanzati, non si
pratica in genere un razionamento diversificato per gruppi di produzione. In tal modo
si penalizzano i capi più produttivi e si alimentano in eccesso quelli con produzioni
inferiori alla media. L'adozione di accorgimenti tesi ad individualizzare il
razionamento, attuato ormai su ampia scala nell'allevamento bovino (unifeed,
unifeed-trasponder, etc.) non riesce, nel caso della bufala, ad ovviare a questi
inconvenienti. In questa specie, infatti, la differente produzione tra i capi dipende non
soltanto dalla quantità ma anche dal tenore lipidico del latte che, come è noto,
presenta un range di variabilità più ampio rispetto ai bovini.
Confronto del latte di bufala con quello bovino
Vacca
FCM 4%
Bufala Bufala
FCM 4%
Proteine g/kg 31 45 26, 47
Lipidi g/kg 40 87 51.18
Lattosio g/kg 48 48 28, 16
Cal 740 1258 740
Ca g/kg 1, 2 1, 8 1, 06
P g/kg 0, 9 1, 1 0, 65
Mg g/kg 0, 6 0, 9 0, 53
Cal/g proteine 23.9 27.6 28
Fabbisogni:
PG g/kg
83
120
71
PDI g/kg 48 70 41
UFL/kg 0, 44 0, 74 0, 44
MJ EN/kg 3, 1 5, 2 3, 1
Ca g/kg 3, 5 5, 3 (6, 5) 3, 7
P g/kg 1, 7 2, 1 (2,5) 1, 2
Mg g/kg 1, 0 1, 5 0, 88
In base alle indagini effettuate in 5 allevamenti della Campania dove le bufale in
lattazione erano allevate in un gruppo unico è emerso che le produzioni giornaliere
oscillavano tra 1 e 21 kg ed il tenore in grasso tra 5,3 e 13,5%. Risulta evidente come
nella bufala sia necessario, per individualizzare il razionamento, costituire gruppi non
solo in funzione dello stadio di lattazione ma anche del livello produttivo, che varia
con il tenore lipidico del latte che andrebbe accertato frequentemente. Questa
soluzione è di quasi impossibile attuazione nella pratica.
Pertanto, nell’attesa che siano studiati in maniera più approfondita i fabbisogni
daremo dei suggerimenti, sicuramente perfettibili, ma che finora hanno dato dei
risultati apprezzabili. Il tecnico deve adattarsi alle strutture aziendali quando queste,
per diversi motivi, non possono essere modificate. Da un punto di vista strettamente
pratico è opportuno differenziare il razionamento in funzione delle aziende che
dispongono di almeno due gruppi in produzione ed uno in asciutta, da quelle che
riuniscono in un unico gruppo i soggetti in lattazione. Nell'ambito di queste due
condizioni è opportuno adottare criteri diversi in funzione dell'addensamento dei
parti in un periodo molto ristretto (marzo-luglio nelle aziende in cui è stato raggiunto
l'obiettivo della destagionalizzazione; luglio-novembre nell’altro caso) o in funzione
di un’equa distribuzione degli stessi nel corso dell'anno.
Nel primo caso, il razionamento è relativamente più semplice in quanto, almeno dal
punto di vista dello stadio di lattazione, il gruppo sarà alquanto omogeneo e il
razionamento andrà adattato alla produzione media.
Nel secondo caso, gli accorgimenti dovranno mirare a variare il razionamento di base
in funzione della disponibilità foraggiera aziendale. Occorrerà, infine, diversificare,
per quanto possibile, la quantità di mangime composto integrato distribuito in sala di
mungitura in modo da adeguare il razionamento di base alla quantità di latte prodotto
da ciascun soggetto.
E' opportuno considerare che nelle bufale l'assunzione di sostanza secca varia con il
peso vivo, con la produzione e lo stadio di lattazione e che, come già detto, la
composizione chimica del latte è molto variabile. La composizione chimica del latte
di bufala è influenzata dalla dieta più che nella vacca. Nella Frisona la percentuale
di grasso può variare dal 3 al 4,2% quello in proteine dal 2,7% al 3, 25% in funzione
del soddisfacimento dei fabbisogni. Nella bufala, la percentuale di grasso oscilla
mediamente dal 6 al 13% e quello in proteine dal 3,8% al 5,5% e ciò anche in
funzione del soddisfacimento dei fabbisogni nutritivi. Il fabbisogno in energia,
pertanto, per litro di latte di vacca varia da 0,35 a 0,46 UFL mentre, nella bufala
risulta compreso tra 0,62 e 1,2 UFL. Nel caso della vacca, un adeguato apporto
energetico può migliorare anche del 24% il tenore in grasso del latte e un
razionamento in eccesso determina sprechi che possono portare alla sindrome della
vacca grassa; nella bufala quest’inconveniente esiste ma è meno dannoso. Un
eccesso nel razionamento della bufala comporta, infatti, una sensibile modificazione
della composizione chimica del latte, che sotto certi aspetti limita l’entità degli
sprechi.
Dopo il 5° mese di lattazione se è assicurato ad una bufala un razionamento di 10
UFL è molto probabile che ad una produzione lattea di 6 litri corrisponderà una
percentuale in grasso dell'8,5% e di proteine del 4,5% e ad una di 5 litri una
percentuale in grasso dell'11% e di proteine del 5%. Non sarà facile, comunque, dare
dei suggerimenti definitivi in quanto la bufala non presenta ancora un habitus
lattifero tale da utilizzare nella maniera più efficiente il razionamento. Attualmente,
con il patrimonio genetico esistente occorre razionare al di sopra dei fabbisogni
221
teorici per assicurare una buona persistenza della lattazione. Esperienze recenti,
infatti, hanno dimostrato che la bufala presenta un'ottima persistenza se riesce a
produrre un latte più ricco in grasso e proteine dopo aver raggiunto l'acme della curva
di lattazione. La vera persistenza nella bufala, infatti, non va valutata esclusivamente
in litri di latte ma in termini di residuo secco totale, o meglio, in latte corretto al 4%
di grasso. Sotto questo punto di vista la diminuzione produttiva, dopo che si è
raggiunta la massima produzione giornaliera, è meno intensa, se sono assicurate per
litro di latte più unità nutritive.
Da quanto finora esposto traspare che, è fondamentale conoscere innanzi tutto qual è
il consumo di sostanza secca della mandria e, in funzione di questo, formulare una
dieta idonea che tenga conto dello stadio di lattazione medio delle bufale.
Il consumo in sostanza secca varia, come si è detto, in funzione dello stadio di
lattazione, del peso vivo, della capacità galattopoietica della mandria, della
composizione chimica della dieta (densità energetica in particolare) e
dell'appetibilità degli alimenti. I foraggi verdi, per esempio, sono più appetiti e
contribuiscono a determinare un consumo di sostanza secca molto elevato cui
corrisponde, però, un miglioramento produttivo di breve durata. L'elevata assunzione
di foraggi verdi, infatti, favorisce (soprattutto erbaio di sorgo, trinciato fresco di mais
ceroso, granturchino ed erba di prato) fermentazioni ruminali troppo rapide, accelera
la peristalsi intestinale, e ne influenza negativamente l'assorbimento delle sostanze
nutritive. Non è infrequente riscontrare, a parità di peso e di stadio di lattazione,
assunzioni medie giornaliere di sostanza secca che variano da 20 a 16 kg. I maggiori
consumi di sostanza secca si registrano tra i 50 ed i 150 gg dal parto, prima e dopo
essi sono inferiori. Nella bufala, come nella vacca, avviene una minore assunzione di
sostanza secca nella prima fase della lattazione, quando cresce la produzione; una
flessione dei consumi si registra, inoltre, mediamente dopo sei mesi di lattazione o
meglio quando la produzione di latte è inferiore ai 5 litri.
Da una rassegna di Mudgal (India, 1988) emerge che i fabbisogni energetici per il
mantenimento espressi in energia metabolizzabile (EM), sono compresi tra 94,33
Kcal per kg di P0,75
e 188 Kcal per kg di P0. 75
per la bufala mentre per la vacca
risultano di 130 Kcal per kg di P0,75
. Questi dati espressi in UFL corrispondono per
una vacca di 500 kg ad un fabbisogno di mantenimento di 5,03 UFL laddove,
secondo i fabbisogni francesi (0,6 UFL/q + 1, quattro UFL), necessitano 4,4 UFL.
Analogamente secondo i dati indiani occorrerebbero per una bufala di pari peso da
7,3 UFL (Kcal 188 per kg di P0,75
) a 3, 65 UFL (Kcal 94,33 per kg di P0,75
). La
differenza esistente per la vacca tra i dati suggeriti dagli indiani e quelli francesi può
dipendere dalle diverse condizioni climatiche in cui si è operato nonché dallo stato di
nutrizione degli animali utilizzati. Analoghe considerazioni possono farsi per la
bufala per la quale ci sembra, allo stato attuale delle conoscenze, di poter suggerire
gli stessi fabbisogni utilizzati per la bovina. Bufale eccessivamente grasse presentano
fabbisogni più elevati e sottoporle ad un razionamento più ristretto risulterebbe
vantaggioso sotto il profilo sia fisiologico sia economico.
Per la produzione del kg di latte corretto al 4% (750 Kcal) Mudgal riferisce
fabbisogni in energia metabolizzabile compresi tra 1603 Kcal e 1863 Kcal
corrispondenti a 0,587 UFL e 0,682 UFL mentre per la vacca, sempre secondo i dati
indiani, occorrono da 1165 Kcal EM a 1199 Kcal EM e quindi 0,427 UFL - 0,439
UFL, valori sovrapponibili a quelli suggeriti da francesi.
Per quanto riguarda il fabbisogno proteico Mudgal riferisce per il mantenimento
della vacca grammi 2,25 - 2,31 di proteine digeribili (PD) pari a grammi 3,35 - 3,44
di proteine grezze (PG) per kg di P0.75
; nella bufala occorrerebbero, invece, grammi
3,2 - 3,5 di PD pari a grammi 4,8- 5,2 di PG per kg di P0,75
. Per la produzione lattea
gli indiani suggeriscono valori compresi tra grammi 130 e 150 di PD nella vacca e tra
grammi 126 e 163 di PD nella bufala per ogni 100 grammi di proteine prodotte con il
latte.
Per una vacca di 600 kg occorrono, pertanto, grammi 407 - 418 di PG (inferiori
pertanto del 20% circa rispetto a quelli utilizzati in Italia) mentre per una bufala di
pari peso sono suggeriti grammi 579 - 628 di PG. Per 1 kg di latte di vacca con il
3,2% di proteine occorrono pertanto 63 - 72 grammi di PG e per un litro di latte di
bufala con il 4% di PG occorrono 75 - 97 grammi di PG. L'estrema variabilità dei
dati riportati per la bufala e la differenza tra i fabbisogni suggeriti dagli indiani e
quelli adottati per le vacche da latte allevate in Italia, inducono a ritenere che è
alquanto artificioso estrapolare le esperienze indiane alla bufala mediterranea di
ceppo italiano. Quest’osservazione è avvalorata dalla diversità esistente tra il clima, il
tipo genetico, l'attitudine galattopoietica dei soggetti e la qualità del latte prodotto e
relative interazioni tra i fattori summenzionati, che si registrano in India e nell'Italia
meridionale. Le esigenze nutritive aumentano con la produzione e, a parità di latte
prodotto, la loro conversione è migliore nei soggetti dotati di più spiccate
caratteristiche lattifere. L'aggiornamento dei fabbisogni è giustificato dall'evoluzione
del patrimonio genetico. Riteniamo, pertanto, che i dati riportati da Mudgal siano
utili come base di riferimento. Da ricerche condotte in Italia, emerge che per la
produzione di 1 kg di latte di bufala corretto al 4% sarebbero necessarie da 0,36 a 0,
63 UFL, secondo lo stadio di lattazione. Mediamente, l'esigenza energetica per la
suddetta produzione è risultata di 0,5 UFL e quindi rispetto alla vacca la capacità
della bufala di convertire energia degli alimenti in latte è stata inferiore del 12%:
nelle bufale indiane la differenza con la vacca è stata del 31%. Negli allevamenti in
cui sono stati rilevati valori più elevati di grasso (8 - 8,8%) e di protidi (4,4 - 4,6%) il
fabbisogno è risultato più elevato: 0,513 UFL. Questi risultati spiegano in parte la
variabilità dei dati riportati dagli indiani rispetto a quelli del nostro ambiente; il
fabbisogno energetico per produrre 1 kg di latte al 4% dipende, infatti, anche dal
livello nutritivo della razione e dalla composizione chimica del latte che si ottiene;
quest'ultimo varia in funzione di quanto detto ma anche in funzione delle capacià
genetiche dei soggetti. Quando il livello nutritivo è superiore a 2,5 l'efficienza
energetica si abbassa. Riteniamo, tuttavia, nell’attesa di ricerche più approfondite,
che non sia del tutto inesatto attribuire alla bufala un fabbisogno per il latte corretto
al 4% analogo a quello della bovina. Con livelli nutritivi più elevati si registra,
infatti, uno spreco fisiologico che può non rivelarsi tale, dal punto di vista
economico, qualora assicuri una composizione chimica del latte più rispondente alle
esigenze del caseificio. Per gli allevatori che trasformano direttamente il prodotto o
lo conferiscono a cooperative, che hanno già affrontato il discorso della qualità del
latte non dovrebbero esistere dubbi sulla scelta economica più conveniente.
In merito all'aspetto proteico, le soluzioni risultano più complesse in quanto i
consumi di sostanza secca riferiti da Mudgal sono compresi all'inizio della lattazione
tra kg 11,25 e kg 14,57, pari al 2,5 - 2,89% del peso vivo. Da questi dati si evince
che per una bufala del peso vivo di 450 kg con produzione di 10 litri di latte con il
4% di proteine occorrono 1.338 grammi di PG (488 grammi di PG per il
mantenimento ed 850 grammi per la produzione), la suddetta quantità riportata ad un
consumo di sostanza secca di 13 kg, (kg 11, 25 + 14, 57) /2, equivale ad un’incidenza
di PG sulla s.s. del 10, 29%. Nel caso di una bufala mediterranea di ceppo italiano
223
del peso di kg 600 con pari produzione e con consumo di s.s. di kg 17,33 (2,89% del
p. v.) occorrerebbero grammi 1450 di PG (600 grammi per il mantenimento ed 850
grammi per la produzione) che inciderebbero sulla s.s. per l'8,37%. Questo valore,
non garantisce una buona funzionalità della micropopolazione ruminale. Per i protidi
grezzi, pertanto, bisogna tenere conto oltre che dei fabbisogni anche della loro
incidenza sulla s. s.; quest'ultima non deve essere inferiore all'11% anche nelle bufale
in asciutta. Motivi di ordine pratico, imposti da un'alimentazione di gruppo,
suggeriscono di mantenere costante nel corso della lattazione la percentuale di PG
della dieta intorno a valori del 12% che sono sufficienti a garantire i fabbisogni di
bufale con produzione inferiore ai 14 litri. Al di sotto dei 14 litri sarebbero
sufficienti anche quantità di PG per Kg di s.s. comprese tra 90 e 100 grammi che,
come si è già detto difficilmente garantirebbero un’ottimale funzionalità di
popolazione ruminale. E' preferibile, pertanto, adottare diete che comportano un
eccesso proteico che nella bufala, almeno apparentemente, non sembrano
determinare gli stessi inconvenienti che si registrano nella bovina. Nella prima fase
di lattazione e per bufale con produzioni superiori ai 14 kg (4% di protidi nel latte)
occorre una percentuale di PG/s. s. superiore al 12, 5%. Quando il consumo di
sostanza secca si normalizza, dopo circa 50 giorni dal parto, tenori proteici del 12%
sulla s. s. sono in grado di soddisfare le esigenze di bufale con produzione di 18 kg
(4% di protidi). Soltanto per le campionesse occorrerà adottare piani di razionamento
diversi e modulare la percentuale di PG sulla s.s. con mangimi composti integrati
opportunamente formulati.
Non è escluso che una bufala possa produrre un latte con maggiori quantità di grasso
e proteine anche quando i fabbisogni non siano assicurati. Questa eventualità,
tuttavia, può verificarsi soltanto nella prima fase di lattazione purché siano
disponibili riserve da metabolizzare accumulate, in particolare, alla fine della
lattazione precedente o anche durante l'asciutta. Nelle prime settimane dopo il parto,
la bufala come la bovina, è nella fase catabolica della lattazione e può utilizzare i
depositi adiposi per soddisfare i fabbisogni sia di mantenimento sia di produzione;
questa condizione fisiologica è transitoria in quanto mentre si può ottenere un latte
"più ricco" rispetto alla copertura dei fabbisogni nei primi 2 o 3 mesi dopo il parto,
successivamente saranno solo gli apporti nutritivi a garantire la quantità e la qualità
del latte. Sui fenomeni produttivi gioca un ruolo importante la potenzialità genetica
del soggetto. Apporti nutritivi inferiori ai fabbisogni modificano poco la quantità ma
molto la composizione chimica del latte di una bufala, altamente produttiva,
viceversa un soggetto con minori capacità galattopoietiche diminuirà la quantità e
adeguerà la composizione chimica allo stadio di lattazione. Va tenuto presente,
infine, la capacità del soggetto a produrre un latte con determinate caratteristiche (in
particolare % di grasso e proteine). Una bufala che, geneticamente, produce latte con
pochi lipidi e proteine non sarà in grado di trasferire nel suo secreto i principi
nutritivi assunti in eccesso e quindi li trasformerà in grasso di deposito. Quando si
effettua un razionamento è opportuno, pertanto, adeguarlo allo stato di nutrizione,
alla sensibilità del mercato a valutare in maniera differenziata la qualità del latte ed
infine alle caratteristiche produttive della mandria. Queste ultime possono essere
modificate con la selezione.
Non è facile tenere conto di questi suggerimenti per le aziende che non
dispongono di gruppi di produzione; tuttavia, riteniamo che alcune considerazioni
possono risultare utili al tecnico, che dovrà formulare una dieta.
Nelle mandrie in cui i parti sono concentrati in pochi mesi, quando la distanza media
dal parto è di circa 90 gg, frequentemente il consumo medio di sostanza secca è di
circa 20 kg. In questa fase se si riscontra una produzione media giornaliera di 13,8
kg e si somministra una s.s. con densità energetica di 0,8 UFL/kg s.s. saranno
disponibili mediamente 16 UFL (kg 20 di s.s. x 0,8 UFL = 16 UFL) di cui 11 UFL
(16 UFL - 5 UFL x mantenimento) per la produzione. Ad ogni litro di latte saranno
assicurate, pertanto, 0,797 UFL che consentiranno la produzione di un latte con l'8%
di grasso e il 4,5% di protidi. Una densità energetica inferiore determinerà una
diversa composizione chimica del latte: a 0,75 e a 0,7 di densità energetica
corrisponderà rispettivamente un latte con il 7% di grasso ed il 4,4% di protidi ed un
latte con il 6,3% di grasso e il 4% di protidi. Ciò si verificherà se la quantità di latte
prodotto non diminuirà; tale evenienza è possibile se la capacità galattopoietica delle
bufale è elevata. Le mandrie costituite da soggetti che dispongono di riserve
energetiche da poter utilizzare forniranno latte con composizione chimica migliore
rispetto a quanto riferito anche quando la densità energetica è inferiore a 0,8; in
questo caso, tuttavia, se la capacità di assunzione della s.s. non sarà elevata, non si
registrerà una buona persistenza della produzione.
Va detto, inoltre, che, se nella prima fase di lattazione il razionamento non
assicura produzioni ottimali, la minore quantità di latte prodotto non sarà più
recuperato anche quando la dieta dovesse risultare rispondente ai fabbisogni nel
prosieguo della lattazione.
Da alcuni dati, si evince che per bufale con produzioni di circa 18 litri è necessaria
una densità energetica di 0,85 per ottenere un latte accettabile dal caseificio (6,9% di
grasso e 4,5 di protidi). Per queste bufale occorre diminuire la % di fibra grezza della
dieta. Questo suggerimento sembrerebbe illogico poiché è noto che dalla fibra
grezza originano gli ac. grassi volatili necessari alla formazione del grasso. Va
tenuto presente, tuttavia, che il grasso del latte origina per circa il 50% dagli
ac.grassi prodotti dalle fermentazioni ruminali e per il rimanente deriva dai
trigliceridi circolanti; questi ultimi sono ceduti alla ghiandola mammaria nella misura
in cui sono reintegrate le riserve corporee. I depositi adiposi, in particolare, possono
cedere trigliceridi fino a quando essi sono disponibili; necessita, pertanto, un
apporto continuo di energia attraverso l'assunzione con la dieta di sostanze nutritive
digeribili; queste ultime sono presenti nella s.s. in misura inversamente
proporzionale al tenore in fibra grezza. Bisogna, in ogni caso, assicurare una
percentuale in fibra grezza del 19 - 20% sulla s.s. per garantire un efficiente
biochimismo ruminale; per le bufale più produttive occorre, quindi, non eccedere con
l'apporto di fibra grezza al fine di garantire apporti energetici idonei a reintegrare le
riserve corporee; ciò assicura un turnover lipidico efficiente e tale da garantire una
quantità di grasso mobilizzabile che può essere trasferito nel latte. Per queste bufale,
e nella prima fase produttiva, occorre che la densità energetica suggerita sia ottenuta
ricorrendo ad alimenti che forniscono una quantità totale di zuccheri solubili e di
amido, rispettivamente, non superiori ad 800 g e a 3 kg, al fine di avere delle ottimali
fermentazioni ruminali e una glicemia che consenta un’idonea utilizzazione dei
grassi di deposito. Questi dati sono da ritenersi prudenziali poiché non esistono in
letteratura ricerche specifiche per la bufala. E' opportuno, pertanto, che questi
accorgimenti siano adottati con l'ausilio di un tecnico che suggerirà, eventualmente,
nella formulazione criteri diversi per il razionamento sostituendo alla percentuale di
fibra grezza quella dell'NDF.
225
Nell'ultima fase di lattazione, quando la produzione giornaliera è inferiore a 6 kg,
la bufala diminuisce i consumi e riceve il concentrato una sola volta al giorno in
quanto il numero di mungiture si riduce da 2 ad 1; in questo caso la densità
energetica della dieta diminuisce in misura proporzionale alla differenza che esiste
tra la densità energetica del mangime e quella della sostanza secca dei foraggi
distribuiti in mangiatoia. Quando i consumi sono inferiori ad 11 kg di sostanza secca
e la densità energetica è pari a 0,7 (9 kg s.s. da foraggi in mangiatoia con densità
energetica media di 0,65 e 2 kg di mangime in sala di mungitura con densità
energetica di 0,95: [9 kg s.s. x 0, 65 + 2 kg s.s. x 0,95]/ 11 kg s.s. = 0,7), ad una
produzione di latte di 5 litri corrisponde una composizione chimica del 5% di grasso
e del 3, 8% di protidi. In questa fase, la bufala non è in grado di attingere alle proprie
riserve lipidiche perché i processi catabolici a fine lattazione sono meno intensi. Ne
deriva che, soprattutto quando la produzione giornaliera è bassa ed i consumi sono
diminuiti, non è opportuno ridurre la densità energetica della dieta in quanto si
ottiene un latte meno ricco di residuo intero. Non bisogna sottovalutare questo
suggerimento in quanto il latte prodotto da bufale a fine lattazione è utile per
migliorare il latte di massa, soprattutto quando è notevole l'incidenza nella mandria
delle bufale i cui fabbisogni non sono coperti e che, pertanto, producono un latte con
un residuo intero intorno al 16%.
Ricordiamo che quanto più la densità energetica è bassa tanto minore sarà
l'assunzione di sostanza secca e all'aumentare della densità energetica la capacità di
ingestione non aumenta indefinitamente, in quanto al di sopra di certi valori essa
inizia a diminuire.
Con diete caratterizzate da 0,8 - 0,82 UFL/kg s.s. si registra una diminuzione della
percentuale di grasso indipendentemente dall'apporto energetico assicurato con la
razione; con densità energetica elevata, infatti, aumenta la glicemia e diminuisce la
mobilizzazione dei grassi di deposito e il loro contributo alla formazione della
componente lipidica del latte. Queste considerazioni suggeriscono, pertanto, di
assicurare una densità energetica costante, nel corso della lattazione, prossima a 0,8
UFL/kg s.s. ; valori più elevati risultano vantaggiosi nella prima fase della lattazione
e nelle primipare, poiché in entrambi i casi la capacita' di ingestione è inferiore. Per
questi soggetti è preferibile, tuttavia, elevare la densità energetica della dieta con
mangimi caratterizzati da un tenore in cellulosa compreso tra l'11% e il 13% sulla
sostanza tal quale.
In merito all'apporto minerale ricordiamo che il latte di bufala, rispetto a quello di
vacca, è più ricco di calcio (g 2÷1,7 vs 1,1 - 1,2) e di fosforo (g 1,15÷1,3 vs 0,85 -
0,95). Ne consegue che anche i fabbisogni dovrebbero essere più elevati. Ricerche
specifiche dovranno puntualizzare questo aspetto; allo stato attuale riteniamo
sufficiente un apporto per litro di latte di 6÷6,5 g di Ca e di 2,2÷2,5 g di P, cui va
aggiunto il fabbisogno di mantenimento consigliato per la vacca. Per una bufala di
600 kg con produzione di 12 litri, pertanto, scaturiscono fabbisogni globali di 110 g
di Ca e 56 g di P, quantitativi che i normali razionamenti non sempre garantiscono se
non sono effettuate adeguate integrazioni.
Per le vitamine e gli oligoelementi possono allo stato attuale delle conoscenze,
essere adottati gli schemi utilizzati per i bovini.
Ulteriore accorgimento, da tenere presente nel razionamento, è quello di
maggiorare i quantitativi globali di principi nutritivi da somministrare alla mandria in
funzione del numero delle primipare presenti, per garantire i fabbisogni necessari a
completare l'accrescimento. Per ogni primipara è opportuno aggiungere alla razione
totale 1 UFL, 150 g di PG, 10 g di Ca e 5 g di P da modulare sulla sostanza secca.
I fabbisogni della bufala in gestazione possono ritenersi anch'essi sovrapponibili a
quelli della vacca; è opportuno, in questo caso, far coincidere l'ottavo mese della
bufala con il settimo mese di gravidanza della vacca al fine di compensare la
differente durata della gravidanza. Risulta, in ogni caso, fondamentale adeguare il
razionamento a quello che è lo stato di nutrizione a fine lattazione.
E' importante, tuttavia, tenere presente che il periodo dell'asciutta (3-4 mesi) nella
bufala è più lungo rispetto alla vacca. Una carenza di 10 grammi di P al giorno nella
vacca si traduce a fine gestazione in un debito complessivo di 600 grammi, laddove
nella bufala lo stesso errore, perpetuato per un periodo più lungo, produce un deficit
complessivo di 1.200 grammi. Nella maggior parte delle aziende è praticato un
razionamento insufficiente sotto il profilo minerale e vitaminico. Queste carenze
associate all'impiego di insilati mal conservati e di fieni ammuffiti sono alla base dei
prolassi vaginali ed uterini che rappresentano una delle patologie più comuni della
fase puerperale.
8.4.7. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella pecora
Il latte di pecora si differenzia da quello di vacca e di capra per alcuni aspetti che
dipendono dalle sue caratteristiche fisico-chimiche. Si presenta di colore bianco
porcellanato, ha un odore intenso e una viscosità molto maggiore di quella del latte
vaccino. È pertanto poco adatto al consumo fresco mentre, essendo particolarmente
ricco di caseine, presenta una resa in caseificazione doppia rispetto al latte vaccino.
L’acidità varia normalmente tra 8 e 9° SH, mentre il pH ha valori tra il 6.6 e il 6.7.
Una delle sue peculiarità riguarda l’elevata concentrazione di calcio, cosa che
mantiene il valore dell’acidità piuttosto basso (effetto tampone). Queste
caratteristiche favoriscono un più lungo periodo di conservazione del prodotto, una
volta refrigerato a temperature inferiori ai 10°C. Inoltre, la peculiare composizione in
acidi grassi del latte ovino, in particolare la presenza di acido caprilico e caprico nei
trigliceridi della materia grassa, influiscono in modo determinate sul sapore e sugli
aromi dei derivati.
Le frazioni proteiche del latte di pecora sono molto simili a quelle delle più
importanti specie lattifere.
La lattazione della pecora solitamente dura 12-20 settimane; il massimo della
produzione si ha nella seconda e terza settimana, poi declina gradatamente. Circa il
38% della produzione totale si ha nel primo mese, il 30% nel secondo mese, il 21%
nel 3° mese e l’11% nel 4° mese di lattazione.
11
12,5
11
9
8
7
5
5
4
3
1
3 5 7 9 11 13 15 17 19
Curva di lattazione in pecore Suffolk
227
I fabbisogni energetici e proteici di lattazione sono proporzionalmente superiori a
quelli dei bovini in quanto il latte è più grasso e con un più alto contenuto proteico.
Si utilizzano 0,6 U.F. e 80 g di proteina digeribile per kg di latte prodotto.
Il fabbisogno netto di energia per il mantenimento (Em) può essere così calcolato:
Em = 0,226 (W/1,08)0,75
+ 0,0106 W
Per le pecore tenute all’aperto bisogna tenere presente la maggiore attività muscolare.
Per quelle tenute in pianura si può usare il valore 0,0225 anziché 0,0106 mentre per
quelle che pascolano in collina va usato 0,0337. Il contenuto energetico del latte di
pecora è uguale:
VEl (MJ/kg) = 0,0328 G + 0,0025D + 2,20;
dove G = contenuto in grasso e D = giorno di lattazione.
Composizione del latte in diverse razze
Razza
Grasso
min. max Proteine
min. max.
Sarda
Comisana
Barbaresca
Bergamasca
Laticauda
6,14 7,88
6,20 10,60
7,10 10,90
9,07 11,50
6,64 8,94
5,83 6,32
5,55 5,82
5,85 6,50
7,42 8,06
5,46 6,72
Quando non sono disponibili dati sulla composizione del latte si può adottare il
valore di 4,6 MJ/kg. Il valore energetico dei tessuti corporei mobilizzati dalla pecora
variano nel corso della lattazione da 17 a 38 MJ/kg ed è più elevato all’inizio della
lattazione.
In mancanza di dati precisi si è proposto di adottare (come per la vacca e la capra) il
valore di 26 MJ/kg. Ogni kg di tessuto mobilizzato fornisce: 26 x 0,84 = 21,84 MJ di
energia netta come latte ed ogni kg di peso guadagnato aumenta il fabbisogno di
energia netta dell’animale di: 26/0,95 = 27,36 MJ.
Proteine - Il fabbisogno (g/giorno) di PDR è di 8,34 di EM ingerita e quello di
proteine alimentari non degradabili nel rumine (g/giorno) è pari a 1,47 proteine
tissutali richieste - 6,67 di EM ingerita. Il fabbisogno dei tessuti comprende quello
necessario per il mantenimento (2,19 g/kgW0,75
), quello per la produzione lattea (53
g/kg) e quello necessario o reso disponibile dalla variazione di peso del corpo (130
g/kg per il guadagno e 98 g/kg per la perdita di peso).
Elementi minerali - Le perdite endogene (fabbisogno netto per il mantenimento) di
calcio, fosforo e magnesio sono rispettivamente di 16, 30 e 3 mg/kg di peso corporeo.
Il fabbisogno netto per la produzione del latte è di 1,6 g di Ca, 1,3 g di P e 0,17 g di
Mg.
Si può presumere che la disponibilità di questi minerali presenti nella dieta sia dello
0,51 per il calcio, 0,58 per il fosforo e 0,17 per il magnesio.
Esigenze nutritive pecore in lattazione
Composizione
latte di pecora (g)
Grasso 74, residuo magro 119, proteina grezza 55,
lattosio 48, calcio 1,6, fosforo 1,3, magnesio 0,17
Durata lattazione
12-20 settimane
Produzione latte
38% 1° mese 30% 2° “
21% 3° “ 11% 2° “
Contenuto energetico
latte
E latte (MJ/Kg) = 0,0328 G + 0,0025 D + 2,20
Contenuto medio = 4,6 MJ/Kg
Valore energetico
tessuti corporei
17 – 38 MJ/Kg (più elevato inizio lattazione)
Valore medio = 26 MJ/Kg
Energia netta:
Tessuti mobilizzati
Guadagno peso
26 x 0,84 = 21,84 MJ
26 : 0,95 = 27,36 MJ
ESIGENZE
Energia: Km = 0,7 Kl = 0,62
- Mantenimento:
0,226 (W/1,08)0,75 +
0,0106* W
*per pecore che pascolano in pianura = 0,0225
* “ “ “ “ collina = 0,0337
UFl = 0,045 W0,75
- Produzione:
4,6/0,62 = 7,42 MJ/Kg = 1,02 UFl
UFl = 0,42/Kg latte al 4% di grasso
- E.M. fornita da perdite corporee = 26 MJ/Kg
Proteine:
- Proteine degradabili = 8,34 g /MJ energia ingerita
- Proteine non degradabili =
1,47 x proteine tissutali – 6,67 x EM ingerita
Proteine tissutali =
a) Mantenimento: 2,19 g/ W0,75
b) Produzione latte: 53 x 0,95 g /Kg
c) Guadagno peso: 130 g/Kg
d) Perdita peso: 98 g /Kg
Mantenimento Produzione*
Calcio: PV x 0,016/0,51 Kg x 1,6/0,51
Fosforo: PV x 0,03/0,58 Kg x 1,3/ 0,58
Magnesio: PV x 0,003/0,17 Kg x 0,17/0,17
* latte al 4% di grasso
229
Calcolare i fabbisogni alimentari di una pecora allevata in pianura, di 75 kg, in 4^ settimana
di lattazione, che allatta due agnelli e che riceve una dieta con qm = 0,60 e perde 100 g di peso
al giorno
Mm (MJ/giorno) = 0,226 x (75/1.08)0.75
+ 0,0106 x 75
km = 0,35 x 0,6 + 0,503
Mm (MJ/giorno)
El (MJ/giorno) = 2,31 x 4,7
kl = 0,35 x 0,6 + 0,42
Ml (MJ/giorno)
Mg (MJ/giorno) = (0,1 x 21,84/0,63)
Correzione LA (1 + 0,018 Mp/Mm)
Mmp (MJ/giorno) = (Mm + Ml + Mg) x 1, 0283
RDP (g/giorno) = 8,34 x 23,13
UDP (g/giorno) = 1,47 x 199 - 6,67 x 23,13
Ca (g/giorno) = (75 x 0,016 + 2,31 x 1,6)/0,51
P (g/giorno) = (75 x 0,03 + 2,31 x 1,3)/ 0,58
Mg (g/giorno) = (75 x 0,003 + 2,31 x 0,17)/0,17
6,23
0,713
8,74
10,86
0,63
17,23
- 3,47
1,0283
23,13
193,0
138,3
9,6
9,1
3,6
LA = livello alimentare; UDP = proteine non degradabili nel rumine
Fabbisogni energetici e proteici delle pecore a fine gravidanza
Peso
Kg
Tipo di
Gravidanza
Settimane prima del parto
6-5 4-3 2-1
UFL
n.
PDI
g
UFL
n.
PDI
g
UFL
n.
PDI
G
40 Singola 0,62 67 0,72 87 0,85 102
Gemellare 0,64 72 0,75 95 0,90 110
50 Singola 0,72 72 0,84 90 0,98 105
Gemellare 0,74 77 0,94 102 1,15 125
60 Singola 0,80 80 0,94 100 1,14 115
Gemellare 0,82 90 1,02 115 1,32 140
70 Singola 0,88 90 1,02 115 1,22 130
Gemellare 0,90 110 1,10 135 1,40 150
231
Fabbisogni alimentari delle pecore in lattazione, per litro di latte prodotto
Mesi dopo lo Composizione latte
%
Esigenze per litro di latte
Svezzamento grasso proteine UFL (n.) PDI
(g)
Ca (g) P (g)
1-2 5,8 4,9 0,59 74
6,2 5,3 0,62 80 6,4 2,5
3-4 6,5 5,5 0,64 83
7,5 6 0,72 90 6,4 2,5
5-6 8 6,2 0,75 93
9 6,2 0,80 93 7,0 2,8
Aspetti concernenti l’alimentazione delle pecore nelle diverse fasi del
ciclo produttivo:
a) Fase finale di gravidanza-primi mesi di lattazione
La produzione di latte nei primi 2-3 mesi di lattazione dipende da numerosi fattori, in
parte legati alle caratteristiche degli animali (mole, livello genetico, stato
d’ingrassamento, prolificità), in parte legati alle condizioni di allevamento
(disponibilità alimentari, condizioni meteorologiche). Poiché la produzione lattea nei
primi mesi di lattazione influenza in maniera marcata la produzione dei mesi
successivi, è importante dedicare a questa fase una particolare attenzione. Uno dei
fattori che condiziona in maniera più evidente il livello produttivo delle pecore nei
primi mesi di lattazione è dato dal loro stato d’ingrassamento. Infatti, anche alla
presenza di razioni di elevata qualità è pressoché inevitabile che nei primi mesi di
lattazione le pecore abbiano un bilancio energetico negativo. Questo perché dopo il
parto, la produzione lattea, e quindi i fabbisogni degli animali, crescono più
rapidamente dell'ingestione alimentare. Per di più, molto spesso i primi mesi di
lattazione coincidono con il periodo invernale, durante il quale la disponibilità di
erba è limitata dalle basse temperature ambientali ed il pascolamento è reso
difficoltoso dalle condizioni meteorologiche avverse e dalle poche ore di luce.
Pertanto, nei primi due mesi di lattazione è inevitabile che le pecore producano una
parte del latte mobilizzando le loro riserve lipidiche e proteiche. Questo processo è
da considerarsi normale purché le perdite di peso non siano troppo intense. In genere,
esse non dovrebbero superare il 15% del peso corporeo nelle prime 6-8 settimane di
lattazione, dopodiché le pecore dovrebbero cominciare a guadagnare peso. In termini
di BCS, l'INRA suggerisce che da un BCS ottimale al parto di 3,25-3,5 si possa
arrivare a un BCS con un minimo di 2,0-2,5 alla 6-8a settimana di lattazione, con un
calo massimo di un BCS in 6 settimane. Perdite di peso maggiori comporterebbero
sicuramente un calo repentino della produzione lattea, difficilmente recuperabile
nelle fasi successive della lattazione, con possibili condizioni di chetosi e probabili
problemi riproduttivi nella fase dei salti. Le pecore da latte in condizioni di bilancio
energetico fortemente negativo tendono a ridurre la produzione lattea in maniera più
evidente delle vacche. Infatti, mentre in queste ultime il miglioramento genetico ha
comportato una diffusione di animali che per il loro quadro ormonale hanno una
vocazione lattifera molto spinta, nel caso degli ovini da latte il progresso genetico è
stato inferiore ed i caratteri ancestrali di conservazione della vita sono spesso più
marcati, portando ad una interruzione della produzione quando le condizioni di stress
alimentare sono eccessive.
Per queste ragioni, è molto importante far sì che le pecore inizino la lattazione
con una quantità adeguata di riserve lipidiche. Poiché in animali al pascolo
l'ingestione giornaliera massima è pressoché impossibile da ottenere, per
l'impossibilità di somministrare razioni con quantità molto elevate di concentrati,
appare chiaro che la presenza di sufficienti riserve lipidiche sia una condizione
irrinunciabile per l'ottenimento di elevati livelli produttivi. Occorre, comunque,
segnalare che anche l'eccessivo ingrassamento può avere effetti negativi sulla
produzione di latte, perché quantità eccessive di grasso viscerale comprimono il
rumine riducendo l'ingestione alimentare.
b) Piena lattazione: dal quarto mese alla monta
Dal punto di vista nutrizionale una definizione esatta del momento di passaggio
da inizio a piena lattazione dovrebbe essere basata, più che sui mesi di lattazione,
sul fatto che gli animali siano in bilancio energetico negativo o positivo,
rispettivamente nella prima e seconda fase. Nelle aree mediterranee, questo
spartiacque generalmente coincide con l'inizio della ripresa vegetativa (da
febbraio ai primi di aprile, secondo le latitudini e le altitudini). Pertanto, per 2-3
mesi la fase di piena lattazione coincide con il periodo dell'anno in cui si ha la
massima disponibilità di erba. In questi casi, l'ingestione al pascolo è,
generalmente, molto elevata e gli obiettivi tecnici principali dovrebbero essere di:
- massimizzare la produzione di latte;
- consentire un graduale recupero delle riserve corporee perse nella prima parte
della lattazione;
- evitare che le pecore con bassi livelli produttivi ingrassino eccessivamente.
Questi tre obiettivi sono difficilmente perseguibili quando pecore di livelli
produttivi molto diversi sono tenute nello stesso gregge e, quindi, sottoposte agli
stessi trattamenti alimentari. Infatti, a causa dell'elevata eterogeneità dei livelli
produttivi, i fabbisogni nutritivi sono così diversi da rendere impossibile una
corretta integrazione alimentare.
La più comune conseguenza di questo fatto è che gli animali più produttivi siano
sotto alimentati, con conseguente eccessivo dimagrimento, e quelli meno
produttivi siano sovralimentati, con conseguente eccessivo ingrassamento.
Siccome nel gregge la classe delle pecore con produzioni al di sopra della media
è quella che produce la maggiore quantità del latte aziendale, la ipoalimentazione
di questa classe comporta notevoli danni economici. Per di più, gli animali che
arrivano alla monta troppo grassi o troppo magri tendono ad avere minore
fecondità rispetto a quelli in buone condizioni d’ingrassamento. In sostanza,
l'adozione di corrette tecniche alimentari non può prescindere dalla suddivisione
del gregge (già dai primi mesi di lattazione) in almeno due gruppi creati sulla
base del livello produttivo degli animali. I gruppi possono essere formati sia sulla
base del livello produttivo degli animali che del loro stato di ingrassamento.
Benché dopo qualche mese di lattazione i due criteri siano correlati, la
produzione di latte è forse un indice più facile da misurare del BCS e, comunque,
rappresenta il principale obiettivo produttivo dell'azienda.
Mentre in allevamenti confinati, il razionamento per gruppi non comporta
particolari problemi, nel caso degli allevamenti bradi o semibradi questa tecnica
233
complica sicuramente l'organizzazione aziendale.
In pecore al pascolo, comunque, la gestione dell'alimentazione di gruppi a
diverso livello produttivo può essere condotta secondo almeno due tecniche:
a) i gruppi sono mantenuti in appezzamenti diversi per tutto il periodo in cui si
ritiene che essi debbano avere trattamenti alimentari separati. I diversi gruppi
sono munti separatamente e quelli più produttivi ricevono dosi più elevate di
mangime alla mungitura. Con questa tecnica è anche possibile destinare i pascoli
migliori alle pecore più produttive. La formazione di diversi gruppi di pecore è
pratica comune negli allevamenti, anche se essi generalmente sono creati in
funzione della gestione della riproduzione e non per migliorare il razionamento
alimentare;
b) tutti gli animali sono mantenuti assieme al pascolo ma i diversi gruppi
produttivi sono distinti con appositi segni colorati sul vello. Al momento della
mungitura, le pecore sono fatte passare in appositi corral dotati di cancelli di
separazione, dove un operatore separa le pecore in gruppi in base al segno sul
vello. I diversi gruppi sono, quindi, munti separatamente e ricevono le
integrazioni in funzione del loro livello produttivo. Alla fine della mungitura le
pecore vengono riunite e portate nello stesso pascolo. Questa tecnica, diffusa
soprattutto in Israele, semplifica la gestione dei pascoli ma, ovviamente, richiede
la costruzione di corral e di recinti di separazione che, comunque, possono essere
costruiti con materiale di recupero e necessita di un certo lavoro per la
separazione degli animali prima di ciascuna mungitura.
Sarebbe anche possibile costruire impianti di mungitura che distribuiscano dosi
diverse di mangime in funzione del livello produttivo delle pecore. Tuttavia, sia
per ragioni economiche che gestionali, questi tipi di impianti non hanno ancora
trovato applicazione pratica.
In sintesi, l'obiettivo principale dovrebbe essere quello di consentire elevate
ingestioni di erba. Nella parte iniziale della primavera, data l'elevata disponibilità
di pascolo, eventuali integrazioni con concentrati non dovrebbero più avere il
senso di incrementare l'apporto complessivo di nutrienti ma di migliorarne il
bilanciamento. A fine primavera, invece, l'integrazione assume di nuovo una
notevole importanza, soprattutto, se non si dispone di irrigazione e si fa
affidamento su pascoli di graminacee. In questo caso l'integrazione dovrebbe
tener conto del loro basso contenuto di proteine e gli integratori alimentari
dovrebbero avere un’elevata concentrazione proteica. Nel caso, invece, di
disponibilità di colture foraggere irrigue, il contenuto proteico dei concentrati
dovrebbe essere molto più basso, per evitare che eventuali eccessi possano
pregiudicare l’attività riproduttiva delle pecore.
Problemi particolari posti dal pascolo costituito da erbe in stadi giovanili
Nel periodo invernale, ma spesso anche nel tardo autunno e all'inizio della
primavera, l'erba pascolata dalle pecore è molto ricca di proteine e povera di
fibra. L'elevato contenuto in proteine è frequente sia nelle leguminose sia nelle
graminacee. Su queste ultime, in particolare, la concentrazione di proteina è
spesso molto più elevata di quanto in genere non si creda. Infatti, a causa dello
stadio giovanile in cui si trovano le piante e delle concimazioni azotate cui sono
spesso sottoposte, le loro concentrazioni in proteina grezza superano di solito il
25% e spesso arrivano a oltre il 30%. Per di più, una buona metà di queste
proteine è di tipo solubile, che quindi fermenta in pochissimi minuti una volta
ingerita. In queste condizioni molto spesso le pecore al pascolo assumono anche
più del doppio della proteina che gli servirebbe per soddisfare i fabbisogni
proteici. Come già detto, la proteina in eccesso è trasformata in urea, che è
eliminata con le urine e che in parte va a finire anche nel latte. La misurazione
dell'urea nel latte ha consentito di evidenziare che, perlomeno nelle condizioni
dell'Italia meridionale, nel periodo invernale molto spesso le pecore sono in
eccesso proteico. Questo può comportare, oltre che una perdita di latte, anche
un'altra serie di problemi:
- aumento delle cellule somatiche nel latte,
- delle mastiti e degli edemi mammari;
- maggiore frequenza di zoppie ed enterotossiemie;
- riduzione della fertilità;
- affaticamento del fegato,
- riduzione delle difese immunitarie;
- diarree.
La situazione è spesso peggiorata con l'uso di mangimi ricchi in proteine.
Siccome questi mangimi sono particolarmente costosi, la loro utilizzazione
comporta, allo stesso tempo:
- aggravio dei costi aziendali,
- diminuzione della produzione di latte e
- peggioramento dello stato sanitario degli animali.
Questi mangimi andrebbero usati solo in tarda primavera, quando l'erba è povera
di proteine, o quando i pascoli hanno poca erba e le pecore sono alimentate
prevalentemente con fieni di graminacee maturi. Allo stesso tempo, le erbe del
periodo invernale hanno un basso contenuto in fibra e stimolano poco la
ruminazione delle pecore. Questo è vero soprattutto nei casi di inverni miti e
molto piovosi, che consentono la crescita veloce ed abbondante di erba con
limitata produzione di fibra. La carenza di fibra comporta che le pecore ruminino
poco, producano poca saliva, che contenendo sostanze ad effetto tampone
contribuisce a controllare il pH ruminale, e digeriscano male l'erba e gli altri
alimenti. Spesso in queste situazioni di sub-acidosi ruminale diminuisce la
percentuale di grasso del latte. Se la carenza di fibra è molto forte, si può avere
anche acidosi ruminale conclamata.
Per ridurre i rischi connessi all'uso di erbe giovani, si possono adottare una serie
di tecniche alimentari:
alla mungitura, utilizzare mangimi pellettati o alimenti aziendali con poca
proteina (non più del 12-13%, possibilmente a bassa degradabilità ruminale), con
un buon contenuto in fibra (intorno al 17-20% di fibra grezza, 25-35% di NDF) e
ricchi in amidi. Si dovrebbe utilizzare una miscela di amidi che fermentano
lentamente (mais o sorgo) e velocemente (orzo, avena o grano), per far sì che nel
rumine si abbiano amidi in fermentazione sia nelle prime ore di pascolamento
(mattino) che nelle ore successive (pomeriggio). Questo dovrebbe consentire di
migliorare la sincronizzazione della fermentazione delle proteine del pascolo con
quella degli NSC degli integratori energetici;
evitare di concimare i pascoli con troppo azoto e di mandare le pecore su
pascoli concimati da pochi giorni;
ridurre le ore di pascolamento, mandando le pecore al pascolo a fine mat-
tina. Ciò evita anche l'ingestione di erba bagnata dalla rugiada. Se si usa questa
tecnica, bisogna, comunque, evitare di mandare al pascolo le pecore troppo
235
affamate. Siccome nell'intervallo tra prima mungitura e inizio del
pascolamento le pecore rimangono senza mangiare per diverse ore, può essere
molto utile somministrare alimenti ricchi di energia e di fibra digeribile e
poveri in proteine poco prima che esse entrino nel pascolo. Per questo terzo
pasto gli alimenti più adatti sono, in ordine di preferenza, le polpe di bietola,
gli insilati di mais, gli insilati tardivi di triticale, le granelle di orzo o di avena.
Si possono anche usare mangimi pellettati, purché essi abbiano le
caratteristiche appena descritte. L'introduzione della tecnica del terzo pasto
porta grandi vantaggi:
- riduce la fame delle pecore, evitando che nelle prime ore di pascolamento
ingeriscano quantità eccessive di erba e, quindi, di proteine;
- consente ai batteri del rumine di avere energia per sfruttare al meglio le
proteine ingerite;
- consente di diluire in un numero maggiore di pasti le integrazioni alimentari.
Infatti, l'adozione del terzo pasto non comporta (anche se consente) un uso di
maggiori quantità di mangime. Se, ad esempio, si somministrano 300 grammi
di mangime per mungitura, con la stessa quantità giornaliera si possono fare 3
pasti (le due mungiture + il pasto poco prima dell’ingresso al pascolo) da 200
grammi ciascuno. Diverse aziende ovine da latte ormai adottano questa tecnica
con ottimi risultati produttivi e sanitari;
controllare il contenuto di urea nel latte per sapere se la proteina della razio-
ne è in eccesso;
controllare le feci: quando si osserva diarrea o feci molto molli e scure, è
probabile che si abbia eccesso proteico;
somministrare fieno di buona qualità per la notte. Tuttavia, quando l'erba è
abbondante, le pecore generalmente ingeriscono poco fieno, specie quando
questo è scadente (troppo maturo o ammuffito).
Uso dei fieni ed importanza della loro qualità
In certi periodi dell'anno il fieno costituisce l'unica fonte fibrosa della razione. A
causa della bassa capacità digestiva delle pecore, elevati livelli d’ingestione di
fieno possono essere ottenuti solamente quando la sua qualità è ottima, cioè
quando il suo contenuto di NDF e lignina è basso e lo stato di conservazione è
ottimale. Se il contenuto fibroso dei fieni è troppo elevato, come accade quando
si ritardano troppo i tagli per massimizzare la produzione di SS per ettaro,
l'ingestione è penalizzata, con conseguente calo delle produzioni, uso eccessivo
di concentrati e rischio d’insorgenza di disordini alimentari.
Per aumentare l'ingestione di fieni scadenti esistono due tecniche:
- la trinciatura;
- consentire agli animali di scegliere le parti migliori dei fieni, accettando che si
abbiano notevoli scarti in mangiatoia. Questi scarti sono più elevati con l’utilizzo
di fieni poco digeribili, come dimostrato da studi condotti su capre in lattazione.
Alimentazione con la tecnica della razione completa
Negli ultimi anni un numero crescente di aziende ovine da latte ha adottato la
tecnica di alimentazione basata sulla somministrazione di razioni complete
miscelate (unifeed). Un numero ancora maggiore di allevatori sta valutando se
adottare questa tecnica. Nella maggior parte dei casi, l'unifeed è praticato da
pochi anni e spesso è associato ad alcune ore di alimentazione al pascolo. Le
principali motivazioni che spingono gli allevatori a considerare questa tecnica
riguardano:
a) la possibilità di aumentare in maniera considerevole il carico animale
mantenibile, mediante la produzione di insilati di erba e di mais o la
somministrazione di erba fresca tagliata giornalmente;
b) la possibilità di migliorare notevolmente la qualità della vita degli operatori
aziendali, con la riduzione delle ore di lavoro (perché non è più necessario
seguire gli animali al pascolo, trasferirli da un campo ad un altro o addirittura da
un corpo aziendale ad un altro) ed il miglioramento della qualità del lavoro stesso
(aumentano le attività meccanizzabili o al coperto).
La seconda motivazione, ancora più della prima, è presa in grande considera-
zione dai giovani allevatori, non più disposti a rinunciare a una qualità della vita
comparabile a quella di altre categorie di allevatori ed agricoltori.
Tuttavia, in molte aziende ovine l'introduzione dell'unifeed ha comportato, oltre
ai normali problemi di adattamento alla nuova tecnica, cali, a volte consistenti,
della produzione lattea degli animali. Questo ha portato molti allevatori a
utilizzare una tecnica mista, basata sulla somministrazione di una miscelata la
mattina, seguita da alcune ore di pascolo a metà giornata e, spesso ma non
sempre, da un'altra miscelata somministrata al rientro degli animali dal pascolo.
Molti dei problemi produttivi riscontrati con l'introduzione dell'unifeed sono
dovuti a un'errata tecnica di preparazione della miscelata, comunemente basata
sull'adozione integrale della tecnica di preparazione tipica dei bovini da latte.
Pertanto, l'adozione di questa tecnica non può prescindere dalle differenze di
capacità digestiva e dimensione ottimale della fibra tra ovini e bovini. A causa di
queste differenze, nella preparazione di razioni unifeed per ovini è necessario:
a) macinare la base foraggera in maniera molto più spinta di quanto non si faccia
per i bovini. In questo modo si favorisce una maggiore ingestione alimentare, con
effetti positivi sulle produzioni. Mentre nel caso dei bovini un'eccessiva
riduzione della dimensione delle particelle può portare ad una consistente
riduzione della ruminazione e della salivazione e può indurre acidosi ruminale,
negli ovini è praticamente impossibile, con i carri unifeed esistenti, ridurre le
particelle fibrose al punto da rendere pericolosa la razione. Le pecore, infatti,
ruminano intensamente particelle fibrose che nei bovini sarebbero troppo piccole
perché stimolino la ruminazione. Un altro vantaggio della macinazione spinta è
che si riduce il rischio che le pecore possano selezionare i componenti della
razione. Accade spesso, infatti, che razioni unifeed per ovini preparate trinciando
la base foraggera alle dimensioni ottimali generalmente adottate per i bovini
consentano alle pecore di ingerire per primi i concentrati, con notevoli rischi
d’insorgenza di acidosi, e quindi i foraggi;
b) utilizzare foraggi ottimi, dello stesso livello qualitativo di quelli in genere
somministrati a vacche in lattazione di elevato livello produttivo. Come già detto,
negli ovini l'ingestione alimentare è condizionata dalla fibrosità degli alimenti in
misura maggiore rispetto ai bovini. Dato che con razioni unifeed le pecore
scelgono molto di meno gli alimenti che non con razioni tradizionali, se esse
sono costrette ad utilizzare alimenti molto fibrosi riducono in maniera
considerevole l'ingestione e le produzioni di latte. In sostanza, se la base
foraggera è troppo fibrosa, è meglio utilizzare la tecnica di alimentazione
tradizionale, che consente alle pecore di scartare le parti peggiori dei foraggi;
c) preferire, se utilizzati nella razione, sottoprodotti con fibra altamente
237
digeribile (ad esempio buccette di soia, polpe di bietola, pastazzo di agrumi);
d) utilizzare insilati ottimi. In molte aziende ovine si producono e utilizzano
insilati troppo maturi (e quindi troppo fibrosi) e/o conservati male, probabilmente
a causa della scarsa esperienza degli allevatori ovini nella loro produzione. Sia
l'eccessiva fibrosità sia le sostanze prodotte dalle fermentazioni anomale
riducono considerevolmente l'ingestione e la produzione di latte. Oltretutto, gli
insilati che hanno subito fermentazioni anomale contengono elevate quantità di
spore di batteri butirrici, che, trasferendosi nel latte, causano notevoli alterazioni
nei formaggi a lunga conservazione. Per questa ragione, molti caseifici ovini
rifiutano il latte di pecore alimentate con insilati.
In conclusione, l'adozione dell'unifeed nelle aziende ovine da latte richiede oltre
che un'attenta valutazione economica dei costi e dei benefici associati a questa
tecnica, la produzione di foraggi di ottima qualità ed una notevole attenzione alle
modalità di miscelazione della razione completa. Questi requisiti sono
indispensabili per garantire risultati produttivi soddisfacenti.
Utilizzazione e somministrazione di alimenti concentrati
Spesso i concentrati sono somministrati in corrispondenza delle due mungiture
giornaliere. Se si usano concentrati ricchi di amidi e le quantità somministrate
sono elevate, è probabile che si abbiano in breve tempo elevate produzioni di
propionato nel rumine. Questo può determinare riduzione del pH ruminale,
minore attività dei batteri cellulosolitici e diminuzione della digeribilità della
fibra. Nei casi peggiori si può avere acidosi ruminale. A volte si riscontrano casi
di acidosi anche quando la dose media di concentrati somministrati non è elevata.
Ciò generalmente dipende dalle modalità di somministrazione, che a volte
favoriscono la competizione delle pecore, lasciando spazio a quelle più
aggressive, che sono spesso anche le più produttive.
Per ridurre i picchi di produzione di propionato ed i rischi associati al basso pH
ruminale, la dose giornaliera di concentrati dovrebbe essere suddivisa in più di
due pasti. Ad esempio, un terzo pasto potrebbe essere somministrato la notte in
ovile o la mattina poco prima di portare le pecore al pascolo. Per evitare
eccessiva competizione fra gli animali, sarebbe opportuno dotarsi di sistemi di
cattura e di mangiatoie (soprattutto negli impianti di mungitura meccanica)
dotate di setti individuali.
Nel caso di utilizzazione di granelle molto fermentescibili, come quelle di orzo,
grano e avena, è consigliabile evitare trattamenti che ne incrementino
ulteriormente la velocità di degradazione, come la fioccatura, la macinazione e la
schiacciatura, anche se talvolta la fioccatura dell'orzo ha avuto effetti positivi
sulla produzione di latte. Le granelle intere stimolano la ruminazione e riducono
la velocità d’ingestione. Poiché gli ovini con la masticazione (e in particolare con
la ruminazione) sminuzzano intensamente anche le granelle, la perdita di quantità
significative di queste nelle feci è improbabile. Qualora ciò accadesse, sarebbe
un segno di alterazioni del metabolismo ruminale (acidosi) o di scarsa attività
ruminativa delle pecore.
Solamente nel caso in cui si utilizzino granelle a bassa velocità di degradazione
(mais e sorgo), la macinazione, la fioccatura e la schiacciatura possono essere
consigliate, soprattutto in animali di elevato livello produttivo, che abbiano
quindi elevate velocità di transito degli alimenti. Nel caso del mais, è
sconsigliabile l'utilizzazione di granelle intere anche per evitare che le pecore più
anziane, con dentatura non più completamente efficiente, abbiano difficoltà ad
ingerirle. In questo caso, comunque, una grossolana rottura delle cariossidi è
sufficiente per evitare il problema.
Per ridurre i rischi associati ad elevate ingestioni di amidi, si possono sostituire
parte delle granelle con alimenti ricchi di energia ma che non favoriscono
l'acidosi ruminale, come tutti gli alimenti ricchi di pectine (polpe di bietola,
buccette di soia, pastazzo di agrumi) e come i semi di cotone. In alternativa, si
possono utilizzare mangimi pellettati ricchi di fibra strutturata.
L'utilizzazione di sostanze tampone può essere molto utile per ridurre i rischi
associati all'uso di elevate dosi di concentrati. Ad esempio, si è visto che
l'aggiunta di miscele di bicarbonato di sodio (64%) e di bicarbonato di potassio
(34%) in quantità pari al 3,5% della sostanza secca della razione consentiva di
mantenere il pH a livelli accettabili in agnelloni alimentati con razioni molto
ricche di granella di orzo.
239
8.4.8. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella capra
Il grasso del latte caprino è più ricco in acidi grassi a catena corta e media, a basso
peso molecolare, che determinano la formazione di globuli di grasso di diametro
medio (da 0,1 a 1 micron) analogo a quello del latte umano e di molto inferiore a
quello nel latte vaccino. Pertanto, la frazione lipidica del latte di capra risulta più
digeribile rispetto a quella del latte vaccino. Anche l’assenza (o quasi) di una
particolare caseina rende il latte di capra molto simile a quello umano, nel quale
questa sostanza è pure assente, e ciò comporta la formazione di un coagulo più
soffice e più rapidamente degradato dagli enzimi gastrici. Tale caratteristica di alta
digeribilità fa del latte di capra un alimento impiegato dai nutrizionisti nei trattamenti
dietetici di soggetti colpiti da intolleranza alimentare verso il latte vaccino.
L’importante lavoro svolto in questi anni sia dalla ricerca sia dall’industria
alimentare ha determinato una giusta rivalutazione dei prodotti dell’allevamento. E le
qualità organolettiche e nutrizionali intrinseche del latte di capra e dei derivati hanno
contribuito al recente successo commerciale di questi prodotti.
I valori relativi alle esigenze di mantenimento della capra sono molto discordanti e
mediandoli tra di loro (Sauvant e Morand-Fehr, 1991) si ottiene un valore medio
giornaliero di EMm di 445 kJ/kg PM, pari a circa 320 kJ/kg PM di ENm,
considerando una efficienza di conversione della EMm in ENm del 72% circa.
Il fabbisogno energetico netto per la produzione del latte corrisponde al contenuto
energetico unitario del latte (EL) per il quantitativo prodotto. Secondo Sauvant e
Morand_Fehr (1991) la variazione energetica per g di grasso per litro di latte è pari a
46,6 KJ e il contenuto energetico medio di un litro di latte al 4% di grasso è di 2971
kJ. Da ciò si calcola:
EL = (KJ/kg) = 2971 + 466 x (grasso % - 4).
In sintesi il fabbisogno energetico netto totale per le capre in lattazione è:
ENlatte (kJ) = 320 x PM +2971 x FCM dove PM è il peso metabolico e FCM i kg di
latte corretto al 4% di grasso. Volendo esprimere in UFL e sapendo che 1 UFL =
7113 kJ di ENlatte, abbiamo: UFL totali = 0,045 x PM + 0,42 x FCM. Se gli
animali vanno al pascolo bisognerebbe aggiungere 0,02 UFL per Km percorso in
pianura e 0,03 UFL per ogni 100 metri di dislivello.
Considerando i fabbisogni in EM, va tenuto presente che il fabbisogno netto di
energia per il mantenimento, in condizioni di stabulazione, può essere pari a 0,272
MJ/kg W0,75
. Questo dato va aumentato di circa il 25% per gli animali al pascolo. Il
valore energetico del latte di capra è dato da:
VEl (MJ/kg) = 0,04G + 1,66, dove G è il contenuto in grasso (g/kg).
240
Valore energetico e composizione chimica del latte di capra (100 g di parte edibile)
Energia
KCal
KJ
Calorie da proteine (%)
Calorie da carboidrati (%)
Calorie da grassi (%)
76.0
320.0
20,0
23,0
57,0
Vitamine
Tiamina (B1)
Riboflavina (B2)
Niacina (B3)
Vitamina A
(Retinolo eq.)
Vitamina C
Minerali
Calcio
Ferro
Fosforo
Magnesio
Potassio
Rame
Selenio
Zinco
Quantità
0.05 mg
0.11 mg
0.30 mg
86.00 μg
1.00 mg
Quantità
(mg)
141.00
0.10
106.00
13.00
180.00
0.03
1.90
0.31
Composizione chimica
Parte edibile
Acqua (g)
Proteine (g)
Carboidrati (g)
di cui: zuccheri solubili
(g)
amido (g)
Grassi (g)
di cui: saturi (g)
monoinsaturi (g)
polinsaturi (g)
Fibra totale (g)
Colesterolo (mg)
Quantità
100 %
86.30
3.90
4.70
4.70
0.0
4.84
3.32
1.36
0.16
0.0
10.0
Quando questo dato non è disponibile, si può adottare un valore di 3,46 MJ/kg.
Inoltre, in assenza di dati precisi si consiglia di adottare 0,7 e 0,62 rispettivamente
per km e kl. I fabbisogni di energia metabolizzabile per il mantenimento sono di 0,39
e 0,49 MJ/kg W0,75
per animali tenuti rispettivamente in stabulazione o al pascolo;
per la produzione del latte si può presumere un fabbisogno di 3,46/0,62 = 5,6 MJ/kg.
241
ESIGENZE NUTRITIVE CAPRE IN LATTAZIONE
Composizione
latte di capra (g)
Grasso 45, residuo magro 87, proteina grezza 33, lattosio 41,
calcio 1,3, fosforo 1,1, magnesio 0,20
Durata lattazione
8-12 settimane
Contenuto energetico latte E latte (MJ/Kg) = 0,04 G + 1,66
Contenuto medio = 3,46 MJ/Kg
Valore energetico tessuti
corporei
17 – 30 MJ/Kg (più elevato inizio lattazione)
Valore medio = 26 MJ/Kg
Energia netta: Tessuti
mobilizzati
Guadagno peso
26 x 0,84 = 21,84 MJ
26 x 0,95 = 27,36 MJ
ESIGENZE
Energia: Km = 0,7 Kl = 0,62
- mantenimento:
0,272 MJ/Kg0,75
( + 25% per animali al pascolo)
UFl = 0,045 W0,75
- Produzione:
3,46/0,62 = 5,6 MJ/Kg
UFl = 0,42/Kg latte al 4% di grasso
- E.M. fornita da perdite corporee = 35 MJ/Kg
Proteine:
- Proteine degradabili = 8,34 g /MJ energia ingerita
- Proteine non degradabili =
1,47 x proteine tissutali – 6,67 x EM ingerita
Proteine tissutali =
e) Mantenimento: 2,19 g/ W0,75
f) Produzione latte: 33 x 0,95 g /Kg
g) Guadagno peso: 150 g/Kg
h) Perdita peso: 112 g /Kg
Mantenimento Produzione*
Calcio: PV x 0,02/0,51 Kg x 1,3/0,51
Fosforo: PV x 0,03/0,58 Kg x 1,1/ 0,58
Magnesio: PV x 0,0035/0,17 Kg x 0,26/0,17
* latte al 4% di grasso
242
Produzione e composizione (g/kg) del latte di varie razze di capre
Razza Grasso Proteine
grezze
Calcio Fosforo Produzione
per lattazione
(Kg)
Anglo-Nubian
British Saanen
British Alpine
British Toggenburg
56
41
43
45
38,5
31,0
32,7
34,1
1,56
1,26
1,37
1,44
1,39
1,04
1,18
1,26
840
1325
1135
1077
Fabbisogni energetici e proteici della capra da latte
Fabbisogni energetici Fabbisogni proteici *
Stato fisiologico UFL/kg
PM
UFL/kg
FCM
UFL/kg
SS
PDI/kg
PM (g)
PDI/g PG latte
(g)
Mantenimento 0,045 2,3
Lattazione 0,42 1,55
Asciutta:
Gravidanza:
3° mese
0,65
4° mese 0,75 3,7
5° mese 0,85 5,0 * Primipare: aggiungere 13 g di PDI per la crescita (360 g PDI/kg incremento ponderale
* Pluripare dopo 4° mese di lattazione: aggiungere 4 g PDI (100 g PDI/kg incremento ponderale
Fabbisogni proteici - Il fabbisogno (g/giorno) di proteine degradabili nel rumine
(PDR) può essere valutato pari a 8,34 MJ di EM ingerita e quello di proteine non
degradabili (PNDR) pari a 1,47 proteine tissutali richieste - (6,67 di EM ingerita).
Calcolo dei fabbisogni di una capra di 50 kg che produce 5 kg di latte
con 40 g di grasso/kg e perde 50 g di peso corporeo al giorno
Mm (MJ/giorno) = 0,30 x 500.75
Ml (MJ/giorno) = 5 x 5,6
Mg (MJ/giorno) = 0,05 x 35
Mm + Mp (MJ/giorno)
Correzione LA (1 + 0,018 Mp/Mm)
Mmp (MJ/giorno) = 33,5 x 1,064
RDP (g/giorno) = 8,34 x 35,7
TP (g/giorno) =
UDP (g/giorno) = 1,47 x 192 - 6,67 x 35,7
Ca (g/giorno) = (50 x 0,02 + 5 x 1,3)/0,51
P (g/giorno) = (50 x 0,03 + 5 x 1,1)/ 0,58
Mg (g/giorno) = (50 x 0,0035 + 5 x 0,20)/0,17
7,3
28,0
- 1,8
33,5
1,064
35,7
298
192
44,1
14,7
12,1
6,9
Mg = EM per la variazione di peso; LA = livello alimentare;
UDP= proteine non degradabili nel rumine
243
Il fabbisogno proteico dei tessuti comprende quello necessario per il mantenimento
(2,19 g/kg W0,75
), quello per la produzione di latte (33 x 0,95 g/kg) e quello relativo
al guadagno di peso (150 g/kg) o alla mobilizzazione dei tessuti (112 g/kg).
Fabbisogni minerali - le perdite endogene (per il mantenimento) sono di 20 mg di
Ca, 30 mg di P e 3,5 mg di Mg per kg di peso corporeo. Il fabbisogno netto per la
produzione del latte è di 1,3 g di Ca, 1,1 g di P e 0,26 g di Mg per kg di latte.
Fabbisogni minerali giornalieri della capra da latte
Ca P Mg K Na
Mantenimento
(mg/kg PV)
67
46
18
56
19
Lattazione (g/kg latte) 4,2 1,5 0,7 2,3 0,5
4 e 5° mese di gestazione 4,2 1,1 0,2 0,3 0,2
In sintesi nell’alimentazione delle capre bisogna considerare che quelle allevate per la
produzione di latte presentano fabbisogni alimentari ben precisi in funzione delle
diverse fasi della vita e del ciclo riproduttivo. Maggiore è il livello produttivo,
maggiori sono anche i fabbisogni energetici e nutrizionali e, di conseguenza, più alti
saranno anche i costi di allevamento.
Per questo motivo è necessario conoscere in modo approfondito le esigenze
nutrizionali degli animali allevati, allo scopo di formulare diete che possano
soddisfare tali esigenze e che possano aiutare a prevenire determinate patologie, quali
malattie metaboliche o carenze.
Durante il periodo di asciutta e gravidanza l’alimentazione deve essere tale da
mantenere la capra in una condizione corporea ottimale, evitando un eccessivo
ingrassamento che può creare problemi al parto.
Bisogna considerare che:
fino al terzo mese di gestazione, il fabbisogno alimentare è come quello del
mantenimento;
a partire dal quarto mese di gestazione, i fabbisogni aumentano in modo esponenziale
fino al parto;
al termine della gestazione il livello di ingestione tende a diminuire, soprattutto, per
la riduzione del volume ruminale, dovuta alla crescita del/i feto/i.
A partire dal quarto mese di gestazione, è necessario raggiungere 0,75 UFL/Kg S.S.,
fino ad arrivare a 0,85 UFL/Kg S.S. al quinto mese.
Per raggiungere questi valori, è bene:
non eccedere con il concentrato, ma utilizzare foraggi di elevata qualità e appetibilità,
in modo da massimizzare l’ingestione;
mantenere il volume del rumine elevato, per evitare un calo di ingestione a inizio
lattazione;
non far ingrassare le capre durante la gestazione, per prevenire la tossiemia gravidica.
Durante la lattazione, il periodo più critico è quello dal parto al picco di lattazione,
poiché il livello di ingestione si riduce portando ad un bilancio energetico negativo.
Questo è compensato con la mobilizzazione del grasso di riserva, che se troppo
intensa porta a chetosi. È bene quindi evitare, in gravidanza, da un lato un eccessivo
utilizzo di concentrati, che riducono la mobilità e il volume ruminale, causando
244
diminuzione di ingestione, e dall’altro indurre nella capra gravida uno stato di
iponutrizione, che causa eccessiva lipomobilizzazione.
Nel caso di capre ad alta produzione, è necessario somministrare, dopo 3-4 settimane
dal parto, una razione con un livello energetico di 1-1,05 UFL/Kg SS. È consigliabile
raggiungere questo valore gradualmente, per non provocare dismetabolie e ancora
non eccedere con i concentrati.
Dal 2°-3° mese di lattazione, la capacità di ingestione aumenta e la produzione di
latte diminuisce. In questo periodo cessa la lipomobilizzazione e comincia il deposito
di grasso; è necessario quindi ridurre il contenuto energetico della razione per evitare
ingrassamento delle capre, diminuendo la quantità di concentrati nella dieta.
Strategie alimentari nella capra da latte
Le sole conoscenze dei fabbisogni energetici non sono sufficienti per una corretta
alimentazione degli animali. La capra, più degli altri ruminanti, è capace di
accumulare riserve energetiche sotto forma di tessuto adiposo, riserve che sono
suscettibili di essere mobilizzate durante il ciclo produttivo per tamponare eventuali
squilibri tra apporti e fabbisogni.
A fine gestazione la capacità d'ingestione della capra, in rapporto al peso vivo,
diminuisce proprio quando il feto richiede quantità crescenti di energia. In effetti,
all'avvicinarsi del parto la capra tende a mobilizzare quantità crescenti delle sue
riserve adipose e a ridurre l'attività anabolica energetica. Nella prima settimana di
lattazione, quando sono richiesti i massimi fabbisogni energetici, la capacità
d'ingestione della capra si accresce lentamente per raggiungere il massimo alla 4-5a
settimana di lattazione. In questa fase il deficit energetico spesso è uguale ai fabbi-
sogni di mantenimento.
La capra compensa lo squilibrio venutosi a creare mobilizzando intensamente le
riserve adipose cui corrisponde un tasso elevato di acidi grassi non esterificati
(NEFA) nel plasma e una diminuzione del peso vivo e del grasso nel latte. Intorno al
2° mese di lattazione, il bilancio energetico tende a divenire positivo, il tenore in
NEFA diminuisce e il grasso del latte aumenta. In questa fase, la lipogenesi aumenta
progressivamente e gli animali incominciano ad aumentare di peso, ricostituendo le
riserve corporee che raggiungono il massimo durante i primi tre mesi di gestazione.
Queste conoscenze sono indispensabili per programmare l'alimentazione della capra
nel corso del suo ciclo produttivo e riproduttivo.
Poiché il sistema foraggero aziendale è difficilmente modificabile nel corso dell'anno,
l'unico intervento possibile è sul livello energetico e azotato della razione e quindi sul
rapporto energia-azoto.
Si è detto precedentemente che, a fine gestazione la capacità d'ingestione della capra
in rapporto al peso vivo raggiunge i valori minimi; in questa fase è indispensabile
intervenire con una razione alimentare rapportata ai fabbisogni e formata dai migliori
foraggi aziendali (elevata digeribilità e ingestibilità) e da concentrati. Questi ultimi,
al quarto mese di gestazione, vanno distribuiti nella misura di 200-300 g/capo/d in
modo da avere una concentrazione energetica della razione di 0,75 UFL/Kg di S.S.
poi vanno progressivamente aumentati a 400-600 g/capo/d (concentrazione
energetica della razione 0,85 UFL/Kg di S.S.).
Nel corso dei primi due mesi di lattazione, i concentrati vanno aumentati a 600-800
g/capo/d (concentrazione energetica della razione 0,90-0,95 UL/Kg di SS), poi da
metà lattazione è sufficiente distribuire 300-500 g/capo/d (concentrazione energetica
della razione 0,80 UFL/Kg di SS) e a fine lattazione 200-300 g/capo/d
245
(concentrazione energetica della razione 0,75 UFL/Kg di SS) (40).
Durante il periodo di asciutta, l'utilizzazione di buoni foraggi può limitare il ricorso
ai concentrati purché la razione alimentare abbia una concentrazione energetica di
circa 0,65 UFL/Kg di S.S., diversamente una distribuzione di 100-200 g di
concentrato si rende indispensabile. Questa strategia alimentare non solo è la più
efficace per la ricostituzione delle riserve energetiche dell'animale ma ha anche un
effetto positivo sulla persistenza della lattazione.
Nel corso degli ultimi mesi di gestazione e dei primi di lattazione è indispensabile
evitare l'errore di aumentare bruscamente i concentrati o di somministrarli in eccesso
perché un simile comportamento non solo limita l'ingestione di foraggio, ma provoca
facilmente tossiemia di gestazione e turbe di carattere digestivo con conseguente
aumento della mortalità pre e post-natale e diminuzione della produzione di latte.
In effetti, conviene aumentare o diminuire i concentrati lentamente in modo che
l'animale abbia il tempo di adattarsi al diverso regime alimentare.
La strategia alimentare delle capre al pascolo si presenta complessa sia a livello di
razionamento sia a quello di sistema foraggero.
Le esperienze acquisite in questi ultimi anni dimostrano come le capre con il solo
pascolamento riescano a prelevare l'energia sufficiente per il mantenimento e solo
parzialmente quella necessaria alla produzione (le differenze fra le diverse
popolazioni sono abbastanza contenute). All'aumentare della capacità produttiva
dell'animale aumenta anche il deficit energetico; gli animali a bassa produzione
ingeriscono mediamente il 40% in meno dei fabbisogni energetici di mantenimento e
produzione, mentre, quelli ad alta produzione circa il 60% in meno. Gli apporti
azotati risultano invece largamente superiori ai fabbisogni negli animali in
mantenimento e deficitarii di circa il 20% per quelli in produzione .
Per quest'ultimi, il bilancio energetico e proteico varia sensibilmente nel corso della
lattazione. Il deficit energetico risulta massimo all'inizio della lattazione, con circa
1000 kcal EN (0,59 UFL), scende e rimane costante per tutta la fase intermedia della
lattazione a circa 700 kcal EN (0,41 UFL) ed, infine, raggiunge il minimo all'asciutta
dove la differenza tra ingestione e fabbisogni è trascurabile.
Il bilancio proteico, invece, è leggermente negativo nella prima metà della lattazione
mentre nella seconda diviene positivo. Per colmare il deficit energetico e proteico
degli animali in produzione, la razione alimentare da distribuire come integrazione
dovrà essere altamente energetica e a basso tenore proteico.
A puro titolo indicativo possiamo dire che, per gli animali al pascolo con produzione
di circa 400 Kg di latte, può essere sufficiente distribuire 500-600 g/capo/d di
concentrato a valore energetico di 1,0-1,2 UFL e contenuto in proteina grezza del 10-
14%. Durante il periodo di asciutta è sufficiente intervenire con circa 150-200 g di
concentrato per garantire la copertura dei fabbisogni di mantenimento.
Nel corso dell'ultimo decennio, in molti paesi, le tecniche di alimentazione della
capra hanno seguito l'evoluzione osservata nel passato per i bovini e gli ovini.
L'insilato e i foraggi verdi tendono a sostituire sempre più il fieno e il pascolamento.
Tuttavia, ancora oggi, in molti sistemi d'allevamento il fieno e il pascolamento
rappresentano l'alimentazione di base e nell'immediato risultano difficili da sostituire.
La capra manifesta l'attitudine di scegliere le parti più nutritive del foraggio
distribuito. Tale comportamento è più evidente per il fieno di leguminose - del quale
le capre prediligono le foglie (+ 40% circa nell'ingerito rispetto al distribuito) e lo è
meno per quello di graminacee. Al peggiorare della qualità del fieno aumenta l'azione
selettiva della capra e, quindi, il tasso di rifiuto. Per questa ragione spesso il valore
246
nutritivo del fieno ingerito può essere nettamente diverso da quello distribuito.
Nel razionamento delle capre non bisogna trascurare questo aspetto comportamentale
che si riflette sul livello d'ingestione: una somministrazione di fieno di buona qualità
superiore ai bisogni non modifica di molto il livello di ingestione delle capre, mentre
se il fieno è scadente il livello di ingestione aumenta all'aumentare della quantità
distribuita.
Disponendo, quindi, di fieno di buona qualità conviene razionare la distribuzione,
mentre se il fieno è scadente, una distribuzione ad libitum è la più indicata.
L'alimentazione della capra basata sul solo fieno è teoricamente possibile per gli
animali a bassa produzione.
Alimentando le capre con solo fieno di medica o con quello di graminacee di buona
ingestibilità è possibile coprire i bisogni per la produzione di 1-1,2 kg di latte.
Tuttavia è consigliabile far ricorso anche ai concentrati per evitare carenze o squilibri
a livello nutrizionale. La quantità di concentrato della razione in nessun caso deve
superare la quantità di fieno, di fatto a parità di apporto energetico, gli animali
alimentati con razioni alimentari il cui apporto fieno-concentrato è favorevole al
fieno, forniscono una produzione quanti-qualitativa superiore a quella fornita dagli
animali alimentati con razioni il cui rapporto è favorevole ai concentrati.
Utilizzazione dei foraggi verdi
La problematica relativa all'alimentazione in stalla con foraggi verdi non differisce di
molto da quella affrontata precedentemente per il fieno. Anche per i foraggi verdi la
capra manifesta tassi di rifiuto estremamente variabili in rapporto alla specie e varietà
vegetale, nonché allo stadio vegetativo e alle modalità di distribuzione.
In generale, si osserva come le leguminose distribuite a pianta intera siano meglio
utilizzate rispetto alle graminacee, mentre distribuite come trinciato tali differenze
tendono a ridursi. Lo stadio vegetativo della pianta e il suo contenuto in sostanza
secca influenzano, in maniera non trascurabile, il livello di utilizzazione dei foraggi
verdi. Le capre utilizzano meglio i foraggi verdi quando il contenuto in SS supera il
16-20% e questo si verifica generalmente nella fase intermedia di accrescimento
della pianta. L'alimentazione con soli foraggi verdi di buona ingestibilità consente di
coprire i bisogni per la produzione di 2-3 kg di latte ma, come per il fieno, anche in
questo caso è consigliabile far ricorso ai concentrati per assicurare un'alimentazione
più equilibrata.
L'intensificazione della produzione foraggera e i progressi realizzati sia nella
raccolta, e sia nelle tecniche di insilamento hanno stimolato gli allevatori di capre ad
utilizzare prima sporadicamente e poi con sempre maggiore frequenza gli insilati.
Dalle esperienze condotte in questi anni sugli animali in lattazione, si è osservato che
il consumo degli insilati (Mais, Lolium, Dactylis, Medica) è normalmente inferiore
(23 g di S.S./Kg di P.V.) a quello del fieno (32 g di S.S./kg di P.V.) e dei foraggi
verdi (38 g di S.S./kg di P.V.), mentre, il tasso di rifiuto dovuto alla selezione
effettuata dagli animali risulta più basso. Praticamente, è possibile aumentare il
consumo degli insilati aggiungendo alla razione una piccola quantità di fieno (400 -
600 g). L'utilizzazione dell'insilato di mais in maniera non controllata ha fatto regi-
strare in diversi allevamenti problemi di carattere sanitario (riguardanti l'apparato
digerente e il sistema nervoso) che si manifestano particolarmente a fine gestazione e
nei primi due mesi di lattazione. L'utilizzazione dell'insilato come elemento unico
della razione, anche se permette di ottenere risultati produttivi abbastanza soddisfa-
centi, non è praticamente consigliabile per i rischi che una tale utilizzazione com-
247
porta, tuttavia esso può essere utilizzato efficacemente purché, nella razione, il rap-
porto fieno-insilato si collochi tra 1: 1 e 1: 3.
L'unifeed non è altro che una miscela di alimenti trinciati le cui caratteristiche
nutritive e di accettabilità da parte degli animali dipendono dalla natura e dalla con-
tribuzione specifica di ciascun alimento utilizzato. Nella preparazione dell'unifeed è
importante che il rapporto fra i diversi alimenti sia ben bilanciato in modo che la
miscela, da considerare come unico alimento, sia ben equilibrata a livello nutrizio-
nale. Di conseguenza è importante scegliere gli alimenti non tanto sulla base delle
loro caratteristiche nutrizionali individuali quanto su quelle della loro complementa-
rietà che, opportunamente utilizzata, permette di ottenere una miscela più appetibile e
meglio equilibrata.
Calcolo di una razione unifeed (capre di 40 kg di P.V. e produzione di 2 kg di latte).
Bisogni energetici = 1,42 UFL giorno
Alimenti utilizzati Composizione in % della SS Composizione in % sul totale
Fieno di medica 38 19
Insilato di loiessa 33 68
Concentrato 29 13
Quantità di S.S. da distribuire: 1,42/ 0,85 = 1,67 kg/capo/giorno.
L'unifeed contiene il 41 % di ss, per kg di miscela e quindi è da distribuire:
1,67/0,41= 4, 070 kg di unifeed/capo/giorno,
'
La variazione negativa o positiva nella produzione di un kg di latte comporta il
seguente aggiustamento:
0,4 UFL/0,85 X 0,41 = 1,14 kg di Unifeed
Le capre alimentate con l'unifeed non hanno eccessiva possibilità di scegliere le parti
da ingerire per cui tutti gli alimenti presenti nella miscela sono utilizzati nello stesso
rapporto stabilito al momento della preparazione. La riduzione del fenomeno
selettivo si ripercuote positivamente sul tasso di rifiuto che per l'unifeed difficilmente
supera il 5% contro il 15-40% che normalmente si ha per tutti gli altri foraggi .
Un’appropriata miscela di alimenti per le capre dovrebbe avere un tasso di umidità
compreso tra il 55 e il 70%, una concentrazione energetica elevata ad inizio
lattazione (0,85-0,88 UFL/kg s.s.) e più bassa nel periodo di asciutta (0,70 UFL/kg
s.s.), un apporto in fibra di 0,6-1 kg ed, inoltre, dovrebbe soddisfare l'insieme dei fab-
bisogni azotati, minerali e vitaminici.
L'utilizzazione dell'unifeed presenta indubbi vantaggi:
- minore spreco di alimenti;
- possibilità di utilizzare nella miscela anche alimenti non molto appetibili o
sottoprodotti;
- guadagno di tempo della distribuzione;
- minore variabilità nella quantità e qualità degli alimenti ingeriti;
- migliore armonizzazione del gusto degli alimenti.
D'altra parte però è necessario avere una attrezzatura adeguata che richiede un costo
248
d'investimento variabile in rapporto al tipo di macchina. Per piccoli allevamenti è
sufficiente avere una trincia foraggi e un miscelatore di alimenti, mentre negli
allevamenti di una certa consistenza la soluzione ideale è rappresentata dal carro
unifeed.
Razione per capre (40 kg di PV e con produzioni di 2 kg di latte al 4% di grasso)
Quantità
distribuita,
g
S.S.
ingerita,
g
Note
a) Fieno di Medica 1400 1050 15% rifiuto, 5% umidità
Insilato di mais 2200 530 20% rifiuto, 70% umidità
Polpe di barbabietola disidratate
330 290
11 % umidità, consumo
totale
b) Erba consumata al pascolo 4500 1120 75% umidità
Concentrato 500 440 13% umidità, consumo
totale
c) Fieno di pascolo 2000 1200 30% rifiuto, 15% umidità
Polpe disidratate di barbabietola 335 300 11 % umidità, consumo
totale
Concentrato 390 340 13% umidità, consumo
totale
249
8.4.9 Esigenze nutritive per la produzione del latte negli equini
Gli studi condotti sugli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione di latte degli
equidi si sono rivelati di grande utilità non solo per la stima dei fabbisogni nutritivi
della fattrice e del redo, peraltro di notevole impatto pratico nell’alimentazione di
soccorso per equidi domestici e selvatici, ma anche di grande interesse per l’impiego
dello stesso nell’alimentazione umana, con particolare riferimento alla fase neonatale
di pazienti affetti da allergie multiple, oltre che nell’industria parafarmaceutica e/o
cosmetica. Occorre, peraltro, segnalare a questo riguardo, che nonostante le proprietà
nutrizionali e terapeutiche del latte di asina siano note fin dall’antichità, assai limitati
sono i riferimenti scientifici disponibili.
Alcuni studi hanno chiaramente evidenziato che il latte di asina, le cui caratteristiche
composizionali e organolettiche sono più vicine a quello di donna, può costituire
alimento d’elezione sia per i bambini con difficoltà alimentari nei primi mesi di vita,
spesso refrattari ad altri trattamenti, consente fra l’altro al neonato la formazione di
un normale e completo sistema immunitario sia per soggetti in età geriatrica
intervenendo nei processi di osteogenesi, nella terapia dell’arteriosclerosi, nel
recupero degli infartuati cardiaci, nei casi di senescenza precoce, nelle diete
ipocolesterolemiche.
Le razze maggiormente allevate e, comunque meglio indicate, per la produzione di
latte, sono quelle più pesanti, come la razza Martina Franca e la Ragusana, più idonee
semplicemente per una questione di rendimento in quanto la quantità di latte prodotta
è in relazione alla mole dell’animale, tutto sommato in questa tipologia di
allevamenti non mancano soggetti meticci o frutto di incroci, sicuramente meno
costosi, più gestibili e ideali per iniziare questo tipo di attività.
La mammella dell’asina si differenzia da quella della bovina o della pecora per
l’assenza della “cisterna”, una cavità intermammaria con funzione di raccolta del
secreto liberato dal tessuto ghiandolare. Nella mammella dell’asina, quindi, non
essendoci possibilità di raccolta, le quantità di latte ottenute ad ogni mungitura sono
molto inferiori rispetto a quelle fornite dai ruminanti. Le quantità medie di latte
ottenute ad ogni mungitura possono variare dai 300 ai 750 ml con picchi di 1200,
1500 ml in relazione alla mole e al periodo di mungitura dell’asina. Il modo migliore
per ottenere una maggior quantità giornaliera di latte da un asina è imitare la modalità
di allattamento del puledro: piccoli ma numerosi atti di suzione, ciò suggerisce di
mungere le asine almeno tre volte al giorno, fornendo così un continuo stimolo
produttivo per il tessuto ghiandolare. Alla mungitura, talvolta, la presenza del redo è
fondamentale per il rilascio del latte in seguito all’attivazione di un riflesso, per
ovviare a tale situazione si sta diffondendo la pratica di separare definitivamente il
puledro dalla madre immediatamente dopo l’assunzione del colostro già al primo
parto. I puledri verranno alimentati al biberon con un latte a formula artificiale o con
lo stesso latte asinina.
La cavalla è una forte produttrice di latte tanto che la produzione media nel
picco di lattazione (2°e 3° mese), è stimata al 3,5% del peso vivo dell’animale.
Ciò significa che a seconda della razza e del tipo genetico la produzione varia da 15 a
30 l di latte/giorno.
Anche se il latte di cavalla ha un valore energetico più basso di quello bovino,
essendo sì più ricco di zuccheri ma più basso di grassi, i fabbisogni nutritivi al picco
di lattazione sono circa il doppio rispetto a una fattrice in asciutta e gravida all’8°
mese.
250
Le carenze nutrizionali nel primo periodo di lattazione, oltre a comportare una
minore fertilità, sicuramente penalizzano lo sviluppo e la salute del puledro, dato che
la fattrice ancor prima di esaurire le riserve corporee ridurrà la produzione di latte.
La percentuale di proteina grezza sulla SS della razione complessiva (foraggio +
concentrati) dovrà essere del 13 -15%, con un livello energetico espresso in U.F.C.
(Unità Foraggere Cavallo) di circa l’80 - 85%.
Il concentrato (mangime commerciale o miscela aziendale) dovrà essere diverso a
seconda del foraggio utilizzato e somministrato in più pasti giornalieri per migliorare
l’utilizzazione ed evitare il rischio di coliche o altre patologie.
Va curata la formulazione non solo dei mangimi ma di tutta la razione, prestando
particolare attenzione alla quantità e alla qualità delle proteine e al corretto livello
energetico.
Un buon concentrato adatto per le fattrici nel picco della lattazione può essere
utilizzato come base e con qualche accorgimento anche per i puledri sotto madre, che
a partire dal 3°-4° mese di vita si giovano di una buona integrazione alimentare.
Molti preparati commerciali per cavalli adulti non sono idonei a coprire i fabbisogni
minimi di proteine e di alcuni aminoacidi essenziali e limitanti (in particolare la
lisina), necessari per la produzione di latte e il corretto accrescimento dei puledri.
Alimenti buoni apportatori di proteine e di lisina e facilmente disponibili sono ad
esempio: la soia, la buona medica, il latte in polvere e i lieviti secchi. Il fieno di prato
e i cereali, in genere, hanno valore proteico e aminoacidico inferiore, anche se i
cereali sono ricchi di amido e quindi energetici.
La quantità di energia che passa nel latte è data dalla quantità di latte prodotto e dal
contenuto energetico del latte stesso. La produzione di latte, negli equini, è molto
variabile ed è poco conosciuta. Il contenuto energetico di un Kg di latte decresce con
l’avanzare della lattazione: 575 Kcal nei primi 15 giorni, 550 nella 2^ quindicina
post-parto, 525 nel 2° mese, 500 nel resto della lattazione. Durante i primi tre mesi,
la secrezione giornaliera di calorie è pari a 5.000 – 7.000 per le giumente da sella e
9.000-12.000 Kcal per le giumente di razza pesante e ciò in funzione di una
produzione di latte che è, rispettivamente di 10-13 e 16-25 Kg. Il fabbisogno
energetico di gravidanza o di lattazione è stato calcolato dividendo la quantità di
energia fissata o escreta per il corrispondente rendimento dell’EM per questi
fabbisogni.
I rendimenti nella giumenta non sono stati ancora studiati per cui si considerano i
valori intermedi tra quelli dei ruminanti e quelli della scrofa: 25% per la gravidanza e
65% per la lattazione. Quindi tra l’8° e l’11° mese di gravidanza le UFC passano da
0,5 a 1,1 nelle giumente da sella (500 Kg) e da 0,65 a 1,4 nelle giumente di 700 Kg.
Il fabbisogno in UFC per la produzione di un Kg di latte è di 0,31 nel primo mese di
lattazione e di 0,29 nel periodo successivo.
Va curata l’integrazione vitaminico-minerale facendo attenzione sia alle carenze che
agli eccessi, ma soprattutto al giusto rapporto fra i nutrienti.
Mediamente, un kg di buon concentrato copre la produzione di 3 l di latte, ma nel
calcolo della razione va considerato anche l’apporto dovuto alla quantità e alla
qualità dei foraggi di base.
In sostanza, tanto per fare un esempio, se per una fattrice di tipo mesomorfo, di circa
sei quintali di peso, al 2° - 3° mese di lattazione abbiamo a disposizione del fieno di
prato di 1° taglio di media qualità, dovremo utilizzare una razione comprendente
circa 8 - 10 kg di fieno e 5 - 7 kg di mangime con il 16 - 18 % di proteina grezza.
251
Se, invece, del fieno di prato avessimo a disposizione del foraggio di medica, la
percentuale di proteina del concentrato dovrà essere più bassa, e in alcuni casi con
fieni di medica molto fogliosi e teneri sarà opportuno utilizzare solo miscele di
cereali opportunamente integrate.
Le necessità alimentari del cavallo sono, in generale, variabili e individuali e il
rendimento della razione può dipendere da tanti fattori, quali il carattere, il tipo
genetico, il peso vivo, il tipo di produzione che si vuole ottenere, ma spesso e molto
più semplicemente anche da un corretto programma di interventi dentari e dalla
frequenza delle sverminazioni.
252
8.4.10. Esigenze nutritive per la produzione del latte nei suini
Bisogna considerare che la scrofa allatta numerosi suinetti. I fabbisogni di
lattazione sono stimati in: 0,65 U.F. e 85 g di protidi digeribili per kg di latte. In
termini di energia digeribile (ED) i fabbisogni della scrofa sono:
Gravidanza Lattazione (10 suinetti)
Primipare Pluripare Primipare Pluripare
5.700 6.500 14.200 16.000
6.600 7.800 16.500 20.000
bisogna ricordare che:
- Energia metabolizzabile (EM) = 0,96 ED
- 1 Unità foraggiera (UF) = 3100 Kcal di ED
- 1 kg di TDN = 4000 Kcal di EM
Un apporto giornaliero di 7500 Kcal di ED sembra corrispondere bene ai fabbisogni
delle scrofe in gravidanza. Sembra inutile far variare gli apporti di energia in
funzione dello stadio di gestazione in quanto ciò non sembra riflettersi positivamente
sulle performances riproduttive della scrofa. L’alimentazione ad libitum può essere
consigliata per femmine che allattano almeno 10 suinetti e nel caso di lattazioni di
durata inferiore a 35 giorni. Per scrofe meno prolifiche o svezzamenti più tardivi è
consigliabile ridurre l’apporto energetico di 1000 Kcal/giorno di ED per ogni suinetto
allattato in meno rispetto ai 10. Formulando miscele con un contenuto energetico di
3100 Kcal/giorno (= 1 UF) di ED è facile calcolare la quantità di concentrato da
somministrare. Durante l’allattamento, il livello alimentare deve essere alto, per
assicurare un’alta resa in latte; gli standard danesi consigliano di giungere a 5,5
kg/giorno di concentrato 15 giorni dopo il parto per figliate di 10 suinetti, da
correggere di 0,25 kg per ogni suinetto in più o in meno.
Fabbisogni minerali e vitaminici nei suini per kg di dieta
Scrofe gravide
(110-160 kg)
Scrofe
allattanti
(140-200 kg)
Verri
(110-180 kg)
Calcio % 0,75 0,6 0,75
Fosforo % 0,5 0,4 0,5
NaCl % 0,5 0,5 0,5
-carotene mg 8,1 6,6 8,1
Vitamina A UI 4100 3300 4100
Vitamina D UI 275 220 275
Tiamina (B1) mg 13,2 11 13,2
Riboflavina (B2) mg 4,2 3,3 4,2
Niacina (PP) mg 22 17,6 22
Acido pantotenico mg 16,5 13,2 16,5
Vitamina B12 13,2 11 13,2
Per quanto riguarda l’apporto proteico, bisogna considerare che:
- l’eliminazione giornaliera di proteine con il latte è di circa 360 g per 8-10 suinetti e
va da 300 g nella prima settimana a 400 g e più alla 4^ settimana. Considerando il
253
coefficiente di ritenzione dell’azoto pari al 50%, il fabbisogno proteico non supera gli
850 g/d. Per lattazioni inferiori a 20 giorni e quando il numero dei suinetti è al di
sotto di 8 i fabbisogni proteici sono inferiori a 700 g.
- durante la gravidanza l’effetto dell’apporto proteico sul livello di riserve azotate
corporee indica un fabbisogno di 250-280 g di proteine al giorno, cioè 40 g di
proteine ogni 1000 Kcal di ED.
Fabbisogni della scrofa in aminoacidi durante l’allattamento e la gravidanza (%
sulla razione)
Aminoacidi Gravidanza Allattamento
lisina * 0,42 0,69
metionina + cistina * 0,28 0,36
treonina * 0,34 0,51
triptofano 0,07 0,13
* vanno leggermente aumentati durante la gravidanza nel caso delle primipare
in quanto devono completare la crescita
Fabbisogni minimi dei suini in oligoelementi in mg/kg di dieta
Rame Ferro Zinco Iodio Manganese Selenio
6 80 50 0,2 12 0,1
8.5. Fabbisogni per la riproduzione e lo stato di gravidanza
L'apporto energetico, proteico, minerale e vitaminico, attraverso
l'alimentazione, riveste una notevole importanza sia per accelerare nell'animale il
raggiungimento della pubertà sia per il verificarsi dei normali fenomeni di
spermatogenesi e di ovogenesi, che per favorire lo sviluppo nell'utero materno,
dell'uovo fecondato e il normale procedere della gravidanza.
Età e taglia alla pubertà di bovini Holstein allevati con differenti piani alimentari
Alla pubertà
Sesso Piano alimentare (in %
degli standard adottati per il
TDN)
Età
(settimane)
Peso (kg) Altezza al
garrese (cm)
Alto (129) 37 270 108
Femmine Medio (93) 49 271 113
Basso (61) 72 241 113
Alto (150 37 292 116
Maschi Medio (100) 43 262 116
Basso (66) 51 236 114
Per quanto riguarda l'alimentazione dei giovani animali in vista della pubertà, anche
se deve essere particolarmente adeguata ai loro fabbisogni, occorre non eccedere
soprattutto sotto il profilo energetico, al fine di scongiurare uno stato di eccessivo
ingrassamento che può pregiudicare la libido nei maschi e l'ovulazione nella
254
femmina. La spermatogenesi e l'ovogenesi sono fenomeni che sono avvantaggiati da
una buona alimentazione, soprattutto, nei giorni che precedono la monta e/o i cicli
estrali, sia negli ovini che nei suini. L'effetto positivo dell'integrazione alimentare a
breve termine (flushing) sul tasso di ovulazione è ben conosciuto ed il flushing, in
alcuni Paesi, costituisce una comune pratica di allevamento. Nella pecora, il tasso di
deiscenza follicolare è strettamente legato al peso vivo e sino al raggiungimento del
peso soglia caratteristico della razza, più questo è elevato maggiore è il tasso di
ovulazione; una volta superato il peso soglia le pecore potrebbero anche non ovulare.
Il meccanismo mediante il quale il flushing aumenta il tasso di ovulazione non è
chiaro. Tale aumento è stato osservato già dopo soli 4-6 giorni di superalimentazione,
e considerando che 4-6 giorni non sono sufficienti a far registrare aumenti di peso in
risposta al livello nutritivo si è ipotizzato che le pecore rispondano sia alla dieta che
ai prodotti catabolici delle loro riserve corporee. Secondo alcuni autori, l'aumento del
tasso di ovulazione non è causato dall'energia contenuta nell'alimento ma dalle
proteine, secondo altri il fenomeno è da ascrivere sia alle proteine che all'energia. Un
maggior tasso di ovulazione in risposta all'aumento di proteine nella dieta è stato
registrato solo in presenza di un livello energetico basso (4 MJ di energia
metabolizzabile/pecora/giorno); Davis e coll. (1981), invece, osservano il fenomeno
non a bassi livelli energetici (6,25 MJ ME/pecora/giorno) ma a quelli moderati (11,1
MJ). L’uso dei lupini come integratori alimentari deve la sua efficacia sul tasso di
ovulazione al contenuto in proteine che presentano una bassa degradabilità ruminale;
a conferma di ciò, un aumento di azoto nella dieta sotto forma di urea non condiziona
alcun incremento nel tasso di ovulazione. Quando l'influenza sul tasso di ovulazione
è stata attribuita all'effetto esercitato dalle proteine della dieta, è stato osservato che
la risposta fisiologica all'integrazione alimentare si instaura entro sei giorni o al
massimo entro un ciclo estrale; laddove l'effetto è stato attribuito soprattutto
all'energia, la durata del trattamento è stata di 30 giorni o più. Ad ogni modo, il
periodo del ciclo estrale più suscettibile all'alimentazione sembra essere compreso tra
il 10 e il 14° giorno. E' bene, inoltre, ricordare come alcune ricerche indichino che
pecore più leggere o iponutrite rispondano meglio all'effetto flushing e che mentre
esiste una marcata influenza del periodo stagionale sul tasso di ovulazione durante
l'attività ovarica, poco si sa circa l'effetto flushing praticato nei diversi momenti della
stagione sessuale.
Nel maschio, la produzione giornaliera di spermatozoi fluttua ampiamente in
armonia con il peso dell'animale. Nell’ariete allevato nelle zone temperate, il periodo
di maggiore attività testicolare non è l'autunno, come ci si potrebbe aspettare visto
che gli ovini esprimono la loro attività sessuale soprattutto con fotoperiodo
decrescente, ma la primavera e l'inizio dell'estate quando la disponibilità di pascolo e
il peso vivo sono al massimo. Ciò indica che l'ariete ignora il segnale fotoperiodico e
risponde, invece, largamente al regime nutrizionale generato dal clima. Considerando
che è più facile influenzare la nutrizione rispetto al peso corporeo, risulta quindi
possibile controllare la capacità spermatogenetica degli arieti attraverso le
caratteristiche quanti-qualitative dell'alimento fornito. Oldham e collaboratori (1978)
osservarono elevati aumenti del volume testicolare con diete ricche di proteine ed
energia. Negli arieti, i testicoli si accrescono di circa 25 g/settimana e per ogni quota
extra di parenchima testicolare la produzione nemaspermatica giornaliera aumenta di
circa 500.000 unità. In risposta all'alimentazione, l'aumento della massa testicolare è
dovuto soprattutto all'aumento del tessuto dei tubuli seminiferi e in particolare modo
dell'epitelio seminifero contenente le cellule germinali e quelle del Sertoli. Inoltre, la
255
massa muscolare può essere considerevolmente aumentata da un supplemento di
alimentazione ed essere ridotta da un'alimentazione ristretta. Bisogna considerare
che, durante la stagione di monta, i maschi dedicano meno tempo ad alimentarsi e
quindi il loro peso corporeo e le dimensioni testicolari, se non si interviene
adeguatamente, diminuiscono rapidamente. Il meccanismo mediante il quale il livello
alimentare influenza la spermatogenesi è stato recentemente chiarito e sono state
differenziate risposte a livello cerebrale, pituitario e gonadale. A seguito
dell'integrazione alimentare, si avrebbe un aumento della frequenza dei picchi di LH
entro 2 giorni, della concentrazione di FSH entro 5-10 giorni e delle dimensioni
testicolari entro 3-4 settimane. Gli stimoli nutrizionali sono mediati, almeno in parte,
dal sistema ipotalamico attraverso la secrezione pulsatile di Gn-RH e non agiscono
direttamente ma indirettamente attraverso un meccanismo di feedback negativo che è
sotto il controllo del testosterone e dell'inibina.
L'alimentazione oltre che adeguata da un punto di vista quantitativo, deve essere
curata da quello qualitativo in quanto alcune sostanze contenute negli alimenti
possono alterare la fisiologia riproduttiva. Infatti, è stato osservato che alcuni
substrati ad attività estrogeno simile, contenuti normalmente nei foraggi e nei
mangimi, possono determinare induzione dell'estro in femmine immature o
interferire con i loro processi riproduttivi. Nei maschi tale effetto può causare una
riduzione dell'attività gonadale.
Nella maggior parte dei casi, l'esatta natura del principio attivo non è stata definita,
ma i composti più comuni appartengono al gruppo degli isoflavoni, dei cumestani e
dei lattoni dell'acido resorcilico. Gli isoflavoni più noti, e con effetto sull'estro, sono
la genisteina e la biocianina A. La presenza dei cumestani nell'erba medica e nel
trifoglio ladino può essere ridotta utilizzando prodotti agrochimici che combattano
gli attacchi fungini, oppure utilizzando piante immature. Mentre gli isoflavoni e i
cumestani sono prodotti intrinseci della pianta, i lattoni dell'acido resorcilico sono
metaboliti secondari di alcune specie fungine (Fusarium) fra i quali va ricordato
soprattutto lo zearalenone. Particolare importanza riveste la supplementazione della
razione durante il periodo della gravidanza. Con il progredire dello stato gravidico, la
gestante sopporta un maggior consumo energetico, usura più accentuata degli
apparati (vascolare, emuntorio, dell'utero), lo sviluppo del feto. La stessa
alimentazione deve soddisfare le necessità plastiche ossidative dello stesso feto in
formazione e di elementi organico-minerali, il cui consumo è esaltato dall'intenso
ricambio accrescitivo. Ciò, soprattutto durante l'ultimo periodo della gravidanza in
quanto il feto o i feti hanno un accrescimento molto più elevato dopo i due terzi della
gravidanza. Per la vacca si valutano i fabbisogni considerando come se:
- al 7° mese producesse 2 kg di latte oltre quello prodotto
- all'8° " " " 4 " "
- al 9°" " " 6
Quindi, i fabbisogni sono circa:
Mese di
gestazione
U.F. Proteine (g) Ca (g) P (g) Caroteni (mg)
6
7
8
9
0,5
1,0
1,5
2,0
50
100
200
300
-
10
13
16
-
8
11
14
-
22
30
38
256
Per le cavalle, la supplementazione si fa negli ultimi 3-4 mesi di gravidanza.
Per le scrofe, qualunque sia il livello alimentare della razione (basso, medio, alto), i
fabbisogni organici dei feti dei suinetti in zuccheri, grassi, protidi e minerali hanno la
priorità sui corrispettivi fabbisogni della scrofa. Al contrario, per quanto riguarda gli
oligoelementi e la vitamina A contenuti nella razione essi vanno al feto solo se ve ne
sono in quantità sufficienti per la scrofa stessa che, quindi in questo secondo caso, ha
la priorità sui feti. Pertanto, bisogna aver cura che siano soddisfatte le esigenze
minerali e vitaminiche della scrofa e dei propri feti e di non provocare un eccessivo
ingrassamento della stessa e di mantenere un adeguato trattamento alimentare durante
tutto il periodo della gravidanza, salvo aumentare nell'ultimo mese ricordando che i
fabbisogni aumentano con il succedersi delle gravidanze nella medesima scrofa e
l'aumentare del suo peso.
Così le esigenze diventano:
Esigenze nutritive della scrofa in gravidanza
Gestazione Peso
Kg
U.F.
Proteine
digeribili (g)
Ca
g
P
g
Vitamina (U.I.):
A D
1a 2,1 240 15 12 9.000 10.000
200
2,3
275
17
13
9.000
10.000
Successive
250
2,5
300
19
14
9.000
10.000
Nella pecora in gestazione, il fabbisogno nutritivo varia in funzione del numero dei
feti e dalla distanza dal parto. Durante le prime 3-4 settimane dopo l’accoppiamento,
il 15-30% degli ovuli possono andare perduti o perché non fecondati o perché si è in
presenza di una alimentazione non corretta che può provocare la mortalità
embrionale. In questa fase bisogna evitare cambi bruschi nel livello alimentare. Nel
secondo e terzo mese di gestazione, il peso del feto aumenta di poco e la placenta
completa la sua formazione ma i livelli di produzione lattea possono essere ancora
elevati. Peraltro, nel calcolo della razione è necessario considerare che la pecora deve
cominciare a provvedere alla ricostituzione delle riserve corporee che sono state
mobilitate per sostenere la lattazione. Alla fine del terzo mese, il peso del feto
rappresenta il 15% di quello finale; il 70% della sua crescita avviene nelle ultime 6
settimane e in questo periodo le richieste alimentari aumentano notevolmente per
soddisfare la rapida crescita del feto e la preparazione della mammella prima del
parto. Orientativamente, una pecora con un solo feto richiede il doppio di alimento
rispetto ad una in asciutta ed il triplo se la gravidanza è gemellare. Alla fine del terzo
mese, se non si vuole compromettere la produzione di latte successiva, è necessario
che la pecora gravida sia messa in asciutta.
Con animali al pascolo fare un corretto razionamento diventa difficile. Un buon
pascolo può soddisfare le esigenze della pecora fino alla seconda metà del quarto
mese di gestazione; successivamente è necessario integrare la razione gradatamente
con concentrati (fino ad arrivare a 0,3-0,4 Kg/capo/giorno) soprattutto in presenza di
gravidanze gemellari. Ciò, sia perché i fabbisogni aumentano sia perché la capacità di
ingestione diminuisce notevolmente. Se la qualità del pascolo è scadente oltre al
concentrato bisogna somministrare anche del fieno o dell’insilato.
257
Esigenze nutritive della pecora in gravidanza
Mesi di
gravidanza
S.S.
Kg
T.D.N.
kg
U.F.
n.
Protidi
digeribili
(g)
Ca
g
P
g
Caroteni
mg
< 3 1.26 0.70 0.67 60 3.3 2.6 2
3,5 – 5 1.71 1.02 1.07 87 4.4 3.3 7
Nelle capre, nelle ultime sei settimane di gravidanza, per soddisfare i
fabbisogni energetici alla quota di mantenimento si aggiungono circa 0,45 UFl
mentre, i fabbisogni proteici, giornalieri, sono pari a 9,6 g di PD e 7,6 g di PDI per
Kg di capretto nato.
8.5.1. Effetti della malnutrizione durante la gravidanza
Sia un eccessivo sia un inadeguato apporto alimentare influenzano
negativamente la gravidanza. Le uova fecondate possono morire ai primi stadi
(mortalità embrionale) oppure continuano a svilupparsi in modo anomalo e
successivamente il feto che ne deriva muore e: a) può essere riassorbito in utero; b)
espulso prima della fine della gravidanza (aborto) o, infine, c) portato fino alla fine
della gravidanza e nasce morto. Una malnutrizione meno grave può ridurre sia il peso
alla nascita, sia la vitalità dei nati per mancanza di forze o per insufficienti riserve (ad
esempio energetiche). In alcuni casi non è il feto ma la madre a risentire della
malnutrizione e ciò perché il feto ha la priorità nei riguardi dei principi nutritivi e, se
la madre ne riceve in quantità non sufficienti, le sue riserve vengono usate per far
fronte ai fabbisogni del feto. Ciò è molto evidente nel caso del ferro: il feto può
esserne adeguatamente rifornito anche quando la madre è anemica. Ma la protezione
offerta al feto non è assoluta, infatti, in caso di carenze gravi e prolungate, ne
possono soffrire sia la madre che il feto. Il grado di protezione varia anche da un
principio nutritivo all’altro così, ad esempio, le pecore a seguito di insufficienti
apporti energetici possono perdere anche fino a 15 kg di sostanze corporee e dare alla
luce agnelli normali, mentre una carenza di vitamina A non causa apparenti effetti
sulla madre ma causa gravi anomalie nei nati. Gli effetti dell’ ipoalimentazione in
gravidanza possono dipendere anche dalle riserve della madre ed in generale le
carenze hanno conseguenze più gravi quando la gestazione è inoltrata, ma questa
regola ha delle eccezioni; la carenza di vitamina A nella prima parte della gravidanza,
intervenendo sullo sviluppo iniziale di certi organi, può causare anormalità del nato
ed anche la sua morte.
Effetti sul figlio - La morte del feto si ha solo in presenza di gravi carenze in principi
nutritivi; le proteine e la vitamina A sembrano maggiormente implicati comunque
sono state segnalate morti del feto anche con carenze di iodio, calcio, riboflavina e
acido pantotenico. La carenza di vitamina A causa alterazioni degli occhi e
malformazione delle ossa, la carenza di iodio causa il gozzo nel nascituro e, nei
maiali, una completa mancanza di setole la quale può essere dovuta anche a una
carenza di riboflavina durante la gravidanza. In presenza di carenza di rame nella
pecora in gravidanza si osserva negli agnelli una difficoltà a mantenersi in piedi.
258
8.6. Fabbisogni per prestazioni dinamiche
Oggi parlare di lavoro ci si riferisce a servizi di traino, trasporti someggiati,
prestazioni di sella, gara o diporto, corsa piana o ad ostacoli, galoppo, corsa al trotto.
Il lavoro può essere leggero, medio, pesante. Il lavoro si svolge attraverso le
prestazioni dinamiche, fornite dalla contrazione dei muscoli scheletrici fenomeno che
si svolge a spese del glicogeno del sangue che deriva dal metabolismo degli idrati di
carbonio assunti con l'alimentazione. Per questo, i fabbisogni nutritivi per le
prestazioni di servizi sono essenzialmente di idrati di carbonio per far fronte al
dispendio energetico del lavoro muscolare e al conseguente accresciuto metabolismo
energetico.
Tipo di
lavoro
Equini Bovini
U.F. Proteine
(g)
U.F. Proteine
(g)
Leggero 1/2 quota
mantenimento
100-150 1/2 quota
Mantenimento
100-120
Medio 2/3 quota
mantenimento
150-175 2/3 quota mantenimento 130-150
Pesante 1 + 1/2 quota
mantenimento
180-200 1 quota mantenimento 160-175
Lo stesso apporto proteico è importante per il miglioramento delle prestazioni, così
come riveste una certa importanza anche un aumento del fosforo, dato che lo sforzo
lavorativo induce una maggiore eliminazione urinaria di fosfati e di creatina, ed
anche maggiori quantitativi di vitamine in quanto partecipano direttamente al
metabolismo dei glucidi. I fabbisogni per le prestazioni dei servizi riferiti a 100 kg di
peso vivo in aggiunta a quelli di mantenimento sono riportati in tabella.
8.6.1. Alimentazione degli equini
I fabbisogni nutritivi sono stati determinati quasi sempre empiricamente, sulla
base di quelli dei ruminanti. Le necessità nutritive del cavallo variano in dipendenza
dell’usura plastica e del dispendio energetico che sono correlati con la costituzione,
l’età, il peso del soggetto (quota di mantenimento) e al tipo, intensità e durata delle
prestazioni così come l’accrescimento, la gravidanza, l’allattamento (quota di
produzione). Per il cavallo adulto a riposo la quota di mantenimento è rappresentata
da 0,9 U.F. e 65-70 g di PD/q PV. Per soddisfare le esigenze energetiche ha maggiore
bisogno di idrati di carbonio e meno proteine rispetto ai bovini; ciò in quanto per la
contrazione dei muscoli (e quindi per il lavoro), utilizza glucosio, fosforo e vitamina
B1.
Per quanto riguarda l’energia, i ricercatori francesi dell’INRA hanno scelto di
adottare una procedura molto simile a quell’utilizzata per i bovini e quindi sia il
valore nutritivo sia i fabbisogni sono stimati come energia netta ed espressi come
unità foraggiera cavallo (UFC) che corrisponde al contenuto in EN di un Kg di orzo
standard (2.200 Kcal). Per calcolare il valore energetico di un alimento in UFC si
divide la sua energia netta (EN, in Kcal) per quello dell’orzo di riferimento (2.200
Kcal). L’EN si calcola attraverso i seguenti passaggi:
a) Energia lorda (EL) attraverso la composizione chimica;
259
b) Energia digeribile (ED) = EL x dE (digeribilità energia);
c) Energia metabolizzabile (EM) = Ed x (EM / ED);
d) Energia netta (EN) = EM x Km; Km = rendimento dell’EM per il mantenimento;
e) Valore energetico UFC = EL x dE x (EM / ED) x Km x (1 : 2.200).
Il procedimento è similare a quello utilizzato per determinare le UFl e UFc nei
ruminanti e quindi permette di utilizzare tutte le conoscenze disponibili per ciascuna
delle tappe e di integrare i dati successivi senza essere costretti a modificare la
struttura del sistema. I vari parametri sono calcolati come segue:
a) EL e dE: sono stati misurati in modo diretto nelle prove di digeribilità sui cavalli
o stimate in base alla composizione chimica dell’alimento;
b) Passaggio da ED a EM: si è partiti da bilanci realizzati su cavalli che ricevevano
differenti razioni e si è calcolata la relazione con le percentuali in fibra grezza (FG) e
in sostanze azotate (SAT) della razione (g / Kg S.S.) e il livello alimentare (LA):
100 EM /ED = 88,01 – 0,02356 FG – 0,0217 SAT + 5,95 LA
(Sxy = 2,02; R = 0,720; n = 75)
Considerando che il valore energetico degli alimenti viene calcolato per il
mantenimento (LA = 1), la relazione diviene:
100 EM / ED = 93,96 – 0,02356 FG – 0,0217 SAT
Il rapporto EM / Ed varia con l’alimento: 83% per la paglia di frumento, 83-85% per
il fieno, 88-91 % per i cereali.
c) Km: per i vari alimenti la cui digeribilità era stata stimata nel cavallo, si è
calcolato il rendimento Km applicando alla percentuale (E, %) dell’energia assorbita
da ciascun prodotto terminale, i valori di Km conosciuti: glucosio 85%, acidi grassi
a lunga catena 80%, aminoacidi 70% ( come nel suino), miscela AGV 63-68%, in
senso inverso rispetto alla proporzione dell’acetato, come nel ruminante:
Km = (0,85 x E glucosio) + (0,80 x E acidi grassi) + (0,70 x E aminoacidi) + (0,63-
0,68 x E AGV).
I valori di Km variano con l’alimento nello stesso senso della proporzione di energia
assorbita sotto forma di glucosio e, quindi, in gnerale, nello stesso senso della
digeribilità della sostanza organica o dell’energia. Essi sono: 80% per il mais, 68%
per un buon fieno, 63% per le paglie di frumento o di orzo.
Più recentemente i valori di Km sono stati messi in relazione con la composizione
chimica dell’alimento per poter stabilire delle equazioni previsionali per categoria di
alimenti e la precisione è risultata migliorata tenendo conto del tenore in glucidi
citoplasmatici (zuccheri e amido) o in sostanza organica digeribile (SOD).
Es. di calcolo dell’UFC a partire dall’orzo standard (86% di S.S.)
EL = 3.800 KCAL
ED (dE= 0,82) = 3.110 “
EM (EM /ED) = 0,90) = 2.800 “
EN (Km = 0,785) = 2.200 “ = 1 UFC
Il valore energetico in UFC degli alimenti viene riportato nelle tabelle in UFC con
valori che variano da 0,35 per la paglia a 1,32 per il mais. Le differenze, tra i vari
alimenti, sono dovute alla diversa digeribilità della S.O. e al contenuto in fibra: così
il contenuto energetico della paglia di frumento è pari al 41% di quello dell’orzo in
260
Ed, al 38% in EM e al 31% in UFC. Rispetto alle UFl dei ruminanti, i valori delle
UFC sono similari nel caso delle granaglie e dei residui della molitura dei cereali ma
sono più bassi per i semi proteaginosi, i panelli e soprattutto per i foraggi - 0,05 per i
foraggi verdi e per i fieni di leguminose, - 0,10 per i foraggi di graminacee, - 0,15 per
i foraggi insilati.
I fabbisogni energetici di mantenimento del cavallo espressi in EM o di EN per
Kg0,75
sembrano essere, rispettivamente, di 120 e 84 Kcal (120 x 0,70) o 0,38 UFC
(84 : 2.200). Ciò indica che, per il mantenimento di cavalli di 500, 600 e 700 Kg
sono necessarie rispettivamente 4,0, 4,5 e 5,2 UFC. Questi valori minimi sono riferiti
a giumente e castroni di razze da tiro a riposo e dovrebbero essere aumentati con
l’incremento generale del metabolismo (stallone, periodo di lavoro) e con l’attività
spontanea legata al temperamento:
Aumento dei fabbisogni di
mantenimento (%)
Cavalli
Da tiro Da sella Di sangue
A riposo
In periodo di lavoro
Stalloni a riposo
Stalloni in riproduzione
0
5
10
20-30
5
10
15
25-35
10
15
20
30-40
Fabbisogni per la gravidanza e la lattazione della giumenta
La quantità di energia richiesta ogni giorno dai prodotti del concepimento (feto,
invogli, placenta, mammella) è bassa durante i primi 2/3 della gravidanza;
successivamente aumenta rapidamente e così nel passaggio dall’8° all’11° mese la
richiesta energetica aumenta da 350 a 850 Kcal/giorno nelle giumente da sella e da
500 a 1.200 Kcal nelle giumente di razza pesante. A queste si aggiungono i
fabbisogni energetici per il mantenimento del feto, i quali non sono molto conosciuti
ma bisogna considerare che il rendimento di utilizzazione dell’EM per
l’accrescimento dei prodotti di concepimento è molto bassa, almeno nelle specie
dove è stato studiato: 15% nella pecora e nella vacca, 30-40% nella scrofa.
.
UFC raccomandate negli ultimi 4 mesi di gravidanza nella giumenta
Peso vivo (Kg) UFC / giorno
Giumenta
Neonato (1)
Mantenime
nto
Gravidanza (2) mese
8° 9-10° 11°
200
300
400 sella
500 sella
600 tiro
700 tiro
800 tiro
24
32
40
48
55
61
68
2,0
2,7
3,6
4,2
4,6
5,2
5,7
0,25
0,35
0,40
0,50
0,55
0,65
0,70
0,40
0,50
0,65
0,75
0,90
1,00
1,10
0,55
0,75
0,90
1,10
1,25
1,40
1,55
(1) = peso del puledro alla nascita (Kg) = 0,45 peso della madre (Kg0,75
)
(2) = Energia fissata durante la gravidanza = peso neonato x 1.280 Kcal /Kg (tenore in
energia lorda) x 1,2 (energia fissata dagli invogli, utero, mammella)
- l’energia si deposita per il 14% all’8° mese, 21% al 9° mese, 23% al 10° e 31% all’11°
- rendimento EM = 25%
261
Fabbisogni in sostanza secca dei cavalli adulti (% rispetto al peso vivo) (da Perùchon)
Peso vivo (kg)
Cavalli adulti 270 360 450 540 630 720 810
Mantenimento 1,42 1,33 1,26 1,2 1,16 1,12 1,08
e lavoro leggero 1,9 1,8 1,7 1,6 1,5 1,5 1,4
e lavoro medio 2,2 2,0 1,9 1,8 1,8 1,7 1,6
e lavoro pesante 2,5 2,3 2,2 2,1 2,1 2,0 1,9
Gravidanza e lavoro leggero 2,0 1,8 1,7 1,7 1,6 1,6 1,5
Lattazione e lavoro leggero 3,0 2,6 2,5 2,4 2,3 2,2 2,1
Fabbisogni in proteine digeribili e in T.D.N. espressi in % sulla sostanza secca
occorrente giornalmente ai cavalli (da Peruchon)
Condizioni dell’animale
e tipo di lavoro
Proteine digeribili Sostanze nutritive
digeribili
1 anno 2 anni 3 anni 1 anno 2 anni 3 anni
In accrescimento:
Mantenimento...............
e lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
10,3
-
-
6,0
5,9
5,9
5,8
5,2
5,1
5,1
5,0
62,5
-
-
62,5
63,5
65
67
62,5
63,5
65
67
Adulti
Mantenimento
e lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
4,9
4,8
4,8
4,7
62,5
62,5
62,5
66,5
Gravide (ultimo periodo) 5,3 62,5
In lattazione 8,2 71,4
Per l’accrescimento, va considerato che la quantità di energia richiesta è data dal
prodotto: incremento di peso vivo giornaliero x tenore energetico dell’incremento.
L’energia contenuta nella massa che si accresce è funzione del tenore in lipidi,
aumenta con l’età dell’animale e con il livello di accrescimento ponderale. Così, tra il
6° e 30° mese, e tra i 350 e i 650 Kg di peso, passa da 2.100 a 2.800 Kcal /Kg di
accrescimento nei puledri di razze pesanti; per gli stessi, da 6 a 12 mesi, essa è di
1.500-2.000 e 2.550 Kcal per incrementi di peso vivo di 0,5-1,0 e 1,4 Kg,
rispettivamente.
262
Fabbisogni in calcio e fosforo espressi in % sulla sostanza secca occorrente
giornalmente ai cavalli (da Peruchon)
Condizioni dell’animale Calcio Fosforo
e tipo di lavoro 1 anno 2 anni 3
anni
1 anno 2 anni 3 anni
In accrescimento:
Mantenimento...............
e lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
0,38
-
-
0,23
0,23
0,23
0,23
0,19
0,19
0,19
0,19
0,33
-
-
0,23
0,23
0,23
0,23
0,20
0,20
0,20
0,20
Adulti
Mantenimento
e lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
4,9
4,8
4,8
4,7
0,17
0,17
0,16
0,16
0,19
0,19
0,18
0,18
Gravide ultimo periodo 5,3 0,20 0,20
In lattazione 8,2 0,22 0,20
Fabbisogni in vitamine espressi in UI e in mg per kg di sostanza secca occorrente
giornalmente ai cavalli (da Peruchon)
Condizioni
dell’animale Vitamina A
UI/kg
Vitamina D3
UI/kg
Vitamina B2
mg/kg
e tipo di lavoro 1
Anno
2
anni
3
anni
1
anno
2
anni
3
anni
1
anno
2
ann
i
3
anni
In accrescimento:
Mantenimento....e
lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
12000
-
-
-
11000
11000
11000
13000
10000
10000
10000
12000
500
-
-
-
500
550
550
600
45
500
500
550
3,3
-
-
-
2,8
2,8
2,8
3,3
2,5
2,5
2,5
3,0
Adulti
Mantenimento
e lavoro leggero
e lavoro medio
e lavoro pesante
10000
10000
12000
12000
400
450
450
500
2,5
2,5
2,5
2,5
Gravide ultimo
periodo
13000
600
3,0
In lattazione 15000 700 3,7
263
8.7. Fabbisogni per la termoregolazione
Come si è già detto, solo una parte dell'energia metabolizzabile viene
trasformata in produzione (accrescimento, latte, carne, lana, prestazioni dinamiche)
mentre il resto è degradata a calore. I mammiferi e gli uccelli riescono a mantenere
costante il calore del loro corpo indipendentemente dalla temperatura ambientale in
cui vivono (termoregolazione). Praticamente, l'organismo animale oltre a produrre
calore, ne assorbe dall'esterno quando la temperatura ambientale è più elevata di
quella corporea e ne cede per evaporazione polmonare, per evaporazione cutanea,
con le feci, con le urine, con il latte (nel caso delle lattifere). L'animale a difesa dal
caldo ambientale, aumenta la dispersione con la vasodilatazione cutanea, accelerando
il battito cardiaco e la respirazione, sudando, riducendo il pannicolo adiposo
sottocutaneo, sfoltendo il pelo del proprio mantello. A difesa dal freddo, esso riduce
la dispersione del calore corporeo con la vasocostrizione cutanea, aumentando il
tessuto adiposo sottocutaneo, accelerando la crescita di un mantello folto e ricco di
sottopelo. La termoregolazione si ripercuote sui fabbisogni alimentari e su quello che
si dice appetito. Infatti, i consumi alimentari si elevano quando l'animale deve
combattere contro il freddo; mentre si riducono nel caso inverso, divenendo più
elevata la richiesta di acqua di abbeverata. I fabbisogni nutritivi degli animali posti in
condizioni ambientali tali da sollecitare l'intervento della termoregolazione non sono
stati quantitativamente e qualitativamente definiti. In genere bisogna mitigare quando
più possibile le condizioni climatiche, intervenire con una razione più abbondante in
glucidi nei periodi freddi e con alimenti più freschi e acquosi durante il caldo.
264
Alimentazione di altre specie di interesse zootecnico
8.8.1. Conigli - Secondo dati ottenuti presso la stazione sperimentale Fontana
(California), un mangime per conigli dovrebbe possedere 1.250 Kcal/kg di energia
netta e il valore energetico dei mangimi composti integrati pellettati oscilla tra
1.300-1.600 Kcal/kg. Naturalmente, le esigenze variano con lo stato fisiologico e lo
stadio riproduttivo.
Contenuto in sostanze nutritive digeribili e proteine
Stato fisiologico Sostanze nutritive
digeribili
(% dei mangimi)
Fabbisogno
proteico
(% su SS)
Mantenimento riproduttori 55 13-14
Gestazione 58 16-17
Lattazione 70 18-19
Accrescimento e ingrasso 65 17-18
Fabbisogni in aminoacidi, minerali e vitamine dei conigli da 4 a 12 settimane
Aminoacidi Minerali Vitamine
%
alimento
Elemento Quantità Quantità
Metionina
+ cistina
0,6 Calcio (%) 0,8 A (UI/100g) 500
Lisina 0,6-0,65 Fosforo (%) 0,5 D (UI/100g) 90
Arginina 0,8 Potassio (%) 0,8 E (ppm) 50
Treonina 0,55 Sodio (%) 0,4 B1 (ppm) 2
Triptofano 0,15 Cloro (%) 0,4 B2 (ppm) 8
Istidina 0,35 Magnesio (%) 0,04 B6 (ppm) 2
Isoleucina 0,6 Cobalto (ppm) 1 PP (ppm) 60
Leucina 1,05 Rame (ppm) 5 B12 (ppm) 0,01
Fenilanalina
+tirosina
1,2 Zinco (ppm) 50 Ac. pantotenico
(ppm)
20
Valina 0,7
Per quanto riguarda le esigenze proteiche, bisogna considerare che il coniglio a 1
settimana raddoppia il proprio peso e ad otto lo aumenta di 30 volte circa.
Relativamente alle esigenze in grasso, va detto che a differenza dei ruminanti, dove
si hanno turbe digestive allorquando la quantità di grassi digerita supera 1 g per kg di
peso vivo/giorno, nei coniglietti tale quantità può arrivare a 5 g. Si raccomanda di
fornire dal 2 al 3,5% di grassi, nella razione di mantenimento dei riproduttori maschi
e femmine e dal 3 al 5,5% in quella delle femmine gravide e allattanti.
265
Fabbisogni minerali e vitaminici nella dieta in diversi stadi fisiologici nei conigli
Elementi (Adulti) Mantenimento Gravidanza Lattazione
Minerali:
Calcio (%) 0,6 0,8 1,1
Fosforo (%) 0,4 0,5 0,8
Potassio (%) - 0,9 0,9
Zinco (ppm) 50 70 70
Vitamine:
A (UI/100 g - 900 900
D (UI/100 g) 50 90 90
K (ppm) - 2 2
I conigli, rispetto ai ruminanti, utilizzano in minor misura la fibra grezza la quale,
oltre che essere importante ai fini delle fermentazioni del cieco, ha soprattutto azione
meccanica in quanto favorisce la peristalsi intestinale. Il livello ottimale di fibra della
razione dovrebbe aggirarsi intorno al 14-19%. I livelli più elevati sono raccomandati
per i futuri riproduttori mentre quelli più bassi sono consigliati per le gestanti,
durante l’allattamento e nei soggetti da carne. Un contenuto in fibra al di sotto del
14% causa fenomeni di tricofagia. Il coefficiente d’utilizzazione (CUD) della fibra è
molto variabile nei coniglietti svezzati, infatti, è massimo 40 giorni dopo lo
svezzamento (40%), successivamente decresce fino stabilizzarsi intorno al 25%.
I fabbisogni della specie cunicola per quanto riguarda i minerali e le vitamine sono
poco conosciuti.
8.8.2. Volatili.
a) Pollo da carne: l’alimentazione del pollo da macellare deve mirare ad
ottenere pelle gialla o bianca, liscia, carni sode senza odori o sapori sgradevoli. Si
distinguono due periodi:
- avviamento (primi 35 giorni di vita), durante il quale, l’alimento deve contenere per
kg di sostanza secca 1900-2500 Kcal d’energia, il 24% di proteina grezza e un
elevato contenuto in vitamine ed elementi minerali;
- finissaggio: è rappresentato dalle 3-4 settimane che precedono la macellazione, in
cui il tasso proteico scende al 20% e il contenuto energetico aumenta a 2000-2600
Kcal/kg SS.
In entrambi i periodi è molto importante l’apporto d’aminoacidi (lisina, metionina,
arginina, triptofano e cisteina), elementi minerali (soprattutto calcio) e vitamine.
b) pollo da allevamento: interessa pulcini e pollastre destinate alla produzione
d’uova o alla riproduzione per le quali è preferibile evitare forzature al fine di
prolungare la produttività. Anche qui distinguiamo due periodi:
- il primo va dalla nascita fino a 8 settimane e il mangime è somministrato a volontà;
è consigliabile un buon mangime del tipo indicato per i polli da carne;
- nel 2° periodo (dai due ai 5 e 6 mesi rispettivamente per le razze leggere e pesanti)
si può praticare:
a) un’alimentazione ad libitum con mangime composto integrato a basso tenore
proteico (13% PG) ed energetico (1200 Kcal/kg alimento) e con elevato tenore in
fibra (14%); ciò facendo si ritarda la deposizione del primo uovo;
266
b) alimentazione ad libitum con mangimi composti integrati aventi il 16% di
proteine, il 7% di fibra e 1700-1800 Kcal/kg d’alimento; complessivamente favorisce
la produzione di uova.
c) ovaiole - si distinguono tre periodi: 1) va dalla 22^ (inizio deposizione) alla
42^ settimana di età, 2) dalla 42 alla 62^ settimana, 3) dalla 62^ fino al momento in
cui la produzione scende al di sotto del 55%.
Il fabbisogno energetico per kg di miscela si aggira sui 1900-2200 Kcal di energia
netta o 2800-3000 Kcal di energia metabolizzabile mentre, il contenuto proteico della
razione è in funzione della quantità di alimento ingerito giornalmente dalle ovaiole;
un ruolo di primissimo piano agli effetti di un’elevata produzione è giocato dai
singoli aminoacidi (la carenza di un solo aminoacido essenziale compromette la
produzione).
Fabbisogni proteici delle ovaiole
Fabbisogni PG (g/d)
1° periodo 2° periodo 3° periodo
Produzione uova 5,6 6,0 5,3
Mantenimento 3,0 3,0 3,0
Accrescimento 1,2 - -
Totale 10,2 9,1 8,4
Fabbisogno giornaliero
in PG della dieta
18,0
16,0
15,0
La razione giornaliera di un’ovaiola non dovrebbe contenere meno del 2,5-3% di
calcio (polvere di marmo, gusci d’ostrica).
Contenuto in aminoacidi e in elementi minerali (escluso calcio) nei mangimi
composti per ovaiole
Fabbisogni in % della dieta Minerali (20 - oltre 40 settimane)
Aminoacidi 22-42 settimane 42-62 settimane Elementi Fabbisogni
Arginina 0,9 0,8 Fosforo % 0,55
Istidina 0,34 0,3 Sodio % 0,15
Isoleucina 0,9 0,8 Potassio % 0,3
Leucina 1,35 1,2 Cloro % 0,15
Lisina 0,72 0,64 Magnesio mg/kg 500
Metionina 0,36 0,32 Manganese mg/kg 33
Cistina 0,29 0,26 Zinco mg/kg 30
Fenilanalina 0,79 0,7 Ferro mg/kg 40
Tirosina 0,36 0,32 Rame mg/kg 5
Treonina 0,63 0,56 Molibideno mg/kg 2
Triptofano 0,18 0,16 Selenio mg/kg 0,1
Valina 0,9 0,8 Iodio mg/kg 0,3
267
Contenuto in calcio e vitamine in mangimi per ovaiole
Fabbisogno in calcio (% ) Fabbisogni in vitamine
Mangime
consumato
g/capo/d
% deposizione
Vitamine
Produzione
uova da
consumo
Produzione
uova da
cova
50 60 70 80 90 A UI/kg 10.000 12.000
80 2,8 3,3 3,8 4,3 4,8 D3 UI/kg 2.000 2.000
90 2,5 3,0 3,4 3,9 4,3 E UI/kg 20 20
100 2,3 2,7 3,1 3,5 3,9 K3 mg/kg 3,5 4,0
110 2,1 2,4 2,8 3,2 3,6 B2 mg/kg 4,0 5,0
120 2,0 2,3 2,6 3,0 3,3 Acido pant. mg/kg 5,0 14,0
130 1,8 2,1 2,4 2,8 3,1
140 1,7 2,0 2,3 2,6 2,9
d) tacchini - Nella prima settimana di vita si somministra mangime sfarinato o
sbriciolato al 28% di proteina grezza, lo stesso mangime è somministrato fino
all’ottava settimana ma il tasso proteico scende gradualmente al 25, 20 e anche al
17% nelle ultime settimane
Caratteristiche chimiche e nutritive dei mangimi composti integrati destinati ai tacchini
Età (settimane) 0-4 5-8 9-12 13-16 >17
Proteine % 28-30 24-26 21-22 18-20 14-16
Lisina % 1,6-1,8 1,4-1,5 1,1-1,2 0,9-1 0,6-0,8
Metionina % 0,55-065 0,45-0,55 0,38-0,4 0,33-0,36 0,25-0,30
Met. + Cistina % 1,0-1,07 0,90-0,95 0,7-0,8 0,63-0,67 0,45-0,55
Calcio % 1,2-1,4 1,2-1,4 1-1,2 0.9-1 0,7-0,9
Fosforo utilizzabile % 0,7-0,8 0,65-0,75 0,60-0,65 0,55-0,60 0,35-0,45
Energia metabolizzabile
a) calorie/kg
b) MJ/kg
2750-2860
11,5-12
2750-2860
11,5-12
2790-2910
11,7-12,2
2840-2970
11,9-12,4
2840-2970
11,9-12,4
268
8.8.3. Cenni sulle esigenze nutritive dei pesci
L’acquacoltura è l’insieme delle attività e delle tecnologie riguardanti la
produzione di organismi acquatici attraverso il controllo di una o più fasi del loro
ciclo biologico e dell’ambiente in cui essi si sviluppano. La produzione
dell’acquacoltura italiana è attualmente stimata attorno a 130.000 tonnellate/anno.
Essa si articola in due comparti:
a) quello delle acque salmastre e marine che fa riferimento soprattutto alla
miticoltura ( circa 85.000 t/anno);
b) quello delle acque dolci: che riguarda le produzioni lacustri (circa 10.000 t/anno),
alla anguicoltura (2.550 t/anno), alla pescigattocoltura (1.550 t/anno) ed alla
carpicoltura (500 t/anno).
Gli aspetti più importanti relativi alla alimentazione delle specie ittiche riguardano:
- economico, mano mano che si risolvono i problemi intrinseci all’allevamento
intensivo, assume maggiore importanza la voce alimentare; ad es. nell’allevamento
della trota e del branzino l’alimentazione pesa sulle spese di allevamento per il 60%
ed in alcuni casi può arrivare fino all’80%:
- ambientale: in casi di elevati valori di densità e di forzature alimentari, il mangime
non utilizzato crea problemi di inquinamento;
- sanitario: bisogna meglio studiare i rapporti esistenti fra alimentazione e sanità del
pesce;
- gestionale: rapporto fra qualità dell’alimento, modalità di somministrazione e
caratteristiche del pesce.
Negli allevamenti intensivi si procede alla formulazione di mangimi che permettono
di ottenere le massime rese produttive (indici di conversione intorno a 1-1,5 e in
alcuni casi anche 2). La produzione di alimenti commerciali a costi ridotti
presuppone la conoscenza:
- dei fabbisogni nutrizionali degli animali allevati;
- delle caratteristiche e dei contenuti nutritivi degli alimenti;
- delle caratteristiche merceologiche ed economiche delle materie prime necessarie
alla loro formulazione.
Inoltre, bisogna considerare che: a) l’alimento deve essere considerato non solo come
apportatore di principi nutritivi e di sostanze ad azione oligodinamica, ma anche
come modulatore delle difese organiche e del sistema immunitario; b) è importante la
consistenza e la tenuta in acqua del mangime; c) l’ottenimento di incrementi
ponderali redditizi nell’allevamento intensivo sono legati a diete ricche in proteine
(25-50%).
Generalmente le diete per pesci vengono classificate in:
a) secche; b) umide (pastone di pesce crudo e di scarti della pesca) sono in genere più
economiche ma di più difficile reperibilità, possono contenere agenti patogeni e se
non utilizzate dai pesci possono costituire fonte di inquinamento idrico.
I pesci rispetto agli animali terrestri sono caratterizzati da una mancata necessità di
assicurare una omeotermia corporea, ridotte spese energetiche per il mantenimento
della stazione eretta e per il movimento, un minor costo del catabolismo proteico
dato che il prodotto finale è l’ammoniaca anziché l’urea o l’acido urico (ogni 2 moli
di azoto catabolico eliminati come ammoniaca invece che sotto forma di urea si
risparmiano 3 moli di ATP). Livelli ottimali di incrementi ponderali richiedono la
conoscenza dei fabbisogni energetici: le carenze di energie causano l’utilizzo delle
proteine ai fini energetici mentre, l’eccesso di energia può comportare una carenza
relativa di proteine e di principi alimentari e l’autoinquinamento dell’allevamento. Le
269
tecniche di valutazione dei fabbisogni energetici nei pesci sono analoghe a quelle
utilizzate per gli altri animali: calorimetria, incrementi ponderali, macellazioni
comparative. E’ opportuno definire un rapporto ottimale fra energia digeribile e
proteine (ED/P) che va da 3 a 9,7 per il pesce gatto, a 8,3 per la carpa.
I pesci di solito utilizzano carboidrati a basso peso molecolare, mentre, quelli ad
elevato peso molecolare sono utilizzati in maniera assai differente dalle diverse
specie ittiche; ad es. l’amido di mais crudo è utilizzato per il 40% nella trota e per il
60% nel pesce gatto. Il tipo di trattamento subito dai cereali, ne condiziona
l’utilizzabilità, quindi i trattamenti che migliorano la digeribilità enzimatica
dell’amido ne migliorano l’utilizzazione anche se non c’è proporzionalità fra
aumento di degradabilità enzimatica e miglioramento delle performance, a parità di
livello di inserimento, almeno nella trota. I trattamenti più efficaci sono quelli in
grado di indurre maggiore digeribilità dell’amido ed è importante notare che migliora
solo la velocità di crescita e non l’efficienza in termini di incrementi ponderali, ma
migliora l’efficienza energetica data la maggiore quota di energia depositata come
lipidi, nelle carni.
Gli acidi grassi insaturi ed insaturi sono una ottima fonte di energia. I dati
disponibili sulla utilizzabilità dell’energia alimentare nei pesci sono espressi
prevalentemente come energia digeribile, mentre, sarebbe più opportuno esprimerli
in termini di energia metabolizzabile, cioè sotto forma di energia realmente
disponibile a livello tissutale.
Ripartizione dell’utilizzazione dell’energia alimentare nei pesci
E.P.
- energia produttiva tessuti
- prodotti sessuali
E.M.
E.G. (alimenti)
E.D.
H.E.
- produzione di calore
- HeE
- HjE (attività volontaria)
- HiE (heat increment)
E.B. (branchie)
E.U. (urine)
E.S. (superficie corporea
E.F. (feci)
L’Heat increment (HiE) derivante dalla utilizzazione degli alimenti ingeriti è molto
più basso nei pesci che non nei mammiferi (3-5% nella trota rispetto al 30%),
soprattutto, perché nei primi vi è un più basso costo di escrezione dei cataboliti
azotati. Anche il fabbisogno energetico per il mantenimento (attività volontarie (HiE)
+ metabolismo basale (HeE)) nei pesci è inferiore ripetto agli animali terrestri da
reddito infatti, contro una produzione di calore (in una trota di 4 g), di 57 Kcal/kg di
peso metabolico (P0,63
) nelle 24 ore, i valori corrispondenti per i mammiferi e per gli
uccelli (P0,75
) sono pari a 70 e 83 Kcal/kg, con un incremento rispettivamente del 22
e 45%.
270
I lipidi sembrano un’importante fonte energetica per l’alta concentrazione di calorie e
per l’apporto di acidi essenziali, inoltre, sono veicoli per le vitamine liposolubili e
per gli steroli essenziali per i crostacei. Essi sono coinvolti in molti aspetti del
metabolismo, a livello di membrana come fosfolipidi ed esteri degli steroli, come
fattori protettivi essenziali (PUFA, vit. F), come precursori delle prostaglandine,
come struttura base degli ormoni steroidei. Il maggiore o minore fabbisogno di
specifici acidi grassi polinsaturi, da parte delle diverse specie ittiche, è strettamente
legata alla loro capacità di desaturare a omega-3 o di allungare le catene carboniose. I
pesci di acque fredde richiedono in genere una miscela di omega-3 e omega-6, la
Tilapia solo omega-6.
Le condizioni ambientali (temperatura, salinità) possono influenzare il fabbisogno in
differenti acidi grassi (EFA). Non tutte le specie hanno una particolare esigenza in
omega-3 e omega-6 ed il fabbisogno in EFA oscilla fra lo 0,5 e il 2% della SS della
razione. La maggior parte delle specie ittiche è in grado di sintetizzare gli steroli a
partire dall’ac. mevalonico e dall’acetato, ma ciò è insufficiente per molti crostacei
come il Penaeus japonicus per il quale si suggerisce un livello alimentare di
colesterolo dallo 0,5 al 2%.
Le proteine svolgono un ruolo assai rilevante nella alimentazione dei pesci in quanto
oltre alla tipica funzione plastica svolgono una precisa funzione energetica (anche se
molto costosa). I livelli proteici necessari per le diverse specie sono molto più elevati
rispetto a quelli di altre specie monogastriche quali i polli e i suini e ciò è giustificato
dalla tendenza degli aminoacidi ad essere ossidati direttamente per fornire energia,
dalla lenta attività proteosintetica del muscolo dei pesci, dalla scarsa capacità di
utilizzare gli zuccheri a livello digestivo e metabolico. Gli aminoacidi identificati
come essenziali sono: arginina, istidina, isoleucina, lisina, metionina, fenilanalina,
treonina, triptofano e valina.
271
CAP. IX DISMETABOLIE LEGATE AD ERRORI ALIMENTARI
9.1 Dismetabolie dei ruminanti
I principi nutritivi della razione influenzano i processi digestivi e metabolici e quindi
lo stato di salute e la produttività degli animali. L'alterazione dei processi digestivi si
traduce in disturbi dell' apparato digerente e quindi della digestione e assorbimento
dei principi nutritivi; invece l'alterazione dei processi metabolici porta alla rottura
dell'omeostasi interna dell'organismo e quindi all'alterazione di uno o più
metabolismi critici. L'allevatore e, soprattutto, il veterinario nei confronti di tali
problemi devono considerare l'allevamento in toto e non il singolo individuo il quale
può rappresentare, invece, il campanello di allarme.
L'alimentazione è uno dei fattori che determinano le cosiddette "malattie
condizionate" (tossinfezioni da c1ostridi, mastiti, parassitosi). Le turbe dell'apparato
digestivo di natura alimentare che colpiscono gli animali adulti sono spesso
attribuibili alla diretta conseguenza di repentini cambi di alimentazione, a deficit o
eccessi nutrizionali. Tra esse ricordiamo: meteorismo ruminale, acidosi e alcalosi
ruminale.
È utile ricordare che, nella pecora rispetto ai bovini, il volume totale dei prestomaci
in rapporto al peso dell'animale è inferiore, mentre si ha una maggiore efficacia della
masticazione e una minore velocità di transito dei solidi attraverso l'apparato
digerente (20 contro 28 ore). Il bovino sembra digerire meglio i foraggi grossolani
mentre, la pecora è capace di utilizzare meglio gli amidi e possiede una maggiore
capacità di ingestione della sostanza secca in rapporto al peso corporeo.
I disturbi più insidiosi e pericolosi per l'allevamento sono quelli che, non essendo
caratterizzati da una specifica sintomatologia, non vengono diagnosticati e,
perdurando nel tempo, causano altre patologie. I disturbi dei processi fermentativi e
digestivi possono causare scarsa utilizzazione dei componenti della razione (energia,
proteine, minerali, vitamine) o produzione di sostanze tossiche o inibenti che
influenzano negativamente la funzionalità di organi e apparati.
Fra i disturbi dei prestomaci ricordiamo:
- Indigestione semplice: la causa più frequente è rappresentata da un repentino
passaggio a diete con alte quantità di carboidrati facilmente fermentescibili, basso
contenuto in fibra e, spesso, associate a un elevato apporto di proteine solubili (erba i
fase di crescita). Nel caso in cui prevalgono i carboidrati si sviluppano maggiormente
i batteri capaci di un rapido metabolismo i quali tollerano un pH tendenzialmente
basso, il che fa diminuire o scomparire del tutto i protozoi dal rumine.
Se sono presenti contemporaneamente grandi quantità di proteine solubili prevalgono
i batteri con attività ureasica con conseguente produzione di ammoniaca del rumine
ed alcalinizzazione del suo contenuto. L'ammoniaca che sfugge alle fermentazioni
ruminale, attraverso il circolo arriva al fegato dove viene convertita in urea
provocando un aumento della sua concentrazione nel sangue (> 60 mg/dl, negli
ovini).
La fermentazione dei carboidrati porta alla formazione di AGV che, se in grande
quantità, inibiscono la motilità del rumine e quindi le fermentazioni stesse; ne
consegue un ripristino della motilità dell'organo nel giro di pochi giorni. Questo tipo
di alimentazione fa diminuire la masticazione, la quantità di saliva prodotta e,
soprattutto, impedisce la stratificazione dell'alimento con conseguente maggiore
velocità di transito. Peraltro, l'accumulo di sostanze osmoticamente attive sia nel
272
rumine che nell'intestino richiama acqua e, quindi, provoca diarrea di tipo osmotico.
Oltre all'anoressia, in questi casi è dato dalla diarrea che:
a) Nel caso caso di concentrati è di colore marrone-grigio con presenza di grani
indigeriti;
b) Nel casoso di alimentazione a base di pascolo è di colore marrone-verdastro.
Queste turbe possono essere prevenute evitando bruschi cambi di alimentazione e
somministrando fibra, meglio se lunga. Nel concentrato è indispensabile anche
aggiungere dei tamponi ruminali, quali il bicarbonato di sodio o tamponi intestinali
come l’ossido di magnesio. Una buona fermentazione dei carboidrati necessita anche
apporti di azoto, zolfo e minerali essenziali.
- Acidosi ruminale: l'acidosi ruminale può essere acuta o cronica.
La forma acuta è causata da una eccessiva ingestione di carboidrati facilmente
fermentescibili (cereali, mangimi, insilati, frutta, radici) che causano produzione di
acido lattico e diminuzione del pH ruminale, senza un preventivo adattamento del
rumine. La gravità dell'acidosi varia in funzione della quantità e tipo di alimento,
nonché dal grado di specializzazione della microflora ruminale.
Una produzione di lattato prolungata fa abbassare il pH ruminale fino a 5-5,5 e fa
aumentare l' osmolalità nel rumine; tutto ciò porta alla uccisione dei protozoi e di
altri microrganismi che utilizzano l'acido lattico, mentre aumenta la popolazione dei
batteri producenti acido lattico.
Nella prima fase della fermentazione acida si producono molti AGV i quali sono più
deboli rispetto all'acido lattico e, quindi, si legano all'idrogeno fungendo da tamponi
e con il risultato di essere assorbiti più rapidamente e se l'assorbimento attraverso la
parete ruminale è eccessivo si ha un'acidosi sistemica. Peraltro, grosse quantità di
AGV non dissociati nella mucosa della parete ruminale causano stasi ruminale. Con
1'acido lattico aumenta la pressione osmotica del liquido ruminale che da circa 280
Osm/L può passare al doppio; ciò condiziona un richiamo di acqua dal comparto
vascolare, con conseguente aumento e fluidificazione del contenuto ruminale che a
sua volta provoca una distensione dell' organo (idrorumine) e notevole disidratazione.
La diminuzione dei liquidi organici fa diminuire il volume del sangue e la
diminuzione della perfusione periferica causa uno stato ipossico che aggrava
l’acidosi sistemica. Considerando che l'acido lattico è un agente corrosivo, quando
raggiunge elevate concentrazioni può distruggere l'epitelio ruminale (ruminite
tossica). Con il tempo, il rumine può cicatrizzare ma gli ascessi possono liberare
emboli batterici che possono raggiungere il circolo portando alla formazione di
ascessi epatici metastatici. Inoltre, va considerato che l'alterato metabolismo della
microflora ruminale può portare alla formazione di grandi quantità di istamina
aggravando, così, la patologia.
Generalmente, sono più colpiti gli animali in lattazione meno quelli in stato avanzato
di gravidanza e le femmine da rimonta (forse per una minore capacità di ingestione).
Nell’acidosi acuta, il primo sintomo è rappresentato da una distensione del rumine e
da spasmi addominali che provocano dolore e sono accompagnati da anoressia totale;
successivamente, gli animali smettono di ruminare e alcuni sembrano ubriachi o
parzialmente ciechi, la frequenza cardiaca aumenta e si ha una profusa diarrea, le feci
assumono colore chiaro e forte odore acido. In seguito, si ha disidratazione e se si
hanno danni renali si verifica 1'anuria. 24-48 ore dopo 1'animale è costretto al
decubito anche perché può comparire una podoflemmatite acuta.
- L’acidosi subacuta e cronica: sono causate da razioni ricche in carboidrati e povere
di fibra strutturata. La forma subacuta si osserva ad inizio lattazione quando vengono
273
somministrati molti carboidrati o gli animali sono portati in pascoli rigogliosi senza
un periodo di adattamento. I sintomi sono quelli dell'indigestione semplice che però
perdurano per diversi giorni. Peraltro, si possono verificare zoppie (laminite asettica),
mastiti (aumento cellule somatiche nel latte), eccessivo calo di peso, diminuzione
produzione lattea. La forma cronica colpisce soprattutto gli animali all'ingrasso dove
la popolazione microbica ruminale si adatta alle elevate quantità di cereali ingerite
dall'animale e si sviluppano, soprattutto, batteri producenti acido lattico il quale non
si accumula ma viene metabolizzato dai batteri. Si produce una elevata quantità di
AGV che fa abbassare leggermente il pH ruminale, ridurre la motilità ruminale,
ridurre il numero di specie microbiche (soprattutto protozoi) con conseguente scarso
utilizzo della componente proteica della dieta. L'aumento dell'acido propionico e
butirrico stimola la proliferazione delle papille dell'epitelio ruminale portando ad una
paracheratosi ruminale che a sua volta riduce l'assorbimento degli AGV e aumenta la
suscettibilità ai traumi e all'infiammazione del tessuto profondo della parete
ruminale. Le lesioni prodotte lasciano passare i batteri che arrivano al fegato e altri
tessuti dove causano ascessi epatici. I sintomi più evidenti sono: ridotto appetito,
ipocinesia ruminale, ritardo dell'accrescimento, sintomi di risposta infiammatoria
cronica. In alcuni casi si verificano la laminite e la necrosi cerebrocorticale o
polioncefalomacia forse perchè la fermentazione acida del rumine conduce alla
produzione di tossine quali istamina e tiaminasi.
Timpanite o meteorismo - E' un disordine digestivo caratterizzato da una eccessiva
produzione di gas di fermentazione ruminale, soprattutto C02 che per cause varie non
vengono eruttati con la stessa rapidità con la quale si formano. Oltre ad una possibile
predisposizione soggettiva, le cause che possono determinare il rigonfiamento del
rumine sono diverse: possono essere di natura meccanica, per ostruzione
dell'esofago; di natura fisiologica per condizioni di pH troppo distanti da quello
ottimale (pH 5-6), che riducono la motilità delle pareti del rumine; di natura chimica,
per la presenza di particolari sostanze nell'alimento che oltre a ridurre i movimenti
peristaltici, interferiscono nell'eruttazione dei gas. La causa, comunque, più diffusa è
individuabile in una errata formulazione della razione alimentare che si verifica
quando predominano le foraggiere fresche, soprattutto le leguminose allo stadio
vegetativo che precede la fioritura, ricche di carboidrati facilmente fermentescibili, di
proteine, di acqua e povere di fibra. Poiché tali essenze sono molto appetite, l'animale
tende ad ingerirne grosse quantità senza svolgere una accurata masticazione; di
conseguenza diminuisce anche la quantità di saliva prodotta che, per la presenza di
discrete percentuali di sali, svolge una funzione tensioattiva inibente la formazione di
schiuma.
Quando l'alimento giunge nel rumine, i microrganismi ruminali proliferano
fermentando i carboidrati con produzione anche di CO2 e CH4, i quali vengono
espulsi per via orale con l’eruttazione, mentre nel caso della timpanite vengono
trattenuti dalla viscosità del liquido ruminale, dovuta alla presenza relativamente alta
di proteine nell'alimento. Si forma così una massa schiumosa che trattiene i gas di
fermentazione e che aumentando progressivamente di volume esercita una notevole
pressione sulle pareti del rumine riducendone la motilità. Di conseguenza, l'alimento
sosta in tale prestomaco e non riesce a defluire nelle cavità gastriche successive: ciò
incentiva la proliferazione di microrganismi e le conseguenti fermentazioni,
innescando un rapporto di causa effetto senza possibilità di risoluzione naturale. A
gonfiore ruminale manifesto, si può intervenire introducendo nel rumine particolari
sali che riducono la tensione superficiale del liquido favorendo l'emissione dei gas,
274
oppure sostanze antibiotiche che inibendo lo sviluppo microbico, riducono l'entità
delle fermentazioni. In caso di stadio troppo avanzato, è consigliabile incidere il
fianco sinistro al centro del cavo del fianco con un tre quarti e lasciando il fodero del
tre quarti in loco si effettua una puntura che permette il deflusso dei gas. La
prevenzione consiste nel somministrare agli animali, insieme ai foraggi freschi, anche
foraggi ricchi di fibra; non bisogna far pascolare gli animali in prati di leguminose
bagnate; bisogna somministrare prima foraggi secchi e poi quelli freschi. La
timpanite può assumere talora andamento cronico e ciò si verifica soprattutto negli
animali all'ingrasso i cui regimi alimentari prevedono un uso massiccio e sistematico
di mangimi ad alto valore energetico e, quindi, molto ricchi di carboidrati.
Tossicosi da urea e da eccesso proteico (alcalosi) - La tossicosi da urea è un
disordine metabolico digestivo determinato da un eccesso di questa sostanza nella
razione dei poligastrici. L'urea a livello ruminale, viene trasformata in ammoniaca e,
come tale, successivamente utilizzata dai microrganismi simbionti per la sintesi delle
proteine cellulari. Qualora la concentrazione di urea nella dieta sia eccessiva si
verifica un innalzamento del pH ruminale e, conseguentemente, alcalosi con arresto
della peristalsi dell'organo, blocco della digestione e timpanite. L'alcalosi ruminale
inibisce, infatti, l'attività della micropopolazione simbionte per cui gran parte delle
macromolecole, come la cellulosa e l'amido, rimangono indigerite e ristagnano nel
rumine; inoltre, l'ambiente alcalino, alterando la normale permeabilità delle pareti
ruminali, favorisce la diffusione dell'ammoniaca nel sangue.
In condizioni di iperammonemia nel sangue si verifica ipertrofia nel fegato, danni
all'apparato urinario, danni al sistema nervoso che determinano dapprima stati
convulsivi e successivamente coma e morte dell'animale.
Nella fase iniziale della tossicosi si può intervenire somministrando alimenti con
elevata concentrazione di carboidrati che incentivano la proliferazione batterica e
quindi l'assorbimento di ammoniaca; inoltre, all'aumento dell'attività microbica fa
seguito una più intensa produzione di acidi grassi volatili (AGV) che abbassano il pH
ruminale ripristinando le normali condizioni di motilità. Oltre ai carboidrati, è
consigliabile somministrare sostanze acide, ad esempio aceto in soluzione al 50%.
Nella fase avanzata della tossicosi, quando cioè cominciano ad evidenziarsi
manifestazioni tetaniche, non è più possibile alcun tipo di intervento.
Anche la somministrazione di eccessive quantità di proteine può determinare stati
tossici; infatti, le proteine nel rumine subiscono un processo di deaminazione che
porta alla formazione di ammoniaca libera, con le conseguenze già descritte. Oltre ad
alterazioni di tipo digestivo, però si verificano e sono ben più gravi alterazioni di tipo
metabolico con effetti negativi sulle produzioni economiche e sulla fertilità
dell'animale, dovute anche alla formazione di corpi chetonici che contribuiscono ad
aggravare stati di chetosi.
Turbe intestinali
Il principale sintomo delle turbe intestinali è la diarrea, causata da alterazioni
alimentari. Nei ruminanti, le feci molli sono dovute spesso a disturbi delle
fermentazioni ruminali e all’elevata velocità di transito. I meccanismi che sono
coinvolti nella diarrea sono il malassorbimento (atrofia dei villi), il sovraccarico
osmotico, attività secretoria aumentata, elevata motilità e aumento della pressione
idrostatica tra comparto ematico e lume intestinale. Nelle turbe causate da errata
alimentazione prevale il meccanismo osmotico a causa di un aumento della velocità
275
di transito, che porta all'intestino quantità superiori a quelle che possono essere
assorbite di carboidrati e lipidi; le quantità indigerite e non assorbite si accumulano
nel grosso intestino con aumento dei processi fermentativi e delle particelle attive
osmoticamente. L'aumento delle fermentazioni nel grosso intestino possono
predisporre l'instaurarsi di forme infettive quali le gastroenterotossiemie da clostridi e
l'infezioni da Listeria monocytogenes la quale si verifica soprattutto con la
somministrazione di insilati con pH superiore a 5.
Va ricordato che, nella pecora rispetto al bovino la velocità di transito degli alimenti
è maggiore e, quindi, la funzione di filtro dei prestomaci può più facilmente essere
compromessa. La somministrazione di granelle di cereali (orzo) tal quali può far sì
che esse non vengano digerite a livello ruminale ed essere fermentate nel grosso
intestino: si consiglia di controllare se nelle feci vi è molta granella indigerita.
Inoltre, si consiglia di bagnare la granella per 8-12 ore prima di somministrarla o
ricorrere alla schiacciatura o fioccatura.
Collasso puerperale (paresi post-partum, febbre del latte, parto alla testa)
E' un disordine metabolico causato da un'alterazione dell'equilibrio minerale del
calcio nei liquidi organici. La eziologia del collasso puerperale deriva in massima
parte da una insufficienza dei fattori ormonali, in specie le ghiandole paratiroidee,
che normalmente operano per mantenere costante il livello del calcio nel sangue, e
non è perciò affatto condizionata dalle quantità di calcio presenti nella dieta
alimentare, la cui quota di utilizzazione nutritiva non può essere influenzata da
maggiori momentanee esigenze fisiologiche, mentre viene depressa in presenza di
maggiori quantità negli alimenti. La calcemia scende da un valore normale di 9-12
mg % a livelli di 5-6 mg % ed anche meno, la fosfatemia e la magnesemia possono
viceversa mantenersi intorno a valori normali (4-9 e 2-3 mg %, rispettivamente)
oppure abbassarsi e il collasso assume maggiore gravità e può dare origine a ricadute.
La malattia si manifesta entro 2-5 giorni dal parto con paresi (incapacità della bovina
ad alzarsi). Questo sintomo può essere preceduto da spasmi muscolari, andatura
incerta e barcollamento del treno posteriore; successivamente, la bovina si distende
senza più tentare di alzarsi. Cade in uno stato comatoso, lo sguardo diventa cupo,
fisso, le pupille si dilatano ed il musello si presenta asciutto. Nello stato di paresi, i
muscoli del tratto intestinale perdono di tono e si può anche verificare il prolasso del
retto. La temperatura dell'animale si abbassa a 36,5-38 °C. Se la malattia compare a
lattazione avanzata, i sintomi possono essere confusi con quelli di altre forme
morbose come l'acetonia, ma in quest'ultimo caso le urine sono più scure per la
presenza di corpi chetonici. I soggetti più colpiti sono le grandi lattifere dal 3° parto
in poi. Molto probabilmente esiste una certa predisposizipne ereditaria verso il
collasso, per la trasmissione di caratteri che determinano un'insufficiente capacità di
adattamento dei meccanismi regolatori del ricambio minerale Durante la fase di
asciutta, corrispondente agli ultimi due mesi di gravidanza, la bovina utilizza buona
parte del calcio per l'ossificazione del feto; in prossimità del parto una parte del
calcio viene sottratta dalla ghiandola mammaria che inizia la secrezione del colostro.
In condizioni normali, l'organismo provvede a tali necessità incentivando la
mobilizzazione del calcio dalle riserve ossee ed aumenta la capacità di assorbimento
intestinale del calcio presente negli alimenti. L'utilizzazione del calcio fissato nel
tessuto osseo dipende dalla funzionalità delle ghiandole paratiroidee che, a loro volta,
sono condizionate dalla presenza del fosforo. L'assorbimento intestinale del calcio
alimentare è invece influenzato da numerosi fattori, quali:
276
- età dell'animale in quanto è maggiore nei giovani:
- rapporto Ca/P durante le ultime 3 settimane di asciutta; se è troppo largo predispone
al collasso in quanto riduce la quota di calcio assorbita dopo il parto. Se, quindi, la
razione prevede un largo impiego di foraggere leguminose dove il rapporto Ca/P è >
5 si rende necessaria l'integrazione con sali fosfatici privi di calcio;
- presenza di vitamina D;
- diminuzione dell'appetito (frequente dopo il parto).
La prevenzione, anziché l'aumento del calcio nella dieta, deve prevedere la
stimolazione della mobilizzazione delle sostanze minerali ossee per dar loro modo di
confluire nel sangue per mantenervi costante il tasso calcico. Ciò, si ottiene sia
causando tale mobilizzazione artificialmente (somministrazione di massicce quantità
di vitamina D), sia attivando il normale fattore endogeno (la paratiroide), mediante
somministrazione di alimenti ricchi in fosforo, prima dell'inizio della lattazione
La terapia consiste nella somministrazione di sali di calcio e di magnesio e
contemporaneamente vitamina D per favorire l'assorbimento intestinale del calcio. Se
la malattia non è curata in tempo si possono manifestare fenomeni di
autointossicazione, infezioni batteriche, traumatismi. La prevenzione si basa nella
somministrazione di vitamina D (10.000 U.I.) circa 7 giorni prima del parto e
nell'utilizzo di diete con rapporto Ca/P di 1: 1.
Tetania da erba - E' un disordine metabolico indotto da un'alterazione del rapporto
Mg/K che si verifica soprattutto nelle vacche in lattazione, a seguito del passaggio
drastico dall'alimentazione secca a quella verde.
Il pascolamento, particolarmente all'inizio della primavera, fornisce foraggi molto
appetiti perché teneri e succulenti ed il bestiame tende a consumarne in grandi
quantità. Tali essenze sono però caratterizzate da un'alta percentuale di K e da uno
scarso tenore in Mg. Poiché questi elementi sono dei regolatori del meccanismo della
eccitabilità neuromuscolare: il K ha funzione eccitante; il Mg in sincronia con il Ca
ha un ruolo moderatore, ne emerge un'alterazione complessiva di tale meccanismo.
La sintomatologia ha andamento progressivo ed è caratterizzata da stati di
nervosismo, perdita di appetito, salivazione abbondante, calo della produzione lattea,
convulsioni e tetania, fino ad arrivare a stati comatosi ed anche morte dell'animale.
Quando la disfunzione si manifesta bisogna intervenire immediatamente sugli
animali con iniezioni di composti fisiologici di magnesio per via intramuscolare e di
calcio per via endovenosa. Contemporaneamente, l'alimentazione viene integrata con
composti minerali e si sospende la somministrazione di foraggio verde.
Preventivamente si possono effettuare concimazioni con concimi magnesiaci nei
terreni che presentano carenze di Mg, in modo tale che il contenuto di questo
elemento nel foraggio raggiunga valori dello 0,2% sulla sostanza secca.
Dismetabolie legate al metabolismo energetico
- Acetonemia o chetosi - L'acetonemia è una dismetabolia che colpisce
prevalentemente le grandi lattifere. Essa si manifesta con riduzione dell'appetito,
perdita di vivacità, respiro affannoso, eccessiva salivazione, dimagrimento e quindi
ridotta produzione di latte e fertilità. La chetosi insorge nel momento in cui nel
sangue si modifica il rapporto tra il contenuto di glucosio e quello dei corpi chetonici
(acido acetoacetico, acido idrossibutirrico, acetone) a favore di questi ultimi. La
chetosi è una patologia legata ad intensa lipomobilizzazione che comporta un
notevole flusso di acidi grassi non esterificati (NEF A) al fegato e ad un' eccessiva
277
produzione, oltre la capacità d'utilizzo da parte dell'organismo, di acetil-coenzimaA,
proveniente dalla -ossidazione degli acidi grassi; in tale condizione avviene la
condensazione di due molecole di acetil-coenzimaA con produzione finale di β-
idrossibutirrato, acetoacetato ed acetone, noti con il nome di corpi chetonici e che
vanno a concentrarsi nel sangue.
In condizioni normali, la demolizione dei lipidi di riserva porta alla produzione di
acetil-CoA il quale entra nel ciclo metabolico terminale. La mancata produzione di
acido piruvico comporta l'arresto del ciclo di Krebs e, di conseguenza, la mancata
utilizzazione dell'acetil-CoA che, per condensazione, va a formare i corpi chetonici.
Nel fegato si verifica una più o meno accentuata tendenza alla steatosi dovuta, in
parte, all'accumulo di una parte dei NEFA riesterificati in trigliceridi e in parte per
diminuita sintesi di lipoproteine necessarie a trasportare i grassi del fegato al sangue
e ai tessuti periferici. La steatosi epatica comporta una ridotta efficienza dell'epatocita
che, si traduce anche in un versamento di bilirubina coniugata dal fegato al circolo
sanguigno con un suo conseguente aumento nel sangue. L'origine della chetosi è,
comunque, molto complessa e oltre che al deficit energetico va attribuita a numerosi
meccanismi neurormonali responsabili del metabolismo glicolipidico. Infatti, la
mobilizzazione dei lipidi di deposito inizia già prima del parto e tale processo è
determinato da alcune variazioni ormonali. Secondo qualche autore, l'ormone più
coinvolto è l'insulina (una sua diminuzione comporta un aumento dei NEFA),
mentre, secondo altri, oltre all'insulina assumono un ruolo non indifferente il
glucagone e l'ormone somatotropo, i quali determinano una mediocre utilizzazione
periferica permanente dei principi nutritivi al fine di aumentare i nutrienti-base per la
sintesi del latte. In definitiva, quindi, la chetosi può essere considerata una sindrome
dismetabolica a forte componente neurormonale che si caratterizza per alterazioni del
metabolismo glicolipidico con ipoglicemia più o meno marcata e presenza di corpi
chetonici nel sangue e nelle urine. L’ipoglicemia determina una minore disponibilità
di energia per l'organismo con rallentamento di tutti i processi biologici implicati nel
mantenimento e nell'anabolismo degli animali. La chetosi può, quindi, essere causa
scatenante di altre affezioni (ipofertilità, aumento di cellule somatiche nel latte,
immunodepressione).
Il momento più critico per la comparsa della malattia nelle lattifere è il periodo post-
partum quando l'appetito è generalmente ridotto e le richieste energetiche molto
elevate. Il fatto diventa grave nelle bovine grasse, che potendo utilizzare le proprie
riserve adipose, avvertono di meno lo stimolo ad alimentarsi. L'insorgenza della
chetosi è incentivata dalla presenza nella dieta di sostanze chetogeniche, come l'acido
butirrico che a livello metabolico dà origine all'acido β-idrossibutirrico; negli insilati
che hanno subito processi fermentativi anomali tale sostanza raggiunge livelli molto
alti. La dismetabolia è influenzata sia dalla carenza di sali minerali e vitamine nella
dieta, in quanto alcune di tali sostanze costituiscono parte integrante di strutture
enzimatiche ed ormonali che intervengono nel metabolismo dei corpi chetonici
stessi, sia dalle tecniche di allevamento come dimostra la maggiore frequenza di
questa patologia in condizioni di stabulazione permanente rispetto agli animali tenuti
al pascolo, considerando che il moto favorisce la combustione dei corpi chetonici
La patologia può essere prevenuta con una corretta alimentazione. Nelle vacche in
asciutta bisogna evitare l'eccessivo ingrassamento, salvo arricchire la razione nelle
ultime due settimane prima del parto per integrare le riserve di glucosio e di
glicogeno che l'animale utilizzerà nella prima fase di lattazione per coprire l'intensa
richiesta energetica; mentre negli animali in lattazione la razione deve essere
278
formulata in modo da non superare un contenuto in proteine del 12-14% sulla s.s., da
garantire un contenuto in fibra del 18-20% sulla s. s. e da limitare o escludere insilati
con tenore in acido butirrico superiore all' 1-1 ,5%. Negli ultimi anni si è diffuso, con
risultati positivi, l'utilizzo del glicole propilenico (1,2-propandiolo) miscelato nella
razione unifeed o nell'acqua di bevanda.
Una dismetabolia simile si verifica. nella pecora e va sotto il nome di tossiemia
gravidica o chetosi della pecora o ancora malattia degli agnelli gemelli. Essa è
causata da un bilancio energetico negativo risultante dalle aumentate richieste del
feto o dei feti in rapido accrescimento che si verifica nelle ultime 2-4 settimane pre-
parto. Vengono colpite soprattutto le pecore con più di 1 lattazione ma anche
primipare con gravidanze gemellari. Le cause sono da attribuire all'ingestione di
foraggi scadenti o a una diminuita ingestione volontaria in pecore gravide troppo
grasse. Peraltro, brusche variazioni alimentari, presenza di altre malattie (pedaina,
parassiti intestinali), stress ambientali possono ridurre l'ingestione alimentare e
favorire la tossiemia alla cui insorgenza contribuisce anche la carenza di altri
nutrienti quali colina e biotina. Così come avviene in tutti i ruminanti, le pecore non
sono in grado di regolare le richieste di glucosio del feto e, quindi, devono attingere
dalle riserve corporee in presenza di apporti alimentari. Il glucosio necessario ai
fabbisogni energetici dei tessuti e del feto in buona parte viene sintetizzato o dal
fegato a partire dall'acido propionico o attraverso la neogluconeogenesi a partire dagli
aminoacidi glucogenetici, dal lattato e dal glicerolo oppure deriva dalla digestione
intestinale degli amidi sfuggiti all'attacco ruminale. Quando i precursori del glucosio
e il glucosio derivante dalla digestione intestinale sono insufficienti si verifica
ipoglicemia che porta alla depressione del sistema nervoso centrale.
Nei primi stadi della malattia gli animali presentano ipoglicemia, livelli elevati di
NEFA, iperchetonemia e chetonuria. Nella forma più avanzata e con insufficienza
renale si osserva una riduzione fino al 50% del bicarbonato; i livelli ematici di β-
idrossibutirrato aumentano (> 1 mmol/l), i feti si possono presentare in avanzato stato
di decomposizione; il fegato è ingrossato, pallido, friabile e con superficie di taglio
untuosa (steatosi epatica di vario grado).
Per la prevenzione, le pecore vanno osservate singolarmente nelle ultime settimane di
gravidanza e andrebbero individuate le gravidanze gemellari. Come indice di spia
può essere utilizzato il β-idrossibutirrato e se la sua concentrazione supera i 4,8 mg/dl
(0,8 mmol/l) bisogna aumentare il livello nutritivo.
9.2 Principali disturbi degli equini dovuti all’alimentazione
I disturbi dovuti all'alimentazione sono, nella maggior parte dei casi, dovuti a
degli errori di razionamento.
I disturbi attribuibili all'alimentazione sono numerosi e, talvolta, difficili da
diagnosticare. I più ricorrenti sono la mioglobinuria, l'arrembatura, le coliche: essi
sono molto spesso dovuti ad errori grossolani di razionamento. Le patologie
osteoarticolari sono le più insidiose. Esse sono legate ad errori del razionamento
minerale e/o vitaminico.
L'osteofibrosi è l'affezione più grave e la più comune legata ad un errato
razionamento fosfo-calcico. Essa colpisce i giovani cavalli (puledri di un
anno o più anziani) ma anche gli adulti. In taluni luoghi, l'osso è la sede di
una modificazione chiamata metaplasia fibrosa, che è una sorta di
proliferazione anarchica dei tessuti fibrosi che possono tradursi in un
ispessimento o in una deformazione locale della superficie ossea. L'osso
279
diventa inoltre più fragile. Queste lesioni si osservano sia a livello della testa
(ispessimento simmetrico delle ossa della faccia: "testa di ippopotamo"
osservate talvolta negli asini dei mugnai) o, più spesso, a livello degli arti
(soprosso, spavenio, callosità dure in genere, ben conosciute dai cavalieri).
Allorché queste deformazioni risiedono a livello delle articolazioni o delle
guaine tendinee, esse determinano gravi zoppie, permanenti ed intermittenti.
L'osteofibrosi è legata ad una carenza di calcio associata il più delle volte ad un
eccessivo apporto di fosforo. Essa è, dunque, favorita dalle razioni molto ricche in
cereali, l'abuso di pastoni (mashes) a base di crusca, l'utilizzazione di foraggi di
mediocre qualità senza leguminose, una scelta sbagliata nella integrazione minerale.
L'apporto di vitamina D senza correzione in calcio è egualmente nociva. Non bisogna
perdere di vista che non si tratta solamente di assicurare gli apporti minimi di calcio
previsti dalle tabelle degli apporti, ma di mantenere allo stesso tempo un rapporto
Ca/P dell'ordine di 1,5 per "equilibrare", all'occorrenza, l'effetto di un eccessivo
apporto di fosforo.
Il rachitismo si traduce in anomalie dello sviluppo e dell'accrescimento osseo (difetto
di mineralizzazione) e delle deformazioni dello scheletro (ipertrofia delle estremità
ossee) nell'animale in accrescimento. Esso è dovuto ad un apporto difettoso di calcio
e/o fosforo, associato ad una carenza di vitamina D. Di fatto, esso è relativamente
raro nel cavallo in rapporto all'osteofibrosi. Conviene, tuttavia, essere vigili in ciò che
concerne gli apporti di fosforo negli animali in accrescimento, ogni qualvolta i
foraggi utilizzati siano di cattiva qualità o si impieghino alimenti particolarmente
privi di fosforo (per esempio le polpe di barbabietola disidratate).
L'osteomalacia ha le stesse cause del rachitismo, ma interessa le ossa che hanno
portato a termine il loro accrescimento e che sono oggetto di insufficiente
mineralizzazione. Non provoca deformazioni importanti.
Alterazioni dell'appetito e affaticamento eccessivo: l'insufficienza cronica degli
apporti di cloruro di sodio si traduce in una alterazione dell'appetito, nell'ispidità del
crine o nell'apparizione precoce di segni di fatica nello sforzo. L'eccesso di cloruro di
sodio è eccezionale.
Malattia del muscolo bianco: una sola carenza in oligoelementi ha un'importanza
primaria nel cavallo: è la carenza di selenio. Essa è responsabile della malattia del
muscolo bianco che può essere osservata molto precocemente, qualche settimana
dopo la nascita o sugli animali adulti. È legata all'apparizione di una degenerazione
muscolare di colore biancastro (da cui deriva il nome corrente della malattia) a livello
dei muscoli scheletrici o del cuore, provocando delle difficoltà motorie più o meno
importanti, od una morte violenta per insufficienza cardiaca. Nei cavalli da carne
adulti, la carenza in selenio favorisce ugualmente le lesioni fibrolipomatose che
rappresentano una causa importante del sequestro al macello. La carenza in selenio è
legata ad una deficienza dei foraggi stessi, che a sua volta dipende da una carenza del
terreno. Si può rimediare con l'integrazione minerale o per iniezione di composti a
base di selenio, alla giumenta in gestazione o in lattazione. Questi apporti devono
essere fatti in modo molto rigoroso, perché l'eccesso di selenio può provocare una
gravissima intossicazione. L'apporto di vitamina E associata a selenio ha un effetto
coadiuvante.
Equilibrio concernente gli oligoelementi: le carenze sono molto rare nel cavallo
rispetto ai ruminanti. Una carenza in zinco può, tuttavia, essere osservata
traducendosi in modificazioni cutanee (caduta dei peli, ispessimento della pelle,
eczema). Il gozzo del puledro può apparire ugualmente allorché le giumente siano
280
carenti in iodio.
Gli eccessi di oligoelementi sono talvolta da temere. Il selenio, negli alimenti è molto
tossico alla quota di circa 5 mg/kg nella razione totale. Esso provoca la caduta dei
crini, delle deformazioni e successivamente la caduta degli zoccoli ed infine la
paralisi più conosciuta col nome di "malattia alcalina". Il fluoro è tossico oltre la
quota di 50 mg/kg di razione alimentare. Il suo eccesso provoca rigidità nell'andatura,
zoppie, deformazioni ossee e lesioni alla dentizione.
Comportamenti alimentari particolari
La coprofagìa è molto frequente e naturale nel giovane puledro dopo la nascita.
Compare all'età di circa un mese, nel momento in cui l'attività microbica
dell'intestino non è ancora sufficientemente sviluppata. Essa è eccezionale nell'adulto
e sovente considerata come una turba del comportamento dovuta alla noia, da una
deviazione del gusto o dalla distribuzione di un regime ricco in alimenti concentrati.
Il masticamento del legno: in scuderia il cavallo mastica frequentemente il legno del
truogolo o del battifianco. I regimi molto ricchi in alimenti concentrati favoriscono
questo comportamento particolare. La distribuzione di paglia (segnatamente in
lettiera) può limitarlo.
281
CAP. X. ALIMENTI PER IL BESTIAME
10.1. Classificazione degli alimenti
Gli alimenti per il bestiame sono distinti in foraggi, prodotti complementari dei
foraggi e mangimi concentrati. I foraggi a loro volta, si suddividono in foraggi verdi,
fieni e insilati e possono essere costituiti da leguminose, graminacee o essere polifiti.
Classificazione degli alimenti per il bestiame
Foraggi:
leguminose, graminacee,
polifiti (35 - 90 UF/q)
Foraggi verdi (11-20 UF/q; SS = 15-22%
Fieni (35 - 55 UF/q; SS = 87%)
Insilati
Prodotti complementari
dei foraggi
25 - 50 UF/q
Cereali: paglie, stocchi,
piante legnose: foglie, sarmenti, frasche
residui: vinificazione, oleifici, trebbiatura
Mangimi concentrati
> 60 UF/q
media = 65 - 120 UF/q
semi di piante erbacee e legnose
trasformazione di prodotti vegetali: cereali, panelli,
residui zuccherificio
trasformazione prodotti animali: caseificio, carni, pesce
I foraggi verdi costituiscono la base alimentare degli erbivori, soprattutto, nei sistemi
d’allevamento brado e semistallino. Il loro valore nutritivo è compreso tra 11 e 20
U.F./q e sono molto acquosi.
10.1.1. Fattori che influenzano la composizione e il valore nutritivo dei foraggi
La loro composizione chimica e valore nutritivo variano in funzione di diversi fattori:
- lo stadio di vegetazione, in quanto le erbe giovani rispetto a quelle mature
contengono maggiori quantità di proteine (20-25%) e vitamine e meno fibra grezza.
Gli elementi minerali (Ca, P) ed il valore nutritivo decrescono con l'avanzare dello
stadio vegetativo. Quando le piante crescono, aumenta la loro necessità di tessuti
strutturali e, quindi, di carboidrati strutturali (cellulosa ed emicellulosa) e di lignina.
La digeribilità della sostanza organica può arrivare fino all’85 % nell’erba giovane da
pascolo in primavera e ridursi fino al 50% nell’erba del periodo invernale. Anche se
c’è una correlazione tra digeribilità e stadio vegetativo, nel senso che essa diminuisce
nelle piante mature, in primavera vi è un periodo di circa un mese durante il quale la
digeribilità dell’erba rimane pressoché costante. La fine di questo periodo, in alcune
specie di piante, coincide con l’inizio della spigatura; in seguito, la digeribilità della
sostanza organica può diminuire rapidamente. La digeribilità è influenzata dal
rapporto foglia/steli dell’erba: nell’erba molto giovane lo stelo è più digeribile delle
foglie, ma mentre col progredire del ciclo vegetativo la digeribilità delle foglie
diminuisce molto lentamente, quella dello stelo si riduce molto rapidamente. La
diminuzione della digeribilità, con il crescere della pianta, influenza anche i valori in
energia netta i quali sono ridotti anche dall’alto contenuto in cellulosio; infatti,
questo polisaccaride favorisce a livello ruminale, un’elevata produzione di acido
acetico, la cui utilizzazione per la produzione dei grassi di deposito avviene con
rendimento modesto.
- fattori ambientali, le condizioni ideali per la produzione di un buon foraggio
occorrono con clima temperato e buona distribuzione delle piogge. Mentre la luce
arricchisce i foraggi di carboidrati, l'acqua ne aumenta il contenuto in P, ma ne
282
diminuisce quello in calcio. La differenza nella composizione tra le erbe delle zone
temperate e quelle tropicali, oltre che dal clima, dipende anche dalla categoria di
piante che crescono in questi due ambienti. Le specie di erbe che vivono nelle zone
temperate appartengono alla categoria di piante dette in C3 nelle quali un composto a
tre atomi di carbonio, l’acido fosfoglicerico, è un importante intermedio nella
fissazione fotosintetica della CO2. Invece, nelle zone tropicali la maggior parte delle
erbe appartengono alla categoria detta in C4, per la via fotosintetica che le
caratterizza; in esse, infatti, la CO2 è inizialmente fissata in una reazione nella quale
si forma un composto a 4 atomi di carbonio, l’ossalacetato. I bassi tenori proteici,
spesso trovati nelle erbe delle zone tropicali, rappresentano una caratteristica delle
piante in C4 che è associata alla capacità di sopravvivere in condizioni difficili per
quanto riguarda la fertilità del suolo. Inoltre, nelle erbe delle zone tropicali il
carboidrato maggiormente rappresentato è l’amido mentre in quelle delle zone
temperate sono accumulati soprattutto fruttosani.
- terreni e concimazioni: le caratteristiche del terreno possono influenzare,
soprattutto, la composizione minerale dei foraggi. L’acidità del terreno condiziona
l’assorbimento di molti microelementi da parte della pianta, ad esempio, il
manganese e il cobalto sono poco assorbiti dalle piante coltivate in terreni calcarei e,
mentre le piante cresciute su terreni acidi sono povere in molibideno, quelle prodotte
in terreni calcarei ne sono talmente ricche da causare sindromi patologiche agli
animali che le utilizzano.
Concimazioni adeguate influiscono notevolmente sul contenuto minerale delle piante
e in particolare le concimazioni azotate favoriscono l’accumulo di proteina grezza
dell’erba ed influenzano il contenuto in nitrati e amidi. I fertilizzanti, anche
indirettamente, possono influire sul valore nutritivo dell’erba dei prati,
modificandone la composizione botanica. Così, ad esempio, le leguminose non
crescono su terreni carenti di calcio ma abbondanti apporti di azoto al terreno
stimolano la crescita dell’erba, e nello stesso tempo deprimono lo sviluppo del
trifoglio
- epoca del taglio, lo sfalcio dovrebbe essere effettuato all'inizio della fioritura
quando si ha un buon equilibrio tra valore nutritivo complessivo per ettaro e
contenuto in proteine digeribili, calcio, fosforo e vitamine.
10.1.2. Foraggi di leguminose
La famiglia delle leguminose è rappresentata da circa 18.000 specie che
hanno la caratteristica di crescere in simbiosi con batteri fissatori di azoto e di essere
molto resistenti alla siccità. Fra esse ricordiamo soprattutto l’erba medica e i trifogli.
Molte leguminose quali il trifoglio sotterraneo, il trifoglio pratense e l’erba medica,
contengono composti ad attività estrogena. Gli estrogeni presenti nei trifogli sono
soprattutto gli isoflavoni mentre, nella medica vi è generalmente il cumestrolo. Gli
isoflavoni e i cumestroli che si trovano in natura hanno un’attività estrogena
relativamente modesta, ma essa può aumentare a seguito del metabolismo ruminale.
Il trifoglio bianco normalmente non contiene attività estrogena, ma se infestate da
funghi possono produrre cumestrolo in notevole quantità. Il consumo di erbe ricche
di estrogeni nelle pecore può provocare infertilità grave e mortalità negli agnelli dopo
la nascita. La sterilità può durare per lunghi periodi anche dopo che le pecore sono
state tolte dal pascolo ricco di estrogeni. La causa principale di questa infertilità è la
mancata fecondazione, associata ad una scarsa penetrazione dello sperma
nell’ovidutto. Un’infertilità temporanea può registrarsi nelle pecore che si alimentano
283
con erbe da pascolo contenenti estrogeni nel periodo degli accoppiamenti. I bovini
non sembrano subire conseguenze così gravi come quelli constatabili negli ovini.
Erba medica: ha un elevato contenuto in proteina grezza (15-26% su s.s.), calcio (14
g), magnesio, carotene e vitamine del gruppo B, ma il contenuto di fosforo è piuttosto
scarso (3-3,5 g/kg s.s.). Il valore nutritivo dell'erba fresca è, in media, di 14-16
U.F./q. Viene adoperata soprattutto per gli animali in accrescimento e per le lattifere.
L'erba degli sfalci precoci e, soprattutto se bagnata di rugiada, può causare il
meteorismo del rumine, dovuto ad una saponina che, impedisce l'eliminazione dei
gas di fermentazione.
Trifoglio pratense, per composizione e caratteristiche nutritive il foraggio verde del
trifoglio pratense o violetto è molto vicino a quello della medica. Il contenuto
proteico si aggira intorno al 16-20%, mentre, il valore nutritivo è di 12-15 U.F. /q.
Può causare fenomeni di meteorismo, ma in modo meno preoccupante rispetto alla
medica.
Trifoglio ladino, è molto consigliato soprattutto per le lattifere ed il giovane
bestiame. Fornisce circa 13-15 U.F./q.
Altre leguminose degne di nota sono la lupinella e la sulla.
10.1.3. Foraggi di crucifere
In campo agricolo assumono molta importanza i cavoli da foraggio, la colza,
le rape e il ravizzone; alcune di esse sono coltivate soprattutto per sfruttarne la radice.
I cavoli da foraggio sono coltivati in aree temperate e forniscono foraggio verde
durante l’inverno, ma in aree più siccitose possono essere usati come supplemento
del pascolo estivo. Essi hanno un basso contenuto in sostanza secca (circa 14%) che è
ricca di proteine (15%), di carboidrati solubili (20-25%) e di calcio (1-2%);
generalmente sono molto digeribili ad eccezione degli steli legnosi.
Il cavolo cappuccio è coltivato sia per il consumo umano sia per l’alimentazione
degli animali. Le foglie sono imbricate le une sulle altre formando una palla, ha una
bassa proporzione di stelo e pertanto è poco fibroso rispetto ai cavoli da foraggio, alla
colza e al ravizzone.
Il valore nutritivo della colza e del ravizzone è similare a quello dei cavoli.
Tutte le crucifere coltivate sia per il foraggio, sia per le radici e sia per la produzione
di olio, contengono sostanze gozzigene. In quelle coltivate come foraggio, queste
sostanze sono del tipo tiocianato ed interferiscono sulla captazione di iodio da parte
della ghiandola tiroide; i loro effetti possono essere neutralizzati aumentando la
quantità di iodio nella dieta. In tutti gli animali che consumano questi foraggi si può
sviluppare un gozzo più o meno voluminoso, ma gli effetti più dannosi si osservano
in agnelli nati da pecore che sono state alimentate con crucifere durante la gestazione
i quali possono nascere morti o deformi. Nei bovini è stato ipotizzato, ma non
confermato, che le femmine che consumano cavoli da foraggio possono eliminare
con il latte una certa quantità di principi gozzigeni tale da provocare il gozzo nei
vitelli che allattano. Nei ruminanti, le crucifere possono causare un’anemia emolitica
ed in casi estremi il contenuto ematico di emoglobina può ridursi ad un terzo del suo
valore normale mentre, gli eritrociti sono distrutti così rapidamente che l’emoglobina
appare nelle urine (emoglobinuria). Il fatto è riconducibile alla presenza nelle
brassicacee di un aminoacido insolito, l’S-metilcisteina sulfossido, che nel rumine è
ridotto a dimetil disolfuro che danneggia i globuli rossi. Il foraggio verde di crucifere
contiene 12-20 g/kg SS di S-metilcisteina sulfossido e per non incorrere nei danni
284
che esso può provocare occorre evitare che questi foraggi costituiscano più di un
terzo della sostanza secca totale della razione.
10.1.4. Foraggi dei prati polifiti.
La composizione del prato naturale è molto varia ed è in relazione alle
condizioni pedo-climatiche. Fra le specie più rappresentate ricordiamo: graminacee,
leguminose, composite, ombrellifere, rosacee, labiate, crucifere, ecc..
Il foraggio verde dei prati polifiti asciutti, falciati entro il periodo della fioritura delle
graminacee più diffuse, in media contiene: sostanza secca 22-27%, proteina
digeribile 2-2,5%, valore nutritivo 14-18 U.F. /q. La composizione della SS dell’erba
da pascolo è molto variabile: il contenuto in proteine grezze può variare da 30 g/kg
nelle erbe molto mature fino a 250-300g/kg nelle erbe molto giovani e cresciute in
terreni ben concimati. Il tenore in fibra grezza in genere è inversamente
proporzionale a quello delle proteine e può variare da 200 g/kg a 400 g/kg nelle erbe
molto mature. Se il raccolto è destinato alla conservazione, diviene molto importante
il contenuto in acqua il quale è molto alto nei primi stadi vegetativi, 75-85%, per poi
diminuire intorno al 65% nelle piante mature. Esso, oltre che dallo stadio vegetativo
è influenzato dalle condizioni climatiche. Fra i carboidrati idrosolubili dei foraggi
ricordiamo i fruttosani e gli zuccheri (glucosio, fruttosio, saccarosio, raffinosio,
stachiosio) la cui concentrazione nella S.S. oscilla dal 4% in alcune varietà di erba
mazzolina al 30% in alcune varietà di Lolium italicum; la concentrazione di
carboidrati negli steli a volte può essere anche 3-4 volte superiore a quella delle
foglie e, generalmente, è massima poco prima della fioritura. Il contenuto in cellulosa
ed emicellulose è rispettivamente del 20-30 e 10-30% sulla S.S., e così come per la
lignina, esso aumenta con l’invecchiare della pianta. I principali composti azotati dei
foraggi sono rappresentati dalle proteine, per le quali si assiste ad una diminuzione
del loro contenuto con l’avanzare del ciclo vegetativo ma non ad una variazione delle
proporzioni dei singoli aminoacidi. Anche tra le varie specie di erba, la composizione
in aminoacidi delle proteine non è molto variabile e ciò in quanto circa il 50% delle
proteine cellulari è rappresentato da un singolo enzima, la ribuloso 1,5-difosfato
carbossilasi, che gioca un ruolo importante nella fissazione fotosintetica dell’anidride
carbonica. Inoltre, le proteine dell’erba sono ricche di arginina e contengono elevati
quantitativi di acido glutammico e lisina e hanno un valore biologico per la crescita
più elevato rispetto a quelle dei semi. Fra gli aminoacidi delle proteine dell’erba
limitanti per la crescita ricordiamo l’isoleucina e soprattutto la metionina. L’azoto
non proteico varia nell’erba con lo stadio fisiologico ed è più elevato se le condizioni
di crescita della pianta sono favorevoli. I principali componenti della frazione di
azotato non proteico sono rappresentati da aminoacidi e amidi, come la glutamina e
l’asparagina, che sono interessati nella sintesi proteica. Vi può essere anche la
presenza di nitrati i quali possono avere effetti tossici sugli animali ruminanti; ciò
perché nel rumine i nitrati sono ridotti a nitriti, i quali ossidano il ferro ferroso
dell’emoglobina portandolo allo stato ferrico e quindi trasformano l’emoglobina in
metaemoglobina, che è incapace di combinarsi con l’ossigeno per trasportarlo ai vari
tessuti del corpo. Gli animali in questi casi presentano tremori, barcollamento,
respiro frequente e affannoso e in alcuni casi si può avere la morte dell’animale
stesso. I sintomi tossici si verificano in animali che ingeriscono erbe con un
contenuto in N nitrico di 0,7 g/kg S.S., comunque, la concentrazione letale è più
elevata (> 2,2 g/kg S.S.). I nitrati sono più pericolosi se ingeriti improvvisamente e
velocemente e i loro effetti dannosi sono attenuati dalla presenza dei carboidrati
285
solubili nei foraggi. Il contenuto dei nitrati nelle erbe varia con la specie e la varietà
di queste e con le concimazioni e, generalmente, è proporzionale al contenuto
proteico.
Il contenuto lipidico delle erbe, determinato come estratto etereo, è relativamente
basso e generalmente non supera i 60 g /kg S.S.. I componenti di questa frazione
comprendono i trigliceridi, i glicolipidi, le cere, i fosfolipidi e gli steroli. I trigliceridi
si trovano solo in piccola quantità, il maggior componente è rappresentato dai
galattolipidi che costituiscono il 60% dei lipidi totali presenti. L’acido linolenico è il
principale acido grasso il quale rappresenta il 60-75% del totale degli acidi grassi,
seguono l’acido linoleico e l’acido palmitico.
Il contenuto minerale delle erbe da pascolo è molto variabile e dipende dalla specie,
dallo stadio vegetativo, dalle caratteristiche del suolo, dalla tecnica colturale e dai
fertilizzanti impiegati.
I foraggi verdi sono molto ricchi in caroteni, i precursori della vitamina A i quali,
nella S.S. di erba molto giovane, possono essere presenti in quantità di 550 mg/kg;
un’erba di questo tipo copre cento volte il fabbisogno di una vacca al pascolo che ne
mangi in normali quantità. Le erbe in crescita contengono solo limitate quantità di
vitamina D ma contengono i relativi precursori; probabilmente il maggior contenuto
in vitamina D nelle erbe mature rispetto a quelle giovani è dovuto alla presenza di
foglie morte nelle quali la vitamina D2 può prodursi per irradiazione dell’ergosterolo.
La maggior parte dei foraggi è ricca in vitamina E e di molte vitamine del gruppo B,
soprattutto riboflavina.
10.1.5. Foraggi di erbai
Gli erbai sono colture monofite o consociate di piante foraggiere a breve ciclo
vegetativo, che forniscono un solo taglio consumato allo stato verde o destinato
all'insilamento. Possono essere colture annuali o più spesso intercalate fra due colture
principali. Fra essi ricordiamo:
- Erbaio di avena. Si sfalcia in primavera al momento o poco prima della fioritura; è
appetito dagli animali e molto indicato per gli equini, bovini da carne e da lavoro.
Contiene il 18-21% di sostanza secca, 1,3-2% di protidi digeribili ed ha un valore
nutritivo di 13-15 U.F./q.
- Erbaio di orzo. Si utilizza tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera; le
caratteristiche nutritive sono quasi uguali a quelle dell'erbaio di avena.
- Mais da foraggio. L'erbaio di mais è caratterizzato da un’elevata percentuale di
estrattivi inazotati (50-64%), da un basso contenuto in proteina grezza (8-10%) e da
un tenore di fibra compreso tra il 28 e il 24%, rispettivamente nel foraggio verde in
fioritura e nella pianta a maturazione cerosa delle cariossidi. Il foraggio di mais può
essere insilato facilmente in quanto il contenuto zuccherino è elevato (3-6%).
Fra gli erbai di leguminose ricordiamo: favetta da foraggio, veccia, trifoglio
(incarnato e alessandrino).
10.1.6. Radici e tuberi
Barbabietole da foraggio. Contengono il 12% di sostanza secca, 10% di
estrattivi inazotati, 1% di fibra e 12 U.F./q. Sono indicate per gli animali da ingrasso
e, così come per le rape, se impiegate in quantità eccessive, causano diarrea.
- Patate. Essendo molto appetibili e ricche in amido sono indicate per gli animali
all'ingrasso. Mentre ai bovini possono essere somministrate crude, per i suini è
preferibile cuocerle.
286
Nell'alimentazione animale sono impiegate anche: rape, carote, barbabietole da
zucchero, patate dolci, ecc.
10.2. Pascoli
Il foraggio verde, oltre che essere somministrato agli animali, può essere da
questi pascolato direttamente, il che consente una riduzione dei costi alimentari e la
ginnastica funzionale per gli animali.
Una moderna tecnica di pascolamento deve mirare a:
- utilizzare l'erba ad uno stadio vegetativo giovanile, quando è più digeribile,
appetibile, ricca di proteine ed ha un più elevato contenuto in U.F.;
- prolungamento della stagione di pascolo e maggiore uniformità nella produzione
del cotico erboso;
- mantenimento delle buone caratteristiche della flora e della fertilità del terreno,
difesa dalla degradazione;
- aumento sensibile delle produzioni zootecniche ottenibili dalle unità di superficie
pascolative.
Questi obiettivi possono essere
realizzati mediante l’adozione dei
seguenti interventi tecnici e pratiche di
buon governo dei pascoli:
- suddivisione degli appezzamenti
mediante recinti elettrici mobili in
parcelle di estensione tale da fornire 2-
3 giorni di pascolo;
- concimazione iniziale del prato con
elementi azotati, fosfatici e potassici;
- suddivisione del bestiame in due o
più gruppi sufficientemente omogenei
rispetto ai bisogni nutritivi che saranno fatti pascolare successivamente in ciascuna
parcella;
- immissione di un forte carico di bestiame, in maniera da utilizzare tutto il foraggio
disponibile nel giro di 2-3 giorni;
- disponibilità di un numero di parcelle tale da consentire, con la rotazione del
pascolo, che ognuna goda di un periodo di riposo sufficiente a permettere la crescita
dell'erba fino all'altezza ottimale di circa 15 cm;
- esecuzione, subito dopo terminato il pascolo di
ogni parcella, di un complesso di operazioni
colturali atte a favorire la ripresa vegetativa e a
mantenere bene il cotico erboso (sfalcio delle
infestanti, spargimento delle deiezioni,
irrigazione, fertilizzazione). In queste condizioni
e in presenza di prati-pascoli di media
produttività il carico di bestiame per ettaro e per
due giorni di pascolamento si aggira intorno ai
150 q, cioè 20-25 capi grossi/ettaro/turno. Va tenuto presente che ogni capo grosso
(bovini) necessita di circa 40-55 kg di erba fresca al giorno.
Le capacità di carico dei pascoli vanno legate a diversi fattori:
a) fattori vegetali, si intendono quegli elementi di carattere quantitativo, come la
superficie dei terreni pascolativi e quantitativo, come la produttività della cotica
287
erbosa, il valore alimentare e l’appetibilità dell’erba, che sono riferiti alla produzione
vegetale;
b) fattori climatici: influenzano la distribuzione della produzione foraggiera nel corso
dell’anno promuovendo o limitando i ritmi di accrescimento dell’erba. Ad esempio,
nell’arco alpino, il periodo di pascolo è limitato dalla presenza delle masse nevose
per un considerevole periodo dell’anno e, quindi, può considerarsi concentrato nella
stagione estiva. In questo intervallo si riscontra, inoltre la coincidenza del massimo di
piovosità annuale e quindi la produzione vegetale si mantiene pressoché uniforme per
tutta la durata dell’alpeggio (giugno-settembre). Nelle regioni centrali e meridionali
dell’Italia, invece, la produzione vegetale risente notevolmente del differente
andamento stagionale. La produzione rispecchia anche qui la pluviometria delle
stazioni meteorologiche con un massimo di produzione nel periodo primaverile, una
parziale ripresa produttiva in autunno, dopo il drastico calo del periodo estivo
corrispondente alla fase di maggior indisponibilità idrica.
c) fattori fisici: sono compresi gli elementi geo-
pedologici e quelli topografici. Essi sono
individuati con uno studio comparato del suolo,
considerato sia come matrice chimico-fisica, che
come parametro di variabilità geo-morfologica.
Gli elementi altitudinali di pendenza e di
esposizione di un terreno, insieme alle sue
caratteristiche pedologiche, giocano un ruolo
importante nella determinazione della quantità e
della qualità dei foraggi prodotti, non solo, ma altrettanta importanza assumono nei
riguardi della conservazione dell’assetto naturale dei territori montani. Un esempio di
questa rilevanza si ha nelle zone a marcata pendenza dove il carico di bestiame
dovrebbe essere sotto dimensionato a priori per limitare i danni prodotti dal calpestio.
Lo stesso principio vale, in analogia, per le zone maggiormente esposte a qualsiasi
forma di degrado dove il danno degli animali è amplificato dalla fragilità delle
cotiche;
d) fattori zootecnici: la determinazione
del carico dei pascoli deve tenere conto
in primo luogo, della o delle specie
animali allevate con particolare
riferimento al comportamento alimentare
specifico. Molto importante è la
valutazione dei parametri, come ad
esempio, il coefficiente e il livello
d’ingestione, il modo d’assunzione
dell’erba mentre, successivamente,
nell’ambito della specie vanno
individuati i fabbisogni alimentari, tenendo conto della razza, del sesso, della
categoria e del livello produttivo. Inoltre, non bisogna trascurare la gestione pastorale
con l’analisi delle tecniche di pascolamento e delle modalità d’esercizio quali la
natura e la distribuzione dei punti d’acqua, dei ricoveri e delle recinzioni e la
disponibilità delle scorte alimentari per i periodi di maltempo.
Abbeveratoio
288
10.2.1. Carico di bestiame
Per realizzare un corretto dimensionamento del carico di bestiame pascolante
si può usare:
- il metodo tradizionale, su basi essenzialmente empiriche:
a) nelle zone alpine e prealpine, in genere, si fa riferimento ai bovini adulti (capo
grosso) e per le altre specie si ricorre a delle tabelle d’equivalenze:
1,25 vacche in asciutta = 5 pecore di grossa taglia
1 manza di due anni = 6 pecore di piccola
taglia
2 manzette di 1-2 anni = 0,3 cavalli adulti
4 vitelli < 1 anno = 1 puledro
Il carico di bestiame varia in ragione inversa alla produttività dei pascoli, così nelle
zone dove la produzione di fieno è di 4-5 q/Ha, il numero di bovini adulti è pari a
0,5/Ha mentre, nelle zone prealpine dove la produzione è di 8-10 q/ha il numero di
capi grosso consentiti per ettaro è di circa 0,7-0,8.
b) nelle zone appenniniche, le produzioni foraggiere risentono maggiormente
dell’andamento climatico stagionale e delle differenti tecniche pastorali messe in
atto. In queste zone, la specie di riferimento per la determinazione del carico è
quell’ovina e il carico medio per ettaro è generalmente indicato in 5 ovini adulti,
Inoltre, ci si riferisce alle seguenti equivalenze:
1 pecora da late = 1,25 pecore adulte
1 cavallo o un mulo = 6 capi ovini
1 asino = 4 capi ovini
1 bovino adulto = 8 capi ovini
1 capra = 3 capi ovini
1 maiale = 3 capi ovini
In queste zone, un pascolo che fornisce 5 qli/Ha di fieno consente un carico medio di
2 pecore/Ha per un periodo di 120 giorni, mentre, una produzione di 12 qli/Ha può
sopportare un carico maggiore di 6 pecore/Ha.
- metodi moderni: i metodi per la determinazione del carico dei pascoli tengono
generalmente conto della produttività della superficie di pascolo e dei fabbisogni
delle specie animali allevate durante tutto il periodo di pascolamento. La formula
applicata allo scopo è: C = (P x S) : (F x D) dove:
C = n. dei capi grossi di 500 kg di peso
P = produzione del pascolo espressa in U.F./Ha o in kg sostanza secca/Ha
S = superficie di pascolo in ettari
F = fabbisogno nutritivo giornaliero per capo
D = durata del pascolamento in giorni.
Più recentemente, Talamucci e collaboratori (1980) ha proposto la seguente formula:
C = (P x S) : (F x D) x Ka x Kp x Ke dove: Ka = coefficiente di valore alimentare;
Kp = coefficiente di pendenza del terreno; Ke = coefficiente d’esposizione del
terreno.
Questa formula consente di valutare l’influenza che i fattori ambientali possono
esercitare sul calcolo generale del carico. Per stabilire i valori di tali indici si fa
riferimento alle varie situazioni, ricercando di volta in volta tutti i parametri che
consentono di attribuire giudizi quantitativi. Il coefficiente Ka è calcolato mediante
piccoli inventari floristici, compiuti su aree di 2-3 m2, finalizzati a stabilire
l’incidenza che le specie vegetali presenti hanno sul totale della produzione
289
foraggiera; a queste specie sono poi attribuiti i rispettivi valori alimentari (valori
pastorali o foraggieri) secondo la classificazione di Gerola e Gerola (1955). Il
coefficiente Kp, si ottiene dividendo il terreno pascolato in 3 classi alle quali è
assegnato un dato valore: 1,0 per pendenza compresa tra 0 e 15%; 0,9 per pendenza
compresa tra 16 e 25%; 0,8 per pendenza compresa tra 26 e 35%.
Anche il coefficiente Ke, è calcolato mediante il confronto con tre classi di
riferimento utilizzando i seguenti valori: 1,00 per esposizioni comprese tra NO e NE;
0,90 per esposizioni comprese tra SE e SO; 0,95 per esposizioni intermedie.
Questo metodo è risultato valido soprattutto
nelle zone alpine e prealpine, mentre, in altre
zone della penisola dovrebbe essere
affiancato da altri indici maggiormente
differenziati, soprattutto quelli che fanno
riferimento alla stima del valore alimentare
medio dei foraggi. Il Consiglio Nazionale
delle Ricerche (CNR) ha proposto un modello
di pascolamento nelle malghe e negli alpeggi
che si articola attraverso l’esame di tre
sottoinsiemi espressi da altrettanti parametri, contenuti in un’equazione detta della
<<produttività utile del cotico con il pascolamento>>:
a) il cotico pascolato ha la funzione di descrivere gli elementi qualitativi
(composizione del cotico) e quantitativi (produttività) dell’alimentazione del
bestiame, al pascolo. Per valutarlo con il parametro si fa riferimento alla
produzione potenziale del cotico ed ad indici tabulati descriventi il tasso
d’infestazione, il metodo di pascolamento, le cure colturali effettuate, le migliorie
apportate;
b) la spazio di pascolamento descritto dal parametro , esprime la tipologia della
superficie sottoposta ad alpeggio con riferimento al cotico, alla capacità d’utilizzo, al
tipo di pascolamento, alle strutture di gestione, alla presenza di punti d’abbeverata;
c) il periodo di pascolamento comprende gli elementi temporali legati all’uso del
pascolo durante il periodo di monticazione; il parametro esprime, quindi, le
modalità secondo le quali il fattore temporale può influenzare l’utilizzo pabulare del
cotico da parte del bestiame.
La determinazione di questi tre parametri serve ad esprimere l’equazione della
produttività utile del cotico Y = . ; dove, y rappresenta l’alimentazione
disponibile per il bestiame al pascolo, valutata in tonnellate di fieno/anno (Cera e
coll., 1981). In alcuni studi condotti in Val Rendena, finalizzati all’elaborazione di
proposte metodologiche per la pianificazione dei pascoli alpini (Bezzi e coll., 1978),
la stima della produttività è stata eseguita valutando in numerose aree campione la
quantità di foraggio prodotto ed il suo tenore analitico in sostanze nutritive grezze ed
in sali minerali. Il valore nutritivo dei foraggi ottenuto da analisi chimiche, è stato
espresso in unità foraggiere (UF), unità amido (UA) ed in unità foraggere latte
(UFL). Queste stime possono essere ritenute valide per il calcolo del valore nutritivo
dei foraggi di buona qualità ovvero non, o limitatamente, infestati da piante tossiche
o poco appetibili. Quando, invece, ci si trova in presenza di foraggi scadenti a causa
di pascoli aventi scarso valore nutritivo e composti da una % significativa di piante
non appetite dal bestiame, si ritiene più utile l’applicazione di metodi non basati sulla
determinazione diretta del valore nutritivo ma sull’applicazione d’analisi di tipo
floristico-biologico che conducono al medesimo risultato. L’applicazione di questo
290
metodo indiretto prevede per ogni specie l’attribuzione pabulare di valori, gli indici
di bontà, di Stachlin, compresi fra 100 e 300 e variabili secondo la specie, lo stato
fisiologico, il percentuale presente sul totale. Quando si perviene alla valutazione
nutritiva dei foraggi utilizzando questi indici, si determina il cosiddetto <<valore
pastorale>> (Bezzi e coll., 1978). Il valore pastorale può risultare utile quando è
necessario correggere il valore nutritivo, espresso in UF, di pascoli invasi da
infestanti. Ad esempio, foraggio a dominanza di Deschampsia caespitosa, specie non
appetita dal bestiame, può fornire dei valori nutritivi pari a 50 UF/q di SS, ma avere
valore nutritivo nullo per il bestiame. Il valore pastorale appare di notevole utilità
anche come parametro di confronto tra pascoli il cui foraggio non possiede alcuna
valutazione chimica e pascoli di cui invece si conosce il valore nutritivo espresso in
UF. In questi casi si ottengono delle UF denominate UF pastorali (UFP) che hanno il
merito di integrare gli aspetti chimici e naturalistici dei foraggi presi in esame, dato
che forniscono anche il loro livello d’appetibilità al di là dei semplici dati forniti
dalle analisi chimiche. Il calcolo del carico di bestiame, secondo questo metodo,
prevede la conoscenza dei fabbisogni nutritivi del bestiame oltre che della
produttività dei vari tipi di pascolo espressa in UFP.
La necessità dei metodi per la valutazione delle
risorse pascolative che non siano basati
esclusivamente su dati produttivi, peraltro di
difficile determinazione, ma anche
sull’effettivo consumo foraggiero da parte del
bestiame e su analisi floristiche, risulta molto
sentita sia nelle regioni a carattere più
marcatamente mediterraneo della nostra
penisola (Rubino e coll., 1983), sia nel
territorio francese (Dorée e coll., 1979), dove
queste metodologie sono di rilevante importanza. All’Istituto Nazionale Francese per
le Ricerche Agronomiche (INRA) la produttività foraggiera degli alpeggi è calcolata
indirettamente per mezzo di un sistema rivelatore, rappresentato dalla vegetazione;
sono esclusi, infatti, i sistemi classici, basati sulla misura della quantità di erba
prodotta vista l’impossibilità di distinguere, con questi metodi, l’apporto percentuale
delle specie pabulari sulla biomassa vegetale complessiva. Uno di questi metodi
utilizzati per la stima della produzione foraggera (Dorée e coll., 1979) e del carico di
bestiame, può essere riassunto in due frasi:
a) elaborazione cartografica del territorio di pascolo in
zone omogenee;
b) valutazione del livello produttivo di ciascuna zona
di pascolo dell’intero alpeggio.
Viene effettuato un campionamento della vegetazione
al fine di individuare le diverse <<facies ecologiche>>
componenti il pascolo; all’interno di ciascuna di esse, la produttività foraggera si
valuta mediante il calcolo del valore pastorale, quindi si estendono i risultati ottenuti
alla produttività totale dell’alpeggio ed alla sua capacità di carico. Con questo
metodo, valutando i carichi effettivi in rapporto ai carichi stimati, si può determinare
il coefficiente di sfruttamento dei pascoli e si può stabilire un calendario di
pascolamento adeguato allo stadio di sviluppo ottimale della vegetazione sulla scorta
delle informazioni ricavate dalle produzioni di ciascuna particella di pascolo.
Recinto fisso in legno
291
10.2.2. Tecniche di pascolamento:
Le tecniche di pascolamento possono essere considerate come l’espressione
del livello organizzativo raggiunte dalle imprese pastorali per utilizzare le risorse
foraggiere disponibili in un determinato ambiente. La scelta tecnica degli allevatori
può essere influenzata da numerosi fattori, alcuni attinenti alle condizioni sociali e
culturali, altri riguardanti la struttura fondiaria, la natura topografica e geopedologica
del terreno, la qualità dei pascoli, ecc..Man mano che si passa dal sistema
d’allevamento a carattere estensivo, o sistema pastorale puro, ai sistemi
d’allevamento semiestensivi e intensivi, sono messe in atto tecniche di pascolamento,
sempre più specializzate che consentono, unitamente ad altri interventi agronomici,
una migliore utilizzazione dei pascoli e un incremento delle produzioni animali. Con
la razionalizzazione del sistema di pascolamento si tende, infatti, a:
- prolungare la stagione di pascolo;
- regolarizzare la disponibilità d’erba, in modo da superare quei contrasti di natura
climatica che non consentono sempre di soddisfare le esigenze nutritive degli
animali;
- incrementare il carico d’animali per unità di superficie pascolativa;
- migliorare le condizioni del cotico;
- prevenire le più comuni malattie degli animali al pascolo, parassitosi in modo
particolare.
Le tecniche di pascolamento più note sono:
a) pascolo continuato: è una forma di pascolo incontrollato, con ampie superfici
disponibili per il bestiame. Gli animali soggiornano nell’area di pascolo finché ne
traggono alimenti; l’intervento dell’uomo è limitato così come limitate sono le
attrezzature per il contenimento degli animali. A prima vista sembra una tecnica di
pascolamento molto semplice, in realtà risulta piuttosto impegnativa se si vogliono
evitare effetti negativi. Infatti, si ritiene che il pascolamento continuato degradi
facilmente la biomassa vegetale, in termini sia quantitativi sia qualitativi. Fra le
principali cause di ciò possiamo segnalare:
- la selezione alimentare operata dagli animali determina una riduzione delle piante
più appetite e l’invasione di specie infestanti o, comunque, poco appetibili;
- il continuo consumo delle specie più appetite non tiene conto dei periodi di riposo
pascolativi, necessari alle piante per accumulare quelle sostanze di riserva che
saranno utili per i successivi ricacci;
- le zone di pascolo sono utilizzate in modo diverso; le zone pianeggianti e ricche di
pascoli sono battute molto più frequentemente dagli animali, con il risultato che
l’aggravio del carico per unità di superficie comporta un inevitabile danneggiamento
delle cotiche erbose. Al sovraccarico delle zone più lussureggianti si contrappone
spesso un carico sotto dimensionato dei terreni più scomodi, con conseguenti sprechi
foraggieri;
- in mancanza di un controllo diretto, il transito ed il riposo degli animali nelle
medesime zone possono determinare profondi sentieramenti ed accumulo di
deiezioni.
In ultima analisi, il pascolo incontrollato, o continuato, può far variare le potenzialità
produttive dei pascoli, compromettendo seriamente i cicli della riproduzione
vegetale.
b) pascolo a rotazione: questa tecnica presuppone l’esistenza di sezioni di pascolo
opportunamente recintate ed utilizzate dagli animali in maniera discontinua. Una
forma di pascolo a rotazione può essere rappresentata dalla successione nello stesso
292
settore di pascolo di animali della stessa specie, appartenenti a diverse categorie
produttive (vitelli, vacche da latte, ecc.). La principale limitazione alla diffusione di
questa tecnica è data dallo scarso periodo di riposo delle cotiche, fatto che va a
limitare la produzione foraggiera complessiva. Si preferisce, allora, destinare alle
categorie d’animali con più elevati fabbisogni nutritivi i pascoli più vicini e più ricchi
e inviare gli altri animali nelle zone meno accessibili (lontane, scoscese, ecc.). La
presenza degli animali (in termini di densità e di durata) è in funzione del ciclo
vegetativo dell’erba e quindi delle disponibilità foraggiere periodiche ed in funzione
delle esigenze alimentari degli animali. Tra le attrezzature aziendali necessarie per il
contenimento degli animali, le recinzioni assumono importanza fondamentale; esse
possono essere fisse o mobili. Le recinzioni fisse sono impiegate di solito per
delimitare il perimetro aziendale e sono generalmente in legno, filo spinato o in rete;
le recinzioni mobili si adattano meglio alla realizzazione delle parcelle e sono molto
pratiche e convenienti quelle elettriche.
c) pascolo parcellare o razionato: consente di mettere a disposizione degli animali
una piccola parte della superficie pascolativa, sufficiente a soddisfare le esigenze
nutritive giornaliere di una mandria o di un gregge. Questa tecnica, a carattere
intensivo, prevede per una sua corretta applicazione un costante impegno di
manodopera per l’allestimento delle parcelle e per lo spostamento del bestiame.
Inoltre, è indispensabile valutare correttamente la produzione foraggiera ed il carico
di bestiame istantaneo medio che deve essere applicato, al fine di non pregiudicare i
futuri cicli vegetativi delle piante. Il pascolo parcellare determina un maggior costo
per la manodopera e per il materiale di recinzione, ma consente di sfruttare al meglio
la produzione foraggiera permettendo, tra l’altro, un adeguato periodo di riposo della
cotica. Per una razionale applicazione di questa tecnica pascolativa non sono
sufficienti calcoli matematici basati sul rapporto fabbisogno/produzione, ma occorre
far riferimento alla flessibilità di utilizzazione dei pascoli ed alle variazioni dei tempi
di riposo dei pascoli in funzione delle condizioni climatiche, topografiche ed in
funzione della natura del suolo. Questi concetti generali sono espressi in maniera
organica da alcune leggi fondamentali elaborate da Voisin nel dopoguerra:
- perché l’erba pascolata possa dare la massima produttività è necessario che fra due
tagli successivi trascorra un tempo sufficiente a consentire all’erba di: a)
immagazzinare nelle sue radici le riserve indispensabili per un inizio di
germogliamento vigoroso, b) realizzare un’esplosione d’accrescimento (o gran
produzione giornaliera per ettaro);
- il tempo totale di occupazione di una parcella deve essere sufficientemente corto in
modo che l’erba tagliata nel primo giorno o al principio del pascolamento non sia di
nuovo tagliata dagli animali prima che questi lascino il recinto;
- è necessario migliorare l’appetibilità del pascolo in modo che gli animali possano
assumere la maggiore quantità di erba e che questa sia della migliore qualità
possibile;
- perché un bovino possa dare un rendimento regolare non deve rimanere in uno
stesso recinto più di tre giorni. I rendimenti saranno massimi se il bovino non rimane
più di un giorno nello stesso recinto. Questi principi di pascolamento razionale
tengono conto della biologia vegetale e non riducono l’utilizzazione dei pascoli ad un
semplice conto matematico. Particolarmente interessanti sono i concetti di
<<flessibilità di utilizzazione dei pascoli>> e di <<variazione dei tempi di riposo del
pascolo in funzione dei diversi climi e delle diverse zone>>. Il metodo Voisin tiene
293
conto delle finalità economiche delle produzioni zootecniche e può essere
considerato come modello-guida per lo sfruttamento intensivo dei pascoli.
Residuo del foraggio nel pascolo, in condizioni meteorologiche normali e con
un appropriato inizio del pascolamento (da Rieder e coll., 1983)
Tipo di pascolo %
Pascolo libero
pascolo a rotazione
pascolo razionato
35-70
25-35
20-25
Nelle condizioni reali occorre avere dei punti di riferimento che possano orientare le
scelte pastorali. In pratica, si ritiene che il pascolamento debba essere sospeso, come
limite massimo, quando la cotica è stata ridotta all’altezza di 2-3 cm (Jannelli, 1980).
La superficie giornaliera necessaria agli animali può essere calcolata in base
all’altezza del cotico, tenuto presente che ad ogni cm di altezza dovrebbe
corrispondere una quota disponibile di 100 kg di sostanza secca per ettaro (Rieder e
coll., 1983). Se si considera che il fabbisogno giornaliero di un bovino adulto è di 17
kg/giorno di SS, le superfici di pascolo varieranno in base all’altezza media del
cotico nel modo seguente:
Superficie di pascolo necessaria, giornalmente, ad un bovino adulto, in
funzione dell’altezza del cotico
Altezza media del cotico
(cm)
Superficie necessaria
(m2/vacca/giorno)
18
23
28
33
120
80
65
50
L’immissione del bestiame nei terreni di pascolo dovrebbe avvenire, in linea
generale, quando l’erba si trova al giusto stadio vegetativo. L’erba giovane è molto
digeribile ed ha un elevato tenore in proteine ma è carente in sostanza secca..
L’utilizzo dei foraggi negli stadi vegetativi precoci comporta una limitazione delle
potenzialità vegetative future. L’erba consumata in avanzata fase di maturazione è
ricca di fibra grezza e quindi è scarsamente digeribile. Quindi, per ogni pascolo
bisogna stabilire il punto di equilibrio tra gli aspetti quantitativi e quelli qualitativi
della produzione vegetale. In pratica, il pascolamento può iniziare quando l’erba
raggiunge un’altezza di 10-15 cm per la specie bovina e di 5-10 cm per le specie
ovina e caprina (Corleto, 1980).
10.2.3. Riposo del pascolo
Dopo ogni fase di utilizzazione, i pascoli necessitano di un periodo di riposo
indispensabile per la ricostituzione delle riserve degli apparati radicali. Il riposo
facilita un rapido ricaccio e la disseminazione delle piante più consumate dal
bestiame (Corleto, 1980). E’ stato calcolato che dopo ogni turno di pascolo
294
avvengono incrementi della produzione foraggiera, variabili secondo il periodo di
riposo (Rieder e coll., 1983):
- 25 qli nella prima settimana
- 45 qli nella seconda settimana
- 75 qli nella terza settimana.
Si tratta, in ogni modo di valori medi e si deve tenere presente che sono largamente
influenzati da diversi fattori, quali le condizioni meteorologiche, la velocità di
ricaccio, ecc. All’inizio della stagione di pascolo (maggio-giugno) è generalmente
sufficiente un periodo di riposo di circa 20-25 giorni; al termine della stagione di
pascolo questo periodo arriva a 45-50 giorni e può arrivare a 60 giorni nelle zone a
pascolo invernale. La riduzione del periodo ottimale di riposo comporta notevoli
perdite produttive:
- riduzione della produzione ad un terzo con tempi di riposo dimezzati;
- riduzione della produzione ad un decimo, con tempi di riposo ridotti ad un terzo.
10.3. Foraggi insilati
L'insilamento, rispetto alla fienagione, offre alcuni vantaggi in quanto
permette:
- di disporre di foraggi freschi durante la stagione fredda o durante la siccità estiva,
utile soprattutto per la produzione lattea;
- di conservare foraggi che non si prestano ad essere affienati (vedi granturco);
- una minore perdita di sostanza secca e di valore nutritivo dei foraggi insilati rispetto
a quelli affienati;
- una minore impiego di mano d'opera;
- una minore cubatura, necessaria, per conservare il foraggio in silo anziché in
fienile;
- eliminazione degli incendi.
I foraggi da insilare devono subire un parziale essiccamento (35-40% di sostanza
secca per le graminacee e 50-60% per le leguminose), in quanto:
a) una limitata disponibilità di acqua, ostacolando il proliferare di batteri, consente di
insilare essenze foraggiere difficili, come le leguminose, e di contenere le perdite
dovute alle fermentazioni e ai liquidi di percolazione, anche se contestualmente si
verifica un aumento delle perdite di campo;
b) la riduzione dell’umidità favorisce lo sviluppo dei lattobacilli rispetto ai clostridi e
quindi influenza nel verso giusto la qualità degli insilati;
c) il preappassimento aumenta l’appetibilità dell’insilato, dato che l’ingestione di
sostanza secca aumenta con il diminuire degli acidi organici dell’alimento. Così, una
bovina ingerisce 5-7 kg di sostanza secca se l’insilato contiene l’80-85% di acqua
mentre ne ingerisce 9-11 kg se l’umidità dell’alimento è del 70% o meno.
I foraggi, una volta messi nei sili, vanno soggetti ad una serie di fenomeni biochimici
che così si susseguono:
- respirazione: con questo processo è consumato l'ossigeno della massa e si
produce CO2; l'intensità di tale fenomeno è in relazione:
a) alla quantità di ossigeno presente nella massa la quale è legata allo stadio
vegetativo, al grado di appassimento o di maturazione, alla lunghezza del taglio, alla
rapidità delle operazioni di insilamento, al grado di costipamento, alla chiusura più o
meno ermetica del silo; in genere l’aria dell’insilato dovrebbe essere privata del suo
ossigeno entro 12 ore;
295
b) alla temperatura infatti, l’attività respiratoria cresce con l’aumento della
temperatura sino a 40 °C, sviluppando mediamente 4 cal/g di carboidrati
metabolizzati: nelle prime 24-36 ore la T non dovrebbe superare i 30 °C, se la T
continua ad aumentare significa che c’è ricambio di ossigeno nella massa.
c) pH della massa: la respirazione diminuisce con l’aumentare dell’acidità fino a
cessare con pH di 3,5;
- fenomeni autolitici: interessano la degradazione degli idrati di carbonio in alcol,
acetaldeide, acido piruvico e acido lattico e delle proteine in peptidi e aminoacidi.
- fermentazioni batteriche: rappresentano le trasformazioni più importanti
dell'insilamento. In base al tipo di batteri che le determinano possiamo distinguere:
a) fermentazione acetica: è dovuta ai batteri coliformi (aerobacter) che possono
svilupparsi anche in presenza di ossigeno; si trovano alla superficie del terreno e
nelle erbe e sono i primi a svilupparsi nel silo. Essi agiscono sugli zuccheri formando
acido acetico e CO2 ma anche alcol e acido lattico. L’acidificazione inizia quindi con
questi batteri la quale ha però una resa scadente in quanto si perde CO2 e vengono
degradati gli aminoacidi. La fermentazione acetica inizia contemporaneamente o
poco dopo la respirazione e non dura più di 2-3 giorni, arrestandosi quando il pH
scende a valori di 4,5;
b) fermentazione lattica: questa fermentazione è essenziale per la buona riuscita della
conservazione del foraggio. Ha inizio dal 2° giorno di conservazione e termina 15-20
giorni dopo, quando il pH è compreso tra 3,8 e 4,2; a tale pH è inibita l'azione dei
batteri butirrici e proteolitici. I batteri lattici sono i responsabili della fermentazione
lattica e appartengono fondamentalmente a quattro generi: Lactobacillus,
Streptococcus, Leuconostoc e Pediococcus. Questi batteri si sviluppano nei primi tre
giorni di conservazione preferendo temperature comprese tra i 20 e i 30 °C, perciò
sono denominati a fermentazione fredda. Essi attaccano gli zuccheri (glucosio,
fruttosio, pentosani) formando, a seconda del substrato e della specie, acido lattico
(fermentazioni omolattiche) o insieme di acido lattico e di acido acetico o di etanolo
(fermentazioni eterolattiche). L’acido lattico ha un elevato potere acidificante e
quindi la sua produzione crea un abbassamento del pH dell’insilato fino a livelli tali
(3-4) da inibire lo sviluppo dei microrganismi dannosi. Per un buon sviluppo dei
batteri lattici è necessaria nel foraggio la presenza di zuccheri facilmente
fermentescibili (6-7% sulla s.s.) inoltre, va eliminata rapidamente l’aria dalla massa
insilata per bloccare la respirazione, che avviene proprio a spese degli zuccheri ;
c) fermentazione butirrica: i batteri butirrici causano la fermentazione butirrica che è
nettamente dannosa all'insilamento. Consiste nella trasformazione, ad opera dei
clostridi, degli zuccheri e dell'acido lattico ad acido butirrico, con produzione di H2 e
CO2. I batteri responsabili prediligono condizioni di aerobiosi e temperatura elevata.
d) fermentazione proteolitica: i batteri di tale fermentazione si distinguono in
proteolitici in senso stretto se limitano la loro azione alla idrolisi proteica ed in
putrifici se metabolizzano gli aminoacidi con produzione di ammine, ammoniaca,
fenoli, H2S. Detti batteri (Clostridi, Bacillus, Proteus) si moltiplicano solo a valori di
pH superiori a 5,3-5,5. Da quanto detto, è logico che per la buona riuscita dell'insilato
è necessario avere i seguenti accorgimenti:
- è preferibile trinciare il foraggio per facilitare la fuoriuscita dei succhi vegetali e
quindi accelerare i processi di fermentazione;
- è necessario comprimere bene il foraggio e chiudere ermeticamente il silos per
creare condizioni di anaerobiosi e quindi facilitare la fermentazione lattica che,
peraltro, è favorita da T di 20-25 °C.
296
La trinciatura assume un’importanza basilare nella riuscita dell’insilamento. Più il
foraggio è tagliato corto, meglio si pressa e minore è la quantità di aria, dannosa alle
fermentazioni favorevoli, che rimane nel silo. La trinciatura accelera anche l’uscita
dalle cellule vegetali dei succhi che costituiscono il substrato ottimale per l’attività
dei batteri lattici. Essa, inoltre, è particolarmente vantaggiosa per i foraggi
difficilmente fermentescibili o di forma ingombrante e nel caso di sili privi di
chiusura ermetica come quelli orizzontali. Le foglie e i colletti di barbabietola,
specialmente quando sono sporchi di terra, non vanno trinciati. L’insilamento senza
trinciatura può essere effettuato purché si verifichino le seguenti condizioni:
- insilare erba giovane, non bagnata e fortemente preappassita;
- riempire il silo velocemente;
- usare dispositivi di chiusura ermetica o coperchi a pressione.
La lunghezza di trinciatura può variare da 0,5 a 3 cm in funzione dell’essenza
foraggiera (minore nell’insilato di mais) e del grado d’umidità (maggiore nei foraggi
verdi) e deve contemperare le esigenze della compressione con quelle della
produttività del cantiere di raccolta.
Un buon insilato presenta le seguenti caratteristiche: integrità dei tessuti vegetali,
odore gradevole, sapore acidulo, buona appetibilità, assenza di muffe, pH 3,8-4,2;
acido lattico 7-12% sulla sostanza secca; contenuto in azoto ammoniacale non
superiore al 10-12% rispetto a quello totale.
10.3.1. Metodi di insilamento
Metodo cremasco o italiano: il silo ha una forma cilindrica ed un volume di
100-500 m3
circa. Il foraggio è messo nella torre quando l'umidità è scesa al 45-50%,
previa trinciatura specialmente per i foraggi a steli grossi e resistenti. La massa di
foraggio va costipata energicamente onde favorire la flora lattica ed evitare la flora
butirrica. Per favorire lo sviluppo della fermentazione lattica occorre allontanare la
maggior quantità possibile di aria dal foraggio e impedire che essa vi penetri
successivamente. Le perdite dovute alle fermentazioni dannose saranno tanto minori
quanto più rapida ed energica è stata la costipazione.
Metodi di insilamento per i foraggi verdi:
a) Insilamento con acidificazione naturale
(sistema americano): si adatta soprattutto per la
conservazione del granturco e del sorgo i quali
sono raccolti a maturazione cerosa della
pannocchia o della spiga, trinciati e sfibrati.
Non è necessario costipare bene il foraggio, né
chiudere il silo col coperchio in quanto,
essendo questi foraggi ricchi di zuccheri (5-10%), si ha una notevole attività
respiratoria che satura l'ambiente di CO2 e quindi è favorita la fermentazione lattica
ed il raggiungimento dell'acidità ideale per la conservazione del foraggio.
b) acidificazione artificiale (metodo finlandese): Si basa sull'aggiunta di acidi
minerali diluiti per realizzare subito un pH compreso fra 3,5-4 in modo da favorire lo
sviluppo dei lattobacilli. In genere si usa una miscela composta dal 12% di HCl, 2%
di H2SO4 e 86 litri di acqua. La miscela si somministra in misura di 5-8 litri per q.
La somministrazione per lunghi periodi di insilati così acidificati sposta l'equilibrio
acido-basico del sangue verso condizioni di acidosi e pertanto si consiglia di
aggiungere alla razione 3,5 g di una miscela, composta dall'80% di carbonato di
Silo a torre
Silo a torre
297
calcio e 20% di carbonato di sodio, per ogni kg di insilato oppure si può ricorrere
all'acidificazione degli insilati mediante acidi organici (formico, formolo).
L'acidificazione artificiale offre la possibilità di insilare foraggio fresco anche se
bagnato, di conservare le erbe povere in zuccheri e di ridurre le perdite di sostanza
secca, digeribilità e caroteni.
c) insilamento con l'aggiunta di sostanze zuccherine o antifermentative: la
conservazione dei foraggi poveri in zuccheri (leguminose) è possibile mediante
l'aggiunta di sostanze zuccherine o l’intima mescolanza delle leguminose con foraggi
e alimenti ricchi di glucidi fermentescibili in modo da favorire la produzione di acido
lattico.
In genere sono aggiunti:
- foraggi di graminacee (mais, sorgo) nella misura del 25-30%;
- barbabietole da zucchero sfettucciate;
- melasso di bietola o di canna;
- sostanze chimiche ad azione batteriostatica selettiva (SO2).
10.3.2. Sostanze conservanti
La conservazione di foraggi ricchi di acqua e/o di proteine, l’adozione di
tecniche non adeguate di raccolta e trinciatura del foraggio e di caricamento e
chiusura del silo, e la necessità in genere di migliorare l’efficienza della
conservazione inducono molto spesso a ricorrere a sostanze conservanti in grado di
modulare positivamente i processi fermentativi. Queste sostanze sono distinte in otto
classi, a seconda del tipo di azione che svolgono.
Acidificanti diretti: essi causano un rapido abbassamento del pH della massa e quindi
un’azione selettiva sulla microflora, favorendo lo sviluppo di quella lattica. Fra i più
importanti ricordiamo l’acido formico che viene venduto in soluzione all’85%, che
deve essere diluito in acqua in rapporto 1:2 prima dell’impiego. Tale miscela va
distribuita in rapporto di circa 5 litri per q di prodotto fresco. Il ricorso a sostanze
acidificanti è particolarmente indicato per foraggi molto umidi e per quelli a ridotta
fermentescibilità.
Caratteristiche
buoni insilati
integrità dei tessuti
foglie ben attaccate
colore verde giallastro o verde bruno
odore gradevole, aromatico acetico
sapore acidulo
buona appetibilità
assenza di muffe tranne nello strato superficiale
pH = 3,8-4,2
acido lattico = 7-12% su sostanza secca
acidi volatili = 3-4%
degradazione limitata delle proteine (N ammoniacale < 10-12% / N
totale
assenza o solo tracce di ac. butirrico
Inibitori delle fermentazioni: lo scopo dell’aggiunta di queste sostanze è quello di
inibire le attività fermentative dei microrganismi. La formaldeide, compatibilmente
298
con le disposizioni legislative, viene utilizzata maggiormente,. Essa è impiegata sotto
forma di formalina in dosi di 60 g per q di prodotto verde. L’impiego di questa
sostanza può, tuttavia, creare problemi al momento del desilamento per l’instabilità
aerobica dell’insilato trattato dovuta alla presenza di zuccheri non fermentati.
Recentemente, è stato dimostrato che anche l’ammoniaca può ostacolare le attività
microbiche. In questo caso il principio può essere apportato direttamente (ammoniaca
anidra) o mediante precursori, quali l’urea e il bicarbonato di ammonio. La dose da
impiegare è di circa 3 kg di NH3 per quintale di sostanza secca del foraggio da
insilare.
Stimolatori delle fermentazioni: sono compresi
additivi che hanno lo scopo di favorire la
produzione di acido lattico in foraggi con limitate
disponibilità di zuccheri fermentescibili. Molto
utilizzato è il melasso che dà i migliori risultati in
foraggi con almeno il 25% di sostanza secca
mentre in foraggi molto umidi o bagnati o in
quelli già in fermentazione, non è consigliabile in
quanto si possono stimolare i batteri dannosi e
aumentare le perdite di liquidi di percolazione. In
genere s’impiega il 2% di melasso per le
graminacee e il 4% per le leguminose. Si possono
inoltre usare lo zucchero grezzo per uso
zootecnico (1-2%) e le fettucce essiccate integrali di barbabietola, le quali sono più
adatte per foraggi molto acquosi. Il substrato fermentescibile può essere aumentato,
ricorrendo ad enzimi in grado di degradare i carboidrati strutturali (cellulosa ed
emicellulosa) e l’amido con produzione di zuccheri utilizzabili dai microrganismi
fermentanti.
Inoculi microbici: per aumentare la produzione di acido lattico si possono
aggiungere, mediante appositi dispositivi, dei fermenti lattici i quali anticiperebbero
la fermentazione lattica e di conseguenza determinerebbero una minore produzione
di acido butirrico e di ammoniaca libera, la cui presenza diminuisce sia il valore
nutritivo che l’appetibilità dell’insilato.
Inibitori del deterioramento aerobico: sono additivi che riducono le perdite di
superficie e trovano maggiore utilità nei sili orizzontali. Più usato è l’acido
propionico, che va distribuito in ragione dell’1,5% della sostanza secca.
Antibiotici: sono sostanze che selezionano la flora batterica in modo da favorire certe
fermentazioni a scapito di altre. In maggior misura vengono utilizzate la bacitracina e
la streptomicina. L’uso degli antibiotici è, comunque, regolamentato da disposizioni
legislative, al fine di evitare l’insorgenza di fenomeni di resistenza ai trattamenti
chemioterapici che potrebbero compromettere la sanità degli allevamenti.
Miglioratori delle caratteristiche nutritive: quando si hanno foraggi che già in
partenza hanno uno scarso valore nutritivo e/o carenze di proteine, elementi minerali
al momento dell’insilamento si possono aggiungere prodotti in grado di migliorarne
la qualità. Fra questi prodotti vanno annoverate: a) le polpe secche di barbabietola, b)
l’urea (500 g/q trinciato) che oltre ad elevare il contenuto azotato stimolerebbe
l’attività batterica e aumenterebbe la produzione di acidi organici. L’urea ed i sali
minerali vanno somministrati facendo attenzione a non far elevare di molto il pH e
non vanno utilizzati per foraggi di difficile insilamento.
299
Prodotti limitanti le perdite di percolamento: come già detto la fuoriuscita di liquidi
di percolazione significa perdita di principi nutritivi. Risulta utile limitare queste
perdite mediante aggiunta di polpe secche di bietola e paglie di cereali. L’aggiunta di
tali prodotti non deve, comunque, far elevare eccessivamente il contenuto in sostanza
secca per non modificare il percorso delle fermentazioni in quanto ciò potrebbe
ridurre il valore nutritivo e l’appetibilità del prodotto ottenuto.
10.3.3. Strutture di insilamento
La quantità di insilato da produrre è in funzione del numero dei capi di
bestiame allevati e della quantità di alimento conservato utilizzabile nel
razionamento. Il numero e le dimensioni dei sili dipendono dal tipo di foraggio, dalla
produttività e dall’estensione delle aree destinate alla coltura delle foraggiere e dalla
necessità di rinnovare frequentemente il fronte di taglio.
E’ opportuno insilare separatamente i
diversi tagli e tipi di foraggio. Visto
che in condizioni normali già nei primi
tre giorni di fermentazione deve essere
formato il 75% dell’acido lattico,
occorre riempire i contenitori con la
massima velocità al fine di limitare al
minimo l’infiltrazione di aria; quindi,
per l’insilamento si dispone solo di uno
due giorni. In questo tempo si dovrebbe
riempire per intero un silo orizzontale e
per i 3/4 un silo a torre, per evitare il
riscaldamento del foraggio e il
conseguente avvio di fermentazioni dannose. Tutto ciò implica un adeguato parco
macchine aziendale, che può essere aumentato ricorrendo all’aiuto di altri agricoltori
oppure a conto-terzisti.
10.3.4. Tipi di silo
Sili a torre a chiusura ermetica - Vanno scomparendo per le difficoltà di
meccanizzazione e l’alto impiego di manodopera oltre che per l’elevato costo
dell’investimento iniziale. Tipi moderni di sili a torre (acciaio, vetroresina) sono
quelli ciclatori i quali permettono di aggiungere nuovo alimento dall’alto man mano
che si preleva dalla base. Dato l’elevato costo e le caratteristiche che li
contraddistinguono si adattano più a conservare concentrati che foraggi. In questi sili,
per evitare l’ingresso di aria al momento del prelievo (depressione, differenza di
temperatura tra interno ed esterno) sono previsti appositi sistemi di compensazione
(polmoni compensatori, valvole apposite) i quali sono più importanti nei sili costruiti
in acciaio i quali rispetto a quelli di vetroresina sono meno isolanti.
Sili orizzontali a trincea - Sono quelli più diffusi nelle aziende agricole medio-grandi,
devono avere un volume minimo di 100 m3 per ridurre il più possibile la superficie
esterna. Vanno riempiti in due giorni e quindi bisogna avere una vasta area coltivata
a foraggio da insilare (5-8 ha di prato di primo taglio, 8-10 ha di prato di 2° taglio, 2-
2,5 ha di mais). Per le dimensioni assumono importanza l’altezza e la larghezza.
L’altezza, influenzando il rapporto tra superficie esposta e volume di prodotto
insilato, condiziona l’entità delle perdite provocate da ammuffimenti superficiali. Per
la larghezza, da un lato è necessaria una certa ampiezza per facilitare le operazioni di
Silo a platea
300
carico (manovra dei mezzi) dall’altro si deve limitare la larghezza per contenere entro
certi limiti la superficie del fronte di taglio del silo; bisogna considerare che questa
superficie è esposta all’aria e se non viene rinnovata giornalmente (bisognerebbe
asportare uno strato di almeno 15-20 cm) è soggetta a fenomeni di ossidazione e di
ammuffimento. Ciò significa che, se l’insilato viene utilizzato durante tutto l’anno si
deve avere un silo o una serie di sili della lunghezza di 55-75 m (365d x 0,15 m/d =
54,8 m; 365 d x 0,2 m/d = 73 m). A livello pratico, le dimensioni di un silo possono
essere determinate con l’ausilio dell’abaco ove, noti il numero di capi e l’ingestione
di insilato, si può determinare in funzione dell’altezza desiderata, la larghezza del
manufatto. Il silo a trincea, generalmente, è costituito da due pareti laterali e da una
parete di fondo; alcune volte la parete di fondo manca e il carico e scarico viene fatto
da entrambe le testate. Per la copertura del silo si impiegano teli di polietilene o in
polivinilcloruro dello spessore di 0,10-0,15 mm, di colore chiaro e preferibilmente
non trasparenti. La pavimentazione viene realizzata in calcestruzzo mentre in base
alle pareti laterali abbiamo:
- sili realizzati in opera
- sili realizzati con elementi prefabbricati appoggiati o fissati al suolo.
Sili orizzontali a platea: I sili mobili a platea, adatti per foraggi trinciati, vengono
realizzati su superfici livellate con pavimento di cemento o di asfalto. Per una buona
compressione meccanica del foraggio occorre una superficie larga almeno 8 m e
lunga 15 m circa. L’altezza del cumulo dovrebbe aggirarsi intorno a 1,5-2 m, mentre
la lunghezza e la larghezza vengono determinate dalle misure del telone di
sottofondo che, su tutti i lati, dovrebbe sporgere per lo meno di mezzo metro dal
cumulo. Ultimati i lavori di caricamento, il cumulo va coperto con teli di plastica e
per assicurare l’aderenza della plastica al terreno conviene realizzare un cordolo
perimetrale di terreno o di sabbia, mentre per tenere il telo ben aderente alla massa
insilata si può ricoprire il silo con sacchi di sabbia, o altro materiale pesante.
Strutture per l’insilamento in materiale plastico - I teli di materiale plastico offrono,
oltre a numerose possibilità di applicazione, anche il vantaggio del basso costo di
investimento. Essi trovano impiego soprattutto per l’insilamento di foraggi trinciati o
di foraggi imballati. Nei piccoli allevamenti trovano utile impiego i vacum i quali
sono dei grandi sacchi che, durante la fase di carico, sono sostenuti da una struttura in
vetroresina o in rete metallica per ottenere un’uniforme sistemazione del prodotto.
Una volta terminato il carico, i sacchi vengono chiusi, viene eliminata l’aria tramite
un decompressore e vengono tolte le strutture di supporto.
10.4. Fieni
Lo scopo della fienagione è quello di ridurre il contenuto in acqua del
foraggio verde fino ad un livello tale da inibire l’azione degli enzimi vegetali e
microbici Derivano dall’essiccazione delle erbe, durante la quale il contenuto in H2O
passa dall'80 al 10-20%. I fieni si distinguono in fieni polifiti (prato naturale) e fieni
di leguminose (medica, trifoglio, lupinella, sulla). I prati possono fornire tre tagli se
asciutti e 5 se irrigui, di cui i primi 4 affienabili.
L'epoca più conveniente di sfalcio corrisponde al principio della fioritura delle specie
foraggiere più diffuse e va detto che lo sfalcio può essere ritardato nei climi umidi,
ma deve essere anticipato in quelli aridi. Le caratteristiche di un buon fieno sono:
- composizione botanica, deve essere rappresentata soprattutto da graminacee e
leguminose, mentre le altre famiglie non dovrebbero essere più del 15% in peso;
301
- rapporto tra foglie e steli: la qualità è maggiore quando il contenuto in foglie,
rispetto a quello degli steli, è elevato;
- colore: deve essere verde chiaro, mentre un colore giallastro paglierino indica che il
fieno deriva da erbe mature o dilavate;
- odore: deve essere gradevole e più o meno aromatico;
- assenza di muffe.
Perdite tecniche della fienagione
Durante la fienagione si hanno perdite dovute ad azione di enzimi vegetali e
microbici, ossidazione chimica, lisciviazione e per azione meccanica:
a) azione degli enzimi vegetali e dei microrganismi: le principali modifiche riguardano i
carboidrati solubili ed i composti azotati; all’inizio si hanno processi a carico di
singoli carboidrati idrosolubili, come la formazione di fruttosio per idrolisi dei
fruttosani mentre quando il processo di essiccamento si prolunga, avvengono
notevoli perdite di esosi a seguito della respirazione e queste perdite motivano un
aumento della concentrazione di altri costituenti della pianta, specialmente dei
componenti della parete cellulare, che si riflette sul contenuto in fibra.
Composizione chimica, valore nutritivo e produttività (% su sostanza secca) del
trifoglio pratense a seconda dello stadio vegetativo
Stadio vegetativo S.S.
%
Proteina
grezza
Lipidi
grezzi
Cellulosa
grezza
Estrattivi
inazotati
Ceneri UFL
Molto giovane 17 25 3,5 18 42,5 11 84
Prefioritura 17 21 3,8 24 42,2 9 78
Inizio fioritura 19 18 3,7 27 43,3 8 77
Fine fioritura 21 16 3,3 28 45,7 7 66
Evaporazione dell’acqua durante l’essiccamento del fieno (20% di
umidità residua
Peso (kg)
600
85 %
500
Contenuto idrico
400
300
200 kg, 60%
200
123 kg, 35%
100
100 kg, 20%
80 kg (SS)
Taglio 1° giorno 2° giorno 3° giorno
302
Con la respirazione si ha la trasformazione degli idrati di carbonio in CO2 e H2O, si
verifica fino a quando l'erba non arriva ad un contenuto in acqua del 40% o meno.
Nell’erba appena tagliata, le proteasi presenti nelle sue cellule rapidamente
idrolizzano le proteine a peptidi ed aminoacidi; all’idrolisi fa seguito una certa
degradazione di specifici aminoacidi.
Se il tempo è cattivo e l’essiccamento si prolunga, si possono avere alterazioni legate
all’attività dei batteri e dei funghi. Il fieno ammuffito assume un sapore sgradevole e
può essere dannoso per gli animali a causa della presenza di micotossine inoltre,
questi fieni possono contenere actinomiceti che sono responsabili di una sindrome
allergica che colpisce l’uomo ed è nota come malattia polmonare del contadino.
b) ossidazione: quando l’erba viene essiccata in campo subisce dei processi
ossidativi i cui effetti si possono osservare sui pigmenti, molti dei quali vengono
distrutti, così i caroteni possono passare da 150-200 mg/kg nella sostanza secca
dell’erba fresca a 2-20 mg/kg nel fieno. L’essiccamento rapido su treppiedi o in
fienile consente una migliore conservazione dei caroteni. Di contro, la luce solare ha
un effetto benefico sul contenuto in vitamina D, che si forma per irradiazione
dell’ergosterolo, presente nelle piante verdi.
c) lisciviazione: le perdite per lisciviazione sono dovute alla pioggia e sono maggiori
se la pioggia interviene quando l’erba è già parzialmente essiccata. Queste perdite
riguardano minerali solubili, zuccheri e componenti azotati. La pioggia può inoltre
prolungare l’azione degli enzimi presenti nelle cellule e causare, quindi, maggiori
perdite di principi nutritivi e favorire l’insediarsi di muffe.
d) perdite meccaniche: tali perdite ammontano a circa il 5-15%; durante
l’essiccazione le foglie perdono acqua più rapidamente degli steli, quindi diventano
fragili e si rompono facilmente. Va considerato che le foglie allo stadio del fieno,
sono più ricche degli steli in principi nutritivi digeribili e quindi il valore nutritivo
del fieno si riduce sensibilmente con tali perdite. Con l’uso delle macchine che
permettono lo schiacciamento degli steli, i tempi di essiccamento fra steli e foglie si
differenziano di poco e quindi si possono ridurre le perdite meccaniche. Inoltre, la
compressione in balle del foraggio in campo, quando ha ancora un contenuto in
umidità del 30-40%, ed il suo successivo essiccamento, per ventilazione artificiale,
può notevolmente ridurre le perdite meccaniche.
Modifiche che avvengono durante la conservazione del fieno
A fienagione ultimata, il fieno può contenere dal 10 al 30% di umidità; a
valori di umidità più elevati, si possono avere delle modifiche di carattere chimico
dovute all’azione di enzimi presenti nei vegetali o prodotti da microrganismi. La
respirazione cessa a circa 40 °C, ma i batteri termofili possono agire fino a 72 °C; al
disopra di questa temperatura, l’ossidazione chimica può causare un ulteriore
riscaldamento e il calore che si accumula all’interno della massa può causare
autocombustione. Il riscaldamento prolungato può avere effetti negativi sul contenuto
proteico del fieno. Si formano nuovi legami all’interno e fra le catene peptidiche ed
alcuni di questi legami sono resistenti all’idrolisi operata dalle proteasi con
conseguente minore digeribilità delle proteine stesse. La sensibilità delle proteine agli
effetti del calore aumenta in presenza di zuccheri; le reazioni di Maillard sono il
risultato di una serie complessa di reazioni chimiche che iniziano con la
condensazione fra il gruppo carbonilico di una zucchero riducente e l’amino gruppo
libero di un aminoacido o di una proteina. La temperatura ha un effetto importante
sulla velocità di queste reazioni: esse sono novemila volte più rapide a 70 che a 10
°C. La lisina è l’aminoacido particolarmente sensibile a queste reazioni. I prodotti
303
all’inizio sono incolori, alla fine diventano marroni; il colore bruno scuro dei fieni
che hanno subito un notevole riscaldamento, e di altri alimenti, va soprattutto
attribuito alla sintesi di Maillard. Le perdite di caroteni, durante la conservazione del
fieno, dipendono in larga parte dalla temperatura. Sotto i 5 °C è probabile che le
perdite siano poche o nulle, mentre possono essere notevoli in ambiente caldo.
Peraltro, le modifiche che hanno luogo durante la conservazione finiscono con
l’aumentare la % dei costituenti delle pareti cellulari e quindi causano una riduzione
del valore nutritivo.
Complessivamente, le perdite meccaniche e quelle dovute alla respirazione e
fermentazione, per una fienagione ben condotta e non ostacolata dal maltempo, si
aggirano su 1/5 della sostanza secca, 1/4 del valore nutritivo ed 1/3 delle proteine
digeribili.
L'essiccazione dell'erba può avvenire direttamente sul terreno oppure la si può
accelerare utilizzando alcuni accorgimenti:
- disposizione dell'erba su fili di ferro collegati a robusti paletti;
- fienagione mediante impianti di ventilazione forzata del foraggio già appassito
sul fino ad un tenore dell'umidità del 35-40% e quindi sottoposto a ventilazione in
appositi locali (tettoie, fienili, torri da fieno).
Questo sistema, anche se costoso, consente
la riduzione delle perdite e di affienare
anche in condizioni meteorologiche
sfavorevoli. L’erba falciata viene lasciata
appassire in campo fino a raggiungere un
tenore di umidità inferiore al 50%; il
foraggio una volta raccolto sfuso o
imballato, viene posto in fienili attrezzati
con appositi sistemi di ventilazione
mediante i quali l’aria, a temperatura
ambiente o riscaldata, viene fatta passare
attraverso la massa foraggiera fino a ridurre l’umidità al di sotto del 20%. Questo tipo
di fienagione, detto in due tempi, presenta i seguenti vantaggi:
a) riduzione del tempo di essiccamento in campo a uno o due giorni, con
eliminazione quasi completa dei rischi di natura meteorologica;
b) diminuzione delle perdite meccaniche;
c) miglioramento della qualità del foraggio, per la possibilità di praticare lo sfalcio al
momento più opportuno e per la riduzione delle perdite di sostanze nutritive.
Le dimensioni, la potenza e il costo dell’impianto di essiccazione dipendono:
a) dalla quantità di acqua da eliminare;
b) dal tempo disponibile per l’essiccamento definitivo;
c) dall’umidità relativa e dalla temperatura dell’aria.
Ad esempio, per ottenere un q di fieno con 20 kg di acqua e 80 kg di sostanza secca,
occorre far evaporare da 533 kg di foraggio fresco 453-20 = 433 kg di acqua. Per
ridurre l’umidità dall’85 al 60% durante l’essiccazione in campo nella prima giornata
devono evaporare 333 kg di acqua; nella seconda giornata, per portare il contenuto di
umidità dal 60 al 35%, l’evaporazione interessa 76 kg di acqua, mentre nel terzo
giorno la quantità di acqua evaporata si riduce a soli 24 kg e l’umidità scende al 20%.
L’entità del processo di essiccazione in campo si rallenta con la progressiva riduzione
della percentuale di umidità del fieno. Alla fine della seconda giornata già il 95%
dell’acqua da eliminare contenuta nell’erba è evaporata, per cui le elevate perdite di
304
principi nutritivi che si verificano nella
fienagione sono dovute prevalentemente
all’umidità residua. Le perdite possono
essere ridotte, ricorrendo all’essiccazione
definitiva nel fienile. In questo caso
occorrono solo 1 o 2 giorni di bel tempo per
appassire sufficientemente il foraggio fresco
da sottoporre a ventilazione forzata, tenendo
presente che tanto più bassa è la % di
umidità al momento della raccolta, meno
acqua occorre eliminare con la ventilazione e più velocemente si raggiunge il
risultato finale. Entro poche ore dall’immagazzinamento il fieno umido inizia a
riscaldarsi, con conseguente perdita di sostanze nutritive e diminuzione della
digeribilità delle proteine. Il passaggio di aria attraverso la massa foraggiera ostacola
questo riscaldamento ed elimina l’umidità eccessiva. Tale processo deve essere
ultimato entro 6-8 giorni, al massimo, altrimenti si possono verificare elevate perdite
di fermentazione ed ammuffimento del foraggio. Occorre perciò far passare
attraverso la massa foraggiera una quantità di aria sufficiente a portare la % di
umidità al di sotto del 20%.
Nell’essiccazione artificiale si deve tenere presente che:
a) una presenza di umidità del 40% al momento della raccolta richiede
l’evaporazione di 33 kg di acqua/q di fieno (20% di umidità residua);
b) un metro cubo di aria può assorbire in media 1 g di acqua;
c) l’essiccazione deve essere completata entro 8 giorni, con circa 100 ore di
ventilazione complessiva (soprattutto nelle ore più calde del giorno).
Ne risulta che in 100 ore occorrono 33.000 m3 di aria/q di fieno. Un tenore di umidità
del 40% richiede una portata specifica di ventilazione di 0,1 m3 di aria/secondo/q di
fieno; tale portata sale a 0,15 m3
di aria/secondo/q di fieno se l’umidità è del 47%.
L’aria deve passare attraverso la massa
foraggiera con diffusione regolare a
pressione omogenea; perciò occorre
immagazzinare il fieno in strati soffici e
regolari. La distribuzione, quindi, deve
avvenire in modo uniforme, evitando di
compattare la massa; a tale scopo, è molto
diffuso l’impiego di soffiatrici con tubo
telescopico e testata distributrice oscillante.
La capacità di essiccamento dell’aria può
essere migliorata riscaldandola e ciò può essere utile in presenza di masse foraggiere
con umidità superiore al 40-45%, oppure in aree con clima sfavorevole. Questo
procedimento consente di ridurre il processo di essiccazione a un terzo del tempo
normale o di eliminare dal fieno una quantità tripla di acqua.
Ciò corrisponde alla possibilità di asportare 100 kg di acqua da un fieno con il 60%
di umidità nello stesso tempo in cui si eliminano 33 kg di acqua per ogni q di fieno
con il 40% di umidità. Per riscaldare l’aria si usano appositi bruciatori, muniti di
scambiatori di calore. Si distinguono due sistemi:
a) riscaldamento leggero di 3-8 °C;
b) riscaldamento forte di 30-40 °C.
305
Per il riscaldamento leggero si possono adoperare installazioni per la ventilazione ad
aria ambiente. Per fienili con capacità di 150-250 m3 la potenza dei bruciatori deve
essere di 20.000-40.000 Kcal/h; per aumentare la temperatura dell’aria di 3 °C
occorre in media 1 kcal/m3. Il riscaldamento forte è impiegato in maniera limitata e
necessita di installazioni con una superficie di essiccamento da 20 a 50 m2. Si carica
il foraggio umido, a mano o meccanicamente, in strati fino a due metri di altezza e
dopo 1-2 giorni quello essiccato viene tolto per far posto alla successiva partita.
Si utilizzano installazioni la cui potenza va dalle 100.000 alle 150.000 Kcal/h.
Fieni di prati polifiti
Essi presentano una grande variabilità nelle loro caratteristiche organolettiche
e nutritive, in relazione alla composizione botanica, epoca dello sfalcio, natura del
terreno, tecnica ed esito della fienagione. In genere possiamo dire che il taglio
maggengo è più apprezzato per i cavalli e i vitelloni all'ingrasso; il taglio agostano è
più fibroso e quindi va meglio per i bovini adulti, mentre al giovane bestiame ed alle
lattifere andrebbero destinati i fieni ricchi di leguminose, fogliosi ed aromatici. Un
fieno di media qualità di prato polifita e con prevalenza di graminacee contiene 9-
9,5% di proteina grezza, 27-28% di fibra, 5-5,6% di ceneri ed ha un valore nutritivo
di 40 U.F./q (fieno normale).
Fieni di leguminose
Hanno un elevato contenuto proteico (7-12% di proteina digeribile), sono
ricchi di calcio altamente assimilabile, caroteni e vitamina B. Fra essi ricordiamo
soprattutto:
- fieno di medica, con valore nutritivo di 40-52 U.F./q;
- fieno di trifoglio pratense e trifoglio ladino con valore nutritivo uguale o superiore a
quello della medica; è poco consigliato negli equini perché può causare indigestione
e meteorismo intestinale;
- fieno di lupinella, contrariamente a quanto avviene per i fieni di medica e di
trifoglio non viene considerato riscaldante e quindi indicato per i cavalli.
Conservanti del fieno
L’impiego dei conservanti ha l’obiettivo di conservare il fieno con un
contenuto in umidità superiore al normale. Sono stati utilizzati diversi prodotti ma
quelli che hanno suscitato maggiore interesse sono l’acido propionico e il suo
derivato, meno volatile, il dipropionato di ammonio. Più recentemente, il successo
del trattamento della paglia con ammoniaca anidra ha incoraggiato studi sugli effetti
del trattamento del fieno con lo stesso gas. L’ammoniaca anidra, iniettata in cataste di
balle di fieno umido coperte di plastica, si è dimostrata in grado di aumentare la
stabilità in condizioni aerobiche ed anaerobiche, e di migliorare il valore nutritivo.
Determinazione valore nutritivo del fieno:
Metodo Watson = U.A. = 87,64 - 0,69 X; dove X = % protidi + % fibra x 2;
Esempio: fibra 27,5%; proteine 9,1%; sostanza secca = 85%;
fibra = (27,5 x 100)/85 = 32,3; proteina grezza = (9,1 x 100)/85 = 10,7; X = 32,3 x 2
+ 10,7 = 75,3;
Unità amido = 87,64 - 0,69 x 75,3 = 35,9
Unità foraggiere = 35,9 x 1,43 = 51,3
Va considerato che i fieni inglesi a cui fa riferimento Watson hanno meno fibra dei
nostri.
306
Metodo delle unità amido: si calcola il valore amido teorico di 100 kg e si detraggono
0,58 UA/kg fibra; per utilizzare questo metodo bisogna conoscere la composizione
chimica del fieno
Sistema basato sul giudizio soggettivo della qualità del fieno, utilizzato in Germania
1) colore:
naturale tendente al verde
parzialmente decolarato o ingiallito
fortemente ingiallito
bruno-nero bruciato
2) apparenza e consistenza (struttura):
ricco di foglie e morbido
poche foglie, tendenzialmente duro
molto povero di foglie, ruvido
quasi privo di foglie, con steli legnosi e duri
3) odore:
buono, aromatico da fieno
scipito, odori estranei, bruciato
di muffa o di marcio
4) impurità:
assenti
ridotte
elevate
I punteggi ottenuti nelle voci 1-4 vengono sommati.
Punti
7
5
2
0
7
5
2
0
3
1
0
3
1
0
Punti
20-16
15-10
9-5
4-0
Classi di qualità
ottima-buona
discreta
mediocre
cattiva
Perdite
basse
medie
alte
molto alte
Note:
- l’ingiallimento è dovuto a piogge o ad un eccessivo tempo di essiccamento in
campo. Il fieno imbrunito dal riscaldamento presenta una ridotta digeribilità
- l’apparenza dipende dalla specie di pianta e dall’epoca dello sfalcio; il fieno di
piante foraggiere avvicendate contiene normalmente più steli di quello di un
prato stabile inoltre, una consistenza dura e pungente del fieno può essere
dovuta a perdite subite durante la fienagione;
- le foglie frantumate comportano un giudizio negativo solo se presenti in
percentuale elevata.
Va osservato che: a) il fieno putrido, fortemente ammuffito o marcio, viene
considerato guasto e non può essere somministrato; b) - il fieno ottenuto
mediante ventilazione ad aria calda ha un valore nutritivo superiore a quello
ottenuto con altri sistemi di essiccamento
307
10.4.1. Disidratazione artificiale dell'erba
L’essiccazione artificiale dell'erba, ed in particolare della medica, va
assumendo notevole importanza in diversi paesi. L'erba da destinare alla
disidratazione deve provenire da leguminose, essere giovane (25-30 cm di altezza) e
ricca di foglie in modo da avere un optimum di proteine, caroteni e vitamine. La
composizione media di una tale erba disidratata è: umidità 7-9%, proteina grezza 18-
24%, estrattivi inazotati 38-41%, ceneri 10-12,5% e, comunque , per essere di buona
qualità non deve contenere meno del 20% di protidi e più del 22% di fibra. Il
disidratatore impiegato deve consentire una rapida evaporazione dell'acqua dai tessuti
vegetali, in modo che la T delle foglie e degli steli non superi un livello oltre il quale
si verificano fenomeni di denaturazione delle proteine e di altri composti nutritivi. Le
farine delle erbe disidratate vengono largamente impiegate nella preparazione di
miscele bilanciate per il loro utile apporto in caroteni, calcio, vitamine del complesso
B e microelementi minerali.
Una certa ossidazione dei caroteni può verificarsi specialmente quando il foraggio
secco, durante lunghi periodi di conservazione , è esposto alla luce e all’aria; la farina
di erba disidratata può perdere fino a metà del suo contenuto in caroteni in 7 mesi di
conservazione. Una farina di ottima qualità può avere un contenuto in caroteni di
circa 250 mg/kg SS, ma in condizioni eccezionali può raggiungere anche i 450
mg/kg. Poiché la irradiazione degli steroli non può avere luogo durante il rapido
processo di disidratazione artificiale, il contenuto in vitamina D di questi foraggi è
molto basso. Oggi, il foraggio disidratato oltre che nei polli e nei suini viene
impiegato anche nei ruminanti in sostituzione di concentrati proteici e cereali,
somministrati con insilati o fieno. L’associazione insilato - erba disidratata consente
un netto aumento della ingestione di sostanza secca. La digeribilità apparente delle
proteine grezze subisce una modesta riduzione con la disidratazione ma questo
svantaggio viene compensato dal maggior apporto in aminoacidi all’animale, in
quanto è maggiore la quota di proteina del foraggio disidratato che sfugge alla
degradazione dei microrganismi ruminali e che viene quindi digerita a livello
intestinale. In recenti ricerche condotte sugli ovini , la proporzione dell’azoto
aminoacidico totale ingerito, che è risultata apparentemente assorbita a livello del
piccolo intestino, è stata dello 0,41 per il foraggio fresco e dello 0,51 per quello
disidratato. Considerando che con la conservazione si hanno perdite notevoli in
caroteni, xantofille e vitamina E a seguito di processi ossidativi, in passato il foraggio
stesso veniva conservato in celle frigorifere mentre oggi i processi ossidativi vengono
ridotti conservando il prodotto sotto gas inerti; molte industrie, anche per proteggere
il foraggio quando viene tolto dai gas inerti, aggiungono ai foraggi disidratati degli
antiossidanti.
Dopo l’essiccamento, il foraggio è trattato in modo diverso, secondo gli animali cui
è destinato. Per suini e polli, esso viene, di norma, macinato e poi immagazzinato,
come farina o come pellet; per i ruminanti, il foraggio disidratato può essere usato
come foraggio lungo o più comunemente compresso in forme diverse, come pellet o
come pallottole dette wafer. Un pellet è un agglomerato ottenuto con una pressa
rotante (pellettatrice) che trasforma il foraggio macinato in formelle di varie
dimensioni, in funzione della filiera usata; il wafer è, invece, prodotto a partire da
foraggio disidratato trinciato, che viene appallottolato
308
CAP. XI. PRODOTTI COMPLEMENTARI DEI FORAGGI E SOTTOPRODOTTI
ALIMENTARI
In generale, si tratta di alimenti fibrosi, poveri di proteine e di valore nutritivo
sensibilmente inferiore a quello dei fieni di media qualità.
11.1 Paglie di cereali
Oltre a servire da lettiera, sono impiegate, più o meno largamente, nell'alimentazione
dei bovini, ovini ed equini, come razione di mantenimento. Il valore nutritivo è di 17-
21 U.F./q per la paglia di grano, 25-30 U.F per quella d’avena e 15-22 per la paglia di
orzo. La paglia possiede una scarsa capacità nutritiva allo stato tal quale a causa del
contenuto elevato di lignina e lignocellulosa; in genere contiene l’80-85% di S.S. di
pareti cellulari di cui il 39-40% costituito da cellulosa, il 22-33% da emicellulosa, il
6-15% da lignina e il 3-8% da silice. Il tenore proteico è irrisorio (2-3%) così come la
digeribilità la quale dipende essenzialmente da:
a) cause intrinseche della paglia (specie vegetale, varietà, metodi di raccolta);
b) sistemi di somministrazione al bestiame;
c) metodiche di trattamento della paglia (industriali e non).
La paglia può essere somministrata da sola o integrata con azoto (urea) e sali
minerali; in quest'ultimo caso il valore nutritivo è pressappoco raddoppiato.
La digeribilità ed il valore nutritivo della paglia possono essere, notevolmente,
aumentati trattando la stessa con metodi fisici, chimici e biologici.
- Metodi fisici - Tra essi si ricorda la macinatura che aumenterebbe l’ingestione
volontaria: l’effetto sarebbe maggiore con foraggi scarsamente digeribili, nei quali,
comunque, il fattore limitante è dato dalla scarsezza di azoto. Con la macinatura la
digeribilità aumenterebbe di circa il 30%, peraltro, si avrebbe un effetto additivo del
15% tra macinatura e trattamento con alcali. In Canada si usa la cottura della paglia
per un’ora, che ne aumenta la digeribilità di 15-17 punti. Ciò consente di ottenere un
prodotto con il 55% di S.S. e con un pH basso (3,5-3,8) a causa della liberazione di
acidi organici. Ultimamente si è tentato di aumentare la digeribilità della paglia
mediante trattamento con raggi gamma le cui radiazioni aumenterebbero la
digeribilità dei materiali ad elevato tenore in fibra (Ibrahim e Pearce, 1980) ma,
rimane il problema dei costi molto elevati del trattamento.
- Trattamenti chimici
a) In umido - Il trattamento umido più conosciuto è quello messo a punto negli anni
’20 da Beckman che consiste nella immersione della paglia in una soluzione di
idrossido di sodio all’1,5-2% per 18-20 ore: la quantità di acqua necessaria per ogni
kg di paglia è di 8-10 litri. Successivamente, la soluzione acqua-soda viene lavata per
18-20 ore e quindi la paglia è pronta per la somministrazione agli animali. Il
materiale ottenuto contiene circa il 20% di S.S. e un contenuto in sodio dello 0,5-
0,6% mentre, la perdita di S.S. è del 20-25%. L’efficacia del trattamento dipende dal
tempo di trattamento e dalla quantità di soda utilizzata. Per quanto riguarda il tempo
di immersione la digeribilità della sostanza organica varia dal 59% con immersione
di 1,5 ore al 71% con immersione di 12 ore; generalmente si consiglia una
immersione di 6 ore. Mentre, per la quantità di soda da impiegare sembra che
quantità al di sopra dei 14 Kg per qle di paglia non migliorano ulteriormente la
digeribilità anche se in Norvegia, dove tale metodica è usata su larga scala, agli
animali viene somministrata paglia trattata con 20 Kg di soda/qle, in ragione di 15-20
309
Kg per vacca oppure il 30-50% del foraggio di base. Con il metodo Beckman, la
digeribilità della paglia aumenta di 14-27 punti percentuali, valori nettamente
superiori a quelli ottenuti con i metodi a secco dove la quantità di soda non può
superare i 5-6 Kg in quanto l’eccesso non può essere lavato. Gli svantaggi del
metodo, invece, sono rappresentati da un elevato fabbisogno in acqua, da una elevata
perdita di sostanza secca, dal notevole grado di inquinamento ambientale, dalla
necessità dei trattamenti giornalieri. I problemi di inquinamento ambientale prodotti
dalle acque di lavaggio sono stati risolti adottando il metodo Torgrimsby per il quale
sono necessari tre contenitori collegati tra di loro da un piano inclinato: il primo di
essi (A) contiene circa mille litri di soluzione all’1,5% di NaOH necessari per 100 kg
di paglia, il secondo (B) ha una capacità di 2 mila litri, il terzo (C) di mille litri. La
metodica prevede l’immersione, per 19 ore, di 100 kg di paglia nel contenitore A
dopodiché essa è trasferita nel contenitore B dove reagisce con paglia fresca
precedentemente immessa. Dopo 4 ore, quest’ultima viene portata nel recipiente A
dove si aggiungono 4 kg di NaOH mentre la paglia già passata nel contenitore A e B
viene immersa in C, dopodiché viene lavata sul piano inclinato con circa 300 litri di
acqua, susseguentemente riciclata nella vasca C. Quindi alla fine del trattamento di
100 kg di paglia, giornalmente si aggiungono 300 litri di acqua e 4 kg di idrossido di
sodio: il prodotto ottenuto ha un contenuto in sostanza secca di circa il 20% e un
contenuto in sodio del 2% sulla sostanza secca. La digeribilità della sostanza
organica dal 38% passa al 70%.
immersione
con NaOH
1° lavaggio 2° lavaggio
A b C
A
B
C
Livello
terreno
Metodo Beckman modificato da Torgrimsby
L'aumento della digeribilità è dovuto alla rottura dei legami non covalenti fra
lignina, cellulosa ed emicellulose.
b) a secco – Questi sistemi hanno il vantaggio di eliminare la fase del lavaggio della
paglia trattata e quello di poter meccanizzare tutte le operazioni. Mentre, rimane da
risolvere il problema rappresentato dalla impossibilità di adottare livelli di soda
maggiori di 4-5% e ciò è un inconveniente considerando che l’aumento della soda si
ripercuote favorevolmente sulla digeribilità. La metodica prevede diverse fasi:
1) la paglia viene portata a un molino a martelli dal quale, attraverso un ciclone,
perviene al trattamento che consiste in 10-15 litri di una soluzione al 30-45% di
NaOH/100 kg di paglia;
2) pellettatura, essa oltre ad aumentare la densità della paglia da 50 a 500 kg/m3,
causa un riscaldamento della massa a circa 90 °C. Sia la pressione che la temperatura
determinatesi influiscono favorevolmente anche perché si verifica una immediata e
completa penetrazione della soda nella paglia. Spesso i pellettes che escono dalla
cubettatrice, prima di passare al raffreddatore, vengono fatti sostare per 15-20 minuti
310
in quanto, se raffreddati subito, subiscono un veloce rialzo della temperatura nel
magazzino.
Con questo trattamento, i componenti sensibili all’azione degli alcali, i legami
lignina-emicellulosa e lignina-cellulosa sono sottoposti ad idrolisi: ciò rende la
frazione emicellulosica più solubile e i carboidrati costituenti la parete cellulare più
fermentescibili. La % di emicellulose che si rende più disponibile dipende dall’entità
del trattamento e in media si aggira intorno al 30-50%
Inoltre, la rottura, o meglio, l’idrolisi del legame lignina-cellulosa consente di rendere
quest’ultima più facilmente aggredibile dagli enzimi presenti nel tubo digerente. Non
tutti i legami lignina-cellulosa sono attaccati dagli alcali e la percentuale di rottura
varia con il tipo e la varietà della paglia: quella di leguminose è meno sensibile al
trattamento con NaOH.
Quando la cellulosa assorbe la soda, le fibre che la compongono subiscono una
profonda disorganizzazione nella loro struttura cristallina, che si trasforma in
un’aggregazione non differenziata, aumentando così la superficie di attacco alle
cellulasi batteriche. L’agente chimico non distrugge la parete cellulare ma la
modifica soltanto, infatti, alle normali analisi chimiche la paglia normale evidenzia
più fibra di quella non trattata.
Prestazioni produttive di bovini e ovini alimentati con razioni contenenti foraggi
trattati o non trattati con alcali* (Greenhalgh, 1983; Agricultaral Progress; 58, 11)
Specie NaOH
No Si
NH3
No SI
Bovini
N. esperimenti
Foraggi nella dieta (%)
Digeribilità**
Ingesta (Kg/giorno)**
Guadagno di peso (kg/giorno)
17
64
0,56 0,64
7,2 8,1
0,62 0,82
10
61
0,58 0,63
6,8 7,8
0,40 0,71
Ovini
N. esperimenti
Foraggi nella dieta
Digeribilità**
Ingesta (g/giorno)**
Guadagno di peso (g/giorno)
10
66
0,57 0,65
994 1259
39 126
7
65
0,52 0,62
1156 1147
73 99
* Foraggi usati: paglia di frumento, di orzo, di riso e stocchi e tutoli di mais
** della sostanza secca totale della razione
In seguito all’attacco con la soda, teoricamente, il valore in energia metabolizzabile
dovrebbe passare da 5,8 a 9,1 MJ/Kg S.S., con un aumento di oltre il 50%. Esistono
pareri contrastanti sull’uso prolungato della paglia trattata a secco con soda, a causa
di una ingestione piuttosto elevata di sodio ma il trattamento si dimostra efficace in
quanto aumenta l’appetibilità, la digeribilità e quindi il valore nutritivo del prodotto.
Peraltro, i profili di organo determinati con analisi del sangue e delle urine non hanno
evidenziato alterazioni a carico della funzionalità renale ed epatica, nonché del
bilancio idrico, elettrolitico e del ricambio minerale.
c) trattamento con ammoniaca - Anziché l’idrato di sodio, può essere utilizzata
l’ammoniaca anidra o l'idrato di ammonio. Se l’ammoniaca è utilizzata in modo
311
appropriato aumenta la digeribilità della paglia nella stessa misura in cui lo fa l’idrato
di sodio ma nello stesso tempo aumenta il tenore proteico della paglia, agisce da
fungicida ed evita il problema dei residui di alcali che pone l’idrato di sodio. Ogni
eccesso di ammoniaca si volatilizza rapidamente quando il materiale trattato è
esposto all’aria; peraltro, questo fatto rappresenta uno svantaggio in quanto la paglia
deve essere tenuta chiusa in contenitori a tenuta d’aria. Il tempo di trattamento varia
da diverse settimane, a basse temperature, a sole poche ore a temperatura elevata. Per
ogni tonnellata di paglia le dosi raccomandate sono di 30-35 kg di ammoniaca anidra
e in questo dosaggio essa aumenta il contenuto proteico del materiale trattato di 50
g/kg di sostanza secca.
Se la reazione avviene in contenitori rigidi, isolati termicamente e con
condizionamento della temperatura, la durata del trattamento si riduce a 24 ore. In
Francia e in Danimarca è possibile trattare da 2 a 4 rotoballe al giorno e il ciclo
operativo è cosi composto:
- preriscaldamento, della durata di un’ora, con il quale il forno si porta a 35 °C;
- iniezione e trattamento (14 ore), iniezione dell’ammoniaca sotto forma liquida in
ragione di 40 Kg/tonnellata di paglia. Trattamento della paglia ad una temperatura di
95 °C per il ciclo di 24 ore, a 70 °C per un ciclo di 48 ore:
- riposo, questo tempo è di 6 ore nel ciclo di 24 ore, di 30 ore nel ciclo di 48 ore;
- aerazione (3 ore): ventilazione con aria fresca per espellere l’ammoniaca non
fissata;
- scarico: la paglia così trattata può essere somministra agli animali.
L’ammoniaca è una base più debole dell’idrossido di sodio e quindi il miglioramento
della digeribilità della paglia ottenuto è più basso (in media di 15 punti percentuali,
usando 3 Kg di ammoniaca/100 Kg di paglia). Le prove condotte dall’INRA in
Francia indicano che il trattamento con ammoniaca condiziona un arricchimento
della paglia sia in proteine grezze che in proteine solubili: si verifica inoltre una
maggiore ingestione di S.S.; peraltro aumentano i coefficienti di digeribilità della
S.S., della sostanza organica e delle proteine grezze. Una buona paglia ammonizzata
dovrebbe presentare i seguenti valori: UFL 0,60-0,65; PDIE 62 g; PDIN 50 g; MAD
20-34 g; UE 39 g/Kg P0,75
.
Una forma più economica e sicura di ammoniaca è l’urea, che si decompone in
ammoniaca quando subisce l’azione dell’enzima ureasi:
NH2-CO-NH2 + NH2 + H2O = 2NH3 + CO2.
Le paglie conterrebbero una quantità di enzima sufficiente per realizzare questa
reazione. In ricerche condotte nel Bangladesh, usando paglia di riso accumulata in
fosse scavate nel terreno, l’aggiunta di 30 kg di urea per tonnellata di paglia ne ha
elevato in contenuto in proteina grezza da 29 a 59 g/kg S.S. e la digeribilità della
sostanza organica da 0,45 a 0,54, in un periodo di 20 giorni. In ogni modo, resta
ancora da dimostrare che l’urea, nel migliorare la digeribilità delle paglie, sia
veramente efficace come l’ammoniaca e l’idrato di sodio.
Residui della coltivazione del granturco: gli stocchi, cime e foglie, cartocci e tutoli
sono largamente impiegati nell'alimentazione dei bovini. In genere conviene
trinciarli, sfibrarli e insilarli con l'aggiunta di 300 g/qle di acido formico ed
eventualmente urea (200 g/qle).
Paglie di leguminose: le paglie delle leguminose da granella sono piuttosto
grossolane, ma possono essere utilizzate come alimenti per il bestiame purché
312
trinciate e inumidite. Rispetto alle paglie dei cereali, sono più ricche in proteina
grezza e più povere di cellulosio.
Loppe e pule: le loppe di frumento e avena hanno un valore nutritivo pressoché
uguale a quello di un fieno scadente (23-30 U.F./qle); paragonabili ad un fieno
polifita di media qualità sono invece le loppe di medica e trifoglio (protidi digeribili
6-7%, U.F. 45-47/qle).
11.2 Foglie di alberi e residui di potatura
Le foglie di albero in genere contengono il 55-65% d’umidità, il 4,5-12% di
protidi, il 14-22% di fibra grezza, 45-70% di estrattivi inazotati. Il valore nutritivo
varia tra 14 (lentisco) e 74 (ornello) U.F/qle. Molto appetibili agli animali sono le
fogli di gelso, olmo. Le foglie di castagno, carpino, faggio contengono tannini quindi
possono provocare fenomeni di stitichezza. In genere, le foglie vanno raccolte, al
massimo, entro settembre in quanto già prima di ingiallire perdono parte delle
sostanze nutritive digeribili. Le foglie di vite, pur essendo appetibili dagli animali,
bisogna somministrarle con cautela per la presenza di insetticidi e/o anticrittogamici.
Della vite possono essere utilizzati anche i sarmenti che, vanno però sfibrati e
macinati. Per gli animali da lavoro e per gli ovini nell'Italia centromeridionale sono
utilizzate le foglie e le frasche di olivo.
11.3 Foglie, colletti e polpe fresche di bietola
Le foglie ed i colletti forniscono circa 12 U.F./qle. Possono causare
degli inconvenienti quali diarrea, conferimento di odore e sapore sgradevole al latte,
demineralizzazione. Le polpe di bietola presentano gli stessi inconvenienti delle
foglie e dei colletti; per lo più sono insilate. Le cime di barbabietola sia da foraggio
sia da zucchero bisogna somministrarle con cautela agli animali in quanto possono
causare diarrea, altri disturbi e raramente anche la morte degli animali. Il rischio
sembra ridursi se le foglie si lasciano appassire. Gli effetti tossici sono stati attribuiti
all’acido ossalico ed ai suoi sali, i cui tenori si riducono con l’essiccamento. Studi più
recenti indicano che gli ossalati non si riducono con l’appassimento e ciò indica che
sono altre le sostanze incriminate e che, invece, con l’appassimento si riducono.
11.4. Radici
Principali caratteristiche delle radici sono l’elevato contenuto in acqua (75-
94%) ed il basso contenuto in fibra grezza (4-13%). La sostanza organica delle radici
è formata soprattutto da zuccheri ed è altamente digeribile (80-87%). Le radici sono
normalmente povere in proteina grezza. La composizione è in parte condizionata
dalla stagione così, ad esempio, il contenuto in SS è maggiore nelle radici prodotte
durante le stagioni calde e siccitose rispetto a quelle coltivate durante la stagione
fredda e umida. Anche la dimensione della radice ha la sua influenza sulla
composizione, infatti, quelle grosse contengono meno SS e fibra grezza e sono più
digeribili che quelle piccole. In passato, le radici erano considerate come
un’alternativa agli insilati nell’alimentazione dei ruminanti mentre, oggi si ritiene che
possano sostituire anche i cereali. Le radici sono modeste fonti di vitamine ad
eccezione delle carote che sono ricche di betacarotene, la provitamina A. Fra esse,
ricordiamo la rutabaga, le rape, le barbabietole da foraggio, semizuccherine e da
zucchero.
Le barbabietole, sia da foraggio sia semizuccherine e da zucchero, appartengono tutte
alla specie Beta vulgaris e per comodità sono in genere classificate secondo il loro
313
contenuto in sostanza secca. Le barbabietole da foraggio sono quelle che contengono
meno sostanza secca (90 -120 g/kg in quelle a basso contenuto e 120-150 in quelle a
medio contenuto), meno zuccheri ma più proteine al contrario delle barbabietole da
zucchero che sono più ricche in zuccheri (soprattutto saccarosio) e in sostanza secca
ma più povere in proteine; le barbabietole semizuccherine rappresentano la vie di
mezzo. I valori in EM calcolati sulla sostanza secca variano da circa 12 a 14 MJ/Kg e
quelli più alti riguardano la barbabietola da zucchero.
Normalmente le barbabietole da foraggio dopo essere state raccolte sono
immagazzinate per alcune settimane, in quanto se somministrate appena raccolte
possono esercitare un certo effetto purgativo il quale è dovuto alla presenza di nitrati
che, durante la conservazione vengono convertiti in asparagina. Diversamente dalle
rape, le barbabietole da foraggio non alterano la qualità del latte quando
somministrate alle lattifere.
Le barbabietole semizuccherine a medio tenore in s.s. contengono da 140 a 180 g/kg
di sostanza secca, mentre le varietà ad alto contenuto in S.S. possono contenere fino a
220 g/kg. E’ necessario adottare precauzioni nell’alimentazione dei bovini con
barbabietole semizuccherine ad alto tenore in s.s. in quanto un loro eccessivo
consumo può causare disturbi dell’apparato digerente, ipocalcemia e anche la morte
degli animali. I disturbi probabilmente sono legati all’elevato contenuto in zuccheri
di queste radici. Nell’alimentazione dei suini, invece, le barbabietole semizuccherine
in elevate concentrazioni nella razione danno soddisfacenti risultati, ma il periodo di
ingrasso è più lungo che con l’uso di barbabietole da zucchero. La digeribilità della
sostanza organica delle barbabietole semizuccherine è molto elevata, circa il 90%.
La barbabietola da zucchero, generalmente, è coltivata per la produzione industriale
dello zucchero ma a volte è utilizzata nell’alimentazione soprattutto delle vacche e
dei suini. Dopo l’estrazione dello zucchero si ottengono due sottoprodotti:
a) polpe di barbabietola: dopo l’estrazione dello zucchero rimane un residuo
chiamato polpa di barbabietola; il contenuto in acqua di questo sottoprodotto è di
circa l’80-85% e le polpe possono essere vendute fresche per l’alimentazione di
animali in produzione zootecnica o più frequentemente, causa le difficoltà di
trasporto, esse sono essiccate fino a far scendere il contenuto in acqua al 10%. Poiché
il processo di estrazione asporta i principi alimentari solubili in acqua, il residuo
secco risulta principalmente costituito da polisaccaridi delle pareti cellulari e quindi
il tenore in fibra è relativamente elevato (20%), il contenuto in proteina grezza (10%)
e in fosforo è basso. A causa dell’elevato contenuto in fibra non vengono, di norma,
utilizzate nell’alimentazione dei polli e dei suini ma in larga misura nei bovini e
ovini all’ingrasso e soprattutto nelle lattifere;
b) melasso di barbabietola: dopo la cristallizzazione e la separazione dello zucchero
dall’estratto acquoso, rimane un liquido denso, nerastro, chiamato melasso il quale
contiene il 70-75% di s.s. della quale circa il 70% è rappresentata da zuccheri. La
sostanza secca del melasso contiene solo il 2-4% di proteine grezze e la maggior
parte di queste si trova sotto forma di composti di azoto non proteico, ivi inclusa
un’ammina, la betaina, che è responsabile dell’odore di pesce che si libera nel corso
dell’estrazione. Il melasso è un alimento con azione lassativa e quindi è
somministrato in piccole quantità. Di norma è aggiunto alle polpe di bietola e in
questo caso esse sono chiamate polpe di barbabietola secche melassate. Fra i prodotti
utilizzati per assorbire melasso sono segnalati la crusca, le trebbie di birra, gli
embrioni di malto, il luppolo esaurito. Il melasso, generalmente, è impiegato in
misura del 5-10% nella preparazione dei mangimi pellettati; esso non solo migliora il
314
sapore del prodotto aumentandone l’appetibilità ma agisce anche da agente legante.
Peraltro, visto che rappresenta una fonte ricca, relativamente economica, di zuccheri
solubili, il melasso viene a volte usato come additivo nella produzione di insilati.
11.5.Tuberi
I tuberi differiscono dalle radici in quanto contengono amido o fruttosani,
anziché saccarosio o glucosio, quale principale carboidrato immagazzinato. Il loro
contenuto in sostanza secca è più elevato ed è più basso il tenore in fibra grezza
perciò si adattano meglio per l’alimentazione dei polli e dei suini.
Composizione chimica e valore alimentare delle radici, sottoprodotti delle radici e dei
tuberi (su sostanza secca)
Radici:
rape
barbabietola:
da foraggio
semizuccherina
da zucchero
Sottoprodotti delle
radici:
melasso
polpe di barbab. da
zucchero
Tuberi:
manioca
patate
topinambur
patate dolci (batata)
S.S.
(g/kg)
80
110
160
230
750
860
880
210
200
320
Sostanza
organica
(g/kg)
922
933
926
970
931
918
970
957
945
966
Proteina
grezza
(g/kg)
122
100
60
48
40
92
30
110
75
39
Fibra
grezza
(g/kg)
111
58
45
48
0
144
43
38
35
38
Degradaz.
proteica
nel rumine
0,85
0,85
0,85
-
0,80
0,70
0,80
0,85
-
-
EM*
(MJ/kg)
11,2
12,4
12,5
13,7
12,0
12,5
12,8
13,3
13,2
12,7
* per i ruminanti
Patate - Il principale componente delle patate è l’amido (70% sulla S.S.) il quale è
presente sotto forma di granuli che variano di dimensioni secondo la varietà. Il
contenuto in zuccheri delle patate, appena raccolte, raramente supera i 50 g/kg di S.S.
mentre, in quelle immagazzinate i valori sono superiori; il contenuto è influenzato
dalla temperatura del magazzino: valori particolarmente alti (300 g/kg S.S.) sono stati
trovati in patate conservate a -1 °C. Lo zucchero a sua volta può essere ossidato con
produzione di anidride carbonica durante la respirazione; l’attività respiratoria
aumenta con la temperatura. Il contenuto in proteine grezze è di circa l’11% sulla
S.S., ma circa la metà di queste vi figura sotto forma di composti azotati non proteici.
Uno di questi composti è l’alcaloide solanidina che si trova libera o anche in
combinazione come glucoside, quali la solanina e la caconina. La solanidina ed i suoi
derivati sono tossici per gli animali e provocano forme di gastroenteriti. Il livello di
alcaloide può essere alto in patate esposte alla luce le quali si presentano verdi per la
produzione di clorofilla. I tuberi verdi dovrebbero quindi essere usati con prudenza,
anche se la rimozione delle gemme e della buccia, nella quale è concentrata la
solanidina, ne riduce la tossicità. Peraltro la solanidina è più concentrata nei tuberi
315
immaturi rispetto a quelli maturi. Il rischio di tossicità può essere inoltre ridotto
cuocendo le patate a vapore o in acqua; in quest’ultimo caso, l’acqua dove sono stati
cotti i tuberi non va somministrata agli animali. Nei suini, la digeribilità delle
proteine delle patate con la cottura passa da circa il 23% al 70%; ciò sarebbe dovuto
alla presenza di un inibitore termolabile delle proteasi nelle patate crude che sarebbe
distrutto con la cottura. La cottura è necessaria nei suini e nei polli ma non nei
ruminanti dove, probabilmente, il fattore inibitore delle proteasi è distrutto a livello
ruminale. Per i suini e i polli il valore in EM delle patate cotte è analogo a quello del
mais, circa 14-15 MJ/kg S.S.
Le patate sono povere in elementi minerali, ad eccezione del potassio che vi abbonda
e relativamente elevato è anche il contenuto in fosforo il quale è parte integrante della
molecola di amido e per il 20% si trova sotto forma di fitati. Le patate possono essere
conservate allo stato fresco o essiccate: le patate cotte sono passate attraverso rulli
riscaldati per produrre fiocchi di patate essiccate oppure i tuberi affettati sono
essiccati direttamente in corrente d’aria e successivamente sono ridotti in farina.
Manioca - è un arbusto perenne, tropicale, che produce tuberi alla base del fusto i
quali sono usati per la produzione di fecola, la tapioca, per l’alimentazione umana,
ma sono anche usati per l’alimentazione di bovini, suini e polli. Il contenuto in EM è
similare a quello delle patate mentre risulta più elevato il contenuto in sostanza secca
e più basso quello in proteine grezze. Sia la pianta sia i tuberi di manioca in un certo
senso sono velenosi in quanto contengono due glucosidi cianogenetici (la linamarina
e la lotoustralina) che si scindono rapidamente liberando acido cianidrico. Per ridurne
gli effetti dannosi si ricorre alla bollitura oppure i tuberi sono grattugiati e spremuti o
macinati e la polvere ottenuta è poi pressata. La farina è impiegata in parziale
sostituzione dei grani di cereali, con l’avvertenza di correggere il deficit proteico che
ne deriva. Dopo l’estrazione dell’amido dalla manioca rimane un elevato contenuto
in fibra grezza (27% su S.S.) che va usato in misura limitata nei monogastrici
11.6. Sottoprodotti dell’orzo
Per la produzione della birra, l’orzo è bagnato e fatto germinare e durante
questo processo che dura circa 6 giorni, si ha lo sviluppo di un sistema enzimatico
(diastasi o amilasi) capace di idrolizzare l’amido a destrine e maltosio, le reazioni
enzimatiche, comunque, sono maggiori in una fase successiva detta mashing la quale
serve a realizzare le condizioni favorevoli all’azione degli enzimi sulle proteine e
sull’amido. Prima del mashing i grani sono essiccati avendo cura di non inattivare gli
enzimi e il prodotto così ottenuto è detto malto; le radichette e i germi sono rimossi
dal malto e sono venduti come:
- germi o embrioni di malto, i quali contengono il 27% di proteine, sono impiegati
prevalentemente nei ruminanti e negli equini in quanto hanno un elevato contenuto in
fibra grezza e non hanno un elevato contenuto energetico. Gli embrioni di malto
assorbono rapidamente acqua e ad evitare che si gonfino nello stomaco sono
inumiditi abbondantemente prima di somministrarli agli animali; inoltre, essi hanno
sapore amarognolo e quindi razioni che ne contengono elevate quantità risultano
poco appetite agli animali. Il malto è frantumato e vi sono aggiunte piccole quantità
di altri cereali quali mais e riso; la miscela è trattata con acqua e la temperatura del
mash aumenta fino a 65 °C. Con il mashing, l’amido è convertito a destrine e
maltosio e piccole quantità di altri zuccheri. Dopo che il processo mashing è
completato il liquido zuccherino o mosto di malto è separato per filtrazione dai
residui insolubili, che prendono il nome di:
316
- trebbie di birra, le quali se fresche contengono il 70-76% di acqua e possono
essere somministrate a bovini, ovini, cavalli o in alternativa essere insilate. Esse
possono essere essiccate (10% di umidità) e vendute come trebbie secche. La
degradabilità delle proteine delle trebbie, a livello ruminale è di 0,6 contro lo 0,8
delle proteine dell’orzo. Successivamente, il mosto di malto è bollito con luppolo
che gli conferisce il caratteristico aroma; poi è filtrato, ottenendone un residuo che è
essiccato e venduto come:
- luppolo esaurito, esso è un prodotto fibroso che può essere paragonato ad un fieno
di qualità mediocre rispetto al quale è meno appetibile forse perché amarognolo e più
che per l’alimentazione del bestiame è utilizzato come fertilizzante. Il mosto di malto
è fatto fermentare con l’aggiunta di lievito in un recipiente aperto e per alcuni giorni
durante i quali la maggior parte degli zuccheri è trasformata in alcol e anidride
carbonica. A fermentazione avvenuta, il lievito è separato per filtrazione, essiccato e
venduto come:
- lievito di birra essiccato, il quale contiene circa il 42% di proteine, è altamente
digeribile e può essere utilizzato per tutte le categorie di animali. Inoltre, esso è
un’importante fonte di vitamine del gruppo B, è relativamente ricco in fosforo ma
povero di calcio. In distilleria, i materiali solubili possono essere estratti, come
avviene nella fabbricazione della birra oppure l’intera massa è sottoposta a
fermentazione; l’alcol è poi separato per distillazione; dopo filtrazione, il materiale
che rimane è venduto come borlande fresche o secche.
Altri sottoprodotti: pastazzo di agrumi, vinacce, sanse di oliva.
317
CAP. XII. MANGIMI CONCENTRATI
Sono caratterizzati da un alto contenuto in sostanze nutritive digeribili, un
basso contenuto in fibra grezza e da un valore nutritivo pari o maggiore a quello dei
foraggi migliori. Sono richiesti soprattutto per gli animali che necessitano di razioni
con valore nutritivo elevato (animali in accrescimento, lattifere). I concentrati
possono essere di origine vegetale (cereali, leguminose da granella, semi di altre
piante, residui della lavorazione del riso, residui dell'estrazione dell'olio di semi
oleosi, residui dello zuccherificio, residui di altre industrie) e animale (residui
dell'industria lattiero-casearia, residui delle industrie delle carni e del pesce, altri
prodotti).
Mangimi concentrati
Caratteristiche
Alto contenuto in SND
Scarso contenuto in fibra
Valore nutritivo > migliori fieni (75-125 UF/qle
Impiego
Lattifere con produzioni giornaliere > 20 Kg
Bovini da carne a sviluppo precoce (2-3 U.F/qle)
Suini da allevamento e ingrasso (4-5 UF/qle)
Esigenze
Lattifera con 25 l di latte
al 3,5% di grasso
razione 12,8 UF:28 Kg di fieno o
100 Kg erba fresca
proteine?
Razione
voluminosa
Aumento lavoro peristaltico
Dilatazione e sfiancamento dell’addome
Ridotta digeribilità dei foraggi
Animali giovani - minore capacità utilizzazione foraggi grossolani
- maggiore fabbisogno nutritivo rispetto al peso
12.1 Mangimi di origine vegetale
12.1.1 Cereali
Essi hanno un valore nutritivo compreso tra 80-115 U.F./qle, un contenuto
proteico tra 8-12%, un basso contenuto in fibra grezza (2-5%) e sono ricchi in
estrattivi inazotati (60-70%). Sono poveri in calcio (< 0,1%), ma ricchi in fosforo
(0,3-0,4%). Le proteine dei cereali sono carenti di metionina, lisina, triptofano. I
cereali, ad eccezione della granella di mais giallo, sono privi di vitamina D e di
caroteni. Sono relativamente ricchi di tiamina (vitamina B1), ma poveri di riboflavina
(vitamina B2); il contenuto in niacina è elevato nell’orzo e nel frumento e scarso
negli altri cereali. Quanto detto vale per le farine integrali dato che le vitamine si
trovano nella porzione esterna del seme, che costituisce le crusche e i cruschelli.
12.2.1 Trattamenti intesi ad aumentare il valore nutritivo dei cereali
Le cariossidi possono essere somministrate allo stato secco oppure umido.
Generalmente, quelle secche sono sottoposte ad una serie di trattamenti chimico-
fisici (macinazione, schiacciatura, fioccatura, estrusione, cottura, micronizzazione,
imbibizione) per aumentarne l’appetibilità, la digeribilità e quindi il valore nutritivo.
Le diverse tecniche possono essere raggruppate in due tipi fondamentali: processi a
caldo, nei quali si ha impiego di calore o il calore si genera nel corso del trattamento
e processi a freddo nei quali la temperatura della granella non subisce variazioni
318
significative. Fra i processi a caldo figurano la fioccatura, la micronizzazione, la
tostatura e la pellettatura a caldo.
La fioccatura aumenta la digeribilità in maniera considerevole (8-12%); si ottiene
esponendo le cariossidi al vapore per circa 10 minuti (gelatinizzazione dell’amido
che diviene più solubile e quindi più digeribile) e nel successivo schiacciamento fino
allo spessore di circa 1 mm (aumenta la superficie di attacco enzimatico). Essa è
usata spesso per i semi di mais i quali sono prima sottoposti all’azione del vapore,
poi passati attraverso rulli, riscaldati o non, per produrre fiocchi sottili, che sono
successivamente raffreddati ed essiccati. I fiocchi di mais sono considerati più graditi
agli animali e dimostrano coefficienti di digeribilità superiori a quelli della granella.
Il trattamento a vapore e la fioccatura fanno aumentare la proporzione di acido
propionico fra gli acidi grassi volatili che si formano nel rumine.
La micronizzazione è un processo che indica un modo di cottura mediante raggi
infrarossi (prodotti da ceramiche refrattarie scaldate); le granelle sono poi schiacciate
fra rulli e quindi raffreddate; in questo processo, i granuli di amido si gonfiano, si
rompono e gelatinizzano rendendosi più sensibili all’attacco enzimatico a livello
intestinale.
La pellettatura a caldo, almeno nei polli, sembra offrire migliori risultati rispetto a
quella a freddo, infatti, si osservano migliori incrementi ponderali e indici di
utilizzazione dell’alimento.
Fra i processi a freddo risultano la macinazione, la rullatura, la schiacciatura, la
pellettatura a freddo e l’aggiunta di acidi organici o di alcali.
La macinazione aumenta l’efficienza di masticazione nei bovini e nei suini e facilita
la mescolanza con altre sostanze alimentari; la superficie esposta all’attacco degli
enzimi aumenta con il grado di finezza delle farine determinando, entro certi limiti
(2,5-3 mm), una maggiore digeribilità.
Gli acidi organici, soprattutto l’acido propionico, sono a volte aggiunti alle granelle
molto umide in veste di inibitori delle muffe. Alcuni Fusarium sono spesso presenti
sulla granella ammuffita ed è noto che questi funghi producono metaboliti, come lo
zearalenone, che nei suini possono causare vulvo-vaginiti e una sindrome
caratterizzata da incoordinazione dei movimenti e zoppicature. Il trattamento con
idrato di sodio recentemente è stato proposto come alternativa al trattamento
meccanico (rullatura) dei semi di cereali e ha lo scopo di ammorbidire gli invogli
esterni, senza esporre l’endosperma ad una rapida fermentazione ruminale;
attualmente i risultati non sono soddisfacenti anche perché la digeribilità sembra
abbassarsi. Il ricorso a questi trattamenti, comunque, non sempre risulta necessario,
soprattutto quando le cariossidi sono destinate ad alcune categorie di ruminanti
(vitelli in svezzamento, bovini all’ingrasso dove le cariossidi macinate o fioccate
sarebbero fermentate quasi esclusivamente a livello ruminale provocando, oltre ad
una perdita di energia, l’ispessimento della parete ruminale con la conseguente
riduzione della sua funzionalità assorbitiva. Con la somministrazione delle granelle
intere diminuisce l’intensità delle fermentazioni ruminali il che insieme all’azione
meccanica della forma fisica (effetto foraggio), favorisce un regolare sviluppo del
rumine nei vitelli in svezzamento e un’attività microbica che facilità l’assorbimento
degli acidi grassi volatili attraverso la parete ruminale. Peraltro, una parte dell’amido
non utilizzato nel rumine sarebbe digerita, senza perdite di energia, a livello del
duodeno ad opera dell’-amilasi.
I cereali di più largo consumo sono:
319
- mais: è insostituibile soprattutto negli animali da ingrasso, il suo valore nutritivo è
compreso tra 105-112 U.F./qle. Benché sia un’eccellente fonte di energia digeribile,
esso è povero di proteine (9-14% su S.S.) e le sue proteine hanno un basso valore
biologico. Le principali proteine sono: a) la zeina, è la più importante ma è carente
negli aminoacidi essenziali triptofano e lisina, b) la glutelina, si trova in minor
quantità, nell’endosperma e nel germe, e rappresenta una migliore fonte dei due
aminoacidi.
Recentemente è stata prodotta una nuova varietà, l’Opaque-2, che si caratterizza per
un maggior contenuto in lisina e un diverso rapporto zeina:gluteina rispetto alle
varietà normali. L’Opaque-2 ha un maggior valore alimentare per i suini, uomo e
pulcini ma solo nelle diete ricche in metionina. Un’altra varietà, la Floury-2 contiene
una maggiore quantità sia di lisina sia di metionina.
Sotto l'aspetto mangimistico distinguiamo:
a) mais tipo yellow a seme dentato ed endosperma farinoso (66% di amido) preferito
per l'alimentazione dei bovini e suini all'ingrasso;
b) mais tipo Plata a cariosside poco dentata e frattura semivitrea; è consigliato per il
pollame;
c) mais tipo Marano a cariosside non dentata e frattura vitrea; questo tipo è l'ideale
per l'alimentazione delle ovaiole e dei polli in quanto è molto ricco in xantofille che
passano nel tuorlo delle uova e nel grasso sottocutaneo dei polli.
- orzo: il suo valore nutritivo è stato preso come unità di misura nel metodo
scandinavo, in quello delle UF latte e carne e nel metodo delle UF cavallo, perciò 1
qle di orzo corrisponde a 100 U.F., ma nelle migliori qualità può salire a 104-106
U.F.. Il valore in energia metabolizzabile (MJ/kg S.S.) è di circa 13 per i ruminanti,
13,7 per i suini e 12,5 per i polli.
La sua somministrazione produce un miglioramento nello stato di nutrizione degli
animali. Oltre che essere considerato un alimento rinfrescante, nei suini migliora la
qualità del lardo e della carcassa.
Il contenuto in proteine grezze della granella è varia dal 6 al 16% sulla S.S. ed esse
sono carenti dell’aminoacido lisina. Il contenuto lipidico in genere è inferiore a 25
g/kg S.S. Viene usato soprattutto nei bovini da carne, vecchie lattifere, suini da
allevamento o da ingrasso, nonché nei cavalli. Nel sistema di alimentazione per i
bovini, detto barley beef, i vitelli sono ingrassati con razioni che contengono circa
l’85% di orzo schiacciato e nelle quali sono esclusi i foraggi. In questo sistema l’orzo
è trattato in modo tale che la spata rimanga intatta e l’endosperma sia esposto; i
risultati migliori si ottengono facendo passare la granella fra due rulli con un
contenuto di umidità del 16-18%. La conservazione dell’orzo con elevata umidità
può causare la formazione di muffe e allora è necessario conservarlo in condizioni
anaerobiche o trattandolo con degli inibitori delle muffe, come l’acido propionico.
Alimentando i ruminanti con diete ad alto contenuto in concentrati si possono correre
dei rischi, come il meteorismo; per ciò è necessario abituare gradualmente gli animali
a questo tipo di alimentazione. Inoltre, le diete ad elevatissimo contenuto in cereali
devono essere integrate con vitamina A e D e con minerali. L’orzo prima di
somministrarlo ai polli deve essere privato delle ariste per evitare disturbi digestivi.
- avena: è un alimento tradizionale dei cavalli, ma è utilizzato largamente negli altri
animali (da allevamento, giovani riproduttori maschi). Ha la proprietà di stimolare il
tono neuro-muscolare, probabilmente dovuta al valore biologico della proteina
rispetto agli altri cereali (78%) e/o al maggior contenuto in fosforo (0,33-0,35%).
Fornisce 80-90 U.F. che possono salire a 115 nei fiocchi di avena.
320
- sorgo: rispetto agli altri cereali è meno apprezzato perché il tegumento è ricco di
tannini e per la minore appetibilità. E’ utilizzato maggiormente nei bovini e nei suini
da ingrasso, di meno nelle ovaiole a causa della sua carenza di carotenoidi
pigmentati. Sembra che alcune varietà contengano una sostanza capace di ritardare
l'impiumamento e l'accrescimento dei pulcini, predisponendoli al cannibalismo.
- frumento: quando vi sia la convenienza economica può sostituire il mais e l'orzo; ha
un valore nutritivo di 103 U.F./qle.
- segale: è usata soprattutto nei paesi dell'Est.
12.3 . Semi di leguminose
I semi di leguminose, rispetto a quelli di cereali, sono più ricchi in proteine
(20-38%), calcio (0,10-0,15%) e fosforo (0,3-0,5%) e sono più poveri in estrattivi
inazotati (35-50%) e fibra grezza (5-8%). Fra essi ricordiamo soprattutto:
- fave: contengono il 20-25% di protidi grezzi con un ottimo livello di lisina e
metionina. Il valore nutritivo è 100-102 U.F./qle. Sono un ottimo alimento per il
bestiame giovane e per i riproduttori.
Non devono essere usate in dosi troppo elevate perché causano disturbi digerenti; alle
lattifere non bisogna somministrare più di 1-2 kg il giorno per non alterare il sapore
del latte.
- veccia: ha un valore nutritivo pressoché uguale a quello delle fave. È poco
consigliata nei suini perché può causare inconvenienti (indigestioni, dermatiti) e nei
cavalli dove si può avere una sindrome tossica (latirismo).
- lupini: contengono molti protidi (32-40%), ma sono poco appetiti perché
amarognoli; spesso possono causare intossicazioni dovute alla lupaina (alcaloide) e
alterano il sapore del latte e del burro.
12.4. Semi diversi:
- carrube. Più che i semi sono usate le silique. Allo stato secco contengono estrattivi
inazotati (70%), proteine (6%), fibra grezza (9%). Spesso sono impiegate per rendere
appetibili altri alimenti. Si usano soprattutto negli equini e nelle vacche da lavoro. Il
valore nutritivo e di 92-95 U.F./qle.
- ghiande. Le ghiande di quercia, farnia, cerro e leccio sono ottime per l'ingrasso dei
suini. Forniscono 104 U.F./qle.
12.5. Residui della macinazione dei cereali
I cruscami del frumento sono distinti in crusca, cruschello, tritello e farinetta.
In genere contengono il 13-16% di protidi grezzi, 52-63% di estrattivi inazotati e 5-
10% di fibra. Sono ricchi in vitamine del gruppo B (tiamina, nicotamide, acido
pantotenico, colina) e in fosforo. Il valore nutritivo è 75-80 U.F. per la crusca, 80-82
per il cruschello, 97 per il tritello e 98 per le farinette. La crusca è il mangime più
usato per i bovini in quanto è molto appetibile ed ha azione dietetica lassativa. E’
somministrata soprattutto agli animali giovani e a quelli in lattazione. Negli equini,
lunghe somministrazioni possono causare calcoli intestinali e una sindrome morbosa
a carico delle ossa, dovuta allo squilibrio tra P e Ca. I suini in fase di ingrasso, la
crusca la digeriscono e utilizzano poco.
Il cruschello, rispetto alla crusca, è più ricco in protidi (15-16%) ed ha un migliore
equilibrio Ca/P. E' preferibile usarlo negli animali giovani e dopo lo svezzamento.
321
Il tritello contiene dal 14 al 17% di protidi grezzi ed il 54-58% di estrattivi inazotati;
mentre le farinette sono meno ricche di proteine grezze (13,5-14,5%). Questi due
cruscami vanno molto bene nelle miscele di svezzamento e di ingrasso.
12.6. Residui della lavorazione del riso
Sono rappresentati da:
- lolla: è priva di valore nutritivo in quanto contiene molta fibra (40-42%) e ceneri
ricche di silice;
- pula: è molto ricca in fosforo (1,8%) e vitamine del complesso B ed ha un valore
nutritivo di 75-80 U.F.. Il suo impiego è indicato per i bovini e gli equini, ma non per
i suini all'ingrasso;
- farinaccio di riso: fornisce 95-105 U.F.; essendo più ricco di amido rispetto alla
pula si presta bene per le miscele da destinare agli animali all'ingrasso;
- granoverde e risina: forniscono rispettivamente 103 e 106 U.F./qle; vanno bene
soprattutto come becchime per i polli.
12.7. Residui dell'estrazione dell'olio dai semi oleosi
I principali procedimenti usati per l’estrazione dell’olio sono due: il primo
impiega la pressione, il secondo usa un solvente organico, normalmente l’esano e in
alcuni casi il tricloroetilene per sciogliere l’olio presente nei semi. Alcuni semi
(arachide, cotone, girasole) presentano un guscio, ricco di fibra, di bassa digeribilità,
che ne diminuisce il valore nutritivo. Il guscio può essere totalmente o parzialmente
rimosso mediante frantumazione e setacciatura, in altre parole attraverso il processo
di decorticazione. I semi destinati all’estrazione dell’olio sono frantumati e
schiacciati per produrre scaglie con uno spessore di circa 0,25 mm che sono
sottoposte a cottura, alla temperatura di 104 °C per 15-20 minuti. La temperatura poi
è elevata fino a 110-115 °C finché il contenuto in acqua è ridotto a circa il 3%. Il
materiale poi è passato attraverso un cilindro orizzontale perforato nel quale ruota
una struttura a vite di passo variabile; si ottengono pressioni fino a 40 MN/m2. Ciò
che residua dopo la pressione esercitata dalla vite ha un contenuto in olio che oscilla
tra il 2,5 e 4%. Le presse cilindriche utilizzate sono chiamate expeller e il metodo di
estrazione è detto processo expeller. Solo il materiale che ha un contenuto in olio
inferiore al 35% è adatto per l’estrazione con solventi, se, invece, il contenuto è
maggiore è necessario sottoporre prima il materiale a pressione per ridurre il
contenuto in olio.
Il materiale prima deve essere ridotto a scaglie e poi o si fa passare il solvente
attraverso le scaglie o queste sono immerse nel solvente e il prodotto che né deriva,
in genere, ha un contenuto lipidico inferiore all’1% e contiene residui del solvente
che possono essere eliminati con il riscaldamento.
Circa il 95% dell’azoto dei semi oleaginosi è presente nelle farine sotto forma di
proteine. Normalmente, la loro digeribilità è del 75-90% e sono di buona qualità. Il
valore biologico di queste proteine è più elevato rispetto a quelle dei cereali e, per
alcune di esse, si avvicina a quello delle proteine delle farina di pesce o di carne.
Comunque, la loro qualità è inferiore a quella delle proteine animali in quanto non
hanno una composizione amminoacidica equilibrata, infatti, spesso hanno un basso
contenuto in cistina, metionina e lisina. La qualità delle proteine di un determinato
seme oleaginoso è relativamente costante ma è influenzata dal metodo di estrazione.
Le alte temperature e pressioni adottate con il processo expeller abbassano la
digeribilità e denaturano le proteine e quindi ne abbassano il valore nutritivo. Per i
322
ruminanti, la denaturazione può risultare positiva in quanto può provocare una
riduzione della degradabilità ruminale delle proteine stesse. Le alte temperature e le
pressioni possono anche esercitare un utile controllo nei riguardi di principi dannosi
come il gossipolo e alcune sostanze gozzigene.
Quando l’estrazione è fatta con solventi, non entrano in gioco le alte pressioni e le
temperature sono relativamente basse e, quindi, il valore proteico delle farine così
ottenute e similare a quello del seme di partenza. I panelli di semi oleaginosi possono
dare un notevole contributo al contenuto energetico della dieta, specie quando il loro
tenore lipidico è elevato. Ciò, dipende dal procedimento impiegato: le farine di soia
expeller possono avere un contenuto in olio del 6,6% e un contenuto in energia
metabolizzabile di 14 MJ/kg S.S. mentre, le farine di soia estratte con solventi
contengono l’1,7% di olio e 12,3 MJ di energia metabolizzabile per kg di sostanza
secca.
Comunque, l’uso incontrollato di panelli ad elevato tasso lipidico può provocare
disturbi digestivi e se l’olio è insaturo si può osservare un diminuita consistenza del
burro e del grasso di deposito, nonché effetti negativi sulla qualità della carcassa. Le
farine di estrazione hanno usualmente un elevato contenuto in fosforo, il che aggrava
la situazione nei riguardi del contenuto in calcio, che è generalmente basso. Buono è
il contenuto in vitamine del gruppo B, mentre è modesto il contenuto in caroteni e
vitamina E.
Si dicono panelli i residui che provengono dalla estrazione per pressione, mentre si
chiamano farine di estrazione se l'olio è stato estratto mediante solventi. Le farine
contengono una percentuale di grassi (0,7-1,5%) inferiore a quella dei panelli (5-8%)
e sono meno nutritive. I panelli e le farine hanno elevato tenore in proteine (22-50%)
la quale è piuttosto carente in lisina e metionina.
Essi sono mangimi di alto valore nutritivo ed a relazione nutritiva stretta perciò sono
adatti a bilanciare razioni di foraggio poveri di proteine e a soddisfare le esigenze
delle buone lattifere e degli animali all'ingrasso. La differenza in valore nutritivo tra i
panelli e le farine è di circa 5-8 U.F. in favore dei primi. Vanno ricordati:
- panello e farina di estrazione di soia: sia il panello sia le farine sono mangimi
eccellenti per gli animali in accrescimento in quanto sono ricchi di proteina (44-45%)
ed il valore biologico di questa (glicinina) è il più elevato fra gli alimenti vegetali per
la ricchezza in lisina e triptofano. Il valore biologico della soia aumenta con la
cottura in quanto sono distrutti il fattore antitripsinico e altre sostanze tossiche.
- panello e farina di arachide: è un alimento eccellente per tutti gli animali in quanto
non presenta effetti negativi sulla qualità della carne e del latte e ha un elevato
contenuto proteico (44-50%). Il panello fornisce circa 105 U.F..
- panello di lino: è impiegato nell'alimentazione delle vacche in produzione, cavalle e
scrofe che allattano, animali in accrescimento. Non va somministrato ai suini e ai
vitelli da carne, altrimenti sia il grasso sia il lardo risultano piuttosto teneri. Nei
pulcini rallenterebbe la crescita.
- farina di cotone: la farina proveniente da semi sgusciati contiene circa il 47-50% di
proteine grezze di cui il 40% digeribili e circa 92-100 U.F./qle. Non dovrebbe essere
usata in dosi superiori al 15% della razione in quanto contiene un pigmento
(gossipolo) che causa intossicazioni e lesioni epatiche e renali nei polli, suini e
vitelli. Nei bovini adulti il fenomeno non si verifica, ma dosi eccessive causano un
indurimento del burro ed un suo leggero sapore di sego. Nelle ovaiole quantità
superiori al 5-7% nelle miscele causano nel tuorlo un colore olivastro con macchie di
colore ruggine alla superficie.
323
- panello di cocco: è povero in proteine (20%), ma la sua somministrazione favorisce
la produzione di latte ricco in grasso e di burro consistente, come pure di grasso e
lardo di ottima qualità.
- farina di girasole: si può usare sia la farina di semi sgusciati che interi. La prima è
ricca di proteine (40-45%) e valore nutritivo (90 U.F./qle) e si presta molto bene per
gli animali in accrescimento e da ingrasso. La seconda si utilizza soprattutto nei
bovini adulti, comprese le lattifere.
- panello di mais o di granone: rispetto agli altri panelli è povero in proteine (12-
16%), ma ricco in estrattivi inazotati (60-62%) e povero in fibra. Contiene 98-100
U.F./qle. E' indicato per i bovini da carne, suini all'ingrasso.
- panelli e farine di colza: in media contengono il 32-33% di proteina grezza e un
valore nutritivo di 83 e88-90 U.F., rispettivamente per le farine e i panelli. Se
somministrati in dosi eccessive (> 1 kg il giorno nei bovini) possono causare disturbi
gastroenterici dovuti agli isotiocianati che possono essere comunque evitati se i
panelli e le farine sono portati a T > 95 °C in quanto si distrugge l'enzima che causa
l'idrolisi dei glucosinolati contenenti gli isotiocianati. Inoltre i semi di colza, e quindi
le farine, contengono il tioxazolidone che ha azione antitiroidea. Nei polli quantità
elevate di farine (> 5-8%) conferiscono sapore sgradevole alle uova ed una sindrome
emorragica al fegato.
12.8. Residui dell'industria dello zuccherificio:
- melasso: è un sottoprodotto della estrazione dello zucchero dalla barbabietola o
dalla canna. E' costituito da 3,5-7% di protidi grezzi; 60-65% di estrattivi inazotati;
8-9% di ceneri. Il valore nutritivo è di 72-74 U.F.. E' da considerarsi un alimento
tipicamente energetico ed allo stesso tempo un eccellente condimento per altri
mangimi e foraggi poco appetibili.
- polpe secche o fettucce di barbabietole: questo mangime è molto ricco in estrattivi
inazotati (60-62%), ma povero in protidi digeribili. Ha un valore nutritivo di 85 U.F..
Oltre a rendere più appetibili gli alimenti conferisce buone qualità al lardo e al latte.
Altri sottoprodotti sono il concentrato proteico di bietole che si ottiene dall'estrazione
del glutammato monosodico, dal melasso e le borlande che si ottengono dal residuo
della distillazione dell'alcol dal melasso.
12.9. Residui industriali di estrazione e fermentazione:
- manioca è un’euforbiacea dai cui tuberi si estrae l'amido per uso alimentare o
industriale;
- farina glutinata o glutine di mais: sono i sottoprodotti principali della estrazione
dell'amido dalla granella di mais privata del germe che è sottoposto all'estrazione
dell'olio. La farina glutinata contiene il 20-22% di protidi grezzi, il 50-52% di
estrattivi inazotati, il 7% di fibra e il 2% di grassi. Il glutine è più ricco in protidi (40-
60%) ed in U.F. (104-108), inoltre è ricco in xantofille (80-160 mg/kg) perciò è
consigliato nell'alimentazione dei polli.
- trebbie di birra essiccate: contengono il 21-25% di proteine; per la composizione
chimica e le proprietà dietetiche possono essere paragonate alla crusca di frumento,
ma sono meno appetibili. Nei bovini migliorano la qualità del latte, mentre
nell'alimentazione dei suini sono poco adatte.
324
12.10 Mangimi di origine animale (la legge ne vieta l’uso nei poligastrici)
Per lo più derivano dalla lavorazione del latte, della carne e del pesce. Oltre
che per il rilevante contenuto in proteine, fosforo e calcio si distinguono per l'azione
nutritiva decisamente stimolante sull'accrescimento e benefica per la fertilità dei
riproduttori, deposizione delle uova, vitalità e resistenza organica dei pulcini e dei
maialetti. Queste proprietà sono conferite dall'elevato contenuto in aminoacidi
essenziali, elementi minerali e vitamine del complesso B (riboflavina, acido
pantotenico, colina, vitamina B12).
Residui dell'industria lattiero casearia
Il latte bovino contiene circa l’87,5% di acqua e 12,5% di sostanza secca, di
questa circa il 3,75% è rappresentata da grasso e la rimanente quota (residuo magro)
contiene 3,3 % di proteine 4,7% di lattosio e 0,75% di ceneri. La maggior parte del
grasso del latte è rappresentata da trigliceridi neutri, che si caratterizzano per avere
un alto contenuto in acidi grassi a breve catena carboniosa e che rappresentano
un’ottima fonte energetica. Il loro valore calorico è circa 2,25 volte superiore a quello
del lattosio.
Circa il 5% dell’azoto non è proteico e il 78% dell’azoto totale presente è sotto forma
di caseina che è la principale proteina del latte ed ha un elevato valore nutritivo;
peraltro, è leggermente scarsa in aminoacidi solforati, cistina e metionina; comunque,
questi aminoacidi abbondano nella -lattoglobulina e per questo il valore biologico
del latte si aggira intorno a 0,85. Quando la polvere di latte si usa in sostituzione
della farina di carne o di pesce la dieta va integrata con sali inorganici, soprattutto
calcio e fosforo e va tenuto presente che le ceneri del latte hanno un basso contenuto
di magnesio e sono quasi assenti di ferro. Il latte è ricco in vitamina A, riboflavina,
tiamina ma è scarso in vitamina D ed E e vitamina B12. Fra i sottoprodotti del latte
ricordiamo:
a) latte magro e latticello: possiedono rispettivamente lo 0,1 e 0,4-0,5% di grasso.
Oltre che di grasso sono carenti in vitamine liposolubili (A, tocoferoli, caroteni).
Contengono 14-15 U.F./qle e la loro energia lorda è di circa 1,5 MJ/kg in confronto
ai 3,1 MJ/kg del latte intero. Per i suini il latte magro è impiegato allo stato liquido in
dose di 3-6 kg/giorno oppure ad libitum (se il prezzo è conveniente) e i suini riescono
a consumarne fino a 20-24 litri il giorno insieme a circa 1 kg di farina. Queste dosi
possono provocare diarrea se non si usano degli accorgimenti: deve essere
somministrato sempre allo stato fresco o sempre acido, si può aggiungere un litro di
formalina ogni 1000 litri di latte scremato. Nell’alimentazione dei polli, il latte
scremato è usato sotto forma di polvere e in quantità di circa 150 kg per tonnellata di
alimento. Il latte scremato in polvere contiene fino al 35% di proteine che sono però
carenti in cistina, la cui qualità varia secondo il metodo di preparazione: con il
metodo roller, il latte scremato è sottoposto a temperature più elevate rispetto al
metodo spray e quindi il valore biologico delle proteine si abbassa.
Il latte magro in polvere: è ricco in calcio (1,3%) e fosforo (1,0%) ed ha un valore
nutritivo di 125 U.F./qle. E' utilizzato nelle miscele per lo svezzamento dei vitelli e
dei suinetti.
b) siero: Nel processo di caseificazione la caseina precipita trascinando con sé la
maggior parte del grasso e circa la metà del calcio e del fosforo.
Il siero che rimane è il risultato della divisione dei componenti del latte a seguito
della coagulazione enzimatica operata dalla rennina. E’ impiegato soprattutto per i
suini all'ingrasso; ha un valore nutritivo basso (9 U.F./qle) ed un contenuto
325
energetico pari a 1,1 MJ/kg. Contiene proteine (lattoalbumina e lattoglobulina) ad
elevato valore biologico e presenta un buon equilibrio tra vitamine idrosolubili,
calcio e fosforo. L'industria lattiera oggi produce grosse quantità di siero in polvere,
molto utilizzato per la preparazione del latte artificiale e miscele di svezzamento.
Residui delle industrie della carne e del pesce
Sono particolarmente apprezzati come integratori proteici e minerali delle
miscele o delle razioni di concentrati.
- farine di carne: sono definite come il prodotto ottenuto dall’essiccamento e
macinazione di carcasse o parti di carcasse di animali a sangue caldo, se necessario
dopo aver eliminato il grasso con un’adeguata procedura. Esse non dovrebbero
contenere peli, crini, corna, unghie, pelle, contenuto dello stomaco e degli intestini e
dovrebbero essere prive di solventi organici. I prodotti con un contenuto lipidico
superiore all’11% vanno indicati come < ricchi in grasso > mentre i prodotti che
contengono ossa sono definiti < farine di carne ed ossa >. Le farine di carne sono
essiccate per riscaldamento in forni a vapore ed il grasso che scola durante la
disidratazione è eliminato; un’ulteriore e maggiore quantità di grasso è tolta per
pressione ed il residuo è macinato per ottenere il prodotto finale. Nei processi a
umido, il materiale è riscaldato a vapore dopo aver aggiunto acqua ed il grasso che si
separa è scremato; si lascia quindi decantare ciò che rimane ed il liquido
supernatante è eliminato. Questo procedimento consente di ottenere un prodotto ad
elevato titolo proteico. Il residuo è sottoposto a pressione per togliere un’ulteriore
quantità di grasso; è quindi essiccato e macinato. Le farine di carne, generalmente,
contengono il 60-70% di proteine mentre, le farine di carne ed ossa ne contengono
45-55% ma sono più ricche in ceneri (soprattutto calcio, fosforo e manganese). Il
contenuto in grasso mediamente è del 9% ma può variare dal 3 al 13% e, anche,
soddisfacente è il contenuto in vitamine del gruppo B (riboflavina, colina,
nicotinammide, e vitamina B12). Le proteine delle farine di carne sono di buona
qualità e nell’uomo adulto hanno un valore biologico di 0,67: sono molto ricche in
lisina ma povere in metionina e triptofano, inoltre sembra che contengano fattori
sconosciuti di crescita (fattore enterico di crescita che è presente nell’intestino del
suino, fattore Ackerman e un fattore di crescita localizzato nelle ceneri). Come per le
farine di pesce, anche quelle di carne trovano maggiore applicazione
nell’alimentazione dei monogastrici. La loro preparazione deve essere molto accurata
in quanto se non efficacemente sterilizzate (almeno 100 °C) possono contenere agenti
patogeni dannosi per la saluta degli animali che le utilizzano.
In sintesi il valore nutritivo delle farine di carne varia tra 93-105 U.F. secondo
la qualità; contengono il 53-65% di proteina grezza, il 10-12% di grassi ed il 16-27%
di ceneri. Non devono contenere più del 4,4% di fosforo altrimenti ricadono nella
categoria tankage (carne e ossa). Il valore biologico delle loro proteine è 75-80.
- farine di pesce e solubili di pesce: contengono il 67-70% di proteine che hanno un
valore biologico (78-82%) molto elevato perché sono decisamente ricche in
aminoacidi essenziali. Inoltre, sono ricchi in vitamine del complesso B ed elementi
minerali (soprattutto calcio e fosforo). Le farine di pesce secondo l’associazione
internazionale di Fish Meal Manufactures sono così classificate:
a) farine ad alto titolo proteico che hanno più del 68% di proteine e meno del 9% di
grassi (molte farine di aringhe);
b) farine a normale titolo proteico, compreso fra 64 e 68% e possono avere fino al
13% di grassi (molte farine di provenienza sud americana);
326
c) farine a normale titolo proteico, ma a basso tenore lipidico: contengono dal 64 al
68% di proteine e fino al 6% di lipidi (scarti di lavorazione del pesce);
d) farine a titolo proteico standard, compreso fra 60 e 64% (farine americane
Menhaden).
Le farine di pesce sono prodotte:
a) mediante essiccamento in recipienti scaldati a vapore ed il procedimento può
avvenire sotto vuoto, oppure non sfruttare la ridotta pressione;
b) essiccazione a fiamma, la farina è prodotta in un tamburo rotante, mediante
corrente di aria calda; rispetto all’essiccamento a vapore questo procedimento è più
drastico e può esercitare effetti indesiderati sulla qualità delle proteine.
Nelle farine prodotte in modo razionale la digeribilità delle proteine è
compresa fra il 93 e il 95% mentre in quelle che hanno subito il trattamento termico
esagerato può scendere fino al 60%. La qualità delle proteine delle farine di pesce è
normalmente alta, ma assai variabile, come risulta dai valori biologici nel ratto (0,36-
0,82). Le proteine della farina di pesce hanno un elevato contenuto in lisina,
metionina e triptofano; rappresentano quindi un valido correttivo delle diete a base di
cereali ed in particolare delle diete che contengono grandi quantità di mais. Elevato è
anche il contenuto in elementi minerali: calcio 8%, fosforo 3,5% ed elevate quantità
di oligoelementi utili quali il manganese, ferro e iodio. Inoltre, le farine di pesce
rappresentano una buona fonte di vitamine ed in particolare di colina, vitamina B12 e
riboflavina; il loro valore nutritivo è accresciuto dal fatto che contengono alcuni
fattori di crescita, generalmente indicati come Animal Protein Factors (APF). Le
farine di pesce trovano maggiore impiego nell’alimentazione dei giovani
monogastrici, il cui fabbisogno di proteine e di aminoacidi essenziali è
particolarmente elevato e la cui crescita è stimolata dal contenuto in APF delle farine
in oggetto. In genere, negli animali giovani si usano diete con 150 Kg di farine per
tonnellata di alimento, negli animali adulti tale quantitativo scende a 50 kg. La
riduzione è giustificata da motivi economici e dal fatto che gli animali adulti hanno
meno esigenze in proteine e per evitare che le carcasse assumano un sapore di pesce;
quest’ultimo aspetto va considerato anche per gli animali che producono uova e latte.
Nei ruminanti, le farine di pesce assumono importanza quale fonte di proteine non
degradabili a livello ruminale e ciò è importante per i soggetti con rapida crescita e
per le femmine gestanti e in lattazione. Generalmente si usano 50 kg di farina per
tonnellata di alimento. Contrariamente a quanto ritenuto fino ad oggi il valore in
energia metabolizzabile delle farine di pesce non è di 11,1 ma 14 MJ/kg S.S. Le
farine di pesce non devono contenere più di 60 mg di nitriti/kg di alimento che abbia
un’umidità del 12% e devono essere titolati come sodio nitrito, il che equivale a 14
mg di azoto da nitriti/kg S.S.
- farine di sangue: sono ottenute per essiccamento del sangue degli animali da
macello e dei polli, si preparano facendo passare del vapore fluente attraverso il
sangue fino alla temperatura di 100 °C, sufficiente per ottenere la sterilizzazione e
provocarne la coagulazione. La porzione solida è poi pressata per farne uscire il siero
rimasto e dopo si procede all’essiccamento a vapore ed alla macinazione. La farina di
sangue ha colore cioccolato scuro e con odore caratteristico. Contiene circa l’80% di
proteine grezze (58-78% di protidi digeribili), piccole quantità di ceneri e grassi e
circa il 10% di acqua. Dal punto di vista alimentare, è importante quale fonte
proteica: è ricca in lisina, arginina, metionina, cistina e leucina ma è povera di
isoleucina e rispetto alla farina di pesce o di carne contiene meno glicina. Il valore
biologico della proteina di sangue è basso a causa dello squilibrio esistente fra gli
327
aminoacidi inoltre, essa è poco digeribile e ciò può essere utile in quanto ha una
bassissima degradabilità ruminale (0,20). Il loro contenuto in U.F è di 80-
110/qle.Negli uccelli adulti la farina di sangue è utilizzata in dose di 10-20
kg/tonnellata mentre, le normali dosi per i poligastrici e monogastrici adulti sono di
circa 50 kg/tonnellata; quantitativi superiori a 100 kg/tonnellata causano diarrea; nei
suinetti non dovrebbero essere usate.
Altri sottoprodotti
Altri prodotti animali sono la lettiera avicola essiccata e sterilizzata, la pollina
essiccata e disidratata le quali sono utilizzate per l’alimentazione dei ruminanti. La
loro composizione dipende dalla loro origine. La lettiera dei broiler allevati a terra
contiene paglia, trucioli di legno o segatura perciò è più ricca in fibra grezza rispetto
alle deiezioni delle ovaiole allevate in batteria. Entrambi i tipi di deiezioni hanno un
elevato contenuto in ceneri ed è maggiore per quelle delle ovaiole (28% sulla S.S.), la
digeribilità è bassa e il contenuto in EM medio è di circa 7,5 MJ/kg S.S.. Il contenuto
in proteine grezze è compreso fra 25 e 35% e hanno una digeribilità del 65%. La
maggior parte dell’azoto è sotto forma di composti non proteici, soprattutto urati i
quali devono essere convertiti prima in urea e poi in ammoniaca per essere utilizzati
dagli animali. Considerando che la trasformazione in urea è lenta, lo sperpero e i
rischi di intossicazione sono inferiori rispetto agli alimenti che contengono urea. Per
quanto riguarda il calcio e il fosforo, le deiezioni delle ovaiole contengono il 6,5% di
calcio e il rapporto calcio:fosforo è di 3:1, quelle dei broilers contengono meno
calcio ma c’è un miglior equilibrio con il fosforo infatti, il rapporto è di circa 1:1.
Una delle maggiori preoccupazioni in merito all’impiego delle deiezioni
nell’alimentazione del bestiame è la presenza di agenti patogeni (salmonelle) e di
pesticidi e di residui dei farmaci. Comunque, il trattamento termico che comporta
l’essiccamento e il modo di insilamento del materiale sembrano garantire un
soddisfacente controllo dei patogeni ed i pesticidi non hanno ancora posto dei
problemi. I pericoli posti dai residui di medicinali possono essere scongiurati
sospendendo la somministrazione di deiezioni 3 settimane prima della macellazione.
Per le deiezioni bisogna indicare la quantità di acido urico espresso come proteine
grezze, se dell’1% o più, e la quantità di calcio se supera il 2%.
12.12. Sostanze tossiche o antinutritive presenti negli alimenti zootecnici
Si distinguono in :
a) sostanze naturali, le quali causano intossicazioni episodiche o accidentali e senza
gravi perdite;
b) micotossine, pericolose soprattutto nei volatili e suini.
Fra le sostanze naturali ricordiamo: glucosidi isotiocianogeni (senape, colza) e
cianogenetici (sorgo, lino, soia, senape, veccia, ecc.), alcaloidi (lupini, fieno greco),
estrogeni (medica, trifogli, soia), sostanze anticoagulanti (melilotus, soia cruda),
sostanze ad azione antinutritiva (fagioli, fave, piselli, cotone, soia). Le micotossine si
dividono in:
- alfa tossine di cui si conoscono i tipi B1 (la più tossica e cancerogena), B2, G1, G2,
M1, M2. Sono responsabili di lesioni al fegato, ai reni, alla mucosa intestinale. Sono
presenti soprattutto nel mais, sorgo, arachide.
- ocratossine, meno pericolose delle precedenti
- tricoteceni
- zeralenone
328
CAP. XIII. INTEGRATORI E ADDITIVI
Gli integratori sono quei prodotti che non sono veri alimenti, ma derivati
tecnologici chico-industriale o da sintesi, i quali possiedono concentrazioni elevate di
uno o più componenti minerali o azotati o vitaminici, si da limitare l'impiego nelle
razioni e miscele alimentari in percentuale molto ridotte ( 0,5-3%).
Possono avere due funzioni:
a) esplicano azione di stimolo sull'accrescimento e/o di difesa del microbismo e dalle
infezioni e parassitosi di allevamento (antibiotici, anticoccidici, estrogeni);
b) esplicano funzioni attinenti alla buona presentazione e conservazione dei prodotti
mangimistici (antiossidanti, leganti, stabilizzanti) o dell'efficacia nutritiva
(convulsionanti nei sostituti del latte) o a conferire proprietà pigmentanti alle
miscele usate nell'alimentazione dei polli.
13.1. Integratori minerali
- fosforiti: contengono fosfato tribasico di calcio (75-80%), carbonato di calcio e
fluoruri. Dato che il fluoro produce lesioni progressive delle ossa e dei denti la sua
percentuale non deve superare l'1%;
- farina di ossa: sono consentite le farine sgelatinate e sterilizzate contenenti un
minimo di P del 13% e massimo l'1,4% di azoto;
- fosfati di calcio: sono usati soprattutto il fosfato bicalcico e tricalcico;
- carbonato di calcio: nei pulcini e nei suini si usa soprattutto il carbonato di calcio
grezzo;
- cloruro di sodio: è noto come "sale pastorizio" (NaCl grezzo e denaturato). In una
miscela minerale bilanciata il NaCl deve rappresentare il 33-50 se destinata ai bovini
e il 15-25% se per i suini.
13.2. Integratori azotati e proteici
- Urea: l'urea tecnica impiegata nell'alimentazione dei ruminanti fin dallo
svezzamento è un composto molto solubile ed igroscopico che è miscelato con
carbonato di calcio per evitare la formazione di grumi. Sotto questa forma contiene il
43% di azoto (15-16% di proteina grezza).
L'urea è scissa dai batteri ruminali in ammoniaca, CO2 e H2O. L'azoto ureico non
dovrebbe superare 1/3 dell'azoto totale altrimenti avvengono accumuli d'ammoniaca
nel sangue con conseguenti fenomeni di intossicazione.
Aminoacidi - L'aggiunta di aminoacidi alla dieta rende possibile una maggiore
utilizzazione delle proteine e, ciò accade quando si addizionano gli aminoacidi
indispensabili che si trovano al minimo. Soprattutto nei polli e nei suini e, se si fa
ricorso a concentrati a base di cereali (soia esclusa), gli aminoacidi che più bisogna
addizionare sono la lisina e la metionina.
Grassi - I grassi di origine animale (sego, lardo) o vegetale sono usati
nell'alimentazione sia per aumentare l'energia metabolizzabile dei mangimi, sia per
migliorare alcune caratteristiche organolettiche delle miscele (eliminare la
polverosità, migliorare il colore, l'aspetto, l'appetibilità, ecc.).
329
13.3. Integratori vitaminici e vitamine
- lievito di birra: è ricco soprattutto in tiamina, piridossina e pantotenato; inoltre
contiene l'ergosterolo che, se sottoposto a raggi ultravioletti, si trasforma in vitamina
D2
Concentrati vitaminici e vitamine: caroteni (farina di medica e carote disidratate),
vitamina A e D3 (oli di fegato di pesce).
13.4 Antibiotici
Sono sostanze organiche, sintetizzate soprattutto da muffe e streptomiceti, ad
azione batteriostatica e battericida.
In campo zootecnico essi svolgono un'azione auxinica di promozione della crescita in
quanto bloccano la microflora subpatogena e parasaprofita del tubo digerente e
favoriscono lo sviluppo dei microrganismi che sintetizzano la vitamina B12 e la
riboflavina. Nei polli e nei suini, dopo somministrazione di antibiotici si ha aumento
della crescita del 10-15% ed una maggiore utilizzazione degli alimenti del 5-10%.
Nei ruminanti la loro azione è benefica soprattutto durante l'allattamento e lo
svezzamento (maggiore accrescimento, minori infezioni), ma non negli adulti.
I più impiegati sono le tetracicline, bacitracine, oleandomicine, spiramicine,
eritromicine. Un antibiotico particolare è il Monesin detto anche Rumensin, il quale,
intervenendo sulla microflora del rumine, determina una maggiore produzione di
acido propionico ed una riduzione di acido acetico e quindi un aumento
dell'utilizzazione della razione nei bovini da carne.
Va ricordato che l'impiego di antibiotici va sospeso 48 ore prima della macellazione e
che un uso troppo prolungato può causare fenomeni di sensibilizzazione allergica
negli animali e di resistenza nei patogeni.
330
13.5 Tecnica Mangimistica
Organizzazione di un mangimificio
Un mangimificio si articola in più servizi:
1) Servizio ricezione: è il servizio più importante perché da esso dipende la qualità
del prodotto finito. Le migliori formule esigono, per fornire buoni risultati, materie
prime accuratamente controllate e classificate. Le fabbriche che producono mangimi
di buona qualità possiedono sempre un’organizzazione di ricezione molto rigorosa e
seria. La ricezione è l’occhio del servizio acquisti e deve essere sempre informata in
modo completo e continuo dei diversi acquisti in corso. Non appena il servizio
acquisti ha stipulato un contratto deve compilare una scheda che rimette al servizio
ricezione, indicando qualità, date e mezzi di consegna. Il controllo quantitativo delle
merci è affidato alla ricezione mentre, quello qualitativo richiede, spesso, l’intervento
del laboratorio.
2) Servizio acquisti: è preposto al reperimento delle materie prime scelte, in
funzione della loro quantità, valore biologico e nutritivo, sui mercati nazionali ed
internazionali. Esso è in continuo contatto con la ricezione e con il laboratorio per le
informazioni sulla serietà dei fornitori. Inoltre, il servizio acquisti indica la qualità
della merce alla ricezione.
3) Laboratorio chimico: è adeguatamente attrezzato per il controllo qualitativo
delle materie prime e del prodotto finito. Il servizio ricezione fa pervenire i campioni,
prelevati secondo le norme prescritte, al laboratorio che procederà al controllo e
trasmetterà i risultati ai due servizi:
a) ricezione, che potrà far entrare la merce, classificarla e sottoporla, eventualmente,
ai necessari trattamenti;
b) acquisti, che potrà intervenire immediatamente, se necessario, presso i fornitori.
4) Servizio tecnico: provvede alla formulazione delle miscele, all’esame di nuovi
prodotti offerti dalle industrie biochimiche e farmaceutiche, allo studio della loro
efficacia e all’eventuale applicazione ed inserimento in nuove formule. Imposta e
segue le prove sperimentali di controllo.
5) Direzione commerciale: provvede al potenziamento e all’espansione
commerciale.
Preparazione mangimi:
Melassatura
La melassatura dei mangimi si effettua allo scopo di conferire ad essi una migliore
qualità di presentazione e di sofficità, di ridurre la polverosità e per aumentare, nello
stesso tempo, la digeribilità, l’appetibilità ed il valore nutritivo. Nella preparazione
dei pellets, inoltre, il melasso è un coadiuvante per ottenere una maggiore
consistenza.
Il melasso è una sostanza sciropposa, pastosa, brunastra e deriva, principalmente,
dalla canna e dalla barbabietola da zucchero. In tecnica mangimistica interessa
conoscere il grado di assorbibilità del melasso nei confronti dei vari ingredienti di
comune impiego nella preparazione dei mangimi composti. Il grado di assorbimento
dipende anche dalla granulometria del mangime, dal suo contenuto in umidità e
aumenta con la temperatura del melasso. Generalmente, nei mangimi composti non si
riesce a introdurre più del 10% di melasso e ciò è dovuto a problemi, non solo, di
assorbibilità ma anche di confezionamento e conservazione in quanto i prodotti
melassati pongono diversi problemi (riscaldamento, fermentazione, ammuffimento,
331
impiccamento) i quali sono solo parzialmente risolvibili (es. aggiunta di ac.
Propionico direttamente al melasso). L’umidità nel melasso non dovrebbe superare i
due terzi del contenuto in zuccheri ( es. contenuto in zuccheri = 25%; contenuto in
umidità = 2/3 x 25 = 17%) dello stesso melasso. Le tecniche di melassatura sono
diverse:
- melassatura diretta a caldo (metodo industriale),
- melassatura diretta a freddo,
- melassatura indiretta mediante supporto.
Il primo sistema è l’unico impiegato in mangimistica in quanto è rapido, economico e
consente una perfetta omogeneizzazione del melasso con gli altri ingredienti della
miscela (assenza di grumi).
La macchina utilizzata è detta melassatrice e ne esistono diversi tipi:
- un comune miscelatore orizzontale attrezzato per spruzzare all’interno della massa
il melasso;
- un miscelatore orizzontale e cilindrico speciale con dosatori per farine e melasso
- un miscelatore verticale a cilindro con iniezione del melasso.
Oggi, nell’industria mangimistica viene utilizzata, soprattutto, la melassatrice rapida
che permette non soltanto l’aggiunta di quantità elevate di melasso ma può essere
usata anche per la grassatura.
Le principali norme che riguardano la melassatura sono:
1) dato che il melasso arriva al mangimificio mediante cisterne ed i serbatoi sono
posti, generalmente, nei sotterranei, si rendono necessarie tubazioni con angoli di
inclinazione non inferiori a 30° mentre, se i depositi sono al di sopra del livello
stradale necessitano pompe e compressori;
2) al di sotto di t ambientali di 10° C è necessario riscaldare il punto di scarico del
melasso;
3) i serbatoi per il melasso dovrebbero essere di acciaio smaltato o di calcestruzzo
piastrellato,
4) le tubazioni dovrebbero essere di plastica, visto che quelle in ferro vengono
corrose entro due anni al massimo;
5) per facilitare lo scorrimento del melasso dai serbatoi verso la melassatrice si
devono porre all’uscita serpentine a vapore;
6) la temperatura che facilita il pompaggio è intorno a 38° C;
7) il fondo del serbatoio deve essere inclinato per facilitare la raccolta delle impurità
che si formano con il tempo;
8) per evitare energia supplementare di pompaggio le tubature devono presentare il
minor numero possibile di gomiti e curve;
9) per mantenere la temperatura della massa costante i serbatoi e le tubazioni devono
essere isolati termicamente;
10) nel sistema di trasporto interno del melasso si può verificare la caramellizzazione
e la cristallizzazione che possono essere evitati spurgando la rete delle tubazioni con
vapore, al termine di ogni pompaggio;
11) prima che il melasso arrivi dal serbatoio di deposito a quello di lavorazione è
necessario farlo passare su un concentratore a disidratazione;
12) la nebulizzazione del melasso nel miscelatore-melassatrice si ottiene a mezzo di
aria compressa o con vapore a pressione (2-3 atm);
13) è opportuno prevedere che in caso di arresto di alimentazione di farina la pompa e
l’iniettore del melasso vengano immediatamente arrestati;
332
14) usando pompe a portata regolabile (montare sul circuito un contatore e dei filtri) è
possibile un dosaggio esatto del melasso;
15) per poter pellettare facilmente un prodotto non bisogna superare il 6% di melasso
in quanto, per effetto della compressione, lo sciroppo zuccherino spremuto
all’esterno e premuto contro le pareti surriscaldate (40-60° C) dei canali della filiera
forma uno strato collante che rallenta l’espulsione del pellet;
16) percentuali elevate di melasso durante la pellettatura ne fanno diminuire il
coefficiente di scorrimento ed abbassano, di conseguenza, il rendimento della
macchina, determinando inoltre irregolarità di lavoro per cui i pellets risultano
opachi;
17) per pellettare un mangime con oltre il 6% di melasso è preferibile usare filiere
fisse;
18) i pellets che contengono più del 6% di melasso sono di più difficile manipolazione
e conservazione in quanto scorrono male e si bloccano nei raffreddatori (quelli
classici, di tipo verticale);
19) per pellets ad alto contenuto di melasso sono da preferire i raffreddatori
orizzontali oppure a tazza e per il loro deposito andrebbero usati serbatoi a forma
piatta (più larghi che alti);
20) nella produzione di tali pellets si può anche impiegare un ausiliare della
fabbricazione del tipo antimpaccante (disidratante)
21) per la produzione di pellets ad alto contenuto in melasso si raccomanda:
a) macinazione fine degli ingredienti (griglia 1,5-2) per favorire l’assorbimento;
b) riscaldamento della massa per favorire l’assorbimento;
c) temperatura di espulsione non troppo elevata (40-50 °C);
d) spostamento dei pellets con un nastro trasportatore a nastro inclinato e non con
elevatore;
e) lavorazione mai a freddo e raffreddatore (orizzontale) alimentato molto
regolarmente;
f) immagazzinamento dei pellets in serbatoi di grandi dimensioni ( al fine di evitare
il bloccaggio);
g) confezionamento mai in sacchi troppo stretti ed esclusivamente di pellets freddi e
ben asciutti;
h) evitare l’eccesso di umidità (troppo vapore) che fa gonfiare i pellets dopo il
raffreddamento;
i) la conicità dei fori della filiera deve essere perfetta per evitare mancanza di
compressione e quindi indurre sgretolamento dei pellets dopo il raffreddamento;
j) adozione del sistema detto “ad addizioni progressive” (in 2-3 volte) e utilizzare
miscele ad elevato contenuto in fibra (10-20 %).
Inoltre, bisogna ricordare che i liquidi come i melassi si attaccano sulle pareti di tutto
l’impianto e che durante la lavorazione si possono formare piccoli grumi ad alta
concentrazione di liquido. Perciò, nel caso della fabbricazione di mangimi composti
integrati (mci) è consigliabile non superare l’aggiunta del 5% di liquidi e adottare un
rimescolatore ad alta velocità (melassatrice) che permetta l’ottenimento di un
prodotto uniforme e senza grumi.
Grassatura
La grassatura degli alimenti zootecnici, se effettuata entro determinati limiti, serve a
migliorare l’aspetto e l’utilizzazione delle miscele di concentrati, ad eliminare la
333
polverosità, a favorire la pellettatura, ad elevare la concentrazione energetica degli
alimenti, ad aumentare l’appetibilità e quindi l’assunzione di alimento
L’impiego per incorporazione, nel caso delle miscele in farina o per rivestimento, nel
caso delle miscele in pellet o dei concentrati diversi estrusi, dei grassi o degli oli
comporta diversi problemi:
a) trasporto
I grassi vengono trasportati al mangimificio in fusti, autocisterne, vagoni cisterna. Per
poterli scaricare in maniera rapida e ininterrotta, si utilizzano preferibilmente
contenitori isolati termicamente: in questo caso se il percorso è breve la perdita di
calore sarà così bassa che non necessita nessun riscaldamento per lo scarico. I fusti
sono generalmente di 200 litri e nelle raffinerie il grasso viene fatto affluire in essi
allo stato liquido ma, se si tratta di grasso animale esso giunge al mangimificio allo
stato solido per cui dovrà essere liquefatto prima del suo impiego.
Le autocisterne, invece, possono trasportare il grasso allo stato liquido in quanto sono
termicamente isolate e munite di sistema di riscaldamento (T massima del grasso 77-
82 °C). Il mezzo di scarico generalmente è per caduta libera ma ciò non sempre è
possibile. I vagoni cisterna, generalmente trasportano il grasso a 60-70 °C e lo
scarico è simile a quello delle autocisterne.
b) immagazzinamento
Per ciascun tipo di grasso nel mangimificio dovrebbero esserci due cisterne; ciò al
fine di poter effettuare una pulizia minuziosa delle cisterne e non avere interruzione
di lavoro. Per non mantenere tutto il grasso immagazzinato a temperatura di fusione
(50-55 °C) è consigliabile mantenere una cisterna a temperatura media costante utile
per l’impiego e l’altra a temperatura ambiente o raffreddata. Infatti, se si devono
conservare grassi per più di due settimane è necessario raffreddarli, onde evitare
rischi di deterioramento. Le cisterne di stoccaggio dovrebbero essere verticali e
munite di un fondo inclinato o conico. Bisogna considerare che tutti i grassi
contengono piccole quantità di corpuscoli sospesi (particelle fini di proteine, saponi
metallici, ecc.) che si ammassano durante il periodo di immagazzinamento nel fondo
della cisterna: nel caso delle cisterne verticali a fondo inclinato la superficie di
contatto fra queste impurità e il grasso fuso è ridotta al minimo. Le cisterne, inoltre,
devono essere munite di un sistema a spirale di riscaldamento, un sistema di
controllo della temperatura e di un dosatore. Se il grasso viene utilizzato
giornalmente non è necessario riscaldare la cisterna di stoccaggio oltre i 60 °C,
considerando che un grasso a questa temperatura può essere conservato per non più
di 4 giorni in quanto dopo irrancidisce.
Per riscaldare i grassi solidi necessitano 0,6 Kcal/Kg di grasso per ogni grado
centigrado e, in generale, si stima che un Kg di vapore possa fondere da 7 a 7,5 Kg
di grassi. La fusione può essere ottenuta mediante iniezione diretta di vapore nel
grasso e in questo caso l’acqua di condensa può avere effetti negativi sulla qualità del
grasso se esso non viene consumato molto rapidamente. Per i fusti, il riscaldamento
può essere di tipo elettrico e necessitano circa 5 ore per fondere il contenuto di circa
150 Kg (200 litri) di grasso. Durante il periodo di stoccaggio i grassi non devono
essere sottoposti a riscaldamento. Se la quantità di grassi è destinata ad essere
utilizzata entro 15 giorni è bene mantenerli allo stato liquido intorno a 50 °C, così
facendo la quantità di energia richiesta è sempre inferiore a quella necessaria per il
riscaldamento e la fusione.
I due fattori che più nuocciono al grasso e ne accelerano il deterioramento sono l’aria
e l’acqua. La prima favorisce l’ossidazione e l’irrancidimento, la seconda accelera
334
l’idrolisi con aumento del contenuto in acidi grassi liberi. Non dovrebbero essere
utilizzate cisterne arrugginite in quanto l’ossido di ferro agisce come potente
catalizzatore. Se si vuole conservare del grasso che è stato fuso mediante iniezione
diretta di vapore bisogna riscaldarlo a 70-80 °C per 2-3 ore per separarlo dall’acqua
che si deposita sul fondo con le impurezze e che vengono eliminate insieme. Prima di
ogni carico della cisterna (o almeno ogni 3 mesi) è necessario un trattamento
completo e radicale. La tecnica da impiegare per la pulizia utilizza lavaggi con acqua
calda, con vapore, con soluzione di soda bollente , con detergenti e asciugatura finale
per evitare arruginimento.
c) dosaggio e miscelazione dei grassi
Quando il grasso è impiegato giornalmente, viene portato ad una temperatura di
manipolazione di 70-85 °C. Le pompe più in uso per la grassatura sono quelle ad
ingranaggio, rotative e dotate di motore elettrico. Tutto l’impianto deve assicurare:
- un buon funzionamento
- la regolazione permanente della temperatura
- la qualità dei grassi circolanti
- la pressione durante la distribuzione.
Come già detto, i grassi possono essere aggiunti:
a) alle miscele farinose per miscelazione (incorporazione)
b) alle miscele pellettate per polverizzazione (rivestimento).
Se non si dispone di melassatrice, è preferibile usare miscelatori speciali in quanto
quelli ordinari pongono il problema della formazione di grumi o di croste.
La miscelazione grassi-farine può essere realizzata con il metodo continuo o con
quello discontinuo; con il secondo l’addizione massima sarà del 5%. Con il metodo
continuo si ottiene una migliore distribuzione delle particelle di grasso anche con
elevate quantità di introduzione (25-30 %). Vengono utilizzati miscelatori orizzontali
o verticali. I miscelatori continui orizzontali sono cilindrici, con un asse centrale
munito di lame che girano a grande velocità, quelli verticali hanno meno lame ed il
grasso è aggiunto sotto forma di pioggia. All’inizio della miscelazione il grasso deve
avere una temperatura più elevata in quanto l’impianto è freddo. Fino al 5%, i grassi
possono essere aggiunti con il miscelatore principale, al di sopra di tale valore
bisogna attrezzarsi di un miscelatore continuo supplementare (tipo melassatrice).
Avendo i due miscelatori, si può preparare una premiscela grassata di soia o mais
fino al 25-30 %, da portare nel miscelatore principale come qualsiasi altro
ingrediente.
Per la grassatura dei sostitutivi del latte a base di latte magro in polvere o del siero di
latte in polvere esistono 2 metodi:
- grassatura del latte scremato liquido (sprayzzazione)
- grassatura del latte magro polvere (grassatura meccanica).
Il primo metodo interessa le latterie e non il mangimificio, il secondo, invece,
interessa il mangimista poiché può avvenire attraverso sistemi di miscelazione simili
a quelli impiegati normalmente, ma dotati di particolari accorgimenti. Il grasso viene
incorporato partendo dal principio che fini particelle di grasso devono essere
ricoperte da fini particelle di latte (o di siero) in polvere. In genere, si possono
ottenere prodotti grassati fino al 30% che, allo scioglimento in acqua, non presentano
separazione della parte grassa. Tale risultato si ottiene facendo in modo che
all’addizione del grasso liquido le particelle cristallizzino immediatamente e ciò
avviene con temperature di 2-5 °C. Se il prodotto finito contiene una quantità di
grasso superiore a quello dovuto assomiglierà ad una miscela grassata che, posta su
335
di un pezzo di carta bibula, formerà immediatamente macchie di unto. In queste
condizioni l’aria verrà a contatto con la superficie grassa, determinandone un rapido
deterioramento che abbassa la qualità del prodotto.
Polverizzazione dei grassi - I prodotti pellettatti non dovrebbero avere una
percentuale di grasso incorporato superiore al 2-3% altrimenti diventano friabili. Un
dosaggio supplementare di grasso può essere effettuato mediante nebulizzazione
(sprayzzazione) sul pellet dopo la compressione-estrusione. Il grasso polverizzato
non solo deve rivestire il pellet ma deve entrare all’interno e la penetrazione dipende:
a) composizione della miscela
b) contenuto in grasso della miscela
c) umidità del prodotto
d) temperatura del pellet.
Riguardo la composizione della miscela, i cruscami assorbono più grasso rispetto al
mais perché sono meno grassi, come pure i prodotti ad un più elevato contenuto in
fibra favoriscono la penetrazione del grasso. Esiste un rapporto diretto tra legame
capillare del contenuto in umidità e la capacità di assorbimento del grasso. Subito
dopo l’espulsione, i pellets contengono in legame capillare una parte dell’umidità
acquisita durante la loro preparazione e durante il raffreddamento e lo stoccaggio
una parte di questa acqua viene persa e vengono liberati, completamente o
parzialmente, i sistemi capillari strutturali e quindi il grasso penetra negli interstizi
capillari, a condizione che il fenomeno di adesione capillare sia più elevato degli
attriti interni del liquido che vi penetra. Quanto più la temperatura si innalza al di
sopra del punto di fusione dei grassi, tanto più la sostanza fluidificata penetra con
facilità.
I principali sistemi di polverizzazione dei grassi sono:
1) polverizzazione sopra pellets ancora caldi: si ha il vantaggio che pellets e grasso
hanno la stessa temperatura; comunque, l’umidità ancora presente ostacola la
penetrazione del grasso;
2) polverizzazione sopra pellets freddi: i pellets hanno una elevata capacità di
assorbimento in quanto hanno perso acqua ma la penetrabilità del grasso è limitata, in
quanto essendo essi freddi si ha una solidificazione del grasso prima della
penetrazione;
3) polverizzazione sopra pellets, seguita da riscaldamento: questo sistema unisce i
vantaggi dei due precedenti ma è più costoso per l’energia addizionale richiesta per il
riscaldamento.
336
CAP. XIV. ESEMPI DIETE E RAZIONI
L'obiettivo finale dell'alimentazione è quello di stabilire, mediante calcoli
appropriati ed una semplice scelta qualitativa e quantitativa dei foraggi e/o mangimi
disponibili nell'azienda agraria e sul mercato, delle diete o delle razioni che
rispondono dal punto di vista energetico, proteico, vitaminico e minerale e quindi a
sostenere determinati livelli produttivi compatibili con le capacità dell'animale. Il
calcolo delle razioni richiede la conoscenza di due serie di elementi:
- i fabbisogni nutritivi espressi procapite necessari per il calcolo di razioni, o come
composizione percentuale di diete bilanciate adatte per una certa categoria di
animale;
- la composizione ed il valore energetico degli alimenti fra i quali è possibile o
conveniente operare una scelta, nella formulazione delle razioni e delle diete.
I metodi per la stima dei bisogni nutritivi sono diversi, ma tutti tengono conto dei
seguenti elementi:
1) valore energetico della razione, espresso in unità nutritive (U.F:, U.A.), in S.N.D.
od in energia metabolizzabile (E.M.);
2) contenuto minimo in protidi digeribili completato da quello in aminoacidi
indispensabili delle diete o razioni destinate ai polli e ai suini;
3) contenuto in sostanza secca delle razioni, espresso in Kg come valore indicativo di
un volume alimentare adeguato al peso degli animali;
4) contenuto in elementi minerali, raccomandato come ottimale per lo stato di salute
ed il conseguimento di elevate produzioni;
5) contenuto in caroteni e vitaminico, minimo o raccomandato, limitato alle vitamine
A, D, E per i ruminanti ed esteso a tutte le vitamine idrosolubili per i suini e le specie
avicole.
Esercizi:
5 becchi hanno ingerito 1,5 kg/capo/giorno di S.S. di fieno e la
quantità di S.S. escreta con le feci è stata di 0,70 kg/capo/giorno e considerando
che l’analisi del fieno e delle feci ha dato la seguente composizione (g/kg S.S.):
Sostanza
organica
Proteine
Grezze
Estratto
etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
inazotati
Fieno 850 90 12 340 408
Feci 800 100 12 300 388
Calcolare la digeribilità, la relazione nutritiva, il valore nutritivo (U.A., U.F., indice
volumetrico, le PDI)
a) calcolo della digeribilità:
moltiplicando per 1,5 e 0,70, rispettivamente, i contenuti del fieno e delle feci si ha:
Sostanza
secca
Sostanza
organica
Proteine
grezze
Estratto
etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
inazotati
Quota
consumata -
1,5 1,275 0,135 0,018 0.51 0,612
Quota escreta
=
0,70 0,56 0,07 0,0084 0,21 0,2716
Quota digerita 0,80 0,715 0,065 0,0096 0,30 0,3404
337
e i coefficienti di digeribilità saranno:
Sostanza
secca
Sostanza
Organica
Proteine
grezze
Estratto
etereo
Fibra
Grezza
Estrattivi
inazotati
0,80 : 1,5
= 0,53
(53%)
0,71 : 1,27
= 0,56
(56%)
0,06 : 0,13
= 0,48
(48%)
0,01 : 0,02
= 0,53
(53%)
0,3 : 0,51
= 0,59
(59%)
0,34 : 0,61
= 0,56
(56%)
e quindi la composizione del fieno in termini di principi alimentari digeribili è la
seguente (g/kg S.S.):
Sostanza
Organica
Proteine
Grezze
Estratto
etereo
Fibra
grezza
Estrattivi
Inazotati
850 x 0,56 =
476
90 x 0,48 =
43,2
12 x 0,53 =
6,36
340 x 0,59 =
200,6
408 x 0,56 =
228,48
In questo esempio, i becchi hanno ingerito 1,5 kg di sostanza secca di fieno il cui
contenuto in energia lorda è pari a 18.0 MJ/kg e quindi l’energia lorda consumata da
ciascun animale è pari a 18 x 1,5 = 27 MJ. Gli 0,70 kg di S.S. delle feci contenevano
18,7 MJ/kg e quindi un totale di 13,09 MJ per giorno. La digeribilità apparente di
quel fieno è risultata perciò (27 - 13,1)/27 = 13,9/27 = 0,515 e l’energia digeribile
contenuta nella sostanza secca dello stesso fieno è uguale: 18,0 x 0,515 = 9,3 MJ/kg.
b) Relazione nutritiva:
(200,6 + 228,48 + 6,36 x 2,25) : 43,2 = 443,39 : 43,2 = 10,26
il fieno in questione ha una relazione nutritiva larga e quindi non andrebbe, almeno
da solo, somministrato in animali in accrescimento o ad elevata produzione lattea
c) Calcolo delle unità amido e foraggere classiche: - Unità amido
Principi nutritivi % Coefficiente
digeribilità
Sostanze
digeribili
Coefficiente
adipogenetico
Unità amido
lorde
Proteine grezze 9 0,48 4,32 0,94 4,06
Lipidi grezzi 1,2 0,53 0,64 1,91 1,22
Fibra grezza 34 0,59 20,01 1 20,01
Estrattivi inazotati 40,8 0,56 22,85 1 22,85
Totale U.A. teoriche 48,14
U.A: nette = 48,14 – (34 x 0,58) = 48,14 – 19,72 =
U.A. nette/Kg S.S. fieno = 28.42 : 100 =
28,42
0,284
d) Unità foraggere: (28,42 x 2360 x 1,43) = 95911,82 : 2100 = 45,67
Unità foraggere/ Kg S.S. fieno = 45,67 : 100 = 0,46
338
Calcolo energia lorda: (formula di Hoffman e Schiemann) EL (MJ/Kg S.S) =
0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x FG + 0,175 x EI =
0,239 x 9 + 0,398 x 1,2 + 0,200 x 34 + 0,175 x 40,8 =
2,151 + 0,478 + 6,80 + 7,14 = 16,57 MJ
Calcolo energia digeribile: ED (MJ/Kg S.S) =
0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x FG x dFG + 0,170 x EI x dEI =
0,239 x 9 x 0,48+ 0,379 x 1,2 x 0,53 + 0,183 x 34 x 0,59 + 0,170 x 40,8 x 0,56 =
1,03 + 0,24 + 3,67 + 3,82 = 8,76
Calcolo energia metabolizzabile: EM (MJ/Kg S.S) =
0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x FG x dFG + 0,152 x EI x dEI =
0,181 x 9 x 0,48+ 0,323 x 1,2 x 0,53 + 0,150 x 34 x 0,59 + 0,152 x 40,8 x 0,56 =
0,78 + 0,20 + 3,01 + 3,47 = 7,46
Tutto ciò può essere riassunto nella tabella:
Principi nutritivi grezzi g/Kg SS
(A)
Digeribilità
(B)
Coefficiente*
( C )
Energia %
Proteine
EL (MJ/Kg S.S) = A x C
ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C
EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C
9
0,48
0,239
0,239
0,181
2,15
1,03
0,78
100
48
76
Lipidi
EL (MJ/Kg S.S) = A x C
ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C
EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C
1,2
0,53
0,398
0,379
0,323
0,48
0,24
0,20
100
50
83
Fibra
EL (MJ/Kg S.S) = A x C
ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C
EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C
34
0,59
0,200
0,183
0,150
6,80
3,67
3,01
100
54
82
Estrattivi inazotati
EL (MJ/Kg S.S) = A x C
ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C
EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C
40,8
0,56
0,175
0,170
0,152
7,00
3,88
3,47
100
55
89
Totale
EL (MJ/Kg S.S) = 2,15 + 0,48 + 6,80 + 7,00 =
ED (MJ/Kg S.S) = 1,03 + 0,24 + 3,67 + 3,88 =
EM (MJ/Kg S.S) = 0,78 + 0,20 + 3,01 + 3,47 =
16,43
8,82
7,46
100
54
84
*tiene conto dell’energia /Kg SS per i singoli principi nutritivi
Calcolo dell’energia netta:
- si considera la metabolizzabilità dell’energia lorda: q = EM/EL = 7,46/16,43 =
0,45
- poi si calcolano i vari K:
- Km = 0,287q + 0,554 = 0,287 x 0,45 + 0,554 = 0,68
- Kl = 0,24 (q – 0,57) + 0,6 = 0,24 x 0,08 + 0,6 = 0,62
- Ka = 0,78q + 0,06 = 0,78 x 0,45 + 0,06 = 0,41
339
- e infine l’energia netta per i diversi usi da parte dell’animale:
ENm = 7,46 x 0,68 = 5,07 MJ x 239 = 1211,7 Kcal
ENl = 7,46 x 0,62 = 4,62 MJ x 239 = 1104,2 “
ENa = 7,46 x 0,41 = 3,06 MJ x 239 = 731, 3 “
UFl = 1104,2 : 1730 = 0,64
UFc = 7,46 x (2/3 . 0,68 + 1/3 . 0,41) = 7,46 x 0,59 = 4,40 MJ x 239 = 1051,6 Kcal
1051,6 : 1850 = 0,57
Calcolo UF classiche:
considerando un coefficiente di utilizzazione di 0,60 per l’EM abbiamo:
7,46 x 0,60 = 4,48 MJ che moltiplicato per 239 = 1070,7 Kcal
UF = 1070,7 : 2100 = 0,51
Calcolo UFl = (7,46 x 0,64 x 239) : 1730 = 1141,08 : 1730 = 0,66
Calcolo UFc = (7,46 x 0,68 x 239) : 1850 = 1212, 40 : 1850 = 0,65
e) Indice volumetrico (I.V.) = 1 : 0,65 = 1,54
f) Sintesi proteica a livello ruminale:
- Considerando che il fieno contiene:
- 9% (90 g) di proteina grezza della quale:
- 60 g (67%) sono degradabili e
- 30 (33%) by-pass
- SOF = 476 – 30 – 12= 434 g = 43,4 %
- Si ha
PDIA = 9 x (1 – 0,67) x 0,90 = 2,67 = 26,7 g /Kg SS
PDIMN = 9 x 0,67 x 0,90 x 0,8 x 0,8 = 3,47 = 34,7 g /Kg SS
PDIME = 43 x 0,145 x 0,8 x 0,8 = 3,99 = 39,9 g/Kg SS
PDIN = 26,7 + 34,7 = 61,4
PDIE = 26,7 + 39,9 = 66,6
E’ preferibile un leggero eccesso di PDIE in quanto l’animale con l’urea salivare
ricicla una parte di azoto.
Se al posto del fieno avessimo utilizzato un alimento con il 79% di sostanza organica
fernentescibile (SOF):
PDIA = 9 x (1 – 0,67) x 0,90 = 2,67 = 26,7 g /Kg SS
PDIMN = 9 x 0,67 x 0,90 x 0,8 x 0,8 = 3,47 = 34,7 g /Kg SS
PDIME = 79 x 0,145 x 0,8 x 0,8 = 7,33 = 73,9 g/Kg SS
PDIN = 26,7 + 34,7 = 61,4
PDIE = 26,7 + 73,9 = 100
Per ottimizzare la sintesi proteica a livello ruminale aggiungiamo della farina di soia
che apporta 384 g/Kg SS di PDIN e 248 g/Kg SS di PDIE, in ragione di 0,3 Kg si ha:
PDIN = = 61,4 + 384 x 0,3 = 61,4 + 115,2 = 176,6
PDIE = = 100 + 248 x 0,3 = 100 + 74,4 = 174,4
340
Esercizio
Calcolare la razione per una bovina che:
- pesa 6 qli (3a lattazione),
- produce 34 Kg di latte al giorno al 3,7 % di grasso, 3,2 % di proteine
- perde 0,5 Kg al giorno di peso,
Km = 0,7; kl 0 0,64; Peso metabolico = 6000,75
= 121,23 kg
Calcoliamo prima le esigenze dì mantenimento:
Trasformo il latte in latte standard:
kg latte x (0,4 + 0,15 x % grasso latte) = 34 x (0,4 + O,5 x 3,7) = 3,4 x 0,955 = 32,5
kg
Perdita peso:
Energia = 0,5 Kg x 26 MJ x 0,84 = 13 x 0,84= 10,92 MJ = 10.920 KJ
Proteine = 0,5 Kg x 112 g = 56 g
Esigenze Energetiche
Mantenimento: 1,4 + 0,006 x 600 Kg = 5,0 UFl
Produzione: 0,44 x 32,5 = 14,3 UFI
Totale = 19,3 UFl
UFL risparmiate per perdita peso = 10.920: 7113 = 1,53 UF1
UFI da somministrare = 19,3 - l,53 =17,8 x 1,05 = 18,7 UFL
Esigenze proteiche:
PDR = 8,34/MJ EM ingerita
EM = 18,1 UFl x 1730 Kcal: 239: 0,64 (Kl) = 211 MJ
Fabbisogno PDR == 8,34 x 211 = 1760 g (= 99 g per UFl)
mantenimento: 2.19 X 6000,75
= 265,5 ( = 44 g per q)
proteine cutanee = 0,1125 x 600°,75
= 13,6 ( = 2,3 g per q)
proteine latte = 32 x 0,95 x 34 = 1033,6 g
Non conoscendo il contenuto in proteine del latte sì applica l’equazione che tiene
conto del contenuto in grasso: 21,7 + 0,31x 3,7 = 33,2 g/litro
perdita peso = 0,5 Kg x 112g = 56 g
Proteine tissutali (PT) = P mantenim. + prot Cut + P. latte - P. perd. Peso =
265,5 + 13,6 + 1033,6 - 56 = 1312,7 - 56 = 1256,7
Fabbisogno PNDR = 1,47 x PT – 6,6 EM = 1,47 x 1256,7 - 6,6 x 211 = 1847,35 -
1393 = 455 g
341
E' consigliabile moltiplicare i fabbisogni di PDR e PNDR per 1,05 e quindi si ha:
PDR = 1760 x 1,05 = 1848 g
PDNR = 455 x 1,05 = 478 g
Fabbisogno proteine:
PDR + PDNR = 1840 + 478 = 2326 g
Di cui 79% PDR e 21% PDNR
Sostanza secca:
mantenimento: 600 x 0,0185 = 11,1 kg
produzione: 32,5 x 0,305 = 9,9 kg
totale = 21kg
Per le proteine volendo considerare il sistema francese abbiamo:
PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7 % SS e quindi
21.000 x 16,7/100 = 3507 g - 56 (perdita tessuti) = 3451
UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % PG e quindi 3451
x 35,3/l00 = 1218g .
PDIN o PDIE (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6 % SS e
quindi 21.000 x 10,6/100 = 2226
Fabbisogni in minerali:
calcio: 35 g per mantenimento + 3,7 x 32,5 (prod. latte) = 35 + 120,25 = 155, 25 g
fosforo: 25 g per manten.+ 1,5 x 32,5 (prod. Latte) = 25 + 48,75 = 73,75
Magnesio: 1,8 g per mantenim.+ 0,125 x 32,5 = 1,8 + 4,06 = 5,86 g
Fabbisogoo di lipidi (% su S.S.): 32,5 x 0,0743 + 2,5684 = 4,980% che espresso in g =
21000 x 4,98/100 = 1045,8 g
Fabbisogno in fibra:
FG ( % su SS) = FCM x (- 0,08) + 19,44 = - 0,08 x 32,5 + 19,44 = - 2,6 + 19,44 =
16,84 %
NDF (% su FG) = FCM x (- 0,29) + 41,92 = -9,42 + 41,92 = 32,5%
ADF (% su FG) = FCM x (- 0,08) + 23,44 = - 2,6 + 23,44 = 20,8 %
Ciò significa che ogni Kg di sostanza secca:
deve contenere: 0,89 UFI, 110,2 g di proteine, 4,98 % di lipidi,
In sintesi per calcolare la razione per bovini da latte si considera:
1) peso vivo dell' animale, età, sistema di allevamento, eventuale gravidanza;
2) livello produttivo e trasformazione del latte prodotto in latte al 4% di grasso:
FCM= 34 x (0,4+ 0,15 x 3,7)= 32,5
3) stima ingestione SS = PV x 0,0185 + Kg FCM x 0,305 = 600 x 0,0185 + 32,5 x
0,305 = Il,1 + 9,91 = 21 Kg
4) concentrazione energetica: UFL /Kg SS = FCM x 0,0062 + 0,7204 =
32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92 e quindi per 21 Kg di SS = 19,3 UFL totali della
342
razione:
sono da togliere 1,53 UFL per la perdita di peso e quindi vanno somministrate 17,8
UFL che conviene moltiplicare x 1,05 e quindi 17,8 x 1,05 = 18,7 UFL
5) concentrazione proteica:
PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7 % SS e quindi
21.000 x 16,7/100 = 3507 g - 56 (perdita tessuti) = 3451
UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % PG e
quindi 3451 x 35,3/100 = 1218 g
PDIN o PDIE (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6 % SS e
quindi 21.000 x 10,6/100 = 2226
6) contenuto in fibra: considerando solo il contenuto in NDF si ha:
NDF (% SS) = FCM x (- 0,29) + 41,92 = 32,5 x ( - 0,29) + 41,92 = 32,5% SS e,
quindi, 21.000 x 32,5/100 = 6825 g
- almeno un terzo deve essere apportata da foraggi strutturati e quindi 6825 : 3 =
2275g
7) rapporto foraggi:concentrati: considerando la produzione della bovina dovrebbe
essere di.60:40;
- ciò significa che dei 21.000 g di SS I2.600 devono. provenire dai foraggi e 8.400 dai
concentrati '
- considerando che in azienda si ha silo mais e fieno di medica e che solo il fieno
apporta NDF-FLS bisogna calcolarla su questo: fieno di medica (Kg SS) = g NDF-
FLS I % NDF fieno x 100 = 2275: 50 x 100 = 4.550 g SS fieno e quindi 5,3 Kg tal
quale (4.550: 0.86)
- per differenza si ha la quantità SS di silomais: 12.600 - 4.550 = 8050 g SS = 24,4
Kg tal quale
8) Concentrazione energetica del concentrato
– dai foraggi ottengo:
silomais: 8050 x 0,90 : 1000 = 7,2 UFL
fieno medica: 4550 x 0,67 : 1000 = 3,05 UFL
Totale 10,2 UFL (56% del totale)
- avrò bisogno di un mangime che abbia una concentrazione energetica di 1,01
UF/Kg SS (18,7 - 10,2): 8400 g x 1000)
9) Concentrazionè proteica del concentrato - dai foraggi ottengo:
silomais: 8050 x 8,5 : 100 = 684 g PG
fieno medica: 4550 x 17,5 : 100 = 796 g PG
Totale 1480 g PG (43%)
- avrò bisogno di un mangime che apporti gli altri 1971 g e che quindi abbia il 23,5
% di PG SS (1971: 8400 x100);
L'allevatore dispone di pastone di mais (spiga + tutolo) che contiene il 57% di SS e
1'8,6% SS di PG e decide di utilizzarne 10 Kg tal quale e quindi avremo:
SS = 10 x 57: 100 = 5,7 Kg
PG= 5,7 x 86 = 490 g
Rimangono da soddisfare1971 - 490 = 1481 g di PG che potrebbero ottenersi
utilizzando 3,5 Kg di farina di soia con 1'88% di SS e 47 % PG % SS.
SS = 3,5 x 88 :100 = 3,08 Kg
PG = 3,1 x 470 = 1457 g
343
Fabbisogni bovina da latte
Latte standard (4% grasso) =
I FCM
kg latte x (0,4+ 0,15 x % grasso latte) =
Aggiunte per Kg di peso
guad.:
energia
proteine
26 MJ/Kg: 0,95 = 27,35 MJ =
150: 0,95 = 157 g/kg =
Detrazioni per Kg di peso
perso:
Energia
Proteine
26 MJ/Kg x 0,84 =
150 x 0,75 = 112 g/kg perso =
Ingestione SS (Kg):
mantenimento
produzione
totale
PV x 0,0185 =
Kg FCM x 0,305 =
UFL:
mantenimento
produzione
totale
1,4 + 0,006 x Kg peso vivo =
0,44 x kg FCM =
NDF (% SS)1 FCM x (- 0,29) + 41,92 =
FG (% SS) FCM x (- 0,08) + 19,44 =
Concentrazione:
energetica UFL /Kg SS
proteica PG (% SS)
FCM x 0,0062 + 0,7204 =
FCM x 0,144 + 12,008 =
UIP %PG FCM x 0,34 + 24,28 =
PDI(% SS) FCM x 0,132 + 6,324 =
Lipidi (% SS) FCM x 0,0743 + 2,5684 =
Calcio (% S.S.) 2 (± 5-10 %) FCM x 0,0 l + 0,42 =
Fosforo (% SS 2 (± 5-10 % FCM x 0,003 + 0,3
Magnesio 3 mg/kg (mantenimento) + 0,125 g/ kg FCM =
Vitamine: (oscillazione max
10%)
A (UI/ kg SS) 70.000 (15.000)* =
D (UI/ kg SS) 1000 (1.500)* =
E (UI/ kg SS) 25 (40)* =
1 1/3 di NDF deve provenire da foraggi strutturati
2 rapporto Ca/P = 1,7 - 2 bovine in lattazione e 1,3 per quelle in asciutta
* i valori in parentesi si riferiscono a bovine in asciutta
344
Fabbisogni bovina da latte
Latte standard (4% grasso) = I
FCM
34 x (0,4+ 0,15 x 3,7) = 32,5
Aggiunte per Kg di peso guad.:
energia
proteine
26 MJ/Kg: 0,95 = 27,35 MJ =
150: 0,95 = 157 g/kg =
Detrazioni per Kg di peso perso:
Energia
Proteine
26 MJ x 0,5 x 0,84 = 10,92 MJ = 10.920 Kj
150 x 0,75 x 0,5 = 56 g =
Ingestione SS (Kg):
mantenimento
produzione
totale
60 0 x 0,0185 = 11,10 kg
32,5 x 0,305 = 9,91 kg
21,0 kg
UFL:
mantenimento
produzione
perdita peso
totale
1,4 + 0,006 x 600 = + 5,0 UFL
0,44 x 32,5 = + 14,3UFL
1,53 UFL
17,77 x 1,05 = 18,7 UFL
NDF (% SS)1
Da foraggi strutturati = 1/3
32,5 x (- 0,29) + 41,92 = 32,5% = 6825 g
6825 :3 = 2275 g
FG (% SS) 32,5 x (- 0,08) + 19,44 = 16,84% = 3564 g
Concentrazione:
energetica UFL /Kg SS
proteica PG (% SS)
32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92
32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7% = 3507 – 56 = 3451 g
UIP % PG 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % = 1218 g
PDI(% SS) 32,5 x 0,132 + 6,324 =10,6% = 2226 g
Lipidi (% SS) 32,5 x 0,0743 + 2,5684 = 4,98% = 1046 g
Calcio (% S.S.) (± 5-10 %) 32,5 x 0,0 l + 0,42 = 0,74% = 155 g
Fosforo (% SS 2 (± 5-10 % 32,5 x 0,003 + 0,3 = 0,40% = 84 g
Magnesio 0,003 g x 600 + 0,125 x 32,5 = 5,9 g
Vitamine: (oscillazione max 10%)
A (UI/ kg SS) 70.000 x 21 = 1.470.000 U.I.
D (UI/ kg SS) 1000 x 21 = 21.000 U.I.
E (UI/ kg SS) 25 x 21 = 525 mg
1 1/3 di NDF deve provenire da foraggi strutturati
2 rapporto Ca/P = 1,7 - 2 bovine in lattazione e 1,3 per quelle in asciutta
* i valori in parentesi si riferiscono a bovine in asciutta
345
Alimenti S.S. UF/Ikg PG PDIN PDIE UlP NDF Lipidi Ca P
% SS % SS % SS % SS % PG % g/Kg g/Kg g/Kg
SS t.q. t.q t.q
Silo-mais 33 0.9 8,5 5,2 6,6 31 43 14 1,2 0,6 .
Fieno 86 0,67 17,5 11 9 28 50 25 14 2,3
medica
Pastone 57 1.1 8,6 6,1 9,8 60 15 30 0.2 1,1
di mais
Farina di 88 1.1 47 30 24 35 15 30 2,7 6,5
soia
Alimenti Kg Kg UFl PG UIP PDIN PDIE NDF Lipidi Ca p
tq S.S. g g g g g g g g
Silo-mais 24,4 8,0 7,2 680 210 416 528 3440 342 29 15
Fieno medica 5,3 4,5 3,0 787,5 220 495 405 2250 132 74 12
Totale foraggi 29,7 12,5 10,2 1467 430 911 933 5690 474 103 27
Pastone mais 10 5,7 6,3 490 294 348 559 855 300 2 11
Farina soia 3,5 3,1 3,4 1457 510 930 744 465 105 9,4 23
Tot. conc. 13,5 8,8 9,7 1947 804 1278 1303 1320 405 11,4 34
Totale raz. 43 21,3 19,9 3414 1234 2189 2236 7010 879 114,4 61
346
Esigenze
Kg UFl PG UIP PDIN PDIE NDF Lipidi Ca P
S.S. g g g g g g g
Animale 21 18,7 3451 1218 2226 2226 6825 1046 155 74
Soddisfatte 21,3 19,9 3414 1234 2189 2236 7818 879 114A 61
dalla
razione I
Differenza + + - + - + + - - -
% 0,3 1,2 37 16 37 10 185 167 40,6 13
1,4 6,4 1,07 1,3 1,7 0,4 2,7 16 26 17,6
1) Calcolare la digeribilità e le unità foraggiere di un alimento somministrato ad
un bovino:
Alimento:
fieno ingerito kg 5
umidità 13%
E.L. = 18 MJ/kg S.S.
feci kg 2 S.S.
La sostanza secca del fieno è pari all’87 % e quindi per i 5 kg di fieno si ha:
(5 x 87) : 100 = 4,35 kg S.S.
S.S. trattenuta = 4,35 - 2 = kg 2,35
Digeribilità fieno = (4,35 - 2) : 4,35 = 0,54 o 54%
E.L. = 4,35 kg x 18 MJ = 78,3 MJ
E.D. = 78,3 x 0,54 = 42,8 MJ
Dall’ED. togliendo l’energia persa con le urine (5%) e con il metano (12%) si ottiene
l’energia metabolizzabile:
Energia urine (Eu) = 42,8 x 5 : 100 = 2,11 MJ
Energia metano (Em) = 42,8 x 12 : 100 = 5.07 MJ
Energia metabolizzabile = E.D. - Eu - Em = 42,8 - 2,11 - 5,07 = 35,1 MJ
Considerando un coefficiente di utilizzazione dell’EM = 0,60, l’Energia Netta (EN)
sarà:
35,1 MJ x 0,60 = 21,06 MJ che moltiplicato per 239 sarà = 5033 Kcal
Considerando che:
1 UF classica = 2100 Kcal
1 UF latte = 1730 Kcal
1 UF carne = 1850 Kcal
si ha :
347
UF/ 5 kg fieno = 5033 : 2100 = 2,40 UF classiche
UF/kg fieno = 2,40 : 5 = 0,48
Considerando poi Kl = 0,636 e Kf = 0,681 si avrà:
a) UFl / 5 Kg di fieno = (35,1 x 239 x 0,636) : 1730 = 5335,34 : 1730 = 3,08
UFl / Kg di fieno = 3,08 : 5 = 0,62
b) UFc / 5 Kg fieno = (35,1 x 239 x 0,681) : 1850 = 5712,84 : 1850 = 3,09
UFc / Kg fieno = 3,09 : 5 = 0,62
2) calcolare l’energia digeribile di un fieno somministrato ad un ovino
- Fieno somministrato (s.s.) all’ovino (Kg/capo/d) = 1,50 Kg
- Alimento eliminato con le feci (s.s.) = 0,70 Kg
- Fieno digerito (1,50 – 0,70 Kg) = 0,80 Kg
Energia loroda per Kg s.s. fieno = 18,0 MJ
Energia per Kg di feci = 18,7 Mj
Energia lorda ingerita = 18 MJ x 1,5 kg = 27,0 MJ
Energia eliminata con le feci = 18,7 MJ x 0,70 Kg = 13,1 MJ
Energia trattenuta (digeribile ) = MJ (27 – 13,1) = 13,9 MJ
Digeribilità (apparente) dell’energia = (27 – 13,1)/27 = 0,515
Energia digeribile contenuta nel fieno = 18 x 0,515 = 9,3 MJ/Kg
3) Calcolare la razione per bovine da latte. Bisogna considerare:
a) peso vivo medio individuale - è necessario conoscere il peso vivo degli animali; in
caso di razionamento di gruppo si prende il valore medio che nel nostro caso è di 650
kg;
b) livello produttivo medio: bisognerebbe presupporre un dato superiore a quello
medio che tenga conto, da un lato, il tentativo di migliorare la produzione di latte e,
dall’altro, di non penalizzare le bovine più produttive all’interno del gruppo; per
risolvere quest’ultimo problema è stato messo a punto un sistema di correzione (lead
factors) che aumenta per ciascun gruppo di produzione la quantità di latte su cui
calcolare la razione.
Nel nostro caso, l’allevamento è diviso in due gruppi produttivi (50% ciascuno) ed il
gruppo ad alta produzione, nell’ultimo mese ha prodotto 30 kg di latte/capo/giorno e
quindi impostiamo il razionamento per 35,1 (30 x 1,17) al 3,5% di grasso e dalle
formule viste in precedenza trasformiamo il valore in latte standard (corretto al 4% di
grasso):
latte 4% = 35,1 x (0,4 + 0,15 x 3,5) = 32,5 kg
Fattori di correzione per la formulazione di razioni unifeed per bovini da latte (lead
factors)
Bovine in ogni gruppo Gruppo di produzione
% Alto Medio Basso
100 0 0 1,32 - -
70 0 30 1,22 - 1,21
50 0 50 1,17 - 1,23
30 0 70 1,14 - 1,25
33 33 33 1,14 1,10 1,21
25 25 50 1,13 1,07 1,23
25 50 25 1,13 1,14 1,21
50 25 25 1,18 1,08 1,21
348
c) stima dell’ingestione di sostanza secca: per stimare il livello ingestivo la formula
più utilizzata è quella proposta da Cornell: SS ingerita = PV (kg) x 0,0185 + latte 4%
(kg) x 0,305 e quindi:
SSI = 650 x 0,0185 + 32,5 x 0,305 = 21,9 kg/d/capo
d) concentrazione energetica: in base ai fabbisogni avremo:
UFL/kg SS = latte 4% x 0,0062 + 0,7204 = 32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92 e per 21,9
kg SS avremo 20,19 UFL totali della razione;
e) concentrazione proteica: secondo quanto detto in precedenza avremo:
PG (% SS) = latte 4% x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7% SS
e quindi per 21,9 kg SS avremo 3655 g PG;
UIP (% PG) = latte 4% x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3% PG e quindi
per 21,9 kg SS e 16,7% SS avremo bisogno di 1291 g di UIP;
PDIN o PDIE (% SS) latte 4% x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6% SS e
quindi avremo un fabbisogno di 2324 g di PDI;
f) contenuto in fibra: tenendo conto solo del contenuto in NDF avremo:
NDF (% SS) = latte 4% x (-0,29) + 41,92 = 32,5 x (-0,29) + 41,92 = 32,5% SS e
quindi per 21,9 kg SS avremo bisogno di 7116 g di NDF e poiché almeno un terzo di
questo NDF deve essere somministrato da foraggi strutturati avremo bisogno di 2348
g di NDF-FLS (7116 x 1/3)
g) rapporto foraggi : concentrati: immaginando di avere a disposizione silomais (33%
SS, 0,90 UFL/ kg SS, 8,5 PG % SS, 5,2 PDIN % SS, 6,6 PDIE % SS, 31 UIP %
PG e 43 NDF % SS) e fieno di medica 2° taglio (86 % SS, 0,67 UFL/kg SS, 17,5
PG % SS, 11 PDIN % SS, 9 PDIE % SS, 28 UIP % SS e 50 NDF % SS) e cercando
di avere una concentrazione energetica della base foraggiera intorno a 0,85 UFL/kg
SS dovremmo impostare un rapporto foraggi : concentrati di 60 : 40 (vedi tabella).
Da questo deriva che di 21,9 kg di SS totali dovremo prevedere 13140 g di SS da
foraggi e 8760 g di SS da concentrati.
Per quanto riguarda i foraggi dovremo prima di tutto soddisfare il fabbisogno minimo
in NDF-FLS e poiché il silomais non apporta questa fibra strutturata dovremo
calcolarla solo sul fieno di medica, e quindi: fieno di medica (kg SS) = g NDF-
FLS/% NDF fieno x 100 = 2348/50 x 100 = 4696 g SS che vuol dire 5460 g di fieno
di medica tal quale (4696/0,86 = 5460). Per differenza avremo bisogno di 8444 g di
SS da silomais, in altre parole 25,6 kg di tal quale da silomais (8444/0,33 = 25558)
h) concentrazione energetica del concentrato: calcolo quante UFL della dieta è
possibile coprire con la somministrazione dei foraggi:
- dal fieno di medica: g SS x UFL/kg SS/1000 = 4696 x 0,67/1000 = 3,15 UFL
- dal silomais: 8444 x 0,90/1000 = 7,60 UFL
quindi dai foraggi ottengo 10,75 UFL, ovvero il 53% del totale della razione, ed avrò
bisogno di mangimi che abbiano una concentrazione energetica di 1,078 UFL/kg SS
((20,19 -10,75 UFL) /8760 g x 1000)
i) concentrazione proteica del concentrato: calcolo quante PG sono coperte dalla
somministrazione dei foraggi:
- dal fieno di medica: g SS x PG % SS/100 = 4696 x 17,5/100 = 822 g PG
- dal silomais 8444 x 8,5/100 = 718 g PG e quindi dai foraggi ottengo in totale 1540
g di PG che coprono il 42% del fabbisogno totale della razione, ed avrò bisogno di un
349
mangime che mi apporti i restanti 2115 g di PG, ovvero che abbia il 24,1 % di PG SS
(2115/8760 x 100)
l) scelta dei concentrati: potendo utilizzare il computer sarà possibile immettere
molte materie prime e lasciare che il computer scelga la combinazione migliore in
funzione anche della minimizzazione del costo della razione, tenendo sempre conto
dei limiti nutrizionali di ciascuna materia prima. immaginiamo che l’allevatore abbia
la possibilità di usare pastone di spiga di mais (granella + tutolo) con le seguenti
caratteristiche: 57% SS, 1,15 UFL/kg SS, 8,6% PG SS, 6,1 PDIN % SS, 9,8 PDIE %
SS, 60 UIP % PG e 15% NDF SS. Per semplicità utilizziamo 8,5 kg di tal quale (4,85
kg SS) e quindi dal pastone ricaviamo: UFL = 1,15 x 4,85 = 5,58; PG = 8,6 x
4,85/100 x 1000 = 417 g; NDF = 15 x 4,85/100 x 1000 = 727 g. Bisogna cercare a
questo punto un concentrato proteico che abbia la possibilità con 3910 g SS di
coprire 3,86 UFL (20,19 - 10,75 - 5,58 UFL), 1698 g di PG (2115 - 417 g PG) e 99 g
di NDF (7116- 4696 x 50/100 - 8444 x 43/100 - 4850 x 15/100 = 409 g NDF): questo
mangime dovrà quindi avere le seguenti concentrazioni: 0,97 UFL/kg SS, 43,4% PG
SS, 10,5% NDF SS. La farina di soia può fare al caso nostro, infatti ha le seguenti
caratteristiche: 88% SS, 1,10 UFL/kg SS, 47 PG % SS, 35 PDIN % SS, 24 PDIE %
SS, 35 UIP % PG, 15 NDF % SS. Proviamo a valutare la razione in funzione delle
UIP totali, che risultano dalla somma delle UIP di ciascun alimento (UIP % PG x g
PG/100):
- da fieno di medica: 28 x 822/100 = 230 g
- da silomais: 31 x 718/100 = 223 g
da pastone di mais: 60 x 417/100 = 250g
- da farina estrazione soia: 35 x 3910/100 = 643 g
In totale dalla razione abbiamo 1346 g che coprono ampiamente i fabbisogni in UIP
che sono 1291 g.
In conclusione la razione così formulata è composta da:
- fieno di medica 2° taglio: 4696 g SS 5,5 kg tal quale
- silomais (33% SS): 8444 g SS 25,6 kg tal quale
- pastone di mais: 4850 g SS 8,5 kg tal quale
- farina estrazione soia: 3910 g SS 4,5 kg tal quale
L’analisi prevista a partire da questa razione sarà:
- sostanza secca da somministrare: 4696 + 8444 +4850 + 3910 = 21,9 kg
- rapporto foraggi : concentrati: (4696 + 8444) / (4696 + 8444 + 4850 + 3910) = 60 :
40 sul secco
- UFL totali = 3,15 + 7,60 + 5,58 + 1,1 x 3,91 = 20,63 (erano previste 20,19)
- UFL/kg SS = 20,63/21,9 = 0,94 (previsto 0,92)
- PG totali = 822 + 718 + 417 + 47/100 x 3910 = 3795 g (previsti 3655g)
- PG (% SS) = 17,3% (previsti 16,7%)
- UIP totali = 230 + 223 + 250 + 643 = 1346 g (previsti 1291 g)
- UIP (% PG) 1346/3795 = 35,5 % (previsto 35,3%)
- PDIN totali = 5,2 x 8444/100 + 11 x 4696/100 + 6,1 x 4850/100 + 35 x 3910/100 =
2620 g
- PDIE totali = 6,6 x 8444/100 + 9 x 4696/100 + 9,8 x 4850/100 + 24 x 3910/100 =
2394 g
La differenza tra le PDIE e le PDIN apportate dalla razione è di 226 g, quindi
leggermente superiore ai 200 g che sono il limite massimo per evitare sbilanciamenti
della razione tra l’apporto energetico e proteico ai microrganismi ruminali. Inoltre il
350
contenuto in PDI della razione (in questo caso PDI = PDIE risultando inferiori alle
PDIN) risulterà di 10,9 % SS (2394/21900 x 100), contro un contenuto previsto di
10,6 % SS
- NDF totale = 4696 x 50/100 + 8444 x 43/100 + 4850 x 15/100 + 3910 x 10,5/100 =
7117 g
- NDF (% SS) 7117/21900 x 100 = 32,5%
La razione quindi pare ben bilanciata almeno per i nutrienti più importanti
4) Calcolo della razione per una vacca da latte di 5 anni (non più in
accrescimento) del peso di 550 Kg, che produce 14 litri di latte il giorno con il
4% di grasso ed è al 5° mese di gravidanza (non ha bisogno di supplementazione
per lo stato gravidico).
Si calcolano prima i fabbisogni:
Fabbisogno nutritivo Mantenimento Produzione latte Totale
Unità foraggiere n. 4,4 14 x 0,4 = 5,6 10
Proteina digeribile g 60 x 5,5 = 330 14 x 60 = 840 1170
Sostanza secca Kg 17
Calcio g 33 14 x 4,2 = 58,8 92
Fosforo g 24 14 x 1,7 = 23,8 48
Caroteni mg 400
L'azienda dispone di erba medica ad inizio fioritura, fieno maggengo di prato
naturale di media qualità, insilato di granturchino:
Quantità Componenti nutritivi della razione
Alimenti
Kg
U.F. Prot. dig
g
Sostanza
secca
kg
Ca
g
P
G
Caro-
teni
mg
Erba
medica
15 15x0,14 = 2,1 15x32= 430 3,75 87,0 12,8 450
Fieno di
prato
7 7x0,40 = 2,8 7x40 =280 5,95 15,5 13,1 120
Granturchi
-no insil.
28 28x0,12 = 3,4 8x28 = 224 5,60 15,1 12,3 330
Crusca 2,5 2,5x0,75= 1,9 2,5 x 110 =
275
2,20 3,3 31,4
TOTALE 52,5 10,2 1209 17,50 120,9 69,6 900
Nel calcolo dei quantitativi dei singoli costituenti la razione, necessari per far
raggiungere alla stessa un giusto contenuto in U.F., proteine digeribili, Ca, P, caroteni
e di sostanza secca si andrà per tentativi, variando i singoli quantitativi fino ad avere
un risultato soddisfacente; oppure, si provvede all'aggiustamento con concentrati ed
integrativi.
La razione formulata soddisfa con un certo margine di sicurezza sia il bisogno
energetico che proteico e molto largamente ai fabbisogni in calcio, fosforo e caroteni.
Per la sostanza secca vi è un modesto eccesso di 0,5 Kg, ma poiché essa corrisponde
351
a poco più del 3% del peso dell'animale e gli alimenti utilizzati sono sicuramente
appetibili, è da ritenere che la razione sia interamente consumata.
5) Trovare la razione giornaliera di una bovina da latte di razza Frisona
Italiana con le seguenti caratteristiche:
- peso vivo Kg 550
- produzione giornaliera di latte = 25 kg/giorno al 3,9% di grasso.
a) razione di mantenimento:
U.F. = 0,75/q; Proteine digeribili = 60 g/q; Ca = 4,5 g/q; P = 4,5 g/q
b) razione di produzione:
U.F. = 0,4/kg latte al 4% di grasso; Proteine digeribili = 60 g/kg latte; Ca = 3 g/Kg
latte; P = 2 g/Kg latte;
c) razione giornaliera di:
sostanza secca = 3-3,5% del peso vivo; fibra grezza = 18-22% della sostanza secca di
cui il 50% come fibra strutturata; vitamina A = 100.000 - 150.000 U.I.
Foraggi Composizione
Aziendali S.S. % P.D. % F.G. % U.F. Ca % P % Vit. A
Silomais
(maturazione cerosa)
28
1,4
26,3
23,5
0,28
0,21
-
fieno di medica
(inizio fioritura)
90
11,4
29,8
45,7
1,25
0,23
0,26
Granella orzo 85 7,5 4,6 100 0,07 0,40 -
Calcolo delle esigenze nutritive:
Razione
Mantenimento Produzione Totale
U.F. 0,75 x 5,5 = 4,125 0,4 x 25 = 10 14,125
P.D. g 60 x 5,5 = 330 60 x 25 = 1500 1830
Ca g 4,5 x 5,5 = 24,75 3 x 25 = 75 99,75
P g 4,5 x 5,5 = 24,75 2 x 25 = 50 74,75
S.S. Kg = 3-3,5% PV = (3-3,5 x 550) = 16,5-19,5
F.G. Kg = 18-22% su S.S. = 2,97-4,23
Quantità di foraggi somministrati giornalmente
Kg S.S.
Kg
F.G.
Kg
P.D.
Kg
U.F. Ca
g
P
G
Vit. A
silomais 16 4,41 1,18 0,22 3,68 12,54 9,41 73.710*
fien. medica 7 6,30 1,88 0,80 3,2 78,75 14,49
gran. orzo 5 4,25 0,19 0,37 5,0 2,97 17,0
Totale 28 15.03 3,25 1,39 11,88 94,27 40,9 73.710
* Vit. A = (26 mg x 6,30 Kg x 450 U.I.) = 73.710
Questa razione è sufficiente a coprire le quote per il mantenimento e la produzione di
circa 19 litri di latte; quindi, occorre integrare con mangimi del commercio per
soddisfare i fabbisogni di produzione, per altri 6 Kg di latte.
352
Calcolo dell'integrazione con concentrati
Alimenti S.S.
%
F.G.
%
P.D.
%
U.F. Ca
%
P
%
Vit. A
U.I.
Polpe di bietola 91 20,9 4,1 84,2 0,75 0,11 -
Farina di soia
(estrazione 50%)
90 3,0 42,2 105,0 0,27 0,72 -
Quantità di concentrati somministrati giornalmente
Alimenti
Kg
S.S.
kg
F.G.
Kg
P.D.
Kg
U.F. Ca
g
P
g
Vit. A
U.I.
Polpe di
bietola
2
1,82
0,38
0,08
1,68
13,69
2.002
-
Farina di soia
(estrazione
50%)
1 0,90 0,027 0,422 1,05 2,43 6,48 -
Totale 2,72 0,407 0,502 2,73 16,12 8,482 -
Pertanto la composizione della razione giornaliera impiegata è:
Alimento Quantità (Kg)
Silomais
Fieno di medica
Granella di orzo
Polpe di bietole
Soia farina estrazione
16
7
5
2
1
Contenuto della razione
S.S.
Kg
F.G.
Kg
P.D.
kg
U.F. Ca
g
P
g
Vit. A
U.I.
17,75 3,65 1,892 14,61 110,39 49,38 73.710
Fabbisogni teorici della bovina
S.S.
Kg
F.G.
Kg
P.D.
kg
U.F. Ca
g
P
g
Vit. A
U.I.
17,875 3,6 1,83 14,12 99,75 74,75 100.000
Rapporto Ca/P = 2,23 : 1.
La tolleranza ammessa nel calcolo delle U.F. e delle P.D: é, rispettivamente, + 0,5 e
+ 250g
I bisogni di vitamine, particolarmente A, e in quelli minerali sono aggiustati con
l'impiego di integratori
Nella composizione degli alimenti i valori delle F.G., del calcio e del P sono riferiti
alla sostanza secca, quelli delle P.D. al tal quale.
353
6) Calcolare il valore nutritivo (V.N.) in U.F., la relazione nutritiva (R.N.) e
l'indice di voluminosità (I.V.) di un alimento avente la seguente composizione
chimica:
acqua = 63%, proteina 17,94%, grasso 2,31%, ceneri 6,03%, fibra grezza 34,39%,
estrattivi inazotati = 39,33%.
- calcolo sostanza secca = 100-63 = 37
- calcolo coefficienti digeribilità:
fibra grezza = 34,39% scarto: 35-30 = 5; 35-34,39 = 0,61; 54,5 - 50,2 = 4,3 (scarto
fibra); 5 : 4,3 = 0,61 : x; x = 4,3 x 0,61/5 = 0,52
proteine: 60,0 - 55,7 = 4,3; 5 : 4,3 = 0,61 : x; x = 4,3 x 0,61/5 = 0,52
grassi: 5 : 7,3 = 0,61 : X; X = 7,3 x 0,61/5 = 0,89
estrattivi inazotati: 5 : 4,5 = 0,61 : x; x = 4,5 x 0,61/5 = 0,79
i coefficienti di digeribilità, quindi, sono:
proteine: 55.7 + 0,52 = 56,22
grassi = 48,2 + 0,89 = 49,09
estrattivi inazotati = 61 + 0,79 = 61,79
fibra grezza = 50,2 + 0,52 = 50,72
- calcolo delle sostanze nutritive digeribili:
proteine 17,94 x 0,5622 = 10,08 prot. digeribili
grassi 2,31 x 0,4909 = 1,13 grassi "
estrattivi inazotati 39,33 x 0,6179 = 24,30 estrat. inaz. "
fibra grezza 34,39 x 0,5072 = 17,44 fibra "
- calcolo della relazione nutritiva:
R.N. = (estrat. inaz. dig. + fibra diger. + grassi diger. x 2,25) : proteine digeribili =
(24,30 + 17,44 + 1,13x 2,25) : 10,08 = 4,34 (è una relazione stretta).
- calcolo del valore nutritivo:
si calcolano prima le unità amido teoriche (moltiplicando le sostanze nutritive
digeribili per il coefficiente adipogenetico):
proteine 10,08 x 0,94 = 9,48
grassi 1,13 x 1,91 = 2,15
fibra 17,44 x 1 = 17,44
estrat. inaz. 24,30 x 1 = 24,30
Totale U.A. teoriche = 53,37
Dalle unità amido teoriche si risale a quelle reali, mediante i fattori di correzione;
essendo la fibra grezza pari 34,99 quindi > di 16 il fattore di correzione è 0,58:
34,39 x 0,58 = 19,94; U.A. reali = 53,37-19,94 = 33,44
- calcolo del V.N. in U.F.; basta fare la conversione delle U.A. in unità foraggiere:
1 U.A. = 1,43 U.F. quindi 33,43 U.A. x 143 = 47,80 U.F.
- riferimento del V.N. in U.F. a 100 Kg di sostanza secca:
100 : 47,80 = 37 : x; x = 47,80 x 37/100 = 17,68
- calcolo dell'indice volumetrico:
I.V. = sostanza secca totale : U.F. totali = 37 : 17,68 = 2,09
354
7) stabilire una razione media giornaliera, per un gruppo di vitelli da carne, con
un peso di 250 Kg e col presupposto di avere un incremento medio/d di 1200 g.
- in azienda sono presenti i seguenti foraggi: silomais a maturazione cerosa, fieno di
medica e come concentrato si dispone di farina di estrazione di arachide addizionata
del 2,5% di fosfato bicalcico e dello 0,5% di sale pastorizio con oligoelementi.
I bisogni nutritivi si ricavano direttamente dalle tabelle (I.N.R.A., N.R.C.) e sono: 4,9
U.F., 585 g di protidi digeribili, 6,8 Kg di sostanza secca; 27 g di calcio, 21 g di
fosforo; 60 mg di caroteni. La composizione della razione è quella riportata in tabella
nella quale sono indicati, nella colonna sinistra delle U.F., delle P.D. e della SS. i
valori dei singoli alimenti riferiti ad un Kg.
Alimenti kg Unità
foraggiere
prot. diger.
G
sost. secca
Kg
Ca
g
P
G
Carote-
ni mg
Silomais
14
0,23 3,22
14 196
0,28 3,92
10,3
7,3
80
fieno
medica
2
0,45 0,90
115 230
0,85 1,70
21.2
4,0
50
Arachide
farina
estr.
0,8
1,0 0,80
430 344
0,90 0,72
1,5
4,4
-
fosfato.
Bicalcico
.
-
-
-
-
4,8
3,7
-
Totali 16,8 4,92 770 6.34 37,8 19,4 130
La razione proposta risponde bene ai fabbisogni di unità foraggiere, proteine, calcio e
fosforo il quale presenta un deficit trascurabile. Il contenuto in sostanza secca è
minore di quello previsto ma, ciò costituisce un vantaggio per i bovini all'ingrasso e,
dipende dall'impiego di un foraggio di base (il silomais) raccolto a maturazione
cerosa e quindi contiene un’elevata concentrazione nutritiva.
8) Calcolare la razione di mantenimento per pecore di 40 Kg in buona
condizione corporea
Fabbisogni: mantenimento 0,52 UFL 42 g PDI
Pascolamento (20% mantenimento) 0,10 UFL
Totale 0,62 UFL 42 g PDI
- Alimenti disponibili: - fieno di prato stabile mediocre: 0,62 UFL; 50 g PDIN; 63 g
PDIE; 6,5 g Calcio; 2,5 g fosforo
- Capacità di ingestione prevista: Kg 1,2 = 1 Kg di sostanza secca (2,5 Kg S.S. per
100 Kg di peso vivo)
- Apporti alimentari: 0,62 UFL; 50 g PDI; 6,5 g Calcio; 2,5 g Fosforo.
I fabbisogni sono soddisfatti (al limite) con un Kg di S.S. (pari a 1,2 Kg tal quale) di
un fieno di qualità mediocre.
Ciò indica che i fabbisogni di mantenimento di una pecora sono soddisfatti da una
razione costituita da solo foraggio ed anche di qualità mediocre. Le pecore, anche se,
fossero di peso maggiore (es. 70 Kg di peso vivo, con fabbisogno di 0,80 per il
355
mantenimento e 0,16 per il pascolamento) i fabbisogni sarebbero sempre coperti se la
capacità di ingestione non scendesse sotto i 2,5 Kg di S.S. per 100 Kg di peso vivo.
9) calcolo della razione per pecore a fine gravidanza di 60 Kg e con
prolificità di 1,5:
Fabbisogni di mantenimento 0,71 UFL g PDI
Gestazione (75% mantenimento) 0,53 "
Totale 1,24 “ 128
- Alimenti disponibili:
a) fieno di medica 0,67 UFL, 112 g PDIN, 94 PDIE, 15 g Calcio, 2,5 g fosforo;
b) orzo 1,16 UFL, 0,79 PDIN, 102 g PDIE, 0,7 g Calcio, 4,0 g fosforo;
- Capacità ingestione prevista: Kg 1,3 di S.S. = 1,5 Kg tal quale;
Apporti giornalieri UFL PDIN PDIE Calcio Fosforo
Fieno Kg 1,0 (0,85 SS.) 0,57 95 80 12 2
Orzo Kg 0,5 (0,435 SS.) 0,50 34 44 1,7
Totale 1,07 129 124 12 3,7
La razione è adeguata in proteine e calcio, carente in fosforo; l'energia è leggermente
in eccesso a 45 giorni dal parto e leggermente in difetto a una o due settimane dal
parto (la pecora farà ricorso alle proprie riserve corporee). I fabbisogni non
potrebbero essere coperti con solo fieno, considerando che un buon fieno contiene
massimo 0,75 UFL/Kg e che a fine gravidanza la pecora non ha un’elevata capacità
di ingestione.
10) Calcolo della razione per pecore di 60 Kg con produzione di latte di 1,5
Kg/giorno:
- Fabbisogni di mantenimento: UFL 0,71 PDI 57 g
" Produzione " 0,98 " 135 g
Totale " 1,69 " 192 g
- Alimenti disponibili:
a) fieno di medica: 0,62 UFL, 105 g PDIN, 88 g PDIE, 15 g calcio, 2,5 g fosforo;
b) orzo: 1,16 UFL, 79 g PDIN, 102 g PDIE, 0,7 g calcio, 4,0 g fosforo
- Capacità di ingestione prevista: Kg 2,1 di S.S. (Kg 3,5 per q peso vivo)
- Apporti giornalieri UFL PDIN PDIE Calcio Fosforo
- fieno Kg 1,6 (1,3 SS.) 0,84 143 120 20 3,4
- orzo Kg 0,9 (0,78 S.S.) 0,90 62 80 - 3,1
Totale 1,74 205 200 20 6,5
356
11) Valutare una razione per vacche da latte impiegando i sistemi UF e UFL
Data la razione per bovine da latte di 650 kg con una produzione giornaliera media di
30 kg di latte al 3,6% di grasso, equivalente a 28,2 kg al 4% di grasso:
Alimento % SS kg tal quale kg SS
Silomais 35 16 5,6
Fieno di medica 88,5 5,5 4,9
Mangime composto 87,5 11 9,6
Intera razione 61,8 32,5 20,1
Rapporto foraggi : concentrati (5,6 + 4,9)/9,63 = 10,5 : 9,63 =
= 52% foraggi e 48% concentrati
Analisi chimica alimenti SS SO PG LG FG NDF ADF ADL EI Cene-
ri
Silomais g/kg SS 1000 945 82 33 200 630 55 g/kg t.q. 350 331 29 12 70 220 19
Medica g/kg SS 1000 906 155 23 300 428 94 g/kg t.q. 885 802 137 20 266 379 83
Mangime g/kg SS 1000 910 200 45 85 302 98 23 580 90 g/kg t.q. 875 796 175 39 74 264 86 20 508 79
Metodo UF classica
a) silomais: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per un
contenuto di FG di 200g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:
(g/kg t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 200)/100 = 0,682
DLG = (78,9 - 0,088 x 200)/100 = 0,613
DFG = (80,2857 - 0,08571 x 200)/100 = 0,631
DEI = (91,3571 - 0,08714 x 200)/100 = 0,739
PD = 29 x 0,68 = 20
LD = 12 x 0,613 = 7,4
FD = 70 x 0,631 = 44
EID = 220 x 0,739 = 163
Valore amido lordo (VAL) = 20 x 0,94 + 7,4 x 1,91 + 44 + 163 = 238
Valore amido netto (VAN) = 238 - (70 x 0,34) = 214
UF/kg silomais t.q. = 214 x 1,43/1000 = 0,306
UF/kg silomais secco. = 0,306/0,35 = 0,874
Enl (kJ/kg SS) = 0,874 x 8054 = 7039
b) fieno di medica: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per
un contenuto di FG di 300g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:
(g/kg t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 300)/100 = 0,60
DLG = (78,9 - 0,088 x 300)/100 = 0,525
DFG = (80,2857 - 0,08571 x 300)/100 = 0,54
DEI = (91,3571 - 0,08714 x 300)/100 = 0,65
PD =137 x 0,60 = 82
LD = 20 x 0,525 = 10
FD =266 x 0,54 = 144
EID =379 x 0,65 = 246
357
Valore amido lordo (VAL) = 82 x 0,94 + 10 x 1,91 + 144 + 246 = 486
Valore amido netto (VAN) = 486 - (266 x 0,58) = 332
UF/kg medica t.q. = 332 x 1,43/1000 = 0,475
UF/kg medica secca = 0,475/0,885 = 0,537
Enl (kJ/kg SS) = 0,537 x 8054 = 4325
c) mangime composto: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità
per un contenuto di FG di 85g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili: (g/kg
t.q.)
dPG = (84,8714 - 0,08343 x 85)/100 = 0,78
dLG = (78,9 - 0,088 x 85)/100 = 0,715
dFG = (80,2857 - 0,08571 x 85)/100 = 0,73
dEI = (91,3571 - 0,08714 x 85)/100 = 0,84
PD =175x 0,78 = 136
LD = 39 x 0,715 = 28
FD =74 x 0,73 = 54
EID =508 x 0,84 = 427
Valore amido lordo (VAL) = 136 x 0,94 + 28 x 2,12 + 54 + 427 = 668
Valore amido netto (VAN) = 668 - (74 x 0,34) = 643
UF/kg mangime t.q. = 643 x 1,43/1000 = 0,920
UF/kg mangime secco = 0,920/0,875 = 1,051
Enl (kJ/kg SS) = 1,051 x 8054 = 8468
Valore nutritivo intera razione
UF/kg t.q. kg t.q. UF totali kg SS
silomais 0,306 16 4,896 5,6
medica 0,475 5,5 2,216 4,87
mangime 0,920 11 10,12 9,63
Totale 0,542 32,5 17,628 20,1
UF/kg SS = 17,68:20,1 = 0,877
Metodo delle UFL
a) silomais:
EL (KJ/Kg SO) = 19573; dSO = 0,71 (INRA 1988; N. 428)
dE = 1,001 x 0,71 - 0,0286 = 0,682; ED (KJ/Kg SO) = 19573 x 0,682 = 13349
EM/ED = 0,9080 - 0, 000099 x 200/0,945 - 0,000196 x 0,82/0,945 = 0,87
EM (KJ/Kg SO) = 13349 x 0,87 = 11614; q (EM/EL) = 11614/19573 = 0,593
Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,593) = 0,6055; ENl (KJ/Kg SO) = 11614 x 0,6055 = 7033
ENl (KJ/Kg SS) = 7033 x 0,945 = 6646; UFL /Kg SS = 6646/7113 = 0,934
b) fieno di medica
EL (KJ/Kg SO) = 18958 - 46 + 7,26 x 82/0,906 = 19569; dSO = 0,60 (INRA 1988;
N. 552)
dE = 0,985 x 0,60 - 0,02556 = 0,565; ED (KJ/Kg SO) = 19569 x 0,565 = 11065
EM/ED = 0,9080 - 0,000099 x 300/0,906 - 0,000196 x 0,155/0,906 = 0,842
EM (KJ/Kg SO) = 11065 x 0,842 = 9313; q (EM/EL) = 9313/19569 = 0,476
Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,476) = 0,5774; ENl (KJ/Kg SO) = 9313 x 0,5774 = 5378
ENl (KJ/Kg SS) = 5378 x 0,906 = 4872; UFL /Kg SS = 4872/7113 = 0,685
358
c) mangime concentrato
EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 200 + 39,75 x 45 + 20,04 x 85 + 17,45 x 580 = 18393
EM (KJ/Kg SO) = 13640 + 1,90 x 200/0,91 + 14,715 x 45/0,91- 16,89 x 85/0,91 =
13208
q (EM/EL) = 13208/(18393/0,91) = 0,6534; Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,6534) = 0,62
ENl (KJ/Kg SO) = 13208 x 0,0,62 = 8189; ENl (KJ/Kg SS) = 8189 x 0,91 = 7452
UFL /Kg SS = 7452/7113 = 1,048
Le UFL calcolate possono essere raffrontate a quelle stimate mediante equazione:
UFL/kg SO = 1,1987 + 0,0001 x 200/0,91 + 0,00134 x 45/0,91 - 0,007 x 85/0,91 -
0,00232/0,91 = 1,163
UFL/kg SS = 1,163 x 0,91 = 1,058
Valore nutritivo in UFL dell’intera razione
UFL/kg SS Kg SS UFL totali
Silomais 0,934 5,6 5,23
Medica 0,685 4,87 3,34
Mangime 1,048 9,63 10,09
Totale 0,928 20,1 18,66
UFL/kg SS = 18,66/20,1 = 0,928
Il calcolo delle UFL, come detto in precedenza, dà un valore energetico per gli stessi
alimenti diverso rispetto al calcolo delle UF classiche: in particolare con il calcolo
delle UF sarebbero penalizzati i foraggi ad alto contenuto in fibra (0,537 UF e 0,685
UFL per il fieno di medica) e sovrastimati i concentrati che generalmente hanno un
basso contenuto in fibra (1,051 UF e 1,048 per il mangime).
12) Valutare una razione per bovini da carne mediante i sistemi UF e UFC
Una razione per bovini da carne medio-tardivi di 500 kg e che hanno un
accrescimento di 1 kg /giorno, è costituita da:
Alimento % SS kg t.q. kg SS
silomais 35 12 4,2
pastone di granella 75 3 2,25
paglia di frumento 88 0,5 0,44
mangime composto 87 1,8 1,57
Totale 51,2 17,3 8,46
Rapporto foraggi concentrati: (4,2 + 0,44)/8,46 = 55 : 45
359
Analisi chimica alimenti
SS SO PG LG FG NDF ADF ADL EI Ceneri
Silo-
mais
g/kg SS 1000 945 71 25 200 672 55
g/kg t.q. 350 331 25 8,8 70 235 19
Pasto-
ne
g/kg SS 1000 950 96 45 23 786 50
g/kg t.q. 750 712 72 34 17 590 38
Paglia g/kg SS 1000 944 49 18 420 457 66 g/kg t.q. 878 829 43 16 369 401 58
Mangi
-me
g/kg SS 1000 910 350 30 75 200 94 20 455 90
g/kg t.q. 870 792 305 26 65 174 82 17 396 78
Metodo UF classica
a) silomais: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per un
contenuto di FG di 177g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili: (g/kg
t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 177)/100 = 0,701
DLG = (78,9 - 0,088 x 177)/100 = 0,633
DFG = (80,2857 - 0,08571 x 177)/100 = 0,651
DEI = (91,3571 - 0,08714 x 177)/100 = 0,759
PD = 25 x 0,701 = 17,5
LD = 8,8 x 0,633 = 5,6
FD = 62 x 0,651 = 40
EID = 235 x 0,759 = 178
Valore amido lordo (VAL) = 17,5 x 0,94 + 5,6 x 1,91 + 40 + 178 = 245
Valore amido netto (VAN) = 245 - (62 x 0,34) = 224
UF/kg silomais t.q. = 224 x 1,43/1000 = 0,320
UF/kg silomais secco. = 0,320/0,35 = 0,914
Enl (kJ/kg SS) = 0,914 x 8054 = 7364
b) pastone di granella: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità
per un contenuto di FG di 23 g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:
(g/kg t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 23)/100 = 0,830
dLG = (78,9 - 0,088 x 23)/100 = 0,769
dFG = (80,2857 - 0,08571 x 23)/100 = 0,783
dEI = (91,3571 - 0,08714 x 23)/100 = 0,894
PD = 72 x 0,83 = 59,8
LD = 34 x 0,769 = 26,1
FD = 17 x 0,783 = 13,3
EID = 590 x 0,894 = 527
Valore amido lordo (VAL) = 59,8 x 0,94 + 26,1 x 2,12 + 13,3 + 527 = 652
Valore amido netto (VAN) = 652 - (17 x 0,29) = 647
UF/kg pastone t.q. = 647 x 1,43/1000 = 0,925
UF/kg pastone secco = 0,925/0,75 = 1,24
Enl (kJ/kg SS) = 1,24 x 8054 = 9987
360
c) paglia di frumento: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità
per un contenuto di FG di 420 g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:
(g/kg t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 420)/100 = 0,498
dLG = (78,9 - 0,088 x 420)/100 = 0,419
dFG = (80,2857 - 0,08571 x 420)/100 = 0,443
dEI = (91,3571 - 0,08714 x 420)/100 = 0,548
PD = 43 x 0,498 = 21,4
LD = 16 x 0,419 = 6,7
FD = 369 x 0,443 = 163
EID = 401 x 0,401 = 220
Valore amido lordo (VAL) = 21,4 x 0,94 + 6,7 x 1,91 + 163 + 220 = 416
Valore amido netto (VAN) = 416 - (369 x 0,58) = 202
UF/kg paglia t.q. = 202 x 1,43/1000 = 0,289
UF/kg paglia secca = 0,289/0,878 = 0,329
Enl (kJ/kg SS) = 0,329 x 8054 = 2651
d) mangime composto: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità
per un contenuto di FG di 55g/kg SS sono:
Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:
(g/kg t.q.)
DPG = (84,8714 - 0,08343 x 65)/100 = 0,794
dLG = (78,9 - 0,088 x 65)/100 = 0,732
dFG = (80,2857 - 0,08571 x 65)/100 = 0,747
dEI = (91,3571 - 0,08714 x 65)/100 = 0,857
PD =305x 0,794 = 242
LD = 26 x 0,732 = 19
FD =65 x 0,747 = 49
EID =396 x 0,857 = 339
Valore amido lordo (VAL) = 305 x 0,94 + 19 x 2,12 + 49 + 396 = 772
Valore amido netto (VAN) = 772 - (65 x 0,34) = 750
UF/kg mangime t.q. = 750 x 1,43/1000 = 1,073
UF/kg mangime secco = 1,073/0,87 = 1,23
Enl (kJ/kg SS) = 1,23 x 8054 = 9933
Valore nutritivo intera razione
UF/kg t.q. kg t.q. UF totali kg SS
Silomais 0,320 12 3,84 4,3
Pastone 0,925 3 2,78 2,25
paglia 0,289 0,5 0,15 0,44
Mangime 1.073 1,8 1,93 1,57
Totale 0,502 17,3 8,69 8,46
UF/kg SS = 8,69:8,46 = 1,027(valore molto elevato)
Metodo delle UFC
a) silomais:
EL (KJ/Kg SO) = 19573; dSO = 0,71 (INRA 1988; N. 428)
dE = 1,001 x 0,71 - 0,0286 = 0,682; ED (KJ/Kg SO) = 19573 x 0,682 = 13349
EM/ED = 0,879 - 0,000099 x 177/0,945 - 0,000196 x 0,71/0,945 = 0,846
EM (KJ/Kg SO) = 13349 x 0,846 = 11290; q (EM/EL) = 11290/19573 = 0,577
361
Km+i = (0,3358 + 0,577 x 0,577 + 0,6508 x 0,577 + 0,005)/ (0,9235 x 0,577 +
0,2830)= 0,6194;
ENC (KJ/Kg SO) = 11290 x 0,6194 = 6993
ENC (KJ/Kg SS) = 6993 x 0,945 = 6608; UFC /Kg SS = 6608/7615 = 0,868
b) pastone di granella
EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 96 + 39,75 x 45 + 20,04 x 23 + 17,45 x 786 - 33 = 18227
dSO = 0,78 (INRA 1988; N. 434)
dE = 0,78 - 0,015 = 0,765; ED (KJ/Kg SS) = 18227 x 0,765 = 13944
EM/ED = 0,879 - 0, 000099 x 23/0,950 - 0,000196 x 96/0,950 = 0,857
EM (KJ/Kg SO) = 13944 x 0,857 = 11947; q (EM/EL) = 11947/18227 = 0,655
Km+i = (0,3358 + 0,655 x 0,655 + 0,6508 x 0,655 + 0,005)/ (0,9235 x 0,655 +
0,2830)= 0,648;
ENC (KJ/Kg SS) = 11947 x 0,648 = 7741
UFC /Kg SS = 7741/7615 = 0,891
c) paglia di frumento
EL (KJ/Kg SO) = 18958 - 46 + 7,26 x 43/0,944 = 19243; dSO = 0,42 (INRA 1988;
N. 571)
dE = 0,985 x 0,42 - 0,02949 = 0,384; ED (KJ/Kg SO) = 19243 x 0,384 = 7391
EM/ED = 0,879 - 0,000099 x 420/0,944 - 0,000196 x 49/0,944 = 0,825
EM (KJ/Kg SO) = 7391 x 0,825 = 6096; q (EM/EL) = 6096/19243 = 0,317
Km + i = (0,3358 + 0,317 x 0,317 + 0,6508 x 317 + 0,005)/(0,9235 x 0,317 + 0,2830)
= 0,4256;
ENC (KJ/Kg SO) = 6096 x 0,4256 = 2595
ENC (KJ/Kg SS) = 2595 x 0,944 = 2449; UFC /Kg SS = 2449/7615 = 0,322
c) mangime concentrato
EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 350 + 39,75 x 30 + 20,04 x 75 + 17,45 x 455 = 19000
EM (KJ/Kg SO) = 13640 + 1,90 x 350/0,91 + 14,715 x 30/0,91- 16,89 x 75/0,91 =
13489
q (EM/EL) = 13489/(19000/0,91) = 0,646;
Km+i = (0,3358 x 0,646 x 0,646 + 0,6508 x 0,646 + 0,005)/(0,9235 x 0,646 +
0,2830) = 0,643
ENc (KJ/Kg SO) = 13489 x 0,643 = 8673; ENc (KJ/Kg SS) = 8673 x 0,91 = 7893
UFC /Kg SS = 7893/7615 = 1,036
Valore nutritivo in UFC dell’intera razione
UFC/kg SS Kg SS UFC totali
Silomais 0,868 4,2 3,65
Pastone 0,891 2,25 2,00
Paglia 0,322 0,44 0,14
Mangime 1,036 1,57 1,63
Totale 0,877 8,46 7,42
UFC/kg SS = 7,42/8,46 = 0,877
362
13) Fare un razionamento standard per un cavallo di razza tale che gli adulti
raggiungano il peso vivo di 450 Kg, avente 24 mesi di età e un peso vivo di 360
kg che effettua un lavoro medio.
I fabbisogni in SS espressi in % del PV (e tenuto conto del peso di adulto) sono il
2,47% e vale a dire:
kg 360 x 2,47/100 = 8,89 kg SS
La sostanza secca (vedi tabella) della razione da somministrare al cavallo deve
contenere:
PG % = 5,9; TDN % = 65,0; Ca % = 0,23; P % = 0,23; Vit. A UI/kg = 11.000;
Vit. D UI/kg = 550;
in altre parole deve contenere 8,89 kg di SS con:
8,89 x 65/100 = 5,778 kg TDN e
8,89 x 5,9/100 = 0,524 kg di PG
volendo adottare il sistema standard di razionamento e avendo a disposizione fieno di
medica, fieno di prato polifita ed avena per tentativi si ricava:
Alimenti Quantità
kg
Proteine
digeribili
kg
TDN
kg
SS
kg
Fieno di medica 4 4 x 10,5/100 = 0,42 4 x 50,3/100 = 2,012 4
Fieno di prato
polifita
3 3 x 2,1/100 = 0,063 3 x 49,6/100 = 1,488 3
Avena 2 2 x 9,4/100 = 0,188 2 x 72,2/100 = 1,444 2
Concentrati 1 1 x 8/100 = 0,08 1 x 58/100 = 0,580 1
Totale 10 0,75 5,524 10
Qualora si voglia utilizzare fieno, avena e concentrato si può utilizzare il sistema
standard se, invece si vogliono utilizzare altri prodotti presenti in azienda va usato il
sistema scandinavo delle UF oppure i fabbisogni riportati nelle tabelle in TDN
possono essere tradotti in UF con la formula di Moore:
y = 1,9 X - 48,9, dove y sono le UF e X la % di TDN contenuta nella SS.
Es. di cui sopra:
a) 5 TDN SS = (20,12 + 14,88 + 14,44 + 5,8) = 56,24
b) UF % = 1,9 x 56,24 – 48,9 = 57,95 %
c) UF (necessarie) = 57,95 x 10/100 = 5,79
Del resto:
fieno medica 4 x 0,50 UF = 2
fieno prato 3x 0,40 UF = 1,2
avena 2 x 1 UF = 2
concentrato 1 x 0,7 UF = 0,7
totale 5,9
363
14. Calcolare i fabbisogni di un cavallo da lavoro di 45 mesi il cui peso da adulto
sarà di 630 kg, in diverse utilizzazioni, partendo dalla SS e dal TDN necessari
per arrivare alle UF (da Tesi):
Tipo
Lavoro
Fabbisogni
SS (kg) TDN (kg) PG (g) Ca (g) P (g) UF
Riposo 630x1,4 =
8,82
8,82x62,5 =
5,51
8,82x5,2 =
459
8,82x0,19 =
16,76
8,82x0,2 =
17,64
UF %=(1,9x62,5-48,9)=
69,85
UF* = 69,85x 8,82/100=
6,16
Leggero 630x1,8 =
11,34
11,34x63,5 =
7,2
11,34x5,1 =
578
11,34x0,19 =
21,55
11,34x0,2 =
22,68
UF % = 1,9 x 63,5 - 48,9 =
71,75
UF* = 71,75 x 11,34/100
=
8,14
Medio 630x2,0 =
12,60
12,6x65 =
8,19
12,6x5,1 =
643
12,6x0,19 =
23,94
12,6x0,2 =
25,20
UF % = 1,9 x 65 - 48,9 =7
4,6
UF* = 74,6 x 12,6/100 =
9,4
Pesante 630x2,3 =
14,49
14,49x67 =
9,71
14,49x5 =
724
14,49x0,19 =
27,53
14,49x0,2 =
28,98
UF% = 1,9 x 67 - 48,9 =
78,4
UF* = 78,4 x 14,49/100 =
11,36
* = UF necessarie
15 ) Calcolare la razione per una pecora che pesa 40 Kg, si trova al 30° giorno di
lattazione, produce 2 litri di latte al 7,4 % di grasso e perde 250 g di peso
corporeo al giorno.
Km = 0,7 Kl = 0,62 Peso metabolico = 400,75
= 17,37 Kg
Trasformo il latte in latte standard:
kg latte x (0,4 +0,15 x % grasso latte) = 2 x (0,4 + 0,15 x7,4) = 3,02 litri
Perdite corporee:
Energia = 26 MJ x 0,250 x 0,84 = 5,46 MJ
Proteine = 98 g/Kg = 24,5 g
Esigenze
Energia
Mantenimento: UFl = 0, 045 P0,75
= 0,045 x 17,37 = 0,78
ENm = (0,78 x 1730) = 1394,4 Kcal ; 1394, 4: 239 = 5,83 MJ
364
Produzione: UFl = 0,42 /Kg latte al 4% = 0,42 x 3,02 = 1,27
ENl = 1,27 x 1730 = 2197 Kcal; 2197 : 239 = 9,19 MJ
EM = 5,83 : 0,7 + 9,19 : 0,62 = 8,33 + 14,82 = 23,15 MJ
EM ingerita = EMm + l – EMp = 23,15 – 5,46 = 17,69 MJ
Esigenze proteiche:
b) proteine degradabili = 8,34 g/MJ energia ingerita = 8,34g x 17,69 = 147,5 g
2) proteine non degradabili = 1,47 x proteine tissutali* – 6,67 x EM ingerita
*manten. = 2,19 g/P0,75
; prod. = 53 x 0,95 g/Kg; perd. peso = 98 g/Kg
1,47 x ( 2,19 x 17,37 – 24,5 + 53x0,95x 3,02) = 1,47 x (74,23 – 24,5 + 152,06) –
6,67 x 17,69 = (1,47 x 201,79) – 117,99 = 296,6 – 117,99 = 178,61 g
Minerali Mantenimento Produzione Totale
Ca (g)
P (g)
Mg (g)
40 x 0,016/0,51 = 1,25 g
40 x 0,03/0,58 = 2,07 g
40 x 0,003/0,17 = 7,06
3.02 x 1,6/0,51 = 9,47
3,02 x 1,3/0,58 = 6,77
3,02 x 0,17/0,17 = 3,02
10,72
8,84
10,08
16 ) Calcolare la razione per una capra al pascolo che pesa 40 Kg, si trova al 70°
giorno di lattazione, produce 2 litri di latte al 4,4 % di grasso e guadagna 100 g
di peso corporeo al giorno.
Km = 0,7 Kl = 0,62 Peso metabolico = 400,75
= 17,37 Kg
Trasformo il latte in latte standard:
kg latte x (0,4 +0,15 x % grasso latte) = 2 x (0,4 + 0,15 x 4,4) = 2,12 litri
Guadagno corporeo:
Energia = 26 MJ /Kg : 0,95 = 2,6 : 0,95 = 2,74 MJ
Proteine = 150 g/Kg = 15 g
Esigenze Energetiche
Mantenimento: 0,389 MJ/P0,75
+ (25% per pascolo) = 6,76 + 1,69 = 8,45 MJ
Produzione: 5,6 MJ x 2,12 = 11,87 MJ
Totale = 8,45 + 11,87 = 20,32 MJ
EM ingerita = EMm + p + EMg = 20,32 + 2,74 = 23,06 MJ
UFl = (EMm x 0,7 + EMp x 0,62) x 239 : 1730 =
= (8,45 x 0,7 + ((2,74+11,87) x 0,62)) x 239 : 1730 =
= (5,91 + 9,06) X 239 : 1730 = 14,97 x 239 : 1730 = 2,07 UFl
Facendo i calcoli direttamente con le UFL:
a) Mantenimento: UFL 0,045 x 17,37 = 0,782 UFL
Pascolo: “ 0,011 x 17,37 = 0,195 “
Guadagno peso “ 0,234 “
b) Produzione: UFL 2,12 x 0,42 = 0,890 “
Totale 2,10 UFL
365
Esigenze proteiche:
1) proteine degradabili = 8,34 g/MJ energia ingerita = 8,34g x 23,06 = 192,32 g
2) proteine non degradabili = 1,47 x proteine tissutali* – 6,67 x EM ingerita
* manten. = 2,19 g/P0,75
; prod. = 33 x 0,95 g/Kg; guad. peso = 150 g/Kg
1,47 x ( 2,19 x 17,37 + 15 + 33 x 0,95 x 2,12) = 1,47 x (38,04 + 15 + 66,46) – 6,67
x 23,06 = (1,47 x 119,5) – 153,8 = 175,66 – 153,8 = 21,85 g
Minerali Mantenimento (40 Kg) Produzione (2,12 litri) Totale
Ca (g)
P (g)
Mg (g)
40 x 0,02/0,51 = 1,56
40 x 0,03/0,58 = 2,07
40 x 0,0035/0,17 = 0,82
2,12 x 1,3/0,51 = 5,40
2,12 x 1,1/0,58 = 4,02
2,12 x 0,26/0,17 = 3,24
1,56 + 5,40 = 6,96
2,07 + 4,02 = 6,09
0,82 + 3,24 = 4,06
Calcolare la razione per un gruppo di suini nella fase 35 - 60 kg, che si accrescono di 700 g/d.
EM Kcal 6.320
SS g 1.800
U.F. 2,4
PG g 280
Aminoacidi indispensabili
(g)
Macroelement
i
(g)
Vitamine
Lisina 12,2 Ca 11 A u.i. 2.600
Arginina 3,6 P 9 o -carotene mg 10,4
Istidina 3,2 Na 2 D u.i 300
Isoleucina 8,8 Cl 2,6 E u.i 22
Leucina 10,4 K 4 K mg 4,4
Metionina + cistina 8,0 Mg 0,8 Riboflavina
mg
4,4
Fenilalanina + tirosina 12,2 Niacina mg 24
Treonina 7,8 Microelementi
(mg)
Ac. Pantotenico mg 22
Triptofano 2,2 Fe 100 B12 mg 22
Valina 8,8 Zn 100 Colina mg 1.100
Mn 4 Tiamina mg 2,2
Cu 6 B6 mg 2,2
I 0,2
8
Biotina mg 0,20
Se 0,3
0
Folacina mg 1,2
366
Calcolare la razione per una scrofa che pesa 180 kg e allatta 8 suinetti
EM Kcal 15.180
SS 2,5 % PV (kg) 4,3
U.F 5,8
PG 13 % ss (kg) 0,56
Aminoacidi indispensabili
(g)
Macroelementi
(g)
Vitamine
Lisina 19 Ca 36 A u.i. 9.600
Arginina 12 P 24 o -carotene mg 38
Istidina 18 Na 9 D u.i 950
Isoleucina 33 Cl 14 E u.i 47
Leucina 28 K 9 K mg 9,5
Metionina + cistina 17 Mg 2 Riboflavina mg 14
Fenilalanina + tirosina 40 Niacina mg 47
Treonina 20 Microelementi
(mg)
Ac. Pantotenico mg 57
Triptofano 6 Fe 380 B12 mg 71
Valina 26 Zn 240 Colina
mg
5.940
Mn 48 Tiamina mg 4,8
Cu 24 B6
mg
4,8
I 0,7 Biotina
mg
0,5
Se 0,5 Folacina mg 2,8
Preparare un mangime per agnelli svezzati a 42 gg e da macellare a 100 gg
Ingredienti
(%)
Componenti
Soia Favino Lupino Pisello
Mais 12.0 12.0 18.0 10.0
Avena 18.0 15.0 12.0 8.0
Orzo 12.0 5.0 26.0 -
Erba medica 17.5 17.0 5.0 22.5
Paglia 5.0 4.0 8.5 3.0
Melasso 1.7 1.7 1.7 1.7
Farina soia 12.0 - - -
Favino farina - 25.0 - -
Lupino farina - - 25.0 -
Pisello farina - - - 25.0
Cruschello 17.0 15.5 - 25.0
Olio di soia 1.0 1.0 - 1.0
Carbonato di calcio 1.8 1.8 1.8 1.8
Fosfato bicalcico 1.0 1.0 1.0 1.0
Cloruro di sodio 0.5 0.5 0.5 0.5
Integr. vitaminico 0.5 0.5 0.5 0.5
Totale 100 100 100 100
367
Principi nutritivi
Componenti
Soia Favino Lupino Pisello
Protidi grezzi (%) 16.88 17.07 17.2 16.82
Lipidi grezzi (%) 4.49 4.26 4.43 4.20
Fibra grezza (%) 13.02 12.78 13.73 13.45
NDF (%) 29.37 30.45 29.53 31.21
ADF (%) 15.23 15.40 13.32 15.53
Energia metabolizzabile (MJ/kg) 11.11 11.12 10.82 11.08
Livelli nutrivi mangime per ovaiole (% SS)
Pulcini
0-6 settimane
Pollastre
6-20 settimane
Ovaiole
> 20 settimane
EM kcal/kg 2750-2860 2800-2920 2800-2915
Proteine 17-18 15-15,5 15,5-16
Grassi 3-4 3-4 3-4
Cellulosa 3,5-4 4-5 3-4
Calcio 0,9 0,8 3
Fosforo totale 0,75 0,7 0,8
Fosforo utilizzabile 0,45 0,4 0,5
Rapporto tra EM (kcal) e proteine
Razione EM (kcal)/proteine
Pulcini 0-4 settimane 14,2
Polla strino da carne (finissaggio 15,4
Pollame da uova:
a) Pollastrelle 18,6
b) Adulte:
Leggere 18,3
Semipesanti 19,4
Pesanti 20,7
Aminoacidi indispensabili g/1000 kcal EM
Metionina 1,27
Metionina + cistina 2,4
Lisina 3,55
Triptofano 0,70
Glicina 3,40
Arginina 3,65
Valina 2,75
Fenilalanina 2,50
Leucina 4,95
Isoleucina 2,15
Treonina 2,15
Istidina 1,10
368
TABELLE
369
Tab. Al. Fabbisogni nutritivi giornalieri di mantenimento e di accrescimento vitelle e
manze di razze lattifere (NRC, 1978, mod.)
Peso Accresci- UF. EM TDN Protidi Ca P Vit.A Vit.D S.S.
vivo mento n. Mcal Kg grezzi g G X 1.000 U.l. Kg
g/d g U.l.
50 500 1,79 4,82 1,230 198 10 6 2,1 330 1,450
700 2,08 5,36 1,350 243 12 7 2,1 330 1,450
75
400 1,84 5,56 1,460 254 12 7 3,2 495 2,100
600 2,26 6,36 1,640 296 14 8 3,2 495 2,100
800 2,65 7,08 1,800 341 16 8 3,2 495 2,100
100
400 2,12 6,78 1,810 336 15 8 4,2 660 2,800
600 2,57 7,64 2,000 380 17 9 4,2 660 2,800
800 3,01 8,47 2,180 426 19 1 4,2 660 2,800
150
400 2,60 8,90 2,400 455 17 11 6,4 990 4,000
600 3,17 9,97 2,640 491 18 11 6,4 990 4,000
800 3,73 Il,03 2,880 528 20 12 6,4 990 4,000
200
400 3,19 Il,20 3,040 571 19 13 8,5 1.320 5,200
600 3,82 12,39 3,310 604 21 14 8,5 1.320 5,200
800 4,42 13,52 3,560 640 22 15 8,5 1.320 5,200
250
400 3,64 13,15 3,590 665 21 15 10,6 1.650 6,300
600 4,39 14,57 3,910 689 22 16 10,6 1.650 6,300
800 5,06 15,82 4,190 719 23 17 10,6 1.650 6,300
300
400 4,14 14,80 4,030 713 22 17 12,7 1,980 7,000
600 4,93 16,49 4,430 755 23 17 12,7 1.980 7,200
800 5,65 17,83 4,730 782 24 18 12,7 1.980 7,200
350
400 4,55 15,99 4,340 738 23 17 14,8 2.310 7,420
600 5,43 18,21 4,900 812 26 19 14,8 2.310 8,000
800 6,14 19,56 5,200 841 26 19 14,8 2.310 8,000
400
400 4,92 17,76 4,850 833 24 19 17,0 2.640 8,500
600 5,85 19,61 5,270 856 25 20 17,0 2.640 8,600
800 6,65 21,11 5,610 876 26 21 17,0 2.640 8,600
500 400 5,72 20,26 5,510 900 27 21 21,2 3.300 9,500
600 6,78 22,26 5,960 903 27 21 21,2 3.300 9,500
370
Tab. A2. Fabbisogni nutritivi totali giornalieri per una bovina da latte di 600 Kg
Peso vivo UFL ENL PDI (g) Ca (g) P (g) Cl (g)
Vacca in asciutta gestante:
prima del 7° mese di gestazione 5,0 35,6 395 36 27 11,0
7° mese di gestazione 5,9 41,9 470 45 30 12,0
8° mese di gestazione 6,6 46,9 530 52 32 14,0
9° mese di gestazione 7,6 54,0 600 61 35 16,0
Vacca che produce latte al 4% di
grasso
2,5 6,1 43,4 520 47 30 12,0
5,0 7,1 50,5 645 57 35 14,0
7,5 8,2 58,3 770 67 40 15,0
10,0 9,4 66,8 895 78 45 15,3
12,5 10,6 75,4 1020 89 50 16,1
15,0 11,8 83,9 1145 100 54 16,9
17,5 13,0 92,4 1270 108 58 17,8
20,0 14,2 101,0 1395 115 62 18,6
22,5 15,4 109,5 1520 123 66 19,4
25,0 16,7 118,7 1645 130 71 20,2
27,5 17,9 127,3 1770 135 73 21,0
30,0 19,2 136,5 1895 140 75 21,9
32,5 20,5 145,8 2020 145 77 22,7
35,0 21,8 155,0 2145 150 80 23,5
Correzione per differenze di 1 qle
di peso VIVO 0,6 4,3 50 6 5 1,5
Vitamine ( U.I.) : A = 60.000; D = 6.000; E = 350
371
Tab.A3 - Fabbisogni giornalieri totali per vitelloni
PV
(Kg)
IGA
(Kg)
ENC
(MJ) UFC
PDI (g)
Ca P (g)
Cl
(g)
Vitamine (U.I.) (g)
Tipo da latte
200
l,0 30,4 4,0 473 30 16 A = 14.000
1,2 34,2 4,5 526 35 18 5,7 D = 1.200
1,4 37,3 4,9 577 40 20 E = 115
1,6 38,4 5,4 626 45 22
300
l,0 41,1 5,4 535 37 22 A = 21.000
1,2 45,7 6,0 585 42 25 7,4 D = 1.800
1,4 51,0 6,7 633 47 28 E = 155
1,6 52,6 7,4 677 52 31
400
l,0 51,0 6,7 588 45 31 A = 28.000
1,2 57,1 7,5 636 50 34 8,7 D = 2.400
1,4 63,2 8,3 679 55 36 E = 195
1,6 65,4 9,2 720 60 38
500 l,0 60,9 8,0 637 55 35 A = 35.000
1,2 67,7 8,9 681 61 38 9,6 D = 3.000
1,4 74,6 9,8 721 68 40 E = 235
Tipo da carne francese
300
l,0 37,3 4,9 554 37 22 A = 21.000
1,2 40,3 5,3 610 42 25 6,8 D = 1.800
1,4 43,4 5,7 665 47 28 E = 155
1,6 46,4 6,1 718 52 31
400
l,O 46,4 6,1 613 45 31 A = 28.000
1,2 49,5 6,5 669 50 34 8,3 D = 2.400
1,4 53,3 7,0 722 56 36 E = 195
1,6 57,1 7,5 773 58 38
500
l,0 54,8 7,2 667 55 35 A = 35.000
1,2 58,6 7,7 722 61 38 9,6 D = 3.000
1,4 63,2 8,3 774 68 40 E = 235
1,6 67,7 8,9 823 70 40
600 l,0 62,4 8,2 718 59 36 A = 42.000
1,2 67,7 8,9 771 65 39 10,7 D = 3.600
1,4 72,3 9,5 822 66 39 E = 275
Razza bianca italiana
300
l,0 35,8 4,7 560 37 22 A = 21.000
1,2 38,1 5,0 590 42 25 6,4 D = 1.800
1,4 40,3 5,3 630 47 28 E = 155
1,6 43,4 5,7 680 52 31
400
l,0 45,7 6,0 750 45 31 A = 28.000
1,2 47,9 6,3 790 50 34 8,4 D = 2.400
1,4 51,7 6,8 850 56 36 E = 195
1,6 54,8 7,2 900 58 38
500 l,0 54,8 7,2 745 55 35 A = 35.000
1,2 58,6 7,7 900 61 38 9,7 D = 3.000
1,4 62,4 8,2 960 68 40 E = 235
600 l,0 63,9 8,4 960 59 36 A = 42.000
1,2 67,7 8,9 1010 65 39 10,0 D = 3.600
1,4 72,3 9,5 1090 66 39 E = 275
IGA = incremento giornaliero atteso; CI = capacità ingestione
372
Tab. A4 - Fabbisogni totali giornalieri per vitel1e e manze ad elevato accrescimento
PV
(Kg)
IGA
(Kg)
ENC
(MJ) UFC
PDI
(g)
Ca
(g)
P
(g) CI
Vit.
(u.i.)
150 0,8 26,6 3,5 330 20 lO A = 9.000
l,O 32,0 4,2 370 25 13 5,8 D = 770
1,2 38,1 5,0 420 30 16 E = 65
250 0,8 32,7 4,3 430 28 18 A = 14.000
l,O 38,1 5,0 474 34 20 7,0 D = 1.200
1,2 44,1 5,8 514 40 22 E = 100
350 0,8 40,3 5,3 500 33 23 A = 18.000
l,O 45,7 6,0 550 41 28 8,5 D = 1.500
1,2 53,3 7,0 580 46 29 E = 130
450 0,8 50,2 6,6 535 39 29 A = 22.000
l,O 57,1 7,5 563 50 33 9,5 D = 1.900
1,2 64,7 8,5 585 55 36 E = 160
TAB 5 –Fabbisogni per bovini da riproduzione
Categoria PV
(kg) UFL ENL (MJ) PDI
Ca
g
P
g Vit. A
Manze gravide
(ultimi 3 mesi)
350 5,4 410 16 24 16 22.000
400 5,8 435 18 25 18 24.000
450 6,3 465 19 26 19 26.000
Vacche gravide
(ultimi 3 mesi)
450 4,9 355 14 15 14 23.000
550 5,7 380 16 18 16 27.000
650 6,4 435 20 22 20 30.000
Vacche con vitello
(primi 4 mesi pst -parto)
450 7,3 545 21 26 21 36.000
550 8,1 600 24 29 24 41.000
650 8,8 650 27 33 27 46.000
Tori riproduttori
(attività media)
700 6,8 590 26 26 26 52.000
800 7,5 600 27 27 27 53.000
900 8,2 610 31 31 31 56.000
1000 8,9 620 32 33 32 66.000
373
TAB. A6 – Fabbisogni giornalieri per vitelli da latte da macello
PV
kg
IGA
g/d
EM
MJ
PD
g
SS
g
PD/SS
%
EM/ES
MJ/kg
Ca
g/kg SS
P
g/kg SS
50
500 14,94 182 760
750 18,45 225 940 24 19.7 13 7
900 20,58 251 1045
75
800 21,97 268 1115 1000 26,23 320 1335 24 19,7 13 7 1200 29,50 359 1500
100
1000 30,17 333 1510 1200 34,60 381 1735 22 20,0 13 7
1400 39,41 435 1975
150
1000 38,24 378 1890 1200 43,89 433 2165 20 20,3 13 7 1400 50,08 495 2475
200
1000 46,31 508 2540
1200 49,45 577 2885 20 18,2 13 7
1400 56,04 652 3260
Minerali (mg/Kg SS di sostituto del1atte: Fe = 10; Cu = 5; Zn = 50; Mn = 50; 1= 0,12; Se = 0,10; Co
= 0,10;
Vitamine (/Kg S.S.): A= 48.000 u.i.; D = 3.000 u.i.; E = 35 mg; K = 2 mg; Ac. Ascorbico = 100 mg;
Bj = 6 mg; B2 = 3 mg; niacina = 14 mg; B6 = 2 mg; ac. Pantotenico = 12 mg; ac. Folico = l mg; B12 =
60 μg ; biotina = 120 μg ; colina = 1,5 g.
374
Tab. A7 - Fabbisogni medi giornalieri di pecore
PV Tipo Settimane UFL ENL PDI Ca P Vit. A Vit. D
(Kg) parto al parto (MJ) (g) (g) (g) (u.i.) (u.i.)
Mantenimento
40 - - 0,52 3,69 42 3,0 2.0 2200 220
50 - - 0,62 4,41 50 3,5 2,5 2350 278
60 - - 0,71 5,05 57 4,0 3,0 2820 333
70 - - 0,80 5,69 64 4,5 3,5 3760 388
Gestazione
6 0,62 4,41 67 5,1 3,2 2000 230
S 4 0,72 5,12 87 7,4 3,8 3600 230
2 0,85 6,04 102 7,4 3,8 3600 230
40
6 0,64 4,55 72 5,6 3,4 2000 230
G 4 0,75 5,33 95 8,2 4,2 3600 230
2 0,90 6,40 110 8,2 4,2 3600 230
6 0,72 5,12 72 6,0 3,2 2350 278
50
S 4 0,84 5,97 90 8,7 3,8 4250 278
2 0,98 6,97 105 8,7 3,8 4300 278
6 0,74 5,26 77 7,3 3,5 2350 278
G 4 0,94 6,68 102 1l,4 4,5 4250 278
2 1,15 8,18 125 1l,4 4,5 4300 278
6 0,80 5,69 80 6,7 3,7 2820 333
S 4 0,94 6,68 100 9,4 4,3 5100 333
2 1,14 8,1l 115 9,4 4,3 5100 333
60
6 0,82 5,83 90 8,0 4,0 2820 333
G 4 1,02 7,25 115 12.0 5,0 5100 333
2 1,32 9,39 140 12,0 5,0 5100 333
6 0,88 6,26 90 6,5 3,7 3290 388
S 4 1,02 7,25 115 9,2 4,3 5950 388
2 1,22 8,67 130 9,2 4,3 5950 388
70
6 0,90 6,40 110 8,0 4,0 3290 388
G 4 1,10 7,82 135 12,0 5,0 5950 388
2 1,40 9,95 150 12.0 5,0 5950 388
Per arieti e pecore alla monta bisogna maggiorare i fabbisogni del 25%
375
Tab. A8- Fabbisogni giornalieri per la produzione di un litro di latte nella pecora
Mesi dopo Composizione latte (%) UFL PDI Ca P Vit. A Vit. D
lo svezza- Grasso Proteine (g) (g) (g) (u.i.) (u.i.)
mento
1-2
5,8 4,9 0,59 74 6,4 2,5 3.200 180
6,2 5,3 0,62 80 6,4 2,5 3.200 180
3-4
6,5 5,5 0,64 83 6,4 2,5 3.200 180
7,5 6,0 0,72 90 6,4 2,5 3.200 180
5-6 8,0 6,2 0,75 93 6,4 2,5 3.200 180
9,0 6,2 0,80 93 6,4 2,5 3.200 180
Tab. A9 - Fabbisogni totali medi giornalieri per agnelli e agnelloni
PV
(Kg)
IGA
(g)
ENC
(MJ) UFC
PDI
(g)
Ca
(g)
P
(g)
Vit. A
(u.i)
Vito D
(u.i.)
15 150 3,50 0,46 79 4,2 1,7 700 100
200 4,41 0,58 100 5,3 2,1 700 100
250 5,17 0,68 117 6,4 2,6 700 100
300 5,94 0,78 134 7,5 3,0 700 100
20 150 5,17 0.68 100 4,6 2,0 940 133
200 5,48 0,72 124 5,7 2,4 940 133
250 6,47 0,85 146 6,8 2,9 940 133
300 7,38 0,97 167 8,0 3,4 940 133
25 150 5,33 0,70 158 5,2 2,3 1190 167
200 6,54 0,86 163 6,4 2,9 1190 167
250 7,76 1,02 168 7,6 3,4 1190 167
300 8,83 1,16 180 8,9 4,0 1190 167
30 150 6,62 0,87 120 5,8 2,7 1410 176
200 8,22 1,08 149 7,1 3,4 1410 176
250 9,66 1,27 175 8,5 4,0 1410 176
300 Il,03 1,45 200 9,7 4,6 1410 176
35 150 7,91 1,04 125 8,0 3,9 1645 194
200 9,89 1,30 157 8,0 3,9 1645 194
250 Il,64 1,53 185 9,5 4,7 1645 194
300 13,32 1,75 211 10,9 5,3 1645 194
376
Tab. A10- Caratteristiche di composizione delle miscele per suini
Starter Grower Finisher Scrofe Scrofe
5-25 Kg 25-70 Kg oltre 70 gestanti e in latta-
Kg verri zione
ED, Kcal/Kg 3.500 3.200 3200 3.000 3.100
MJ/kg 14,6 13,4 13,4 12,6 13,0
EM, Kcal/Kg 3250 3030 3030 2840 2930
MJ/Kg 13,6 12,7 12,7 11,9 12,3
Proteina grezza (%) 20-22 17 15 12 14
Aminoacidi (%):
Lisina 1,4 0,8 0,7 0,4 0,6
Metionina + Cisteina 0,8 0,5 0,4 0,3 0,4
Triptofano 0,3 0,2 0,1 0,1 0,1
Treonina 0,8 0,5 0,4 0,3 0,4
Leucina 1,0 0,6 0,4 0,3 0,7
Isoleucina 0,8 0,5 0,5 0,3 0,4
Valina 0,9 0,6 0,4 0,4 0,4
Istidina 0,3 0,2 0,2 0,1 0,2
Arginina 0,4 0,3 0,2 0,2 0,4
Fenilalanina + Tirosina 1,3 0,8 0,7 0,3 0,7
Minerali:
Ca,g/Kg 12 9 8 10 8
P, g/Kg 8 6 5 6 6
NaCl, g/Kg 3 3 3 3 3
Fe, mg/Kg 100 90 80 80 80
Cu, mg/Kg 10 10 10 10 10
Zn, mg/Kg 100 100 100 100 100
Mn, mg/Kg 40 40 40 40 40
Co, mg/Kg 0,5 0,2 0,1 0,1 0,1
Se, mg/Kg 0,3 0,1 0,1 0,1 0,1
I, mg/Kg 0,6 0,2 0,2 0,6 0,6
Vitamine:
A, UI/Kg 10.000 7.000 5.000 5.000 5.000
D, UI/Kg 2.000 1.500 1.000 1.000 1.000
E, mg/Kg 20 15 10 10 10
K, mg/Kg l 0,8 0,5 0,5 0,5
Tiamina, mg/Kg 1 1 1 1 1
Riboflavina, mg/Kg "
4 3 3 3 3 "
Pantotenato di Ca, mg/Kg 10 8 8 8 8
Niacina, mg/Kg 15 10 10 10 10
Biotina, mg/Kg 0,1 0,05 0,05 0,1 0,1
Acido folico, mg/Kg 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5
B12, mg/Kg 0,03 0,02 0,02 0,02 0,02
Colina cloruro, mg/Kg 800 600 500 500 500
377
TAB. 11- Caratteristiche di composizione di miscele per polli da carne
settimane
1 2 >3 1 2 >3 1 2 >3 1 2 >3
EM, kcal/kg 2900 2900 2900 3000 3000 3000 3100 3100 3100 3200 3200 3200
Proteina grezza, % 21,5 19,6 18,2 22,2 20,4 18,9 23,0 21,0 19,5 23,7 21,7 20,1
Aminoacidi, %
Lisina 1,1 1.0 0,8 1,2 1,0 0,9 1,2 1,1 0,9 1,2 1,1 0,9
Metionina 0,5 0,4 0,4 0,5 0,4 0,4 0,5 0,5 0,4 0,5 0,5 0,4
Metionina+cisteina 0,8 0,8 0,7 0,9 0,8 0,7 0,9 0,8 0,7 0,9 0,8 0,8
Triptofano 0,2 0,2 0,2 0,2 9,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2
Tronina 0,7 0,6 0,5 0,7 0,6 0,5 0,7 0,6 0,5 0,7 0,7 0,5
Glicina+serina 1,9 1,6 1,3 1,9 1,7 1,4 2,0 1,8 1,4 2,1 1,8 1,5
Leucina 1,6 1,4 1,1 1,6 1,4 1,2 1,7 1,5 1,2 1,7 1,5 0,2
Isoleucina 0,9 0,8 0,6 0,9 0,8 0,7 1,0 0,8 0,7 1,0 0,9 0,7
Valina 1,0 0,9 0,6 1,0 0,9 0,6 1,0 0,9 0,6 1,1 1,0 0,6
Istidina 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,4
Arginina 1,2 1,0 0,9 1,3 1,1 0,9 1,3 1,1 0,9 1,3 1,1 1,0
Fenilalanina + tirosina 1,5 1,3 1,1 1,6 1,4 1,1 1,6 1,4 1,1 1,7 1,5 1,2
Minerali
Ca, g/kg 10 9 8 10 9 8 11 10 9 11 10 9
P, g/kg 7 7 6 7 7 6 7 7 6 7 7 6
NaCl, g/kg 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3
Fe,mg/Kg 40 40 15 40 40 15 40 40 15 40 40 15
Cu,mg/Kg 3 3 2 3 3 2 3 3 2 3 3 2
Zn,mg/Kg 40 40 20 40 40 20 40 40 20 40 40 20
Mn,mg/Kg 70 70 60 70 70 60 70 70 60 70 70 60
Co,mg/Kg 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2
Se,mg/Kg 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1
I,mg/Kg 1 1 1 1 1 1 l 1 1 1 1 1
Vitamine
A, UI/kg x 1000 1O 10 1lO 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O
D3 UI/kg 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500
E, mg/kg 15 15 1O 15 15 1O 15 15 1O 15 15 1O
K3, mg/kg 5 5 4 5 5 4 5 5 4 5 5 4
Tiamina, mg/kg 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 -
Riboflavina, mg/kg 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4
Pantotenato, mg/kg 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5
Niacina, mg/kg 25 25 15 25 25 15 25 25 15 25 25 15
Piridossina, mg/kg 2 2 1,5 2 2 1,5 2 2 1,5 2 2 1,5
Biotina, mg/kg 0,1 0,1 0,1 O, l 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1
Ac. Folico, mg/kg 0,2 0,2 - 0,2 0,2 - 0,2 0,2 - 0,2 0,2 -
B12, mg/kg 0,1 0,1 0,01 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,01 0,01 0,1 0,01
Colina cloruro, mg/kg 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500
378
Tab. A12- Composizione delle miscele per galline (Rip. = riproduzione; Ov. = ovodeposizione)
Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov.
EM, Kcal/Kg 2500 2500 2600 2600 2700 2700 2800 2800 2900 2900
PG,% (T < 25°C) 14,5 - 15,1 - 15,8 15,6 16,2 16,0 17,0 16,7
PG,% (T> 25°C) 16,0 16,7 17,4 17,1 18,0 17,7 18,7 18,4
Aminoacidi, %:
Lisina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9
Metionina 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4
Metionina + Cisteina 0,6 0,6 0,6 0,6 0,7 O) 0,7 0,7 0,7 0,7
Triptofano 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2
Tronina 0,6 0,6 0,6 0,6 0,7 0,7 0,7 0,7 0,7 0,7
Glicina + Serina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9
Leucina 1,2 1,2 1,3 1,3 1,3 1,3 1,4 1,4 1,4 1,4
Isoleucina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9
Valina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9
Istidina 0,3 0,3 O) 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3
Arginina 1,0 1,0 1,0 1,0 1,1 1,1 1,1 1,1 1,2 1,2
Fenilalanina+ Tirosina 1,1 1,1 1,1 1,1 1,2 1,2 1,2 1,2 1,3 1,3
Minerali:
Ca, g/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40
P, g/Kg 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6
NaCl, g/Kg 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3
Fe, mg/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40
Cu, mg/Kg 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2
Zn, mg/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40
Mn, mg/Kg 60 60 60 60 60 60 60 60 60 60
Co, mg/Kg 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2
Se, mg/Kg 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1
I,mg/kg 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8
Vitamine:
A, UI./Kg x 1000 10 8 10 8 10 8 10 8 10 8
D3, UI./Kg 150
0 1000 1500 1000 1500 1000 1500 1000 1500 1000
E, mg/Kg 15 5 15 5 15 5 15 5 15 5
K3, mg/Kg 4 2 4 2 4 2 4 2 4 2
Tiamina, mg/Kg 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2
Ribof1avina, mg/Kg 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4
Pantotenato, mg/Kg 12 5 12 5 12 5 12 5 12 5
Niacina, mg/Kg 33 26 33 26 33 26 33 26 33 26
Piridossina, mg/Kg 1 - 1 - 1 - 1 - 1 -
Biotina, mg/Kg 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1
Ac. Folico, mg/Kg 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4
B12, mg/Kg 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01
Colina cloruro, mg/Kg 600 300 600 300 600 300 600 300 600 300
Ac. Linoleico, mg/kg 8 10 8 10 8 10 8 10 8 10
379
Tab. B1. Caratteristiche analitiche di alcuni alimenti (espresse sul tal quale)
Foraggi verdi
So
stan
za s
ecca
%
Pro
tein
e g
rezz
e %
UF
L/q
le
Fib
ra g
rezz
a %
Lip
idi
%
Cen
eri
%
ND
F g
/ K
g
AD
F g
/kg
Cal
cio
g/k
g
Fo
sfo
ro g
/kg
Pro
tein
a
deg
rad
abil
e g
/kg
Protei
n by-p
ass g
7kg
Pro
tein
a so
lubi
le g
/kg
PD
IN g
/kg
PD
IE g
/kg
Erb. Misto prato stabile 18 3,8 15 5,2 0,8 1,8 110 68 1,5 0,7 28 IO 27 23
Erba pascolo di pianura 18 2,5 15 5 0,5 1,7 105 62 1,2 0,6 20 5 23 20
Erba di pascolo di montagna 18 3 14 4,2 0,5 2 96 56 1,3 0,6 22 8 19 17
Erba medica (media) 18 5 14 6 0,8 2 115 65 3,5 0,6 36 14 21 16
Erbaio Lanndsberger 21 4,2 16 5,2 l 2,3 100 70 0,3 0,1 30 12
Erbaio Trifoglio ladino 19 3,2 14 5 0,5 2,2 85 50 3 0,8 23 9 22 16
Erbaio Loietto italico 18 2 16 5 0,6 2 93 57 '1,2 0,8 13 7 12 15
Erbaio Festuca pratense 19 2,5 14 7 0,6 2,3 125 85 0,7 0,5 18 7 17 13
Erbaio Festuca arundinacea 20 2,3 16 6 1,3 2,1 110 65 0,8 0,6 17 6 16 12
Erbaio Triticale 20 3,5 17 4,2 0,6 1,7 85 53 0,7 0,6 25 10
Erbaio Granturchino giovane 18 1,7 13 4,6 0,3 1,8 80 50 0,7 0,5 12 5 12 17
Erbaio Granturchino maturo 25 2,3 18 5,8 0,5 2 120 70 l 0,7 16 7 15 22
Erba di marcite 18 2,1 15 4,3 0,8 1,8 78 55 l 0,7 15 6
Erbaio di orzo 20 2 15 6 0,4 2 110 75 0,6 0,5 14 6 13 14
Erbaio di avena 28 3,2 16 10 0,6 2,5 160 120 l 1,3 23 9 22 26
Erbaio di colza 15 2,8 15 4,2 0,8 1,5 80 55 2 0,5 20 8
Erbaio di veccia 20 3,5 17 4,5 0,5 1,8 95 50 0,8 0,7 26 9 26 20
Erbaio Dactylis g10merata 18 2,2 15 5 0,5 2 100 60 0,8 0,7 15 7 32 23
Erbaio Fleo pratense 20 2,2 15 6,5 0,6 1,5 125 83 0,8 0,5 15 7 11 14
Erbaio Poa pratense 23 3,5 17 6 0,8 1,7 120 70 1,2 l 26 9
Erbaio segale giovane 23 2,7 18 7,7 0,8 1,7 130 96 l 0,8 19 8
Erbaio sorgo maturo 25 1,6 18 7 0,8 1,5 125 85 l 0,3 11 5
Fieni
Polifita 87 IO 62 27 2,3 8 487 307 5 2,5 63 37 20 68 70
Medica (media) 87 16 57 27 2 7,8 378 342 14 2,3 1I5 45 32 93 76
Trifoglio alessandrino 88 17 58 27 2,6 12 450 290 13 2,6 108 59 95 72
Trifoglio incarnato 86 12 52 27 2,4 7,5 480 320 IO 2 80 40
Trifoglio ladino 88 15 60 24 3,6 7,6 410 320 15 2,5 105 45
Trifoglio pratense 87 16 58 23 3,5 7,3 410 290 12 2,2 1I3 47
Loglio perenne 88 10 60 30 2,3 7,3 550 360 3 2,4 70 20 60 70
Loglio italico loiessa 88 11 58 27 2 7,2 560 360 3,5 2,6 75 20 60 65
Festuca pratense 87 8 59 27 2 7,5 500 370 3,5 2 55 25 52 58
Festuca arundinacea 88 8,5 55 27 2,1 8,7 580 380 3,5 2 60 25 55 62
Trigonella fieno greco 85 11 45 30 2,6 5 570 390 14 2 78 32
Landsberger 90 16 58 23 5 10 430 287 12 2,5 1I0 55
Graminacee mediocri 88 9,3 57 29 2,2 5,3 480 350 3 1,5 65 28 60 68
Avena 87 8,5 55 30 2 7 500 350 2,5 1,5 60 25
Veccia 87 18 52 24 2,1 10 420 300 12 3 120 60
Vigna sinensis 89 19 24 23 2,5 11 450 290 14 3 125 65
Sulla 88 13 55 27 1,8 9,5 465 385 10 3 85 45
Dactylis g1omeratafleo pratense 85 8,7 56 27 2 8 485 285 2,7 2 57 30 73 74
Fleo pratense 87 8 52 30 2 5 490 325 3,5 1,8 52 28
Segale 89 7,5 53 35 7 5 600 430 2,7 1,8 48 27
Loietto + medica 87 12 65 27 2 7,6 486 242 8,5 2,3 93 32 24 76 70
Loietto + trifoglio 87 12 65 25 2,5 7,3 483 340 7,7 2,3 90 30
Paglie:
Paglia di frumento 90 3,7 26 40 1,3 7 765 486 2,7 0,8 12 25 - 30 34
Paglia di orzo 89 3,7 37 38 1,3 6,5 712 525 2,7 0,7 10 27 32 33
380
Silomais 35% S.S. 35 2,6 30 7,6 1 2 170 80 1,2 0,7 18 8 13 15 23
Silomais 32% S.S. 33 2,5 27 7 0,9 1,8 156 74 1,1 0,6 17 7,5 12 14 21
Silomais 30% S.S. 30 2,3 25 6,5 0,8 1,7 145 68 1 0,6 16 7 11 15 22
Fienosilo polifita 50 5,6 36 15 1,5 4,6 270 160 2,5 1 37 19
Prato stabile verde 28 3,4 22 8,5 0,8 0,8 160 90 1,5 0,6 22 12
Fienosilo loietto 35 3,6 28 13 1,3 3,5 220 135 1,8 1,2 23 13
Loietto perenne verde 20 2,1 17 5,7 0,7 2 105 60 1 0,6 15 6
Loietto italico - loiessa 27 2,2 20 6 0,6 2 138 75 1 0,6 16 6
Fienosilo di medica 47 7,8 30 11 2 3,5 210 115 7 1,5 50 28 35
Medica verde 33 6,3 24 8,5 1 3,6 167 90 3,5 0,8 40 23 19 37 22
Orzo 33 3 24 IO 1 3 150 105 1,5 I 22 8 15 20
Trebbie di birra 25 6,2 22 4 2,5 1,2 70 45 0,7 1,2 40 22
Barbabietole polpe 12 1,7 11 4 0,3 I 68 45 1,5 0,3 11 6
Pastone mais granella 68 7 82 1,3 3,1 0,9 30 17 0,3 1,3 39 31 25
Pastone mais grano e tutolo 60 5,4 65 2,5 2,8 0,9 50 30 0,2 1,1 35 19 23
Granturco stocchi 35 2 21 13 0,4 3,5 250 135 0,7 0,4 15 5
Avena e veccia 25 3,6 15 6,7 1 2 120 70 1,6 0,7 20 16
Cereali e fiocchi:
Mais 88 8,8 110 2,2 3,7 1,3 85 30 0,2 2,7 32 56 10 73 100
Orzo 88 10 100 6 2 2,3 170 60 0,5 3,7 85 20 37 68 92
Frumento 88 11 103 2,3 2 1,7 120 30 0,6 3,6 90 30 75 95
Avena 88 11 90 10 4,5 4 290 140 0,7 3,5 85 25 64 72
Segale 88 10 102 2,3 1,5 2 115 37 0,7 3,5 76 24 69 90
Sorgo 88 11 101 2,4 3 1,8 93 42 0,3 3,2 73 34 78 97
Miglio 88 12 87 9,3 3,7 3,6 270 97 0,5 2,8 73 43 96 107
Triticale seme 87 12 105 3,3 2 2 120 40 0,6 3,5 90 28 77 94
Mais fiocchi 88 9 115 2,5 3 1,5 123 26 1,2 2,6 57 38 69 85
Orzo fiocchi 88 12 103 4,3 2 2,5 125 46 0,5 2,7 90 30 80 100
Avena fiocchi decorticati 88 14 117 2 7,2 2,6 55 21 0,7 3,8 105 35 100 52
Mais pannocchie 86 5,3 70 4,3 2,7 1 200 70 0,1 1,5 35 18
Cruscami:
Crusca di fiumento 88 14 78 10 4,2 5 400 130 1,4 13 112 30 57 92 75
Cruschello di fiumento 88 16 80 9 4,5 5 365 112 1,2 9,5 115 35 58 80 95
Tritello di fiumento 88 15 82 6 3 4 250 75 1,3 9 120 40 96 83
Farinaccio di fiumento 88 15 101 6 3 3,5 240 77 1 7 120 35 93 80
Farinetta di fiumento 88 14 100 3.5 2,6 2,5 150 40 1 5 105 40 76 80
Pula di riso commerciale 88 12 82 12 12 11 360 150 0,8 14 80 40 65 63
Puletta di riso 88 9 70 15 8 18 300 180 60 30
Farinaccio di riso 89 13 81 5.7 8,5 7 160 85 0,5 12 86 44 98 90
Loppe di orzo 88 3 40 30 1,5 13 90 50 4 2 22 8
Tritello di segale 89 15 85 7 3,7 5 210 100 1,5 13 92 58
Tab. B1. Caratteristiche analitiche di alcuni alimenti (espresse sul tal quale)
Insilati
So
stan
za s
ecca
%
Pro
tein
e g
rezz
e %
UF
L/q
le
Fib
ra g
rezz
a %
Lip
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g
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g
Fo
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/kg
Pro
tein
a
deg
rad
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e g
/kg
Protei
n by-p
ass g
7kg
Pro
tein
a so
lubi
le g
/kg
PD
IN g
/kg
PD
IE g
/kg
381
segue
Alimenti diversi:
Manioca farina
Carrube frante denocciol.
Patate secche disidratate
Urea: * = Kg'kg
Grasso by-pass
So
sta
nza
sec
ca
%
Pro
tein
e g
rezz
e %
UF
L/q
le
Fib
ra g
rezz
a %
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/ K
g
AD
F g
/kg
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Pro
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g/k
g
Prote
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-pas
s g7k
g
Pro
tein
a
solu
bil
e
g/k
g
PD
IN g
/kg
PD
IE g
/kg
87 2,5 100 4 0,5 5 104 63 2 1 20 5 15 60
90 5 67 7 2,7 3 237 198 3 0,6 50 - -
89 3,7 102 2,7 0,5 4 124 45 0,8 1,5
99 278 - - - - - - - - 2,7* - - 1,5* -
95 325 90 90
Alimenti proteici e semi:
Soia fe. 44% 90 44 103 7 1,1 6 180 80 2.7 6.5 317 123 88 307 213
Soia fe. 48% 90 48 105 4 1,7 6 100 60 2.8 6.9 345 135 96 340 230
Soia semi interi 90 35 114 6,5 18 6 130 85 2.5 5.8 198 182 60 220 78
Cotone far. estrazione 91 37 80 13 1.5 6.5 367 250 2 lO 324 86 287 123
Cotone semi interi 90 20 115 20 20 3.6 430 295 1.4 4 115 95 68 160 127
Cotone panel. decorticato 91 42 92 9 8 6.7 270 195 3 7 255 170 298 247
Girasole far. e. decortic. 90 39 80 16 8.3 7 320 215 4.5 12 265 125 260 155
Girasole pan. decortic. 90 39 91 14 8.5 6.5 335 230 4 6.6 280 110 272 170
Girasole pan. Semidecort. 92 32 57 20 8 6.5 345 300 3.5 7.5 225 95 230 140
Girasole f.e. integrale 90 23 58 30 2 5 450 320 5.5 7 160 75 178 135
Arachide panel 92 50 104 7,8 6.8 5.3 130 90 2 6 870 170 320 175
Arachide f.e. 91 49 102 lO 1.4 5.7 170 128 1.6 6 345 145 332 181
Colza farina estrazione 90 36 93 12 2.2 7.2 220 150 7 lO 250 100 246 150
Lino farina estrazione 90 35 88 9,3 1.7 6.2 243 170 3.5 8.3 217 133 237 167
Lino panello 90 32 100 9,8 7.5 5.6 198 125 4 8 183 142 133 240 173
Sesamo farina estrazione 90 44 80 7,5 1.7 ·12 20 17 310 130 285 155
Pomodoro semi far. estro 90 34 60 27 1.2 6.5 4 7 220 120
Glutine mais 60% 90 62 110 2,6 2.7 2 61 21 1 3.2 190 430 500 463
Glutine mais 40% 90 43 105 4 2.8 2.4 92 1.6 4 130 300 300 253
Germe di frumento 88 36 112 2,5 IO 5 165 53 0.8 10 174 186
Germe di mais far. Estr. 90 20 100 11 1.8 3 396 117 I 5 144 56 90 115
Germe di mais panello 91 22 106 10 7.5 2.5 260 75 0.6 4.5 160 60 96 115
Germe di riso intero 90 18 107 6 18 8 250 154 0.5 17 82 98
Medica disidr. 17% 92 17 70 25 2.8 9.5 400 320 16 2.5 85 85 110 83
Guar. Far. Estraz. 91 44 90 12 5 6 0.3 0.6
Semola glut. 17% 88 17 93 10 2.6 4.5 385 120 1 7 135 40 35 120 105
Semola glut. 20% 90 22 102 7,5 3.5 7 350 140 1.2 4.8 184 46 38 130 115
Lino seme 91 23 135 7 35 5 125 75 2.3 6.3 190 40 33 132 58
Lenticchie semi 88 25 96 3,5 1.8 3 1.2 4.2
Fave semi 88 26 100 7,5 1.3 3.5 108 82 1.2 6 198 62 152 90
Veccia seme 88 27 100 6,5 1.6 3.5 183 92 1.6 4.5 210 60 157 88
Pisello seme 86 23 100 5,5 1.6 2.8 140 65 0.8 4.5 130 85
382
INDICE
Pag.
CAP. I. PRINCIPI NUTRITIVI
1.1 1.1 Generalità
1.1.1 1.1.1 Alimentazione e benessere animale
1.1.2 1.1.2 Alimentazione e qualità dei prodotti
1.1.3 Alimentazione e impatto ambientale
1.14 Alimentazione qualità e sicurezza dei prodotti animali
1.1.5 Principi alimentari
1.2.1 Idrati di carbonio o glucidi
1.2.2 Metabolismo degli idrati di carbonio
1.3 Protidi
1.3.1. Disponibilità di aminoacidi
1.3.2. Utilizzazione e metabolismo delle proteine
1.3.3 Valore biologico delle proteine
1.3.4. Azoto non proteico e proteine sintetiche
1.3.5 Proteine by-pass
1.4 Lipidi
1.4.1. Utilizzazione e metabolismo dei lipidi
1.5 Vitamine
1.6. Macrobromi Inorganici
1.7 Ormoni ed Enzimi
1.8 Fattori Sconosciuti di Crescita
1.9 Promotori di Performances e Additivi
CAP. II. DIGESTIONE E ASSORBIMENTO PRINCIPI NUTRITIVI
2.1 Generalità
2.2 Ingestione degli alimenti
2.2.1 Previsione del consumo volontario di sostanza secca
2.5 Masticazione
2..3.1 Saliva
2.6 . Deglutizione
2.6. 2.5 Fisiologia della digestione nei monogastrici
2.6. Vomito
2.8. Particolarità nei conigli
2.8.1. Particolarità nei volatili
2.8.2. Digestione nei lattanti dei poligastrici
2.9. Fisiologia della digestione nei poligastrici
2.9.1. Digestione microbica ruminale
2.9.2. Metabolismo delle sostanze azotate nel rumine
2.9.3. Digestione dei grassi nel rumine
2.9.4. Metabolismo dei lipidi nel rumine
2.9.5 Degradazione e sintesi di vitamine nel rumine
2.9.6. Tempi di degradabilità ruminale dei diversi alimenti
2.9.7. Biotecnologia del rumine
2.10. Assorbimento dei principi nutritivi
2.10.1. Defecazione
1
1
1
4
4
7
10
10
12
14
16
17
19
19
20
21
22
23
29
38
39
39
38
42
42
43
47
49
50
52
52
59
60
60
61
61
65
75
76
76
77
77
78
84
383
CAP. III. METABOLISMO
3.1. Generalità
3.2 Metabolismo energetico
3.3. Sintesi proteica
3.4. Sintesi dei grassi.
CAP. IV. VALUTAZIONE CHIMICO FISIOLOGICA ALIMENTI
4.3. Valutazione chimica
4.4. 4.2 Valutazione fisiologica
4.2.1 Digeribilità
4.3. Relazione nutritiva
4.4. Equilibrio acido-basico
4.5. Appetibilità
4.6. Conservabilità
4.7. Azione dietetica
CAP. V. UTILIZZAZIONE BIOLOGICA DEGLI ALIMENTI
5.1. Produzione energia
5.2 Metodi di misura del calore prodotto e ritenzione di energia
5.3. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per il mantenimento
5.4. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile ai fini produttivi
CAP. VI. DETERMINAZIONE VALORE NUTRITIVO ALIMENTI
6.3. Generalità
6.4. Metodo delle unità amido
6.3. Metodo scandinavo o delle unità foraggiere (U.F.)
6.4. Metodo delle U.F. latte e carne
6.5. Metodo dell’E.M. attraverso il calcolo del T.D.N.
6.6. Metodo della energia netta
6.7. Previsione del contenuto energetico degli alimenti
CAP. VII. SISTEMI DI VALUTAZIONE DELLE PROTEINE
7.3. Valutazione nei monogastrici
7.4. Valutazione nei poligastrici
7.4.1. Sistema francese
7.2.2. Sistema AP
7.2.3. Sistema Cornell o CNCPS
7.4 . Degradabilità delle proteine
CAP. VIII. Fattori nutritivi degli animali e fattori di razionamento
8.1. Nuove concezioni sul valore nutritivo degli alimenti e della
razione
8.2. Fabbisogni degli animali
8.2.1. Fabbisogni di mantenimento
8.2.2. Fabbisogni di accrescimento
8.2.3. Allattamento
8.3. Fabbisogni di ingrasso
8.3.1. Esigenze alimentari dei bufali per la produzione della carne
8.4. Fabbisogni per la produzione del latte
88
88
89
96
99
102
102
109
117
118
118
118
119
119
120
120
125
129
131
138
138
143
144
144
149
150
150
151
154
154
156
157
158
160
160
162
165
169
178
183
185
189
384
8.4.1. Esigenze per la produzione del latte nei bovini
8.4.2. Alimentazione delle bovine da latte ad alta produzione
8.4.3. Modalità di somministrazione degli alimenti
8.4.4. Alimentazione e qualità del latte
8.4.5. Formulazione mangimi e premiscele
8.4.6. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella bufala
8.4.7 Esigenze nutritive per la produzione del latte nella pecora
8.4.8. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella capra
8.4.9 Esigenze nutritive per la produzione del latte negli equini
8.46. Esigenze nutritive per la produzione del latte nei suini
8.5. Fabbisogni per la riproduzione e lo stato di gravidanza
8.5.1. Effetti della malnutrizione durante la gravidanza
8.6. Fabbisogni per prestazioni dinamiche
8.6.1. Alimentazione degli equini
8.7. Fabbisogni per la termoregolazione
8.8. Alimentazione di altre specie di interesse zootecnico
8.8.1. Conigli
8.8.2. Volatili.
8.8.3. Cenni sulle esigenze nutritive dei pesci
CAP. IX DISMETABOLIE DA ERRORI ALIMENTARI
9.1 Dismetabolie dei ruminanti
9.2 Principali disturbi degli equini dovuti all’alimentazione
CAP. X. ALIMENTI PER IL BESTIAME
10.2. Classificazione degli alimenti
Fattori che influenzano il valore nutritivo dei foraggi
10.1.2. Foraggi di leguminose
10.1.3. Foraggi di crucifere
10.1.4. Foraggi dei prati polifiti.
10.1.5. Foraggi di erbai
10.1.6. Radici e tuberi
10.2. Pascoli
10.2.1. Carico di bestiame
10.2.2. Tecniche di pascolamento:
10.2.3. Riposo del pascolo
10.3. Foraggi insilati
10.3.1. Metodi di insilamento
10.3.2. Sostanze conservanti
10.3.3. Strutture di insilamento
10.3.4. Tipi di silo
10.4. Fieni
10.4.1. Disidratazione artificiale dell'erba
CAP. XI. PRODOTTI COMPLEMENTARI E SOTTOPRODOTTI
ALIMENTARI
11.1 Paglie di cereali
187
199
204
204
217
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297
299
303
305
307
307
385
11.2 Foglie di alberi e residui di potatura
11.3 Foglie, colletti e polpe fresche di bietola
11.4. Radici
1.5.Tuberi
11.6. Sottoprodotti dell’orzo
CAP. XII. MANGIMI CONCENTRATI
12.2 Mangimi di origine vegetale
12.1.1 Cereali
12.2.1 Trattamenti intesi ad aumentare il VN dei cereali
12.3 . Semi di leguminose
12.4. Semi diversi:
12.5. Residui della macinazione dei cereali
12.6. Residui della lavorazione del riso
12.7. Residui dell'estrazione dell'olio dai semi oleosi
12.8. Residui dell'industria dello zuccherificio:
12.9. Residui industriali di estrazione e fermentazione:
12.10 Mangimi di origine animale
12.12. Sostanze tossiche o antinutritive presenti negli alimenti
CAP. XIII. INTEGRATORI E ADDITIVI
13.1. Integratori minerali
13.2. Integratori azotati e proteici
13.3. Integratori vitaminici e vitamine
13.4 Antibiotici
13.5 Tecnica Mangimistica
CAP. XIV. ESEMPI DIETE E RAZIONI
TABELLE
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386
387