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Cinema e rivoluzione
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La spinta culturale all’innovazione e le provocazioni delle
avanguardie, prima della Rivoluzione relegate ai margini di una
società aspramente contestata, trovano ora ospitalità
soprattutto nelle arti figurative e nel teatro, poiché quel cinema
che li respingeva per via della logica di mercato e del controllo
governativo, semplicemente non esiste più.
Scenografia di Liubov Popova per The Magnanimous Cuckold, 1922
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Molti grandi protagonisti del cinema sovietico escono dalla
Rivoluzione in veste di giovani studenti esaltati attratti dall’arte
narrativa e drammaturgica. Tra gli invasati non ancora ventenni
che fondano nel 1921 la FEKS (Fabbrica dell’Attore Eccentrico)
presso l’Accademia di Belle Arti di Petrograd, sotto l’influenza
di Mejerchol’d e Majakovskij, ci sono i futuri registi Gerasimov,
Jutkevič, Kozincev e Trauberg e il compositore Šostakovič.
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La sezione teatrale moscovita del Proletkul’t ospita il giovane
Sergej Ejzenstejn, studente di ingegneria appassionato di
architettura e teatro giapponese che, dopo aver combattuto
con l’Armata rossa, si è trasferito a Mosca alla fine del 1920,
attirando l’attenzione di Mejerchol’d e collaborando con lui.
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Non appena il governo accenna a voler risollevare le sorti della
produzione cinematografica, esplode l’interesse di questi
giovani artisti per la forma espressiva che unisce al sapore
della novità una promettente forza di penetrazione nei quartieri
popolari. I cineasti cercano quindi di usare il cinema per creare
un nuovo rapporto con le grandi massi al di fuori della
mediazione del teatro e della cultura borghese tradizionale.
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Majakovskij
Quest’interesse è ampiamente condiviso e sottolineato da uno
dei maestri di questa generazione, Vladimir Majakovskij, che,
dopo la giovanile avversione per i limiti del mezzo (estraneo
alla centralità dell’autore), si accende d’entusiasmo dopo il
1917 e partecipa anche al film Zakovannaja fil’moj (Incatenata
dal film, 1918), interpretando un pittore che vive una storia di
passione con un’eroina uscita dallo schermo.
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Festa Ma è sul piano teorico che ora Majakovskij
apprezza il cinema, un’arte giovane, versatile,
veloce, che catalizza lo slancio delle
avanguardie; un atleta, un «gigante» che il
capitalismo potrebbe corrompere con una
manciata d’oro, per via della vocazione
commerciale e narrativa del cinema americano.
Gli autori sovietici rifiutano compatti lo
spettacolo tradizionale e condividono un’idea di
cinema come «festa» in cui lo spettatore
partecipa e viene di continuo stimolato dai
cambiamenti e dalle nuove invenzioni.
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MajakovskijSulla rivista Kino-foto, nell’ottobre 1922
Majakovskij scrive:
Per voi il cinema è spettacolo.
Per me è quasi concezione del mondo.
Il cinema è apportatore di movimento.
Il cinema è rinnovatore delle letterature.
Il cinema è distruttore delle estetiche.
Il cinema è audacia.
Il cinema è uno sportivo.
Il cinema è diffusore di idee.
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Majakovskij
«Ma il cinema è infermo. Il
capitalismo ha offuscato i
suoi occhi, riempiendoli d'oro.
Abili imprenditori lo guidano
per la manica lungo le strade.
Ammucchiano denaro,
smuovendo i cuori con
soggetti piagnucolosi.
Ciò deve finire».
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Majakovskij
«Il comunismo deve sottrarre il
cinema ai guardiani che lo sfruttano.
Il futurismo deve farne evaporare
l’acqua stagnante della lentezze e
della morale.
Senza di questo noi avremo o la
cecetka importata dall’America o
nient’altro che gli «occhi con
lacrima» dei Mozuchin.
La prima cosa è venuta a noia.
La seconda ancor più della prima».
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Arte e vita
L’idea che guida l’atteggiamenti dei giovani intellettuali verso lo
spettacolo è quella di liberare l’arte dalle catene della
«fruizione estetica» sottraendo temi e forme alle conventicole
degli specialisti a al giudizio del gusto “soggettivo” per inoltrarsi
nello spazio aperto e pluralistico della polis, non per seguire i
«meravigliosi capricci» della modernità o per “estetizzare” la
vita (come vorrebbe un futurismo di maniera), bensì per
rinnovare tutto e creare “un’arte nuova per una vita nuova”.
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Futurismo E. Lisickij, Con il cuneo rosso colpisci i bianchi, 1919
L’idea che guida l’atteggiamenti dei giovani intellettuali verso lo
spettacolo è quella di liberare l’arte dalle catene della
«fruizione estetica» sottraendo temi e forme alle conventicole
degli specialisti a al giudizio del gusto “soggettivo” per inoltrarsi
nello spazio aperto e pluralistico della polis, non per seguire i
«meravigliosi capricci» della modernità o per “estetizzare” la
vita (come vorrebbe un futurismo di maniera), bensì «per
minare il vecchiume, per andare alla conquista di una nuova
cultura (…) per un’arte che sia costruzione della vita».
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Il nuovo cinema sovietico non ha per il momento all’attivo
niente se non i piccoli documentari propagandistici che hanno
accompagnano la guerra vittoriosa contro le armate «bianche»,
ma si mette al lavoro di buona lena, pur tra mille disagi, nei
centri produttivi che il nuovo regime sta cercando
faticosamente di allestire a Mosca, Kiev, Leningrado, Tbilisi.
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Abram Room, un allievo del VGIK di
Kulešov arrivato trentenne, nel 1924, agli
ex studi Khanzhonkov, ricorda le
ristrettezze (un edificio in legno vecchio
e piccolo, attrezzature a malapena
funzionanti, mezzi di trasporto
inesistenti) ma anche tanti registi senza
incarico e senza stipendio che si
applicavano freneticamente a qualsiasi
occupazione, condividevano le idee e le
critiche, dando vita a un’esperienza che
aveva «il profumo unico della gioventù».
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«Eravamo giovani noi e l’arte del
cinema. (…) La piccola sala di
proiezione era divisa in due parti da
una tenda; nella mia metà ho montato
La baia della morte mentre Ėjzenštejn
lavorava dall’altra parte. Ogni tanto
scansavamo la tenda per osservare il
lavoro l’uno dell’altro e dopo iniziavamo
a discutere in modo inimmaginabile.
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Manca tutto ma non alacrità e impegno, varietà di ispirazioni,
idee «originali» e voglia di confrontarle. Un tratto tipico di questi
giovani intellettuali, diffuso in tutta l’arte sovietica del periodo, è
l’attitudine a unire attività pratica e riflessione teorica. Per la
prima volta al mondo, si riflette sul linguaggio del cinema, sulle
sue «leggi» e sulla sua specificità.
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Ma non basta. I cineasti più importanti sono animati da una
spontanea adesione all’attualità e allo spirito della Rivoluzione,
da un senso di responsabilità e d’impegno morale che non solo
collega fra loro la pratica creativa e la riflessione teorica
sull’autonomia formale del cinema ma le connette entrambe
alla legittimazione e alla difesa di un progetto sociale e politico.
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Nel 1923 sulla rivista Lef (nello stesso numero, il terzo) escono
due brevi testi di carattere teorico destinati a segnare in modo
profondo il dibattito sul cinema e a indirizzarne i futuri sviluppi.
Il primo è di Dziga Vertov e s’intitola Kinoki. Perevorot (I
Kinoki. Un rivolgimento). Il secondo, Montaž attrakcionov (Il
montaggio delle attrazioni), reca la firma di Sergej M.
Ejzenštejn, all’epoca ancora regista teatrale per il Proletkul’t.
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Dziga Vertov, che già nel suo primo saggio dell’agosto 1922
(Noi: Variante del manifesto) aveva proposto il montaggio
come la strada principale per «riorganizzare il mondo visibile»,
si scaglia con veemenza contro il «cinema narrativo», in nome
della visione «oggettiva» della realtà. Ėjzenštejn invece
s’interroga sulla possibilità del cinema di essere momento di
partecipazione e strumento di conoscenza senza mai rinnegare
la fabula e la logica dello spettacolo.
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Si tratta di due posizioni radicali e contrarie che tendono a
dissezionare l’una la cattura della realtà e l’altra il racconto di
determinati eventi per ottenere analisi e letture del mondo
intellettualmente più pregnanti, ispirate in ogni caso da un
comunismo tanto sincero quanto ingenuo, che non sarà mai né
ben compreso né tantomeno condiviso dall’apparato politico,
interessato invece all’aspetto «persuasorio» di cinegiornali e
documentari e a quello «celebrativo» della narrazione.
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Colpito da due ictus nel corso del 1922, Lenin muore il 21
gennaio 1924, ma l’evento non compromette la vitalità del
cinema, che anzi proprio in quel lasso di tempo porta alla luce i
primi risultati degli sforzi profusi dal Goskino per rimettere in
moto la macchina produttiva.
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Nel 1924 i manifesti intellettuali lanciati l’anno prima su Lef da
Vertov ed Ejzenštejn si traducono in due film, entrambi targati
Goskino, che rappresentano, nel loro radicale anticonformismo
i due poli intorno a cui si addensa la politica cinematografica
dell’avanguardia: Kinoglaz (Cineocchio), presentato verso la
fine dell’anno e Stačka (Sciopero), uscito agli inizi del 1925.
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Vertov
David Abelevič Kaufman, nato a Bialystok, oggi in Polonia, nel
1896 da una famiglia ebrea, nonostante gli studi di medicina e
le ambizioni letterarie, ha una formazione musicale e aderisce
alle istanze del dinamismo futurista già dalla scelta dello
pseudonimo: Dizga Vertov, traducibile come “trottola rotante”.
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Si lascia travolgere dalla Rivoluzione e nel 1918 inizia a fare il
montatore per il primo cinegiornale sovietico, la Kinonedelja
(Cinesettimana), con forte timbro propagandistico. Durante la
guerra civile, tra il 1919 e il 1921, dirige la sezione cinema del
treno di propaganda del Comitato esecutivo centrale e realizza
alcuni film di montaggio.
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Nel 1922 fonda il gruppo dei kinoki (cine-occhi) e un nuovo
cinegiornale, autonomo e innovativo, la Kino Pravda (Cine-
verità), una sorta di supplemento filmato del celebre quotidiano
di cui, con cadenza irregolare, tra il 1922 e il 1925, escono 23
numeri.
Kino-Pravda n°9, 25 agosto 1922. dimostrazione
di una macchina da presa americana
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VertovIl Cineocchio del 1924 è il primo
lungometraggio di Vertov che, anziché
usare materiale di repertorio, si serve di
riprese appositamente girate, con un tono
ampiamente sperimentale, a Mosca e
dintorni. Mostrando brevi episodi sulla vita
in Unione Sovietica, il film illustra le basi
della filosofia dell’autore, che organizza il
visibile ignorando le esigenze narrative ed
enumera diversi modi di «scomporre» la
realtà utilizzando proiezioni all’indietro,
ralenti, angoli di ripresa inconsueti.
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Vertov
Nel discorso introduttivo durante la première del 13 ottobre
1924, Vertov è molto chiaro: «Rimarrete delusi se siete venuti
a vedere una coinvolgente storia d’amore. Rimarrete delusi se
vi aspettate un’incalzante storia gialla, ed anche se vi aspettate
di vedere trucchi ed acrobazie straordinari». Ciò che vedranno
gli spettatori, come recita il sottotitolo, è Žizn’ vrasploch, ovvero
«la vita colta sul fatto», ma il progetto di Vertov, ben più ampio,
prevede altre cinque parti, che diano a quei materiali raccolti in
modo volutamente «casuale» e impressionistico una forma
sempre più elaborata, in un movimento potenzialmente
illimitato, che però non vedranno mai la luce.
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Vertov
Vertov percepisce con chiarezza che il Kinoglaz organizza il
mondo fenomenico solo in quanto ne fa parte, gli è interno, e
dunque è al tempo stesso un occhio che vede e un occhio che
è visto, soggetto e oggetto di una visione strutturalmente
duplice. Prima ancora di dar luogo a una specifica poetica, il
dato riguarda la natura stessa dell’immagine cinematografica,
di cui denuncia la «riflessività» coniugandola con l’idea di una
ricezione distanziata e critica, entro un progetto politico che
prevede uno spettatore consapevole e attivo, tanto da farsi egli
stesso, a sua volta, produttore.
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VertovLa «critica» apprezza la «meravigliosa
capacità» del cine-occhio «di vedere e
catturare ciò che vede, per poi riprodurlo
così come lo ha visto», la sincerità che
raffigura la «vita vera» senza pettinarla o
metterla in posa». Piace meno il progetto
totale, soprattutto ai burocrati di partito,
la «cinematizzazione delle masse» che
forse suona in modo troppo democratico.
Il taglio dei fondi costringerà infatti Vertov
a trasferirsi in Ucraina per continuare a
lavorare secondo le sue idee.
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Il film di Ėjzenštejn proviene invece dall’appoggio del Goskino
a un grande progetto tematico del Prolet’kult, che prevede otto
opere sui momenti emblematici del movimento rivoluzionario,
di cui l’unico esito è proprio Sciopero!, che esce il 1º febbraio
1925, proponendo una sfida semplice e geniale: ricavare una
rappresentazione drammaturgica non da una storia ma da un
fenomeno appartenente alla dinamica della lotta di classe.
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Ejzenštejn
È dunque lo sciopero il mythos intorno a cui il film organizza un
eterogeneo montaggio di attrazioni sensoriali, offrendolo allo
spettatore coinvolto dalla macchina emozionale i modi per
“sentirlo” e “pensarlo” in modo originale. L’intelligenza politica
del progetto cinematografico, e la sua distanza dal Kinoglaz di
Vertov, lo costituiscono come un secondo polo di riferimento.
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Sia Stačka che Kinoglaz rifiutano ogni compromesso con
l’istanza teatrale e letteraria del cinema di finzione; entrambi
scuotono con forza le fondamenta del cinema corrente e
rivendicano al nuovo mezzo totale autonomia espressiva. Ma
mentre l’orientamento vertoviano, coerentemente sviluppato,
mira a una specie di «rete multimediale interattiva», quello di
Ejzenštejn punta, sia pure in modo ancora oscuro, ad aprire
nuove frontiere all’esperienza narrativa.
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Terzo polo
Sempre nel 1924 il Goskino produce anche Le straordinarie
avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi (Neobyčajnye
priključenija Mistera Vesta v strane bol’ševikov) di Kulešov, un
film ironico e vivace che utilizza invece la ricchezza di soluzioni
offerte dal montaggio su un piano narrativo più convenzionale.
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Il film di Kulešov si confronta con i principali generi del cinema
americano (dal western al grand guignol, dal comico al
poliziesco) con grande leggerezza, in una concatenazione di
peripezie che riesce a prendersi gioco al tempo stesso
dell’ingenuo Mr. West (americano in missione a Mosca che
immagina i bolscevichi come selvaggi sanguinari) e degli stessi
bolscevichi, tutti riti collettivi e parate ufficiali.
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Kulešov non sottovaluta affatto le potenzialità del montaggio. È
stato lui per primo a mostrare che lo spazio e il tempo del film
si possono costituire indipendentemente da quelli reali e che il
montaggio cinematografico inclina spontaneamente all’ordine
discorsivo, differenziandosi da ogni figuratività di tipo pittorico e
da ogni naturalismo riproduttivo o psicologico.
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Schiacciato tra Vertoviano e Ejzenstejn, al massimo il buon
Lev viene menzionato per l’esperimento denominato
“Effetto Kulesov”.
L’idea di montaggio di Kulešov è centrata sulla funzionalità
narrativa, ma riflette anche l'idea costruttivista di realizzare
un film secondo gli stessi principi tecnico-scientifici con cui
un ingegnere compie il suo lavoro. Kulesov unisce poi un
cinema artigianale con uno più industriale, avvalendosi di
strutture narrative diverse (che vanno dall'uso del burlesque
e del grottesco, al falso spionistico-poliziesco).
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Ma la sua «politica dell’immagine» preferisce
spendere la concezione antinaturalista dentro
uno stile convenzionale, dentro i generi «bassi»
che hanno reso il cinema una forma autonoma
di spettacolo, cui aggiunge un’intertestualità
parodistica, allusiva e autoriflessiva dotata di
grande duttilità semantica; egli infatti coltiva
anche un’incontenibile attitudine a
incrementare l’inventario aperto delle figure del
discorso filmico, proponendosi come il «padre»
di tutti quei cineasti che concepiscono il film
come una struttura discorsiva complessa.
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Se dunque la posizione più radicale è quella di
Vertov, che avversa con ferocia la «cine-
nicotina» narcotica della fiction, e quella di
Ejzenstejn individua il compito del montaggio
nella creazione di nuove realtà concettuali
attraverso lo scontro di elementi antitetici,
Kulešov invece è a favore di un montaggio che
privilegi la chiarezza e l’impatto emozionale,
simile a quello che si va affermando a
Hollywood, configurando un terzo «polo» che
sarà poi perfezionato da Pudovkin.
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Nella sua scia si posizionano infatti due dei suoi allievi più
solerti del GVIK; uno è Abram Room, l’altro Vsevolod
Illarionovič Pudovkin, che esordiscono nella regia più o meno
contemporaneamente.
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Vsevolod Pudovkin, nato nel 1893, ha studiato chimica e fisica
all’Università di Mosca, ha fatto l’operaio in una fabbrica di armi
e a ventisette anni è andato a fare l’operatore di cinegiornale
per l’Armata Rossa. Si è quindi iscritto alla scuola di Kulešov,
recitando nei suoi film e facendo l’assistente. Il suo primo
lungometraggio, Mat’ (La madre) esce nel 1926.
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La Madre
La vicenda del film si svolge nel 1905 e racconta la storia di
una donna, Nilova, che per sbaglio provoca l’arresto del figlio
Pavel, un operaio rivoluzionario. Il giovane, proprio mentre la
madre inizia ad apprezzarne le idee, evade ma resta ucciso
durante uno sciopero, mentre marcia con una bandiera rossa.
Nilova, sconvolta dal dolore ma orgogliosa del figlio, raccoglie
la bandiera e si mette alla testa al corteo.
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La Madre
La trama, tratta da un romanzo di Gor’kij, è sostenuta da forti
metafore visive (un fiume in piena simboleggia la collera dei
rivoluzionari) e dal ritorno sulla scena dell’«eroe», sebbene
proletario anziché borghese. Pudovkin usa quindi il montaggio
in senso «narrativo», cercando si assorbire, come nei suoi film
successivi, il messaggio ideologico in una struttura descrittiva.
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Pudovkin
Anche Pudovkin è un fan del montaggio e in
esso individua lo «specifico filmico», ma,
rispetto a Ejzenstejn, i suoi principi di
«trascrizione» sono inversi. All’eroe
collettivo, incarnato da «masse» anonime,
operaie o contadine, preferisce l’attore che
simboleggia l’arroganza dell’ufficiale,
l’indifferenza del giudice, la sofferenza dei
poveri, in un percorso epico di solito
organizzato intorno al modello della «presa di
coscienza» da parte dei personaggi popolari.
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«Se prendiamo in considerazione il lavoro del regista, appare
chiaro che il materiale grezzo è rappresentato solo da spezzoni
di celluloide sui quali sono state fissate le singole parti
dell’azione, riprese da vari punti di vista. Solo da questi
spezzoni sullo schermo si crea l’immagine che forma la
rappresentazione filmica dell’azione ripresa. Di conseguenza, il
materiale del regista non è costituito da cose reali che
avvengono in uno spazio reale, ma da spezzoni di celluloide
sui quali questi processi sono stati registrati».
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«Durante il montaggio la celluloide è sottoposta interamente
alla volontà del regista. Nel comporre la realtà filmica questi
può eliminare tutti gli intervalli e così concentrare nella misura
richiesta l’azione del tempo». A differenza di Griffith e in
consonanza con i suoi compagni, il regista russo afferma che si
può ottenere un continuum filmico più efficace mostrando una
sequenza costruita solo da dettagli significativi. Dunque non
bisogna tanto concentrarsi nel dare continuità alla storia,
quanto nel comunicare nuovi significati.
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Pudovkin
Ma la considerazione del montaggio come un semplice
procedimento linguistico, ossia come il modo più efficace per
organizzare il discorso del film, consente a Pudovkin di
avvicinarsi di più al cinema commerciale e di incontrare meno
difficoltà nel ricondurre i temi affrontati dentro gli schemi lineari
dell’ortodossia politica.
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Room
Reduce da brevi film pubblicitari e a soggetto,
in cui il montaggio concitato e le inquadrature
oblique tradiscono influenze moderne, il 5
febbraio 1926 esordisce anche Abram
Matveevič Room, con il suo primo film targato
Goskino: Buchta smerti (La baia della morte),
in cui dimostra di saper miscelare in modo
credibile istanze politiche e gusto popolare
ricorrendo ai moduli narrativi tipici dei film
statunitensi di genere, filtrati in salsa russa.
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Room
Se La baia della morte, con
didascalie dello scrittore formalista
Viktor B. Šklovskij, è incentrato sulla
lotta fra i Rossi e i Bianchi durante
la guerra civile, il successivo
Predatel’ (Il traditore, 1926), ancora
sceneggiato da Šklovskij con Lev V.
Nikulin, è invece ambientato
durante il periodo zarista e tratta
della caccia a un infiltrato tra i
marinai rivoluzionari.
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Room
Anche Room è allievo di Kulešov,
ma non ha il sussiego di Pudovkin
e quindi nei suoi film appare più
evidente il carattere artigianale,
l’attenzione del maestro per i
«generi» popolari e il tentativo di
svolgere temi con risvolti politici
entro un cinema d’intrattenimento
di buona qualità.
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Trauberg & Kozincev
Il 9 dicembre 1924 esce a Pietrogrado anche Le avventure di
Ottobrina (Pochoždenija Oktobriny), di Leonid Trauberg e
Grigorij Kozincev, che firmeranno insieme molti dei loro film. È
un’«agit-commedia, caricatura eccentrica» la cui protagonista,
amministratrice di un edificio residenziale, grazie ai superpoteri
dell’elettricità sventa i piani dell’imperialismo internazionale che
vorrebbe lasciare al buio Pietrogrado e separarla dall’URSS.
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Trauberg & Kozincev
I due registi, ispirati al futurismo marinettiano, sono tra i padri
della FEKS (Fabrika Ekscentričeskogo Aktëra, Fabbrica
dell’attore eccentrico), punta di diamante dell’avanguardia
teatrale, che dal 1921 predica l’esagerazione degli artifici, degli
espedienti scenici e l’esasperazione drammaturgica tramite il
comico e il grottesco, la caricatura astratta.
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Trauberg & KozincevLa loro Ottobrina, (realizzato dalla
FEKS Film presso la fabbrica
Goskino di Leningrado) mira a
trasferire nel cinema i temi del loro
teatro, la «rinascita»,
l’elettrificazione e i suoi rapporti
con la società umana nonché
alcuni stilemi attoriali della
commedia dell’arte, del music-hall
e del circo, che assumono forme
estreme ma sono anche destinate
a sparire con rapidità.
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Il fatidico 1924 è testimone anche dell’avvio in grande stile
della produzione Mežrabpom, che ai grandi capolavori vuole
anche affiancare film di genere (polizieschi, sentimentali,
comici) ambiziosamente protesi verso il mercato estero e
piuttosto elastici nei confronto delle istanze propagandistiche.
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Si parte subito in quarta con un film di Protazanov, Aelita, una
storia fantascientifica post-moderna, uscita il 25 settembre
1924, che appare concepita per il mercato internazionale e
flirta con diversi generi, dal dramma psicologico borghese al
realismo proletario, con scenografie di stampo espressionista
che lasciano il segno nell’immaginario collettivo.
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Sembra quasi che Protazanov voglia sondare più stili per
trovare quello più adatto al nuovo mondo sovietico, sfociando,
alla fine del film, nella descrizione di una realtà un po’ grigia in
cui bisogna comportarsi bene, contribuire alla crescita
economica del Paese e rinunciare a tutti i vizi.
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Qua e là sembra di cogliere anche qualche zampata critica,
come la sequenza del «ballo segreto», cui si va nascondendo
abiti da sera sgargianti sotto vestiti da straccioni, che mette
sotto accusa il lassismo e l’ipocrisia borghesi, ma descrive
anche un paese dittatoriale dove le autorità vietano il ballo di
gala. In un altro momento, un personaggio che esalta in modo
grottesco l’obbligo di far recitare la gente comune sembra la
parodia dell’ossessione bolscevica per il teatro «popolare».
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Il film attira l’attenzione delle autorità sulla casa produttrice e il
15 ottobre 1924 si apre una querelle chiusa il 3 dicembre da
una riunione del Comitato centrale del Partito comunista che
ne vieta l’uscita di Aelita all’estero. Per non sbagliare, in
novembre la GPU ha intanto chiesto di intensificare la vigilanza
sulle attività della ditta, di mettere sotto controllo il personale e
di inserire membri del Partito all’interno dell’organizzazione.
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Alla fine del 1924 esce di scena anche il Goskino, ormai
esautorato; il 1° gennaio del 1925 il monopolio della
distribuzione viene assunto dal Sovkino (Sovetskoe kino), un
nuovo ente statale organizzato come una società per azioni
che riunisce i Commissariati per l’Istruzione e per il
Commercio, i Soviet di Mosca e Leningrado, il Consiglio
supremo dell’economia. Al nuovo organismo vengono perfino
assegnati un po’ di fondi per dare un impulso alla promozione
della salute produttiva e all’«allineamento» politico del cinema.
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Cinema e NEP
Siamo tuttavia ancora dentro la cornice
«emergenziale» che ha consigliato a
Lunačarskij la sua terapia ricostituente
che, del resto, sembra funzionare.
L’«apertura» commerciale, alzando i
fatturati, ha consentito di rimettere in
piedi gli studi, di iniziare a produrre
nuovi film, peraltro di buon livello, di
continuare a girare cinegiornali e opere
di propaganda utili a mobilitare le masse
nelle attività del nuovo Stato sovietico.
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In questo passaggio epocale sono presenti perciò molti
segnali positivi per la ripresa dell’industria cinematografica
sovietica: la presenza di energie intellettuali vivaci e
moderne non ancora mortificate dalla burocrazia, la vitalità
della macchina produttiva molto promettente per quanto
ancora gracile, il persistere di spazi di libertà che
consentono interessanti sperimentazioni stilistiche e uno
stimolante confronto con la cinematografia internazionale.
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Ma il 1924 è anche l’anno della morte di Lenin. La sua fiducia
nel ruolo del cinema nell’educazione del popolo resta nell’aria,
ma s’insinuano qua e là spifferi preoccupanti. Si infittiscono un
po’ le maglie del controllo burocratico, aumenta la diffidenza
degli apparatčiki verso le forme espressive troppo elaborate e
l’insofferenza per la produzione straniera, ideologicamente
pericolosa. Critiche e lamentele iniziano a serpeggiare.
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Le Izvestija, ad esempio, prende di mira l’Aelita di Protazanov:
«La montagna ha partorito un topolino, ossia molto rumore per
nulla. Un anno di lavoro, notevoli spese per la messa in scena
e la pubblicità, la migliore organizzazione tecnica, un noto
regista, attori interessanti, un celebre romanzo, un volo in un
altro mondo, la rivoluzione su Marte, la Russia sovietica nel
1921... e il risultato: uno sciocco sogno di borghesuccio. Il fiero
volo è finito con una bolla di sapone». Il film, privo «d’uno
scopo ideologico e artistico», è solo un compromesso che imita
un genere in voga nell’Europa occidentale.